LUX.5 FOSCARINI
TRASPARENZA_TRANSPARENCY
EDITORIALE
TRASPARENZA LA TRASPARENZA, IDEALE E REALE, COSTITUISCE UNO DEI TEMI IMPORTANTI DEL PROGETTO CONTEMPORANEO. UN’ISPIRAZIONE CHE SI LEGA ALL’ESIGENZA DI MOSTRARE IL CONTENUTO E L’ANIMA DEGLI OGGETTI FORNENDONE UNA QUALCHE INTELLEGGIBILITÀ OPPURE SEMPLICEMENTE DI LAVORARE SULLA RIDUZIONE DEL SEGNO MATERICO E VISIVO. ESISTONO, NELLA STORIA E NEL PRESENTE, PRODOTTI INDUSTRIALI CHE SU TALE CARATTERE HANNO FONDATO RICONOSCIBILITÀ E FORTUNA, DIVENENDO ICONE DEL DESIGN CONTEMPORANEO; SI TRATTI DI UN LAVORO CONDOTTO FORZANDO LA SEMANTICITÀ DI MATERIALI DA SEMPRE SINONIMO DELLA TRASPARENZA, COME IL VETRO, OPPURE DI MATERIE NUOVE, COME LA PLASTICA, ESIBITE PER MOSTRARNE PER INTERO LE POTENZIALITÀ TATTILI-VISIVE. È IL CASO DELLE ARCHITETTURE PNEUMATICHE CHE CONOBBERO IMPORTANTE SVILUPPO NEL CORSO DEGLI ANNI SESSANTA, CON RICADUTE NEGLI OGGETTI D’ARREDO E NON SOLO, SECONDO UN FILONE ANCOR OGGI VITALE VOLTO A ESPLICITARE, FRA L’ALTRO, UN APPROCCIO FRIENDLY, POCO CONVENZIONALE ALL’ABITARE. ALLO STESSO MODO ESERCITARSI SULLE OPPORTUNITÀ/AMBIGUITÀ PERCETTIVE E FRUITIVE DELLA TRASPARENZA COSTITUISCE TERRENO PRIVILEGIATO DEL PROGETTO DELL’ABBIGLIAMENTO, SPESSO ARMA SOTTILE (ALMENO NELLE INTENZIONI MIGLIORI) DELLA SEDUZIONE. MA NATURALMENTE LUNGO L’INTERO SVILUPPO DELLA STORIA DELLE ARTI VISIVE SONO STATE ASSAI NUMEROSE LE RICERCHE E LE SPERIMENTAZIONI GIOCATE ATTORNO AL TEMA, AD ESEMPIO VOLTE A MOSTRARE UNA PARTE PER IL TUTTO, A FAR INTRAVEDERE, IMMAGINARE, SOGNARE OPPURE CONFONDERE. FAR TRASPARENTE NEI PROCESSI TECNOLOGICI, NEI MATERIALI, NELL’IMMAGINE COMPLESSIVA DEGLI ARTEFATTI DUNQUE PER ESIBIRE UN AGIRE MINIMO, ESSENZIALE, LEGGERO E PULITO; MA ANCHE RISPOSTA CULTURALE ALL’ECCESSO, ALL’INQUINAMENTO, AL TROPPO FISICO-SEMANTICO – NON SEMPRE CON SCOPO – DEL PRESENTE.
EDITORIAL
TRANSPARENCY TRANSPARENCY, REAL AND IDEAL, CONSTITUTES A PRIMARY ISSUE IN CONTEMPORARY DESIGN. AN INSPIRATION THAT DERIVES FROM THE NEED TO REVEAL THE CONTENT AND THE SPIRIT OF OBJECTS, TO PROVIDE A MEASURE OF UNDERSTANDING, OR SIMPLY TO WORK ON REDUCING MATERIAL AND VISUAL IMPACT. HISTORICALLY AND IN THE PRESENT DAY, THERE ARE MANY INDUSTRIAL PRODUCTS THAT HAVE FOUNDED THEIR RECOGNITION AND GOOD FORTUNE ON THIS QUALITY, BECOMING ICONS OF CONTEMPORARY DESIGN; WHETHER THEY INVOLVE EXPERIMENTATION TO FORCE THE SEMANTIC NATURE OF MATERIALS THAT HAVE ALWAYS BEEN SYNONYMOUS WITH TRANSPARENCY, SUCH AS GLASS, OR EXPLORE NEW MATERIALS, SUCH AS PLASTIC, EXHIBITED TO PROVIDE A FULL DEMONSTRATION OF THEIR TACTILE AND VISUAL POTENTIAL. THIS IS THE CASE WITH THE PNEUMATIC ARCHITECTURE THAT WAS BROUGHT TO AN ADVANCED STATE OF DEVELOPMENT THROUGHOUT THE SIXTIES, STRONGLY INFLUENCING FURNITURE AND OTHER FIELDS – A TREND THAT CONTINUES TO BE VITAL, PORTRAYING, AMONG OTHER THINGS, A FRIENDLY AND UNCONVENTIONAL APPROACH TO LIVING. IN THE SAME WAY, THE EXPLORATION OF OPPORTUNITIES/AMBIGUITIES IN THE PERCEPTION AND USE OF TRANSPARENCY CONSTITUTES A PRIVILEGED TERRAIN FOR FASHION DESIGN, A SUBTLE WEAPON (WITH THE BEST OF INTENTIONS) FOR SEDUCTION. BUT NATURALLY THROUGHOUT THE HISTORY OF THE VISUAL ARTS THERE HAS BEEN A GREAT DEAL OF RESEARCH AND EXPERIMENTATION ON THIS THEME, IN THE QUEST, FOR EXAMPLE, TO DISPLAY ONE PART FOR THE WHOLE, OR TO PEEK, TO IMAGINE, TO DREAM OR CREATE CONFUSION. TO USE TRANSPARENCY IN TECHNOLOGICAL PROCESSES, IN MATERIALS, IN THE OVERALL IMAGE OF ARTIFACTS IS TO ADOPT A MINIMAL, ESSENTIAL, LIGHTWEIGHT AND CLEAN APPROACH; BUT IT ALSO CONSTITUTES A CULTURAL RESPONSE TO EXCESS, TO POLLUTION, TO THE PHYSICAL AND SEMANTIC – OFTEN POINTLESS – OVERABUNDANCE OF THE PRESENT.
CONTENTS
EDITORIALE EDITORIAL
001 TRASPARENZA TRANSPARENCY DESIGN
004 VEDERE DENTRO LE COSE LOOKING INSIDE THINGS 012 CABOCHE 016 TRASPARENZA, TRAVESTIMENTO, SEDUZIONE, SIMULAZIONE TRANSPARENCY, DRESSING UP, SEDUCTION, SIMULATION 028 ALLE ORIGINI DEL DESIGN DEL VETRO: WILHELM WAGENFELD AT THE ROOTS OF GLASS DESIGN: WILHELM WAGENFELD 040 LENIN IDEE, MATERIALI E TECNOLOGIE IDEAS, MATERIALS AND TECHNOLOGY
044 VEDO O NON VEDO QUESTO IL DILEMMA TO SEE OR NOT TO SEE, THAT IS THE QUESTION… ARCHITETTURA ARCHITECTURE
056 STRUTTURE PNEUMATICHE INFLATABLE STRUCTURES FICTION CHOREOGRAPHY
070 OMBRE CINESI. MASSIMO GARDONE INTERPRETA N+N CORSINO SHADOW PLAY. MASSIMO GARDONE INTERPRETS N+N CORSINO DESIGN&DESIGNER
076 ENRICO FRANZOLINI E LA LAMPADA BIG BANG ENRICO FRANZOLINI AND THE BIG BANG LAMP 088 HALOSCOPE FOTOGRAFIA PHOTOGRAPHY
094 MIRO ZAGNOLI. SOVRAESPOSIZIONI
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DESIGN
VEDERE DENTRO L
LOOKING INSIDE THINGS English text p. 11
E COSE
PENNE A SFERA, BIC BIC BALLPOINT PENS
DESIGN
DESIGN
IMAC, JONATHAN IVE AND APPLE DESIGN TEAM, APPLE, 1998
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VEDERE DENTRO LE COSE di Alberto Bassi
Trasparenza per vedere attraverso, trasparenza per vedere dentro. Alla prima categoria appartengono oggetti che da sempre sono stati realizzati con materiali naturali, come ad esempio il vetro. Fatto salvo poi che umana attitudine e creatività hanno spinto a sovrapporvi decori, incisioni e colori: da una parte lindore, purezza primigenia della materia messa a disposizione per generare forme congrue e rispettose, dall’altra volontà di lanciare segni, segnali, disturbi fino al fraintendimento materico-semantico. Con la modernità sono poi venuti i materiali artificiali trasparenti, i polimeri innanzitutto e poi i compositi vari e eventuali. Tutti consentono, anche, di vedere quello che c’è dall’altra parte, attraverso appunto. Ma talvolta un materiale trasparente riveste la funzione “ideologica” di permettere il palesarsi del contenuto (e del senso) delle cose; di consentire la lettura di un meccanismo funzionale, di un’invenzione. Archetipo certo in questo senso è la lampadina a incandescenza: il vetro disvela, anzi enfatizza, la tecnologia; forma-funzione configurano un unicum. La rivoluzionaria tecnologia per la scrittura inventata da Lazlo Biro ha raggiunto perfetta e originale configurazione comunicativa con il trasparente metacrilico cilindro della Bic del 1953. Nelle scatole bruno-nero-grigie (talvolta bianche) delle tecnologie elettrodomestiche nessuno sa mai bene cosa c’è dentro. Al principio degli anni sessanta (ed era il tempo delle architetture
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SWATCH, SWITZERLAND, 1990
ANDANTE, RADIO FM/AM, DANIEL WEIL, 1984/85
008 DESIGN
gonfiabili e della poltrona Blow) Richard Sapper e Marco Zanuso immaginarono (senza arrivare alla produzione) il loro portatile Brionvega anche con una scocca trasparente; con analogo intento Jonathan Ive con l’iMac ha costruito un’icona della contemporaneità e dell’accessibilità fisicosensoriale-culturale dell’informatica. Da allora innumerevoli oggetti sono stati costruiti, più o meno congruamente, per mostrare le loro interiora, per dichiarare se stessi attraverso la pubblica esposizione del loro contenuto, dei meccanismi del proprio farsi ed essere. Dalla radio di Daniel Weil del 1984/85, che avvolge transistor e colorati cavi elettrici dentro buste di plastica, agli orologi trasparenti Swatch dove la rivoluzionaria riduzione della componentistica, che ne ha reso possibile la produttività a basso costo e alfine il successo commerciale, trova enfatica celebrazione. I versatili e ingegnosi giapponesi di Honda Research and Design Center di Wako, ad esempio, hanno progettato Unibox, una concept car, presentata al Motor Show di Tokio del 2001, proposta con rivestimento in policarbonato trasparente per valorizzare le soluzioni relative agli spazi interni. “Multi life terminal”, l’hanno etichettata, “that puts more fun in your life and gives more freedom to communicate”; e ancora “an architectural box on wheels look”. La configurazione a scatola è realizzata con una struttura space-frame in alluminio, che semplicemente avvitando dei pannelli potrà essere ricoperta con qualsiasi materiale e colore. Le informazioni per il conducente sono visualizzate da un monitor centrale, utilizzabile anche come sistema multimedia, che riceve i dati trasmessi da radar e telecamere collocati nell’auto allo scopo di misurare le distanze da altre vetture e prevenire collisioni, così come sono previsti anche airbag esterni per la protezione dei pedoni. Naturale immaginare allora che tutto ciò corrisponda alle necessità del fare progettuale ma di certo abbia anche relazione con l’esigenza di fornire una qualche “intelligenza” delle cose. Forse, vien da pensare, del presente.
