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ARCHEOLOGIA DI UN ANTICO ANCORA PRESENTE
di Angelo Bertani
All’apparenza Elio Ciol con le sue fotografie di Leptis Magna, Sabratha, Cirene ci invita a una passeggiata archeologica: come una guida d’eccezione egli ci conduce tra le antiche vestigia e ci segnala i monumenti più insigni, ci indica i reperti più importanti, le tracce più significative di un passato solitamente considerato autorevole, ove riconoscere pure la cultura di una romanità che nell’epoca dei grandi imperatori si espanse in quelle terre del Nord Africa al limite del conosciuto, dell’hic sunt leones. Sappiamo bene che furono gli archeologi italiani per primi, già all’inizio del ‘900, al tempo dell’occupazione della Libia, a porre in luce alcuni monumenti, a condurre scavi sistematici, ad avviare ricomposizioni più o meno filologicamente corrette. Tuttavia sappiamo anche che quelle stesse vestigia servirono poi, proprio in quanto segno della “romanità”, a giustificare le velleità egemoniche di un altro impero, anacronistico, sgangherato e tragico, che parlava alto da certi balconi italici, con il petto in fuori, di Quarta Sponda e di Mare Nostrum. Naturalmente di tutto questo non c’è traccia nelle limpide immagini di Elio Ciol, assolutamente aliene da qualsiasi enfasi retorica: infatti la passeggiata archeologica che egli ci invita a fare con lui è piuttosto, metaforicamente, un’esortazione a confrontarci con le rovine della storia e dunque con le tracce ineludibili del tempo per trarne motivo di pacata ma inevitabile meditazione per il presente.
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È stato il Rinascimento ad assegnare primariamente un valore positivo e culturalmente pregnante alle vestigia classiche, sia nell’ambito della riscoperta filologica, o meglio appunto della rinascita della cultura latina e greca, sia nell’ambito di un umanesimo cristiano che nell’evocazione di quelle rovine vedeva la cesura (in una storia comunque dal significato provvidenziale) tra l’età antica e l’età nuova, quella contrassegnata dall’avvento del messaggio cristiano: ecco allora le tante pale d’altare quattro-cinquecentesche raffiguranti l’Adorazione dei Magi o magari una Sacra conversazione (e pure alcune opere del nostro Giovanni Antonio de’ Sacchis) che mostrano sullo sfondo o tutt’attorno dei resti classici. E poi però fu il Settecento a dare nuovo significato, sostanzialmente laico, alle rovine antiche: certo la Ragione doveva in ogni caso interrogarsi sul senso della storia, su quel sovrapporsi catastrofico dei secoli e delle epoche, sui lasciti di un pensiero progressivo che doveva al fine illuminare, sperabilmente rinnovato e salvifico, la contemporaneità: forse anche per questo Denis Diderot era uscito con l’esclamazione liberatoria «Beati gli antichi, che non avevano antichità». Tuttavia sempre nel Settecento (le epoche non sono mai dei monoliti) erano sorti e progressivamente erano emersi nuovi fermenti che, pure a seguito delle mancate o non consolatorie risposte della Ragione sul senso della storia, incominciarono a interpretare in modo diverso le rovine classiche, a cui significativamente si aggiungevano allora quelle di altre epoche più recenti, ad esempio del Medioevo: il nuovo sentimento del sublime già preromantico metteva a confronto caducità e perennità, umano e sovrumano, storia e natura, e addirittura finito e infinito, e le rovine del tempo si prestavano bene a tale tipo di riflessioni.
In tale articolato contesto settecentesco è emblematico, e ben noto, il caso di Giovanni Battista Piranesi. Il grande artista veneziano con le incisioni delle Vedute di Roma e delle Antichità romane contribuì in modo determinante a delineare una nuova concezione dell’Antico, anche in rapporto al pubblico colto che intraprendeva il Grand Tour pronto a cedere alla fascinazione nei confronti delle autorevoli vestigia del passato. Tramite l’uso sapiente di prospettive scenografiche, di punti di vista ribassati, di accentuati contrasti chiaroscurali, Piranesi riportava di fatto in primo piano la questione dell’eredità culturale di Roma e la proponeva come una delle fonti imprescindibili della cultura europea. Tuttavia le sue vedute spesso erano percorse da piccole e agitate figure che si muovevano come smarrite o stupefatte al cospetto di tanta monumentalità: l’artista, per il loro tramite, pareva instaurare perfino una sorta di dialogo (per certi versi leopardiano ante litteram) tra la Storia e il Passeggere, tra i lasciti ieratici della grande storia antica e l’uomo-viandante che a cospetto delle vestigia di quella stessa vicenda secolare quasi attonito si interroga; e però da ultimo, con le sue Carceri così oscure e labirintiche, Piranesi stesso aprì la strada a una concezione assolutamente drammatica in cui l’Antico veniva sentito come oramai irrecuperabile alle soglie di una nuova epoca avviata verso altri e più inquietanti orizzonti. Nondimeno il regista Fritz Lang si ispirerà proprio alle Carceri piranesiane per delineare gli scenari di Metropolis (1927).
