Mensile, 5,70 euro, Poste Italiane SpA - Spedizione in abbonamento postale - D.L. 353/2003 (convertito in Legge il 27-02-2004, numero 46), articolo 1, comma 1 - DCB Milano - Contiene I.P.
ANNO XIII - NUMERO 122 - GIUGNO 2006
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Biennale di Brescia APPUNTI PER UNA STORIA DELLA FOTOGRAFIA AL FEMMINILE
VOCE DI DONNA
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WORLD PRESS PHOTO A LUCCA. Lo scorso maggio, riferendo dello svolgimento dell’edizione 2006 del World Press Photo, al solito relativa a reportage realizzati l’anno precedente (2005), abbiamo commentato che la mostra annuale itinerante fa tappa in Italia. Abbiamo così ricordato le date degli allestimenti di Roma e Milano di maggio, rispettivamente al Museo di Roma in Trastevere e alla Galleria Carla Sozzani. Contrariamente alle nostre consuete attenzioni, abbiamo colpevolmente omesso di ricordare che a fine anno lo stesso allestimento espositivo viene presentato nell’ambito del qualificato LuccaDigitalPhotofest, che lo scorso novembre ha inaugurato il proprio percorso, che si annuncia a cadenza annuale (FOTOgraphia, febbraio 2006). Chiediamo scusa a tutti: ai lettori, prima di altri, cui abbiamo trasmesso un’informazione inesatta, quantomeno incompleta, e all’organizzazione del World Press Photo, che si impegna nella diffusione del fotogiornalismo contemporaneo anche con l’organizzazione e svolgimento di queste mostre, che arrivano in Italia a cura di referenti nazionali (nello specifico, l’Agenzia Contrasto e l’Agenzia Grazia Neri). Ma, soprattutto, chiediamo scusa all’organizzazione del LuccaDigitalPhotoFest, che è nato affermando solidi princìpi di seria e concentrata attenzione al linguaggio fotografico, affrontato con piglio e avvincente competenza. In un apprezzato equilibrio tra forma e contenuti (che è poi uno dei temi che sottolineiamo con maggiore frequenza e insistenza), LuccaDigitalPhotoFest offre alla fotografia spazi espositivi di assoluto prestigio e accattivante richiamo, che si aprono a un pubblico numericamente consistente. Nello specifico, lo scorso anno la selezione completa del World Press Photo 2005 fu presentata nelle sontuose sale del piano nobile di Villa Bottini, ottimamente restaurate (qui sotto). Ci auguriamo che la Seconda edizione del programma confermi il luogo, dove queste immagini sono allestite in una cornice e una scenografia che danno adeguato risalto all’incessante serie di immagini, consentendone una visione e fruizione particolarmente concentrata.
Con Voltaire (?): non condivido le tue idee, ma sono disposto a dare la vita affinché tu possa esprimerle.
Copertina Fotografia di Cindy Sherman (Lucille Ball, 1971). Dalla Biennale Internazionale di Fotografia di Brescia, indirizzata alla fotografia al femminile. Da pagina 28
3 Fumetto
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In sintonia alla fotografia al femminile, oggi affrontata in forma sostanzialmente monografica, dettaglio da una vignetta/tavola di Valentina assassina di Guido Crepax (1975-76). Nei fumetti di Valentina si esalta anche la professione fotografica della protagonista (in FOTOgraphia del settembre 2003, ricordo dell’autore, all’indomani della sua scomparsa)
7 Editoriale L’avvincente e concreto apporto delle autrici al femminile è stato spesso ignorato dalla storiografia ufficiale. Il concentrato programma della Biennale Internazionale di Fotografia di Brescia colma un colpevole vuoto. In sostanziale monografia, testimoniamo da pagina 28
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9 Una nuova fotografia Le funzioni fotografiche abbinate al telefono cellulare danno avvio a una concezione innovativa dell’immagine
12 Notizie Attrezzature, vicende e altre segnalazioni
14 The Blue Room Immagini di Guido Harari in mostra. Una volta ancora, ritratti di musicisti internazionali, dentro e fuori la scena
18 Viaggio in Basilicata Sostanzioso Premio Internazionale di fotografia, arrivato alla Seconda edizione, rivolto ai Giovani e il futuro
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21 Manifesto immediato I fotografi Polaser, indirizzati soprattutto all’espressività della fotografia a sviluppo immediato, ma non soltanto, propongono un rinnovamento culturale d’avanguardia
24 Ancora 150anni
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Tre recenti individuazioni di una celebrazione datata (1839-1989): da Polonia, Unione Sovietica e Repubblica popolare cinese (con altri contorni) Ricerca iconografica di Filippo Rebuzzini
. GIUGNO 2006
RRIFLESSIONI IFLESSIONI,, OSSERVAZIONI OSSERVAZIONI EE COMMENTI COMMENTI SULLA SULLA FFOTOGRAFIA OTOGRAFIA
28 Voce di donna Immagini, ma soprattutto testi, per una nuova visione di Maurizio Rebuzzini
Anno XIII - numero 122 - 5,70 euro
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DIRETTORE
RESPONSABILE
Maurizio Rebuzzini
30 Appunti per una storia della fotografia al femminile
IMPAGINAZIONE
Una storia della fotografia, osservata da angolature diverse di Giuliana Scimé
REDAZIONE
Gianluca Gigante
30 Quesito
Alessandra Alpegiani Angelo Galantini
Gioco su trenta immagini: al femminile e maschile
FOTOGRAFIE
32 Appunti per una storia della fotografia al femminile
Alessandra Alpegiani Antonella Simoni
Selezione di immagini dalla mostra a tema
SEGRETERIA Maddalena Fasoli
38 Dagli Emirati
HANNO
Alia Al Shamsi, unica fotogiornalista degli Emirati Arabi
40 Perfume de mujer
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Fotografia in Messico, tra storia e contemporaneità di Giuliana Scimé
44 Nel silenzio di una storia Quattro autrici contemporanee: frammenti di storie sospese di Gigliola Foschi
46 Contempor’art Arte contemporanea a declinazione fotografica di Ken Damy
Redazione, Amministrazione, Abbonamenti: Graphia srl, via Zuretti 2a, 20125 Milano; 02-66713604, fax 02-66981643; graphia@tin.it.
48 Florence Henri Portrait de femmes: significativa selezione di ritratti di Ferdinando Scianna
50 Martine Franck
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Ritratti senza invadere lo spazio del soggetto di Elliott Erwitt Da un corpus di spessore, immagini al femminile
40 Programma Seconda Biennale Internazionale di Fotografia di Brescia
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Hasselblad H2D-39 con sensore da 39 Megapixel di Antonio Bordoni
Fujifilm FinePix F30 Zoom fino a 3200 Iso equivalenti
Fotocomposizione DTP e selezioni litografiche: Rouge, Milano Stampa: Arti Grafiche Salea, Milano
62 Leica QuattroTerzi Zoom Leica D Vario-Elmarit 14-50mm f/2,8-3,5 Asph
Sguardi su una realtà oggettiva della fotografia di Pino Bertelli
● FOTOgraphia Abbonamento 12 numeri 57,00 euro. Abbonamento annuale per l’estero, via ordinaria 114,00 euro; via aerea: Europa 125,00 euro, America, Asia, Africa 180,00 euro, gli altri paesi 200,00 euro. Versamenti: assegno bancario non trasferibile intestato a Graphia srl Milano; vaglia postale a Graphia srl - PT Milano Isola; su Ccp n. 28219202 intestato a Graphia srl, via Zuretti 2a, 20125 Milano; addebiti su carte di credito CartaSì, Visa, MasterCard. ● Nessuna maggiorazione è applicata per i numeri arretrati. ● È consentita la riproduzione di testi e fotografie, magari citando la fonte (ma non è indispensabile, né obbligatorio farlo). ● Manoscritti e fotografie non richiesti non saranno restituiti; l’Editore non è responsabile di eventuali danneggiamenti o smarrimenti.
60 Così come si vede
64 Renzo Chini
● FOTOgraphia è una pubblicazione mensile di Graphia srl, via Zuretti 2a, 20125 Milano. Registrazione del Tribunale di Milano numero 174 del Primo aprile 1994. Poste Italiane SpA - Spedizione in abbonamento postale - D.L. 353/2003 (convertito in Legge il 27-02-2004, numero 46), articolo 1, comma 1 - DCB Milano. ● A garanzia degli abbonati, nel caso la pubblicazione sia pervenuta in spedizione gratuita o a pagamento, l’Editore garantisce la massima riservatezza dei dati forniti dagli abbonati e in suo possesso, fatto diritto, in ogni caso, per l’interessato di richiederne gratuitamente la rettifica o la cancellazione ai sensi della legge 675/96.
52 Collezione privata
58 Senza dubbio, professionale
COLLABORATO
Ulisse Ariazzi Licia Bergonzi Pino Bertelli Antonio Bordoni Museo Ken Damy (Brescia) Loredana Patti Franco Sergio Rebosio Ciro Rebuzzini Filippo Rebuzzini Giuliana Scimé Zebra for You
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■ BELGIO Photo Video Audio News ■ FRANCIA Chasseur d´Images • Réponses Photo ■ GERMANIA Digit! • Inpho • Photographie • PhotoPresse • Photo Hits • ProfiFoto ■ GRECIA Photographos • Photo Business ■ INGHILTERRA Digital Photo • Practical Photography • Professional Photographer • Which Camera? ■ ITALIA Fotografia Reflex • FOTOgraphia ■ OLANDA Digitaal Beeld • Foto • Fotografie • Fotovisie • P/F ■ POLONIA Foto ■ PORTOGALLO Foto/Vendas Digital ■ RUSSIA Photomagazin ■ SPAGNA Arte Fotográfico • Diorama • Foto/Ventas • FV/Foto-Video Actualidad • La Fotografia Actual ■ SVIZZERA Fotointern
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istribuito sull’arco di tre mesi, fino a metà settembre, il consistente programma di mostre della Seconda Biennale Internazionale di Fotografia di Brescia affronta un argomento tra i più spinosi della lunga storia della fotografia. Un corposo insieme di mostre a tema, alcune storico-retrospettive, altre di stretta contemporaneità, alcune collettive, altre personali, indagano la presenza femminile nell’ambito della vicenda fotografica, che si allunga su un’estensione temporale di quasi centosettant’anni, dalle origini (1839). Il tema proposto, Appunti per una storia della fotografia al femminile, riprende e fa suo il contenitore nel quale Ken Damy, Giuliana Scimé e Mario Trevisan hanno inquadrato un percorso storico discriminante. Oggi ci attardiamo sulla Biennale, cui riserviamo un consistente numero di pagine, in forma, diciamo così, monografica (da pagina 28): l’attenzione è opportuna, in relazione agli intendimenti dichiarati della manifestazione. Come commentiamo nella nostra introduzione, a pagina 28, non concordiamo appieno con lo svolgimento del programma. Siamo addirittura lontani da molte delle visioni proposte, che penalizzano il racconto della vita, che nasce dalla fotografia del vero; mentre la Biennale dà più spazio alla ricerca artistica. Ma queste discordanze non contano; discriminante è il tema al femminile. Non contano i distinguo, ribadiamo, ma bisogna soffermarsi soprattutto sul contenitore complessivo, che pone l’accento su un aspetto sostanzialmente ignorato dalla storiografia ufficiale della fotografia. Soprattutto per questo, ma non soltanto per questo, le pagine monografiche (da 30 a 57!) sono attraversate dal saggio con il quale Giuliana Scimé ha presentato la selezione Appunti per una storia della fotografia al femminile, esprimendo intenzioni e punti di vista (qualificati e qualificanti) che si proiettano sull’intera manifestazione. Si tratta di un testo esemplare per tragitto e svolgimento, che stabilisce inviolabili princìpi, esprime considerazioni di sostanza e getta le basi per una adeguata riscrittura (se possibile) della Storia della fotografia, dalla quale le autrici sono state colpevolmente escluse (salvo rari e identificati casi: per quanto significativi, ne siamo convinti, non adeguatamente rappresentativi di un apporto di ben altro spessore, quantitativo, ma soprattutto qualitativo). Nessuna storia può essere esaustiva, ce ne rendiamo conto. Ma che almeno non siano dolosamente parziali: e l’assenza dell’altra metà del cielo è soltanto una di quante se ne possono rimproverare ai racconti più accreditati, che ricordiamo nella nostra introduzione, appena menzionata. Con questi Appunti, si colma un vuoto, si cancella un silenzio ingannevole. Per cui, a conseguenza, passano in secondo piano gli eventuali distinguo sull’insieme delle mostre, sulla eccessiva visibilità di esperienze minori, su un programma costellato di alti e bassi. Alla resa dei conti, si impone l’idea, il tema. La visibilità dell’apporto femminile alla storia della fotografia ci basta. Un passo alla volta. Maurizio Rebuzzini
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Lo scorso dicembre abbiamo avuto modo di presentare il romanzo di Isabel Allende Ritratto in seppia, soffermandoci sull’illustrazione di copertina dell’edizione nella collana Universale Economica di Feltrinelli: ritratto ambientato di Marcia Lieberman in sintonia con il titolo. Accodandoci agli Appunti per una storia della fotografia al femminile, in programma a Brescia fino a metà settembre, oggi sottolineiamo che il racconto ha come filo conduttore l’attività fotografica della protagonista Aurora del Valle: a cavallo tra Ottocento e Novecento.
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si migliora e lo fa in grande stile
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UNA NUOVA FOTOGRAFIA
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Personalmente, non sono allineato con la moltiplicazione (accelerata) dei TIPA Awards, che anno dopo anno stanno aumentando di quantità. Per quanto, come annotato da Antonio Bordoni nella relazione in cronaca delle assegnazioni 2006 (FOTOgraphia, maggio 2006), uno spostamento/slittamento delle indicazioni sia pur legittimo, la dilatazione eccessiva rischia di rivelarsi per se stessa, appunto dilatazione, più che per i propri effettivi contenuti. Allo stesso momento, un altrettanto disteso puntiglio tecnico potrebbe attenuare il concentrato senso, spessore e valore delle indicazioni dell’autorevole, prestigiosa e qualificata associazione di categoria, forte del punto di vista e osservazione dei rappresentanti delle trentun riviste fotografiche europee che la compongono. Tutto questo, in introduzione, per isolare dalla consistente quantità dei TIPA Awards 2006 una delle segnalazioni a nostro attuale modo di pensare autenticamente discriminante e fondamentale. Nel rispetto di ogni altra solidità tecnologica e produttiva, sia con profonde radici fotografiche (apparecchi digitali e obiettivi, sopra tutto), sia di nuovo conio nell’ambito dello stesso odierno mondo fotografico (dai software alle periferiche tutte), la categoria nella quale si è affermato e imposto il Nokia N80 va stretta a questo straordinario e innovativo strumento (e relativa genìa in rapida evoluzione tecnologica). Del resto, la certezza di una categoria definita -nello specifico, “Telefonino fotografico”- è indispensabile ai TIPA Awards, così come è confortevole in tanti altri momenti, non soltanto, né necessariamente, fotografici. In definitiva, e direttamente, il «nostro attuale modo di pensare» (riprendiamo e ribadiamo) considera il Nokia N80, e quanto gli sta per succedere in linea diretta, e gli succederà nei prossimi mesi, espressione di spicco e punta di una autentica rivoluzione culturale, espressiva ed esistenziale; e non già di una “sola” analoga innovazione tec-
Premio TIPA 2006 nella categoria Telefonino fotografico (indispensabile per una identificazione comunque sia oggettiva), il Nokia N80 include in sé i termini di una nuova fotografia: non più dall’alto, ma della autentica vita quotidiana. Ne riparleremo.
nologica. Non a caso, mutuando la motivazione originaria del Premio, lo scorso maggio abbiamo annotato come «L’identificazione merceologica [appunto, “Telefonino fotografico”] sia ormai povera, lontana dal vero, ma quantomeno necessaria per stabilire parametri in qualche modo oggettivi. Infatti, il Nokia N80 è un autentico dispositivo (strumento o utensile) multimediale, dotato di una miriade di funzioni operative, molte delle quali proiettate nell’imaging. [...] Il domani, se a questo stiamo anche riferendoci, è già oggi».
APPROFONDIMENTO NECESSARIO
Purtroppo, la frenesia con la quale ogni tecnologia applicata alla produzione e gestione delle immagini irrompe sul mercato, quasi annullando ogni esperienza precedente, non concede tempo e spazio alla riflessione e alla consistente analisi di fatti, fenomeni e conseguenti socialità. La sola sottolineatura delle apparenze, a partire da quelle appunto tecniche, soffoca la sostanza delle consecuzioni: possibili, potenziali e, a nostro modo di pensare, inevitabili. Al giornalismo, nel nostro caso di settore, spetta dunque il compito di integrare la voce ufficiale dell’industria, che pure continua a diffondersi con propri tempi e modi informativi, che non debbono restare unici. Il giornalismo deve inserirsi tra le pieghe delle sintetiche e statiche ufficialità formali, annotando le consecuzioni e proiezioni. Una volta individuate quelle di valore e sostanza, le riflessioni, le parole, debbono essere portate in superficie ed esposte alle luci della ribalta. Nella pratica, le funzioni fotografiche attualmente abbinate ai telefonini multimediali (al cui vertice collochiamo la genìa cui appartiene il Nokia N80, TIPA Award 2006) non considerano l’immagine come punto di arrivo conclusivo, come è sempre stato per gli strumenti propri della fotografia, intesa in senso tradizionale. A differenza, e che differenza!, per il telefonino fotografico (in attesa di definizione più calzante) l’immagine è quasi un punto di partenza, per successive gestioni e utilizzi. Sia l’immagine fissa, parente della fotografia, sia quella in movimento, derivata dalla ripresa cinematografica e video, sono latenti nel telefonino, pronte per infiniti propri utilizzi specifici, in linea e sintonia con l’attuale socialità dell’immagine. È fin banale, ma dall’invio mms alla trasmissione in Rete, dalla condivisione a tanto altro, questa immagine è
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qualcosa di altro (tanto!) rispetto la convenzionale fotografia.