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UNIBOX, HONDA RESEARCH AND DESIGN CENTER, PROTOTIPO, PROTOTYPE, 2001
010 DESIGN
LOOKING INSIDE THINGS by Alberto Bassi Transparency to look through, transparency to look inside. The first case describes objects that have always been made with natural materials, such as glass for example. Save for the fact that under the impulse of human attitude and creativity it was adorned with decorations, engravings and colors: on the one hand clarity, the primal purity of the material from which to generate congruous and respectful forms, on the other the will to send out signs, signals and noise culminating in a material and semantic confusion. The Modern Age then brought artificial transparent materials, first the polymers and later the various types of composites. All of which allow one to see what’s on the other side, to look through. But sometimes a transparent material acquires the “ideological” function of allowing the content (and the meaning) of things to manifest themselves; to support the understanding of a functional mechanism, an invention. An archetype in this sense is the incandescent bulb: the glass reveals, even emphasizes, the technology; form and function constitute a whole. The revolutionary writing technology invented by Lazlo Biro achieved the perfect and original communicative configuration in the transparent metacrylate cylinder of the Bic pen in 1953. In the brown-black-grey (and sometimes white) boxes preferred by appliance technology one never really knows what’s inside. At the beginning of the Sixties (this was the era of inflatable architecture and the Blow chair) Richard Sapper and Marco Zanuso imagined (without ever taking it into production) their portable Brionvega with a transparent shell; a similar intent led Jonathan Ive to create the iMac as an icon of the contemporary and the physical-sensorial-cultural accessibility of computer science. Since then many objects have been built, with greater or lesser congruity, to show their insides, to declare themselves through the public exposure of their content, of the mechanisms that allow them to do and to be. From Daniel Weil’s 1984/85 radio that encloses transistors and colorful electric wiring in plastic bags, to the transparent Swatches where the revolutionary miniaturization of the components that made it possible to produce them at low cost thus ensuring their commercial success, finds emphatic celebration. The versatile and ingenious Japanese at the Honda Research and Design Center in Wako, for example, designed Unibox, a concept car presented at the Motor Show in Tokyo in 2001, with paneling in transparent polycarbonate to highlight the solutions for the interior spaces. “Multi life terminal”, they labeled it, “that puts more fun in your life and gives more freedom to communicate”; and again “an ‘architectural box on wheels’ look”. The box configuration is given by a structural aluminum space-frame, that can be covered in any material and color simply by screwing on panels. The information for the driver is visualized on a central monitor that can also be used as a multimedia system, receiving data broadcast by a radar and by video-cameras located inside the car to measure the distance from other cars and to prevent collisions; it also includes external airbags for the protection of pedestrians. It is only natural to imagine that all this satisfies the need to design but it also corresponds to a need to provide an “intelligence” about things. Perhaps, one might think, about the present.
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DESIGN
CABOCHE
PATRICIA URQUIOLA + ELIANA GEROTTO
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DESIGN
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DESIGN
TRASPARENZA, TR SEDUZIONE, SIMU
DESIGN
TRANSPARENCY, DRESSING UP, SEDUCTION, SIMULATION English text p. 22
AVESTIMENTO LAZIONE
DESIGN
I TRASFORMABILI, THE TRANSFORMABLES, MORENO FERRARI, CP COMPANY, 2001
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TRASPARENZA, TRAVESTIMENTO, SEDUZIONE, SIMULAZIONE di Cristina Morozzi
1930, una data critica per la storia della seduzione. È l’anno dell’invenzione del nylon, fibra tessile poliammide trasparente, la prima interamente sintetica. Da quel fatidico giorno, o meglio poco più tardi, le donne iniziano a indossare le calze velate. Sono le calze di nylon, sognate e agognate, che sanciscono il passaggio dall’innocente fanciullezza, calzata con robusti calzettoni, o calzini di lana o filo di scozia, all’adolescenza. Sono le calze di nylon che trasformano le bambine in signorine, introducendole alle prime civetterie, come quella di mantenere la riga ben dritta per slanciare le gambe. La protagonista del film Ultimo metrò di François Truffaut, interpretata da un’inquietante Catherine Deneuve, poiché in tempo di guerra le calze di nylon erano merce rara, si dipingeva la riga sulle gambe nude con la matita marrone, esponendosi ai rigori invernali, pur di simulare l’ineguagliabile seduzione delle calze di nylon con la riga. L’avventura della trasparenza nella moda si potrebbe far risalire a quella mitica invenzione. Si comincia dalle gambe e si sale verso il seno, offrendo il corpo, reso più seducente dalla velatura, che opacizza e unifica l’incarnato, al pari del velo di cipria sul volto, a sguardi indiscreti e cupidi. Coco Chanel, cui il Metropolitan Museum di New York ha recentemente dedicato una sontuosa retrospettiva, abile nel coniugare praticità, eleganza e seduzione, non ha lesinato, nel corso della sua lunga carriera, le trasparenze di voile e chiffon nero e color carne, incrostandoli, nei punti critici, di macramè, paillettes e pizzi. Yves Saint Laurent, cui si devono alcune delle invenzioni basilari della moda, dall’abito trapezio al sacco, alla sahariana, allo smoking da donna, agli inizi degli anni settanta proponeva severe camicette di taglio maschile, completamente trasparenti. Il seno era ombreggiato da tasche a toppa, che offrivano un vedo e non vedo, molto più malizioso della pura nudità.
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MANTELLA-TENDA, TENT-CAPE, MORENO FERRARI, CP COMPANY, 2000
ABITO IN PERLE DI VETRO SOFFIATO, GLASS BEAD DRESS, MARINA E SUSANNA SENT, VENEZIA, 2004
020 DESIGN
Jean Paul Gaultier ha introdotto alla fine degli anni ottanta abiti e magliette in tulle elastico fantasia (dalle lettere arabe, alle immagini di Shiva e Ganesh, alle bambole giapponesi…) aderenti come un guanto, simili a una seconda pelle tatuata, regalando alla trasparenza una valenza decorativa. Quei suoi veli illustrati, ogni stagione nuovi e diversi, ripropongono la pratica ancestrale della pittura corporea, restituendo ai corpi sbiancati e mortificati dalle vesti, il crudele splendore delle nudità primitive tatuate e trafitte. Il grande fotografo Irving Penn rendeva seducenti e misteriose le dame della buona società americana, smorzando le nobili asperità dei loro tratti con un velo di plumetis (tulle a pois), nobilitando l’accorgimento dei ritrattisti di dive attempate che velano l’obiettivo con la calza di nylon. Banale trucco che la dice lunga sul “potere estetico” della trasparenza. Dolce e Gabbana hanno trasformato le sottovesti nere delle vedove di mafia in armi di seduzione mediterranea, enfatizzando la loro opaca trasparenza. Nanni Strada con il suo rivoluzionario progetto Il manto e la pelle (assieme a Clino Trini Castelli), premiato con il Compasso d’oro nel 1979, vestiva il corpo con un tubolare di nylon colorato. Eliminati tagli e cuciture, ne bastava una sola, arricciata, per sagomare una seconda pelle aderente, che stava chiusa in un pugno, semitrasparente e sexy come gli abiti guaina di Marylin Monroe, applicando alla confezione degli abiti la tecnologia della calzetteria. Usa la trasparenza (mantella maschile) nel suo processo di smaterializzazione ed efebizzazione anche lo stilista belga Raf Simons, alfiere del minimalismo, appena chiamato da Patrizio Bertelli (Prada) a rilanciare l’appannata griffe Jil Sander. Stilista/artista, autore con Francesco Bonami della provocatoria mostra Il quarto sesso – territorio estremo dell’adolescenza (Firenze, Stazione Leopolda, Produzione Pittimmagine, 2003), Simons interpreta la trasparenza nella sua duplice, equivoca anima, sottolineandone innocenza e perversione. La moda gioca con le trasparenze anche quando non è più solo moda, ma corredo abitativo di quell’uomo nuovo al quale pensava Moreno Ferrari quando ha elaborato i suoi trasformabili in nylon resinato, in crystal wind e in poliuretano per CP Company. Come la mantella impermeabile che diventa tenda, o come quella che può volare come un aquilone; come il caban che, all’occorrenza, può essere un soffice materassino, o il giaccone che si sviluppa in poltrona e il gilet che diventa cuscino. “I trasformabili inaugurano una nuova tipologia d’accessori per la vita metropolitana: non solo abiti, e non solo rifugi o arredi, ma oggetti ibridi polifunzionali, estensioni spaziali del corpo umano, protesi che potenziano le capacità di sopravvivenza dell’uomo, attrezzandolo per la nuova condizione di nomade solitario, senza tribù e senza greggi. Non solo abiti, ma attrezzi esistenziali per i viaggi senza mete dei vagabondi della rete, rifugi per i senza fissa dimora, spazi di decompressione, oasi temporanee per incontri sentimentali” (Cristina Morozzi, Carlo Rivetti CP Company Stone Island, Stradust, Milano 2001). I trasformabili sono trasparenti per essere più leggeri, più essenziali, più inconsistenti. Per essere minimali, quasi inapparenti, ma funzionali, anzi polifunzionali. Trasparenti per essere progetto puro, senza segreti, senza dettagli nascosti, senza dritto e rovescio. Prada qualche stagione fa ha “riscritto” l’impermeabile di nylon trasparente dei vu cumprà, quello che compare tra le loro contraffazioni quando arriva un acquazzone improvviso. L’ha bordato di nero e l’ha marchiato, rendendolo desiderabile. Questa particolare trasparenza appartiene a una redazione dello stile Prada, che al pari “di quei frenetici, geniali, ideologi sovversivi, come Kandinskij e Mondrian, lavora per retrogradazioni, inversioni, trasposizioni e ancora atonalità e dissonanze. Che sperimenta gerarchie mai osate prima, che azzera altre in un linguaggio stilistico dentro il quale termini come forma, colore, proporzione, disegno, volume, ora non sono più niente, non valgono più niente al vecchio cambio, e vengono adesso rivalutati con nuove convenzioni riidentificate a una a una, rinominate come appena venute fuori dal caos, neo-nate, con
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DESIGN
l’azzeramento di qualsiasi preconcetto stilistico, di abilità, abitudine e prassi: esattamente come Schonberg e gli altri” (Quirino Conti, Mai il mondo saprà. Conversazioni sulla moda, Feltrinelli, Milano 2005). La trasparenza, del resto, accentua il dare senso al corpo del vestito, dato che l’abito come sostiene Roland Barthes (Il sistema della moda, Einaudi, Torino 1970) non nasconde, né mostra, ma allude e valorizza; non esibisce, ma semantizza. “È la moda – sostiene Eleonora Fiorani – che rivestendo il corpo, lo crea nella sua naturalità cui lo sottrae e quindi lo traveste” (Abitare il corpo. La moda, Lupetti, Milano 2005). La trasparenza, nel suo accennare e svelare la naturalità del corpo, rende ancor più efficace il travestimento. Infine la trasparenza si sostituisce alla lucenza e diventa preziosa nei gioielli di cristallo di rocca legati con il filo d’oro di Giancarlo Montebello e nelle bolle di vetro con le quali Marina e Susanna Sent creano volatili ornamenti e persino abiti. Sculture, quasi “inesistenti” che non si vestono, che non travestono, ma simulano il corpo per dare consistenza anche alla trasparenza. Poiché abbiamo iniziato questo excursus sulla trasparenza con le calze di nylon, lo chiudiamo con un abito dell’estate 2005 fatto di calze di nylon color carne trasparenti. Lo firma con la sua etichetta bianca, senza nome, “poiché non c’è niente da aggiungere che l’abito non dica” (Cristina Morozzi, Oggetti Risorti, Costa&Nolan, Genova, 1998), Martin Margiela, lo stilista belga proveniente dalla mitica scuola di Anversa, noto per la sua moda di recupero. L’abito di calze, di grande eleganza, nonostante sia di riciclo, esprime compiutamente la poetica di questo stilista anomalo, la cui moda, collezione dopo collezione, appare come un compiuto percorso attraverso l’arte concettuale: il ready-made, il non finito, l’accumulo e la catalogazione del nouveau realisme. I suoi capi/performance che esibiscono ciò che si nasconde (orli, cuciture e cimose) che mettono il dentro/fuori (fodere) e il sotto/sopra (sottovesti, reggiseni, calze), mettendo a nudo, come in un architettura decostruttivista, gli elementi costitutivi dell’abito, generalmente mimetizzati, portano nel sistema del perpetuo inganno le verità che si sanno e che nessuno ha il coraggio di denunziare: e cioè che gli stilisti si ripetono, che gli abiti nuovi non sono altro che vecchi modelli ritrovati… Così facendo rende la moda, avezza a simulare, trasparente.
