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ANNO XII - NUMERO 108 - FEBBRAIO 2005
Olympus E-300 AUTENTICA SVOLTA
Fotografia istituzionale L’ESTASI DELLE COSE
LUCIANO BOBBA
non è
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NEGAZIONI PLAUSIBILI «Che cosa rielabori?» «Messaggi. Discorsi. Notizie. Tutto quello che l’esercito pensa che dovremmo sapere sulla guerra. Per un po’ di tempo non ci sono state vittime americane, morivano solo i tedeschi. Adesso va meglio. Non si poteva continuare così all’infinito.» «Allora ti occupi della propaganda?» chiese Mills, incuriosito. «Non ho mai conosciuto nessuno che facesse questo lavoro.» «No, non si tratta di propaganda. Quella si basa sull’imbroglio o sulle storie inventate; Goebbels faceva così. Noi non inventiamo niente. Oggi sarebbe impossibile. Ci limitiamo a interpretare gli avvenimenti nel modo migliore possibile, perché la gente sia più serena. Perché non si scoraggi. Non parliamo di perdite pesanti, ma diciamo di avere incontrato una forte resistenza. Un’avanzata tedesca è un ultimo contrattacco prima della resa. Non esistono corpi smembrati o sbudellati, solo proiettili puliti. La popolazione dei villaggi francesi è felice di accoglierci, e questo è vero. Noi non vogliamo che i nostri bombardamenti aerei colpiscano niente e nessuno per sbaglio, e così è, infatti. L’esercito non è impegnato in nessuna operazione particolare nel New Mexico. Il Progetto Manhattan non esiste.» Joseph Kanon (da Los Alamos) VOLTI DALL’ANONIMATO. Dal sito www.washingtonpost.com, del celebre quotidiano della capitale statunitense, politicamente insospettabile (per quanto stiamo annotando), si accede a una directory che visualizza in tempo reale i volti e le biografie essenziali dei soldati statunitensi che muoiono in Iraq. Oltre le cifre, comunque sia astratte e anonime tanto da risultare irreali, si tratta di una concretezza che colpisce come un pugno nello stomaco. Dietro la guerra-che-non-c’è, non più e non solo statistiche, ma nomi, cognomi e facce (spesso sorridenti) che lasciano intuire dolori e storie individuali.
Lui vive in un mondo tutto suo, ma è sempre pronto a irrompere nel bel mezzo degli intendimenti convenzionali per dare uno sguardo acuto alla realtà e offrire giudizi sorprendentemente saggi. È felice di non vivere la propria vita secondo regole imposte da altri.
COPERTINA Un ritratto di Allen Ginsberg, poeta della Beat generation, è matrice di una articolata ricerca visiva realizzata da Luciano Bobba. La serie di interventi e interpretazioni arbitrarie rievoca una entusiasmante stagione letteraria e sociale. Ne riferiamo da pagina 33 (Urlo Bebop), con successivo collegamento ideale da pagina 38
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3 FUMETTO Antica Figurina Liebig, identificata come Bambino fotografa vasetto. Realizzata in quattro edizioni (con retro in francese, tedesco, inglese o spagnolo), sulla Guida Figurine e Menu Liebig di Sanguinetti (FOTOgraphia, dicembre 2004) è certificata come Serie 46 (soggetto B); è attribuita agli anni 1873-78, altrimenti definiti Secondo Periodo 7 EDITORIALE Non ci si fermi alle apparenze, in questo caso della presente edizione di FOTOgraphia. Oltre la consecuzione degli argomenti, che oggi rendono omaggio a figure scomparse, si valuti il senso della conoscenza: sapere per capire. Sempre e comunque
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8 L’ANNO CHE SE NE È ANDATO A parte i sentimenti e le vicende individuali, nel corso del 2004 sono venute a mancare significative figure della fotografia: Francesco Scavullo, Helmut Newton, Henri Cartier-Bresson, Carl Mydans, Eddie Adams, Richard Avedon, George Silk e Susan Sontag di Alessandra Alpegiani e Maurizio Rebuzzini 14 NOTIZIE Attrezzature, vicende e altre segnalazioni
18 CULTURE DA SPIAGGIA 27
Concluso nel 2001, anno in cui si è altresì segnalato al prestigioso World Press Photo, il progetto di Alessandro Albert e Paolo Verzone sulle spiagge d’Europa è allestito in una mostra a tema: Grandi Bagnanti
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21 UCRAINA IN TRANSIZIONE Reportage di Ignacio Maria Coccia che sottolinea le contraddizioni di una evoluzione sociale troppo rapida di Paola Riccardi
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. FEBBRAIO 2005
RRIFLESSIONI IFLESSIONI,, OSSERVAZIONI OSSERVAZIONI EE COMMENTI COMMENTI SULLA SULLA FFOTOGRAFIA OTOGRAFIA
26 AUTENTICA SVOLTA Efficaci prestazioni e pratiche soluzioni tecniche. La reflex digitale Olympus E-300 è significativa per se stessa e per le proprie proiezioni sul mercato di Maurizio Rebuzzini
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Gianluca Gigante
REDAZIONE Alessandra Alpegiani Angelo Galantini
FOTOGRAFIE Rouge
SEGRETERIA Maddalena Fasoli
HANNO
38 HO VISTO LE MIGLIORI MENTI 19
45 L’ESTASI DELLE COSE Mostra non fotografica, ma di fotografie, che sollecita un’ennesima riflessione sul potere e valore dell’immagine di Sara Del Fante
50 ALLA SCOPERTA DI MARCOS CHAMUDES
● FOTOgraphia è venduta in abbonamento ● FOTOgraphia è una pubblicazione mensile di Graphia srl, via Zuretti 2a, 20125 Milano. Registrazione del Tribunale di Milano numero 174 del Primo aprile 1994. Poste Italiane SpA - Spedizione in abbonamento postale - D.L. 353/2003 (convertito in Legge il 27-02-2004, numero 46), articolo 1, comma 1 - DCB Milano.
56 RAGAZZI DI VITA. IN RUSSIA Secondo allestimento italiano del reportage Karat Sotto il cielo di San Pietroburgo di Wolfgang Müller
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58 QUESTIONE DI ATTIMI 26
60 SECONDA GENERAZIONE
62 OFFERTA DIFFERENZIATA La configurazione Canon Eos 20D, da otto Megapixel, vanta caratteristiche di taglio alto, a partire dalla rapidità
65 MARIO GIACOMELLI Sguardi su un poeta della fotografia materica di Pino Bertelli
COLLABORATO
Karen Berestovoy Pino Bertelli Luciano Bobba Antonio Bordoni Elena Casero Sara Del Fante Franco Sergio Rebosio Ciro Rebuzzini Filippo Rebuzzini Paola Riccardi Antonella Simoni Zebra for You Redazione, Amministrazione, Abbonamenti: Graphia srl, via Zuretti 2a, 20125 Milano; 02-66713604, fax 02-66981643; graphia@tin.it.
Fotografo cileno, mancato nel 1989, che ha attraversato straordinari decenni con “consapevolezza storica” di Karen Berestovoy (traduzione di Elena Casero)
Evoluzione logica dell’originaria *istD, la reflex digitale Pentax *istDs ribadisce i princìpi base dell’efficace sistema di Antonio Bordoni
RESPONSABILE
IMPAGINAZIONE
Autore in procinto di dedicare alla propria capacità espressiva la totalità delle energie esistenziali, Luciano Bobba rievoca una stagione letteraria e sociale discriminante con una serie di interventi che modificano un ritratto di Allen Ginsberg, fino all’evocazione dell’Urlo di Alessandra Alpegiani
La fenomenologia della fotografia con telefonino è materia del periodico Makadam, la cui redazione ha compilato un mini-manuale Un attimo per cogliere l’attimo
DIRETTORE
Maurizio Rebuzzini
33 URLO BEBOP
La personalità fotografica di Allen Ginsberg, grande poeta statunitense che ha influito su generazioni
Anno XII - numero 108 - 5,70 euro
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ltremisura? È tutta una questione di punti di vista. L’editoria italiana è attraversata da un sottile filo scaramantico, che limita al minimo indispensabile le citazioni e i riferimenti alle persone scomparse, per lo più ricordate soltanto in stretto ordine temporale: poi, per il solito, cala l’oblio. Analogamente, il nostro paese ha scarsa memoria per i propri ricordi: una volta esauriti i riti di circostanza, le personalità che sono venute a mancare sono presto dimenticate. Quindi, stante la doppia premessa, l’attuale edizione di FOTOgraphia può apparire, come abbiamo subito annotato, “oltremisura”. Infatti, in sequenza di interventi redazionali ricordiamo oggi le personalità internazionali della fotografia scomparse nel corso dello scorso 2004 (che si aggiungono, ognuna per sé, agli affetti individuali venuti a mancare nello stesso periodo), il temperamento fotografico di Allen Ginsberg, poeta della Beat generation morto nel 1997, conseguente a un’azione creativa di Luciano Bobba, che -appunto- ne celebra la figura (rispettivamente da pagina 38 e 33), e, volendo puntualizzare, la fotografia del cileno Marcos Chamudes, altro autore scomparso. Come al solito, potremmo puntualizzare un sottile filo che collega questi argomenti, in un insieme in qualche modo omogeneo. Ma non è questo il problema, ammesso che di problema si tratti. Più concretamente, è invece opportuno ribadire che la memoria storica è un bene prezioso, cui non rinunciare mai, per nessun motivo: lo abbiamo appena sottolineato, nell’Editoriale dello scorso dicembre, per altri richiami e riferimenti. Così, nonostante le vistose apparenze, non è questo il reale filo conduttore, quanto -una volta ancora- ci preme annotare e far risaltare la passione per la conoscenza fotografica, senza limite né confine alcuno. Ci piace sapere, ma vogliamo anche capire: lo abbiamo già rivelato. Non sempre è la stessa cosa, a volte possono esserci differenze, ed è in questa direzione che confermiamo la personalità delle nostre pagine fotografiche. Hanno molto peso, in questa economia di fondo, tutte le componenti del discorso fotografico, osservate senza preconcetti (così speriamo, così ci auguriamo) e presentate nella trasparenza delle rispettive possibili sfumature. Quindi, l’autentica linea di collegamento e congiunzione non abbraccia tanto l’apparenza degli argomenti, quanto la sostanza del modo in cui vengono affrontati e analizzati: sia che si tratti di riflessioni sul linguaggio e sulla creatività applicata, sia che si tratti di passerelle tecniche. In definitiva il nostro stare assieme con queste pagine si misura nell’applicazione di idee e opinioni che di fatto abbattono i confini tra i diversi punti di osservazione: si arriva al lessico partendo dalla presentazione di apparecchi (o fingendo di farlo), così come, con percorso analogo, si inquadra e identifica l’apporto dell’applicazione tecnica quando si affronta il linguaggio espressivo. Sempre e comunque per quella curiosità che è voglia di sapere e capire. Non da soli, ma tutti assieme. Maurizio Rebuzzini
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Soprattutto la scomparsa di Henri Cartier-Bresson, mancato lo scorso 3 agosto, ha commosso il mondo fotografico, sollecitando celebrazioni. Tra le tante segnaliamo quella del periodico Leica World, che ha realizzato una copertina a dir poco emozionante.
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L’ A N N O che se ne è andato A
nno lungo di avvenimenti, il 2004, che è terminato lasciando il proprio carico di cronache passate: semi che germineranno in rinnovati potenziali o avvenimenti consegnati alla storia per sempre. Limitandoci al nostro territorio di riferimento, il 2004 ha passato alla storia il testimone di date che segnano importanti perdite per la fotografia, che si aggiungono -con la propria misuraalle personalità della letteratura, politica, spettacolo (e altro) che sono pure mancate nel corso dell’anno. Come un gioco bizzarro del destino (cadenza bisestile, annotano gli scaramantici), il 2004 ha registrato la scomparsa di numerosi e illustri nomi legati alla fotografia: senza ribadire i sentimenti vicini, cui ci siamo riferiti nel corso dell’anno, in cronaca, a titolo universale sette fotografi di fama in-
GEORGE SILK (1916-2004)
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er decenni nello staff di Life, nel casellario di Vanity Fair dell’inizio 2001 dei fotografi ultraottantenni, cui ci riferiamo nel corpo centrale dell’odierno intervento redazionale, George Silk (allora ottantaquattrenne) venne presentato con Gordon Parks (88 anni), Carl Mydans (93 anni) e Cornell Capa (82 anni). Insieme, i quattro furono fotografati da Michael O’Neill all’International Center of Photography di New York, il 20 giugno 2000. (Nota parallela, l’International Center of Photography è l’autorevole istituzione creata da Cornell Capa nel 1974: luogo di studio, esposizioni, riflessioni e considerazioni sulla fotografia contemporanea). In quell’occasione fu proprio George Silk il più indisciplinato dei quattro, che crearono non pochi problemi al ritrattista incaricato da Vanity Fair: «Dai, scattate, siamo seduti da un po’», brontolava spesso George Silk. «Quando ci rilasciate?!». Curiosamente, a differenza di tanti colleghi, George Silk non trova mai spazio nelle rievocazioni del fotogiornalismo, perché il suo campo d’azione fu la fotografia di sport, che in genere viene considerata quantomeno di serie inferiore. Però, se non esistesse questo preconcetto, la sua figura sarebbe di spessore, essendo lui stato pioniere di una stagione, inventore di infiniti stilemi rappresentativi, straordinario interprete sia delle azioni di gioco sia del dietro-lequinte. Chi ama il baseball (e ne conosciamo molti) non può che commuoversi di fronte ai suoi ritratti degli eroi di stagioni epiche. George Silk nei primi anni Cinquanta.
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Oltre i sentimenti e le vicende individuali, nel corso del 2004 sono venute a mancare significative figure della fotografia. Senza stabilire scale di valori, non possiamo ignorare, sopra tutte, le personalità di Henri Cartier-Bresson, Helmut Newton, Richard Avedon e Susan Sontag, cui si aggiungono i reporter Eddie Adams, George Silk e Carl Mydans e poi il fotografo di moda Francesco Scavullo
ternazionale (tre di loro, soprattutto) e la scrittricesociologa più nota nel mondo fotografico. In stretto ordine temporale, all’alba del 2004, la prima perdita è stata Francesco Scavullo, celebre fotografo di moda mancato a New York il 6 gennaio; a ridosso, il 23 gennaio Helmut Newton ha avuto un incidente automobilistico mortale, uscendo dal proprio albergo di Hollywood (curiosa coincidenza: 23 gennaio, esattamente quindici anni dopo il pittore Salvador Dalí). Ancora, pochi giorni prima di compiere novantasei anni, Henri Cartier-Bresson è mancato il 3 agosto; lo stesso mese, il 19 agosto, Carl Mydans si è spento nella propria casa di Larchmont (New York): tra i suoi numerosi reportage si ricordano le fotografie dal fronte del Pacifico della Seconda guerra mondiale, dalla celebre dello sbarco del generale Douglas Arthur MacArthur nelle Filippine (9 gennaio 1945) alla firma della resa dei giapponesi, sull’USS Missouri (2 settembre 1945).
Eddie Adams, fotoreporter consegnato alla storia della fotografia e a quella contemporanea dall’istantanea nella quale il generale Nguyen Ngoc Loan, capo della polizia di Saigon, uccide con un colpo di pistola alla testa un prigioniero sospetto Vietcong, è morto il 19 settembre; due settimane dopo, il Primo ottobre, la triste lista continua con Richard Avedon, straordinaria firma della moda con applicazioni fotografiche estese al ritratto e all’impegno sociale. Ultima segnalazione per George Silk, per trent’anni fotografo di Life, mancato a Norwalk (Connecticut) il 23 ottobre. Dopo i fotografi, a fine anno, il 28 dicembre è uscita di scena Susan Sontag, il cui nome è un riferimento per tutti quanti si occupano di fotografia. Folgoranti sono state le sue osservazioni e riflessioni sul linguaggio, i contenuti e i rimandi della fotografia, pubblicate su quotidiani e periodici non soltanto statunitensi e raccolte in edizioni li-
brarie (in Italia, segnaliamo le traduzioni di Sulla fotografia e Davanti al dolore degli altri, rispettivamente curate da Einaudi nel 1977, 1992 e 2004 e Mondadori nel 2003).
LONGEVITÀ (?) Casuale e inquietante, questa coincidenza del destino, che in alcuni casi rappresenta comunque una sorta di accadimento ineluttabile, è quantitativamente significativa. Pur nella comprensione di ragguardevoli età (soprattutto pensiamo ai novantasei lucidi anni di Henri Cartier-Bresson), otto figure internazionali di prestigio fotografico che vengono a mancare in rapida successione impongono una pausa di riflessione. Oggettivamente, il tono e le considerazioni sono oggi diverse da quelle con le quali, quattro anni fa, commentammo la longevità di grandi firme della fotografia, che allora avevano superato la soglia degli
SUSAN SONTAG (1933-2004)
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rotagonista indiscussa della scena intellettuale statunitense dagli anni Sessanta, Susan Sontag si è alimentata di tutto ciò che ha sollecitato la sua mente ricettiva; a propria volta, ciò che ne è uscito, elaborato e tradotto, ha nutrito di conoscenze, osservazioni e riflessioni le generazioni contemporanee, tanto da diventare un identificato punto di riferimento senza confini nazionali. Intellettuale di spicco, capace di passare con disinvoltura dal romanzo al saggio, dall’approfondimento all’annotazione rapida, sollecitata dalla cronaca, ha pubblicato su periodici internazionali. Dagli originari Stati Uniti è stata spesso ospitata anche sulle pagine dei quotidiani italiani, a partire dall’attenta La Repubblica, che non si è mai lasciata sfuggire le sue lucide testimonianze (un esempio, sopra tutti: a proposito delle fotografie dei figli di Saddam Hussein assassinati, Quando è la fotografia a decidere la nostra realtà, 28 luglio 2003; FOTO graphia, settembre 2003). Oltre il noto e ipercitato Sulla fotografia, che sottotitola Realtà e immagine nella nostra società, a proposito delle sue annotazioni sull’uso e significato dell’immagine -appunto- ricordiamo ancora il recente saggio Davanti al dolore degli altri, che indaga il legame con le immagini di guerra, pubblicato da Mondadori nel 2003, da noi annotato lo scorso ottobre. Susan Sontag è entrata simultaneamente nel mondo letterario, con i primi romanzi del 1963 e 1967, e in quello più ampiamente intellettuale, con un’originaria raccolta di saggi nel 1966. Come abbiamo annotato in diverse occasioni, si è particolarmente interessata al linguaggio fotografico, approfondendone i significati e le proiezioni sulla vita sociale contemporanea. Il ricordato saggio On Pho-
tography, che l’ha proiettata verso un vasto pubblico, non solo di addetti, è del 1973. Negli Stati Uniti e in numerosi altri paesi è stato ripetutamente ristampato in edizioni successive; in Italia, Sulla fotografia, Einaudi 1977, 1992 e recente nuova edizione 2004 nella collana della Piccola Biblioteca Einaudi - Nuova Serie. Compagna di vita della fotografa Annie Leibovitz, oltre la narrativa e saggistica Susan Sontag si è dedicata anche al teatro. In tutte le sue espressioni non ha mai mancato di farsi portavoce attiva di una motivata controcultura, estremamente e lucidamente critica sulle scelte ideologiche e politiche del suo paese. Il prestigio del pensiero di Susan Sontag le ha consentito di mantenere per tutta la vita una straordinaria trasversalità a ogni fenomeno culturale. Riprendiamo da Quando è la fotografia a decidere la nostra realtà: «Conoscere significa, innanzitutto, riconoscere. Il riconoscimento è la forma di conoscenza che oggi viene identificata con l’arte. Le fotografie delle terribili crudeltà e ingiustizie che affliggono la maggior parte della popolazione mondiale sembrano dire -a noi che siamo privilegiati e relativamente al sicuro- che dovremmo indignarci e desiderare che si faccia qualcosa per mettere fine a tali orrori. Ma ci sono anche fotografie che sembrano reclamare un’attenzione di tipo diverso. Nel caso di questo corpus di opere che continua ad arricchirsi, la fotografia non è una forma di invito alla mobilitazione sociale o morale, il cui fine è indurci a partecipare e ad agire, ma è un’avventura dello sguardo. Osserviamo, prendiamo nota, riconosciamo. È un modo più distaccato di guardare. È il modo di guardare a cui diamo il nome di arte».
La scomparsa di Susan Sontag, notizia di apertura di Liberazione del 29 dicembre.
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FRANCESCO SCAVULLO (1921-2004)
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iconosciuto come uno dei personaggi più incisivi negli anni della rivoluzione estetica, Francesco Scavullo ha esercitato una forte influenza nella fotografia americana di moda, determinandone uno stile che si è allungato nei decenni. Asciutto e ben definito nelle proprie rappresentazioni, ha interpretato con carattere il ritratto. Per testate internazionali ha fotografato lo star system, da Elizabeth Taylor a Grace Kelly, da Mick Jagger a Sting, Diana Ross, Madonna e tanti altri personaggi. Francesco Scavullo ha iniziato a occuparsi di fotografia da giovane, lavorando in un laboratorio di stampa. La sua attitudine all’immediata comprensione delle tecniche, unitamente alla passione per la fotografia, lo hanno portato nello studio di Horst P. Horst, leggendaria figura della moda degli anni Cinquanta, per poi avviare la propria attività personale. Autoritratto di Francesco Scavullo; New York, 1948; Rolleiflex, pellicola Kodak Super XX, luce naturale.
ottant’anni. Riprendendo un casellario di Vanity Fair, nel marzo 2001 ci soffermammo sulle personalità fotografiche di Phil Stern, 81 anni, Arnold Newman, 82 anni, Henri Cartier-Bresson, 92 anni, Willy Ronis, 90 anni, Yousuf Karsh, 91 anni, Leni Riefenstahl, 98 anni, Helmut Newton, 80 anni, Gordon Parks, 88 anni, Carl Mydans, 93 anni, Cornell Capa, 82 anni,
George Silk, 84 anni, Ozzie Sweet, 82 anni, Ralph Morse, 83 anni, Slim Aarons, 80 anni, O. Winston Link, 85 anni, Lillian Bassman, 83 anni, Eve Arnold, 87 anni, e Joe Rosenthal, 89 anni. Rivedendo questo elenco, nel frattempo sono mancati alcuni nomi, e non potrebbe essere altrimenti, considerate le anagrafi prese in considerazione. Oltre i già ricordati Henri Cartier-Bresson, Helmut Newton, Carl Mydans e George Silk, appunto scomparsi nel corso del 2004, registriamo ancora le morti di Yousuf Karsh (13 luglio 2002, a 93 anni), Leni Riefenstahl (8 settembre 2003, a 101 anni) e O. Winston Link (20 gennaio 2001, a 86 anni: in ricordo del quale segnaliamo la costituzione dell’O. Winston Link Museum a Roanoke, in Virginia, dove sono raccolte, conservate ed esposte le sue affascinanti fotografie di treni e locomotive).