AL GIORNO D’OGGI Per questo motivo, e per tanti altri ancora, proponendoci noi come osservatori del costume fotografico, nei prossimi mesi analizzeremo sistematicamente le proiezioni sociali e di costume delle possibilità tecnologiche implicite in questo diverso modo di intendere l’immagine. I punti di contatto con la storia evolutiva del linguaggio fotografico ci appaiono soltanto apparenti. A «nostro attuale modo di pensare», quello che nasce con il telefonino è qualcosa di profondamente diverso, sia che si manifesti con connotati conosciuti e riconosciuti (la stampa su carta, per esempio), sia che si esprima in modalità del tutto nuove e una volta impensabili. Tra l’altro, riprendendo un’idea già espressa, con le funzioni fotografiche abbinate al telefonino, og-
getto individuale che definisce l’attuale realtà del mondo occidentale (ma non soltanto di questo), l’immagine diventa autenticamente a portata di ciascuno. Ognuno può declinare in fotografia e con la fotografia le proprie emozioni, senza necessariamente vantare frequentazioni fotografiche specifiche o intenzioni originarie. Cioè, ognuno può oggi realizzare immagini senza essere specificamente equipaggiato con una macchina fotografica, portata volontariamente appresso. Di più. La libertà di fotografia indotta dalle funzioni fotografiche abbinate al telefonino (ribadiamo e confermiamo, oggetto individuale ormai indispensabile nel mondo occidentale) può anche non appartenere alla lunga storia evolutiva della fotografia, dalle origini ai giorni nostri. Questa tecnologia applicata manifesta e rivela altri debiti di riconoscenza, esterni ed estranei -appunto!- alla consecuzione fotografica. Non nasce nel
mondo dell’immagine, ma declina l’immagine nel mondo quotidiano. E la differenza non è da poco. Ancora di più. Esaurite le ubriacature dei nostri giorni, durante i quali un certo eccesso individuale di immagine sta confondendo un poco le idee di tutti, quella del telefonino si imporrà come altra fotografia rispetto a quella che abbiamo fin qui conosciuto. Non sarà più una fotografia consapevole di se stessa e del proprio linguaggio espressivo, ma una fotografia di ogni giorno, realizzata spontaneamente. Insomma, non più la fotografia confezionata da operatori comunque sia colti e consapevoli, ma fotografia della vita, raccolta e isolata nel proprio effettivo svolgimento. Se anche con questo stiamo per avere a che fare, prepariamoci a un nuovo, considerevole e rilevante capitolo della comunicazione visiva. M.R.
NULLA AL CASO. Premio TIPA 2006 nella categoria del Design applicato alla fotografia, la linea di borse Kata si distingue per una configurazione di massima protezione e sicurezza del prezioso materiale trasportato. Gli interni gialli non sono solo un elemento decorativo, ma rappresentano la soluzione per individuare immediatamente tutto quanto viene inserito nelle borse, fino ai più piccoli accessori. A seguire, TST, Elements Cover, EPH, Modi-Vers sono denominazioni che identificano e significano protezione antiurto e antipioggia, ergonomia, modularità, rapidità di accesso alle attrezzature, comodità ed efficienza. Tra le diverse soluzioni, se ne segnalano due di recente realizzazione. Lo zaino KT R-103 è stato pensato per le esigenze e necessità della fotografia digitale. Accoglie un sostanzioso corredo reflex con due corpi macchina (oppure una reflex abbinata a una videocamera), quattro o cinque obiettivi intercambiabili (dipende dai relativi ingombri) e accessori, ordinatamente collocati nell’apposita tasca. Con la consistenza della protezione TST e la copertura Elements Cover, permette la corretta collocazione anche di un computer portatile, in appoggio alla dotazione fotografica. Lo zaino Kata KT R-103 si integra con gli altri componenti del proprio sistema modula-
re EPH (Ergonomic Photo). Quindi, subito dopo, si registra la capace borsa Kata KT MC-61, indirizzata a corredi fotografici particolarmente abbondanti, con più obiettivi, flash, alimentatori, cavi e accessori. Non è soltanto un problema (una soluzione) di capienza, quanto di razionale sfruttamento dell’ampio spazio disponibile, confortevolmente diviso in scomparti su piani diversi e accessi indipendenti. In questo modo, computer, alimentatori, cavi e dotazioni d’appoggio sono indipendenti dalle attrezzature principali, vere e proprie di ripresa, a completo vantaggio della praticità e senza rischio di smarrire qualcosa. (Bogen Imaging Italia, via Livinallongo 3, 20139 Milano).
E-TV ONLINE. Ricco palinsesto che da satellite si trasferisce su web (www.epson.it), per continuare l’esperienza di E-TV - Discover Epson, un itinerario alla scoperta del mondo Epson che prosegue online con una programmazione video in continua evoluzione. Epson, da sempre attenta ai contenuti della propria comunicazione sotto il profilo di precisione, affidabilità e chiarezza è altrettanto attenta nella scelta dei mezzi attraverso i quali comunicarli. La diffusione della banda larga permette oggi di utilizzare Internet in tutte le proprie potenzialità, compresa la visione di filmati, e di godere, quindi, dei vantaggi propri di questo mezzo di comunicazione, dalla sua illimitata diffusione territoriale, alla sua qualità di mezzo interattivo che prevede una fruizione attiva e on demand. E-TV online è una vera e propria sezione del sito Epson, con un “palinsesto” articolato in cinque parti: prodotti, tecnologie, tutorial, testimonial ed eventi. (Epson Italia, via Viganò De Vizzi 93-95, 20092 Cinisello Balsamo MI). RESISTENTE. La compatta digitale Olympus µ Digital 720 SW è straordinariamente robusta. Impermeabile fino a tre metri e
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resistente alle cadute accidentali da un metro e mezzo, sopporta piccoli incidenti quotidiani e, allo stesso tempo, offre una eccellente versatilità di scatto. Naturalmente, la µ Digital 720 SW garantisce anche considerevoli prestazioni fotografiche. Le immagini sono nitide e dettagliate, grazie ai 7,1 Megapixel e al preciso zoom ottico 3x (equivalente all’escursione 38-114mm della fotografia 24x36mm). La tecnologia BrightCapture del monitor LCD da 2,5 pollici permette di conservare le atmosfere naturali con il massimo realismo. In metallo, è disponibile in tre diverse colorazioni: Dusky Pink, Polar Blue e Steel Silver. Ventiquattro programmi di ripresa coprono la maggior parte delle situazioni di scatto, come i ritratti, i paesaggi e la fotografia d’azione (sport); non mancano modalità dedicate, quali le impostazioni create specificamente per fotografare sott’acqua. Anche i principianti possono prendere presto confidenza con le funzioni di uso grazie a un’intuitiva Funzione Guida, che spiega direttamente sull’LCD le differenti impostazioni. È anche possibile realizzare filmati in formato VGA. I file sono salvati su scheda xD-Picture Card standard o High Speed, comprensiva di funzioni aggiuntive 3D e Art. (Polyphoto, via Cesare Pavese 11-13, 20090 Opera Zerbo MI).
MAMIYA DIGITAL IMAGING COMPANY. Sullo scorso numero di maggio abbiamo dato notizia che dal primo settembre la giapponese Mamiya trasferirà le proprie attività nel campo della fotografia a Cosmo Digital Imaging Co. Il nuovo assetto societario nasce per rendere sempre più competitivo il marchio Mamiya sul mercato della fotografia professionale. Entria-
mo ora in maggiore dettaglio. Mamiya OP è una società articolata in tre divisioni: Apparecchi fotografici, Golf, Strumenti Elettronici. In base all’accordo annunciato, e appena ricordato, la divisione degli Apparecchi fotografici viene trasferita a una nuova società, denominata Mamiya Digital Imaging. Il signor Tsutsumi, presidente della Cosmo Digital Imaging Co, che ha appunto acquisito la Mamiya Camera & Optical Division, ha dichiarato: «Vogliamo concentrare i nostri sforzi nel progetto Mamiya ZD e relativo dorso digitale Mamiya. Contemporaneamente, continueremo a produrre le attuali macchine fotografiche Mamiya e i rispettivi obiettivi. Tutti i marchi, brevetti, fabbriche e magazzino della divisione Mamiya, assieme agli obiettivi e accessori, vengono trasferiti a Mamiya Digital Imaging, assieme alla maggior parte della manodopera specializzata, dei servizi tecnici, degli ingegneri addetti a ricerca e sviluppo e alla forza vendita. Confermo anche che non ci sarà alcun cambiamento nelle attività Mamiya, comprese quelle di marketing, distribuzione, vendita e servizi». Secondo quanto affermato da Tsutsumi, Mamiya Digital Imaging avrà il vantaggio di poter dedicare tutte le proprie energie nella ricerca e sviluppo delle nuove tecnologie digitali al servizio dei fotografi professionisti. «Sono convinto -ha continuato Tsutsumi- che la sinergia tra l’esperienza Mamiya nel campo delle macchine fotografiche e degli obiettivi, assieme alla nostra esperienza e capacità nel campo della tecnologia elettronica e nell’elaborazione di software, accelererà il processo innovativo della stessa linea di prodotti Mamiya». Mamiya Digital Imaging presenta i suoi nuovi prodotti in occasione della Photokina, che si terrà a fine settembre, poco dopo la sua piena operatività prevista per il Primo settembre. (Mamiya Trading, via Cesare Pavese 31, 20090 Opera Zerbo MI).
© 2006 National Geographic Society. NATIONAL GEOGRAPHIC e Yellow Border sono marchi commerciali di National Geographic Society. Tutti i diritti sono riservati. Fotografia di Jodi Cobb
IL TUO SPAZIO NELL’AVVENTURA.
ATTREZZATURE PROFESSIONALI FOTO E VIDEO
National Geographic, un nome che è sinonimo di avventura e di fotografia ad altissimo livello negli angoli più remoti del mondo. Per tutti i fotografi in sintonia con lo spirito di National Geographic, oggi abbiamo creato una linea ideale di treppiedi, teste, monopiedi, borse e zaini eccezionalmente robusti ma facili da usare, capaci di resistere anche nelle condizioni climatiche estreme. La nostra gamma di treppiedi comprende la linea NG Expedition, pensata per i professionisti dell’immagine, e la linea NG Tundra rivolta ai fotoamatori. La nuova collezione di borse Earth Explorer combina perfettamente le più aggiornate tecnologie per la protezione e il trasporto con i materiali naturali, il look tradizionale e l’affidabilità richiesta dalle grandi imprese di esplorazione. Visitateci al sito www.supporthexperience.com Coi suoi ricavi, National Geographic finanzia importanti progetti di esplorazione, conservazione, ricerca ed educazione. Acquistando i nostri prodotti prendete parte a questa grande avventura.
Distribuito in esclusiva da: Bogen Imaging Italia Via Livinallongo, 3 20139 Milano Tel. 02 5660991 www.bogenimaging.it info.foto@it.bogenimaging.com
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THE BLUE ROOM
Nuovo spazio espositivo, la Galleria ArteUtopia avvia il proprio programma con una particolare e avvincente mostra fotografica di Guido Harari, celebrato interprete (è il caso) del mondo musicale internazionale. Da oltre trent’anni noto e affermato fotografo dei personaggi della musica, Guido Harari ha illustrato centinaia di copertine, attraversando tutti gli stili espressivi (della musica): da Bob Dylan a BB King, da Paul McCartney a Frank Zappa, da Ute Lemper ai Simple Minds. Come fotografo ufficiale, ha seguìto le performance, tra gli altri, dei Dire Straits e dei Duran Duran, di Peter Gabriel, Pat Metheny e Santana. In Italia, ha collaborato soprattutto con Claudio Baglioni, Andrea Bocelli, Angelo Branduardi, Paolo Conte, Pino Daniele, Fabrizio De André, Ligabue, Gianna Nannini, PFM e Vasco Rossi. Prima dell’attuale selezione The Blue Room, alla quale stiamo per riferirci, ha allestito precedenti mostre a tema (Rockshots, 1983; Fotografie in musica, 1992; Italians, galleria di oltre cento ritratti di personalità italiane di rilievo internazionale, 2000; Fabrizio De André. Tempo sopra tempo, 2002; Strange Angels, 2003)
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(in basso, a sinistra) Laurie Anderson e Lou Reed
Kate Bush
e prodotto un sostanzioso portfolio di monografie; due citazioni, sopra tutte: Khulna, Bangladesh (con i medici del Progetto Sorriso nel Mondo, 2003) e The Beat Goes On (con Fernanda Pivano, 2004). Realizzata in collaborazione con Regione Lombardia, Fuji-Hunt, Epson e Imprint, The Blue Room è incentrata su quindici artisti, ognuno rappresentato con un portfolio di più immagini, che l’autore Guido Harari ha percepito come particolarmente vicini alla propria sensibilità fotografica e alle proprie passioni musicali: Laurie Anderson, Jeff
Buckley, Kate Bush, Vinicio Capossela, Leonard Cohen, Paolo Conte, Bob Dylan, Fabrizio De André, Peter Gabriel, Bob Marley, Joni Mitchell, Vasco Rossi, Patti Smith, Tom Waits e Frank Zappa. Apprezzato da queste autentiche stelle del firmamento musicale internazionale, che in varia misura hanno segnato in maniera indelebile e definitiva la storia della musica rock e pop, con il tempo Guido Harari ha stabilito con loro un affascinante rapporto di amicizia e complicità creativa. In pochi casi, come per Jeff Buckley e Bob Marley, si è trattato
Jeff Buckley
HANNO DETTO
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uido è diverso da qualunque altro fotografo. Non ama programmare una sessione fotografica, o magari sì, ma è sempre lì, presente, e «Ti dispiace se ti faccio un ritratto?». È fantastico, perché di solito rispondo che sì, vorrei, ma sono molto stanca, e d’improvviso lui salta da dietro l’angolo con un grande Ah!... Però Guido ha un suo certo modo di saltar fuori da dietro l’angolo, e così pensi, perché no, in fondo è roba di pochi secondi. La nostra è una collaborazione che si sviluppa sempre rapidamente, secondo modalità inattese. Non ha nulla a che vedere con quelle situazioni dove metti in mostra soltanto una certa parte di te, molto limitata. La sua è davvero una fotografia da kamikaze, molto diversa da quella di un paparazzo. Perché si tratta di autentica collaborazione. Guido non vuole rubarti nulla, ma piuttosto provare ad andare oltre l’apparenza. Questo è un modo molto eccitante di affrontare la fotografia, che produce risultati sempre imprevedibili. Laurie Anderson
(in basso, a destra) Leonard Cohen
A
mo lavorare con Guido. Ti fa sentire speciale perfino senza dire una parola. Lo considero un artista, oltre che un fotografo [per dove passa la linea demarcatoria?, ndr]. È pieno di creatività e inventiva, e attendo sempre con ansia di scoprire cos’altro saprà escogitare da una sessione all’altra. Kate Bush
S
ono sempre felice di farmi fotografare da Guido. So che le sue saranno immagini musicali, piene di poesia e sentimento. Ciò che Guido cattura nei suoi ritratti, nei miei e certamente in quelli di Laurie [Anderson], è generalmente ignorato da altri fotografi, per i motivi più vari. E poi questo tipo di fotografia è possibile solo con una persona amica, non con un estraneo. Io considero Guido un amico, non un fotografo, e per questo motivo riesce a cogliere immagini come queste. Lou Reed
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Paolo Conte
Vinicio Capossela
invece di incontri isolati, ma egualmente significativi. Molte delle immagini presentate sono fino a oggi inedite, presentate per la prima volta in questo particolare allestimento scenico, dove si accompagnano con ritratti noti, alcuni addirittura leggendari (in relazione diretta alla vicenda personale e artistica del soggetto): come quella di Fabrizio De André, addormentato contro un termosifone, o l’abbraccio molto privato di Lou Reed e Laurie Anderson (a pagina 14), o, ancora, Tom Waits in fuga con mantello. Per Guido Harari questi artisti sono stati e sono singolari compagni di viaggio, dei quali, nelle immagini, ha colto con naturalezza e ironia aspetti inattesi, certamente meno
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usurati ed effimeri rispetto la loro iconografia ufficiale. Grazie a una sorta di concordata violazione della privacy (argomento fotograficamente controverso, contraddittorio e doloroso), definita da un’intesa quasi telepatica tra fotografo e fotografato, tra musica e immagine, non è raffigurata solo l’ufficialità, ma è rappresentato anche un garbato e condivisibile dietro-le-quinte. Gli artisti sono osservati e fotografati da Guidi Harari nelle situazioni più disparate e insolite, in momenti privati e pubblici, in casa, in sala d’incisione, in concerto, nel limbo di un backstage, o, più semplicemente, colti su un set fotografico, in atteggiamenti e contesti spesso rivelatori della propria natura e carattere.
In combinazione con adeguati supporti tecnici finalizzati (ripetiamo: Fuji-Hunt, Epson e Imprint), oltre i propri contenuti espressivi, The Blue Room è formalmente definita da una particolare interpretazione delle stampe, che, come sottolinea il titolo, sono presentate in delicata intonazione blu (analoga al malsano viraggio chimico dei decenni scorsi). Sono ingrandimenti fine art giclée di medie e grandi dimensioni: stampe ink-jet su carta fine art, ricavate da scansioni digitali dei negativi originari, definite da un’assoluta fedeltà di riproduzione e gamma tonale rispetto le convenzionali stampe su carta fotografica. Angelo Galantini Guido Harari: The Blue Room. Galleria ArteUtopia, via Gian Giacomo Mora 5, 20123 Milano; 02-89055278; www.galleriarteutopia.com. Fino al 22 luglio; martedì-sabato 11,00-20,00. Con catalogo pubblicato da HRR Edizioni.