TRANSPARENCY, DRESSING UP, SEDUCTION, SIMULATION by Cristina Morozzi 1930, a critical date in the history of seduction. That is the year they invented nylon, a transparent polyamide textile fabric, the first entirely synthetic fiber. From that fatidical date, or perhaps just shortly thereafter, women began to wear transparent stockings. Nylon stockings, that women dreamed of and yearned for, that marked the passage from childhood innocence, thick socks and woolly knee-highs, to adolescence. The nylon stockings that transformed girls into young ladies, teaching them their first tricks, like making sure the seam was straight to make their legs look longer and leaner. The protagonist of the film The last metro by François Truffaut, set during the war when nylon stockings were impossible to find, was interpreted by an unsettling Catherine Deneuve: she drew the line of the seam onto her naked legs with a brown eye-pencil, suffering the winter cold in order to simulate the unequaled seduction of nylon stockings with the seam. The destiny of transparency in fashion can be traced back to that legendary invention. It starts with the legs and rises towards the breasts, presenting the entire body, made more seductive by veils that blur and smooth the skin like a film of face powder, to the gaze of indiscreet and yearning eyes. Coco Chanel, to whom the Metropolitan Museum of New York recently dedicated a sumptuous retrospective, was clever at combining practicality, elegance and seduction; throughout her lengthy career she was never sparing with the
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INFLATABLE SKIRT, KARL LAGERFELD, 1992/93
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transparencies of black or flesh-colored voile and chiffon, applying macramé, sequins and lace in critical spots. In the early Seventies Yves Saint Laurent, to whom credit must be given for some of the basic inventions of fashion, from the A-line dress, the tent dress, the safari jacket, to tuxedos for women, showed man-tailored shirts that were completely transparent. The breasts were shaded by appliquéd pockets, whose peek-a-boo look was more malicious than actual nudity might have been. At the end of the Eighties Jean Paul Gaultier introduced dresses and shirts in elastic tulle printed with Arab lettering, images of Shiva and Ganesh, or Japanese dolls, that were as tight as a glove, more like a second skin with tattoos, adding new decorative value to transparency. His illustrated veils, new and different season after season, represent the ancestral practice of body painting, restoring the cruel splendor of primitive pierced and tattooed nudity to pale bodies mortified by their clothing. The great photographer Irving Penn lent seduction and mystery to the ladies of American high society by softening the noble asperity of their features with a veil of plumetis (dotted tulle), a noble version of the trick used by the portraitists of aged divas, who covered the camera lens with a nylon stocking. A banal trick that speaks volumes about the “esthetic power” of transparency. Dolce e Gabbana have transformed the black slips worn by mafia widows into weapons of Mediterranean seduction, emphasizing their opaque transparency. Nanni Strada won a Compasso d’Oro in 1979 with her revolutionary project Il manto e la pelle (designed with Clino Trini Castelli), which sheathed the body in a tube of colored nylon. Eliminating cuts and seams, it only took one, ruffled up, to create a tight second skin that could fit into a fist, semitransparent and as sexy as the tight sheaths worn by Marylin Monroe, applying the technology of hosiery to the tailoring of dresses. Transparency (male cloak) is also used in the process of dematerialization and ephebization by Belgian fashion designer Raf Simons, the champion of minimalism, who has just been hired by Patrizio Bertelli (Prada) to revive the faded glory of the Jil Sander brand. A fashion designer/artist, who with Francesco Bonami coauthored the provocative exhibit entitled The Fourth sense – the extreme territory of adolescence (Florence, Stazione Leopolda, Produzione Pittimmagine 2003) Simons interprets transparency in its twin, ambiguous spirit, underlining both its innocence and its perversion. Fashion plays with transparency even when it transcends fashion to become living equipment for the new man conceived by Moreno Ferrari when he developed his transformables in resin-coated nylon, crystal wind and polyurethane for CP Company. Like the waterproof cloak that becomes a tent, or the one that flies like a kite; like the caban that become a soft mattress when needed, the jacket that can develop into an armchair or the vest that can become a pillow. “The transformables inaugurate a new typology of accessory for metropolitan life: not just clothes and not just shelters or furniture, but multipurpose hybrid objects, spatial extensions of the human body, prostheses that reinforce man’s ability to survive, equipping him for his new condition as a solitary nomad, with no tribe and no flock. Not just clothing, but existential tools for the aimless travels of web navigators, shelters for the homeless, spaces for decompression, temporary oases for sentimental encounters” (Cristina Morozzi, Carlo Rivetti CP Company Stone Island, Stardust, Milan 2001). The transformables are transparent to be lighter, more essential, less consistent. To be minimal, almost unappearing, but functional, even multipurpose. Transparent to become pure design, with no secrets, no hidden details, no inside-out. Several seasons ago, Prada “redrew” the transparent nylon raincoats of street vendors, the ones they put out for sale with the rest of their imitations when a sudden thunderstorm hits. This particular transparency belongs to an edition of the Prada style which, like “the frenetic, brilliant, subversive ideologists such as Kandinsky and Mondrian, works by moving backwards, by inversion, transposition, atonality and dissonance. Experimenting
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SILHOUETTE HOUSSE, MARTIN MARGIELA, 1990 (ARCHIVIO MARTIN MARGIELA)
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DESIGN
hierarchies that have never been attempted, canceling others in a stylistic language in which terms such as form, color, proportion, design and volume no longer mean anything, are worth nothing at the old exchange rate, are now reconsidered as new conventions that must be re-identified one by one, relabeled as something that has just emerged from chaos, is newborn, where every prejudice regarding style, skill, habit and practice is eradicated: just like Schoenberg and the others” (Quirino Conti, Mai il mondo saprà. Conversazioni sulla moda, Feltrinelli, Milan 2005). Transparency, on the other hand, accentuates the meaning that clothing gives to the body, given that clothing, as Roland Barthes sustains (Il sistema della moda, Einaudi, Turin 1970) neither hides, nor shows, but alludes and emphasizes; it does not exhibit, it semanticizes. “By dressing the body, sustains Eleonora Fiorani, fashion recreates it with the natural quality it subtracts from it, and thus disguises it” (Abitare il corpo. La moda, Lupetti, Milan 2005). Transparency hints at and reveals the natural quality of the body, thus making the disguise all the more effective. Finally transparency replaces brilliance and becomes precious in the rock crystal jewels tied with gold thread by Giancarlo Montebello and in the blown glass bubbles with which Marina and Susanna Sent create airy ornaments and even dresses. Sculptures that are almost “non-existent” because they do not dress, do not disguise, but simulate the body to give consistency even to transparency. Because we began this excursus on transparency with nylon stockings, we will end it with a dress created for the summer of 2005 and made of flesh-colored transparent nylon stockings. It is signed with a white nameless label “because there is nothing to add that the dress does not already say” (Cristina Morozzi, Oggetti Risorti, Costa&Nolan, Genova, 1998) by Martin Margiela, the Belgian fashion designer from the legendary school at Antwerp, known for his recycled fashion. The dress made of stockings, which is very elegant despite the use of recycled materials, fully expresses the poetics of this anomalous fashion designer, whose fashion, collection after collection, appears as a journey through conceptual art: the ready-made, the unfinished, the accumulation and the cataloguing of nouveau realisme, his performance/clothing that exhibits what is usually hidden (seams, stitching and selvage) that puts the inside/outside (lining) and the below/above (slips, bras, stockings) revealing, as if it were deconstructed architecture, the constituent elements of clothing that are usually hidden, and bring to a system of perpetual deception the truths that are well known and that no one has the courage to denounce: that fashion designers repeat themselves, that new clothing is none other than a representation of past styles … By doing so, he makes fashion, which is accustomed to simulation, transparent. Cristina Morozzi Opera come giornalista, critica e art director, muovendosi soprattutto negli ambiti di confine tra arte, moda e design. Autrice di vari volumi e cataloghi di esposizioni, ha diretto dal 1987 al 1996 la rivista “Modo” e collabora a numerose riviste di settore, italiane e straniere, tra cui “Interni, “The Plan” e “Intramuros”. All’attività di ideazione e cura di mostre, in particolare per Pitti Immagine a Firenze, affianca le consulenze per aziende di moda e di design. È docente alla Domus Academy di Milano e all’Ecole Cantonale d’art de Lausanne. She is a journalist, critic and art director, working along the boundaries between art, fashion and design. Author of several books and exhibition catalogs, she directed “Modo” magazine between 1987 and 1996 and has collaborated with many Italian and foreign magazines in the field, including “Interni”, “The Plan” and “Intramuros”. In addition to her work conceiving and curating exhibitions, especially for Pitti Immagine in Florence, she is involved in consulting work for the fashion and design industries. She teaches at the Domus Academy in Milan and at the Ecole Cantonale d’art de Lausanne.