STRAORDINARI MOMENTI Sembra cinismo, ma non è la morte fisica che piangiamo o rimpiangiamo, considerato che non siamo emotivamente coinvolti; piuttosto, ci chiama in causa quello che queste personalità fotografiche hanno rappresentato, e quello che ancora avrebbero potuto trasmettere -come insegnamento per il divenire- con la loro lucida capacità espressiva e analitica. Rappresentanti di un’era straordinaria, fotografi dagli anni Quaranta (almeno), ognuno di loro ha vissuto e fatto vivere (se non già creato) l’evoluzione della fotografia, dando impulso a una accelerazione espressiva e di linguaggio applicato senza pari, che -tra l’alto- è altresì coincisa (causa o effetto?) con una sempre maggiore flessibilità e immediatezza degli strumenti della fotografia. Non possiamo sottovalutare che molte delle personalità fotografiche che hanno attraversato i decenni del Novecento, indipendentemente dall’attuale riferimento alla loro scomparsa nel corso del
HELMUT NEWTON (1920-2004)
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iò che stiamo per annotare traspare dall’insieme delle fotografie di moda di Helmut Newton, definite da un’esplosiva formula di sesso e drammaticità teatrale, che -con ambiguità- sfiora il paradosso e l’ironia. Singole immagini come mini-storie, sintetiche e perfettamente concluse, sono la caratteristica peculiare di un lungo tragitto fotografico di invenzione libera e sfrenata. A questo punto, segnaliamo un aspetto poco noto della personalità fotografica di Helmut Newton (che qualcuno potrebbe considerare “evidente”), raccolto e riunito in una mostra a tema esposta alla Galleria Carla Sozzani di Milano nell’estate 2003. Yellow Press rivelò il particolare interesse di Helmut Newton per la fotografia giudiziaria, in relazione alla quale, in quell’occasione, ribadì la propria capacità di abile nar-
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ratore per immagini. Per anni, Helmut Newton ha ritagliato dai quotidiani e dalle riviste specializzate, come True Crimes e True Detective, le fotografie di eventi violenti, che spesso lo hanno ispirato per la messa in scena dei propri servizi di moda. Inoltre, nel novembre del 2002, Paris Match lo incaricò di seguire il processo che si stava svolgendo a Monaco contro Ted Maher, accusato di aver assassinato il banchiere Edmond Safra e la sua infermiera. Quei ritagli, conservati in un cassetto e interpretati, e la cronaca dei personaggi del processo hanno dato vita a un lavoro inquietante, confessione dell’interesse di Helmut Newton per i lati oscuri della personalità. Autoritratto di Helmut Newton, con modella e la moglie Alice Springs (con Rolleiflex); 1981.
EDDIE ADAMS (1933-2004)
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Adams ha raffigurato soltanto un’azione di guerra, per tanti versi (nessuno dei quali noi sottoscriviamo) addirittura legittima. Ho conosciuto Eddie Adams alla fine del 1992. Abbiamo trascorso una piacevole serata newyorkese a parlare di fotografia. A una condizione: che non si tornasse a quell’immagine, che ha/aveva condizionato la sua esistenza. Tanto è vero che, per liberarsi dai propri fantasmi, Eddie Adams aveva cambiato completamente personalità professionale. Da tempo si dedicava all’illustrazione redazionale, e in quell’occasione mi regalò una cartolina ricavata da una sua fotografia: Clint Eastwood di spalle, con soprabito lungo e pistola, immagine simbolo di Gli spietati, interpretato e diretto appunto da Clint Eastwood (dai tempi di Sergio Leone, cult generazionale). M.R.
ome abbiamo ricordato in diverse occasioni, a questa precedenti, la fotografia di Eddie Adams del generale Nguyen Ngoc Loan, capo della polizia di Saigon, che uccide un prigioniero sospetto Vietcong con un colpo di pistola alla testa, in mezzo a una strada, è una delle immagini epocali del Novecento. Nella ipotetica rappresentazione delle guerre moderne, sta in compagnia con la bambina che fugge bruciata dal napalm, della quale ci siamo ampiamente occupati lo scorso dicembre. A differenza, per due motivi questa di Eddie Adams non ha influito sulle prese di posizione contrarie alla guerra. Il primo, di ordine temporale; la fotografia è del 1968 (Premio Pulitzer per il giornalismo nel 1969), anno in cui la guerra in Vietnam non aveva ancora sollecitato sostanziosi dubbi nazionali e internazionali. Il secondo è di ordine oggettivamente soggettivo: in fondo, pur nella crudeltà del gesto, la fotografia di Eddie
2004, hanno assistito o favorito o determinato o sollecitato innovazioni tecnologiche, che non sono solo tecniche, ma hanno influito sul lessico della fotografia, quali il piccolo formato 24x36mm, il flash portatile, la diffusione di massa degli apparecchi, lo sviluppo immediato polaroid, la crescente sensibilità delle pellicole e tanto altro ancora, senza dimenticare la gestione delle immagini, a partire dalla loro trasmissione a distanza (per la prima volta realizzato dal sistema Wirephoto, simbolicamente avviato dall’Associated Press il Primo gennaio 1935; FOTOgraphia, novembre 1998). Per tre generazioni consecutive questi fotografi hanno dominato la scena internazionale. Quando la morte è sopravvenuta, alcuni erano ancora impegnati in progetti nuovi, capaci di rappresentare ancora (e sempre) un riferimento primario nel linguaggio espressivo e visivo.
INFLUENZE E RIFERIMENTI Alla luce delle coincidenze del 2004 sorge spontanea soprattutto una riflessione. Per quanto la scomparsa di un “grande” della storia porti sempre con sé scompiglio e impressione, lasciando un destabilizzante vuoto di riferimenti (o almeno si teme che lo lasci), quando -come in questa occasione- sono in tanti a scomparire in così breve tempo, il senso di spiazzamento è moltiplicato. Ognuno per sé valuti il proprio “vuoto”, ma non lo ignori: perché è naturale prevedere altre perdite e temere di rimanere sprovvisti di modelli di riferimento. In aggiunta, dobbiamo valutare anche i momenti storici, che hanno proiettato i propri contenuti in avanti, fino a raggiungere la nostra attuale vita e offrire le certezze sulle quali edifichiamo i concetti fotografici dei nostri giorni, certi o incerti che siano. Riferendoci ancora alle personalità che ci hanno lasciato nel corso del 2004, non possiamo sottovalutare come e quanto loro abbiano agito in tempi, diciamo così, culturalmente favorevoli. Ovvero, in tempi nei quali hanno avuto convenienti
Clint Eastwood nell’immagine simbolo del film Gli spietati ( Unforgiven, 1992); fotografia di Eddie Adams.
HENRI CARTIER-BRESSON (1908-2004)
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ell’ambito dei propri Sguardi su, lo scorso maggio 2004 Pino Bertelli ha commentato anche la personalità cinematografica di Paul Strand. Nel ricordo di Henri Cartier-Bresson rileviamo oggi un’analoga esperienza. Riprendiamo da I grandi fotografi e il cinema di Maurizio G. De Bonis, pubblicato in CineCritica dell’aprile-settembre 1996. «Il cinema fu una delle grandi passioni di Henri Cartier-Bresson: il suo primo film risale al 1937, anno in cui girò Return to Life, un documentario sulla guerra civile in Spagna. Del 1945 è invece Le retour, altro documentario sul ritorno dei prigionieri francesi provenienti dai campi di concentramento nazisti. «Ma l’aspetto particolare delle attività cinematografiche del fotografo transalpino riguarda soprattutto il suo lavoro di assistente alla regia di uno dei maggiori cineasti francesi: Jean Renoir. In ben tre occasioni, Henri Cartier-Bresson è stato infatti collaboratore dell’autore di La grande illusione: in La vie est à nous (1936), film di propaganda com- La scomparsa di Henri Cartier-Bresson in prima pagina missionato a Renoir dal del Manifesto del 5 agosto. Partito comunista francese, in Une partie de campagne (1936), mediometraggio tratto da una novella di Maupassant, e in La règle du jeu (1939), uno dei capolavori della cinematografia europea. In particolare, nel secondo e nel terzo film Henri Cartier-Bresson sostenne anche due piccolissime parti. In Une partie de campagne è possibile vederlo nei panni di un giovane prete che passeggia in campagna, mentre in La règle du jeu, la sua partecipazione è decisamente più significativa. Lo ritroviamo, infatti, nel ruolo del maggiordomo di uno degli invitati alla battuta di caccia organizzata dal marchese Robert La Chesnaye nella sua proprietà. Renoir regala all’amico-assistente addirittura alcune inquadrature specifiche, tra cui un piano ravvicinato, in cui recita alcune brevi battute (durante il pranzo del personale di servizio)».
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CARL MYDANS (1907-2004)
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fficialmente meno noto al grande pubblico, rispetto altri nomi e personalità che oggi commentiamo, Carl Mydans ha attraversato straordinarie stagioni del fotogiornalismo e della fotografia statunitense di documentazione: veterano di Life, in gioventù fece anche parte del qualificato gruppo di fotografi della Farm Security Administration. Oltre le sue immagini, recentemente raccolte dal sito www.digitaljournalist.org in una appassionante carrellata cronologica (da andare a vedere!), Carl Mydans fu attento osservatore del costume sociale della fotografia. Come abbiamo già riferito (in FOTOgraphia del marzo 2001), ma la ripetizione è opportuna, Carl Mydans ha avuto modo di sintetizzare abilmente la condizione della fotografia e dei fotografi nei decenni. «Ne- Carl Mydans nel 1943, gli anni Trenta», ha osservato, «nessuno considerava be- dopo il suo internamento a Shanghai, ne la professione del fotografo. Uno scrittore era impor- prigioniero dei giapponesi.
spazi, modi e opportunità, che hanno consentito un infinito dilatarsi di milioni di possibilità espressive, ognuna propulsione per un’altra nuova. Quale è stato, allora, il segreto dello spirito dei tempi? Era tutto ancora da scoprire? Tutto ancora intero? Era l’essenza dell’epoca? Agendo per se stesso e in sintonia con un non codificato “movimento”, ognuno di questi grandi maestri è stato te-
RICHARD AVEDON (1923-2004)
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oco o nulla da aggiungere alle qualificate e dotte ricostruzioni stilate in occasione della scomparsa di Richard Avedon, piuttosto che scritte in accompagnamento alle sue mostre e alla pubblicazione delle sue monografie. Forse, per alleggerire il tono, si potrebbe ricordare ancora che Richard Avedon fu consulente per il film Cenerentola a Parigi di Stanley Donen (Funny Face, Usa 1957). A parte il ruolo ufficiale, e oltre le fotografie di moda di Richard Avedon che scorrono sui titoli di testa, non è difficile individuare una certa simbiosi tra il fotografo di fantasia del film, Fred Astaire nei panni di Dick Avery, e lo stesso Avedon. Ma questo sarebbe poco. Quindi, è più giusto annotare che quella di Richard Avedon è una delle più complete e complesse figure della fotografia del Novecento, ricca di influenze ed esperienze, di ispirazioni e invenzioni, di richiami e atteggiamenti su cui ci auguriamo qualcuno possa fare ordine e resoconto. Tra l’alto, l’annotazione non è certo secondaria, così come Lee Friedlander ha scoperto e esaltato la personalità fotografica di E.J. Bellocq e come la fama (postuma, purtroppo) di Eugéne Atget si debba all’intervento di Berenice Abbott, Richard Avedon ha il merito di aver portato alla ribalta la fotografia di Jacques-Henri Lartigue. Prima pagina del francese Libération del 2 ottobre con l’annuncio della scomparsa di Richard Avedon.
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tante. Per tutti il fotografo era un mestierante che indossava abiti vecchi e teneva in tasca il tesserino di riconoscimento della polizia; si muoveva accanto a un aitante scrittore o giornalista, che lo esortava e indirizzava indicandogli ciò che avrebbe dovuto fotografare. Quando cominciò a essere pubblicato Life, anche agli occhi del grande pubblico, la fotografia divenne immediatamente una professione primaria. Persino clamorosa». Life è stata anche l’elemento discriminante della sua esistenza; Carl Mydans fu uno dei primi cinque fotografi dello staff. Come era la vita di tutti i giorni a Life? «Un grappolo di bombe che ti sveglia alle tre di mattina. Un leone che si infila nella tua automobile. Un giocatore di football che ti rovina addosso. Partenze improvvise per luoghi improbabili... E tanto altro ancora».
stimone del proprio tempo, adottando linguaggi espressivi diversi e imponendo una spiccata soggettività di vedere. Ognuno ha elaborato comunicazioni e stili individuali, ma di una forza espressiva tale da essere attuale tuttora. Meravigliose icone di un’epoca. Torniamo alla riflessione originaria. Dove qualcosa ha attecchito e germinato, non dovrebbe rimanere un vuoto: perché questo qualcosa scivola nel divenire e lo riempie di forme nuove e rinnovate, partendo dalla matrice e dalla memoria. Nel concreto, però, l’interruzione può effettivamente alimentare un timore legittimo: quello di rimanere orfani di tanta visione/sollecitazione. Oppure, al contrario, si può sperare che altri contributi nuovi si accodino a quelli precedenti. Certo è che lo svolgimento dei tempi attuali è quantomeno contraddittorio. Personalmente, non intravediamo possibilità; cioè oggi non riusciamo a vedere qualcosa di analogo a quanto il più recente passato ci ha donato. Speriamo di sbagliarci, speriamo di essere noi miopi. Altrimenti, è proprio vero che la scomparsa (anche fisica) di fantastici riferimenti è inevitabile segno della fine di un mondo che sta esaurendo la propria personalità originaria, per acquisirne una nuova, nella quale non ci riconosciamo. E che, comunque, personalità non è: al massimo è un suo surrogato, privo di anima. Sono certamente cambiate molte condizioni. La nostra è una visione anche storica, che non ha diritto di esistere in cronaca. Il giudizio è da proiettare avanti nel tempo, pur nella precisa e netta sensazione che i tempi attuali hanno nulla in comune con l’entusiasmo, la voglia di inventare, la capacità di discutere e mettersi in discussione che hanno caratterizzato i decenni passati. A parità di apparenze, e con una riconosciuta analogia di sapori e gusti, ammesso che così sia, percepiamo la differenza tra un manicaretto di alta cucina e la rapidità di quattro salti in padella. Non tutto è come appare. Alessandra Alpegiani e Maurizio Rebuzzini
TUTELA NAZIONALE. Dal Primo febbraio, i prodotti Konica Minolta non vengono più accompagnati dal CD multilingue relativo all’hardware, ma esclusivamente dal libretto di istruzioni nella sola lingua del paese dove il prodotto è posto in commercio e venduto. Inoltre, a tutela della corretta importazione, sulla confezione è applicato un adesivo olografico dedicato a ciascun paese, comprovante la regolare distribuzione, che dà altresì diritto alla copertura della garanzia internazionale. Nuova in Europa, l’iniziativa si propone di tutelare l’intera filiera commerciale della fotografia, recentemente minata da veicolazioni di mercato che stanno mal interpretando i regolamenti continentali, compromettendo sia la logica di impresa dei negozianti sia le effettive garanzie di impiego degli utilizzatori. Nella pratica, si tratta di un deterrente che evita acquisti di prodotti non regolari, sia in altri paesi sia attraverso la rete Internet. Nello specifico, le istruzioni (la cui compilazione è garantita dal distributore nazionale, che ne possiede tutti i diritti) sono sempre più indispensabili per capire il funzionamento e il corretto uso di apparecchi tecnologicamente molto avanzati. I prodotti senza libretto di istruzioni nella lingua del paese dove la merce è in circolazione e privi di etichetta “nazionale” sulla confezione non sono ritenuti prodotti regolari. In aggiunta, il distributore Rossi & C, oltre i canoni internazionali, estende a due anni la garanzia dei prodotti Konica Minolta commercializzati in Italia. (Rossi & C, via Ticino 40, 50010 Osmannoro di Sesto Fiorentino FI).
VISORE MULTIMEDIALE. Come precisa l’identificazione ufficiale, Epson P-2000 Multimedia Storage Viewer è un visore multimediale portatile che permette di memorizzare e gestire fotografie, filmati e musica in formato digitale e di riascoltarli o rivederli ovunque. Evoluzione del
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precedente Epson Photo PC P-1000, è dotato di monitor da 3,8 pollici TFT in polisilicio a bassa temperatura con tecnologia Epson Photo Fine, che offre alta definizione e qualità di immagine alla risoluzione di 212ppi. Munito di hard disk da 40Gb, il visore permette il salvataggio di fotografie, filmati e file musicali realizzati con apparecchi digitali e videocamere portatili. Può anche assolvere la funzione di unità di memorizzazione portatile per qualsiasi file da piattaforme computer Windows o Apple (Mac). Con batteria da tre ore, è due volte più veloce del suo predecessore e compatibile con i file in formato RAW degli apparecchi digitali Nikon e Canon e della nuova digitale Epson R-D1 (FOTOgraphia, maggio 2004, ora distribuita da Nital; FOTO graphia, novembre 2004). Epson P-2000 Multimedia Storage Viewer offre considerevole funzionalità, ed è indirizzato sia ai fotografi dilettanti sia ai professionisti. (Epson Italia, via Viganò De Vizzi 93-95, 20092 Cinisello Balsamo MI).
TRASPORTO SICURO. L’offerta fotografica di Bogen Imaging, particolarmente attenta anche alle componenti complementari, si arricchisce di una nuova rappresentanza. La linea di borse e accessori Kata Global Digital Collection delinea una gamma di soluzioni appo-
sitamente progettate per le attrezzature fotografiche. Un’estetica grintosa e inconfondibile identifica immediatamente questi nuovi prodotti, la cui non convenzionalità si combina con prestazioni di taglio alto. Costruite in materiali tecnologici termoformati leggeri, antishock e idrorepellenti, le borse Kata si qualificano per un design ergonomico e modulare e per una ottimale distribuzione dei pesi. Ancora, si segnala una adeguata protezione delle attrezzature trasportate, isolate sia da sbalzi termici sia da dannose infiltrazioni di polvere e umidità. A seguire, protezioni aggiuntive antipioggia e antisurriscaldamento si abbinano alla sagomatura di interni antistatici, antigraffio e antisporco. In particolare, le borse Kata sono indirizzate al trasporto e protezione di attrezzature digitali, spesso penalizzate da esigenze più stringenti delle dotazioni fotografiche tradizionali, per quanto riguarda la protezione da urti, agenti atmosferici, sbalzi termici ed elettricità statica. Sono previste soluzioni specifiche, tutte qualificate da un utilizzo pratico e immediato. Sotto questo aspetto è esemplare il sistema Eph (Ergonomic Photo System), che offre la massima sicurezza e versatilità fondendo il concetto di borsa con quello di gilet fotografico. (Bogen Imaging Italia, via Livinallongo 3, 20139 Milano).
QUINTA GENERAZIONE. La super compatta digitale Fujifilm FinePix F10 Zoom è dotata di sensore CCD di quinta generazione, con risoluzione di sei Megapixel, che si combina con la tecnologia proprietaria Real Photo e una estesa selezione di sensibilità Iso equivalenti. Il super CCD HR di quinta generazione da 6,3 milioni di pixel effettivi prosegue il cammino tecnologico intrapreso da Fuji per acquisizioni digitali incise e dai colori puliti e brillanti. In combinazione, la nuova tecnologia Real Photo è indirizzata a risul-
tati di classe alta: soprattutto in abbinamento all’elevata sensibilità disponibile consente di registrare ogni dettaglio dell’immagine senza interferenza di rumore. Infatti, e nel concreto, oltre la risoluzione del sensore, la sensibilità è una delle caratteristiche che maggiormente influiscono sulla resa fotografica: la compatta digitale Fujifilm FinePix F10 Zoom offre un’escursione estesa 80 a 1600 Iso (equivalenti), ereditata dalle dotazioni tecniche proprie e caratteristiche di configurazioni professionali. Inoltre, la tecnologia Real Photo influisce anche sulla prontezza di risposta dell’apparecchio: velocità di scatto e di accensione, anche nelle condizioni più difficili. Quindi, la variazione 3x dello zoom ottico, con risposta visiva equivalente all’escursione 36-108mm della fotografia tradizionale 24x36mm, riferimento sempre d’obbligo, si abbina all’ulteriore moltiplicazione possibile dello zoom digitale 6,2x, per un ingrandimento totale di 18,5x. Infine, annotiamo che la compatta digitale Fujifilm FinePix F10 Zoom, con alimentazione efficace ad alta autonomia energetica (fino a cinquecento scatti con una sola ricarica), dispone di un ampio e luminoso monitor LCD da 2,5 pollici, provvisto di controllo automatico delle impostazioni di luminosità. In questo modo è possibile scattare e rivedere le fotografie in maniera estremamente nitida, anche in ambienti scarsamente illuminati piuttosto che in pieno sole. (Fujifilm Italia, via dell’Unione Europea 4, 20097 San Donato Milanese MI).