VIAGGIO IN BASILICATA
A
TURSTI (MATERA), 2004
POTENZA, SCUOLA ELEMENTARE DON BOSCO
Affascinante territorio, che evoca ricordi lontani, ma indelebili, soprattutto legati al memorabile racconto di Carlo Levi (ovviamente pensiamo al confino ad Aliano di Cristo si è fermato a Eboli) e a stagioni di ricerca e sperimentazione musicale e culturale, la Basilicata ribadisce una propria particolare attenzione fotografica, confermando la stagionalità (biennale) del proprio Premio Internazionale. Nel contenitore complessivo di Viaggio in Basilicata, che già definì la prima edizione 2004, con proprio indirizzo a Identità di un territorio, il bando di quest’anno si proietta verso I giovani e il futuro: la percezione di una speranza. Indetta dal Consiglio regionale della Basilicata, in collaborazione con l’Università inglese di Westminster (Master in fotografia) e l’Azienda di promozione turistica della Basilicata, la Seconda edizione del Premio Internazionale di fotografia ripete i connotati originari. Le motivazioni del Premio sono riconducibili alla volontà di sottolineare la personalità linguistica ed espressiva della foto-
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grafia; alla lettera (dal bando): «misura del sapere e mezzo di indagine ed esplorazione, nello specifico indirizzato al pianeta giovani, esposto a molteplici contraddizioni». Ancora: «Con una tecnica espressiva efficace, quale quella fotografica, capace di fondere descrizione e riflessione e far emergere il chiaroscuro della realtà, si invita a focalizzare l’attenzione sulle nuove generazioni, per captarne gli ideali, i valori e le delusioni e per poi fissarli in momenti di testimonianza e conoscenza. Di fronte a un mondo estraneo, le nuove generazioni coltivano i propri sogni e speranze, proiettandole in un futuro che caricano di aspettative. Il desiderio di cogliere queste tensioni e la voglia di far sentire la loro voce stanno alla base del progetto. A tutti si richiede di compiere uno sforzo di comprensione del fenomeno e di far emergere l’originalità del proprio stile». Queste dichiarazioni di sostanza, oggi si incontrano e miscelano con le pagine del corposo catalogo che raccoglie le immagini selezionate nel 2004 per Identità di un territorio (a cui parteciparono duecentotrenta autori da tutto il mondo, per duemilatrecento fotografie). Nel proprio insieme, queste immagini sottoscrivono l’essenza di quella componente della comunicazione visiva (fotografica) capace di tradurre la realtà. Nel farlo, gli autori hanno applicato un linguaggio osservatore nella coscienza e attento ai e nei contenuti. Inoltre, emozionalmente coinvolti, questi fotografi si sono espressi con la coerenza di concentrate esplorazioni dal vero, che si propongono come attimi rappresentativi di esistenza. Affiancandoci al pensiero di Ferdinando Scianna, magistrale fotografo e accreditato lettore e interprete del linguaggio fotografico, stimiamo che l’invito all’odierno e attuale Viaggio in Basilicata - I giovani e il futuro: la percezione di una speranza verrà colto da una fotografia «che privilegia il valore di racconto, di trac-
I GIOVANI E IL FUTURO edizione del Premio Internazionale di fotografia, intitolaSpe taeconda a I giovani e il futuro: la percezione di una speranza. Per stamda 24x30 a 30x40cm o file digitali Jpeg o Tiff di almeno 2Mb, a colori o in bianconero (non sono ammesse diapositive); da sette a dodici fotografie inedite che compongano un progetto interpretativo del tema. Tutte le fotografie iscritte al concorso diventano proprietà del Consiglio regionale della Basilicata e non saranno restituite. Le fotografie possono essere esposte e riprodotte a fini istituzionali, con il solo obbligo della menzione dell’autore, senza ulteriori compensi per il fotografo. Comunque, il diritto di autore resta del fotografo. Il regolamento completo e la scheda di partecipazione sono scaricabili dai siti www.basilicatanet.it e www.consiglio.basilicata.it. Tre premi di 5000,00 euro (al primo classificato), 3500,00 euro (al secondo classificato) e 2000,00 euro (al terzo classificato). Termine di iscrizione 30 settembre. Consiglio regionale della Basilicata, viale della Regione Basilicata 8, 85100 Potenza; 0971-447079; 800-292020; www.basilicatanet.it, www.consiglio.basilicata.it; viaggioinbasilicata@regione.basilicata.it.
Primo premio all’edizione originaria 2004 del Premio Internazionale Viaggio in Basilicata Identità di un territorio: Daniel-Manuel Dallerba, di Bologna, per il reportage Le Porte del Paradiso.
Secondo premio 2004: Renato Barbato, di Napoli, per il progetto Viaggio in Lucania.
cia del mondo, di intuizione, di folgorazione nel riconoscimento di istanti di vita, reali, surreali». Aperta a tutti i fotografi, professionisti e non professionisti, senza limiti di età, la partecipazione al Premio Internazionale è gratuita e subordinata all’iscrizione, che deve essere effettuata compilando la scheda scaricabile dai siti www.basilicatanet.it e www.consiglio.basilicata.it; invio a Consiglio regionale della Basilicata, viale della Regione Basilicata 8, 85100 Potenza. Sono accettate stampe e file digitali, a colori o in bianconero (non sono ammesse diapositive). Da sette a dodici fotografie devono comporre un progetto interpretativo del tema proposto, da commentare. Le fotografie inviate debbono essere inedite, mai state esposte o pubblicate su giornali, riviste, cataloghi e pagine web. È prevista una classifica per tre premi: 5000,00 euro al primo classificato, 3500,00 euro al secondo e 2000,00 euro al terzo. Termine di iscrizione 30 settembre. A.G.
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MANIFESTO IMMEDIATO
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Una presentazione grafica che richiama stagioni lontane, ma ancora vive, di fantastica sperimentazione, quando all’indomani della Grande guerra, smisurato e catastrofico sconvolgimento del mondo (occidentale), si manifestarono e affermarono straordinari pensieri culturali. Così si propone il definito Pola-Manifesto elaborato dal Gruppo Polaser, che fa esplicito riferimento al fondamentale Fotodinamismo futurista di Anton Giulio Bragaglia, originariamente annunciato e pubblicato nel primo decennio del Novecento (riedizione anastatica Einaudi del 1970, con testi a commento). In un clima sociale assai più morbido, oggi il Pola-Manifesto fa proprie le istanze ispiratrici delle avanguardie artistiche di cento anni fa, tra le quali va appunto annotata la stagione del futurismo italiano, con propria appendice fotografica. Le affermazioni dei Polaser sono forti e determinate: «Liberiamo la
mente, cioè vogliamo essere liberi da ogni condizionamento. Noi Polaser liberiamo la fotografia!». L’esordio è proprio questo, confermiamo messo in pagina con composizione e sovrapposizione di caratteri da stampa, caratteristiche della lontana (ma viva) stagione culturale. Interpretando in modo analogo, ma non certo uguale (dati i condizionamenti della fotocomposizione dei nostri caratteri da stampa standardizzati), riprendiamone i termini e le affermazioni, rimandando anche alla riproduzione fotografica dello stesso Pola-Manifesto (a sinistra).
Proposto e lanciato dall’associazione artistica e culturale Polaser, il Pola-Manifesto propone una nuova interpretazione del gesto fotografico.
Liberiamo POLASER-a-MENTE la fotografia ROMPERE con la FOTOGRAFIA R OM PERE le fotografie per FARLE RIVIVERE ancora: rigenerate vive primordiali pensate negate amate ROMPERLE e vestirsele, per-CHÉ (?) muovano con NOI per un INCONTROin MOstraPOlaseRizzandoINSIEME Cosa intendiamo per fotografia? Cosa ci aspettiamo dalla fotografia? Cosa ci rivela la fotografia? PARTIRE dalla fotografia per farla VOLARE coi nostri PENSIERI, le nostre intenzioni, i nostri obiettivi. Non più una fotoGRAFIA documento, ma una FOTOgrafia GRAFICA, simbolica, creativa, artistica, provocatoria e LIBERA... FINALMENTE LIBERA!
POLA-MANIFESTO [Commento al Pola-Manifesto, elaborato all’interno del Gruppo Polaser ] La fotografia presume regole fondamentali: inquadratura, taglio, colore, luce e altro. Ma, soprattutto, la fotografia viene scattata per conservarla come ricordo, documento, espressione d’arte; ma scattata per essere conservata. Li-
berandola da queste regole (condizionamenti), ora la scattiamo per romperla, non solo fisicamente, ma romperla soprattutto come schema fotografico... come condizionamento, e, pur rompendola come è stata rotta la parola R OM PERE, che, nel proprio insieme non perde il significato; ma leggendoli separatamente, i tre “pezzi” assumono maggiori interpretazioni: per esempio, “R” è l’iniziale di un qualcosa, è un prefisso, “OM” è una sigla, “PERE” sono i frutti. ROMPERE le fotografie per farle rivivere: rompendole non le distruggi, ma ne moltiplichi i significati. RIGENERATE VIVE PRIMORDIALI PENSATE NEGATE AMATE Romperle e vestirsele. Ogni esposizione è racchiusa (forse ghettizzata) in un proprio ambito: la galleria o lo spazio espositivo in genere; noi ora “immaginiamo” di poter offrire una immagine universale per tutti. Questo sarà possibile quando potremo proiettarla nel cielo; prima di arrivare a questo ce la vestiamo, attaccandocela addosso in modo da renderla visibile a un pubblico che forse non sarebbe mai venuto in galleria. Tutto questo diventa, quindi, coerente col discorso iniziale di rompere gli schemi, iniziando effettivamente a romperli. per-CHÉ (?) (domande che ci facciamo e che gli altri si pongono) muovano con noi (le fotografie non sono più attaccate alla parete, ma muovono con noi quando ci incontreremo, e ogni volta diventerà una esposizione mobile). Gli artisti di Polaser diventano quindi uomini sandwich che portano con sé queste “icone” per promuovere l’“arte per molti”, attrezzandosi così per promuovere l’“arte per tutti” (il cielo). Cosa intendiamo per fotografia? Cosa ci aspettiamo dalla fotografia?
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TESI DI LAUREA
M
ichela Cammelli ha completato il proprio iter alla Libera Accademia delle Belle Arti di Firenze, cattedra di Arti Visive con indirizzo Fotografia, con una tesi di laurea sulla fotografia istantanea, sulle tecniche creative e sugli artisti che la adoperano (con approfondimento delle personalità di Pino Valgimigli, Beppe Bolchi, Nino Migliori e Maurizio Galimberti). Giocoforza il riferimento esplicito agli autori Polaser, che hanno composto il corpus della ricerca, discussa lo scorso febbraio: Centodieci con lode! La tesi completa è scaricabile dal sito www.polaser.org, alla directory Contaminazioni.
Cosa ci rivela la fotografia? Se dalla fotografia ci aspettiamo un fatto culturale, un movimento, allora liberiamo la fotografia e facciamola VOLARE coi nostri PENSIERI, le nostre intenzioni, i nostri obiettivi. Non più una fotoGRAFIA documento, una FOTOgrafia GRAFICA (non più una fotografia documento ma una fotografia GRAFICA che diventa segno, documento gesto e movimento, simbolica, creativa, artistica, provocatoria e LIBERA finalmente LIBERA). (Come il suo Autore) Si potrebbe dire, nonostante le varie trasformazioni artistiche, che la “fotografia” è ancora ferma al Tredicesimo secolo di Giotto (sì avete capito bene: è ancora “ferma” a quando non era ancora nata). Cosa fece Giotto? Una cosa semplice: riuscì a dare movimento alla staticità delle imma-
gini bizantine che dominavano la scena culturale del momento. In fotografia, il movimento l’hanno espresso in modo figurativo grandi artisti riuscendovi in modo pregevole (il pioniere della fotografia di movimento fu Muybridge, per poi passare al Fotodinamismo futurista di Anton Giulio Bragaglia). Noi vogliamo rendere la fotografia, intesa come mezzo di espressione, dinamica nella propria accezione più vera: cioè farla VIVERE col movimento del vento, in movimento fisico con l’autore stesso con l’intenzione di rendere il messaggio universale con tutta la sua positività. (Gilberto Giorgetti)
POLASER Riprendiamo la parola, per doverose note complementari. Latente nello scenario fotografico italiano fin dal 1998, l’associazione artistica e culturale Polaser si è ufficialmente costituita nel maggio 2000. A partire dai diciotto soci originari, Pino Valgimigli, fondatore e anima del Gruppo, ha successivamente raccolto molte altre adesioni, arrivando all’attuale consistente aggregazione fotografica di oltre cento autori, alcuni dei quali stranieri. Ideologicamente, Polaser si richiama a una riflessione del pittore Georges Braque: «La limitazione dei mezzi determina lo stile, dà vita a nuove forme e dà impulso al-
la creatività». In questo spirito agiscono i Polaser, autori eterogenei per interessi artistico-culturali, provenienza ed esperienze, accomunati dalla ricerca e sperimentazione di nuove possibilità espressive nelle molteplici forme dell’arte, dalla fotografia alla pittura, scultura, architettura, design, ceramica, letteratura, teatro. Uno dei denominatori comuni dell’espressione di questi artisti è la sperimentazione nella fotografia a sviluppo immediato, da cui la denominazione con prefisso “Pola”(roid). Ma il Gruppo Polaser va oltre la fotografia: «Andare oltre la fotografia, senza dimenticare la fotografia» (Pino Valgimigli). Così, si segnalano partecipazioni a programmi fotografici, organizzazione e svolgimento di workshop e iniziative di altro vasto genere, realizzate su tutto il territorio nazionale. Ogni due settimane, alle 21,00, il Gruppo Polaser svolge riunioni presso la sede del Rione Bianco, al Complesso Monumentale della Commenda di Faenza, in provincia di Ravenna: il secondo lunedì del mese è programmata la riunione di approfondimento; l’ultimo lunedì la serata istituzionale. Ogni ulteriore approfondimento, dal ben allestito sito dell’associazione (Gruppo Polaser, Casella Postale 143, 48018 Faenza RA; www.polaser.org, photo@polaser.org). A.G.
ANCORA 150ANNI
C
Cerca e ricerca. Scopri e archivia. Accantona e costruisci. Questi, e altri ancora, sono i concetti (ideali?) che ispirano la documentazione storica degli elementi che compongono il vasto contenitore della socialità e del costume fotografico, ulteriore e parallelo alla lunga e nobile vicenda della affascinante evoluzione del linguaggio estetico e dell’espressione della comunicazione visiva. Straordinaria presenza culturale del Ventesimo secolo, durante il quale ha affermato i propri ruoli e le proprie peculiarità, la fotografia è parte integrante del nostro attuale mondo, che non sempre le riconosce, però, adeguata personalità; quantomeno in Italia, e soprattutto in Italia, dove occuparsi di fotografia è ancora considerata attività settoriale e non complessiva. Altro discorso, che ci porterebbe lontano, e che quindi lasciamo a tempi e spazi adeguati. Più tranquillamente e serenamente, componiamo oggi un altro capitolo di quella affascinante storia parallela, tratteggiata da attestazioni che celebrano (hanno celebrato) la fotografia in altri e da altri ambiti. Come annotato in tante occasioni, a questa precedenti, la presenza della fotografia in manifestazioni esterne è sostanzialmente significativa, sia per quantità, sia per qualità. In genere, per accorgersi di questo occorre volontà mirata, occhio attento e predisposizione. A seguire, «cerca e ricerca; scopri e archivia; accantona e costruisci», ci dovrà pur essere chi, da istituzioni pubbliche o altro, arrivi a mettere ordine e disciplina in tanto accattivante materiale, che da queste pagine proponiamo all’attenzione generale in forma quantomeno disordinata: così come scomposta è la nostra personale ricerca. Già abbiamo sottolineato aspetti fotografici individuati tra altre pieghe: all’interno di sceneggiature cinematografiche (ne abbiamo scritto in diverse occasioni, segnalando concreti richiami anche da titoli insospettabili), nella narrativa e tra i fumetti (per i quali, oltre altri interventi
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mirati, ogni mese annotiamo un esempio particolare, in apertura di rivista). Ancora, non sono mancate le presentazioni di emissioni filateliche a tema, che hanno celebrato la fotografia in quanto tale, piuttosto che attraverso suoi interpreti storici di spicco (sopra tutto, negli Stati Uniti e in Francia; FOTOgraphia, febbraio e giugno 2003).
INDIVIDUAZIONE Una recente scoperta, che prontamente esterniamo, è appunto di carattere filatelico. Grazie a quelle ricerche mirate che oggi sono a concreta disposizione attraverso la Rete, abbiamo individuato tre emissioni filateliche per i Centocinquant’anni della fotografia (1839-1989), che in cronaca rimasero circoscritte entro confini nazionali, ai tempi sostanzialmente impenetrabili. Nel canonico 1989, durante il quale furono allestite numerose iniziative storico-retrospettive (molte internazionali, poche italiane), i tre francobolli cui ci riferiamo sono stati realizzati in Polonia, in Unione Sovietica e nella Repubblica popolare cinese. Da allora, in questi tre paesi -come in tanti altri- molti avvenimenti geopolitici hanno cambiato e trasformato ogni precedente equilibrio sociale. Senza entrare nel merito della questione, che non è certo materia nostra, rimaniamo soltanto al fatto che molte antiche barriere sono state abbattute: tra queste, quelle della circolazione di idee e materiali, della
Per il francobollo dei 150anni della fotografia, la Repubblica polare cinese ha utilizzato la raffigurazione ufficiale delle celebrazioni del 1989. L’apparecchio fotografico stilizzato, con grafica “150” anni, è impugnato per lo scatto. Per un immancabile gusto della curiosità (a tutti i costi?), presentiamo l’intero foglio filatelico.
cultura e della socialità. Appunto: tre francobolli fino a poco tempo fa sconosciuti, arricchiscono oggi quell’insieme di citazioni e consecuzioni fotografiche al quale siamo particolarmente attenti, oltre che affezionati. I tre francobolli, che poi sono quattro, perché l’emissione filatelica polacca è distribuita in due valori, non hanno solo il sapore della semplice curiosità, che sarebbe troppo poco. Assai più consistentemente, confermano quello spirito del tributo esterno alla fotografia che potrebbe completare i racconti storici e le rievocazioni a tema; ribadiamo, materia di istituzioni ufficiali che dovrebbero dedicare propri ordinamenti alla fotografia.