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RETE IN FILI DI CARTA WOVEN PAPER STRANDS
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DESIGN
ALLE ORIGINI DEL VETRO: WILHELM
DESIGN
AT THE ROOTS OF GLASS DESIGN: WILHELM WAGENFELD English text p. 36
DESIGN DEL WAGENFELD
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ALLE ORIGINI DEL DESIGN DEL VETRO: WILHELM WAGENFELD di Ali Filippini
Wilhelm Wagenfeld è conosciuto soprattutto per la lampada da tavolo in acciaio e vetro, icona del design modernista, sviluppata durante i suoi corsi al Bauhaus; ma la sua figura merita attenzione anche perché, fra l’altro, ha disegnato vari oggetti in vetro per la casa, autentici archetipi che hanno configurato in modo esemplare il passaggio da una dimensione produttiva artigianale a una pienamente industriale. Nato nel 1900 ha attraversato il secolo passato quasi nella sua interezza e i suoi oggetti più famosi continuano a venire prodotti e venduti, segno della loro resistenza al tempo e alle mode. Ammesso al corso propedeutico del Bauhaus nel primo periodo della scuola in quel di Weimar, Wagenfeld frequenta il laboratorio dei metalli dal 1923 al 1925 sotto la guida di Moholy-Nagy, dopo l’uscita di scena di Itten che ne era stato primo responsabile. Moholy-Nagy cambia assetto al laboratorio stesso, introducendo oltre a nuove esercitazioni anche la lavorazione del vetro e la sperimentazione legata al progetto delle lampade; è da questo retroterra che nasce il primo degli oggetti legati al nome del designer, ovvero la lampada a calotta di vetro che occhieggia in tutte le foto di interni Bauhaus dal 1924, data della sua creazione. Lampada sognata prima che disegnata, visto che è Wagenfeld stesso (questioni attributive legate al suo coautore Jucker a parte…) a riportare l’aneddoto per cui questa gli sarebbe “apparsa” in sogno durante un momento di riposo seguito ai primi approcci al tavolo da disegno; per poi essere successivamente dimenticata, quindi ritrovata a fatica come in una sorta di scrittura automatica quando il giorno dopo si rimise a disegnarla. Un disegno essenziale ed equilibrato, che mette a nudo tutto quello che può – stelo, filo elettrico, meccanismo
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LAMPADA/LAMP BAUHAUS, WEIMAR, 1924
CONTENITORI/STORAGE WARE KUBUS VLG/WEISSWASSER, 1938
SPREMIAGRUMI/JUICER GRANADA VLG/WEISSWASSER, 1937
CARAFFE/MILK POTS SCHOTT&GEN./JENA, 1931
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– e soprattutto nella sua versione metallica fa poggiare la lampada “sopra” e non “sul” tavolo, conferendole levità grazie all’accorgimento di tre sferette poste sotto il disco di base. Nel 1931 si procura il suo primo incarico di collaboratore con una grande industria di lavorazione del vetro, la Schott&Gen., dopo aver lamentato in un incontro con il proprietario il fatto che fossero coinvolti nella progettazione degli oggetti in vetro unicamente gli “scienziati” e non ancora gli artisti. Va detto che l’industria di Jena aveva già collaborato con il Bauhaus a partire dal 1925, anno cui risale il prototipo della macchina da caffè Sintrax di Gerhard Marcks, già direttore del laboratorio di ceramica della scuola, modello a cui seguirà una versione dello stesso Wagenfeld, entrambi costruiti volumetricamente con chiarezza compositiva e perfettamente adeguati alla produzione in serie. Il frutto di questa collaborazione darà subito esiti interessanti: a partire al servizio da tè del 1931 che ebbe un grande riscontro. Anche grazie al suo fortunato impiego in una pièce di Oscar Wilde data in un teatro di Berlino, dove la protagonista appunto serviva il tè con il servizio di Wagenfeld; da cui il passaparola che ne decretò parte del successo di vendita. Introduce l’idea che il caffè o il tè si possa degustare nel vetro, mentre nel suo insieme il disegno del servizio è straordinario per la leggerezza e l’eleganza delle forme e l’impressione di smaterializzazione che ne derivano. Si aggiunga a ciò l’effetto che si viene a generare quando il servizio viene fotografato, come accadeva negli scatti dell’epoca, sui tavoli in tubo di acciaio e vetro di Mies van der Rohe, complemento ideale di un’estetica d’avanguardia che non poteva lasciare indifferenti. È la celebrazione della trasparenza come valore riconosciuto della modernità che vede nel vetro il materiale adatto a incarnare i requisiti di pulizia, chiarezza, luminosità, igiene, che erano poi gli stessi ideali della Glasarchitektur ben rappresentata dallo spirito e l’arte di Paul Scheerbart, profeta ispiratore del costruire attraverso il vetro, e di conseguenza, con la luce. Merito di Wagenfeld è certo stato quello di aver tradotto la logica di questa “visione” nei processi industriali del fabbricare oggetti in vetro, quindi di legarli direttamente al consumo e alla quotidianità; non va dimenticato infatti che buona parte dei prodotti di queste manifatture venivano venduti a prezzi contenuti, costituendo di fatto una produzione accessibile, in sostanza potenzialmente di massa, soprattutto per i pezzi che non venivano soffiati ma stampati. Da allora avrà con tutte le aziende il doppio ruolo di art director-progettista ma anche di curatore d’immagine e responsabile della comunicazione. Così chiamerà il maestro Moholy-Nagy per le pubblicità della Schott&Gen. (dove il suo concetto di tipofoto, collage di tipografia e fotografia, si dimostrerà il medium ottimale) ma anche il fotografo Renger-Patzsch e più tardi Mies e la sua collaboratrice Lilly Reich, che continuerà a lavorare per Wagenfeld agli allestimenti fieristici anche nella successiva esperienza con la VLG (Vereinigten Lausitzer Glaswerke). Sarà con questa azienda che approfondirà e maturerà a pieno la sua esperienza di designer industriale del vetro. In soli due anni, dal 1935 al 1937 la VLG passerà da anonima fabbrica di vetro industriale a manifattura d’avanguardia, leader di produzione colta di oggetti in vetro, come viene decretato dalla presenza all’Esposizione universale di Parigi del 1937. Wagenfeld qui disegna anche il marchio Rautenmarke per la produzione di oggetti che nascono da un laboratorio sperimentale indipendente dalla produzione corrente. Ancora, facendo tesoro della sua esperienza passata, mette a punto un rinnovato metodo progettuale introducendo la novità del disegno tecnico per il progetto degli oggetti in vetro, affinato attraverso modelli di studio in gesso che anticipano la costruzione degli stampi in legno dai quali ricavare i definitivi in metallo. Il set di contenitori in vetro pressato per conservare e servire il cibo Kubus vede la luce in questo periodo, connotandosi come un nuovo standard per questo tipo di esigenza, tanto che verrà praticamente preso a
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VASES, DESIGN SKETCH, 1938
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MAX + MORITZ, SALT & PEPPER SHAKERS, 1952/54
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modello da tutti, replicato e declinato in molte varianti. Disegnato nel 1938 sembra incarnare a pieno titolo il claim di una coeva pubblicità della Rautenglas, che acclamava: “addirittura il semplice vetro può essere bello!”; dove la bellezza, perfettamente in linea con i precetti bauhausiani è anche praticità e funzionalità: il set è multiplo, impilabile, bello a tavola e perfetto per essere riposto. Nella microarchitettura del piccolo paesaggio in vetro di Wagenfeld la grande utopia del mondo in vetro appare confinata ma non spenta dalla scala minore degli oggetti d’uso domestico, dove, alla fine, sono le cose a essere attraversate dalla luce; mentre a noi spetta la sorpresa di ritrovarcele intorno, in-visibili e perfette nella loro nudità.
AT THE ROOTS OF GLASS DESIGN: WILHELM WAGENFELD by Ali Filippini Wilhelm Wagenfeld is known primarily for the steel and glass table lamp he developed during his courses at the Bauhaus, an icon of Modernist design; but he also deserves attention because, among other things, he designed several glass objects for the home, authentic archetypes that were exemplary in defining the passage from the handcrafted to the fully industrial dimension of production. Born in 1900 he lived through the entire century, and his most famous objects continue to be produced and sold, proof of their resistance to time and fashion. Admitted to the first year course at the Bauhaus during the school’s initial stage in Weimar, Wagenfeld attended the metals workshop from 1923 to 1925 under the guidance of Moholy-Nagy, after the departure of Itten who was its original director. Moholy-Nagy changed the format of the laboratory, introducing not only new exercises but glasswork and experimentation in relation to lamp design: this was the background for the first of the objects for which this designer became known, his lamp with a glass shade that is visible in all the photos of Bauhaus interiors after 1924, the date of its creation. A lamp he dreamed of before he designed it, since Wagenfeld himself (apart from any considerations on attribution involving his co-author Jucker...) related the anecdote according to which it “appeared” to him in a dream as he rested after his first approaches at the drawing table; he then forgot it, and painstakingly revived the image in a sort of automatic writing session when he tried to redraw it the following day. An essential and well-balanced design, which reveals everything it can – the stem, the electric wire, the mechanism – especially in the metal version where he has the lamp hovering “over” the table and not placed “on” the table, conferring lightness by placing three spheres under the disc of the base. In 1931 he found his first job in a large glass industry, Schott&Gen., after complaining to the owner during a meeting that the objects were designed exclusively by “scientists” and not by artists. It must be said that this industry in Jena had collaborated with the Bauhaus since 1925, the year of the prototype for the Sintrax coffeemaker by Gerhard Marcks, who had served as the director for the school’s ceramic laboratory; that model would be followed by a version designed by Wagenfeld, built volumetrically with compositional clarity and perfectly adapted to standard production. This collaboration would bring interesting results from the very beginning: starting with the highly acclaimed tea set he designed in 1931. Thanks to its fortunate appearance on the set of a play by Oscar Wilde in a theatre of Berlin, where the protagonist served tea in Wagenfeld’s set, word of mouth became partially responsible for its successful sales record. In an unusual choice for the time, he introduced the idea that coffee or tea could be sipped in glassware; as a whole the design of the tea set is extraordinarily light and elegantly
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BICCHIERI/DRINKING GLASSES ASCONA, PEILL & PUTZLER/DÜREN, 1954 CAMPIONI/SAMPLES, 1950
BOLLITORE PER UOVA/EGG COOKER, SCHOTT&GEN./JENA, 1934 COPPE/GLASSES CHAMPAGNE DORIA FOR WMF/GEISLINGEN, 1961
RIPIANI IN VETRO DI LILLY REICH PER I BICCHIERI “RAUTEN”, GLASS SHELVES BY LILLY REICH FOR THE “RAUTEN” GLASSES, 1937
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shaped, giving the impression that it has been dematerialized. Add the effect generated by portraying the tea service, as in all the period photographs, on Mies van der Rohe’s steel tube and glass tables, the ideal complement for an avant-garde esthetic that could appear no less than exciting. This is the celebration of transparency as a value recognized by modernism: it construes glass as the material that best incarnates the requisites of cleanliness, clarity, light and hygiene, the same ideal underlying Glasarchitektur, well represented by the spirit and art of Paul Scheerbart, the prophet and inspiration for building with glass, and thus with light. Credit must however be given to Wagenfeld for translating the logic of this “vision” into industrial processes to manufacture glass objects, thus conveying them directly into everyday consumption and use; it should not in fact be forgotten that most of the products of this factory were sold at reasonable prices, thus constituting an accessible and potentially a mass production; this was particularly true for the pieces that were not blown, but molded. After that he would sustain the double responsibility of art director and designer for all his companies, handling their image and their publicity. He would thus be in a position to hire his master Moholy-Nagy for Schott & Gen.’s advertising (where his concept of typo-photo, a collage of typography and photography, would prove to be an excellent medium), as well as photographer Albert Renger-Patzsch and later Mies and his collaborator Lilly Reich, who would continue to work with Wagenfeld on trade fair stands during his later experience with VLG (Vereinigten Lausitzer Glaswerke). With this company, he would develop and fully mature his experience as an industrial designer for glass. In only two years, from 1935 to 1937, VLG would develop from an anonymous industrial glass factory to an avant-garde manufacturer, the leader in a cultured production of glass objects, as witnessed by its participation in the Universal Exposition in Paris in 1937. For the company Wagenfeld also designed the Rautenmarke trademark for the production of objects that were generated by the experimental laboratory, operating independently of standard production. In addition, learning from his past experience, he perfected a new design method that introduced the concept of developing working drawings for the design of glass objects, refined by study models in gesso that precede the construction of the wood molds which would later serve to produce the definitive metal molds. The Kubus set of pressed glass containers for preserving and conserving food was produced during this period, and became the new standard for this typology of use, that would be imitated by practically everyone, copied and declined in a myriad of variations. Designed in 1938 it seems to fully incarnate the claim of a Rautenglas advertisement of the time, that proclaimed: “even simple glass can be beautiful!”; where beauty, in perfect harmony with the principles of the Bauhaus, is also practical and functional: the set is made of several pieces that are stackable, beautiful to look at on the table and perfect for storage. In the micro-architecture of Wagenfeld’s small glass landscape the great utopia of the glass world appears confined but not dimmed by the minor scale of household objects where, in the end, these are the things that allow light to pass through; while we experience the surprise of discovering them all around us, in-visible and perfect in their own nudity. Ali Filippini Nato nel 1973, è laureato in design al Politecnico di Milano. Partecipa a vari progetti di ricerca e collabora con alcune riviste di settore occupandosi, in particolare, di industrial design. Svolge attività didattica presso l’università Iulm e il corso di design dell’Accademia di belle arti di Brera a Milano. Born in 1973, he graduated in design from the Politecnico di Milano. He has participated in a number of research projects and collaborates with several trade magazines, particularly on the subject of industrial design. He teaches at the IULM University and the design department of the Accademia di Belle Arti di Brera in Milan.