ALTA LUMINOSITÀ. Progettati per l’uso con reflex tradizionali 24x36mm e reflex digitali, gli obiettivi universali della famiglia Sigma EX sono caratterizzati da generose aperture relative, per
il solito costanti per l’intera escursione focale. È il caso, recente, dello zoom Sigma 1850mm f/2,8 EX DC, le cui prestazioni fotografiche sono assicurate da una combinazione ottica di quindici lenti in tredici gruppi comprensiva di una lente in vetro a basso indice di dispersione SLD (Special Low Dispersion) e due lenti asferiche, finalizzate a una correzione ottimale delle aberrazioni proprie e caratteristiche dell’inquadratura ad ampio angolo di campo. A seguire, il trattamento multistrato SML delle lenti (Super Multi Layer) riduce il flare e le immagini fantasma, che spesso affliggono le immagini digitali. Nel complesso, lo zoom offre un’ottimale correzione della caduta di luce ai bordi e un’alta incisione, anche ai lati dell’immagine, sia nella proiezione su pellicola fotografica sia nel percorso immagine verso sensori di acquisizione digitale di dimensioni inferiori al fotogramma tradizionale. Di costruzione compatta (84,1x74,1mm, per 445g di peso), lo zoom Sigma 18-50mm f/2,8 EX DC ha una scala di diaframmi che chiude fino a f/22 e una distanza minima di messa a fuoco da 28cm, con sistema di accomodamento interno, grazie al quale la len-
te frontale non ruota, permettendo l’uso del paraluce a petali (sagomato) e del filtro polarizzatore circolare. In montatura fissa Canon, Minolta, Pentax, Nikon e Sigma. (Mamiya Trading, via Cesare Pavese 31, 20090 Opera Zerbo MI).
DI TUTTI I COLORI. Ribadiamo i concetti espressi nell’ambito della relazione dalla Photokina 2004, riferiti lo scorso novembre. In particolare, confermiamo quell’idea di compatte digitali dal design appagante che soddisfino l’emozione di un pubblico potenzialmente ampio, plausibil-
mente nuovo ed estraneo alle identificazioni storiche della fotografia. Oltre l’efficacia delle funzioni di uso, e relative o corrispondenti caratteristiche tecniche, che pure si presume non manchino mai, questo potenziale cliente desidera oggetti “belli”, di dimensioni contenute. Per questo, il design e le finiture delle compatte digitali di più ampia fascia commerciale debbono essere gratificanti. È il caso, nel concreto, delle nuove colorazioni della compatta digitale Konica Minolta Dîmage X50, che confeziona le proprie prestazioni fotografiche in un corpo macchina particolarmente elegante e attraente. In totale sono disponibili cinque colorazioni: argento, rosso, nero, azzurro e grigio medio. Il tutto, in una configurazione sottile e leggera (solo 23,5mm di spessore e 125g di peso), con un sensore da cinque Megapixel, un ampio display da due pollici e un
obiettivo integrato con zoom 2,8x. Rapida alla risposta, con avvio in cinque decimi di secondo, la Konica Minolta Dîmage X50 è dotata di selezione automatica digitale del Programma in base al soggetto, che sceglie la modalità di scatto ottimale in relazione alle condizioni di impiego. La resa qualitativa si basa sull’applicazione della tecnologia CxProcess II, ed è prevista la modalità Super Macro, per inquadratura ravvicinata da sei centimetri. (Rossi & C, via Ticino 40, 50010 Osmannoro di Sesto Fiorentino FI).
AGGIUNTIVI OTTICI. Accessori dedicati, gli aggiuntivi ottici Cokin Magik-Phone incrementano o riducono il campo inquadrato degli obiettivi dei telefoni cellulari con funzioni fotografiche integrate. Due modelli: Super-Grandangolo (0,35x) e Tele (2x), che consentono di ottenere inquadrature, rispettivamente, più ampie oppure più ravvicinate del normale. Un sistema di fissaggio universale, con anello meccanico autoadesivo, facilmente collocabile, assicura la compatibilità con quasi tutti i modelli di telefoni cellulari con obiettivo integrato presenti sul mercato. (Fowa, via Tabacchi 29, 10132 Torino).
Billingham
CAMERA BAGS
Nella più rigorosa e raffinata tradizione britannica, nella scelta dei colori, dei tessuti e dei pellami, nella perfezione artigiana della loro fattura, giunge dal Regno Unito questa squisita collezione di borse. Nate, in primo luogo, per proteggere e trasportare attrezzature fotografiche, con uno stile unico e inconfondibile pur nella estesissima varietà di forme e dimensioni, modulabili con precisione maniacale per assecondare qualunque corredo. Sanno anche trasformarsi in un istante, in eleganti e capienti borse da viaggio tout court.
225 Dimensioni esterne L320 x P220 x A230mm Dimensione interne L305 x P150 x A190mm Peso 1,6 kg.
335 Dimensioni esterne L370 x P220 x A265mm Dimensione interne L355 x P150 x A220mm Peso 1,9 kg.
Hadley Original Dimensioni esterne L350 x P120 x A250mm Dimensione interne L320 x P70 x A225mm Peso 0,85 kg.
BILLINGHAM produce più di 50 tipi di modelli di borse. Per motivi di spazio vi proponiamo soltanto alcuni esempi. Se volete saperne di più, vi suggeriamo di consultare il sito www.billingham.com.uk oppure venite a trovarci nel nostro Show-room
445 Dimensioni esterne L420 x P220 x A315mm Dimensione interne L405 x P150 x A275mm Peso 2,2 kg.
Hadley Large Dimensioni esterne L380 x P120 x A300mm Dimensione interne L360 x P70 x A255mm Peso 1,45 kg.
106 Dimensioni esterne L280 x P180 x A230mm Dimensione interne L255 x P150 x A215mm Peso 1,2 kg.
555 Dimensioni esterne L470 x P220 x A315mm Dimensione interne L455 x P150 x A275mm Peso 2,5 kg.
Hadley Pro Dimensioni esterne L350 x P120 x A250mm Dimensione interne L320 x P70 x A225mm Peso 0,85 kg.
206 Dimensioni esterne L320 x P180 x A230mm Dimensione interne L300 x P150 x A215mm Peso 1,6 kg.
306 Dimensioni esterne L370 x P180 x A230mm Dimensione interne L355 x P150 x A215mm Peso 2 kg.
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CULTURE DA SPIAGGIA
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Lungo e consistente progetto, avviato nell’estate 1994 e realizzato in fasi successive, fino a raggiungere la propria completezza nel 2001. Oggetto e soggetto delle opere fotografiche che lo compongono sono ritratti di bagnanti sulle spiagge europee. Pur ambizioso, il riferimento all’opera di Cézanne Grandi Bagnanti, da cui il titolo della serie fotografica e della relativa esposizione in mostra, è efficace e significativo. In senso ampio è
esplicativo dell’intero progetto. Alessandro Albert e Paolo Verzone, che al proprio attivo hanno espressivi reportage realizzati dalla fine degli anni Ottanta (tra i quali segnaliamo Volti di Passaggio, raccolta di ritratti di cittadini moscoviti, scattati nell’estate 1991), hanno visitato spiagge europee, per riportare, impressa nelle proprie immagini, l’essenza di luoghi e culture diverse. Elemento portante dell’annotazione fotografica è la relazione
Spiaggia di Ibiza, Spagna; 2001.
Spiaggia di Helsinki, Finlandia; 2001.
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tra l’atteggiamento e le modalità con cui i soggetti posano davanti all’obiettivo e il proprio riflettersi nello spirito della società. Ne risulta un’indagine di costume: in una carrellata di ritratti europei, la spiaggia come spazio/tempo per carpire un’espressione di peculiarità di ogni luogo preso in considerazione. Il racconto si svolge in questa ristretta area tra mare e terra, così diversa da paese a paese, e allo stesso modo rappresentativa di come e quanto varia il modo di frequentarla da persona a persona. È un racconto di vita, un racconto di culture. Nell’arco di cinque estati, sono state fotografate tredici spiagge: Rimini e Brighton hanno dato avvio alla ricerca; si sono poi aggiunte Tylösand in Svezia e Nizza, e successivamente le spiagge di Neptune e Venus in Romania, Ibiza, Helsinki e Jurmala in Lettonia; infine, Gibilterra, Tarifa, Bolonia e
Spiaggia di Brighton, Inghilterra; 1994.
Los Caños de Meca in Spagna rappresentano gli ultimi capitoli del progetto. Il risultato, avvincente sia come qualità di immagine (realizzate in grande formato 4x5 pollici) sia per l’originalità del tema trattato, nel 2001 si è affermato al prestigioso World Press Photo Award nella sezione Portraits. Una significativa selezione è esposta a marzo alla Galleria Grazia Neri di Milano, la cui l’omonima agenzia rappresenta, insieme alla francese Agence VU (FOTOgraphia, giugno 2003) gli autori Alessandro Albert e Paolo Verzone. S.dF. Alessandro Albert e Paolo Verzone: Grandi Bagnanti. Galleria Grazia Neri, via Maroncelli 14, 20154 Milano; 02-625271 fax 02-6597839; www.grazianeri.com, fotoagency@grazianeri.com. Dal 10 marzo all’8 aprile; lunedìvenerdì 9,00-13,00 - 14,30-18,00, sabato 10,00-12,30 - 15,00-17,00. Con il contributo di Canon.
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UCRAINA IN TRANSIZIONE
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Indagata dall’obiettivo di Ignacio Maria Coccia, la capitale dell’Ucraina Kiev è oggetto di un delicato, quanto penetrante, reportage. Un paese e un’intera cultura stretti tra tradizione e innovazione, tra la persistenza di un passato sofferto, ma fortemente condiviso, e prospettive di futuro, all’insegna dell’accelerazione e del desiderio di omologazione, sulla rincorsa di un sogno tutto occidentale. Il lavoro di Ignacio Maria Coccia, raccolto in volume e mostra, si iscrive in una ben nota forma della fotografia documentaria, quella che richiama il ritratto di un paese. Il suo sguardo, comune denominatore di tanta fotografia di reportage degli
Visione simbolica, quasi a rappresentare due diverse modalità nel cambiamento: due ragazzi in un parco, uno cammina in linea retta, l’altro svolta a passo lungo.
ultimi quindici anni, si sofferma su un momento di transizione, volto a testimoniare un mondo in via di estinzione che sopravvive pur nel clima generale di rinnovamento. Memorabili, in questo senso, sono il concentrato servizio di Anthony Suau sulla Russia in transizione (in Italia: Oltre il Muro 1989-1999, Leonardo Arte, 1999) e il ritratto, delicato e consapevole, dei paesi balcanici di Klavdij Sluban (BalkansTransit, che illustra il libro di François Maspero; edizioni Seuil, 1997). Ciò che mi affascina in questo tipo di lavori, anche da un punto di vista storiografico, è il senso di finitezza della realtà che emanano, nel momento in cui rappresentano
istanti storici destinati rapidamente e senza appello a lasciar posto ad altro. Ho spesso la strana impressione di vederci in trasparenza figure evanescenti che scappano come inseguite. Sono simili alle fotografie dei dopoguerra. Questa fugacità è spesso colta dai fotografi meglio che da qualunque esperto in scienze sociali. È l’insostituibile talento della fotografia. Viene così offerta la rappresentazione di situazioni che sembrano intrappolate in una dimensione di eterna fissità, pur nella consapevolezza che presto avverrà la loro definitiva capitolazione. Si guarda a un vecchio e a un nuovo, che coesistono al mondo come bisnonno e nipote. È
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Piazza dell’Indipendenza: neon McDonald’s su un palazzo storico.
ben netta e visibile la distanza tra le consuetudini di sempre e la spinta collettiva al cambiamento. Documentando in modo pacato la quotidianità, le fotografie di Ignacio Maria Coccia rivelano proprio questa dualità di mondi. Gli scenari sono spesso scelti tra i luoghi del transito per eccellenza: strade, autobus, stazioni, ospedali. Questo clima è ben espresso da alcune immagini, a partire dai due ragazzi in un parco: uno cammina in linea retta su una traccia scura ben marcata, l’altro svolta più veloce e a passo lungo, quasi a rappresenta-
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re simbolicamente due diverse modalità nel cambiamento (a pagina 21). Un’altra fotografia ritrae una giovane donna con il capo coperto nelle Grotte ortodosse, tempio del culto ortodosso a Kiev, che appare come smarrita, persa su uno sfondo che sembra girarle attorno vorticosamente (qui sopra). Sono immagini che documentano non tanto la quotidianità dei gesti quanto quella degli stati d’animo. Lo scorrere del quotidiano è osservato in relazione al proprio impatto sul sentire collettivo. Il racconto sta in questo. Sullo sfondo,
(a sinistra, in alto) Verduraia nella sua bottega ai mercati generali. (a sinistra, al centro) Donna nelle Grotte ortodosse.
una città in rapidissima trasformazione; nella gente, sentimenti contrastanti; per molti, quasi per tutti, i problemi di sempre. La nuova stazione dei treni sembra una banca svizzera e il centro direzionale va assomigliando, per approssimazione, a quello delle città del primo mondo; ma l’ospedale maggiore di Kiev appare ancora quello di una piccola povera città e i bambini ammalati di leucemia sono curati a Chernobyl in strutture fatiscenti ai margini delle zone proibite. Orfani, tanti orfani, tra istituti e marciapiedi, la zavorra di servizi sociali inadeguati, una ancora forte e persistente devozione per l’ortodossia religiosa. Ma tra la gente, nella città, sbucano neon e grattacieli e i marchi occidentali si prendono come per beffa i palazzi storici della
In posa davanti a uno dei busti di Lenin, sopravvissuti alla nuova Russia. (a destra, in alto) Picnic al cimitero. (a destra, al centro) Guardaroba di un locale notturno con ritratti di jazzisti.
centralissima piazza intitolata all’Indipendenza. Un’indipendenza politica conquistata anche al prezzo di una dipendenza economica. Una fotografia scattata dal basso,
tra vetri e specchi, sembra sottolineare proprio la pericolosa ambiguità del processo (qui sopra). Scorrendo le fotografie, ritratti di miti americani del jazz campeggiano
nel guardaroba di uno dei locali più alla moda della città, trasgressione impensabile solo qualche anno prima (qui sopra), mentre una giovane ucraina posa in una stazione della metropolitana davanti a uno dei pochissimi monumentali busti di Lenin sopravvissuti in città (a sinistra). Le famiglie fanno picnic nei cimiteri, per stare vicine ai propri morti (in alto). Tra luci e ombre, il clima di recenti catastrofi è ancora nell’aria; ma nel sorriso dolce e giovane di una verduraia, in chiusura di giornata nella sua bottega ai mercati generali (pagina accanto, in alto), o nel guizzo di occhi neri di un’anziana scrittrice dal viso di matriosca, davanti al circolo dei poeti, si esprime tutta la voglia di trovare la forza per farcela, nonostante tutto. Paola Riccardi Ignacio Maria Coccia: Un paese tutto da scoprire. L’Ucraina. Palazzetto della Comunicazione, piazza Roma 7, 63100 Ascoli Piceno. Dal 15 al 31 marzo; 9,00-20,00, festivi fino alle 22,00. A seguire, la mostra verrà esposta a Genova, San Benedetto del Tronto AP e Barcellona (Spagna). Volume-catalogo con testi di Maxim Mauritsson e Paola Riccardi, pubblicato da Otium Edizioni (via Capitolina 1, 63100 Ascoli Piceno; www.otiumedizioni.com, info@otiumedizioni.com).
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R Nato con l’originaria Olympus E-1 spiccatamente professionale ( FOTOgraphia, luglio 2003), lo standard digitale QuattroTerzi sta percorrendo la costituzione di un autentico sistema fotografico. In questo senso, la nuova reflex Olympus E-300, indirizzata a un pubblico più ampio, pur disponendo di prestazioni di taglio alto, offre la concretezza di un secondo corpo macchina.
eflex digitale a obiettivi intercambiabili con esclusivo design e brillante interpretazione tecnico-formale, l’Olympus E300 offre infiniti spunti di osservazione e analisi, che non si limitano, né esauriscono, nella sola e semplice presentazione delle proprie caratteristiche e personalità. Per quanto il commento redazionale specifico, concentrato sull’apparecchio in quanto tale, sia doveroso e necessario (e non ne veniamo meno), vorremmo prima di tutto sottolineare altre riflessioni, che fanno la sostanziale differenza. Infatti, al di là di quanto l’Olympus E-300 offre alla ripresa fotografica con acquisizione digitale di immagini, la sua individualità proietta fantastici valori sull’intero mercato, animando -per quanto possibile- una qualificata serie di momenti ed eventi positivi. In un tempo tecnologico nel quale minimi ritocchi e accattivanti innovazioni, molte delle quali soltanto apparenti, sollecitano una corsa/rincorsa a ritmo vorticoso, magari utile in ambiti commerciali rivolti al più ampio pubblico (per il quale le configurazioni compatte, oggigiorno digitali, si alternano rapidamente: ma è un altro discorso), per la propria proiezione merceologicamente più alta Olympus sta scandendo successioni solide, per niente evanescenti.
SUL MERCATO Nell’ambito dell’efficace standard QuattroTerzi, avviato con l’originaria Olympus E-1 spiccatamente professionale (FOTOgraphia, luglio 2003), l’attuale reflex digitale E-300 propone la confortevole alta risoluzione di otto milioni di pixel nell’area commerciale dei circa mille euro, considerata e conteggiata come soglia di potenziale avvicinamento per un pubblico numericamente consistente e fotograficamente attento: tanto da poter replicare alcuni dei parametri
merceologici propri e caratteristici della fotografia reflex tradizionale dei decenni scorsi (con relativi indotti nei consumi conseguenti: obiettivi intercambiabili, accessori di uso e dintorni). Allo stesso tempo, pur indirizzandosi altrimenti, ma non è neppure detto, la nuova reflex stabilisce i connotati di un autentico sistema fotografico, appunto idealmente edificato a partire da una duplice configurazione di base: una reflex professionale (E-1) e un’altra che dice di non esserlo (E-300, che invece offre consistenze assai proficue anche nelle applicazioni della fotografia professionale). Dopo di che, il sistema digitale Olympus E si muove nelle consuete diramazioni tecniche dell’offerta di obiettivi intercambiabili, accessori dedicati e flash elettronici di comprovata efficacia. È quindi proprio il caso di parlare di autentico sistema, con opzioni di scelte individuali a misura delle proprie esigenze, visto e considerato che l’attuale nuova Olympus E-300 è effettivamente tale (nuova) e non semplice revisione superficiale e approssimata della reflex E-1 di origine. Cioè si tratta di una interpretazione consistentemente autonoma. In questo senso, è doveroso annotare subito l’aspetto niente affatto convenzionale del design, che acquisisce compattezza ed efficacia con una interpretazione reflex a dir poco ardita, in un corpo macchina di alluminio pressofuso. Soltanto a titolo di cronaca parallela annotiamo che il percorso al mirino di visione, alternativo alla proiezione sul sensore CCD di acquisizione digitale, ha debiti di riconoscenza con la genìa delle reflex mezzoformato Olympus Pen degli anni Settanta (FOTOgraphia, ottobre 2000, marzo e aprile 2003). E il rimando/richiamo conferma quell’attenzione al design e alle invenzioni fotografiche che hanno sempre connotato l’evoluzione tecnica dei progetti Olympus, nel cui ambito non si possono ignorare le straordinarie reflex OM di piccole di-
AUTENTICA Meglio e più concretamente (e decisamente) di altre variazioni su tema noto, le prestazioni e caratteristiche di uso dell’Olympus E-300 possono dare fantastico impulso all’intero commercio fotografico. Reflex digitale a obiettivi intercambiabili progettata e costruita senza risparmio, senza compromessi, senza compressioni (se non nelle dimensioni dell’efficace corpo macchina) e senza limitazioni effettive ha numeri da giocare sia per una propria penetrazione commerciale, sia a favore del mercato complessivo. Non c’è molto da capire o interpretare, basta considerare l’insieme delle prestazioni e l’efficacia delle soluzioni tecniche
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mensioni, che hanno stabilito fantastici primati tecnici e di impiego.
PER IL MERCATO In una chiave allargata, che fa rilevare anche quanto non è codificato, ma si manifesta con concretezza tra le pieghe delle quantificazioni ufficiali delle caratteristiche tecniche, la compattezza del design reflex dell’Olympus E-300 si trasforma in valore fondamentale, per tanti versi addirittura discriminante. Infatti, la semplicità di impiego e la straordinaria maneggevolezza ed ergonomia compongono una valida proposizione pratica, peraltro confermata dalla configurazione tecnica delle selezioni operative e dalla quantificazione di prestazioni di classe alta (ben superiore agli standard della fascia commerciale nella quale la reflex si inserisce ed è considerata). In un concetto diretto ed esplicito, l’Olympus E-300 è un apparecchio prosumer con caratteristiche e vocazioni squisitamente professionali. Per quanto sia lecito sottolinearlo, anche questo è un elemento aggiunto, che non si esaurisce nel proprio riferimento egoistico, ma si proietta sull’intero mercato fotografico, arricchito da una interpretazione capace di richiamare concrete attenzioni del
pubblico, sia sul marchio e prodotto in quanto tali, sia sull’intera proposizione di settore. E sappiamo tutti quanto il commercio fotografico abbia bisogno di attenzioni e sollecitazioni stabili, adatti a durare nel tempo. Con questo non vogliamo caricare l’attuale Olympus E-300 di responsabilità che non le competono: non è certo una soluzione assoluta, e neppure intende esserlo. Sicuramente, i numeri, le cifre e i valori dell’Olympus E-300, che definiscono la sua
Progetto digitale autenticamente autonomo, la reflex Olympus E-300 si inserisce nella fascia commerciale attorno i mille euro (zoom 14-45mm in dotazione), offrendo prestazioni fotografiche di classe superiore: a partire dal sensore da otto Megapixel.