I FRANCOBOLLI Per i Centocinquant’anni della fotografia (150 Lat Fotografi, in lingua), la Polonia ha emesso due franco-
bolli, uno da quaranta Zloty e l’altro da sessanta (rispettivamente identificati in 40zl e 60zl). In entrambi i casi, è stato visualizzato un richiamo esplicito ed evocativo. In un francobollo, quello da 40zl, compare la silhouette di un fotografo che impugna l’immancabile flessibile, presumibilmente stando sotto il proverbiale panno nero degli apparecchi grande formato su treppiedi (a pagina 26). Al centro, là dove dovrebbe esserci l’obiettivo, è stato collocato il ritratto di Maksymilian Strasz (1804-1870), considerato il primo fotografo polacco, pioniere della dagherrotipia e calotipia fin dall’originario 1839. A Maksymilian Strasz si attribuisce anche uno dei primi manuali fotografici, pubblicato nel 1859 e successivamente ristampato in ulteriori edizioni. Il secondo francobollo polacco dei Centocinquant’anni della fotografia, da 60zl, sintetizza una combinazione grafica tra le più classiche: le lamelle di un diafram-
DALL’AUSTRALIA
O
ltre le emissioni filateliche per i Centocinquant’anni della fotografia dalla Polonia, Unione Sovietica e Repubblica popolare cinese, ricordiamo i quattro valori dell’Australia, paese nel quale il primo dagherrotipo è stato storicizzato a Sydney, il 13 maggio 1841. In ogni francobollo è presentato un autore nazionale: fotografie di Max Dupain (Sydney, 1939) e Wolfgang Sievers (Mel-
burne, 1967), per i due francobolli da 43 centesimi; fotografia di Harold Cazneaux (Dee Why, 1929-30), per quello da 70 centesimi; fotografia di Olive Cotton (Teacup ballet, 1935), per quello da 1,20 dollari. Ognuna di queste immagini ha propria motivazione, in relazione alle tecniche utilizzate e alla presenza dei singoli autori nella storia australiana della fotografia.
CENTO ANNI (1839-1939)
B
alzo temporale indietro, ulteriore quello che oggi ci ha riportati al centocinquantenario della fotografia (1839-1989), celebrati da emissioni filateliche di recente individuazione e reperimento. Nel 1939, in un clima sociale e politico controverso, che stava inevitabilmente volgendo a una sconvolgente guerra mondiale (da tutti prevista), la Francia ha celebrato comunque il centenario della fotografia, forte magari della propria posizione storica. Le date ufficiali sono quelle della Storia. Il 7 gennaio 1839, l’astronomo e fisico Dominique François Jean Arago, che si propose come padrino di Louis Jacques Mandé Daguerre, presenta all’Accademia di Francia il processo dagherrotipico. Quindi, il successivo 2 maggio scrive al ministro degli Interni per raccomandare Joseph Nicéphore Niépce (nel frattempo mancato, nelle persone dei suoi eredi) e Louis Jacques Mandé Daguerre: meritano un sussidio. Lo Stato propone un vitalizio in cambio della pubblicazione di tutti i segreti del dagherrotipo. Questo avviene tra lo stesso maggio e il successivo giugno, dopo dimostrazioni alla Camera dei Deputati e dei Pari: il governo francese acquista i diritti dell’invenzione di Daguerre e ne liberalizza l’uso. Il 7 agosto, Luigi Filippo d’Orléans, Re dei francesi, firma il decreto per l’acquisto
ma sono collocate al posto dell’iride, al centro di un occhio umano stilizzato (a destra, in basso). Attenzione, nota parallela: per quanto molto usata, a volta abusata, la consecuzione è anatomicamente corretta. Infatti, l’iride dell’occhio è una membrana pigmentata a forma di disco, del diametro di circa 12mm, posta dinanzi al cristallino e dietro la cornea. È provvista di una apertura centrale (pupilla), che agisce come un diaframma, regolando il passaggio dei raggi luminosi. Identificati dall’iscrizione ufficiale in caratteri (ovviamente) cirillici, i Centocinquant’anni della fotografia in emissione filatelica sovietica richiamano la figura retorica del fotografo con ingombrante apparecchio su treppiedi e relativo flessibile di scatto. Allo stesso tempo, l’azione fotografica è visualizzata dalla doppia figura accostata, una al negativo e l’altra al positivo (a destra, in alto). E con questo, se ancora fosse necessario, si sottolinea che l’idea della fotografia, indipendentemente dall’origine ufficiale con la dagherrotipia in copia unica positiva, si basa
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e la pubblicazione delle tecniche di Daguerre: seimila franchi l’anno per lui e quattromila per Isidore Niépce. Il procedimento di Daguerre viene reso pubblico il 19 agosto. Cento anni dopo, alla vigilia dell’invasione nazista della Polonia, con la quale cominciò la Seconda guerra mondiale, le Poste Francesi hanno ricordato la serrata sequenza delle date di cento anni prima. Il francobollo francese del centenario della fotografia (1839-1939) rievoca le figure di Joseph Nicéphore Niépce e Louis Jacques Mandé Daguerre, indicando anche gli anni dei rispettivi successi fotografici: 1922, quando Niépce ottiene una buona copia a contatto su lastra di peltro spalmata di bitume di Giudea di una stampa/ritratto (del 1610) del cardinale di Reims Georges d’Amboise (qualcuno data al 1826; comunque, è il primo esempio di riproduzione fotomeccanica); 1939, per l’ufficialità del processo di Daguerre. Senza alimentare qui ulteriori polemiche su altri personaggi del tempo (dal parigino Hippolyte Bayard all’inglese William Henry Fox Talbot), rileviamo che, sul francobollo, i ritratti dei due padri francesi della fotografia sormontano la visualizzazione dell’annuncio di Arago del 7 gennaio 1839.
soprattutto, o forse esclusivamente, sul processo positivo-negativo, con relativa conseguente possibilità di copie multiple, in quantità teoricamente infinita. Terza segnalazione, non ancora conclusiva. La Repubblica polare cinese, si è accordata ai Centocinquant’anni della fotografia utilizzando la raffigurazione ufficiale delle celebrazioni del 1989. L’apparecchio fotografico stilizzato, all’interno del quale campeggia la grafica dei “150” anni (finiture laterali, mirino e obiettivo), è impugnato per lo scatto. A completamento, motivi floreali in puro stile cinese del tempo (doppia pagina precedente). Con l’occasione, a parte, riprendiamo e proponiamo i quattro soggetti dell’analoga emissione filatelica australiana (a pagina 25) e un francobollo francese dei Cento anni di fotografia (qui sopra). Sempre e comunque per quello spirito di annotazione, conservazione e archiviazione delle testimonianze parallele. M.R. Ricerca iconografica di Filippo Rebuzzini
150anni della fotografia in emissione filatelica sovietica: visualizzazione retorica del fotografo e sottolineatura della combinazione negativo e positivo.
In Polonia, i 150anni della fotografia sono stati celebrati da due francobolli. Uno ricorda Maksymilian Strasz, il primo fotografo polacco, pioniere della dagherrotipia e calotipia; sull’altro è stilizzata la combinazione tra visione e fotografia: occhio con diaframma.
Heine/Lenz/Zizka
»Per me il fotoreportage esprime la dignità umana.«
www.leica-italia.it
Sebastiãão Salgado, fotografo, con LEICA M7 Sebastião Mani: Sebasti
VOCE DI DONNA A PRIMA DI ALTRO
IMMAGINE UFFICIALE DELLA
BIENNALE
DI
BRESCIA
A questo punto, avendo già palesato lodi e perplessità, equamente distribuite sulle righe precedenti, a dir poco sono necessarie due premesse, una generale e l’altra specifica. Quella generale, rileva la nostra personale distanza dal più recente clima di scontro verbale che si sta affermando in Italia, che dibattito non è, ma è solo rancorosa contesa e polemica (come hanno focalizzato i toni della più recente campagna politica nazionale, senza soluzione di continuità interpretati da tutti i tristi protagonisti della vicenda). A differenza, noi amiamo ancora il confronto sereno e rispettoso, sia delle proprie posizioni e idee, sia delle opinioni e azioni altrui. La seconda premessa, specifica, sottintende la nostra personale trasversalità attraverso gli schieramenti della cultura fotografica italiana, sia di quelli manifesti e dichiarati, sia di quelli latenti. Fedeli e vincolati soprattutto a una sostanziosa e sostanziale idea di libertà, osserviamo per commentare, senza sostanziali preconcetti, ammirando e apprezzando un esteso arco culturale, che non necessariamente coincide con le nostre convinzioni, i nostri interessi, le nostre preferenze e il nostro modo di considerare e intendere l’espressione fotografica: con inevitabili scale individuali di valore. Ciò detto, ribadiamo quanto già annotato: il tema proposto dalla Biennale Internazionale di Fotografia di Brescia, edizione 2006, è straordinariamente legittimo; alcuni dei saggi di accompagnamento, quantomeno quelli che possiamo classificare come principali, sono ammirevolmente competenti. Però: non sempre condividiamo le scelte, le gerarchie e i materiali proposti (molti dei quali pensiamo condizionati dalla effettiva reperibilità di immagini altrimenti qualificati, maggiormente significative, quantitativamente più consistenti). Esprimendo tali opinioni, e facendolo in questo modo esplicito e diretto, sappiamo di accontentare nessuno, magari soBERENICE ABBOTT:
lmeno due sono i valori che definiscono la Seconda edizione della Biennale Internazionale di Fotografia di Brescia, che offre un panorama poco esplorato dell’espressione fotografica. Il primo, fondamentale e discriminante, è subito sottolineato dal titolo della manifestazione, il cui contenitore propone un insieme omogeneo e coerente di trentatré mostre (per oltre mille immagini, esposte in spazi pubblici e privati della città e delle immediate vicinanze): Appunti per una storia della fotografia al femminile definisce immediatamente che è stato affrontato uno dei capitoli latitanti della lunga storia evolutiva del linguaggio fotografico, appunto «poco esplorato dell’espressione fotografica», disegnato e composto da autrici donne, disseminate lungo tutto l’arco dei quasi centosettant’anni dalle origini. Questo è merito che da solo potrebbe bastare e indicare una strada da percorrere (qui percorsa). Il secondo valore, complementare e consequenziale, riguarda lo spessore di alcuni dei testi che introducono e commentano le singole mostre, nelle relative sedi espositive così come nel controverso e contraddittorio catalogo che le accompagna, e che nel tempo sopravviverà oltre le date della manifestazione (purtroppo lasciando, a nostro avviso, una testimonianza inadeguata: molte sono le incongruenze redazionali di questa edizione, non sempre specchio fedele degli studi e allestimenti originari). Ma non è solo di spessore, che è il caso di parlare, quanto, anche e forse soprattutto, della chiarezza e linearità di questi autentici saggi, che stabiliscono un punto fermo (di partenza? di arrivo?) su un argomento stoltamente ignorato dalle storiografie fino a oggi accreditate. In testa alla sequenza dei saggi collochiamo quello principale di Giuliana Scimé, per la selezione che si propone come principale e originaria, che proietta il proprio titolo/intendimento sull’intera manifestazione (che, a dire il vero, non sempre ne raccoglie il senso e spirito).
Da metà giugno a metà settembre, per tre mesi, spazi pubblici e privati della città lombarda danno vita alla Seconda edizione della Biennale Internazionale di Fotografia di Brescia. Dal prestigioso Museo di Santa Giulia, di recente restauro ed esaltante personalità espositiva, a qualificate gallerie e indirizzi alternativi, il differenziato programma di Appunti per una storia della fotografia al femminile dà rilievo e visibilità a uno degli aspetti colpevolmente ignorati dalla cultura ufficiale (purtroppo, non il solo). Nei fatti, si tratta di un competente percorso di immagini, non importa in quale misura condivisibile, con accompagnamento di motivati testi di presentazione. E motivanti. Avvincenti proponimenti, che da soli basterebbero 28
lo pochi, e di scontentare tanti, speriamo non troppi. Cioè siamo coscienti che il non schieramento aprioristico e pubblicamente critico isoli la nostra irrinunciabile trasversalità di libero pensiero. Ma così è. Ovviamente, le nostre considerazioni si limitano ai contenuti fotografici della Biennale. Non entrano (non possono entrare) nel discorso, assai più spinoso, di altre conflittualità e vicende, che riguardano l’adeguata destinazione di risorse pubbliche e spazi istituzionali, che nel nostro paese viene spesso interpretata con inquietante disinvoltura, almeno per quanto si presenta al nostro particolare osservatorio fotografico.
In assoluto, da Beaumont Newhall a Helmut Gernsheim, per citare le due “storie” più accreditate, le omissioni culturali sono almeno equivalenti alle inclusioni (e, volendolo fare, salviamo soprattutto i testi che non si sono presentati come “definitivi”: da Fotografia e società di Gisèle Freund alla Piccola storia della fotografia, in L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, di Walter Benjamin, a Breve storia della fotografia di Jean-A. Keim; discorso a parte, poi, per il particolare tragitto di Il Fotografo Mestiere d’arte di Giuliana Scimé, del quale abbiamo relazionato in FOTOgraphia del maggio 2003). Soprattutto, le autrici al femminile sono colpevolmente escluse dalla Storia della fotografia. E oggi, forti di immagini e testi APPUNTO, APPUNTI a commento, a partire dal saggio critico e storico di Giuliana Intelligentemente, il programma allestito sotto l’egida del Mu- Scimé, che introduce il programma completo nel proprio inseo Ken Damy di Fotografia Contemporanea, che ha sede a sieme, e che di seguito proponiamo integralmente (aggiunBrescia, si esprime nei termini di Appunti. Ciò a dire che nelle gendovi soltanto una sequenza di sottotitoli), gli Appunti per intenzioni e premesse, indipendentemente da possibili rilievi una storia della fotografia al femminile rompono un silenzio sesulle presenze e assenze e sulcolare e accendono i riflettori le immagini esposte, il vasto ed su una vicenda espressiva e L FEMMINILE SCARTO A LATO eterogeneo materiale fotograficulturale che non è parallela a co presentato non si configura quella della fotografia (così coon l’accompagnamento dell’approfondito saggio con il quale Giuliana Sci- me è spesso raccontata), ma come pacchetto chiuso preconmé sottolinea l’iter concettuale della propria selezione Appunti per una sto- ne è parte integrante e qualififezionato, da assimilare passiria della fotografia al femminile, collettiva storica che apre la Seconda edizio- cata. In estratto, tre dichiaraziovamente, ma richiama l’argone della Biennale Internazionale di Fotografia di Brescia, cui peraltro offre il ni tracciano il percorso: «Le mento ricercato e annotato solproprio titolo, nelle pagine a seguire ci soffermiamo su alcuni momenti della donne in fotografia sono state lecitando la riflessione indivimanifestazione. Per quanto rappresentativa del programma generale, peral- tante e bravissime, ed oggi soduale, la coerente e convinta tro sintetizzato a pagina 56, nel proprio insieme la nostra selezione se ne dis- no protagoniste delle più rilupartecipazione. Non sappiamo costa. Volontariamente e coscientemente. quanto questo sia in linea con centi sfaccettature di un diaIndividualmente più vicini a una fotografia che semplifichiamo in e del “rea- mante purissimo, la fotografia le intenzioni del direttore artistico Ken Damy (in persona), af- le” (dovendo riferire una di quelle etichette che danno certezza e definiscono nelle arti visuali, che sta regafiancato da tanti altri curatori di confini; e, al proposito, Ferdinando Scianna è più preciso e determinato, a pa- lando galattiche avventure nelsezione; però, questo è quanto gina 48), riconosciamo la nostra sostanziale incompetenza a trattare in modo l’universo dell’immagine»; «Le abbiamo personalmente inteso, adeguato altre espressioni della fotografia, che si orientano in ambiti e spazi frontiere non esistono, nemmee quanto speriamo sia condivi- dichiaratamente artistici. Siccome la Biennale è attraversata da questo alito, no i confini alla creatività, miraappunto artistico, la nostra passerella potrebbe risultare ingannevole. Ma così colo della fotografia»; «È la priso dal pubblico più attento. In una realtà nazionale nella non è: perché le nostre intenzioni non si attardano tanto sullo svolgimento lo- ma rassegna internazionale che quale sono rare le occasioni di gistico della manifestazione, per la quale registriamo sia il nostro apprezza- recupera la cifra femminile, concreto e autentico approfon- mento sia equivalenti distinguo, quanto sul sottile filo scientifico che ne trac- “appunti” preziosi per riflettere, dimento, pensiero e studio, que- cia l’ideologia, rivolta alla dichiarata storia della fotografia al femminile. indagare, rivedere e tentare di sti Appunti per una storia della fotografia al femminile propon- scrivere la storia della fotografia con equilibrio». gono e offrono adeguata materia di analisi: ribadiamo, in pertiIn relazione alla nostra percezione della fotografia, della pronente equilibrio tra fotografie e saggi introduttivi. Personalmen- pria espressività (non soltanto storica) e della propria evoluziote, apparteniamo a quella corrente che considera con cortese ne linguistica, questi attuali Appunti si attardano oltremodo sulscetticismo le (altrove) accreditate Storie della fotografia. Con i le partecipazioni della fotografia all’arte contemporanea (non dovuti distinguo e una certa dose di competenza, sappiamo se- necessariamente concettuale, ma spesso tale), considerando parare le opere più approfondite da quelle effettivamente mo- poco, diremmo troppo poco, altre personalità (a partire dal fodeste, per taglio e superficialità (e sono proprio tante, alcune ad- togiornalismo, sempre più ricco e arricchito da autrici donne). dirittura di recente redazione). Nell’insieme, però, pensiamo che Esaurito il personale rammarico, siamo coscienti che si tratti non esista alcuna “storia” autenticamente tale, completa, esau- di un indirizzo volontario e convinto (considerata anche la constiva, che abbia osservato le evoluzioni con occhio e animo og- sistente e attiva partecipazione di gallerie e collezioni private gettivo. In generale, si registrano e annotano almeno parzialità di dichiarato indirizzo culturale). A conclusione, quindi, nongeopolitiche, di pensiero e visione, comunque sia rivolte al so- ostante il nostro stato d’animo individuale, appesantito anche lo mondo occidentale, con relative colpevoli esclusioni (tra le da altre omissioni per noi egualmente dolorose, le mostre che quali, confermiamo la fotografia al femminile). Per quanto altre disegnano e definiscono la Seconda Biennale Internazionale di realtà siano parzialmente considerabili ininfluenti sul processo Fotografia di Brescia dischiudono un fantastico universo, in moglobale dell’evoluzione del linguaggio fotografico (ma sarà poi do particolare dal punto di vista ideologico. vero?), si sono comunque manifestate; per esempio, potrebbe L’altra metà del cielo, come la cultura cinese identifica la essere argomento di altro approfondimento l’esperienza un- donna, ha tratteggiato, e ancora descrive ed elabora, una augherese degli anni Venti-Trenta, allungatasi in avanti, divisa tra torevole personalità fotografica, della quale è riprovevole (crii fotografi che sono rimasti e quelli che sono emigrati per il mon- minale?) ignorarne spessore, forza e vitalità. do (FOTOgraphia, giugno 1998, marzo 2000 e aprile 2002). Maurizio Rebuzzini
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ppunti per una storia della fotografia al femminile è il tema della Seconda edizione della Biennale Internazionale di Fotografia di Brescia. Dedicata alle donne protagoniste della fotografia, e non oggetti, non deve far pensare ad atteggiamenti di rivendicazioni femministe. L’arte non ha sesso. Sottolineare “le differenze” supposte, sarebbe mortificante proprio per le donne che hanno lasciato, e continuano a lasciare, impronte indelebili nell’evoluzione della fotografia come arte autonoma. L’obiettivo, ambizioso e doveroso, è di tracciare una guida di “appunti” per mettere in risalto un patrimonio di cultura e creatività che traspare dalla storia della fotografia internazionale, fin dagli albori e che, per quasi centosettant’anni, ha imposto un modo spesso assolutamente insolito di vedere.