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LENIN
FERRUCCIO LAVIANI
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VEDO O NON VEDO QUESTO IL DILEM
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TO SEE OR NOT TO SEE, THAT IS THE QUESTION… English text p. 52
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VEDO O NON VEDO, QUESTO IL DILEMMA… di Marinella Levi e Valentina Rognoli
Cos’hanno in comune la finestra del salotto che abbiamo di fronte, le lenti degli occhiali che ci permettono di leggere alla giusta distanza e il bulbo della lampadina che illumina la poltrona sulla quale siamo comodamente seduti? Ci sono! Rispondono a precisi requisiti sia strutturali che funzionali, ma non si ‘vedono’: la loro fondamentale peculiarità consiste nel fatto che la luce, nel suo imperterrito e rettilineo avanzare, li colpisce e, quasi senza accorgersene, li attraversa, passa e con noncuranza ci consegna l’immagine di ciò che si trova oltre quelle esili lastre. E chiunque si interroghi sulla possibilità di sostituire il materiale con il quale quei semplici oggetti sono realizzati sa che un foglio di alluminio, anche se di spessore molto più sottile delle nostre lenti, non sarebbe certo una scelta proponibile. Ma ciò che molti troverebbero non altrettanto ovvio è comprendere perché. Perché il vetro con il quale è realizzato un bicchiere, così come l’acqua in esso contenuta e l’aria che ci circonda, si lasciano attraversare dalla luce e l’alluminio di una lattina no? La risposta a questo dilemma è nascosta nell’intima struttura che compone la materia e nelle relazioni che questa instaura con la radiazione luminosa. In generale quando un raggio di luce passa da una sostanza all’altra può essere riflesso dalla superficie o penetrarvi ed essere assorbito. Ma se riesce a sfuggire ad entrambi questi destini, può continuare il suo cammino attraverso il mezzo e, come si usa dire, verrà trasmesso. Si può dunque sostenere che il vetro, l’acqua e l’aria non riflettono, ma trasmettono gran parte della luce che ricevono; quasi tutte le altre sostanze, ad eccezione di alcuni liquidi simili all’acqua e di certe materie plastiche simili al vetro, assorbono soltanto un po’ di luce, la maggior parte la riflettono senza che ne resti da trasmettere.
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ISOLANTE A STRUTTURA ALVEOLARE IN POLIOLEFINE POLYOLEFINE HONEYCOMB INSULATION
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TESSUTO METALLICO, METAL MESH
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BAGUE, URQUIOLA + GEROTTO, FOSCARINI, 2003
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In quest’ultima categoria di solidi chiamati opachi, come l’alluminio, l’assorbimento della luce è dovuto al fatto che i loro elettroni riescono a catturare l’energia delle particelle luminose, ma ciò che è certamente poco noto è che ciò è possibile grazie al fatto che tali solidi sono caratterizzati da una struttura cristallina all’interno della quale le molecole sono disposte secondo un preciso ordine tridimensionale. Il vetro è invece costituito da molecole che non riescono ad assorbire l’energia della radiazione luminosa perché disposte in modo intrinsecamente ‘disordinato’, secondo percorsi del tutto privi di regolarità, attraverso i quali la luce riesce a passare indenne. I solidi come il vetro – che non è sbagliato definire liquidi estremamente ‘densi’ (o più correttamente viscosi) – non riescono quindi a ordinarsi in una struttura cristallina. Per questo sono chiamati amorfi (etimologicamente ‘privi di forma’), e proprio per tale intrinseco ‘disordine interiore’ ci appaiono trasparenti. È interessante osservare come una esatta definizione scientifica, cristallino/opaco, trasparente/amorfo, contravvenga la diffusa, quanto incorretta, analogia trasparente/cristallino che spesso condiziona nel linguaggio comune la definizione di oggetti, comportamenti e persone (l’acqua fresca di un ruscello o l’atteggiamento di un amico sincero e trasparente, tutto dovrebbero essere considerati fuorché ’cristallini’). Ciò che allora possiamo affermare è che mentre tutti i materiali possono essere opachi, perché ordinati e cristallini, solo alcuni, quelli disordinati, amorfi e puri, nascono trasparenti ma, grazie a opportune modifiche, possono vedere modificata la loro naturale capacità di farsi attraversare dalla luce, assumendo un aspetto di volta in volta satinato, traslucido o addirittura opaco, in funzione delle esigenze progettuali. Alla ‘luce’ di quanto illustrato, possiamo meglio comprendere perché di fatto le famiglie di materiali trasparenti siano un numero relativamente ridotto: oltre agli antichissimi vetri, solo alcuni materiali polimerici, come il policarbonato delle lenti degli occhiali o il polimetilmetacrilato dei fanali posteriori delle auto. Comunque la versatilità di lavorazione, sia dei vetri che dei polimeri amorfi, offrono al progetto una gamma di effetti che vanno dalla trasparenza assoluta all’opacità, passando per lastre traslucide con un’alta trasmissione luminosa. Da questo punto di vista, una particolare declinazione della trasparenza è la traslucenza; i corpi traslucidi lasciano passare le forme e i colori ma sfumano i contorni e l’immagine di ciò che viene posto dietro di essi non è netta e stagliata, realizzando effetti di ‘vedo, non vedo’ di grande interesse progettuale. Nella produzione di laminati plastici vi sono vari prodotti che interpretano la qualità della traslucenza in modo originale. I laminati trasparenti a decorazione tridimensionale sono ad esempio formati dal susseguirsi di strati di resina melamminica con carta traslucida al posto della carta kraft con cui si produce solitamente un laminato. Essi rappresentano un perfetto esempio di materiale progettato appositamente per applicazioni nel settore dell’arredo, per generare un nuovo dialogo tra luce e materia e per ottenere una diffusione omogenea difficilmente ritrovabile in altri casi. La luce dentro il materiale e quindi dentro agli oggetti realizzati. Altri effetti possono essere ottenuti per mezzo delle pellicole polimeriche. Alcune, come quelle di policarbonato note come OLF (Optical Lighting Film), riflettono o trasmettono la luce in funzione dell’angolo di incidenza, e possono essere utilizzate per trasportarla e distribuirla in modo uniforme. I benefici subito riconducibili all’uso di queste pellicole riguardano l’illuminazione omogenea, la luce indiretta e il risparmio energetico. Inoltre il peso esiguo, la flessibilità e la stampabilità su differenti supporti ne fanno un materiale versatile e di facile utilizzo. Infine, se la trasparenza può essere interpretata come separazione spaziale e contemporanea unione visiva di osservatore e osservato, vi sono altri modi di ottenerla senza usare un materiale intrinsecamente trasparente e una superficie continua. Nella loro interazione con la luce, le superfici discontinue infatti, siano esse sotto forma di rete, di griglia o di grata, possono diventare filtri o generare figure attraverso l’alternanza di vuoti e di pieni. Pensiamo alle più consuete maglie traforate o reti metalliche, ma anche al legno, dove la combinazione di listelli di faggio e fessure di resina trasparente, rompendo la continuità
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TESSUTO METALLICO IN FILI DI ACCIAIO E D’ARGENTO, METAL FABRIC IN STEEL AND SILVER THREADS
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fisica del materiale tradizionale, amplia le possibilità del rapporto tra materia e luce dando nuove possibilità di interpretazione degli spazi. I MATERIALI PER LE FOTOGRAFIE DI QUESTO TESTO SONO STATI CORTESEMENTE FORNITI DA MATERIAL CONNEXION® (WWW.MATERIALCONNEXION.IT), CENTRO DI DOCUMENTAZIONE E RICERCA SUI MATERIALI INNOVATIVI.
TO SEE OR NOT TO SEE, THAT IS THE QUESTION… by Marinella Levi e Valentina Rognoli What do the living room window in front of us, the lenses on the eyeglasses that allow us to read at a correct distance, and the bulb that provides light to the armchair we are comfortably seated in have in common? They’re there! They respond to specific structural and functional requisites, but they cannot be ‘seen’: their fundamental peculiarity lies in the fact that light, which advances unremittingly in a straight line, strikes them, and almost without realizing it, goes straight through them and nonchalantly returns the image of what lies beyond those thin layers. And anyone who wonders about the possibility of substituting the material with which these simple objects are made, knows that a sheet of aluminum, though much thinner than our lenses, would not be a feasible choice. But it would not be as obvious to understand why. Why does the glass which the drinking goblet is made out of, like the water it contains and the air that surrounds it, let light through and the aluminum of a can does not? The answer to this dilemma is hidden in the intimate structure that composes the material and the relationship that it creates with luminous radiation. In general when a ray of light passes from one substance to another it can be reflected off the surface or penetrate through it and be absorbed. But if it is able to escape both these fates, it will continue along its path through the substance and will be, as we say, transmitted. One can thus sustain that glass, water and air neither reflect nor absorb most of the light they receive; almost all other substances, with the exception of some liquids similar to water and some plastic materials similar to glass, absorb some light and reflect most of it without leaving much to transmit. Opaque solids, such as aluminum, absorb light because their electrons are able to capture the energy of the luminous particles, but what is less known is that this is made possible by the crystalline structure that characterizes these solids, within which the molecules are arranged in a precise three-dimensional order. Glass on the other hand is constituted by molecules that are unable to absorb the energy of luminous radiation because they are arranged in an intrinsically “disorderly” fashion, along paths that are devoid of regularity, through which the light is able to move intact. Solids like glass – which it is not mistaken to define as extremely ‘dense’ (or more correctly viscous) liquids, are thus unable to order themselves into a crystalline structure. For this reason they are called amorphous (etymologically ‘deprived of form’) and it is precisely because of this intrinsic ‘internal disorder’ that they appear transparent. It is interesting to observe how the exact scientific definition, crystalline/opaque, transparent/amorphous, contradicts the diffuse, and mistaken, analogy between transparent/crystalline that often distinguishes the definition of objects, behavior and people in everyday language (the fresh waters of a brook or the attitude of a sincere and transparent friend should be considered anything but ‘crystalline’). What we may thus state is that while all materials can be opaque, because they are ordered and crystalline, only some, the ones that are disordered, amorphous and pure, start out as transparent, but appropriate changes may be made to modify their natural ability to allow light to pass through them, making them appear as either satin-finished, translucent or even opaque, depending on the design requirements. In ‘light’ of what has been illustrated above, we are better equipped to understand why in
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SEZIONI DI PANNELLI POLIMERICI CON STRUTTURA ALVEOLARE, SECTION PANELS THROUGH ACRYLIC HONEYCOMB
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fact there are relatively few groups of transparent materials: apart from age-old glass, there is only a small number of polymeric materials, such as the polycarbonate used for eyeglass lenses or the polymethylmetacrylate used in the rear lights on automobiles. However the versatility of the industrial processes for glass and amorphous polymers offer design projects a variety of effects that range from absolute transparency to opacity, including translucent sheets with a high degree of light transmission. From this point of view, a particular declination of transparency is translucency; translucent bodies let forms and colors through but haze the contours so that the image of the things placed behind them does not appear neat and distinct, creating a “peek-a-boo” effect that is very interesting to designers. In the production of plastic laminates there are a variety of products that interpret the quality of translucency in a very original way. Transparent laminates with a three-dimensional decoration, for example, may be formed by alternating layers of melaminic resin with translucent paper instead of the normal brown paper usually used to make laminates. They represent a perfect example of a material specifically designed for applications in the field of furniture, to generate a new dialogue between light and material and to achieve a homogeneous diffusion that is otherwise hard to come by. The light is inside the material and thus remains inside the objects produced. Other effects may be achieved by means of polymeric films. Some, like the polycarbonate films known as OLF (Optical Lighting Film), reflect or transmit light depending on the angle of incidence, and may be used to transport and distribute it uniformly. The benefits that are usually associated with the use of these films are homogeneous lighting, indirect lighting, and energy savings. In addition to their light weight, their flexibility and ease of impression onto different supports make them a versatile material that is easy to use. Finally, if transparency can be interpreted as the spatial separation and simultaneous visual union of observer and observed, there are other ways of achieving this without the use of an intrinsically transparent material and a continuous surface. In their interaction with light, discontinuous surfaces, such as mesh, grilles or grates, can become filters or generate figures through the alternation of voids and solids. Think of the usual perforated chain links or metallic mesh, or even wood, where the combination of beech-wood panels and gaps filled with transparent resin that interrupt the physical continuity of the traditional material, increase the potential of the relationship between material and light, providing new possibilities for the interpretation of spaces. THE MATERIALS FOR THE PHOTOGRAPHS IN THIS TEXT WERE KINDLY PROVIDED BY MATERIAL CONNEXION® (WWW.MATERIALCONNEXION.IT), A CENTER FOR DOCUMENTATION AND RESEARCH ON INNOVATIVE MATERIALS.