Anche nelle immagini di Elio Ciol c’è un riflesso, quasi inevitabile, delle vedute di Giovanni Battista Piranesi, ma è come un’eco lontana, un tributo d’arte, da estimatore, più che una consonanza di sensibilità. Il marcato e netto bianco e nero delle vedute archeologiche può ricordare il risultato della morsura nelle acqueforti (del resto, all’origine, la fotografia e quell’arte incisoria erano sorelle, figlie entrambe di Alchimia) tuttavia Ciol ben raramente adotta la dinamica e scenografica composizione diagonale (ad esempio si veda la foto della Basilica Occidentale a Tolemaide) tipica di tante incisioni di Piranesi e preferisce invece, per gran parte, una visione frontale, potremmo anche dire classica, da finestra prospettica albertiana: la linea dell’orizzonte è spesso alta per concentrare lo sguardo sulle vestigia antiche e l’attenzione si concentra sulla sovrapposizione di piani graduati in una profondità compressa piuttosto che sulla fuga dinamica delle linee, e dunque l’obiettivo grandangolare è usato con parsimonia, proprio per evitare l’enfasi, la retorica dei sublimi rapimenti e delle estatiche visioni; inoltre non vi è presenza umana diretta perché viene considerata implicita nel tessuto della storia di cui è stata artefice.
La concezione di Ciol in queste immagini rimane sempre realistica e però egli non si accontenta di cercare di riprodurre quella che comunemente si potrebbe dire la realtà, quanto piuttosto, attraverso il perdurare e il mutare delle sue forme visibili, di rendere percepibile qualcosa di più profondo, una sostanza di permanenza, forse anche di infinito in ogni manifestazione dell’uomo e della natura. Da qui deriva la sua particolare attenzione pure simbolica alla luce, elemento certamente essenziale di ogni fotografia, che tuttavia Ciol usa per dare unità alla visione pur evidenziando con precisione ogni dettaglio: e infatti le immagini realizzate con pellicola sensibile all’infrarosso, con i loro cieli oscurati, ci riportano sempre nella inevitabile dimensione storica, a stretto contatto con le opere dell’uomo o con ciò che di esse rimane in una tagliente e alta luce quasi zenitale.
Inevitabilmente in queste fotografie delle antiche città della Libia si fa strada comunque la poetica del frammento, del reperto ormai isolato dal contesto originario e approdato per diverse vie sulla battigia del nostro presente. Di certo la poetica del frammento parte da lontano (che cosa avrà voluto dirci Giorgione nella Tempesta con quella colonna spezzata in un brano all’apparenza di paesaggio?) e tuttavia è divenuta incalzante e stringente in epoche più recenti, dopo la caduta rovinosa di ogni concezione totalizzante, tanto che oramai per noi l’insieme delle conoscenze sembra prendere l’aspetto di un collage dadaista. Nelle immagini archeologiche di Elio Ciol il frammento assume allora il valore di una riflessione sulla vanitas, sulla caducità delle costruzioni umane, e più in generale sullo scorrere del tempo, ma lo fa con una consapevolezza visuale contemporanea. Nelle fotografie scattate a Cirene, ad esempio, le statue mozze e ormai senza volto paiono interrogarsi (e interrogarci) sulla fine traumatica di epoche che allora sembravano luminose ed eternatrici: come muse inquiete di un De Chirico inconsapevole dell’antichità, stanno ora a presidiare un vuoto, un’assenza, una cesura.
Tuttavia le vedute archeologiche, e specie queste delle antiche città della Libia, ci offrono pure un’indicazione assolutamente pregnante per il presente: ogni sito è caratterizzato da molte stratificazioni, ogni cultura ha lasciato il suo segno sovrapponendosi e integrandosi con le culture precedenti, e tra le fessurazioni traumatiche del tempo si è sempre insinuata una linfa vivificante di continuità, magari nascosta sotto la sabbia dei secoli. In fondo Elio Ciol evidenzia tutto questo per il tramite dell’insieme delle sue fotografie, ma più esplicitamente ce lo indica con le due immagini emblematiche scattate a Tripoli, in cui al di là delle antiche rovine compaiono le costruzioni della città moderna e si innalza un minareto: ancora una volta una sovrapposizione di piani prospettici sta per un legame tra i concetti, tra le considerazioni.
La Libia infatti rinascerà dalle macerie del presente quando le diverse culture sapranno convivere e armonizzarsi e quando, con le sue vestigia antiche ufficialmente già inserite dall’UNESCO nel Patrimonio dell’Umanità, starà davvero a cuore all’umanità. Solo allora anche la Venere di Cirene (la scultura marmorea del II secolo trafugata, restituita, misteriosamente scomparsa) potrà alla fine riapprodare alla sua terra, alla sua dimensione più autentica e ritornare ad essere il simbolo di una bellezza che supera il tempo e ci consola con una promessa di continuità, cioè di civiltà.