«L’anatomia è il destino» sentenziò Sigmund Freud, condannando drasticamente l’umanità in gabbie di ruolo ben definite: maschio e femmina.
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Uomo Donna Donna Donna Donna Uomo Uomo Donna Uomo Uomo Donna Uomo Uomo Donna Uomo Donna Uomo Uomo Donna Donna Uomo Uomo e Donna Uomo Donna Uomo Uomo Donna Uomo Donna Donna
RUOLI (PRE)DEFINITI?
Ho preparato un gioco per divertirci insieme. Provate a indovinare quali immagini pubblicate in questa pagina, numerate da 1 a 30, sono state realizzate da un artista uomo e quali da autrici donne. La soluzione è pubblicata qui sotto, capovolta. Giuliana Scimé
Heinrich Kuhn Karin Székessy Margaret Bourke-White Berenice Abbott Edward S. Curtis Eric Wolheim Manuel Álvarez Bravo Cindy Sherman Paul Strand Julius Shulman Lucia Moholy Ansel Adams Paul Wolff Dorothea Lange Oscar Gustav Rejlander Gertrude Käsebier Edward Steichen Brassaï (Gyula Halász) Patrizia della Porta Imogen Cunningham Edward Steichen Bernd e Hilla Becher Henry Peach Robinson Tina Modotti Werner Bischof Yasumasa Morimura Berenice Abbott Edouard Boubat Berenice Abbott Francesca Galliani
Una storia della fotografia, osservata da angolature diverse, che non mancherà di stupire per genialità e sensibilità, per innovativi atteggiamenti e libertà espressiva. Le donne in fotografia sono state tante e bravissime, ed oggi sono protagoniste delle più rilucenti sfaccettature di un diamante purissimo, la fotografia nelle arti visuali, che sta regalando galattiche avventure nell’universo dell’immagine. Il percorso, assai complesso, tocca i punti focali dei generi in fotografia e attraversa le epoche e le diverse culture d’Europa e Americhe, e del nascente impegno in Africa, Asia, Australia, in spazi pubblici e gallerie private. Le frontiere non esistono, nemmeno i confini alla creatività, miracolo della fotografia. Un affascinante “giro del mondo” a bordo della macchina del tempo che, dal 1860 alle ricerche contemporanee, plana in tantissimi Paesi e si sofferma a mettere in luce genialità incomparabili con immagini indimenticabili. È la prima rassegna internazionale che recupera la cifra femminile, “appunti” preziosi per riflettere, indagare, rivedere e tentare di scrivere la storia della fotografia con equilibrio.
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The Women’s Eye, pubblicato nel 1973, è forse il primo libro che prende in considerazione la fotografia al femminile: Gertrude Käsebier, Frances Benjamin Johnston, Margaret Bourke-White, Dorothea Lange, Berenice Abbott, Barbara Morgan, Diane Arbus, Alisa Wells, Judy Dater, Bea Nettles, riunite insieme e non hanno nulla a vedere fra loro, se non il sesso. Anne Tucker apre il testo della prefazione con: «È l’anatomia un destino? Siamo molto lontani da rispondere a questa domanda. Tutti i dati al momento disponibili riflettono le differenze fra donne e uomini imposte dalla società patriarcale nella quale viviamo. Fino a che le divisioni saranno così rigidamente definite ed imposte, sarà impossibile sapere se le differenze sono naturali, e se lo sono, in ogni caso forzano le relazioni ai tradizionali stereotipi. Certe sensibilità sono esclusive del femminile? Si possono decifrare tali sensibilità in particolare nell’arte di un individuo? L’arte può e potrebbe essere distinta come femminile o maschile? « [...] Esiste di fatto un’arte femminile? O, ponendo la questione in altro modo, si può identificare il sesso dell’artista attraverso la sua arte? [...] La gente spesso presume certe distinzioni fra arte maschile e femminile. Trova delle differenze nelle attitudini e descrive queste differenze usando gli stessi aggettivi con i quali abitualmente si descrivono i comportamenti. Gli uomini sono ritenuti più distaccati dai loro soggetti, clinici, piuttosto che compassionevoli nell’osservazione. Arguti, le donne prive di senso dell’umorismo. Le donne realizzano morbide, delicate immagini. Non sono dure, ostili, o crudeli». La Tucker toccava anche argomenti spinosi: la
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PRIVATA)
1905 (COLLEZIONE STUDY,
EVA WATSON-SCHÜTZE: PORTRAIT JULIA MARGARET CAMERON: THE HON. FRANK CHARTERIS, 1867 (COLLEZIONE PRIVATA, BRESCIA)
AL FEMMINILE
GERTRUDE KASËBIER: LA FIGLIA E IL NIPOTE, 1899 (COLLEZIONE PRIVATA)
Dimenticò tutte le varianti possibili di coloro che, oltre a rifiutare i ruoli, non si sentono nel destino anatomico dell’anagrafe. Il dottor Freud, con le sue teorie, ha radicalizzato, purtroppo gli stereotipi della società occidentale, con gravi danni proprio nell’ambito delle arti. Una sua discepola, Karen Horney, già nel 1923 cominciò a confutare questa pericolosa, e ingannevole, dottrina e argomentò che è la cultura e non la biologia ad incidere in modo determinante e primario sulla personalità. E in riferimento ad un’altra perniciosa teoria freudiana, l’invidia che le donne proverebbero nei confronti del sesso maschile, in New Ways in Psychoanalysis, del 1939, scrisse: «Il desiderio di essere un uomo [...] potrebbe essere l’espressione del desiderio per tutte quelle qualità o privilegi che la nostra cultura considera maschili come la forza, il coraggio, l’indipendenza, il successo, la libertà sessuale e il diritto di scegliere il proprio partner». Ozioso sottolineare che la Horney ebbe un padre terribilmente autoritario e che la sua volontà di studiare medicina, nel 1906, fu osteggiata dalla famiglia perché professione disdicevole per la buona società del tempo.
DOROTHY WILDING: GINA MALO, AUDREY ACLAND, POLLY LUCE IN WHY NOT TONIGHT? (COLLEZIONE PRIVATA)
PRIVATA)
1890 (COLLEZIONE E ARPA,
ALICE BOUGHTON: DONNE PRIVATA)
(COLLEZIONE CIRCA
GHITTA CARELL: RITRATTO, 1930
A cura di Ken Damy, Giuliana Scimé e Mario Trevisan. Berenice Abbott, Laure Albin-Guillot, Francis e Mary Allen, Alia Al Shamsi, Eleonor Antin, Diane Arbus, Lillian Bassman, Letizia Battaglia, Ruth Bernhard, Ilse Bing, Alice Boughton, Margaret Bourke-White, Marilyn Bridges, Anne Brigman, Lynnh H. Butler, Claude Cahun, Julia Margaret Cameron, Maggie Cardelùs, Ghitta Carell, Imogen Cunningham, Louise Dahl-Wolf, Madame D’Ora, Trude Fleischmann, Martine Frank, Jill Freedman, Gisèle Freund, Susan Friedman, Toto Frima, Christine Garcia Rodero, Nan Goldin, Annemarie Heinrich, Florence Henri, Gertrude Käsebier, Jaschi Klein, Barbara Kruger, Irina Ionesco, Graciela Iturbide, Lotte Jacobi, Dorothea Lange, Annie Leibovitz, Hellen Levitt, Dora Maar, Mari Mahr, Sally Mann, Mary Ellen Mark, Lee Miller, Lisette Model, Lucia Moholy, Sarah Moon, Barbara Morgan, Shirin Neshat, Orlan, Anna Pisula Mandziej, Bettina Rheims, Leni Riefenstahl, Ernestine Ruben, Shinako Sato, Sara Saudekova, Cindy Sherman, Sandy Skoglund, Ema Spencer, Elisabeth Sunday, Kariin Szekessy, Joyce Tenneson, Deborah Turbeville, Toni von Haken, Eva Watson-Schütze, Dorothy Wilding, Francesca Woodman, Cui Xiuwen. Museo di Santa Giulia, via dei Musei 81b, 25121 Brescia. Dal 9 giugno al 14 settembre; martedì-domenica 10,00-18,00.
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VENEZIA) PRIVATA,
1982 (COLLEZIONE SERIES
SUSAN FRIEDMAN: CAROL NUDE, VENEZIA) PRIVATA,
(COLLEZIONE
Margaret Bourke-White: Bread Line during Louisville flood, Kentuchy, 1937.
PÉTRIFIÉS
Margaret Bourke-White: Buchenwald inmates, 1945.
GISÈLE FREUND: ARBRES
W. Eugene Smith: Tomoko Uemura in her bath, Minamata, 1972.
dipendenza economica, l’educazione impartita, lo scudo che la società frapponeva alle donne artiste, ed altri problemi che in trent’anni sono stati, in parte, superati. Sottolineava, inoltre, che quegli aggettivi d’identificazione maschile e femminile, in molti casi, sono del tutto capziosi. Sono perfettamente d’accordo e, aggiungo che è impossibile stabilire “il sesso” dell’immagine. Vi sono donne che usano la macchina fotografica come un bastone da baseball piantato nello stomaco ed uomini di una delicatezza così leggera da commuovere il cuore di pietra. W. Eugene Smith, insuperabile fotogiornalista per impegno morale e superba qualità d’immagine, era talmente coinvolto in ciò che vedeva, e fotografava, da compenetrarsi in un solo essere con i suoi tragici soggetti. Sembra che dalle sue fotografie sgorghino le lacrime che non sapeva trattenere [a sinistra]. Cinico? Distante? Mentre, Margaret Bourke-White è esemplare della capacità di vedere con i propri occhi gli orrori più inenarrabili, non distogliere lo sguardo e riprendere per la memoria eterna. Dolci e delicate le sue fotografie dei campi di concentramento nazisti? [a sinistra]. La Bourke-White, bella e di grande fascino, è stata fra le più “maschili”, per adeguarci alla terminologia cara agli anatomisti, delle fotografe. Dalla Otis Steel Company, acciaio, tanto per smentire le attitudini romantiche, viene assunta in qualità di fotografa industriale. È l’inizio della sua clamorosa carriera, 1928. Nel 1935, durante la Depressione, la rivista Fortune la incarica di documentare la situazione negli stati del sud, la accompagna Erskine Caldwell, il grande scrittore che diventerà il suo secondo marito. Sofisticata dama -il suo studio di New York è l’esaltazione dell’Art Deco, con un gentile animale da compagnia: un alligatore in una vasca- la realtà con la quale si confronta la sconvolge a tal punto che racconta di aver avuto un terribile incubo: veniva inseguita dalle rilucenti Buick che aveva fotografato per la pubblicità. Le automobili cercavano di travolgerla, di inghiottirla. «Non potrò mai più trovarmi di fronte ad una luccicante automobile, stivata di insulsi sorrisi». Fortune non pubblicherà il servizio, troppo crudo per una rivista patinata. Le immagini saranno raccolte due anni dopo nel libro You Have Seen Their Faces (Avete visto i loro volti) con i testi di Caldwell. Dura, volitiva, coraggiosa, e di intensa sensibilità. Le sue fotografie non lasciano alcuno spazio all’immaginazione, rigorose, prive di sbavature, testimoniano ciò che è. Esemplare la ripresa Bread Line during Louisville flood (Kentucky, 1937) della Bourke-White che coglie una scena paradossale: povera gente, nella maggior parte nera, in fila per ricevere del cibo, sovrastata da un enorme manifesto che glorifica “Il più alto standard mondiale di vita” degli Stati Uniti con l’immagine di una famiglia felice a bordo di un’automobile [a sinistra].
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PRIVATA,
MILANO)
ANNEMARIE HEINRICH: POSANDO, 1948 (COLLEZIONE DEGLI EREDI)
LAURE ALBIN-GUILLOT: PARIGI, 1930 (COLLEZIONE LYNN H. BUTLER: CALEIDOSCOPE, 1990 (COLLEZIONE
PRIVATA,
VENEZIA)
MARGARET BOURKE-WHITE: AIRSHIP ACRON, 1931 (COLLEZIONE
VIENNA (COLLEZIONE
VENEZIA)
SENZA TITOLO,
PRIVATA,
MADAME Dâ&#x20AC;&#x2122;ORA:
PRIVATA)
Diane Arbus: Brooklyn couple, 1962.
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PRIVATA,
JEAN COCTEAU, 1925-30 (COLLEZIONE MANI DI
BERENICE ABBOTT: LE VENEZIA)
PRIVATA,
VENEZIA)
PRIVATA,
ANNIE LEIBOVITZ: JERRY HALL, NEW YORK 1985 (COLLEZIONE
Diane Arbus: Child with a hand toy grenade, New York, 1962.
50X60cm, 1988-89 (COLLEZIONE
(sopra) Lisette Model: Donna con vestito a fiori, Promenade des Anglais, Nizza, 1937.
Mancano, le donne, di umorismo? Lisette Model ne è stata maestra con tutta l’abilità di chi sa cogliere con un sorriso, senza offendere e calcare... l’obiettivo. «Non si deve mai riprendere un’immagine se non si è appassionatamente interessati a quel soggetto». Era la filosofia che guidava la sua coscienza di che cosa fosse la fotografia. La serie sulla Costa Azzurra, del 1937, è esilarante, questi personaggi sembrano essere gli interpreti di una commedia buffa, grotteschi al limite della verosimiglianza rappresentano la decadenza europea, inconsapevoli di quali dure prove dovranno sostenere da lì a un paio di anni con la Seconda guerra mondiale [a sinistra]. L’attitudine della Model a cogliere la naturale comicità si paleserà anche negli Stati Uniti, dove si trasferirà nel 1937, affascinata dalla vivacità e dalla singolarità di New York [a sinistra]. Karen Horney contrastava la teoria de “L’anatomia è il destino” con la cultura e Lisette Model ne è l’ideale modello. Ricca, di padre italo-austriaco e di madre francese, venne educata privatamente, amante della musica, negli anni giovanili, il suo maestro fu il compositore Arnold Schönberg, possedeva tutti gli strumenti intellettuali per osservare l’umanità con disincanto. La sua allieva, Diane Arbus apparteneva anch’essa ad una ricca famiglia ed aveva ricevuto un’educazione raffinata, eppure questi privilegi furono da lei sfruttati in senso opposto a quello di Lisette. Il suo non è più umorismo o sobria ironia, ma aspro sarcasmo. Riusciva ad esasperare le caratteristiche degradanti degli individui quando riprendeva gente comune, ad esempio ne Il bambino con in mano una granata giocattolo sembra che abbia atteso, o forse provocato, l’espressione più degenerata; [a sinistra] così ferma la giovane coppia per strada e ne restituisce un ritratto di squallida parodia [a sinistra, in basso]. Prova un (sadico) perverso piacere nel sottolineare la diversità delle persone emarginate e sfortunate, e nell’inasprire le apparenze patetiche fino a trasformarle in caricature sadiche. Non aveva alcun rispetto per gli altri, e non è vero, come alcuni sostengono, che è stata la pioniera di un nuovo stile documentario. La crudeltà non è uno stile ed è stata la più cattiva in assoluto nell’intera storia della fotografia, uomini compresi. Priva di compassione, di senso della solidarietà, di amore, si è suicidata, e come può un essere umano continuare a vivere se considera i suoi simili solo nei lati oscuri?
POLAROID
Lisette Model: Donna a Coney Island, 1942.
LA CULTURA È IL DESTINO
JOYCE TENNESON:
Jacob A. Riis: 5 centesimi per un posto, New York, 1890.
VENEZIA)
È una fotografia tremenda, l’ironia è caustica e colpevolizzante. Rappresenta la sintesi spietata delle reali condizioni di un Paese spaccato a metà, How the Other Half Lives è il libro di immagini che Jacob A. Riis aveva mandato alle stampe nel lontano 1890 [a sinistra].