Marinella Levi Professore associato, insegna Scienza e tecnologia dei materiali presso il Politecnico di Milano e collabora con i corsi di laurea in disegno industriale dell’Università Iuav di Venezia. Si occupa di progettazione di nuovi materiali polimerici e di criteri di selezione dei materiali. An associate professor in Science and the Technology of Materials at the Politecnico di Milano, she collaborates with the industrial design programs at the Università IUAV in Venice. She is specialized in the design of new polymeric materials and the criteria for the selection of materials. Valentina Rognoli Dottore di ricerca in disegno industriale presso il Politecnico di Milano, insegna Scienza e tecnologia dei materiali presso il corso di laurea specialistica in comunicazioni visive e multimediali dell’Università Iuav di Venezia. Il suo specifico campo di interessi riguarda la caratterizzazione espressivo-sensoriale dei materiali per il design. Ph.D. in industrial design at the Politecnico di Milano, she teaches Science and Technology of Materials in the graduate program in Visual and Multimedia Communications at the Università IUAV in Venice. Her specific field of interest regards the expressive and sensorial characterization of materials for the design profession.
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TESSUTO NON-TESSUTO D’ARGENTO, SILVER “NON-FABRIC”
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STRUTTURE PNEUMATICHE
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INFLATABLE STRUCTURES English text p. 64
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STRUTTURE PNEUMATICHE di Pier Paolo Peruccio
I cuscini trasparenti romboidali gonfiati con gas colorati e utilizzati da Herzog&de Meuron come pellicola esterna dello stadio Allianz Arena, recentemente inaugurato a Monaco, testimoniano quanto, ancora oggi, possano essere innovative e al tempo stesso radical, le sperimentazioni nel settore delle strutture pneumatiche. Il Pneu World, come titolava “Architectural Design” nel giugno del 1968 in un numero interamente dedicato alle inflatable structures, pareva allora, negli sperimentali anni sessanta, un mondo dai confini incerti, e l’iconico question mark che capeggiava sulla copertina della rivista britannica era un monito della difficoltà di catalogazione di alcune di quelle esperienze all’interno della sfera delle arti figurative piuttosto che in quella dell’architettura o del design. Sfogliando le riviste di quegli anni è facile imbattersi nelle ricerche sulle strutture gonfiabili operate da artisti come Piero Manzoni (Corpi d’aria, 1959; Placentarium, 1960), Andy Warhol (Clouds, 1966), Marinus Boezem (Air objects, 1966), Christo (42.390 cubicfeet package, 1966) ma anche da architetti come il viennese Hans Hollein con le sculture temporanee in PVC colorato realizzate nel 1966 per un festival nel parco austriaco di Kepfenberg o, nello stesso anno, Mike Webb del gruppo londinese Archigram con il progetto di capsula gonfiabile Cushicle e CoopHimmelblau con l’unità abitabile The Cloud (1968). Protagonisti indiscussi di queste sperimentazioni sono i produttori stessi di pneumatici e materie plastiche come Zodiac, Dunlop, Goodyear, Firestone, Esso, Michelin e Pirelli, con i quali si
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CASA GONFIABILE/INFLATABLE HOUSE, QUASAR, 1968
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ampliano i campi di applicazione della tecnologia dei gonfiabili: dall’involucro pneumatico per lo spazio Stem (Stay Time Extension Module) messo a punto da Goodyear per la Nasa, fino alle cupole progettate da Buckminster Fuller con nervature in tubi pneumatici o alle soluzioni più estreme, e al tempo stesso ludiche, come Water walk del gruppo anglo-olandese Evenstructure Research Group con il progetto, del 1968, di un tetraedro traslucido di PVC e aria per passeggiare sull’acqua. Le vicende legate al Pneu World in realtà prendono avvio durante il secondo conflitto mondiale quando il guscio pneumatico viene impiegato diffusamente come rifugio d’emergenza ma anche ricovero dei mezzi militari e riparo delle postazioni radar. Un sistema che, grazie alla facilità di montaggio e smontaggio delle strutture in PVC e aria, permette la realizzazione di ripari temporanei, e facilmente trasportabili, di varie forme e dimensioni secondo i canoni di un’ipotetica “estetica del provvisorio” sistematizzata nelle ricerche sulla pneumatische konstruktionen condotte da Otto Frei tra il 1958 e il 1961. Ed è in questi anni che inizia a diffondersi, negli Stati Uniti come in Europa, le virus de la pneumanie: l’effimero offerto dalle applicazioni pneumatiche nel campo dell’architettura, dell’urbanistica, fino all’arredo, affascina architetti, designer, ingegneri. Tra il nutrito gruppo di progettisti attratti dal tema delle strutture pneumatiche vi è anche Frank Lloyd Wright, autore nell’anno della sua scomparsa, il 1959, di un progetto per la Air House costituita da due ambienti pressurizzati a forma di cupola. Costruire con l’aria richiama prepotentemente scenari utopici negli immaginari degli architetti: il termine utopia inizia a circolare sulle riviste, nelle formulazioni che da lì a poco irromperanno sulla scena con l’architettura radicale. Tuttavia, il punto più alto delle ricerche condotte intorno al tema delle strutture pneumatiche può essere individuato negli esiti della mostra Structures gonflables che si tiene nel mese di marzo del 1968, a Parigi, presso il Musée d’Art Moderne: un repertorio di oltre cento prodotti, dai veicoli di terra e di mare fino a quelli per il volo aereo e la navigazione nello spazio, oltre ai dispositivi per la sicurezza e la protezione nel campo dell’ingegneria e dell’architettura come giunti, casseformi, rivestimenti, ma anche sculture ed elementi d’arredo. Tutto rigorosamente gonfiabile come espressamente richiesto dai curatori dell’esposizione, gli architetti Jean Aubert, Jean-Paul Jungmann e Antoine Stinco, membri del gruppo francese Utopie che comprende anche i sociologi Jean Baudrillard e René Loureau, gli urbanisti Catherine Cot e Hubert Tonka e la paesaggista Isabelle Auricoste. Intorno ai progetti presentati in quell’occasione da Aubert, Jungmann e Stinco si costruisce il mito della cultura pneumatica: il Dyodon (di Jungmann), abitazione sperimentale “a bolle”, su più livelli, interamente pneumatica in ogni sua parte, dagli arredi alle attrezzature fino ai tubolari portanti e alla pelle esterna, naturalmente galleggiante e talmente leggera da poter essere sospesa nel vuoto; il Podium itinerant pour 5.000 spectateurs (di Aubert), una cupola geodetica autoportante, sul modello di quelle già realizzate con nervature in tubi pneumatici, di 80 metri di diametro e 27 metri di altezza per spettacoli circensi o di teatro, cinema, musica. Facilmente trasportabile per le sue “sole” 25 tonnellate e poco più di peso totale; infine la Hall itinerant d’exposition (di Stinco), spazio espositivo anch’esso trasportabile, le cui sale, dalle pareti costruite con tubolari pieni d’aria, sono coperte da porzioni di sfere gonfiate, ricoperte da un enorme telo fissato a terra da palloni d’acqua. La mostra Structure gonflables comprende anche, e come non potrebbe, gli oggetti di design e il furniture: su progetto di Aubert, Jungmann e Stinco vengono esposti i progetti di una serie
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CUPOLA GONFIABILE/INFLATABLE DOME FOR THE TWENTIETH CENTURY FOX, ARTHUR QUARMBY, ENGLAND, 1965
DISEGNI PRELIMINARI/PRELIMINARY STUDIES FOR THE DYODON, JEAN-PAUL JUNGMANN, 1967
42390 CUBICFEET PACKAGE, CHRISTO, 1966
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FUJI PAVILION, YUTAKA MURATA E MAMORU KAWAGUCHI, OSAKA EXPO, 1970
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di arredi in PVC, realizzati come elementi indipendenti o variamente assemblati. Tuttavia, tra i corpi illuminanti, cuscini, puff, divani, tavolini e sedute di varie forme, saranno le poltrone pneumatiche ad avere la maggior fortuna critica e commerciale. Nonostante gli esiti davvero interessanti di alcune sperimentazioni condotte alla fine degli anni sessanta, che tentano di superare la tradizionale forma a cupola dei gonfiabili – come nel caso del tunnel di collegamento fra due settori della XIV Triennale di Milano realizzato da De Pas, D’Urbino e Lomazzi nel 1968 –, l’inaugurazione dell’Esposizione universale di Osaka di due anni dopo segna, con la diffusione allargata e banalizzata di questa tecnologia nelle grandi fiere e nelle innumerevoli mostre, la fine di una ricerca fino a quel momento costante sull’impiego del pneumatico. Tra il centinaio di anonimi padiglioni disposti all’interno del piano disegnato da Kenzo Tange, molti dei quali con struttura pneumatica come imposto dalla moda del momento, spicca il Fuji Pavilion di Yutaka Murata e Mamoru Kawaguchi con la convincente e del tutto nuova disposizione a cerchio di 16 tubi d’aria uguali di lunghezza e diametro.