SVOLTA 27
OLYMPUS E-300 Sensore CCD QuattroTerzi 17,3x13mm, Full Frame Transfer Risoluzione 8 Megapixel effettivi (8,15 milioni di pixel totali) Supporto di memoria Schede CompactFlash (Tipo I e II), Microdrive Protezione per la polvere Filtro Supersonic Wave (attivato a ogni accensione) Mirino Ottico, reflex di Porro; copertura 94 per cento; ingrandimento 1x (con la focale 50mm, all’infinito) Regolazione diottrica Da -3 a +1 diottrie Schermo di messa a fuoco Smerigliato Neo Lumicron Specchio reflex Con movimento laterale a ritorno istantaneo Informazioni nel mirino Punto di messa a fuoco (in sovraimpressione), Area di messa a fuoco, Blocco dell’esposizione, Indicatore di corretta messa a fuoco, Modalità di misurazione esposimetrica, Modalità di esposizione, Tempo di otturazione, Diaframma, Bilanciamento del bianco, Indicatore del valore di compensazione dell’esposizione, Flash, Indicatore del livello di carica della batteria, Modalità di registrazione, Numero di immagini in sequenza memorizzabili Profondità di campo Presente: funzione assegnabile al tasto Ok Autofocus TTL a rilevazione del contrasto Messa a fuoco AF Singolo e AF Continuo, con AF Lock; Manuale; Correzione manuale della messa a fuoco automatica (funzione personalizzabile) Campo di misurazione Da 3 a 17 EV (a 100 Iso) Area di messa a fuoco Tre aree di messa a fuoco, con selezione automatica o manuale Calcolo del punto futuro Sì, in modalità AF Continuo Sistema esposimetrico TTL a tutta apertura a tre aree Modalità di misurazione Digital ESP; Media a prevalenza centrale (da 2 a 20 EV, a 100 Iso); Spot (da 3 a 17 EV, a 100 Iso) Modalità di esposizione Automatica programmata con programma flessibile (Ritratto; Macro; Paesaggio; Riprese notturne; Sport); Automatica con priorità ai tempi di otturazione; Automatica con priorità al diaframma; Manuale Programmi di ripresa (Selezionabili da menu) Ritratto; Macro; Paesaggio; Riprese notturne; Sport; Paesaggio con ritratto; Riprese notturne con ritratto; Fuochi artificiali; Tramonto; Alte luci; Documento; Museo; Spiaggia e Neve; Candele Compensazione esposizione Fino a +/- 5 EV a passi di 1, 1/2 o 1/3 di EV Bracketing Tre fotogrammi a passi di +/- 1, 1/2 o 1/3 di EV Sensibilità (equivalente) Automatica: da 100 a 400 Iso Manuale: 100, 200 e 400 Iso, espandibile a 800 e 1600 Iso Otturatore Sul piano focale controllato elettronicamente; sincro flash a 1/180 di secondo; Super FP fino a 1/4000 di secondo Tempi di otturazione P, Ps: da 1/4000 di secondo a un secondo
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A e S: da 1/4000 di secondo a 30 secondi M: da 1/4000 di secondo a 30 secondi e posa B (fino a otto minuti) Programmi di ripresa e Programmi di ripresa selezionabili da menu: da 1/4000 di secondo a 4 secondi (in funzione della modalità selezionata) Autoscatto Con ritardo di 12 o 2 secondi Sequenza Circa 2,5 fotogrammi al secondo; RAW e Tiff quattro scatti; Jpeg (in funzione della risoluzione e della compressione) Bilanciamento del bianco Automatico, utilizzando il CCD; Manuale da 3000 a 7500 kelvin e a livelli preimpostati; quattro impostazioni personalizzate memorizzabili con la funzione “One Touch WB”; Bracketing del bilanciamento del bianco a tre immagini Software TruePic Turbo Spazio colore sRGB/Adobe RGB Monitor LCD Hyper crystal da 1,8 pollici (4,6cm), 134.000 pixel, copertura 100 per cento, regolazione luminosità +/- 7 livelli Visualizzazione Singola immagine; Zoom (da 2 a 10x); Indice (4, 9, 16 fotogrammi); Slide show; Rotazione immagine Informazioni visualizzabili Istogramma, Indicazione delle aree sovraesposte, Area di messa a fuoco, Modalità di esposizione, Modalità di misurazione esposimetrica, Tempo di posa, Diaframma, Livello di compensazione, Sensibilità Iso, Spazio colore, Modalità di bilanciamento del bianco, Lunghezza focale, Punto di messa a fuoco, Tipo di file, Livello del contrasto, Livello di nitidezza Informazioni sul monitor LCD Modalità di misurazione esposimetrica, Modalità di esposizione, Diaframma, Tempo di otturazione, Indicatore livello di esposizione, Indicatore del valore di compensazione dell’esposizione, Indicatore di compensazione dell’esposizione, Bracketing, Indicatore regolazione della qualità dell’immagine, Sensibilità Iso, Spazio colore, Monocromatico, hi/lo key, Compensazione del livello di saturazione del colore, Compensazione del valore della nitidezza, Bilanciamento del bianco, Bracketing del bilanciamento del bianco, Modalità riduzione rumore di fondo, Blocco della lettura esposimetrica, Modalità flash, Valore della compensazione flash, Modalità di messa a fuoco, Area di messa a fuoco selezionata, Modalità di scatto (singolo/continuo), Modalità di memorizzazione delle immagini, Numero di immagini memorizzabili, Numero di immagini in sequenza memorizzabili, Livello di carica della batteria Memorizzazione Dcf; Dpof compatibile; Exif 2.2 compatibile; Print Image Matching II compatibile File Jpeg, Tiff (RGB 8 bit), RAW (12 bit); RAW e Jpeg contemporanea Dimensione dei file RAW non compresso 13,5Mb circa (3264x2448 pixel); Tiff non compresso 23,3Mb circa (3264x2448 pixel); Jpeg SHQ 6,1Mb circa (3264x2448 pixel); e altre compressioni Jpeg PictBridge Compatibile Interfaccia USB mini B (per il trasferimento delle immagini e il controllo dell’apparecchio); uscita video NTSC o PAL Alimentazione Batteria ricaricabile agli ioni di Litio BLM-1 Dimensioni e Peso 146,5x85x64mm, 580g
appetibilità nel momento in cui arricchiscono l’intero mercato, sono tali da consentire l’avvio di una nuova frontiera del commercio fotografico (oppure, sarebbero tali). Non ci sono scuse: è una reflex digitale a obiettivi intercambiabili di straordinario valore, idonea ad accendere interessi e curiosità, puntualmente assolti e risolti per la completa soddisfazione del pubblico. Ma queste possibili e potenziali curiosità vanno poi coltivate e fatte maturare da coloro i quali, prima di tutti, sono in diretto rapporto con il pubblico consumatore. La sfida è avvincente, e per questo irrinunciabile.
OBIETTIVI L’Olympus E-300 è commercializzata in un kit di pronto uso con un semplificato zoom Zuiko Digital 14-45mm f/3,5-5,6, necessario per il doveroso richiamo commerciale (con prezzo complessivo di vendita prossimo a quei discriminanti mille euro: per i quali viene però offerta una interpretazione digitale di classe sensibilmente più alta). Non si tratta certo di un obiettivo da urlo, ma, più tranquillamente, di un obiettivo medio, buono per tutte le stagioni: efficace escursione focale, equivalente alla variazione 28-90mm della fotografia tradiziona-
le 24x36mm, e luminosità senza troppe pretese. Il sistema ottico Zuiko per fotografia digitale con sensore QuattroTerzi, che riprende la definizione delle leggendarie famiglie ottiche della fotografia reflex dei decenni scorsi, è quindi ricco di proposte di adeguata consistenza, grazie alle quali si possono affrontare impegni professionali. Nell’ambito delle interpretazioni a focale variabile vanno sottolineate le prestazioni di quattro zoom di alta personalità fotografica. Il più corto Zuiko Digital ED 7-14mm f/4 si muove nel solo ambito dell’inquadratura grandango-
Al solito, attorno l’ampio monitor LCD da 1,8 pollici (4,6mm), con copertura 100 per cento, sono concentrati i tasti di comando delle regolazioni preventive e delle funzioni passive della nuova reflex digitale Olympus E-300.
La compattezza del corpo macchina della reflex digitale Olympus E-300 si deve in modo particolare all’interpretazione della combinazione (appunto) reflex. Il definito percorso “reflex di Porro”, già adottato nei decenni scorsi dalla affascinante genìa delle Olympus Pen mezzoformato ( FOTOgraphia, ottobre 2000, marzo e aprile 2003), contribuisce altresì a un design accattivante oltre che ergonomico.
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FLASH DEDICATO
P
rogettato espressamente per la fotografia digitale, il nuovo flash elettronico Olympus FL-36 presenta un insieme di funzioni dedicate. In riferimento alla sensibilità di 100 Iso e alla focale 42mm del sistema digitale QuattroTerzi, equivalente al medio tele 85mm della fotografia tradizionale 24x36mm, esprime un Numero Guida 36 (quindi, Numero Guida 20 all’illuminazione allargata fino alla copertura dell’angolo di campo del grandangolare 12mm, equivalente all’inquadratura comparata 24mm). È utilizzabile in modalità TTL-Auto, automatica e manuale, e nell’uso segnala un significativo risparmio di energia. La parabola di emissione è orientabile nei due sensi, verticale e orizzontale, e l’area di illuminazione viene regolata automaticamente dalla selezione focale durante l’escursione focale con le reflex Olympus E-1 e E-300. Totalmente compatibile con la modalità esclusiva Olympus Super FP, il flash elettronico FL-36 può essere regolato per passi di 1/3 di Valore Luce. Infine, si segnalano le funzioni supplementari di riduzione occhi rossi, sincronizzazione sui tempi lunghi e sincronizzazione sulla seconda tendina.
Dedicato alle reflex digitali Olympus E-1 e Olympus E-300, il flash elettronico Olympus FL-36 offre un insieme di funzioni tecniche finalizzate alla combinazione con il sensore CCD QuattroTerzi. In particolare si segnala la compatibilità con la modalità esclusiva Olympus Super FP di sincronizzazione fino a 1/4000 di secondo, alternativa al sincro flash standard a 1/180 di secondo, proprio dell’otturatore controllato elettronicamente con tempi fino a 1/4000 di secondo.
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lare (equivalente all’escursione 14-28mm), con confortevole apertura relativa, costante per tutta la variazione; quindi, l’intervallo appena superiore, di visione grandangolare-standard, è coperto dallo Zuiko Digital 11-22mm f/2,8-3,5 (rapportabile a 2244mm); conseguentemente, si registra la proiezione verso la fotografia tele dello zoom Zuiko Digital ED 50-200mm f/2,8-3,5 (100-400mm), con costruzione compatta e adeguata apertura relativa. A completamento di gamma, che nel proseguo si arricchirà di altre interpretazioni, si segnala il nuovo disegno ottico Zuiko Digital 40-150mm f/3,5-4,5, il cui rapporto di ingrandimento 3,8x copre un’escursione focale adeguatamente tele, equivalente alla variazione da Olympus Zuiko Digital ED 150mm f/2 premio TIPA 2004 come Obiettivo di alte prestazioni: «Un fiore all’occhiello per la reflex digitale Olympus E-1 [e oggi, anche Olympus E-300], in grado di offrire una ottima focale tele effettiva abbinata a una straordinaria luminosità, impensabile a queste focali nel formato 35mm». La stessa giuria TIPA 2004 ha altresì premiato l’Olympus µ[mju] III 80 come Migliore compatta 35mm dell’anno e l’Olympus Camedia C-310 Zoom come Migliore compatta digitale di fascia economica dell’anno. A seguire, la giuria EISA 2004 ha premiato l’Olympus Camedia C-8080 Wide Zoom come Migliore digitale dell’anno.
80 a 300mm della fotografia 24x36mm Personalmente amiamo le focali fisse: la confessione è doverosa. E qui registriamo l’efficacia del macro Digital ED 50mm f/2, che declina nell’ambito dell’acquisizione digitale di immagini tutti i fantastici valori che nei decenni sono stati attribuiti agli obiettivi con messa a fuoco ravvicinata: oltre l’inquadratura (appunto) macro, resa qualitativa a dir poco superlativa. A seguire, non bisogna dimenticare che il sensore CCD QuattroTerzi, di dimensioni ragionevolmente inferiori a quelle del fotogramma 24x36mm, consente costruzioni ottiche di dimensioni decisamente contenute, senza sacrificare l’interpretazione focale e la combinazione con aperture relative particolarmente generose: Zuiko Digital ED 150mm f/2 (premio TIPA 2004; qui sotto) e Zuiko Digital ED 300mm f/2,8, rispettivamente equivalenti alle combinazioni 300mm f/2 e 600mm f/2,8 della fotografia 24x36mm (con costruzione meccanica considerevolmente compatta). Ricordiamo che tutti gli obiettivi digitali Zuiko del sistema Olympus E sono progettati per le migliori prestazioni delle reflex digitali che si basano sullo standard QuattroTerzi, con sensore 17,3x13mm (Olympus E-1 e Olympus E-300, al momento). Sono obiettivi disegnati sul princìpio della costruzione ottica telecentrica, ereditato da applicazioni scientifiche: che consente alla luce di raggiungere il sensore solido CCD con raggi pressoché perpendicolari alla propria superficie. È questo un requisito essenziale dell’acquisizione digitale di immagini, indispensabile per ottenere registrazioni dai colori perfetti, oltre che nitidezza e luminosità estese a tutto il campo. Assieme all’elevata risoluzione degli obiettivi, i raggi immagine paralleli, e perpendicolari alla proiezione, garantiscono che il sensore riceva i dati con la massima precisione, raggiungendo così il massimo delle proprie potenzialità tecniche. Quindi, come abbiamo appena sottolineato, una ulteriore sostanziale caratteristica discriminante dello standard QuattroTerzi consiste nelle dimensioni compatte e nel peso relativo degli obiettivi,
peraltro tutti di elevata luminosità relativa. Il sistema ottico Olympus E si completa, infine, con il moltiplicatore di focale 1,4x Zuiko Tele Converter EC-14 (compatibile con tutti gli obiettivi, sia a focale fissa sia zoom) e con il tubo di prolunga di 25mm Zuiko Extension Tube EX-25 (che non può essere usato soltanto dallo zoom Zuiko Digital 11-22mm f/2,8-3,5; con il 50mm Macro, ingrandimento massimo 0,98x, equivalente all’inquadratura al naturale 1:1).
PRESTAZIONI Fedele allo spirito che ha ispirato lo standard digitale QuattroTerzi e la progettazione e costruzione di ogni elemento, a partire dalla reflex originaria Olympus E-1, anche l’odierna reflex a obiettivi intercambiabili Olympus E-300 nasce senza compromessi e offre innovative interpretazioni. Sopra tutte, ricordiamo che viene confermato l’esclusivo sistema anti polvere, che risolve in maniera brillante uno dei problemi pratici che stanno assillando la costruzione delle reflex digitali a obiettivi intercambiabili: l’accidentale penetrazione di polvere all’interno del corpo macchina quando si cambiano gli obiettivi. Ereditato dalla E-1, il Filtro Supersonic Wave della configurazione Olympus E-300 provoca una vibrazione interna ultra veloce, che elimina dalla superficie del sensore polvere o altre particelle di sporco eventualmente depositatesi. La funzione Supersonic Wave si attiva automaticamente ogni volta che si accende la reflex, e, secondo necessità, può essere attivata anche manualmente dall’operatore. Quindi, sempre nell’ordine pratico delle considerazioni, non possiamo sottovalutare la praticità del menu di selezione e della visualizzazione delle impostazioni. In particolare, citiamo come la modalità degli automatismi dedicati “Scene” comprenda la presentazione dei parametri sui quali interviene, facendo così quasi scuola di fotografia: non solo parole vuote, ma esempi chiari e inequivocabili. Nel concreto, l’Olympus E-300 ribadisce i princìpi e le filosofie dello standard standard digitale QuattroTerzi, il primo ad essere effettivamente nato autonomamente, senza adattamenti da precedenti dotazioni fotografiche. Dopo di che, bisogna anche considerare che risultati di livello professionale non si ottengono solo grazie alla quantità dei pixel: molto dipende anche dalla capacità di gestirli, sia nelle fasi attive della memorizzazione e archiviazione in macchina, sia nelle fasi -assolutamente discriminanti- della postproduzione. Personalmente abbiamo avuto tra le mani esempi di straordinaria qualità formale (su libri o riviste, ma anche in stampa fotografica), ottenuti a partire da risoluzioni non esasperate; e viceversa. Per la propria garanzia di qualità, prima di vantare la risoluzione di otto Megapixel, bisogna rilevare che l’Olympus E-300 utilizza un sensore CCD Full Frame Transfer (FFT). Si tratta di un sensore specificamente progettato e costruito per l’acquisizione digitale di immagini in alta qualità. Paragonato al sensore interlacciato, il sensore CCD FFT di Olympus si
distingue per una più ampia area del pixel, con fotodiodi più grandi e trasmissione ottimale. Questo permette di elaborare più elettroni; allo stesso momento, è inoltre possibile ottenere un conveniente rapporto tra segnale e rumore, combinato a un’ampia gamma dinamica. Il risultato finale beneficia di una latitudine di esposizione più estesa, maggiori dettagli nelle aree immagine e una maggiore e conveniente riduzione del rumore di fondo. A favore delle prestazioni dell’Olympus E-300 ci sono molti fattori: tutti relativi ai personalismi di impiego che ciascuno realizza. A sfavore, se proprio si volesse sottilizzare, potrebbero esserci altrettanti fattori. Perché con l’acquisizione digitale delle immagini, più che con gli apparecchi fotografici tradizionali, o al pari?, conta soprattutto in mano a chi vanno a finire gli strumenti. In un complesso tecnico-tecnologico capace di straordinarie soluzioni, la differenza la fa sempre l’utilizzatore, che può esaltare ogni caratteristica e prestazione, sapendola mettere a frutto, o mortificare ogni superlativo, quando non riesce a sintonizzare le proprie intenzioni alle possibilità operative. Non è certo un problema o limite o plus dell’Olympus E-300, che oggettivamente offre più di quanto chieda (nella sottile relazione prestazioni-prezzo), ma che non può garantire soluzioni. Se proprio vogliamo osservare, è un problema o limite o plus dei nostri controversi tempi fotografici, ricchi di risposte tecnologiche ma impoveriti di richieste creative. Pausa di riflessione: si ritorni a dare al proprio impegno fotografico quel valore aggiunto individuale capace di fare le effettive differenze, senza demandare questo alla sequenza/sequela di caratteristiche tecniche. Maurizio Rebuzzini
I due nuovi zoom Zuiko Digital 14-45mm f/3,5-5,6 (in dotazione standard con la reflex digitale Olympus E-300) e Zuiko Digital 40-150mm f/3,5-4,5 sono interpretazioni ottiche proposte a costi di acquisto convenienti, capaci di richiamare un pubblico significativamente ampio. Entrambi di costruzione confortevolmente compatta, sul sensore Olympus QuattroTerzi 17,3x13mm Full Frame Transfer equivalgono, rispettivamente, alle escursioni focali 28-90mm e 80-300mm della fotografia 24x36mm.
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ome meglio identificare e rappresentare il poeta americano della Beat generation Allen Ginsberg, se non con un urlo? Dedicato/intitolato a Carl Solomon (amico del poeta, «grande surrealista, ebreo nostrano») Howl, in italiano Urlo, è appunto il titolo del poema scritto da Allen Ginsberg nel 1955, e pubblicato nel 1956, che più di altri gli ha valso quella notorietà rivolta a un pubblico internazionale, trasversale a più generazioni, che sopravvive con la forza propria di un’icona. Di questo, coerente con le opere qui commentate, ne riferiamo in un intervento redazionale consecutivo a questo, nelle pagine immediatamente seguenti, che presenta la personalità fotografica di Allen Ginsberg all’ombra del suo spessore letterario. Luciano Bobba, fotografo, ricercatore di materie espressive innovative, fa rivivere Allen Ginsberg in una forma visiva, attraverso il senso del suo poema. Ha usato un linguaggio propriamente fotografico per interpretare un pensiero. Si intitola, appunto, Urlo (continua a pagina 36)
In un momento esistenziale di trasformazione, passaggio, salto di confini, Luciano Bobba rivela la propria vocazione d’arte con una sequenza fotografica di grande spessore e palesi intendimenti. La serie di ritratti di Allen Ginsberg, modificati/interpretati nell’evocazione di una entusiasmante stagione letteraria e sociale, manifesta e anticipa un percorso d’artista che si annuncia promettente e luminoso
Ritratto di Allen Ginsberg dal quale ha preso avvio la trasfigurazione di Luciano Bobba che dà forma alla sequenza Urlo Bebop (doppia pagina successiva), allestita in mostra alla Galleria Il Torchio di Milano.