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LISETTE MODEL: RUNNING
LEGS
NEW YORK, 1940-41 (COLLEZIONE
PRIVATA,
VENEZIA)
NAN GOLDIN: JIMMY PAULETTE AFTER
THE PARADE,
1993 (COLLEZIONE
PRIVATA,
VENEZIA)
Joel-Peter Witkin: Harvest, 1984.
A qualcuno verrà in mente Joel-Peter Witkin per riabilitare la Arbus, credendo che egli sia andato ben oltre. Il lavoro di Witkin può far rabbrividire, ma si regge su un concetto agli antipodi: riscattare gli innocenti che il Cielo ha punito con le malformazioni più crudeli e renderli protagonisti della vita, in elaboratissime messe in scena, restituendo loro dignità e bellezza [a sinistra].
DA LONTANO
Manuel Álvarez Bravo: Obrero en huelga asesinado, 1934.
L’espressione creativa non ha sesso. Vi ho preparato un gioco per divertirci insieme [a pagina 30]. Dopo quel lontano 1973, si sono susseguite, negli Stati Uniti soprattutto, mostre e saggi dedicati alle donne fotografe. Che gli Stati Uniti abbiamo rivolto attenzione a tale argomento piuttosto che l’Europa, e non parliamo di Asia e Africa, è naturale: là la genealogia della fotografia al femminile risale alla dagherrotipia, La prima professionista, Julia Shannon, pubblica un annuncio come dagherrotipista e levatrice già nel 1850, in California. Racconta Peter E. Palmquist nella sua ricerca presso il Women in Photography International Archive della Beinecke Library all’Università di Yale: «In California vi è una ricca ed unica storia delle donne fotografe [...]. Questa storia ha inizio probabilmente addirittura prima della corsa all’oro, quando una giovane donna (di circa dodiciquattordici anni) Epifania Gertrudis “Fann” Vallejo ritrasse, (probabilmente) forse la madre, in un dagherrotipo, fu montato in un anello che portò il padre Generale Vallejo». Temo che Palmquist si sia lasciato trasportare dall’eccessivo entusiasmo, e patriottismo. Improbabile che una ragazzina riuscisse a mettere a punto tutte le complesse operazioni del processo di dagherrotipia, e poi un dagherrotipo, tanto piccolo da essere incastonato in un anello, lascia perplessi. La corsa all’oro ha inizio nel 1848, a quell’epoca, la California apparteneva ancora al Messico (soltanto nel 1850 l’alta California diventerà uno stato USA). Un aneddoto con tante ombre che tuttavia affascina e permette una riflessione.
AMERICA (DAL SUD) Edward Weston: Tina Modotti, California, 1921. Edward Weston: Tina Modotti, Messico, 1924.
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In molti Paesi dell’America Latina le donne sono state e sono le migliori fotografe, spesso le più importanti. In Messico, Tina Modotti ha tracciato la via a Manuel Álvarez Bravo [a sinistra], seguito dalle sue discepole che hanno dimostrato intelligenza indipendente e creatività originale. La Modotti ha anche costruito la coscienza al vedere di Edward Weston che altrimenti, temo, avrebbe continuato sulla bella strada lastricata del ritrattista alla moda [a sinistra]. L’Argentina vanta un solo autore/autrice di prestigio internazionale: Annemarie Heinrich. La dolce Annemarie, fragile dal carattere di bambù flessibile alle offese del tempo, nel 1926, a quattor-
Riprendiamo dal saggio di Giuliana Scimé che accompagna e presenta la selezione Appunti per una storia della fotografia al femminile, che offre anche il titolo alla Seconda edizione della Biennale Internazionale di Fotografia di Brescia: «Una delle tante rivelazioni che propone la Biennale è la giovane, solo ventiquattro anni, molto bella, determinata e preparata -si è laureata in fotografia presso il Queensland College of Arts della Griffith University, in Australia-, Alia Al Shamsi [...]. Alia, sotto certi profili, non sfugge alla biografia di molti fotografi; il padre è un appassionato e regala alla figlia la sua prima macchina fotografica quando ha solo sette anni. Apertura mentale sì, ma quando Alia esprime il desiderio di essere fotografa, il buon senso paterno interviene e cerca di dissuaderla. Ha perso, e ha vinto un talento naturale». L’accesso alle donne in fotografia si è un po’ dischiuso, anche in Paesi che il mondo occidentale ritiene serrato in insormontabili muraglie. Alia Al Shamsi (1982) è la prima e unica donna fotogiornalista professionista degli Emirati Arabi, lavora per due quotidiani.
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Alia Al Shamsi è inserita nella selezione Appunti per una storia della fotografia al femminile, a cura di Ken Damy, Giuliana Scimé e Mario Trevisan, esposta al Museo di Santa Giulia (via dei Musei 81b, 25121 Brescia). Dal 9 giugno al 14 settembre; martedì-domenica 10,00-18,00.
BAMBINI
ZINGARI LAVANO LE AUTO A ISLAMABAD
(COLLEZIONE
DELL’AUTRICE)
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Ha scelto una delle specializzazioni più difficili. Il fotogiornalismo richiede coraggio e intraprendenza, sopportare sacrifici e disagi, saper osservare con compassione e non distogliere lo sguardo dalle scene più dolorose. Alia è stata l’unica inviata dagli Emirati Arabi in Pakistan, a documentare le conseguenze del terremoto dell’ottobre scorso. Ha solo ventiquattro anni ed è molto bella, con una preparazione accademica seria, possiede un talento naturale nel saper esprimere in una sola immagine la sintesi di un’intera storia, lieve o dolorosa che sia. «Quando sono stata assunta, mi è stato detto che il futuro delle donne nel fotogiornalismo era nelle mie mani. Se non ci fossi riuscita, sarebbe stata una pessima esperienza, ma se avessi avuto successo forse si sarebbe aperto uno spiraglio per le generazioni future. Che dramma! Per questa ragione, non soltanto sto facendo del mio meglio come fotogiornalista, ma come donna in un campo dominato dagli uomini». ■
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Paesi assolutamente insospettabili si stanno svegliando con un impeto inatteso, e con finalità mirabili. Il 29 dicembre scorso, a Kabul, in Afghanistan, si è inaugurata una mostra, la prima in assoluto nella storia del Paese, di quaranta donne, appena istruite alla fotografia in un corso di dieci giorni, finanziato dall’United Nations Population Fund [a sinistra].
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TINA MODOTTI: POLICE PUPPETS, 1929 (COLLEZIONE PRIVATA) PRIVATA)
ABRIL 17 1927 (COLLEZIONE JUVEDES,
SALSÍ TREN QUE PASÓ SOBRE EL PUENTE DE
NUOVE FRONTIERE
A cura di Giuliana Scimé, assistente Eliseo Barbàra. Tina Modotti, Lola Álvarez Bravo, Mariana Yampolsky, Flor Garduño, Daniela Rossell. Museo di Santa Giulia, via dei Musei 81b, 25121 Brescia. Dal 9 giugno al 14 settembre; martedì-domenica 10,00-18,00.
TINA MODOTTI: PRIMER
29 dicembre 2005, Kabul, Afghanistan: mostra di quaranta donne istruite alla fotografia in un corso di dieci giorni, finanziato dall’United Nations Population Fund.
dici anni, dalla Germania emigra con la famiglia a Buenos Aires. Nemmeno ventenne apre il suo primo studio, ritratto, nudo, teatro. Per la sua origine tedesca, durante la Seconda guerra mondiale soffrì di emarginazione, non poteva acquistare pellicole ed utilizzò quelle cinematografiche. Lo raccontava con serenità, e grande dolore, unito alla cupa disperazione di essere la mancata suocera di un desaparecido: il giovane fidanzato della figlia Alicia che aspettava un bambino. Annemarie è il mito della fotografia argentina, ed esemplare autrice di un’epoca, per la compostezza delle sue inquadrature, la bravura nel modulare le luci che plasmano le forme e le linee. Ogni artista di teatro (attori, musicisti, ballerini) che andava a Buenos Aires si recava nello studio di Annemarie per un ritratto, come tutta l’alta società. Le Americhe “parlano” al femminile in fotografia e ne sono coscienti, anche se negli Stati Uniti la prepotenza maschilista ha tenuto spesso le donne in sotto tono. Per questo motivo, negli ultimi due decenni si sono moltiplicate le organizzazioni e gli eventi al femminile, a volte di esasperata rivendicazione femminista, in genere di pacata volontà a correggere le vistose “dimenticanze” ed attribuire le corrette collocazioni all’interno della storia della fotografia. Il Women in Photography International è stato fondato nel 1981 con l’intento di «comunicare idee, opportunità e la passione per la fotografia». Ogni anno il WPI lancia un concorso, suddiviso in diverse categorie, ma è beffardo che della giuria facciano parte anche degli uomini. Dal 1985, onora con il Distinguished Photographer’s Award le donne che hanno contribuito in modo significativo all’evoluzione della fotografia. Nel dicembre dell’anno scorso a Ruth Bernhard, per il suo centesimo compleanno, è stato riservato uno speciale riconoscimento. In quell’occasione, la Bernhard ha rilasciato una sorta di testamento morale: «Ogni volta che realizzo una fotografia celebro la vita che amo e la bellezza che conosco e la felicità che ho provato. Tutte le mie fotografie rispondono alla mia intuizione. [...] Dopo così tanti anni, sono ancora motivata dallo splendore che la luce crea nel trasformare un oggetto in qualcosa di magico. Ciò che gli occhi vedono è un’illusione del reale. L’immagine in bianco e nero è ancora un’altra trasformazione. Ciò che davvero esiste, non potremo saperlo mai».
Fotografia in Messico. Le donne in Messico, sono le protagoniste indiscusse della fotografia. Ed è una donna, Tina Modotti, che segna lo stile e l’attitudine al vedere così caratteristici e distintivi della fotografia messicana. Per prima concilia la tradizione documentaria con la creatività espressiva. Italiana sì, ma formatasi culturalmente nel vivido ambiente dei pittori muralisti Diego Rivera, José Clemente Orozco e David Alfaro Siqueiros, leggende e verità, esaltazioni ed imbarazzati silenzi da sempre ne hanno avvolto la personalità. Arte, sesso, trasgressione, politica... una confusione che spesso ha compromesso, con ambiguità, l’obiettiva valutazione di un’artista. Tina Modotti è stata un sublime esempio di coscienza sociale che, nel clima di fermenti artistico/politici del Messico negli anni Venti e Trenta, si è espressa nell’azione e con la fotografia. Alcune sue immagini sono famosissime, ma la sua produzione è stata molto ricca, e soltanto di recente recuperata dall’oblio. Sia pure nel breve periodo di qualche anno, realizzò un patrimonio di immagini di ritratti, vita quotidiana e piccoli eventi, sempre risolte con la maestria di un equilibrio compositivo molto originale e con la grazia disciplinata di chi usa lo strumento fotografia per raccontare davvero le minime storie dell’umanità. La sua eredità è stata raccolta da altre donne, Lo-
LOLA ÁLVAREZ BRAVO: O
CUETZALEN,
1940
CIRCA
(COLLEZIONE KEN DAMY)
TINA MODOTTI: SENZA TITOLO, ANNI VENTI (COLLEZIONE PRIVATA, MILANO)
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Julie, una delle quindici donne che la Fondation Femmes Plus di Kinshasa ha istruito alla fotografia, in un programma del Christian Aid.
Dieci giorni sembrano pochi, però queste donne sono in stato di estrema necessità. Durante le tre decadi di guerra civile, soltanto a Kabul si contano trentamila vedove, circa due milioni e mezzo fra vedove e prive di risorse economiche nell’intero Paese. Il programma, che sarà esteso ad altre province, le educherà ad un mestiere che permetterà loro di sopravvivere, stimolerà l’autostima e, di conseguenza, migliorerà la loro posizione sociale. Altri problemi di miseria e malattia, deve affrontare la Repubblica Democratica del Congo e chiede il contributo delle donne, ancora. «Grazie alle mie fotografie, desidero rendere più consapevoli le persone sull’AIDS, mostrare loro le conseguenze della malattia e consigliarle. Ma, desidero anche dimostrare la speranza che ho ancora in vita, malgrado la mia malattia». La dichiarazione di Julie, una delle quindici donne che la Fondation Femmes Plus di Kinshasa ha istruito alla fotografia, in un programma del Christian Aid. Rimasta sola, dopo la morte del marito, della piccola bambina e dei genitori, emarginata dalla comunità a causa della sieropositività, come altre donne nelle sue condizioni, viveva per strada. Una storia ricorrente per tutte, con pochissime insignificanti varianti [a sinistra]. Donne intelligenti, capaci di apprendere una nuova tecnica e forti abbastanza da documentare la loro vita quotidiana, le visite in ospedale e la tragica esperienza di questo flagello sociale. Fin dall’inizio del corso, hanno incominciato a sentirsi meglio fisicamente e a curare il loro aspetto (igiene personale, abiti, pettinatura e un filo di civetteria femminile). Alcune hanno già ricevuto commissioni per servizi fotografici. La fotografia come sistema taumaturgico.
la Álvarez Bravo, Mariana Yampolsky e Flor Garduño, che per versi diversi sono legate a Manuel Álvarez Bravo e, sempre per versi diversi, rappresentano la continuità di una tradizione d’immagine che caratterizza in maniera unica la fotografia in Messico. Lola e Mariana, sia pure con modalità personalissime, esplorano le peculiari qualità della gente e dell’ambiente, spesso di surrealistico impatto così singolare in Messico; André Breton ne rimase affascinato e lo definì il Paese più surrealista del mondo. Entrambe seppero svelare gli sfuggevoli momenti di una vita in continua evoluzione. Il loro non è mai stato fotogiornalismo, anzi si trovano agli antipodi, ma riflessione e sapienza d’analisi, risolte visualmente con la grandezza di immagini fresche che non tradiranno mai il passare del tempo ed i mutamenti avvenuti. Flor Garduño, ha varcato i confini del suo Paese per raccogliere una visione corale di ampio respiro sugli indios che popolano l’America Latina. Un insolito sentimento di nostalgia per memorie perdute traspare dalle sue immagini. La Garduño riprende, con rispetto e discrezione, questi popoli ed i singoli individui, di superba dignità, restituendo l’intensità della loro cultura e la bellezza delle loro anime. Una fotografia di alta classe che
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PRIVATA,
FLOR GARDUÑO: MARCOS Y SIMONA, BOLIVIA 1990 (COLLEZIONE
A volte, purtroppo, le notizie che danno speranza vengono annullate da episodi barbari. «Reporters Senza Frontiere oggi hanno fermamente condannato i maltrattamenti fisici, incluse percosse ed abusi sessuali, che hanno subito tre donne fotografe straniere dalla polizia di Città del Messico, quando sono state arrestate durante un pesante attacco ad una manifestazione pacifica in un sobborgo di San Salvador Ateneo, il 4 maggio. Le vittime sono María Sostres, spagnola, Samantha Dietmar, studentessa tedesca di fotografia, e Valentina Palma Novoa, studentessa cilena di antropologia e cinema. La polizia ha confiscato anche macchine fotografiche, pellicole, registratori e libretti di appunti. In un’intervista a WRadio, la Sostres ha dichiarato: “I poliziotti ci hanno schiaffeggiato, fotografate e filmate, ci hanno spinto in una camionetta, chiuso le tende e picchiate. C’era sangue, ci hanno violentato e spogliate”». Si direbbe un’infame storia di tempi remoti e tirannici, avvenuta in una qualche contrada dalle sopraffazioni sovrane. Quel 4 maggio è del 2006, poco più di un me-
VENEZIA)
DETERMINAZIONE
PRIVATA)
II (COLLEZIONE DE LOS POBRES
LOLA ÁLVAREZ BRAVO: EL SUEÑO DANIELA ROSSELL: SENZA TITOLO (COURTESY GALLERIA ALBERTO PEOLA, TORINO) PRIVATA)
1991 (COLLEZIONE PAPEL,
MARIANA YAMPOLSKY: MAGUEY DE
si impone per l’audacia di uno stile svincolato da ogni conformismo. Tre donne, di tre generazioni, di altissima qualità da essere testimoni delle più esaltanti pagine della fotografia internazionale. Daniela Rossell rappresenta l’ultima generazione e, come si conviene, cancella la tradizione per inserirsi con il suo lavoro nelle più avanzate ricerche attuali. Tina, Lola, Mariana e Flor hanno sempre privilegiato il bianconero e la riflessione sulla natura del popolo messicano; la Rossell usa il colore ed anche lei riflette sulla peculiarità dei messicani, ma i suoi soggetti sono i ricchi e famosi, in perfetta sintonia con le contemporanee analisi della società. Perfume de mujer è il titolo di un tango di Carlos Gardel, il mito argentino ancora adorato: Lejanas glorias de amor. Mi boca busca besos como ayer. Y nada más, a mi lado, perdurable, está tu inolvidable perfume de mujer. Il profumo di donna, persistente ed indimenticabile, nella canzone d’amore è simbolica allusione alla magnificenza della fotografia al femminile in Messico. Giuliana Scimé
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PITTORIALISMO Lo sfumato, i contorni labili, la vaghezza dei segni saranno, appunto, le virtù stilistiche del movimento pittorialista che, nato in Europa, sarà negli Stati Uniti la liberazione dalle convenzioni ob-
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JITKA HANZLOVÁ:
SENZA TITOLO,
2000-05
A cura di Giliola Foschi. Destiny Deacon, Anna Gaskell, Jitka Hanzlová, Hannah Starkey. Museo di Santa Giulia, via dei Musei 81b, 25121 Brescia. Dal 9 giugno al 14 settembre; martedì-domenica 10,00-18,00.