INFLATABLE STRUCTURES by Pier Paolo Peruccio The transparent diamond-shaped pillows inflated with colored gases and used by Herzog & De Meuron as the outer skin of the Allianz Arena stadium, recently inaugurated in Munich, bear witness to how innovative and even radical experimentation in the field of pneumatic structures can still be. Pneu World, as it was dubbed by “Architectural Design” magazine in June of 1968 in an issue dedicated entirely to inflatable structures, seemed back then, during the experimental Sixties, to be a world with undefined boundaries, and the iconic question mark that dominated the cover of the British magazine was a warning as to how difficult it was to catalog some of these experiences within the sphere of figurative arts rather than as architecture or design. Leafing through the magazines of those years it is easy to come across experimental projects in inflatable structures by artists such as Piero Manzoni (Corpi d’aria, 1959; Placentarium, 1960), Andy Warhol (Clouds, 1966), Marinus Boezem (Air objects, 1966), Christo (42390 cubicfeet package 1966) but also by architects such as the Viennese Hans Hollein with his temporary sculptures in colored PVC made in 1966 for a festival in the Austrian park of Kepfenburg or, the same year, by Mike Webb from the London group Archigram with his project for the Cushicle inflatable capsule, or CoopHimmelblau with The Cloud living unit (1968). Indisputable protagonists of these experimentations were the manufacturers of tires and plastic materials themselves, such as Zodiac, Dunlop, Goodyear, Firestone, Esso, Michelin and Pirelli, who helped to extend the fields of application for inflatable technology: from the pneumatic covering for the Stem (Stay Time Extension Module) space developed by Goodyear for NASA, through the domes designed by Buckminster Fuller with pneumatic tube ribbing, or the most extreme yet playful solutions such as the Water Walk by the Anglo-Dutch Evenstructure Research Group, a 1968 project for a translucent PVC tetrahedron filled with air for walking on water. The experiences that constituted Pneu world actually began during World War II when pneumatic shells became widely used as emergency shelters or as storage for military vehicles and protection for radar stations. A system that, thanks to the rapidity with which the PVC and air structures
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PADIGLIONE ITALIANO/ITALIAN PAVILION, DE PAS, D’URBINO E LOMAZZI, OSAKA EXPO, 1968
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could be set up and taken down, allowed the construction of easily transportable, temporary shelters, produced in a variety of forms and dimensions within a hypothetical “esthetic of the temporary” that became standardized in the research conducted on pneumatische konstruktionen by Otto Frei between 1958 and 1961. It was during those years that le virus de la pneumanie began to spread throughout the United States and Europe; the ephemeral quality of pneumatic applications in the field of architecture, city planning, and even furniture fascinated architects, designers and engineers. The large number of designers attracted by the theme of pneumatic structures included Frank Lloyd Wright who in 1959, the year he died, designed the project for the Air House, constituted by two pressurized rooms in the shape of a dome. Building with air was a powerful reminder of utopian scenarios in the minds of architects: the term utopia began to circulate in the magazines, in the formulas that would soon erupt onto the scene with radical architecture. However, the apex of the research conducted on the theme of pneumatic structures may be identified in the results of the exhibit entitled Structures gonflables held at the Musée d’Art Moderne in Paris in March 1968: a repertory of over one hundred products, from vehicles for land and sea to others that fly through the air and navigate in space; from devices for safety and protection in the fields of engineering and architecture, such as joints, formwork and sheathings, to sculptures and furniture. All rigorously inflatable as expressly demanded by the curators of the exhibition, architects Jean Augert, Jean-Paul Jungmann and Antoine Stinco, members of the French group Utopie that included sociologists Jean Baudrillard and René Loureau, city planners Catherine Cot and Hubert Tonka and landscape architect Isabelle Auricoste. The myth of pneumatic culture was built around the projects presented on that occasion by Aubert, Jungmann and Stinco: the Dyodon (by Jungmann), an experimental “bubble” house with several floors, entirely pneumatic in all its parts, from the furniture to the equipment to the structural tubes to the outer skin, naturally floating and so lightweight it could be suspended in the air; the ‘Podium itinérant pour 5,000 spectateurs’ (by Aubert), a self-supporting geodetic dome, modeled after the existing ones with pneumatic tube ribbing, 80 meters in diameter and 27 meters high for circus or theatre, film and music performances: it was easily transportable, because it weighed a total of “only” 25 tons or little more; and finally the ‘Hall itinérant d’exposition’ (by Stinco), an exhibition space that could also be transported, whose rooms, featuring walls built out of air-filled tubes, were faced with portions of inflated spheres, covered by an enormous canvas fastened to the ground by balls of water. The Structures gonflables exhibition also included, and how could it not, design objects and furniture: there were a series of projects on exhibit designed by Aubert, Jungmann and Stinco, including PVC furniture, made out of independent elements or pieces to be assembled. However, of the many lighting fixtures, pillows, footrests, sofas, side tables and chairs in various shapes, the pneumatic armchairs would be the ones to garner the greatest critical and commercial success. Despite the truly interesting results of several experiments conducted at the end of the Sixties that attempted to move beyond the traditional dome shape of the inflatables, such as the tunnel that connected the two sections of the XIV Triennale in Milan by De Pas, D’Urbino and Lomazzi in 1968, the inauguration of the Universal Exposition in Osaka two years later, symptomatic of the widespread and trivialized diffusion of this technology in the great fairs and in myriad exhibitions, marked the end of experimentation on the use of pneumatic structures, which had
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“WATER WALK”, EVENSTRUCTURE GROUP, 1968
DOWNTOWN/MEGASTRUCTURES, KLAUS PINTER/HAUS-RUCKER-CO, 1971
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remained constant up to this point. Among the hundreds of anonymous pavilions built within the general plan designed by Kenzo Tange, many featured a pneumatic structure as dictated by the fashion of the moment; the most interesting was the Fuji Pavilion by Yutaka Murata and Mamoru Kawaguchi with its convincing and totally new disposition of 16 air tubes of equal length and diameter, arranged in a circle. Pier Paolo Peruccio Architetto, dottore di ricerca in storia dell’architettura e dell’urbanistica, insegna storia e critica dei multimedia presso il corso di laurea specialistica in ecodesign del Politecnico di Torino. Svolge ricerca nell’ambito della didattica del design e della storia del disegno industriale e delle sue relazioni con il sistema dei media. È attualmente publisher de “Il Giornale dell’Architettura” per il quale ha curato le pagine del settore design dal 2002 al 2005. An architect, with a PhD. in the history of architecture and city planning, he teaches multimedia history and criticism in the graduate department of ecodesign at the Politecnico di Torino. He conducts research studies in the field of design education and the history of industrial design and its relationship with the media system. He is currently the publisher of “Il Giornale dell’Architettura” for which he edited the design section from 2002 to 2005.
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OMBRE CINESI MASSIMO GARDONE INTERPRETA N+N CORSINO
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SHADOW PLAY MASSIMO GARDONE INTERPRETS N+N CORSINO
“Amorces intimes. Il termine amorce, utilizzato sia sulle pellicole cinematografiche sia in musica sul nastro magnetico, definisce l’estremità, l’inizio, il bordo e l’origine. La caduta, la scomparsa in quanto apertura, richiamo. L’infima amorce definisce il pre-movimento: il pre-movimento di tutto cio che può muoversi in un preciso istante dai sentimenti alle pietre; un inizio d’accelerazione appena percettibile durante il quale è preferibile rimanere vigili. Ed è anche in questo momento che bisogna decidere. Senza giocare con le parole diciamo che questa infima amorce è diventato un nostro affare intimo nell’approccio del movimento dei corpi e nella percezione di Shanghai”. (N+N Corsino) Le immagini sono dei frammenti rielaborati da Massimo Gardone del video proiettato al museo di belle arti di Shanghai. “Amorces intimes. The term amorce, used in regard to film for movies as well as for magnetic tape in music, defines the extremity, the beginning, the edge and the origin. The fall, the disappearance in that it is an opening, a reference. The intimate defines a pre-movement: the pre-movement of anything that can move in a specific moment from feelings to stones; a barely perceptible initial acceleration during which it is advisable to remain alert. And it is at that moment that one must decide. With no play on words we might say that this intimate amorce has become our own intimate affair in the approach to the movement of bodies and the perception of Shanghai”. (N+N Corsino) The images are fragments re-elaborated by Massimo Gardone of the video projected at the Fine Arts Museum in Shanghai.
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ENRICO FRANZOLI E LA LAMPADA BIG BANG
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ENRICO FRANZOLINI AND THE BIG BANG LAMP English text p. 80
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ENRICO FRANZOLINI E LA LAMPADA BIG BANG di Fiorella Bulegato
Enrico Franzolini, nato a Udine nel 1952, compie gli studi universitari a Firenze e a Venezia, dove si laurea in architettura nel 1979. Già nel 1972 è invitato alla XXXVI Biennale di Venezia, per esporre, nel settore arti decorative, due oggetti realizzati dalla vetreria Livio Seguso di Murano. Dalla fine degli anni settanta sviluppa, accanto alle ricerche artistiche, l’interesse per l’architettura e il disegno industriale. Da allora ha realizzato numerosi progetti di architettura, di exhibit e di interior design –, tra gli altri, il progetto di un’abitazione ottiene il premio Piranesi nel 1993 – oltre ad aver collaborato con importanti aziende del settore del mobile come Accademia, Alias, Cappellini, Crassevig, Gervasoni, Knoll International, Montina, Moroso, Pallucco. La sedia Asia, prodotta da Crassevig, è stata selezionata al premio Adi-Compasso d’oro del 1999. La lampada Big Bang, presentata al Salone del mobile di Milano nel 2005, è stata progettata assieme a Vicente Garcia Jimenez, giovane designer spagnolo diplomato in disegno industriale alla facoltà di scienze sperimentali di Castellón de la Plana, con spiccata attenzione per la progettazione di apparecchi d’illuminazione e arredi. Come e quando è nato il progetto? Quali le fonti di ispirazione? L’idea del progetto di Big Bang, probabilmente, era in gestazione da molto tempo e cioè da quando ero impegnato, ancora studente al liceo artistico, nel frenetico lavoro dedicato alla pittura e alla passione per l’espressionismo astratto di Emilio Vedova e di Franz Kline. Potrei anche
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collegare questo progetto a un lavoro degli anni novanta che Giulio Cappellini volle presentare al Salone del mobile di Milano del 1994 – una collezione che, l’anno precedente, avevo esposto in una mostra personale alla galleria Plurima di Udine. I Light box di allora, con i tagli retroilluminati delle ante e variamente disposti con disordine ragionato possono essere considerati una premessa bidimensionale a Big Bang. Oggi, grazie anche alla collaborazione di Vicente Garcia Jimenez – partner attento e sensibile, che condivide con passione e competenza comuni affinità di pensiero – siamo riusciti a concretizzare quest’idea. Come si è sviluppato per arrivare alla produzione? Ai primi due prototipi sperimentali – testati all’interno di un negozio a Trieste – ne è seguito un terzo che abbiamo presentato a Foscarini, perché convinti che questa soluzione potesse anche essere adatta alla realizzazione in serie. Da quel momento è iniziata quella delicata e fondamentale fase di scambio tra azienda e progettista che ha portato alla definizione esecutiva e di messa in produzione di un oggetto industriale. Un buon progetto deve essere sostenuto con passione e investimenti che un progettista, da solo, non potrebbe mai realizzare. Una collaborazione che continuerà? Con quali programmi? Mi interessa molto continuare questa esperienza con un’azienda di cui condivido gli obiettivi e il metodo di lavoro. Stiamo ora studiando attorno a due diverse tipologie di lampade: come è noto nel progettare è necessario il giusto tempo di elaborazione, che magari, a volte, significa un’idea scaturita di getto. Anche nei suoi progetti architettonici o d’interni la luce assume un ruolo determinante? Sicuramente la luce, in quanto generatrice dell’architettura, ha nei miei lavori un’importanza basilare. La luce naturale, prima di tutto, è alla base di un progetto: un orientamento sbagliato significa far fallire anche una buona architettura. Per quanto riguarda la luce artificiale vedo che, da qualche anno, designer e aziende si danno un gran da fare a sfornare modelli di tutte le fogge e per tutte le occasioni. A parte alcuni avanzamenti tecnologici, che sono sicuramente importanti per il miglioramento della qualità della luce e per il risparmio energetico, non sono particolarmente coinvolto in questa frenesia ideativa e produttiva anche se, ultimamente, e grazie all’aiuto specifico di Vicente, lo studio ha affrontato vari progetti di illuminazione. Qual è il ruolo del disegno o degli strumenti di rappresentazione nel suo operare? Il ruolo del disegno, nel mio caso, è sempre stato fondamentale per tradurre un’idea in progetto. Ho sempre disegnato le mie cose con la matita e continuo a farlo ancora oggi ostinatamente anche se le mie giornate lavorative passano alle spalle dei miei collaboratori di studio impegnati al video. Devo dire però che, nonostante la mia cocciuta antipatia verso l’informatica, probabilmente senza computer non saremmo riusciti a dare forma e industrializzazione a Big Bang. Operare come industrial designer oggi significa? Significa buon senso, civiltà, amore.