URLO BEBOP
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NOSTALGIA IN TIMES SQUARE
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iaggio nel cuore della Grande Mela sui passi della Beat generation. Si tende comunemente ad associare la Beat generation alla California, in primo luogo San Francisco e le mitiche scogliere di Big Sur. Se è vero che questi luoghi furono una meta prediletta dai Beat, nei loro viaggi attraverso gli Stati Uniti, è pur vero che fu New York City il polo d’attrazione di quei poeti, romanzieri, musicisti e pittori che tanto peso ebbero nel rinnovamento culturale dell’America degli anni Cinquanta e nella creazione di quell’immaginario bohémien e avventuroso, per molti aspetti tuttora affascinante. A New York, nei primi anni Quaranta approdarono i futuri scrittori Jack Kerouac (con Allen Ginsberg e Lawrence Ferlinghetti studente alla Columbia University), William Burroughs e Neal Cassady, figura carismatica che -soprattutto per Kerouac- divenne modello di vita. A New York nacque il jazz moderno: il bebop, che negli anni Cinquanta fu la colonna sonora ideale, aspra ed evocativa di una città dura e violenta, ma al tempo stesso attraente, ancora lontana dal poter essere considerata un’eventuale meta del turismo di massa. Metropoli futuribile per eccellenza, frenetica, scintillante e notturna, luogo d’avvio per esperienze estreme e inusuali aspirazioni. Certamente i Beat furono folgorati da quel magico contrasto tra luce e oscurità, in un luogo perennemente avvolto da un indecifrabile rumore di fondo, nel quale nascondersi era possibile esattamente come assurgere alla massima notorietà. New York è una città con una incredibile capacità di rinnovamento, ma
ripercorrerla alla ricerca dei luoghi che furono teatro di una delle esperienze culturali e di vita più intense del Novecento può essere un modo per coglierne sfumature inaspettate e per scoprire che all’ombra dei grattacieli qualcosa di quei giorni è rimasto. Molti esponenti Beat sono nati nell’area di New York: Allen Ginsberg, Gregory Corso, Lawrence Ferlinghetti, Diane Di Prima. Altri vi sono approdati nell’età della formazione, calamitati dai luoghi di provenienza più disparati: Jack Kerouac da Lowell, Massachussetts, Neal Cassady da Denver, William Burroughs da Saint Louis, Frank O’Hara da Baltimora, Herbert Huncke da Greenfield, Massachussetts. Attratti da New York come polo culturale e come centro cosmopolita per eccellenza, predilessero quei quartieri dove il calore della vita di strada, gli affitti bassi e l’intreccio multietnico contribuivano a creare quell’atmosfera elettrizzante, tuttora viva in molte zone della città. Le strade che circondano la Columbia University, nel quartiere di Harlem, alcune vie nelle vicinanze di Times Square e il Village, Tompkins Square e la Lower East Side, Chelsea; in ognuna di queste aree è possibile ritrovare qualcosa dello spirito Beat -le abitazioni, i jazz club, i bar, i teatri-, e ripercorrere un’epopea che ancora oggi conserva un fascino attuale e dirompente. Giorgio Lo Savio (dal volume-catalogo che accompagna la mostra Urlo Bebop di Luciano Bobba)
(continua da pagina 33) Bebop la mostra di Luciano Bobba esposta alla Galleria Il Torchio - Costantini Arte Contemporanea di Milano, dove viene proposto un avvincente e avvolgente percorso visivo realizzato dall’autore. Con la propria elaborazione concettuale, Luciano Bobba interpreta, sì, l’Urlo di Allen Ginsberg, ma ne fa occasione per rendere visibile l’urlo dell’uomo, quel grido universale che, salendo dal profondo di ogni essere umano, esprime un condivisibile senso di libertà, esasperazione, dolore, gioia, poesia o follia. Un urlo che ci appartiene profondamente, dunque, in cui ci possiamo ritrovare, riconoscere, consolare. L’ispirazione per la realizzazione di Urlo Bebop nasce a Venezia nel 1995, durante la visita alla mostra fotografica 108 Images di Allen Ginsberg: centootto fotografie, appunto, scattate dal poeta (che sono corpo e materia della selezione che proponiamo nelle pagine a seguire, cui ci siamo già riferiti). È in quell’occasione che Luciano Bobba incontra il “profeta” della Beat generation, e lo ritrae con la propria macchina fotografica. L’attuale sequenza/serie Urlo Bebop è stata costruita come successiva elaborazione mentale e, allo stesso tempo, materica di quel momento, che si concretizza ora in una mostra eloquente, coerentemente e simultaneamente statica e dinamica. La componente “statica” di Urlo Bebop è composta da dieci opere di grandi dimensioni su tela (95,5x135,5cm), che costituiscono un insieme in sequenza progressiva (che proponiamo nella doppia pagina precedente, nella riduzione forzata della presentazione redazionale/giornalistica, per propria natura lontana dall’impatto visivo degli originali in mostra). La concatenazione parte con una prima immagine: ritratto di Allen Ginsberg con minimo/marginale intervento sullo scatto fotografico originario (a pagina 33; un cui ingrandimento parziale è proposto sulla copertina di questo stesso numero di FOTOgraphia). A seguire, nelle nove tele successive, il ritratto è stato man mano modificato da Luciano Bobba, e trasfigurato in un’immagine astratta, fino a far coincidere il volto originario all’evocazione, o meglio, alla rappresentazione fisica dell’Urlo.
Il volto di Allen Ginsberg, il suo ritratto preso a pretesto di una condizione universale, nasce reale, materico, concreto, per diventare rappresentazione di un (ancora) universale simulacro interiore, immateriale, astratto. Infatti, le tele, realizzate con tecnica digitale nei toni profondi del blu notte e del nero, si allontanano via via dal figurativo per arrivare a una visione del tutto astratta, pur nella consistenza espressiva della fotografia. La parte dinamica dell’allestimento scenico della mostra, autentica istallazione, è invece costituita dalle stesse dieci immagini del progetto, questa volta visualizzate in un movimento che ripropone la trasformazione del volto di Allen Ginsberg attraverso una proiezione video. Questa visione è accompagnata da una melodia aspra, dai ritmi sincopati, che riprende i suoni del be-bop e del jazz moderno degli anni Cinquanta, interpretati dal sax di Guido Rolando, in arte Onsky. L’atmosfera è la stessa che si ritrovava nei reading dei mitici cantori Beat. Alessandra Alpegiani Luciano Bobba: Urlo Bebop. Il Torchio - Costantini Arte Contemporanea, via Crema 8, 20135 Milano; 02-58318325 anche fax; www.iltorchio-costantini.com, iltorchio@fastwebnet.it. Dal 4 al 26 marzo; lunedì 15,30-19,30, martedì-sabato 10,00-12,30 15,30-19,30. Ingrandimenti realizzati da Click Master di Roberto Tomasi (via Forcella 11, 20144 Milano; 02-89401950, anche fax; www.click-master.it, info@click-master.it); istallazione con videoproiettori Epson di ultima generazione. Volume-catalogo edito da Logos (via Curtatona 5j, 41100 Modena; 059-418700, fax 059-418789; www.books.it, commerciale@books.it); introduzione di Roberto Mutti; testi di Paola Calvetti, Lello Piazza e Giorgio Lo Savio (cui il libro e il lavoro sono dedicati: «All’amico Giorgio Lo Savio, amante dei Beat, che non è qui. È da qualche parte ma non qui»).
HO VISTO
LE MIGLIORI MENTI
O
tto anni fa, nel giugno 1997, all’indomani della scomparsa di Allen Ginsberg, mancato il precedente cinque aprile, riportammo un ricordo in chiave fotografica. Oggi, in occasione della ricerca espressiva di Luciano Bobba, commentata nelle pagine precedenti, torniamo alla figura del grande poeta, sottolineando una volta ancora la sua personalità fotografica. Quando evochiamo il ricordo di Allen Ginsberg, esponente di spicco della Beat generation scomparso nel 1997 a settant’anni, di preferenza l’istinto lo colloca nel novero dei poeti, anche se sono molteplici le sfaccettature della produzione artistica e letteraria che lo hanno contraddistinto, portandolo a esplorare meandri assolutamente complessi dell’intimo umano. Infatti, al pari di altri au-
«Ho visto le migliori menti della mia generazione distrutte da pazzia, affamate nude isteriche, trascinarsi per strade di negri all’alba in cerca di droga rabbiosa, hipsters dal capo d’angelo ardenti per l’antico contatto celeste con la dinamo stellata nel macchinario della notte [...]». Così inizia il lungo poema di Allen Ginsberg, Urlo (a Carl Solomon), al quale si richiama la ricerca espressiva di Luciano Bobba, pubblicata nelle pagine precedenti. A complemento, dal nostro punto di vista istituzionale, sottolineiamo qui la personalità fotografica del grande poeta statunitense, che ha influito su generazioni 40
questa diversa attività creativa (dal nostro punto di vista, privilegiata: siamo comunque una rivista di fotografia), non va messo in secondo piano il fondamentale peso culturale e sociale dei versi di Howl, appunto Urlo, che hanno guidato le visioni di molti, influendo sulla maturazione esistenziale di intere generazioni, a partire dalla metà degli anni Cinquanta, quando il poema fu pubblicato (presso la City Lights Books di San Francisco, casa editrice fondata e diretta dal poeta Lawrence Ferlinghetti).
LA FOTOGRAFIA tori/artisti/letterati della sua generazione di identiche scelte esistenziali, ciò che Allen Ginsberg ha inteso esprimere nella dirompente urgenza di quei decenni storici, all’indomani della Seconda guerra mondiale, è proprio l’indagine microscopica dell’io umano più profondo, portatore di disperazioni e disfatte, come metafora e specchio di un sistema sociale diventato ormai inadatto e obsoleto. Si intravede e riconosce tale bisogno comunicativo dell’artista nell’energia pulsante impiegata nei e con i propri mezzi espressivi, tra i quali campeggia con potenza la macchina fotografica, compagna e testimone della lunga stagione. All’indomani della scomparsa di Allen Ginsberg, in occasione della commemorazione, Fernanda Pivano ha annotato che «La passione per le fotografie lo coinvolse in modo tale che quando gli chiedevano di definire la sua professione non diceva più “poeta”, ma “fotografo”. Nelle sue note biografiche aveva aggiunto le mostre di fotografie in un elenco presto diventato più lungo di quello dei libri» (FOTOgraphia, giugno 1997). Nonostante il curioso desiderio di definirsi fotografo, piuttosto che poeta, dopo aver dato risalto a
La consapevolezza fotografica di Allen Ginsberg si data al 1985, quando Robert Frank (straordinario fotografo, mito e riferimento della cultura visiva contemporanea, autore dell’epocale The Americans; FOTOgraphia, dicembre 1999), valutando l’insieme degli scatti distribuiti nei decenni precedenti, ne sottolineò il valore. Insieme, Allen Ginsberg e Robert Frank stamparono tutte le istantanee che nel corso della propria vita il poeta aveva scattato in modo apparentemente disordinato. Soggetto preferito: i suoi amici e compagni di percorso, poeti, scrittori, artisti.
Allen Ginsberg a Benares, in India; primavera 1963 (fotografia di Peter Orlovsky con la Kodak Retina del poeta). William Burroughs nella propria cucina; autunno 1953. (pagina accanto, in alto) Jack Kerouac al Tompkins Park di New York; autunno 1953. (pagina accanto, al centro) William Burroughs a Tangeri; 1961. (doppia pagina precedente) Autoritratto di Allen Ginsberg in un albergo di Vilnius (Unione Sovietica); 18 novembre 1985.
ILLUSTRAZIONE
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uasi dieci anni fa, nel 1996, sull’onda lunga di una riproposizione delle riflessioni esistenziali della Beat generation, è stato pubblicato un saggio che approfondisce gli argomenti: The Beat Book - Poesie e prose della Beat generation, a cura di Anne Waldman, premessa di Allen Ginsberg, traduzione di Luca Fontana. La copertina è illustrata con una delle fotografie scattate da Allen Ginsberg, appartenente alla collezione raccolta nel volume Allen Ginsberg Photographs, cui ci riferiamo nel corpo centrale dell’odierno intervento redazionale. Siamo a Tangeri, in Marocco, a Villa Muneria, nel luglio 1961: insieme, l’inquadratura riunisce Peter Orlovsky, William Burroughs, Allen Ginsberg, Alan Ansen, Gregory Corso e Paul Bowles. Rispetto l’inquadratura originaria (qui sotto), in questa, tagliata ai lati per esigenza (?!) di messa in pagina, manca Ian Sommerville. Curiosità fotografica: William Burroughs ha in mano la Kodak Retina di Allen Ginsberg e, nella propria descrizione, il poeta afferma che Gregory Corso tiene la propria Minox alla catenella appesa alla camicia.
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COMPAGNI DI RITO
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ubblicata dalla californiana Twelvetrees Press nel 1990, la monografia Allen Ginsberg Photographs ha il pregio di presentare le fotografie unitamente a commenti manoscritti dello stesso Allen Ginsberg, che -immagine dopo immagine- si attarda nella descrizione di luoghi e fatti (per esempio, l’autoscatto della posa di ritratto nell’abitazione-studio newyorkese di Robert Frank, in Bleecker street, al Village, è comprensivo di considerazioni sull’uso da parte di
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Robert Frank della Polaroid 195 con pellicola positivo-negativo; in realtà non si tratta di un autentico autoscatto, ma di una inquadratura preparata da Allen Ginsberg con la sua Olympus XA e scattata da Peter Orlovsky; qui sotto). Il volume comprende una introduzione di Gregory Corso, brevi biografie dei personaggi fotografati da Allen Ginsberg e una postfazione intitolata A Commentary on Sacramental Companions
ome compagni artisti, i miei contemporanei e i miei amici, nelle fotografie dei primi anni Cinquanta, erano abituati a guardarsi l’un con l’altro come personaggi mitici o sacri in un mondo sacro; o non così tanto mitici quanto sarebbero apparsi se si fossero guardati come persone reali in un mondo realmente sacro. Ho scattato queste istantanee nel duplice intento di fissare immagini celestiali in un mondo sacro, e di tramandare nell’eternità momenti dove si respira la sensazione di una presenza sacra. La sacralità viene dalla consapevolezza della natura transitoria del mondo, e dalla consapevolezza che questa è la sola e unica occasione in cui noi saremo insieme. Questo è ciò che rende sacro il momento: la consapevolezza della mortalità, cosa che la poesia romantica di Keats esprime tanto quanto fa l’insegnamento buddhista. La parola “sacramental” è di Jack Kerouac, l’avevo usata già nel 1945. In cerca di una “New Vision”, ci guardavamo a vicenda come personaggi sacri o come compagni spirituali, come in Dostoyevsky. Nel buddhismo, la prima caratteristica o segno della vita è la sofferenza e la seconda è la transitorietà. La terza caratteristica è che non c’è un io permanente; siamo tutti dei “fantasmi vuoti”, per modo di dire; il mondo è ormai “cenere d’oro”, così come scrisse Kerouac. L’intensità di una fotografia deriva dal guardare indietro verso un momento evanescente in un mondo fluttuante. Come un distico della poesia A di Louis Zukofsky suggerisce Nothing is better for being eternal / Nor so white as the white that dies of a day [alla lettera: Niente è migliore per essere eterno / né così bianco come il bianco che muore di un giorno]. Potrebbe sembrare che io stia esagerando su questa natura sacra, ma noi ci siamo amati e ci siamo guardati l’un l’altro come se fosse un’unica e sola volta nell’eternità, e così ci siamo conosciuti ognuno come sacro. Quando l’arte di Jack Kerouac e quella di Robert Frank confluirono in The Americans [il libro fotografico cult di Robert Frank; FOTOgraphia, dicembre 1999], entrambi avevano iniziato con i loro soliti pensieri, senza cambiare il loro solito modo di pensare, e utilizzarono questa consuetudine come un mito sacro, al posto di creare un mito che non esisteva. Ho scattato per più di quarant’anni fotografie istantanee, sebbene per la maggior parte di quegli anni non avessi i mezzi o la conoscenza per stamparle in modo appropriato. Erano come i diari che scrivevo: quattro decadi di momenti illuminanti che io ho annotato. Io annoto molte cose, poi annoto ciò che ho annotato, e immediatamente o eventualmente posso riprendere un’immagine di questo, come nei diari scritti; osservazioni non realmente diaristiche, quanto intermittenti. Quando ho energia, prima di dormire posso scrivere una nota su una pagina di diario, come anche prendere la macchina fotografica. Vedo più di quanto io abbia la forza fisica di scrivere. Non si può fotografare tutto. L’iscrizione nel frontespizio di Collected Poems 1947-1980 è “Things are symbols of themselves” [Le cose sono simboli di se stesse]. Dunque, gli amici sono simboli di se stessi. C’è una mitologia, ma alla fine le persone sono solo se stesse. Essere se stessi in pratica, non hanno bisogno di essere “eroi”, di simbolizzare nessun altro, ma sono solo loro stessi, perché apparentemente non sono capaci di essere niente “di meglio”, mentre chiunque altro sta cercando di essere un Signore Distinto, uno yuppie o un potente milionario diffamatore. Alcuni dei termini qui usati sono formulazioni del defunto Venerabile Chög-
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(Un commento sui compagni di rito), trascrizione di una conversazione avvenuta tra Allen Ginsberg e Mark Holborn, pubblicata per la prima volta a New York, nell’inverno 1985, sul numero 101 di Aperture, la prestigiosa testata di analisi fotografica fondata da Minor White. Riprendendola da FOTOgraphia del giugno 1997, riportiamo la traduzione del testo, curata da Emanuela Sias.
yan Trungpa, Rinpoche, un maestro buddhista tibetano. In accordo con il pensiero taoista-buddista, c’è una triade: prima c’è il pensiero aperto, senza un nome convenzionale, come il Cielo o il Paradiso; poi c’è la percezione dell’ordinario, la Terra e ciò che è immediatamente circostante. Qualcosa è necessario per congiungere il Paradiso alla Terra: l’Uomo, colui che apprezza, terzo nella triade. Chi apprezza può manifestarsi con una osservazione veramente ironica, con un pensiero umoristico; o con una scoreggia o con un sospiro; con un poema, un haiku; o con una fotografia. Queste cose sono il sacramento. Le fotografie riconoscono il valore di caratteri, figure e volti nello spazio panoramico del tempo, come se fossero nell’eternità. Alcune di queste fotografie mostrano lo spazio letteralmente panoramico fuori dalla finestra della mia cucina o quello di Market street, a San Francisco, tempo fa; o il cielo sopra la fronte di Kerouac nel Tompkins Park [a pagina 40]; Phil Whalen che legge su una seggiola di fianco al lavandino; Burroughs di fronte a una sfinge nel mezzo del Metropolitan Museum of Art [pagina accanto], o con il suo cappello a Tangeri [ancora a pagina 40]; Jack nei suoi vestiti del 1953 su una scala antincendio; tutto il gruppo su un marciapiedi di fronte alla libreria City Lights; Gregory Corso sul boulevard Pasteur, a Tangeri, nel 1961; Burroughs, Paul Bowles, Corso e Alan Ansen nel giardino di Villa Muneria sotto un luminoso cielo mediterraneo [a pagina 41]. Ci sono particolari minuti e le fotografie conservano l’annotazione del loro posto nella storia; tempo, e spazio, anni a Tangeri o in Times Square. La persona particolare, il mio soggetto, è consapevole del proprio posto, così come io sono consapevole del suo posto nello spazio e nel tempo. Noi supponiamo che il luogo, il tempo e lo spazio siano tutti sacri e si annullino come un attimo nell’eternità. Una volgare interpretazione di questo potrebbe essere: “Questi ragazzi sanno di essere stati storici”, oppure “Questi ragazzi sanno di essere stati mitici”. L’elemento mitico deriva dalla consapevolezza dell’eterno, e l’eterno deriva dalla consapevolezza dell’essere transitori, cosa che deriva -a propria volta- dal riconoscimento della sofferenza. La pena e il fatto di avere realizzato il dolore dell’essere transitori porta alla compassione per la natura del momento evanescente. Alla metà degli anni Cinquanta il 54th Chorus in Mexico City Blues di Jack Kerouac esprimeva chiaramente questa caratteristica, e per me resta questo il motivo della mia rinnovata attività come “shutterbug” [slang: fotografo dilettante] durante gli anni Novanta: On both occasions I had wild / Face looking into lights / Of streets where phantoms / Hastened out of sight / Into Memorial Cello Time [In tutte e due le occasioni con la faccia / Stravolta guardavo le luci / Delle strade dove fantasmi / S’allontanavano e scomparivano / Nel Tempo Violoncello alla Memoria; da Mexico City Blues; Newton & Compton, Roma 1979]. Allen Ginsberg, New York City, 1990
Per decenni, Allen Ginsberg ha fotografato la vita quotidiana degli esponenti di spicco di quella controcultura americana che ha esportato le proprie riflessioni in tutto il mondo. Seppure a fatica, e soprattutto per merito del prezioso lavoro di diffusione promosso da Fernanda Pivano, da sempre vicina alla letteratura statunitense del dopoguerra, l’onda di quella ribellione culturale ed esistenziale arrivò anche in Italia, dove cominciò la propria penetrazione a partire dai movimenti giovanili degli anni Sessanta e Settanta. Ricorda la stessa Fernanda Pivano (da C’era una volta un Beat; Arcana Editrice, Roma 1976; seconda edizione 1988; quindi riedizione Frassinelli, Milano 2003): «Era difficile capire allora che quei poeti erano voci della Sinistra, voci antifasciste, anticapitaliste: erano poeti e letterati che annunciavano l’unica e possibile via della politica, quella della partecipazione, annunciavano per strane, magiche e sotterranee relazioni storiche quello che fu il tentativo della Rivoluzione Culturale, cioè annunciavano la necessità e la possibilità di un tentativo globale di comunicazione pubblica». Dunque, una lunga sequenza di “fotoricordo”: il valore degli scatti di Allen Ginsberg sta proprio nel loro potere di evocazione, che è poi anche il fine più comune per il quale la fotografia viene generalmente utilizzata e apprezzata da milioni di persone. Queste di Allen Ginsberg, raccolte nel 1990 dalla casa editrice Twelvetrees in un prezioso volume dal titolo diretto Allen Ginsberg Photographs, fissano e congelano un momento della storia recente di grande sperimentazione culturale e politica, di idee e linguaggi.
William Burroughs al Metropolitan Museum of Art di New York; autunno 1953.
I CONTENUTI La stanza dove Allen Ginsberg scrisse la prima parte di Howl, il poema che la storia ha elevato a rango di “manifesto”; il mitico scrittore William Burroughs (assolutamente lontano, lui, dal sembrare ingenuo), in mutande davanti alla propria macchina per scrivere (a pagina 41); Peter Orlovsky che fuma canapa indiana a Konarak (qui a destra) e tanto altro ancora. Prima di essere raccolte in volume, queste immagini sono state esposte nel 1985 alla Holly Solomon Gallery di New York City, in una mostra intitolata Hideous Human Angels (Orribili angeli umani). Dieci anni dopo, lo stesso allestimento è poi arrivato alla Biennale di Venezia del 1995. Entusiasmo nei confronti della vita, bando alle preoccupazioni verso il futuro, alla competizione economica, opposizione a ogni forma di controllo dei pensieri, del corpo e dei desideri, liberazione della donna, dell’omosessualità, della parola e della musica. Se successive generazioni sono state guidate da questa politica del desiderio a sognare la fine di ogni oppressione, come scrive Fernanda Pivano nella commemorazione di Allen Ginsberg sul Corriere della Sera del 6 aprile 1997, il giorno successivo alla sua scomparsa, ci ritroviamo ancora oggi con un confronto obbligato con alcuni di quei mostri, come il denaro, da cui solo qualche decen-
nio fa si pensava di poter sfuggire. Anche la salvezza ecologica del pianeta, cui tanto teneva Allen Ginsberg, non è certo oggi raggiungibile attraverso una di quelle comuni presenti in Allen Ginsberg Photographs. Quindi la speranza di una comunicazione globale tra gli uomini deve avvalersi di ben altri mezzi che l’abolizione delle costrizioni artificiali, e la poesia fa sempre e comunque fatica a trovare uditorio. Questo non vuol dire che, come spesso si è indotti a pensare, non si possano più condividere gli obiettivi ultimi della Beat generation. Certamente sono cambiate le strade da percorrere, e sulla consapevolezza di questo radicale cambiamento si apre un trasparente sorriso quando, sfogliando qualche retrospettiva fotografica, si incontra la ingenua serenità di Allen Ginsberg, che negli anni Sessanta, barba e capelli lunghi, accarezza una scimmia in India (a pagina 41) o che si siede sul sagrato del Duomo di Milano a suonare i cimbali (dalle cronache degli anni Sessanta e nel citato C’era una volta un Beat). Se è vero che i tempi sono cambiati, le verità con cui ci troviamo a fare i conti sono altre; una volta ancora, a ulteriore conferma, restano delle fotografie. Alessandra Alpegiani
Peter Orlovsky fuma canapa indiana a Konarak; novembre 1962.