ANNA GASKELL: UNTITLED # 115 (1991), 2005
Oscar Gustav Rejlander: Le due strade della vita, 1857.
se prima dell’inaugurazione della Biennale. Le donne in fotografia, comunque, hanno subito pressioni psicologiche, ostracismi e isterici rifiuti. La determinazione, la chiarezza della volontà sono da sempre le leve che le hanno spinte nel perseguire un cammino non facile, anche per le più privilegiate. Esempio è Julia Margaret Cameron, la prima grande autrice che si è inserita nella storia della fotografia. Signora della buona società inglese, colta, cosmopolita, appassionata ed eccentrica, inizia a dedicarsi alla fotografia a quarantotto anni, quando oramai le donne dell’epoca erano in assoluto declino. È nell’isola di Wight che avviene il miracolo, un’isola che deve emanare particolari onde magiche: vi viveva Alfred Tennyson e la Cameron, andandolo a trovare, decise di acquistare due cottages dove fissare la propria residenza. Oscar Gustav Rejlander, nel 1863, si recò da Tennyson per riprenderne il ritratto. L’incontro fu fatale, la Cameron già ammirava il celebre fotografo, il primo che compose un’allegoria complessa con ben trenta negativi diversi [a sinistra], e pare che fu proprio lui a fornirle i primi insegnamenti sul processo al collodio umido. «Trasformai la carbonaia in camera oscura e il pollaio con le vetrate nella mia “casa a vetri”. La società delle oche e dei polli cambiò subito in quella dei poeti, profeti, pittori e deliziose dame, che hanno reso immortale l’umile costruzione contadina». In quello studio, la dama inglese obbligava a posare davanti al suo apparecchio a lastre ogni vicino, conoscente, amico, membro della famiglia e, persino, fermava i passanti per la strada. Un furore creativo che ebbe dei risultati unici. I suoi ritratti, soffusi da una malinconia sottile; le sue immagini simboliche così ben studiate nella composizione equilibrata sono dei capolavori di altissima classe. Fu criticata, dai fotografi professionisti contemporanei, per la mancanza di messa a fuoco precisa, un elemento che definiva all’epoca la perizia tecnica. Infatti, le fotografie della Cameron sono sempre “morbide”, dai contorni sfumati e dai dettagli incerti. Elementi di grande fascino visuale che precorrono lo stile pittorialista. Scelta o casualità? Ho sempre riflettuto sul fatto che la Cameron dette inizio alla sua avventura in fotografia già in età matura. Smise nel 1875, quando raggiunse il marito a Ceylon dove possedevano vaste piantagioni di tè, poco più di dieci anni di attività feconda e ricchissima. Era presbite? Non meraviglia, semmai la meraviglia è nel risolvere una menomazione visiva in opera d’arte.
Frammenti di storie sospese, silenziose, oppure grottesche e fantastiche. Storie protese a riattivare memorie personali e al contempo collettive, a indagare l’universo femminile nei propri momenti più intimi e quotidiani, a ricostruire relazioni con gli altri o con la natura. Per Destiny Deacon, Anna Gaskell, Jitka Hanzlová e Hannah Starkey la fotografia non è mai un piatto strumento di documentazione del reale, bensì una sorta di sonda sensibile capace di accumulare emozioni, di indagare gli strati più profondi di noi stessi e la nostra relazione con il mondo che ci circonda. [...] Tra bambole nere che sembrano personaggi reali, e personaggi fasulli di storie vere, le immagini dell’australiana di origine aborigena Destiny Deacon mettono in scena l’immaginario femminile e affrontano il tema autobiografico dell’identità e della discriminazione razziale. «Le bambole nere rappresentano il popolo aborigeno [...]; come bambole siamo sempre stati considerati dall’Australia bianca», racconta questa artista che crea immagini dove bambole, oggetti e persone costruiscono narrazioni misteriose e inesplicabili, in cui si materializzano verità archetipiche e avvenimenti infantili, traumatici e nascosti. [...] Ugualmente costruite con una narrazione discontinua e sospesa sono le immagini dell’americana Anna Gaskell, che, come già quelle di Cindy Sherman della serie Film Still, paiono tratte da un film misterioso senza inizio né fine. Volutamente di grandi dimensioni -quasi volessero porsi in competizione con lo schermo cinematografico-, le sue immagini seducono con la loro bellezza quasi fiabesca, e al contempo appaiono ambigue, attraversate da oscure forze sotterranee. Diversamente dalla Sherman -che ha sempre dichiarato di non aver mai fatto riferimento a un film o a una storia precisa-, la Gaskell, fin dai suoi primi lavori, ha spesso preso spunto da testi tra il fantastico e l’inquietante [...], per costruire storie enigmatiche e interrotte, simili a finestre aperte sulla fantasia e sull’inconscio. Nella serie 1991, invece, la storia di partenza è legata a un avvenimento della sua adolescenza, da lei ricostruito chiedendo a ognuna delle sue sorelle cosa ricordasse di quell’episodio. Nate da rievocazioni che il trascorrere del tempo ha reso contraddittorie e vaghe, le opere di questa serie appaiono simili a frammenti non metabolizzati di memorie fluttuanti e spezzate: memorie, reminiscenze estremamente intime e al contempo oscure, fatte di azioni sospese, non concluse, che paiono rappresentare giocosi e ambigui riti di passaggio legati alla sessualità adolescenziale e all’identità femminile. Meno surreali e più realistici, i lavori dell’irlandese Hannah Starkey mettono anch’essi in discussione la nostra abituale propensione a considerare la fotografia come un medium oggettivo e documentario. Realizzate con attrici professioniste, invitate a rappresentare se stesse, queste opere sembrano cogliere momenti quotidiani sospesi in un tempo cristallizzato, dove le protagoniste guardano alla propria interiorità e affrontano pensieri reconditi. [...] Con la serie Forest, Jitka Hanzlová ridà un volto alla foresta fotografandola in solitudine, di notte. Ritrae alberi, rami, piccoli animali, radure, nel tentativo di ritrovare ed esplorare le proprie e le nostre radici antiche. Così lei stessa racconta: «Ho iniziato a fotografare gli alberi come se stessi facendo dei “ri-
tratti senza occhi”, poi ho cercato di fotografare anche quello che ascoltavo, che sentivo con il corpo. Nel bosco non c’era nessuno che mi guardasse o comunicasse direttamente con me, così ho dovuto guardare sempre più dentro me stessa». [...] Prive di ogni fuga nell’accattivante o nell’allegoria, le sue opere fanno emergere la presenza stessa della foresta, che semplicemente si manifesta per quello che è, nella propria datità, nella propria essenza: una presenza forte e al contempo misteriosa, silenziosa e intensa, che ricorda il mondo, troppo spesso dimenticato, delle nostre origini e della natura. Gigliola Foschi
Anna Gaskell: courtesy Galleria Massimo De Carlo, Milano. Hanna Starkey: courtesy Galleria Monica De Cardenas, Milano.
HANNA STARKEY: MARCH 2002
DESTINY DEACON: HOME TRUTHS, 2001
F
Destiny Deacon e Jitka Hanzlová: courtesy Galleria Raffaella Cortese, Milano, e Roslyn Oxley9 Gallery, Sydney.
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Alfred Stieglitz: The Steerage, 1907.
AVANGUARDIE
László Moholy-Nagy: Gelosia, 1927.
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In quegli stessi anni, in Europa la coscienza collettiva aveva subito il duro trauma di una guerra, la Prima mondiale. Nulla poteva essere come prima e la fotografia, strumento principe per indagare non solo la realtà oggettuale, soprattutto la realtà interiore, abbandona la visione romantica per assumere ruoli diversi. Sorge la grande scuola della Bauhaus, emerge la volontà di sperimentare, di osservare il mondo e scomporlo in nuove avventurose esperienze. Lucia Moholy, che spinge il marito László Moholy-Nagy [a sinistra] ad interessarsi alla fotografia, è attivissima in molti progetti della Bauhaus, dal 1923 al 1928. Il suo strumento è la fotografia, riprende i ritratti dei docenti della scuola -i più grandi artisti dell’avanguardia storica- l’architet-
CANDIDA HÖFER: UNIVERSITATSBIBLIOTHEK HAMBURG, 2000
Alfred Stieglitz: Spring showers, 1902.
solete della fotografia professionale, per dar vita alla libera creatività. Il pittorialismo venne importato da Alfred Stieglitz, che per undici anni aveva studiato in Germania e Austria, venendo a contatto con le punte più avanzate della fotografia del tempo [a sinistra]. Le donne compresero rapidamente la grande rivoluzione stilistica e concettuale della fotografia pittorialista, divenendo presto le più sensibili interpreti, apprezzate da Stieglitz che espose le loro opere alla Galleria 291 e le pubblicò nell’insuperata rivista Camera Work. Anne Brigman, Alice Boughton, Gertrude Käsebier, Ema Spencer, Eva Watson-Schütze rappresentano la grande arte della fotografia nei primi decenni del Novecento negli Stati Uniti. Naturalmente, non sono nemmeno menzionate nei saggi di storia della fotografia che hanno dominato la cultura fino ad oggi: Beaumont Newhall e Helmut Gernsheim, o sorvolate a volo d’uccello nelle pubblicazioni più recenti e monumentali. Perdute nell’oblio della cancellazione di identità, come tirare un tratto di penna o meglio, in termini contemporanei, pressare il tasto can del computer e frantumarle nell’hard disk. Erano donne e avevano seguito uno stile altamente disprezzato dai guru teorici che vedevano la fotografia secondo dei parametri diretti/straight, cioè quel tipo di fotografia teorizzato da Stieglitz [a sinistra] e che diventerà l’ossessiva cecità della produzione americana, fino alla rivolta negli anni Ottanta. Le nostre fantastiche donne erano tutte professioniste di successo, con studi ben avviati e non semplici amatrici che per diletto borghese, anziché ricamare, riprendevano scenette familiari. Sublimi nell’espressione creativa, sensibili alle tendenze culturali, abili nella padronanza delle tecniche anche più impegnative come la stampa al platino, le loro immagini sono, inoltre, la testimonianza vivida dell’epoca. Il patrimonio che hanno lasciato è un’eredità fondamentale per apprezzare appieno quanto la fotografia può essere sublime coinvolgimento.
Nell’arte fotografica la contemporaneità viene analizzata nei nuovi spazi museali, restaurati di recente, del Piccolo Miglio nel Castello di Brescia. Tre galleristi appassionati propongono uno stringato, ma esaustivo, drappello di artiste donne, già molto apprezzate in tutto il mondo. Poche opere di grandi dimensioni, inserite in un ambiente adatto alla “meditazione” che è necessaria di fronte a immagini di non facile lettura (per i non addetti ai lavori). Tengo a precisare che non si tratta di una mostra a parte, autonoma, ma l’ideale continuazione e completamento della grande mostra storica che dà titolo e motivo all’intera Biennale Internazionale di Fotografia di Brescia (allestita al Museo di Santa Giulia), che già presenta artiste anche più giovani, con la viva speranza che gli appassionati del “contemporaneo” dedichino un po’ di tempo anche alle immagini storiche. Come sempre nel mondo dell’arte visiva -ma non solo-, le immagini qui presentate devono sicuramente fare i conti con le opere e gli artisti che per nascita e cultura sono presenti sul mercato da più tempo. E dialogare, possibilmente. La Biennale non può fare a meno del contemporaneo, che, tra l’altro, viene esposto anche in numerose gallerie private. Personalmente sono entusiasta che il “muro” eretto negli anni Settanta tra le esperienze più prettamente fotografiche e quelle artistico-pittoriche sia stato finalmente abbattuto, nel pieno e doveroso rispetto della fotografia di documentazione sociale, che, con l’avvento dei media globali, sembrava dover scomparire; e invece, dopo anni bui pieni di feroci discussioni, ne esce rafforzata, per intensità e qualità. Ken Damy
N
OF BEAUTY
2004
KAREN KNORR: THE ANALYSIS
TREES,
Karen Knorr: courtesy Galleria Photo & Contemporary, Torino. Marina Abramovic: courtesy Galleria Massimo Minini, Brescia. Sandy Skoglund: Collezione Ken Damy.
A cura di Massimo Minini, Alberto Peola e Valerio Tazzetti. Marina Abramovic, Vanessa Beecroft, Monica Carocci, Candida Hรถfer, Karen Knorr, Paola De Petri, Sophy Rickett, Daniela Rossell, Sandy Skoglund. Piccolo Miglio in Castello, Brescia. Dal 9 giugno al 14 settembre; martedรฌ-domenica 10,00-13,00 - 14,00-18,00.
SANDY SKOGLUND: BODY LIMITS, 1992
MARINA ABRAMOVIC: DOUBLE
EDGE,
2001 (INSTALLAZIONE)
SOPHY RICKETT: TWELVE
Candida Hรถfer e Sophy Rickett: courtesy Galleria Alberto Peola, Torino.
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Man Ray: Rayogramma, 1921-28.
Toni von Haken: senza titolo, 1929.
ANNI VENTI-TRENTA La Germania, e l’area tedesca, la Francia degli anni Venti e Trenta sono il fecondo territorio dove si esprimeranno genialità al femminile di prodigiosa forza: Ilse Bing, Lotte Jacobi e Trude Fleischman, quest’ultima è una riscoperta recentissima, malgrado sia stata una professionista affermata con studio a Vienna, dove le giovani speranze della fotografia internazionale approdavano in cerca di consigli. In seguito, si rifugiò negli Stati Uniti per continuare il proprio lavoro. Negli anni Novanta, si affaccia timidamente la scoperta di Claude Cahun; e nell’attuale impeto di esplorazioni che sta scavando le falde profonde della fotografia come una sonda perforatrice ne saltano fuori di recuperi belli, e disutili, per la gioia degli autentici cultori, e degli smaliziati galleristi. Lucy Schwob, francese, adotta uno pseudonimo e sceglie “Claude” come primo nome che è sia maschile che femminile. Di nuovo la volontà evidente di annullare le identità anagrafiche. È il 1917 e rifiuta il ruolo di donna che la società le impone, ma lo interpreta, nei più diversificati personaggi, in autoritratti, forse un po’ ingenui, di
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PORTRAIT COMPOSITION (DOROTHY WEIL), 1933 PORTRAIT COMPOSITION, 1930
William Henry Fox Talbot: Disegno fotogenico, 1834 circa.
tura e gli spettacoli del teatro all’interno della Bauhaus, interpretando appieno la pulizia severa dell’arte modernista. Il suo esempio è stato determinante per l’evoluzione in fotografia della Bauhaus che influenzerà le punte più avanzate della sperimentazione in Europa. Il suo lavoro è di recente riscoperta e valutazione, ovviamente. Fino a pochi anni fa era, ben di rado, menzionata solo come moglie del grande genio. Nel 1919, si iscrive al laboratorio di ceramica, la giovane Toni von Haken, conosce Eberhard Schrammen, a capo dei laboratori dei metalli e della pietra, che già aveva contribuito alla creazione della Bauhaus stessa. Nel 1929, si trasferiscono a Gildenhall, una comunità d’artisti appena fondata. Inventano una tecnica che denomineranno Foto-Grafik, complessa sintesi di fotogramma (la fotografia senza l’uso della macchina fotografica che risale addirittura agli albori dell’invenzione della fotografia con i disegni fotogenici di William Henry Fox Talbot [a sinistra], e quasi un secolo più tardi, “riscoperta” da Man Ray [a sinistra], delizia di dada e surrealisti) e découpage (l’arte di ritagliare frammenti d’immagine per creare nuove composizioni, ritornato tanto alla moda oggi). Al fotogramma/découpage si dedicò anche Picasso assieme ad André Villers, con risultati, a dire il vero, inverecondi. La von Haken sceglie come tema fondamentale del suo lavoro il mondo infantile: i giochi, l’apprendimento e le meravigliose scoperte del Creato (i piccoli animaletti del bosco, l’acquario, i fiori) [a sinistra]. È un’immagine sintetica di grande estensione narrativa, è un’invenzione sperimentale che non ha avuto seguaci per l’estrema difficoltà di realizzazione.