ENRICO FRANZOLINI AND THE BIG BANG LAMP by Fiorella Bulegato Enrico Franzolini, born in Udine in 1952, studied at the universities in Florence and in Venice, where he graduated in architecture in 1979. In 1972, he was invited to participate in the XXXVI Biennale di Venezia where, in the decorative arts section, he exhibited two objects created at the
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Vetreria Livio Seguso glasshouse on Murano. Since the end of the Seventies he has pursued his interest in architecture and industrial design as well as his artistic experimentation. Since then his studio has developed a large number of architecture, exhibit and interior design projects, including a project for a residence that won the Piranesi prize in 1993, and has collaborated with important furniture manufacturers such as Accademia, Alias, Cappellini, Crassevig, Gervasoni, Knoll International, Montina, Moroso, Pallucco. His Asia chair, produced by Crassevig, won an honorable mention in the ADI-Compasso d’Oro awards in 1999. The Big Bang lamp, presented at the Salone del Mobile in Milan in 2005, was designed in collaboration with Vicente Garcia Jimenez, a young Spanish designer who graduated with a degree in industrial design from the Department of Experimental Sciences at Castellòn de la Plana, with a specialization in the design of lighting fixtures and furniture. How and when was the project conceived? What were your sources of inspiration? The idea for the Big Bang project had probably been in gestation for some time, perhaps since my days as a student at art school, where I was frenetically involved in painting and in my passion for the abstract expressionism of Emilio Vedova and Franz Kline. I could also relate this design to a project I designed in the Nineties and that Giulio Cappellini chose to present at the Salone del Mobile in 1994 – a collection that I showed again last year in a personal exhibition at the Plurima gallery in Udine. Those Light Boxes, which featured backlit slashes in the doors and were positioned haphazardly in a deliberate kind of disorder, might be considered as the twodimensional premise to the Big Bang. Today, thanks to my collaboration with Vicente Garcia Jimenez, a conscientious and sensitive partner who brings dedication and skill to the affinities of thought that we share, we were able to concretize this idea. How did it develop before entering production? The first two experimental prototypes, tested in a store in Trieste, were followed by a third which we presented to Foscarini, because we were convinced that this solution could be adapted to standard production. That moment marked the beginning of the delicate and fundamental phase of dialogue between manufacturer and designer that leads to the development of the working drawings and the production process of an industrial object. A good project needs to be supported with the conviction and the investments that a designer by himself could never provide. Will this collaboration continue? What are your plans? I am very interested in pursuing this experience with a company whose objectives and working method I share. We are now studying two different types of lamp typologies: it is well known that designing requires the appropriate time for elaboration, and sometimes, that can mean an idea that surges out of the blue. Is light an essential factor in your architectural and interior design projects? As the generator of architecture, light definitely plays a fundamental role in my work. Natural light, especially, is the basis for any project: a mistaken orientation can doom a good architectural project to failure. As far as artificial light is concerned, in recent years I have seen designers and manufacturers busily churning out models for all tastes and for all occasions. Apart from certain examples of technological progress, which are obviously important for improving the quality of light and energy savings, I do not feel particularly involved in this creative and productive frenzy, even if lately, and especially thanks to Vicente’s specific help, the studio has developed several lighting projects.
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LIGHTBOX, CAPPELLINI, 1994 WALLY, ACCADEMIA, 2004
AGRA, ACCADEMIA, 2002 STEEL CHAIR, MOROSO, 2004
ASIA CHAIR, CRASSEVIC, 2002 LAGOA CHAIR, ACCADEMIA, 2004
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What is the role of drawing or instruments of representation in your work? In my case, drawing has always been fundamental to translate an idea into a project. I have always drawn my designs with a pencil and continue obstinately to do so today even if I spend my workdays staring over the shoulders of my studio assistants working in front of a monitor. I must say however, that despite my stubborn dislike of computers, without them we might not have been able to develop the form and industrialization of the Big Bang. What does working as an industrial designer mean today? It means common sense, civility, love. Fiorella Bulegato Laureata in architettura all’Iuav di Venezia nel 1995, sta svolgendo un dottorato in disegno industriale all’Università La Sapienza di Roma. Da alcuni anni svolge attività di ricerca documentaria per pubblicazioni – ha curato ad esempio l’atlante del volume Achille Castiglioni 1938-2000, Electa, Milano 2001 – e scrive su periodici e riviste, con particolare riguardo ai temi dell’industrial design. A graduate in architecture from the Università IUAV in Venice in 1995, she is currently pursuing her doctorate in industrial design at the Università La Sapienza in Rome. For several years she has done documentary research for publications, writing and editing the catalogue of works for the book Achille Castiglioni 1938-2000, Electa, Milan 2001; she writes for periodicals and magazines, with particular attention to the issues of industrial design.
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HALOSCOPE JAMES IRVINE
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MIRO ZAGNOLI. SOVRAESPOSIZIONI English text p. 96
Miro Zagnoli (Reggio Emilia, 1952) vive e lavora a Milano. Realizza le sue prime fotografie verso la fine degli anni settanta focalizzando la sua ricerca sul rapporto e la contaminazione tra linguaggio fotografico e gli altri mezzi di comunicazione (stampa, televisione…). Nella prima metà degli anni ottanta si dedica più specificatamente al tema dell’interazione tra mondo artificiale e percezione, realizzando sintesi originali e innovative sul piano tecnico e concettuale, e avvicinando la fotografia contemporanea al mondo della pubblicità e del design. Inizia dunque un’intensa collaborazione – tuttora in corso – con designer, aziende e riviste del settore dell’architettura, dell’arredamento e del design. Il rapporto con il mondo della comunicazione, degli oggetti e delle riviste, attraverso la mediazione fotografica, ha favorito una sua particolare sensibilità alla riflessione sui significati e il senso delle immagini. Contribuendo alla trasformazione del linguaggio fotografico, stimolato anche dalle nuove tecnologie digitali, negli ultimi lavori Zagnoli si dedica al tema della luce, l’elemento fondamentale della scrittura fotografica per antonomasia. Nella serie “Sovraesposizioni” (anni novanta) analizza un aspetto elementare della fotografia: la relazione tra luce, soggetto ed esposizione. La fotografia vive di luce: essa permette di registrare e imprimere. In un certo senso concede l’illusione di fermare il tempo, le cose e le persone, crea staticità e ricordo.
FOTOGRAFIA
MIRO ZAGNOLI SOVRAESPOSIZIONI
di Carole Simonetti
5 DICEMBRE 1994, 100x100 CM
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FOTOGRAFIA_PHOTOGRAPHY
Nelle immagini di Miro Zagnoli qui presentate la luce forzata dal fotografo, assume un ruolo doppio. È una sovraesposizione incisiva ma forte, tanto che finisce con il cancellare delle parti di immagine e di mondo concedendo allo spettatore solamente frammenti di vita e di luoghi. La luce e il sole, fonti di energia e di vita, offrono una sensazione di rarefazione e di inafferrabilità e concedono una pausa di riflessione sull’effimero, sul movimento e sul cambiamento. La luce usata da Zagnoli è una luce energica e accecante che non blocca l’immagine ma al contrario la muove, la fa vivere nella percezione della trasformazione continua delle cose e della loro caducità. Quello che interessa al fotografo non è tanto il soggetto ma il rapporto tra concetto e tecnica, tra materia e linguaggio fotografico che viene forzato fino all’estremo delle sue possibilità tecniche ed espressive tanto da annullare gli elementi base dell’inquadratura scivolando oltre il riconoscimento degli oggetti e dei luoghi. Miro Zagnoli (Reggio Emilia, 1952) lives and works in Milan. He began working in photography in the late Seventies, focusing his research on the relationship and the contamination between the language of photography and other means of communication (press, television…). In the early Eighties, he dedicated his work more specifically to the theme of the interaction between the artificial world and perception, creating original and innovative syntheses on a technical and conceptual level, and bringing contemporary photography closer to the world of advertising and design. He thus began an intense collaboration – which continues to this day – with designers, manufacturers and magazines in the field of architecture, interiors and design. Contributing to the transformation of photographic language, and stimulated by new digital technology, in his latest works Zagnoli has focused on the theme of light, the founding element of photographic writing. In his series ‘Sovraesposizioni’ created in the Nineties, he analyzed an elementary aspect of photography: the relationship between the light, the subject and the exposure. Photo-graphy draws its life force from light: it is what allows an image to be recorded and impressed. In a certain sense, it grants the illusion that we can stop time, things and people, create a static condition and a memory. In the images of Miro Zagnoli presented here, the light forced by the photographer acquires a twin role. It becomes an incisive and glaring over-exposure, that ends up by erasing some parts of the image and the world granting the viewer only fragments of life and places. The light and the sun, sources of energy and life, give the feeling of being rarefied and intangible, and offer a pause for reflection on ephemerality, on movement and change. The light used by Zagnoli is a blinding and energetic light that does not block the image but on the contrary makes it move, makes it live in the perception of the continuous transformation of things and their vulnerability. What interests the photographer is not so much the subject but the relationship between concept and technique, between matter and photographic language which is forced to the limits of its technical and expressive potential to the point of obliterating the basic elements of the picture, slipping beyond the recognition of objects and places. Carole Simonetti Si è laureata in conservazione dei beni culturali nel 2004 presso l’Università di Parma con una tesi in storia della fotografia. Collabora con istituzioni museali (museo Kartell di Binasco e museo fotografia contemporanea di Cinisello Balsamo) per la tutela e la valorizzazione del patrimonio fotografico attraverso l’organizzazione di mostre e seminari di studi e l’attività di curatela e gestione di archivi fotografici. She graduated with a degree in the preservation of the cultural heritage in 2004 at the University of Parma with a thesis on the history of photography. She collaborates with museums (the Kartell museum in Binasco and the Museum of Contemporary Photography in Cinisello Balsamo) for the preservation and cultivation of the photographic heritage by organizing exhibitions and study seminars, and is active in the curatorship and management of photographic archives.
4 LUGLIO 1998, 100x100 CM
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23 APRILE 1997, 100x100 CM
10 APRILE 1997, 100x100 CM
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15 MAGGIO 1997, 100x100 CM
26 SETTEMBRE 1996, 100x100 CM
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EDITION 09.2005
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LA TRASPARENZA, IDEALE E REALE, COSTITUISCE UNO DEI TEMI IMPORTANTI DEL PROGETTO CONTEMPORANEO. UN’ISPIRAZIONE CHE SI LEGA ALL’ESIGENZA DI MOSTRARE IL CONTENUTO E L’ANIMA DEGLI OGGETTI FORNENDONE UNA QUALCHE INTELLEGGIBILITÀ OPPURE SEMPLICEMENTE DI LAVORARE SULLA RIDUZIONE DEL SEGNO MATERICO E VISIVO. FAR TRASPARENTE NEI PROCESSI TECNOLOGICI, NEI MATERIALI, NELL’IMMAGINE COMPLESSIVA PER ESIBIRE UN AGIRE MINIMO, ESSENZIALE, LEGGERO E PULITO; MA ANCHE RISPOSTA CULTURALE ALL’ECCESSO, ALL’INQUINAMENTO, AL TROPPO FISICO-SEMANTICO – NON SEMPRE CON SCOPO – DEL PRESENTE. TRANSPARENCY, REAL AND IDEAL, CONSTITUTES A PRIMARY ISSUE IN CONTEMPORARY DESIGN. AN INSPIRATION THAT DERIVES FROM THE NEED TO REVEAL THE CONTENT AND THE SPIRIT OF OBJECTS, TO PROVIDE A MEASURE OF UNDERSTANDING, OR SIMPLY TO WORK ON REDUCING MATERIAL AND VISUAL IMPACT. TO USE TRANSPARENCY IN TECHNOLOGICAL PROCESSES, IN MATERIALS, IN THE OVERALL IMAGE OF ARTIFACTS IS TO ADOPT A MINIMAL, ESSENTIAL, LIGHTWEIGHT AND CLEAN APPROACH; BUT IT ALSO CONSTITUTES A CULTURAL RESPONSE TO EXCESS, TO POLLUTION, TO THE PHYSICAL AND SEMANTIC – OFTEN POINTLESS – OVERABUNDANCE OF THE PRESENT.