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Attrezzature e materiali per la fotografia digitale e professionale via Stradivari 4 (piazza Argentina 4), 20124 MILANO Tel. (02) 29405119 - Fax (02) 29406704 LunedĂŹ: 15,00-19,30 MartedĂŹ - Sabato: 9,00-12,30 - 15,00-19,30
Prepotentemente, la fotografia rivela il proprio valore fondamentale, addirittura originario: memoria dell’esistenza, testimonianza dei tempi, emozione dei ricordi. Dopo averne riflettuto in tante occasioni, riferendoci soprattutto al fotoreportage (così a portata di mano), arriva qui un esempio sostanzialmente insospettabile e, quindi, autorevole. Una mostra non fotografica, ma di fotografie: nella quale, in un affascinante percorso, la Fotografia non è presente e presentata in quanto tale, e per se stessa, ma svolge il qualificante compito (istituzionale!) di documentazione, dichiarazione e attestazione di epoche, ricordi e, diciamolo!, esistenza
L’ESTASI DELLE COSE
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LA MACCHINA FOTOGRAFICA
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unedì 2 maggio, alle 18,00, si svolge la conversazione multimediale sulla Macchina fotografica, programmata nell’ambito delle manifestazioni collaterali e fiancheggiatrici alla mostra L’estasi delle cose, distribuita in due spazi espositivi (come annotato nel corpo centrale dell’odierno intervento redazionale): Spazio Oberdan, viale Vittorio Veneto 2, 20124 Milano (02-77406300), 18,00. Terzo dei quattro appuntamenti preordinati -gli altri sono dedicati alla Calza da donna, alla Pentola e allo Scooter-, questo sulla Macchina fotografica completa l’ideale tracciato di riflessione e approfondimento dell’Oggetto industriale, soggetto di memoria, lanciato dalla Fondazione Antonio Mazzotta e curato da Enrico Castruccio. Argomento che si presta a mille interpretazioni e infiniti punti di osservazione, quello della Macchina fotografica è abilmente definito da una intrigante sequenza di interventi. Realizzato in collaborazione con il Museo Fotografia Contemporanea di Cinisello Balsamo (Milano), prevede tre tempi successivi. Si parte con una conversazione tra Giovanna Calvenzi, photo editor e critica della fotografia, e Maurizio Rebuzzini, giornalista specializzato, direttore di FOTOgraphia, che insieme percorrono in tandem la storia della macchina fotografica di produzione industriale, illustrando sia l’evoluzione tecnica degli strumenti sia
L’Eura Ferrania, cui FOTOgraphia ha dedicato addirittura un proprio speciale, nel settembre 1998, è una delle espressioni industriali della fotografia che hanno influito sulla socialità italiana della fotoricordo e dintorni, con recenti/attuali richiami alla creatività rovescia (questo è) degli apparecchi giocattolo, a partire dalla sollecitazione Holga ( FOTOgraphia, febbraio 1998, giugno 2001 e marzo 2002).
i cambiamenti indotti dal mezzo nei modi dell’espressione fotografica. A seguire, Claudio Marra, docente e storico della fotografia, esamina i molteplici aspetti della rivoluzione scatenata dalla fotografia digitale. In fine, Cesare Colombo, fotografo e storico dell’immagine, indaga gli aspetti psicologici e antropologici del rapporto utente-macchina fotografica-immagine. Facili profeti, oltre che coinvolti nella conversazione (il nostro direttore Maurizio Rebuzzini è tra i relatori), osiamo ipotizzare che questo incontro non approderà ad alcuna conclusione, né promette o si propone di farlo, ma lancerà fantastiche sollecitazioni per analisi da approfondire, sia in altri momenti sia attraverso ulteriori canali pubblici. Lo rivelano, in curiosa coincidenza di intenti, sia le personalità dei relatori, sia l’ampiezza delle rispettive materie affrontate. Per quanto l’attuale stato della fotografia sia quantomeno addormentato, e usiamo un dolce eufemismo, l’essenza e la concretezza di questo incontro-dibattito potrebbe rappresentare materia per successivi risvegli e studi. Ma, come siamo certi, l’indifferenza di un mondo che ha già stilato il proprio epitaffio finirà per avere la meglio. Per la tristezza, e disperazione?, di chi, come noi, continua a credere in qualcosa di diverso. Purché oggettivamente migliore.
ggetti che circondano la quotidianità e, in silenzio, accompagnano azioni di ogni giorno, più o meno consapevoli: cose. Possiamo ostinarci a non attribuire loro un’anima, ma è operazione difficile. La duplice relazione che si tende a intrattenere con gli oggetti della vita (che, ironicamente, ci sopravvivranno) si gioca sull’ambiguità di una funzione tanto necessaria da pregiudicare lo svolgersi della stessa vita di tutti i giorni, parallelamente a una inconsapevole considerazione della loro presenza. Quasi un oblio (volontario?), per nascondere la dubbia onnipotenza dell’uomo, l’improbabile autonomia dagli oggetti. Proprio alle cose, intese soprattutto come produzione industriale, alla loro essenza ed estasi e al significato che hanno nella vita dell’uomo moderno, il Museo di Fotografia Contemporanea dedica una ampia mostra, correlata a una serie di interventi e iniziative di più ampio respiro, che la completano e -addirittura- nutrono: L’estasi delle cose, appunto, in programma da fine marzo a metà giugno nella propria sede di Cinisello Balsamo, alle porte del capoluogo lombardo, e nei locali dello Spazio Oberdan di Milano. Vediamo di cosa si tratta.
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IMMAGINI CAMPIONE Realizzata da Urs Stahel e Thomas Seeling, rispettivamente direttore e curatore del Fotomuseum Winterthur, prestigiosa istituzione europea dedicata alla fotografia contemporanea, con sede nella città svizzera, la mostra comprende fotografie provenienti da musei, gallerie pubbliche, archivi privati e aziendali, di periodici, agenzie pubblicitarie e case editrici di
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tutto il mondo. Un progetto espositivo ambizioso, dunque, sia nei materiali sia negli intenti, ricco di cinquecentocinquanta fotografie a tema il cui insieme esprime una fantastica capacità di racconto. E proprio in questo senso, consentiamocelo, è obbligatoria quella pausa di riflessione che annota il valore e spessore della comunicazione foto-
scuno sintonizza con la propria partecipazione (emotiva) diretta. Come rivelano, non fingiamo di non saperlo, le illustrazioni che accompagnano questa presentazione formale.
PASSAGGIO ITALIANO
grafica. Dopo averne tanto discusso a partire dall’idea della fotografia in quanto tale, soprattutto in riferimento al fotoreportage, è ora la volta della fotografia-a-servizio, che svolge il proprio compito, che noi consideriamo istituzionale e significativo, oltre che rappresentativo: documentazione, testimonianza, emozione, ricordo e tutto quanto cia-
Dopo l’esposizione svizzera originaria, come abbiamo accennato, nell’ambito di un itinerario internazionale, il passaggio italiano delle opere fotografiche allestite in un percorso storico-emozionale si distribuisce in due sedi espositive differenti e suddivise secondo criteri di omogeneità di appartenenza: la selezione riferita a L’estasi delle cose. Nell’arte è ospitata nelle sale del Museo di Fotografia Contemporanea di Cinisello Balsamo, nell’hinterland di Milano; simultaneamente, quella che sottolinea L’estasi delle cose. Nel quotidiano è esposta allo Spazio Oberdan, nel centro di Milano. Con ordine. L’estasi delle cose. Nell’arte è un percorso che presenta una selezione di opere fotografiche dalle avanguardie del Novecento ai giorni nostri. Al Museo di Fotografia Contemporanea sono presentate immagini di artisti che hanno elevato l’oggetto prodotto industrialmente a elemento della propria espressione creativa: fotografie che sopravvivono come testimonianza di interazioni e variazioni linguistiche, dalla rivisitazione della natura morta all’analisi dell’oggetto, per esempio propria dell’esperienza d’avanguardia del Bauhaus, all’irriverente spirito dadaista e surrealista. In contemporanea di date, al centrale Spazio Oberdan, indirizzo qualificato nell’ambito dei riferimenti espositivi di Milano, L’estasi delle cose. Nel quotidiano rappresenta la parte quantitativamente più corposa dell’intero progetto espositivo, e dà spazio e for-
(pagina precedente) Anonimo; immagine promozionale del Vorwerk Folletto (con curioso richiamo alla fotografia: asciugatura di un rullo 120 bianconero appena sviluppato); primi anni Cinquanta.
Pere Català i Pic; Citronitrina; circa 1935.
Hans Hansen: Volkswagen Golf smontata; 1988.
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ne sviscerato, spesso in una insospettata personalità, dalla capacità analitica e sezionatrice della macchina fotografica, la qualità propriamente visiva delle immagini che ne risultano offre non di meno l’occasione per annotazioni e approfondimenti di tipo antropologico, sociologico e sul comportamento e costume sociale.
A COMPLEMENTO
Herbert Franke e Helmut Volland; utensili da cucina; 1955. (a destra) Hans Dukkers; Philips; 1970-71. (in alto) Achille B. Weider; fotografia di moda; circa 1970. (pagina accanto) Anonimo; motoscooter Zündapp Bella; fine anni Cinquanta.
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za alle nostre considerazioni sul valore implicito ed esplicito della Fotografia come comunicazione visiva; nello specifico: fotografie di utilizzo industriale, pubblicitario e editoriale che analizzano e raccontano oggetti nella propria funzione quotidiana. Nella combinazione, è chiaro ed evidente come l’intero progetto risulti essere un ampio studio su tutta una fenomenologia legata all’oggetto industriale, che parte dalla produzione per toccare la consistente funzionalità di merce, fino ad arrivare a quella, forse più eterea, sfuggente e indefinibile, di simbologie e affettività (e legittimo feticismo?). In questo complesso scenario, dove l’oggetto vie-
Durante il periodo di esposizione (esposizioni) dell’Estasi delle cose, nelle due sezioni appena ricordate, in ideale e dichiarato collegamento con la mostra, allo Spazio Oberdan sono previsti cinque eventi-incontri organizzati dalla provincia di Milano in collaborazione con la Fondazione Antonio Mazzotta e curati da Enrico Castruccio. Nell’insieme dei cinque incontri, complessivamente identificati con Oggetto industriale, soggetto di memoria, il primo è indirizzato a un pubblico specializzato: giornata di studio con qualificati interventi su Recupero, salvaguardia, valorizzazione degli oggetti industriali: situazione attuale e futuro possibile (4 aprile). A seguire, gli altri quattro appuntamenti sono rivolti al pubblico, richiamato e sollecitato da definite conversazioni multimediali a tema: 11 aprile, La calza da donna; 18 aprile (data storica per la Repubblica Italiana: 1948, prime elezioni popolari), La pentola; 2 maggio, La macchina fotografica (e approfondiamo in un riquadro pubblicato a pagina 46); 9 maggio, Lo scooter. In ognuna di queste quattro conversazioni multimediali, allo Spazio Oberdan di viale Vittorio Veneto 2, a Porta Venezia, dalle 18,00, per due ore relatori di diverse culture ed esperienze affrontano i singoli temi, mettendone brillantemente in evidenza la mol-
teplicità dei significati pratici, sociali e simbolici. Il tutto, con collegamenti sintetizzati da Enrico Castruccio, tra cinema, fumetto e altro costume quotidiano. Oltre tutto, tornando all’essenza della fotografia, dal punto di vista di noi osservatori delle fenomenologie fotografiche e relativi linguaggi espressivi, rimane latente -ma non latitante- il dibattito sul valore comunicativo dell’immagine (appunto) fotografica. Superati gli anni, spesso i decenni, la Fotografia è specchio fedele dei tempi. Dopo averne a lungo parlato come soggetto (la Fotografia in quanto tale), la sequenza dell’Estasi delle cose, per sé e nel proprio allestimento scenico, rappresenta un fantastico complemento oggetto. E la Fotografia, con la propria Maiuscola significativa e significante, è appunto questo: una comunicazione ad uso e consumo di altro/altri. Quindi, nel concreto, discutiamo e analizziamo se e per quanto svolge il proprio ruolo istituzionale. Sara Del Fante L’estasi delle cose. Dal 23 marzo al 12 giugno. Catalogo pubblicato da Steidl Verlag (Düstere strasse 4, D-37073 Göttingen, Germania; www.steidl.de, mail@steidl.de); 400 pagine; in inglese. ❯ Museo di Fotografia Contemporanea, Villa Ghirlanda, via Frova 10, 20092 Cinisello Balsamo MI; 02-6605661; www.museofotografiacontemporanea.org. Giovedì 15,00-23,00, venerdì e sabato 15,00-19,00, domenica 10,00-19,00. ❯ Spazio Oberdan, viale Vittorio Veneto 2, 20124 Milano; 02-77406300; www.provincia.milano.it/cultura. Martedì-domenica 10,00-19,30, martedì e giovedì fino alle 22,00.
R.B. GRIFFITHS
Il cileno Marcos Chamudes (1907-1989) è stato un fotografo dotato di “consapevolezza storica”; le sue immagini non sono sogni, sono momenti della vita rapportati al linguaggio fotografico. La presenza esplicita e retorica dell’uomo denota la sua ossessione nel definire quale posto occupi nel mondo, una tematica che lo preoccupò anche nelle sue vicende personali Nel 1952 Marcos Chamudes portò a termine uno dei pochi reportage mai realizzati nel lebbrosario dell’Isola di Pasqua, rimasto attivo per tutto il Ventesimo secolo. È una documentazione di grande valore, perché si tratta di una realtà dell’isola che (r)esistette per cento anni e fu tenuta nascosta per non "offuscare" l’immagine di questa accattivante meta turistica.
Roma, 1950.
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arcos Chamudes iniziò la sua carriera fotografica a New York, dove frequentò un corso di Ritratto, fotografia commerciale e fotografia a colori. In piena guerra mondiale, Manhattan era un brulichio di artisti emigrati dall’Europa e i movimenti di avanguardia erano in voga. Qui Marcos Chamudes fu influenzato da diverse scuole, a partire dalla tendenza Live Photography (fotografia realista), con una eredità del reportage fotografico e del lascito modernista di alcuni maestri, come Alfred Stieglitz (1864-1946), e dalla fotografia di Henri Cartier-Bresson (1908-2004), cui si riconosce un particolare sguardo sulla vita quotidiana (diverso da quello utilizzato fino a quel momento in relazione alla fotografia di informazione) e l’adozione del particolare punto di osservazione della Leica (che ampliò lo spettro di ciò che poteva essere fotografato). Tutto questo influì sulla visione di Marcos Chamudes, che con la propria macchina fotografica percorse le strade di New York nel 1941. Quando gli Stati Uniti scesero in campo nella Seconda guerra mondiale, il cileno Marcos Chamudes, già cittadino nordamericano, si arruolò nelle fila dell’esercito come soldato-fotografo nel battaglione del generale George Smith Patton. In seguito, nel 1947 entrò nell’Organizzazione delle Nazioni Unite (Onu), in cui si svolse il compito di reporter ufficiale della Commissione Investigativa dei Balcani. La rivista specializzata US Camera gli dedicò uno spazio nell’Annuario del 1948, con una sintesi di questo reportage. Nel 1948 e nel 1949, due congressi internaziona-
M
Salvo altra indicazione, tutte le fotografie di Marcos Chamudes fanno parte della Collezione del Museo Histórico Nacional del Cile; sono state acquisite in forma digitale da diapositive/riproduzione delle stampe originarie. È consentita la loro pubblicazione per scopi di diffusione culturale (kabex@yahoo.com). Nel 1948, Marcos Chamudes risolse il suo contratto con le Nazioni Unite ed entrò a far parte dell’agenzia Pix (Usa); immediatamente, nel 1949 fu contattato per lavorare in Germania come reporter dell’Organizzazione Internazionale dei Rifugiati (Iro), per la quale scattò questa fotografia in un campo rifugiati. Di quella esperienza esistono fotografie con scene di uomini senza famiglia, disoccupati e di bambini orfani (come questi). Nonostante la crudezza della realtà rappresentata, alcune immagini, come anche questa stessa, sono poetiche.
ALLA
SCOPERTA
di MARCOS CHAMUDES
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ARCHIVIO CHAMUDES
L
atente per decenni, la figura di Marcos Chamudes è tornata alla ribalta nazionale (in Cile) e internazionale nel 1998, quando ha preso avvio un progetto multidisciplinare di ricerca, studio e pubblicazione della sua collezione fotografica. In quel periodo parte del suo archivio era custodita nel Museo Histórico Nacional di Santiago del Cile (Mhn; plaza Armas 951; 0056-2-638141, fax 0056-2-6331815) ed era composta da millecinquecento copie stampate e una grande quantità di negativi. La tematica era principalmente cilena: ritratti di personalità, momenti ufficiali e vedute delle città tra il 1950 e il 1955. L’altra parta che si trovò durante la ricerca e che in seguito fu donata al Museo corrisponde alle fotografie degli Stati Uniti e dell’Europa scattate nel decennio precedente, tra il 1940 e il 1950: immagini di New York, ritratti di Gabriela Mistral, Pablo Neruda e di altri artisti che passarono di lì alla metà degli anni Quaranta. Questo insieme è composto da cinquemila negativi, mille copie stampate e cinquecento provini a contatto, che si sommano alla collezione originaria del Mhn, costituendo così il corpo sostanzioso del novanta per cento delle fotografie di Marcos Chamudes ora custodite al Museo. Il resto è nelle mani dello scrittore cileno Luis Rivano. La vita favolosa di Marcos Chamudes e il suo interessante lavoro documen-
Pablo Neruda, Parigi 1949.
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tario e artistico fecero in modo che la ricerca si trasformasse in un progetto di studio, conservazione e diffusione del suo archivio. Il Museo Histórico Nacional, la Fondación Andes, l’Universidad Internacional SEK, le Ediciones Altazor e un gruppo di persone hanno portato a termine questo progetto, che dimostra come il lavoro multidisciplinare e di cooperazione favorisce lo sviluppo culturale in tutti i propri ambiti. La diffusione delle fotografie di Marcos Chamudes è stata condotta con conferenze in Venezuela, Argentina, Cile e Italia e, soprattutto, con l’edizione della monografia El fotógrafo Marcos Chamudes, curata da Karen Berestovoy (qui accanto), che ha coordinato anche il progetto generale, pubblicata nel 2000 dall’Universidad Internacional SEK (www.sek.net, pedro.pujante@sekmail.com) e dalle Ediciones Altazor di Valparaiso (altazor@terra.cl). Da un lato, la realizzazione del progetto -durato tre anni- ha permesso di conservare materialmente i documenti; dall’altro, di identificare il fotografo con le proprie tematiche. L’importanza di diffondere questo risultato attraverso parole e pubblicazioni è fondata sul fatto che le fotografie comunicano un senso dell’esistenza donato alla comunità che lo riceve; questo senso non esisterebbe se le fotografie rimanessero nascoste negli archivi.
li riunirono intellettuali a Wroclaw (Polonia) e Parigi per discutere quale posizione assumere come pacifisti di fronte alla complessa situazione sociale che attraversava l’Europa. Tra gli altri, in queste occasioni, Marcos Chamudes fotografò Paul Éluard, Pablo Picasso, Pablo Neruda, Joan Miró, Irene Curie e Julian Huxley. In quegli stessi anni fu contattato per lavorare in Germania come reporter dell’Organizzazione Internazionale dei Rifugiati di Guerra (Iro). Nel 1951, Marcos Chamudes portò a termine il proprio contratto e,
Nel 1945 Marcos Chamudes si trasferì a Washington, dove lavorò come fotografo indipendente. L’anno seguente, 1946, fu chiamato per fotografare Gabriela Mistral (1889-1957) alla Casa Bianca, dove venne festeggiata per aver ricevuto il Premio Nobel per la Letteratura. Il ritratto di Pablo Picasso (1881-1973) rimase plasmato in un modo particolare; Marcos Chamudes riscattò un profilo che suggerisce la scomposizione delle parti, avvicinandosi alla destrutturazione tipica dello stile cubista. Immagine scattata durante il Congresso degli Intellettuali per la Pace a Wroclaw (Polonia) nel 1948.
Pablo Neruda, Parigi 1949. Dal punto di vista del ritratto si può stabilire un’evoluzione estetica tra i primi anni della produzione fotografica di Marcos Chamudes e le sue evoluzioni successive, che concludono con il suo contributo più rilevante in fatto di composizione dei piani, chiamata in questo studio come il Gioco Figura-Figura, aiutato dalla pratica dell’inquadratura. L’abilità compositiva sta nel collocare il soggetto a un lato dell’inquadratura, facendo in modo che poggiando sul fondo diventi come un’altra figura.
prima di tornare in America, percorse alcune città e paesi europei, tra i quali l’Italia, dove documentò gli aspetti delle rispettive tradizioni culturali. Su richiesta dell’Iro viaggiò in nave dall’Europa al Sudamerica con circa duecento rifugiati. Nel 1951, quando tornò in Cile insieme alla moglie, la scrittrice Marta Vergara, si dedicò a diffondere la propria esperienza fotografica dei più recenti dieci anni; continuò il suo lavoro come fotografo per alcuni anni e, in seguito, lavorò come giornalista.
Pablo Picasso e Pablo Neruda, Congresso degli Intellettuali per la Pace, Parigi 1949.
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Incontro con il Papa a Roma, 1950. In questa immagine, l’organizzazione dell’inquadratura si concentra sull’espressione dei bambini immersi ognuno nel proprio mondo. L’immagine si unisce attraverso l’uniformità degli abiti, che a propria volta accentua il senso di appartenenza a una comunità.
La fotografia è testimonianza (parziale), ed è per questo che le diamo un valore di documento. Per esempio quando ci riferiamo a questa fotografia scattata a Linz alla fine della Seconda guerra mondiale.
Questa fotografia, scattata in un Caffè di Parigi nel 1949, è significativa dal punto di vista dei contrasti, per l’alternarsi dei bianchi e neri dei vestiti e la calma espressa dai soggetti, nonostante i loro corpi sembrino in movimento. L’attimo fuggente consente di percepire il silenzio in questa immagine "musicale", resa anche dagli occhi chiusi dei protagonisti. L’interesse si concentra sull’uomo con la fisarmonica in primo piano, sebbene non sia a fuoco come lo è Pablo Neruda sul fondo: parte del contesto generale, non fa altro che interagire con l’insieme. In questo modo, Marcos Chamudes ruppe con lo stereotipo di collocare l’artista sul piano principale.
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Uno dei lavori fotografici più importanti realizzati nel 1952 in Cile fu il reportage nel lebbrosario dell’Isola di Pasqua (operativo per tutto il Ventesimo secolo): questo documento visivo rappresenta una testimonianza storica sostanzialmente inedita, considerata la volontà politica internazionale di occultare l’esistenza di questo luogo di dolore e sofferenza, così diverso dalla leggerezza turistica del posto. L’Agenzia Magnum Photos lo contattò per lavorare in Bolivia, dove fotografò il sollevamento popolare chiamato Movimento Nazionale Rivoluzionario (Mnr). Nel 1955 partecipò con una fotografia simbolo del Minatore Boliviano a The Family of Man: curato da Edward Steichen, uno dei progetti epocali della fotografia moderna, allestito in mostra al Museum of Modern Art (MoMA) di New York nel 1955 e raccolto in un volume monografico ancora oggi fondamentale. Dalla prospettiva del genere del ritratto si può stabilire una proposta estetica chiamata il Gioco Figura-Figura [a pagina 53]. La maestria di Marcos Chamudes consiste nel re-inquadrare il soggetto e posizionarlo su un lato del piano, ottenendo che il fondo diventi addirittura “un'altra figura”. L’equilibrio della composizione si mantiene, e non viene rotta l’ar-
monia che varia con l’applicazione della profondità di campo. Questo tipo di inquadratura potrebbe riflettere la personalità inquieta di Marcos Chamudes, in continua ricerca di nuovi modi di vedere, pensare e riflettere di fronte ai propri contemporanei. Come accennato, a metà degli anni Cinquanta Marcos Chamudes iniziò ad allontanarsi dalla fotografia, e si dedicò al giornalismo; fu nominato direttore del quotidiano cileno La Naciòn (1959). Nel 1962 fondò e diresse il settimanale PEC, che funzionò per dieci anni e si distinse per il proprio stile polemico e l’orientamento anticomunista (successivo alla propria militanza nel Partito, nei decenni precedenti). Marcos Chamudes fu autore di vari libri, principalmente saggi giornalistici; occorre ricordare la sua autobiografia El libro blanco de mi leyenda negra (Ediciones Pec, 1964) e la raccolta fotografica Picasso, Arte y Libertad (1980). Marcos Chamudes muore il 25 giugno 1989. Al suo funerale parteciparono poche persone, nonostante appartenesse a una famiglia numerosa e fosse stato un grande fotografo, deputato comunista della Repubblica cilena (dal 1938 al 1940) e stimato giornalista anticomunista (dal 1962 in avanti). Nel rispetto delle sue ultime volontà, fu cremato. Karen Berestovoy (Traduzione dallo spagnolo a cura della giornalista Elena Casero) Karen Berestovoy lavora e abita a Varese da circa due anni. La sua esperienza professionale nel campo della fotografia comprende la ricerca fotografica artistica (d’autore), la conservazione fotografica, l’allestimento di mostre fotografiche secondo le norme dei musei, la creazione di opere e lo sviluppo della sua esperienza creativa attraverso laboratori artistici (kabex@yahoo.com).
Durante l’intero Novecento, il centro industriale di Lota, nel sud del Cile, fu una fonte di lavoro per la maggior parte degli abitanti di questo paese. La sua chiusura creò un conflitto sociale assai ampio, non solo economico ma persino culturale, dal momento che si perse il riferimento principale in questa località attorno alla quale ruotavano le attività sociali. Marcos Chamudes a ottant’anni. Nella sua autobiografia El libro blanco de mi leyenda negra, pubblicato nel 1964, scrisse che «se al posto della tempesta che ci minaccia, venisse la calma, aprirei il cassetto che custodisce la mia macchina fotografica e rifarei la mia collezione di negativi. Inoltre, leggerei e imparerei a scrivere». [Fotografia di Pedro O’Brien; Collezione del Museo Histórico Nacional del Cile].
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RAGAZZI DI VITA. IN RUSSIA
P
Presentato lo scorso autunno alla Galleria Grazia Neri di Milano (FOTOgraphia, luglio 2004), il coinvolgente documento fotografico sui giovani senzatetto di San Pietroburgo, la Leningrado dell’Unione Sovietica, viene proposto a Reggio Emilia a cura dei Musei Civici: all’Officina delle Arti, dal 19 marzo all’8 maggio. Riprendendo i termini con i quali abbiamo già commentato l’intenso reportage del fotografo tedesco Wolfgang Müller, al cospetto del quale non si può certo restare indifferenti, né distaccati, ribadiamo la drammaticità delle immagini: autentici pugni nello stomaco, capaci di colpire il cuore, per raggiungere presto la mente. E in questo, si riconferma quel valore del reportage fotografico, la cui osservazione del mondo è specchio critico dell’esistenza: ne abbiamo riflettuto lo scorso dicembre, a margine, oppure su sollecitazione, della celebre fotografia della bambina vietnamita bruciata dal napalm. In questo senso, la serie di fotografie di Karat - Sotto il cielo di San Pietroburgo è emblematica e significativa, tanto da non concedere spazi al dubbio, a nessun temporeggiamento, ad alcuna deviazione: dopo averle viste, se ne deve parlare, non si può tacere. Ciascuno scelga con chi può o vuole farlo, con un altro visitatore della mostra, con gli amici che hanno condiviso la visita, con i propri compagni di vita. Parlarne è un obbligo, il silenzio non è ammesso. Infatti, questo reportage, così leggero nel proprio svolgimento apparente, è profondo di significati e visioni. Si tratta della rappresentazione di situazioni che ciascuno di noi può intuire, aver intuito, ma alle quali nessuno avrebbe voluto assistere, con la forza visiva diretta di fotografie ben realizzate: potenza del linguaggio del fotoreportage. Sarcasticamente drammatico, il titolo dell’intenso reportage del fotografo tedesco Wolfgang Müller declina un richiamo Karat, poi iden-
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tificato in Sotto il cielo di San Pietroburgo, apparentemente fantasioso. No! Subito, il fotografo pone di fronte alla terribile realtà della vicenda. Karat è il nome del lucido da scarpe che viene usato dai ragazzi senzatetto della contraddittoria città russa (lontana dal rigore sovietico e precipitata in un limbo di improbabile sogno occidentale) come “droga” a buon mercato, consumata da migliaia di bambini e adolescenti abbandonati a loro stessi nelle strade di San Pietroburgo. Nella nuova Russia del Duemila, chiese, palazzi, musei ed eleganti negozi del centro cittadino mettono in vetrina il rinnovato look della metropoli, nascondendo, almeno fintanto che ci riescono, il degrado che inizia ad affiorare già dai primi cortili interni della centralissima Prospettiva Nevskij. Quindi, salendo un poco più in alto, scale, tetti e soffitte, cinque o sei piani sopra le strade della città, sono abitati da bambini e ragazzi di ogni età, scappati
Katja, 15 anni, e Olga, 24 anni, sul tetto del loro monolocale nella periferia di San Pietroburgo. Entrambe si guadagnano da vivere con la prostituzione (giugno 2001).
da famiglie troppo disperate per prendersi cura di loro, o da orfanotrofi e riformatori che adottano dure regole da caserma. Sono loro, questi giovani disperati, i soggetti delle fotografie di Wolfgang Müller (rappresentato in Italia dall’Agenzia Grazia Neri), realizzate nell’arco di nove mesi, tra il 2000 e il 2001. Lontano ed estraneo al facile populismo da due soldi, dei bambini di strada visti come inevitabilmente infelici e perduti, il lavoro del fotografo tedesco è incentrato sulle storie personali di otto ragazzi di San Pietroburgo, seguìti nello svolgimento quotidiano delle rispettive misere esistenze. Alla resa dei conti, pur nella propria tragicità, il reportage restituisce comunque ai ragazzi una dignità perduta e il riconoscimento di esseri umani. A.G. Wolfgang Müller: Karat - Sotto il cielo di San Pietroburgo. Officina delle Arti, via Brigata Reggio 29, 42100 Reggio Emilia; 0522-703317; Dal 19 marzo all’8 maggio; lunedì-venerdì 18,00-23,00.
QUESTIONE DI ATTIMI
N
Non possiamo esimerci dall’urgenza di rilevare che nell’attuale propria evoluzione tecnologica, con ritmi sempre più serrati, la fotografia stia sperimentando linguaggi nuovi e innovativi. Per quanto la trasformazione dei propri connotati basilari in comunicazioni visive sempre rinnovate sia stata un processo costante nell’evoluzione fotografica, bisogna annotare che gli attuali referenti tecnologici hanno segnato una evidente e riconosciuta accelerazione, quantomeno nei termini esteriori. La più recente interpretazione/mediazione, in termini di istantaneità tra atto di vedere, pensiero, scatto e immagine (appunto!) è da attribuire a un mezzo che fino a qualche anno fa nulla ha avuto da spartire con la fotografia: il telefono. Giovane figlio di una attuale cultura visiva sempre più rivolta alla semplificazione e imme-
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Il mini-manuale di tecnica fotografica per immagini dal telefonino Un attimo per cogliere l’attimo dà peso e consistenza all’immediatezza e spontaneità della particolare applicazione visiva.
diatezza, quello dello scatto attraverso il telefonino (dotato di obiettivo) è un gesto estremo. Addirittura, un linguaggio in un certo modo inusuale al tradizionale gesto fotografico e alla intenzione della fotografia consapevole e ricercata (in quanto tale); sul display del telefonino guardo e scatto subito (senza la necessità delle attenzioni proprie del gesto fotografico vero e proprio). Poi, casomai, butto via quello che non mi serve.
ALTRA SOCIALITÀ Tutto questo, dal gesto alle intenzioni, dal formalismo ai contenuti, non è certamente fotografia come fino a oggi abbiamo inteso, e come continuiamo a riferirci: alla documentazione, al reportage, a ogni professionismo di genere, oltre che a quell’ampio serbatoio di non professionisti capaci di osservare con attenzione e concentrazione lo svolgimento dell’esistenza. Rimanendo in tema, questa registrazione di immagini attraverso il telefonino ha una storia tutta sua, con socialità proprie, assolutamente estranee alla lunga storia evolutiva della fotografia “autentica”. Insomma, il telefonino non è in linea con la consecuzione storica, tecnica e di linguaggio, nata con il dagherrotipo e arrivata fino a noi per coerenti passi ritmati. È un’altra storia, comunque da non sottovalutare e mal considerare. In valore estremamente positivo,
con il telefonino -ormai accessorio indispensabile e immancabile alla vita quotidiana di ciascuno (quantomeno nel mondo occidentale)- si ha la possibilità di registrare immagini senza dover necessariamente usare uno strumento apposito. Ovvero si possono registrare immagini spontanee, a differenza del gesto fotografico vero e proprio che presuppone l’intenzione di farlo, portandosi volontariamente appresso una macchina fotografica (appunto!), qualunque questa sia.
MAKADAM Nel concreto, oltre le tante altre parole che si potrebbero scrivere sull’argomento, e che a conclusione ancora oggi stiamo per riprendere, quello del telefonino con uso fotografico è un fenomeno concreto, reale e penetrato nelle forme di comunicazione attuali. Ne è testimonianza l’edizione di un periodico dedicato, che affronta le innumerevoli sfaccettature della questione. Avviato nell’ottobre 2003, Makadam viene distribuito attraverso circuiti alternativi alle edicole (via Maroncelli 14, 20154 Milano; mak@makadam.it). Ideata da Michele Neri e Marcello Mencarini, la rivista si occupa di fotografie scattate solo con il telefonino, presentate con piglio ironico e divertente, congeniale alla spontaneità dei gesti originari. Di volta in volta, numero dopo nu-
mero, lo spazio redazionale di Makadam traccia un percorso differente di storie fotografiche e vicende sollecitate o inquadrate (causa o effetto) da fotografie inviate dai lettori, utilizzatori di telefonini con obiettivo di ripresa. A integrazione e complemento, dalla propria autorevolezza editoriale, la rivista completa quindi il corpo fotografico con suggerimenti, esperienze, considerazioni legali e riflessioni su questa nuova materia del nostro tempo. Il tutto è affrontato con visione fresca e innovativa, e non è assolutamente appesantito da ridondanze superflue quanto inopportune (proprio per la natura dell’argomento trattato).
ISTRUZIONI Facendo tesoro dell’esperienza redazionale, forte di un consistente contatto con la “base” dei propri lettori, ribadiamo “popolo del telefonino”, Michele Neri e Marcello Mencarini hanno realizzato un mini-manuale specifico per l’apprendimento della fotografia con telefonino. Il titolo precisa subito la filosofia di fondo: Un attimo per cogliere l’attimo fa da ponte tra il gesto spontaneo, magari inconsapevole, e la conseguente comunicazione fotografica, comunque la si voglia considerare autenticamente tale. Realizzato in collaborazione con Nokia ed edito da Emage Edizioni (www.emage.it), il leggero ma concreto manualetto -piccolo nelle dimensioni, consistente nei contenuti- parte da nozioni base di fotografia autentica (pur sempre di questa materia stiamo trattando): luce, inquadratura, punto di vista, composizione e scatto. Quindi, affronta l’essenza delle applicazioni più classiche: ritratto, nudo, sport, viaggi e vacanze. Infine, si addentra in temi fotografici considerati specifici del particolare mezzo, facilmente affrontabili proprio con l’immediatezza tipica e caratteristica del telefonino. Diciamolo: immediatezza e spontaneità fino a oggi (ieri?) estranea alla fotografia: dall’autoritratto alla costante documentazione della propria vita, alle curiosità quotidiane, temi che non sarebbero fotograficamente affrontabili in altri momenti, dotati (appesantiti?) di ingombranti reflex, con relativo carico di obiettivi (?!).
ANCORA NEL PROFONDO Indipendentemente dalla comune paternità redazionale ed editoriale, sia Makadam sia Un attimo per cogliere l’attimo rivelano e svelano una delle condizioni essenziali della fotografia con telefonino. Forse, la sua condizione essenziale per eccellenza: leggerezza e divertimento. Ma pur sempre fotografia. E qui, una volta ancora, si innesca la scintilla del dibattito, del distinguo, della presa di posizione, come se di questo si debba trattare: di dire a tutti i costi la propria, partendo da lontano, dall’alto e da preconcetti. Certo è che, nello stretto mondo fotografico, molti degli ultimi eventi hanno colto di sorpresa; addirittura, hanno alterato ogni precedente equilibrio, destabilizzando perfino tutte le consolidate posizioni edificate nei decenni. Ma è anche vero che non ci si deve lasciar spaventare dal fantasma dell’impoverimento presunto (e forse pretestuoso): il nuovo linguaggio, proprio di una nuova fotografia, non si impone in sostituzione di quello che conosciamo, parallelamente non intende affondare la fotografia consueta: come abbiamo già annotato, è semplicemente un’altra cosa. Per fare un’analogia con la sintassi della parola scritta, è un fenomeno assimilabile al recente linguaggio dei messaggi sms: rappresentano senz’altro una forma di comunicazione, peraltro nuova a tutti gli effetti, che non mette di certo a repentaglio la sopravvivenza dei linguaggi già conosciuti, consolidati e funzionali. Abbiamo la certezza (ma sarà proprio così?) che non useremo mai il linguaggio da sms per scrivere una lettera, o non lo ritroveremo in un romanzo (a meno che non sia materia dello stesso romanzo), non andrà mai a sostituirli, convivranno: continueremo a leggere gustosi e appassionanti brani di letteratura e a godere di sublimi fotografie. Ripercorrendo la vicenda attuale del telefonino fotografico, torniamo ad allacciarci alla storia evolutiva della fotografia e del proprio linguaggio applicato. E qui individuiamo un punto di contatto niente affatto secondario. Infatti non possiamo ignorare come dalla propria na-
Ideato da Michele Neri e Marcello Mencarini, Makadam viene distribuito attraverso circuiti alternativi alle edicole. Il periodico Makadam affronta la materia delle fotografie con telefonino con un piglio congeniale alla spontaneità dei gesti originari.
scita, la fotografia abbia sempre esplorato e condotto un percorso verso una continua maggiore democratizzazione del proprio uso, che in ogni epoca ha espresso soluzioni tecniche e proposizioni commerciali sistematicamente allargate. E tutto questo ha pure influito sul linguaggio applicato, sulla comunicazione visiva. Oggi siamo consapevoli testimoni di un’ennesima evoluzione, magari rivoluzione?, che a differenza di ogni altra precedente ha una caratteristica fondamentale che la qualifica e definisce: non arriva a sorpresa, ma è stata annunciata. A.Alp.
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irettamente derivata dall’originaria *istD, la nuova reflex digitale a obiettivi intercambiabili Pentax *istDs, presentata nell’ambito della scorsa Photokina (FOTOgraphia, novembre 2004) sottolinea ulteriormente i concetti di “semplicità operativa” e “armonia tra semplicità d’uso e portabilità”, propri e discriminanti delle proposizioni fotografiche della nobile casa giapponese, sia in termini fotografici tradizionali sia in tecnologia digitale. In una costruzione sostanzialmente compatta (125x92,5x66mm) sono raccolte prestazioni di classe medio-alta, a partire dal sensore CCD di acquisizione digitale di grandi dimensioni, da 6,1 Megapixel (23,5x15,7 millimetri). Le caratteristiche basilari della Pentax *istDs rivelano un indirizzo rivolto, indifferentemente, agli utenti esperti, come anche a coloro i quali si avvicinano per la prima volta alle logiche della fotografia reflex digitale. Il mirino a ingrandimento elevato, con visione del 95 per cento del campo inquadrato e ingrandimento 0,95x, permette il più opportuno controllo dell’inquadratura e composizione, anche nelle impostazioni volontariamente manuali della messa a fuoco, peraltro agevolata dagli schermi Natural-BrightMatte intercambiabili (vetrino standard con riferimenti AF; in opzione sono disponibili i tipi AF con spezzamento di imma-
D
Prosegue il cammino del sistema reflex digitale Pentax. La nuova *istDs ribadisce l’essenza di princìpi base, in una costruzione fotografica che conferma la strada intrapresa della semplicità operativa rivolta al più ampio pubblico gine e AF con scala). A seguire, si registra un ampio monitor LCD a colori da due pollici, da circa 210.000 pixel, sul quale si visualizzano sia le condizioni attive sia le informazioni passive della ripresa: dalla lettura dei menu di regolazione alla visione delle immagini acquisite, compresa la visione ingrandita fino a dodici volte e la visualizzazione simultanea di nove miniature. Quindi, un pannello di controllo LCD sulla parte superiore del corpo macchina consente la verifica immediata dello
stato operativo della reflex e delle varie impostazioni.
DIETRO LE QUINTE L’esclusiva modalità Auto Picture sceglie automaticamente e istantaneamente la combinazione di impostazioni ottimale per una varietà di soggetti istituzionali, inclusi tempo di otturazione, apertura del diaframma, bilanciamento del bianco, saturazione, contrasto e definizione dei bordi del soggetto. Il flash elettronico incorporato si solle-
va automaticamente nelle situazioni di luce insufficiente e nel controluce. A partire dal selettore multifunzione a quattro vie alla pratica ghiera di selezione elettronica, all’ampia e comprensibile ghiera delle modalità, tutti i comandi della Pentax *istDs sono distribuiti con efficienza e funzionalità, per assicurare sempre la piena padronanza delle operazioni. La reflex digitale incorpora un evoluto sistema esposimetrico a sedici segmenti, che assicura misurazioni precise anche nelle condizioni di illu-
SECONDA
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GENERAZIONE
minazione più impegnative. Per applicazioni specifiche, sono disponibili anche la lettura media ponderata al centro e la misurazione spot selettiva. La Pentax *istDs adotta il sofisticato sistema autofocus Safox VIII dotato di undici sensori AF (nove dei quali costituiscono un ampio sensore a gri-
glia al centro, con lettura a croce per dettagli a orientamento orizzontale o verticale). Oltre la messa a fuoco automatica di precisione, questo sistema consente di selezionare uno qualunque dei sensori, per rispondere a particolari esigenze di messa a fuoco selettiva, legata alla composizione dell’immagine. In ogni condizione, il sensore AF selezionato (automaticamente o manualmente) viene evidenziato in rosso nel mirino, per un immediato riscontro visivo.
PRESTAZIONI L’otturatore che raggiunge il tempo rapido di 1/4000 di secondo è sincronizzato su 1/180 di secondo. In scatto continuo si possono acquisire fino a otto immagini alla cadenza di circa 2,8 fotogrammi al secondo. Su schede di
memoria Secure Digital (SD, in sigla) si possono registrare file in dimensioni Jpeg (Exif 2.21, a tre livelli di compressione), RAW, Dcf (Design rule of Camera File system), Dpof (Digital Print Order Format), Print Image Matching III. Con l’occasione ricordiamo che le Secure Digital Card sono le schede che dispongono di un blocco di sicurezza, da cui la definizione, che impedisce di sovrascrivere accidentalmente sulla card. Realisticamente, ci si deve riferire a una gamma di capacità di memoria da 64Mb a 1Gb, nelle consuete progressioni geometriche. Quindi, si registra la versione Ultra, di maggiore velocità, con capacità di 256 e 512Mb. Segnaliamo ancora: sono personalizzabili diciotto funzioni, per adattare la reflex alle esigenze individuali; pratico trasferimento dei dati al computer tramite il cavo USB in dotazione (USB 2.0); software Pentax Photo Laboratory 2.0 in
dotazione (per il trattamento dei file RAW); software Pentax Photo Browser 2.0 in dotazione (per la visione delle immagini); compatibilità PictBridge. Infine, gli obiettivi. La reflex digitale Pentax *istDs è compatibile con tutti gli obiettivi intercambiabili Pentax di diverse generazioni ottiche. Oltre i più recenti disegni dedicati, DA e D FA, gli obiettivi per il formato 24x36mm, in innesto a baionetta Pentax K, KA, KAF e KAF2, possono essere utilizzati senza adattatori o modifiche. I più antichi Takumar per il formato 24x36mm, dotati di innesto a vite 42x1, e gli obiettivi dei sistemi medio formato Pentax 645 e 67 richiedono l’impiego di apposito adattatore. Ovviamente, considerate le rispettive età, alcune delle quali otticamente venerabili, alcune funzioni possono non essere disponibili con certi obiettivi. (Protege - Divisione Foto, via Pratese 167, 50145 Firenze). Antonio Bordoni
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Con la nuova configurazione Eos 20D da otto milioni di pixel, Canon offre una reflex digitale a indirizzo professionale e non (a ciascuno, le proprie intenzioni) che vanta caratteristiche di taglio alto: dal corpo macchina in lega di magnesio alla velocità di scatto fino a cinque fotogrammi al secondo
duzione cromatica e rende più veloce l’elaborazione dei dati e il tempo di avvio. Infine, un robusto telaio in lega di magnesio completa il look e il feeling professionale della reflex digitale Canon Eos 20D.
massima velocità di uso. Il sensore CMOS di seconda generazione da 8,2 Megapixel è stato realizzato appositamente per la Eos 20D, che dispone anche della possibilità di selezionare una sensibi-
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DIFFERENZIATA rima configurazione in equilibrio tra intendimenti professionali e utilizzo esteso anche a una più vasta schiera di utenti non professionali, la Canon Eos 20D aggiunge un significativo gradino nella qualificata sequenza di reflex digitali a obiettivi intercambiabili della propria famiglia Eos. Le sue prestazioni di taglio alto si combinano con confortevoli velocità e flessibilità di impiego: sensore CMOS di nuova generazione da 8,2 Megapixel, formato 22,7x15,1mm (ereditato dalla dimensione APS-C dello sfortu-
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nato standard Advanced Photo System); velocità di scatto a raffica fino a cinque fotogrammi al secondo; autofocus a nove aree; e nuovo sistema flash E-TTL II collegato alla distanza di messa a fuoco. Nella gamma di reflex digitali Canon, l’attuale Eos 20D sostituisce la precedente Eos 10D (FOTOgraphia, settembre 2003), ed è dotata dello stesso processore Digic II presente nella professionale di vertice Canon Eos-1D Mark II (FOTO graphia, giugno 2004), che migliora ulteriormente l’accuratezza della raffinata ripro-
IN VELOCITÀ
Molte caratteristiche chiave della precedente Eos 10D sono state riprogettate, per perfezionare le prestazioni e la qualità di immagine dell’attuale reflex Canon Eos 20D. Il processore Digic II, appunto di seconda generazione, combinato con una memoria di transito (buffer) di maggiori dimensioni, consente di eseguire fino a ventitré scatti a raffica alla velocità di cinque fotogrammi al secondo: una prestazione quasi doppia rispetto la Eos 10D. Inoltre, i file possono essere registrati simultaneamente nei formati RAW e Jpeg senza interferire con le prestazioni finalizzate alla
lità equivalente fino a 3200 Iso, per affrontare situazioni di luminosità davvero critiche. L’alta densità di pixel in un’area ridotta, come quella del formato APS-C, è stata resa possibile con l’introduzione di fotodiodi più piccoli con un migliore rapporto segnale/rumore e una sensibilità equivalente a quella della Eos 10D. Le elevate prestazioni ulteriormente migliorate delle microlenti posizionate sopra ogni fotodiodo incrementano la percentuale di luce che raggiunge i pixel, aumentando la sensibilità Iso e migliorando la qualità dell’immagine. Un nuovo circuito di eliminazione del rumore, posizionato direttamente sul chip, amplifica il segnale in vari stadi a lettura lenta, per neutralizzare il rumore a pattern fisso e random (casuale); mentre un filtro ottico passabasso a tre strati, collocato di fronte al sensore, riduce la possibilità che si verifichino artefatti (falsi colori).
AUTOFOCUS Un nuovo sensore di messa a fuoco e il relativo algoritmo, oltre al passaggio da sette a nove punti AF disposti su un’area allargata, migliorano la velocità e l’accuratezza dell’autofocus, con particolare evidenza nei soggetti decen-
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trati. Oltre a occupare una maggiore area nel fotogramma, i punti AF sono distribuiti in modo da posizionarsi esattamente nelle aree critiche della composizione (quando nell’inquadratura viene applicata la regola dei terzi). Il sensore CMOS formato 22,7x15,1mm offre un aumento dell’ingrandimento dell’immagine pari a 1,6 volte rispetto i riferimenti alle focali della fotografia tradizionale 24x36mm: ossia gli obiettivi si comportano come se avessero focali sensibilmente più lunghe. Mentre ciò costituisce un indubbio beneficio con l’uso di teleobiettivi,
rappresenta un problema quando si ha la necessità di impiegare angoli di campo grandangolari. Per questo, assieme alla Canon Eos 20D sono stati presentati due nuovi zoom che assolvono le esigenze e necessità della fotografia ad ampio angolo di campo. Entrambi dotati di motore USM a ultrasuoni, i Canon EF-S 10-22mm f/3,5-4,5 USM e EF-S 1785mm f/4-5,6 IS USM offrono variazioni focali che corrispondono alle escursioni 16-35mm e 28-135mm della fotografia tradizionale 24x36mm. I due obiettivi sono già stati presentati sullo scorso numero di FOTOgraphia di dicembre.
ALTRO ANCORA Per la prima volta su una reflex digitale è disponibile una nuova funzione monocromatica, che rende possibile scattare in bianconero. La gamma di filtri
RAFFINATA LUCE LAMPO
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a Canon Eos 20D impiega il nuovo sistema di misurazione flash E-TTL II, il cui algoritmo tiene conto della distanza di messa a fuoco dell’obiettivo, sia con il flash incorporato sia con un flash esterno Speedlite EX, per fotografie con luce lampo dall’esposizione perfettamente bilanciata. Invece di considerare soltanto la misurazione dell’esposizione con prelampo e il punto autofocus attivo, per calcolare la potenza flash necessaria il sistema prende in esame anche la distanza di messa a fuoco, la misurazione della luce ambiente e la rilevazione di eventuali soggetti riflettenti. I risultati sono su-
offerti (giallo, arancio, rosso e verde) può essere applicata digitalmente nello stesso modo con cui si usano nella fotografia bianconero, per ottenere particolari contrasti e separazioni di tono. Inoltre, gli effetti volontariamente intonati seppia, blu, porpora e verde aggiungono alla fotografia bianconero la medesima colorazione dei viraggi chimici. Quindi, la Eos 20D, per schede di memoria Compact Flash Tipo I e II, è la prima reflex digitale Canon dotata di interfaccia USB 2.0 High Speed, con tutti i vantaggi che ne derivano: circa quaranta volte più veloce dello standard USB 1.1, utilizzato nella precedente Eos 10D. La nuova reflex ha anche un’interfaccia Video out, per monitorare le immagini, ed è compatibile con lo standard PictBridge per la stampa diretta delle fotografie con stampanti compatibili, senza passare attraverso un computer. Il nuovo software di elaborazione delle immagini Digital Photo Professional v 1.1 offre un’alta velocità di elaborazione di file RAW senza perdita di dati; l’ela-
periori in circostanze nelle quali sia necessario ricomporre l’inquadratura, o dove la presenza di soggetti troppo o troppo poco riflettenti ingannerebbero l’esposizione flash. La Canon Eos 20D è compatibile con l’intera serie di lampeggiatori Speedlite EX, fino al nuovo Speedlite 580EX, dotato di una torcia flash zoom che si imposta automaticamente una volta montato sulla reflex digitale, per “coprire” esattamente il sensore formato APS-C, oltre a trasmettere le informazioni sulla temperatura colore per una maggiore stabilità cromatica.
borazione è all’incirca sei volte più veloce rispetto al File Viewer Utility delle precedenti dotazioni. L’attuale Digital Photo Professional consente una visualizzazione delle miniature in tempo reale e l’immediata applicazione delle variazioni alle immagini; inoltre, comprende una vasta gamma di funzioni di editing per immagini RAW, Jpeg o Tiff, che danno un controllo totale su molte variabili, come il bilanciamento del bianco, la gamma dinamica, l’esposizione e la tonalità colore. Le immagini Jpeg possono essere registrate secondo gli spazi colore sRGB o Adobe RGB e l’applicazione Digital Photo Professional v 1.1 supporta gli spazi colore sRGB, Adobe RGB e Wide Gamut RGB. Il profilo colore ICC viene automaticamente inserito alle immagini RAW convertite in Tiff o Jpeg,
per permettere una riproduzione più fedele dei colori nelle applicazioni software che supportano i profili ICC, come Adobe Photoshop. L’elaborazione dei vari parametri che hanno subìto modifiche viene eseguita contemporaneamente e non sequenzialmente come in precedenza, incrementando l’efficienza in caso di numerose variazioni alla stessa immagine. Il software in dotazione comprende anche Canon Eos Solution Disk 8.0, contenente Eos Viewer Utility 1.1, Eos Capture 1.1 e PhotoStitch 3.1, oltre a Adobe Photoshop Elements 2.0, per elaborazioni delle immagini più complesse. (Canon Italia, via Milano 8, 20097 San Donato Milanese MI). A.Bor.
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MARIO GIACOMELLI
M
Mario Giacomelli nasce a Senigallia (Ancona) nel 1925, la famiglia è povera. La madre fa la lavandaia in un ospizio. Il padre muore presto, e il ragazzo, appena tredicenne, va a lavorare in una tipografia, la Tipografia Marchigiana, della quale diventerà poi proprietario. Nel 1953 acquista la prima macchina fotografia (Bencini Comet, per 800 lire). Se continuo così mi viene da piangere o vomitare, per le banalità biografiche del riciclo. Chi ha scritto di Mario Giacomelli non omette di collegare la conoscenza di Giuseppe Cavalli (che abita a pochi passi dalla tipografia) alla nascita della sua fotografia. Ricorda che Cavalli, Mario Finazzi, Ferruccio Leiss, Federico Vender e Luigi Veronesi hanno fondato il Circolo Fotografico La Bussola, punto di riferimento dell’emergente fotografia amatoriale italiana. In vero, sono una specie di congrega piuttosto dandy, dove si parla e espone una sorta di “fotografia crociana”, assai distante dalla realtà dell’Italia post-fascista o cattocomunista. Basta leggere i loro postulati (oltre che vedere le loro immagini), e non è difficile intuire che a questi garbati fotografi interessa più l’estetica del segno che il segno della storia. Poi è la volta di altri “mentori” affibbiati a Mario Giacomelli (Paolo Monti, Fulvio Roiter, Piergiorgio Branzi...), che poco hanno a che vedere con la sua “realtà materica”.
L’ESTETICA DEL SEGNO E IL SEGNO DELLA STORIA La fotografia “civile”, che alcuni dei suoi pretesi “maestri” sostengono di fare, resta comunque fuori o estranea, e molto, dalla scrittura fotografica di Henri Cartier-Bresson, Paul Strand o August Sander, che
dicono di conoscere. Non esiste un uso buono o cattivo della fotografia di impegno civile, soltanto un suo uso insufficiente. La fotografia autentica è quella che restituisce gli stupori dell’infanzia e intarsia passioni estreme che non ignorano nulla e non omettono l’origine del male. Detto meglio: la fotografia che sacralizza la forma uccide l’esistenza quotidiana. La libertà radicale della fotografia sociale, o delle periferie invisibili della Terra, ridà vita al linguaggio fotografico e mostra che l’iconografia dominante parla una lingua morta. La fotografia ereticale non è prevista nel progetto creativo, accettato e ri/prodotto dall’ordine universale dei saperi. Confesso qui che una notte di San Bartolomeo, tra i fotografi mi farebbero piacere tutti questi fanatici dell’apologia dell’apparenza: «vorrei poterli appendere per la lingua, e lasciarli cadere in un letto di gigli. È mai possibile che non ci resti nemmeno l’elementare prudenza di sopprimere sul nascere ogni vocazione soprannaturale?» (Émile Cioran). Ciò che lega l’estasi alla maledizione è l’eresia. Il delirio di grandezza rende stupidi. Ogni rivolta è atea. L’ebbrezza della fotografia attende la colpa al varco. In una parola: la storia della fotografia sociale è storia della diserzione che fa scandalo o non è nulla. Ciò che ogni giorno ci uccide non è la consapevolezza dei dolori dell’umanità ma l’avvilente stupidità dell’uomo.
DELLA FOTOGRAFIA MATERICA La fotografia materica, o della sofferenza, di Mario Giacomelli viola il reale e in forma di sequenze disvela ciò che il convenzionale cela, nasconde o tradisce. A vedere in profondi-
tà, le immagini dei pretini che giocano nella neve, o a sfogliare la ritrattistica dei vecchi dell’ospizio di Senigallia, non è difficile scorgere la sensibilità tragica di Mario Giacomelli, quell’etica del disincanto o della solitudine presenti anche nelle fotografie di Scanno. La favola non sta nel “toccare” luoghi “incontaminati” (come è stato detto), ma nel dare dignità a ciò che lo sguardo dell’artista scippa alla miseria dell’esistenza. Non ci interessa niente sapere che Mario Giacomelli ama le macchine da corsa quanto la poesia (ne ha scritte di davvero brutte); ci importa, e molto, che abbia fatto del mezzo fotografico una sorta di metafisica del segno che diserta correnti e celebrazioni. Non bisogna abbattere la fotografia della disumanità ma il sistema che l’ha eretta a mito. L’affabulazione fotografica di Mario Giacomelli è svincolata dalla cronaca, dal documentarismo, dal reportage come artifici sottratti al dolore degli altri; è un fare-fotografia dove la verità è una scelta, non un obbligo. «Fin dal primo rullino, mi sono accorto che il mezzo meccanico non conta niente, perché sono sempre riuscito a far fare alla macchina fotografica quello che volevo» (Mario Giacomelli). Orribile non è fotografare la rappresentazione dell’orrore quotidiano, ma la scenografia banalizzata che lo frantuma nella merce. L’edonismo dello spettacolare integrato si nutre di nani che si lasciano divorare nei cessi della storia per un po’ di celebrità. I commentari sulla società dello spettacolo sono riuniti qui: «Il governo dello spettacolo, che attualmente detiene tutti i mezzi per falsificare l’insieme della produzione, nonché della percezione, è padrone as-
soluto dei ricordi e padrone incontrollato dei progetti che plasmano l’avvenire più lontano. Egli regna da solo ovunque; egli esegue le sue sentenze sommarie» (Guy Debord). La libertà di espressione porta in sé la critica delle idee, che una volta separate o dissidenti dalla mondanità del nulla si trasformano in valori e svuotano l’apparenza di ogni pretesa autenticità. Sperare di trovare una morale nella fotografia mercantile, specie italiana (che non sia quella da “grandi magazzini”), è vano quanto spiegare ai bambini delle discariche di Mogadiscio di non morire per fame e andare a caccia di farfalle col retino. I serventi della fotografia imperante obbediscono al settarismo che li comanda e li sostiene in bella unanimità inespressiva, dispersa su cumuli di spazzatura smerciata come “arte”. Le serie fotografiche di Mario Giacomelli che più ci attanagliano il cuore sono Vita d’ospizio, i Pretini e Scanno: queste immagini hanno lasciato il segno nell’immaginario fotografico di molti e fanno parte di quella memoria pittorica, “nobile” (sentiamo qui alzarsi le grida di dissenso dei soliti ciabattini della critica mondana) o, se vogliamo, “manierista”, cara a Pier Paolo Pasolini, come le figure dolenti di Pontormo o Masaccio. E non è poco. Le immagini dell’ospizio sono abrasive, i ritrattati perdono l’aura di uomini, di donne e divengono frammenti sacrali della sofferenza. La gioiosità androgina dei pretini che fanno il girotondo nella neve è colta con notevole bellezza estetica e, a ben vedere, fa riflettere sulla “mala educazione” che emerge nei luoghi di fede o di costrizione, dove ciascuno è solo di fronte a se stesso e a Dio e va alla deriva della pro-
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pria castità o sessualità condivisa o deflorata. Il ragazzino con le mani in tasca di Scanno porta in sé la solitudine di tutti i Sud del mondo. In fase di stampa, Mario Giacomelli interviene pesantemente sulla fotografia (atteggiamento abituale in tutto il suo lavoro) e si fa beffe dell’oggettività teorizzata da puristi dell’immagine insegnata. Mostra che si può ricorrere a ogni manipolazione, anche la più grezza, per difendere la propria opera dalle banalità accademiche che vogliono distruggerla. A John Szarkowski, all’epoca direttore del dipartimento di fotografia del Museum of Modern Art di New York, non sfuggì la bellezza ereticale di alcune immagini di Scanno; le acquistò e le pubblicò nel volume Looking at Photographs: 100 Pictures from the Collection of the Museum of Modern Art. I Pretini vennero esposti con successo al Metropolitan Museum di New York, a Bruxelles... e la fama (se non la ricchezza) raggiungono Mario Giacomelli, con merito. Nell’arte materica di Mario Giacomelli non tutto è poesia. Le fotografie del suo viaggio a Lourdes (insieme al figlio disabile), i ragazzi in amore sul prato e davanti al mare, il mattatoio, i nudi di uomini e donne sono davvero poca cosa. La fotografia resta a metà tra reportage e racconto poetico, e forse fallisce entrambe le visioni. Gli studi di Mario Giacomelli sul legno, i paesaggi aerei, le elaborazioni fotografiche a Caroline Branson (1971-73), le nature morte colorate e anche i contadini di La buona terra (1964-66) esprimono una sperimentazione coraggiosa, ma non una poetica compiuta. Per quanto riguarda l’attività di Mario Giacomelli tipografo, gallerista, campeggiatore, amante di belle donne e tutto il resto, del quale sembrano interessati gli abatini della critica ufficiale, si tratta di vicende che lasciamo volentieri ai dibattiti ri-
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Pino Bertelli: La fotografia muore di fotografia, qui e in ogni luogo dove la fotografia è solo merce. Mario Giacomelli: Solo la poesia salva la fotografia dalla banalità della copia. PB.: Ci sono troppi artigiani della fotografia che si spacciano come artisti, sono solo buffoni del mercato. MG: Gli artisti non sono mai contemporanei alla propria arte, il resto è niente. PB: Sarebbe piacevole impiccare il primo dei fotografi celebrati per la loro merce, che nulla ha a che fare con la fotografia, con l’ultimo dei mercanti dell’iconografia dello spettacolo. MG (dopo un sorriso dolce, e grattandosi i capelli lunghi e bianchi): C’è tanta fotografia che non capisco né approvo... ma le cose vanno così... la fotografia è altra cosa da molte cose che si vedono. PB: L’assoluta tolleranza di tutte le opinioni fotografiche deve avere come fondamento l’intolleranza assoluta di tutte le barbarie smerciate come arte, non solo fotografica. Conversazione tra Mario Giacomelli e Pino Bertelli, nel corso della presentazione del libro Contro la fotografia di Pino Bertelli (novembre 1999, Galleria Photology, Milano)
provevoli sulla fotografia come linguaggio per le masse. Riteniamo importante sottolineare, comunque, che la fotografia materica di Mario Giacomelli emerge dall’attraversamento della realtà e dai suoi esordi -Verrà la morte e avrà i tuoi occhi (1955-56), Scanno (1957-58), Io non ho mani che mi accarezzino il volto (196163), passando per Un uomo, una donna, un amore (196061), l’Omaggio a Spoon River (1971-73), Il teatro della neve (1984-86), Ninna Nanna (198587), L’infinito (1986-88), A Silvia (1987-88), Felicità raggiunta, si cammina (1986-92), commento alla poesia di Mario Luzi, fino ad arrivare a La mia vita intera (2000), elogio alla poesia di Jorge Luis Borges- le contaminazioni nichiliste di Mario Giacomelli figurano il tentativo, non sempre riuscito, di un’estetica della sgranatura, dell’intervento sul negativo, del mosso, dell’inquadratura anomala, che al fondo della “poetica della diserzione” di Mario Giacomelli significano libertà di espressione dell’artista in rapporto alla storia fotografata. Il luteranesimo (non solo) fotografico è sempre stato scuola di stupro. Al di là dei nostri amori (altri) in fotografia -tutta gente allevata nella pubblica via e che ha conosciuto le galere, i manicomi, gli obitori della civiltà dello spettacolo-, nell’opera di Mario Giacomelli si riconosce la contestazione dell’esistente e il risveglio, forse, del desiderio di vivere senza santi né eroi. La fotografia corrente trasfigura il crimine e giustifica i campi di grano nuclearizzati. I nostri occhi “sanno” ormai tutto, perché sono stregati del “nulla” che abbevera la nostra vivenza. Dopo una lunga malattia, Mario Giacomelli muore a Senigallia, nel novembre 2000 (a settantacinque anni). Scompare l’uomo, ma non il poeta della fotografia materica. Pino Bertelli (15 volte dicembre 2004)
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