Portraits de femmes. C’è una domanda che inevitabilmente ritorna nell’affrontare l’opera fotografica, affascinante, ma per me anche enigmatica, di Florence Henri. E la domanda è: perché soltanto un decennio? In effetti è dentro un periodo di poco più di dieci anni, dal 1927 al 1940, che Florence Henri ha realizzato le fotografie che costituiscono il corpus, variegato, poliedrico, ma comunque impressionante per qualità, tra quelli usciti dall’esperienza culturale delle avanguardie artistiche del Ventesimo secolo. Alla cosiddetta Grande guerra, immane catastrofe storica, umana, sociale che sconvolse l’Europa, seguì un periodo fervido di idee e utopie, che animarono le menti ardite di tanti uomini e donne che dopo quella catastrofe sentivano l’esigenza di radicali cambiamenti del pensiero, delle relazioni tra gli uomini, della vita stessa. Gli artisti furono in prima linea, all’avanguardia, appunto, di movimenti che chiedevano alla cultura un ruolo di trasformazione del mondo a par-
P
di donne che la Galleria dell’Incisione propone sono tra le fotografie della Henri quelle che più mi convincono dal punto di vista strettamente fotografico. Al di là del sapiente e sperimentale approccio concettuale, che rifiuta ogni “psicologismo” e vuole trattare questi volti alla stessa stregua di architetture o di nature morte, in questi ritratti si impone il palpito della vita, che passa e di cui ci emoziona l’irripetibile istante. Il tempo, propriamente, materia prima, ho sempre saputo, ben più dello spazio immobile, della fotografia. Forse è proprio per questo -sono d’accordo con Arturo Carlo Quintavalle- che dopo quel fatidico 1940 Florence Henri smise di fare fotografie. Il tempo, il tragico tempo della storia era tornato ancora una volta a irrompere nel non utopico tempo della vita. Ferdinando Scianna
tire dalle forme, dalle tecniche stesse della modernità, che da strumenti della “riproduzione” della realtà, per citare Moholy-Nagy, dovevano diventare strumenti di “produzione” del nuovo paesaggio storico e culturale. In questa prospettiva, la fotografia fu vista come uno degli strumenti privilegiati di questo processo, inteso come rivoluzione estetica globale. Il decennio delle fotografie di Florence Henri si colloca dentro questo fervore, questa utopia. Ma quel dopoguerra era, si scoprì presto, un altro anteguerra. Al tempo delle rivoluzioni seguì quello tremendo dei genocidi, di Auschwitz, di Hiroshima, il tempo delle sconfitte. Dopo il 1940, Florence Henri non ha più fatto fotografie. O, per meglio dire, ha continuato a farne, ma erano diverse; lei stessa, forse, le considerava opere “alimentari”. Nelle sue varie deambulazioni se le è lasciate alle spalle, quando non ne ha cancellato la traccia, distruggendole. Nel 1943, Florence Henri aveva quarantasei anni. Era nel pieno dell’energia fisica e creativa. L’aspettavano ancora quasi altrettanti anni di vita e di lavoro artistico e professionale prima della sua morte, nel 1982. Con le sue fotografie aveva ottenuto fama e grandi riconoscimenti critici. Eppure non è più tornata a farne sulla stessa linea e al livello di qualità di quelle che aveva realizzato in quei dieci anni. Sulla sua opera di fotografa cala il silenzio e l’oblio. Il suo e quello degli altri. Bisognerà aspettare il 1967 perché Romeo Martinez si ricordi di lei, dedicandole un portfolio sulla rivista Camera. Lo sottolineo con l’affetto e il rimpianto per un grande amico. E magari sarà stato impre-
Martine Franck e Florence Henri: Ritratti. A cura di Chiara Fasser. Galleria dell’Incisione, via Bezzecca 4, 25126 Brescia; 030-304690. Dall’8 giugno al 14 settembre; martedì-domenica 17,00-20,00 (chiusura estiva dal 26 luglio al 31 agosto).
ciso nel ricostruirne il percorso artistico biografico, ma che memoria storica e che senso della qualità! Tanto più meritorio se si considera che Giovanni Battista Martini e Paolo Ronchetti hanno dedicato anni di appassionato e certosino entusiasmo, e poi di amicizia, per ricostruire una vicenda artistica e culturale e raccogliere immagini che, grazie a loro, abbiamo il privilegio di conoscere e ammirare. Nelle fotografie di Florence Henri riconosciamo la presenza attiva di molte idee che fermentavano tra le avanguardie artistiche di quegli anni, dalla riflessione musicale al purismo, al futurismo italiano e russo, dal surrealismo al costruttivismo, al Bauhaus. I suoi ritratti di molte personalità artistiche di cui fu allieva e amica confermano che non di echi di una comprimaria qui parliamo, ma dell’opera di una protagonista. Certo, la mia concezione della peculiare importanza della fotografia nella vicenda culturale del Ventesimo secolo fa rivolgere le mie preferenze piuttosto verso l’altro versante della pratica fotografica, quello che privilegia il valore di racconto, di traccia del mondo, di intuizione, di folgorazione nel riconoscimento di istanti di vita, reali, surreali, che la fotografia, vero linguaggio della modernità, ha introdotto in modo rivoluzionario nel panorama culturale dell’uomo contemporaneo. Immagini “inventate”, etimologicamente trovate, più che immagini costruite come gioco di forme. Una tradizione, questa, che storicamente apparteneva, già prima della fotografia, ad altre esperienze delle arti. Ma in quest’altro versante, Florence Henri è certo tra i pochi che hanno ottenuto risultati originali. Forse i ritratti
PORTRAIT COMPOSITION, 1930-35
Florence Henri: courtesy Galleria Martini & Ronchetti.
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certo interessanti per meglio definire le frange meno note del surrealismo. Gli Stati Uniti ignoreranno le esperienze della fotografia sperimentale e tutta l’arte dell’avanguardia storica, con un notevole ritardo nell’evoluzione che sarà recuperato soltanto negli anni Sessanta con l’invenzione autoctona della Pop Art. Nei primi decenni del secolo, pertanto, alla corrente pittorialista si contrappone una visione razionalista che sarà dominante, almeno nella stesura dei saggi sulla storia della fotografia pubblicati in epoca posteriore. Berenice Abbott è un inconsueto prodigio di oggettività, sempre che si possa applicare tale termine alla fotografia che oggettiva non lo è mai. Durante il suo soggiorno a Parigi, comprende la straordinarietà delle escursioni e vagabondaggi fotografici di Eugène Atget, un altro che ha ricevuto la benedizione di imbattersi in un “contesto” made in USA, altrimenti sarebbe stato polverizzato in una qualche nebulosa. Rientrata a New York, viene incaricata di un progetto imponente: testimoniare la città. Changing New York uscirà nel 1939, dopo dieci anni di lavoro. Nel 1958, inizia una serie di fotografie per illustrare i fenomeni della fisica. Tutte le immagini della Abbott, a primo sguardo sembrano, pure/dirette/straight, secondo la terminologia e la teoria tanto adorate dalla storiografia critica statunitense, ed è stata la fortuna della Abbott, una delle rarissime autrici che viene menzionata nei testi. Di fatto, la sua visione è così sottilmente di astratta, e personalissima, interpretazione, e così avveniristica, da aver ingannato i noiosissimi obsoleti censori della libertà creativa.
Ritratti. Se dovessi fare una descrizione sintetica di Martine Franck come persona e come fotografa, la definirei in entrambi i casi una testimonianza di stile. Il mondo fotografico è oggi suddiviso in molteplici campi. Tra le categorie distinguiamo il settore mensile, con la produzione di enormi e vacue stampe a colori, che vengono acquistate da collezionisti danarosi, ma dal fiuto tentennante, per decorare al metroquadro le proprie pareti, e rifilate al cliente da cinici e astuti commercianti. Un’altra categoria è quella della fotografia rumorosa, che usa immagini scioccanti o personaggi celebri per intrattenere, ma che raramente rispetta i princìpi fondamentali di equilibrio e composizione; non parliamo poi di contenuto. È una fotografia che grida: «Guardate come sono intelligente!». Una terza categoria può essere quella della fotografia onesta, anche se è più noiosa delle prime due. È una fotografia strettamente legata all’universo del commercio. Sebbene sia la categoria meno interessante, è comunque la più schietta, perché si mostra apertamente come uno strumento di lavoro, esattamente come lo sono un’officina di autoriparazione o uno studio dentistico. Si tratta di vendere prodotti; siano abiti di Chanel, frigoriferi, iPod o detersivi per lavatrici, cambia poco; lo scopo è quello preciso e prestabilito di raggiungere il risultato desiderato, indipendentemente dal grado artistico del prodotto. Fortunatamente, per chi ama l’arte della fotogra-
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STUDIO,
IL PITTORE AVIGDOR ARIKHA NELLO
Con gli anni Ottanta, finalmente, la fotografia negli Stati Uniti si risveglia dal lungo e pernicioso letargo che l’ha esclusa dalle eccitanti avventure dell’Europa. E sono proprio le donne in prima linea con la fantasia delle costruzioni di Sandy Skoglund che mette alla berlina, in surrealistiche ed attualissime realizzazioni, la classe media e le irresponsabili azioni della società contemporanea. Tutto sembra gioioso e ludico nelle sue immagini, eppure là è palesato il pericolo, e l’alienazione collettiva. Cindy Sherman, in un continuo trasformismo, ha fatto di se stessa soggetto e interprete. Tutti gli stereotipi femminili, come sono vissuti nella mente degli uomini, vengono riprodotti in autoritratti, con un’ironia mordace. Un repertorio di impersonificazioni che, con il passare degli anni, ha investito altri territori con rocambolesca fantasia. Anche Orlan è la protagonista diretta delle proprie opere. Qui, però, ci scontriamo con un fenomeno di metamorfosi non fittizia: Orlan, a partire dagli anni Novanta, si è sottoposta a dolorosissime ed interminabili operazione chirurgiche per trasformarsi fisicamente. Chirurgia estetica che
1976
ARTE CONTEMPORANEA
PEINTRES DE L’IMAGINAIRE (SIMBOLISTI E SURREALISTI BELGI), GRAND PALAIS, PARIGI 1972 CARNEVALE A BASILEA,1977
fia la categoria migliore punta su un pubblico colto e sofisticato, dotato di sensibilità, gusto e moderazione; un pubblico in grado di distinguere la qualità in mezzo al rumore visivo che ci circonda. Questo è il tipo di fotografia di Martine Franck, che si inserisce nella tradizione classica di osservazione e risposta a ciò che un occhio acuto e supportato da un bagaglio di cultura visiva riesce a cogliere. Martine vede e sistema in modo coerente attraverso l’obiettivo della sua Leica immagini uniche, che riflettono il suo personalissimo stile, nonché la sua personale visione. All’interno della sua svariata produzione, un interesse particolare rivestono i ritratti, così immediati da poter essere definiti “colloquiali”. Martine Franck ha fotografato i belli, i famosi e i semplici, tutti con il medesimo trasporto, senza mai invadere il loro spazio, né affettare il loro ruolo. Nel mondo della fotografia, le mode vanno e vengono, mentre resta l’osservazione non costruita del nostro paesaggio culturale e delle sue manifestazioni. In questa tradizione si pone la bella fotografia di Martine Franck, un contributo alle nostre richieste. Elliott Erwitt
Martine Franck e Florence Henri: Ritratti. A cura di Chiara Fasser. Galleria dell’Incisione, via Bezzecca 4, 25126 Brescia; 030-304690. Dall’8 giugno al 14 settembre; martedì-domenica 17,00-20,00 (chiusura estiva dal 26 luglio al 31 agosto).
Martine Franck: Agenzia Magnum Photos.
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PARADISE,
Il ritratto è uno dei territori tradizionali dove le donne hanno espresso le loro capacità professionali, spesso imponendosi in concorrenza con gli altri studi. Ed anche in questo genere, davvero popolare, la Biennale presenta delle sorprese, come Dorothy Wilding, la più stimata e corteggiata fra i fotografi di ritratto in Gran Bretagna, e in seguito a New York dove aprì un altro studio nel 1937, frequentato dalla migliore società. Nello stesso anno, in occasione dell’incoronazione di Giorgio VI, fu nominata Fotografo Reale, la prima donna a ricevere questo onore. Talento naturale nel modulare la luce, i suoi ritratti sono un capolavoro di perfezione compositiva e di armonia. Il suo archivio è conservato con rispetto ed ogni precauzione nella British Royal Collection. La stessa sorte non è toccata a Ghitta Carell, nome piuttosto noto in Italia, è stata la regina indiscussa dei ritrattisti, anche se troppo spesso liquidata, da una furia revisionista che non si può applicare all’arte, con etichette stupide “ritrattista di regime” e dei “signori d’Italia”. È vero, nel suo studio hanno posato tutti i personaggi che contavano fra gli anni Trenta e Quaranta: aristocrazia, alta borghesia, politica, finanza. Abilissima negli artifici tecnici (luci e ritocchi), è, comunque, riuscita a realizzare una galleria di ritratti di forte potere narrativo, e spesso di grande suggestione. È stata vittima anche di un disgustoso delitto: nel 1969 si trasferisce in Israele e affida tutte le sue lastre alla Ferrania (già inclusa nel Gruppo 3M) che incarica un allora imperversante personaggio, tuttora vivente, della foto-
1991
RITRATTO
SANDY SKOGLUND: GATHERING
Yasumara Morimura: Frida Kahlo, 2001.
BERENICE ABBOTT: 104 WILLOW STREET, BROOKLYN, 1936
è la negazione del costume corrente, e dei condizionamenti di una società che celebra la giovinezza e la bellezza ad ogni costo. Sorpresa da come i canoni di bellezza varino nelle diverse culture e civiltà, ha dapprima studiato a fondo l’iconografia delle etnie precolombiane per creare la prima serie Self-Hybridation, elaborata al computer, che proseguirà, in anni successivi, rivolgendosi all’Africa ed agli indiani americani. Era molto bella Orlan, secondo i criteri occidentali, e dimostra, oggi, che certi concetti sono privi di significato, piuttosto presentano variabili infinite. “L’anatomia non è il destino” perché modificabile, anche senza ricorrere al bisturi, e ogni individuo è libero di scegliere l’aspetto esteriore che più si accorda al proprio sentire. In sintonia con questa coscienza recuperata, il giapponese Yasumasa Morimura cancella il ruolo che l’anagrafe gli ha imposto e incarna, in una finzione/desiderio, personaggi della più squisita femminilità: dive del cinema, desiderate ardentemente dagli uomini, icone dell’arte europea e l’immaginario ossessivo di Frida Kahlo, la più ambigua e sfuggevole delle artiste moderne [a sinistra], in un’identificazione così cosciente da lasciare le tracce della sua appartenenza culturale.
Presentata in un’ampia sezione della Biennale, la collezione al femminile fa parte di un corpus molto più ampio. È una collezione importante, con nomi che oggi sono già difficili da reperire nel mercato, viste le quotazioni raggiunte dopo anni di faticoso lavoro da parte di tutti noi, coinvolti nel ribadire l’assoluta artisticità delle opere fotografiche, ovviamente di quelle di grandi maestri, che si sono guadagnati il meritato riconoscimento durante tutta una vita. Collezione privata, titolo di questa rassegna, significa un fatto molto preciso nel mondo dell’arte, e cioè che è stata acquisita -acquistata potrebbe malignare qualcuno- da un collezionista che l’ha cercata, voluta, amata al punto da essere disposto a spendere somme di denaro (a volte cospicue) per entrarne in possesso. Con lucida passione, anche se la passione, si sa, a volte rende irrazionali le scelte. Ma è difficile sbagliare, quando si è stati educati all’arte, al bello, all’intelligenza intrinseca di alcune opere, che vanno lette con mente aperta, che vanno inserite in un contesto internazionale, con evidenti difficoltà di lingue e culture molto lontane dalla nostra (che sono stimolo a migliorarsi sempre). La cultura è una sola
ed è universale, almeno nel campo delle arti visive. I nomi presentati negli spazi espositivi del Museo Ken Damy ne sono conferma. Molti contemporanei, altri storici, a dialogare tra loro perfettamente inseriti nel tema proposto da tutta la Biennale 2006 per una storia della fotografia al femminile: storia che è ancora tutta da scrivere e verificare, con serietà e competenza; e con controlli incrociati, perché il mondo dell’arte è molto ampio e complicato. Ed è questo un impegno irrinunciabile. Ken Damy
NAOMI TOKI: NUDO
P
A cura di Paolo Clerici e Ken Damy. Berenice Abbott, Colette Àlvarez Bravo, Lola Álvarez Bravo, Lillian Bassman, Vanessa Beecroft, Lynn Bianchi, Lynn Butler, Julia Margaret Cameron, Michelle Campbell, Monica Carocci, Pamela De Marris, Diana & Marlo, Trude Fleischmann, Barbara Forshay, Susan Friedman, Toto Frima, Flor Garduño, Nan Goldin, Florence Henri, Candida Höfer, Connie Imboden, Irina Ionesco, Graciela Iturbide, Annie Leibovitz, Erika Lennard, Raffaella Marinello, Cindy Marler, Ruth Gilbert Mayerson, Manuela Metelli, Tina Modotti, Galina Moskaleva, Shirin Neshat, Eleonora Olivetti, Lieve Prins, Bettina Rheims, Ursula Richter, Leni Riefenstahl, Cindy Sherman, Sandy Skoglund, Vee Speers, Connie Sullivan, Elisabeth Sunday, Joyce Tenneson, Mariagrazia Toderi, Naomi Toki, Mariana Yampolsky, Khrystyna Ziach. Museo Ken Damy di Fotografia Contemporanea, corsetto Sant’Agata 22, Loggia delle Mercanzie, 25122 Brescia; 030-3750295, fax 030-45259; www.museokendamy.com, info@museokendamy.com. Dal 10 giugno al 14 settembre; martedì-domenica 15,30,19,30.
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INTERDIT,
IRINA IONESCO: LE JAPON 1993 SECRET,
L’accesso alle donne in fotografia si un po’ dischiuso, anche in Paesi che il mondo occidentale ritiene serrato in insormontabili muraglie. Una delle tante rivelazioni che propone la Biennale è la giovane, solo ventiquattro anni, molto bella, determinata e preparata -si è laureata in fotografia presso il Queensland College of Arts della Griffith University, in Australia- Alia Al Shamsi, la prima fotogiornalista professionista degli Emirati Arabi, lavora per due quotidiani del Dubai, unica donna [a pagina 38]. Alia, sotto certi profili, non sfugge alla biografia di molti fotografi, il padre è un appassionato e regala alla figlia la sua prima macchina fotografica quando ha solo sette anni. Apertura mentale sì, ma quando Alia esprime il desiderio di essere fotografa, il buon senso paterno interviene e cerca di dissuaderla. Ha perso, e ha vinto un talento naturale. E qui si può porre la domanda dell’inizio, sia pure in termini diversi: il talento è parte del DNA di un individuo? Credo proprio di sì, gli studi costanti sono il terreno sul quale sviluppare idee ed evolversi, ma se non esistono i presupposti di base, si rimane confinati nella mediocrità. Da pochissimi anni si è dischiuso un nuovo mondo, sorprendente, la Cina che, non avendo tradizioni in fotografia da rispettare o seguire, si sta inventando tutto con un anticonformismo strabiliante. Cui Xiuwen è esplosa alla ribalta internazionale a metà degli anni Novanta, a circa venticinque anni. Le sue bambine, i soggetti delle opere, sono innocenti tramite di metafore complesse. L’abbigliamento -divisa scolastica, sempre con la camicetta bianca e il fazzoletto rosso al collo- non è scelta estetica, ma “segnaletica” per veicolare il messaggio: bianco purezza, rosso patriottismo, secondo gli stereotipi degli anni Cinquanta in Cina. Le bambine, la bambina, rappresenta se stessa, o meglio ogni donna cinese, confusa e smarrita, consapevole e volitiva, sognante e realistica, in un coacervo di sentimenti e pulsioni che dal passato politico riemergono nel presente, così diverso ed inaspettato. Paese, invece, di grande tradizione è il Giappone, dove però le donne artiste si contano ancora in piccolissimi numeri. Shinako Sato è un’esplosione di inventiva che risolve con i mezzi più disparati: fotografie, disegni, piccoli adesivi, scul-
SHIRIN NESHAT: I AM IT’S
NUOVI ORIZZONTI
2004
grafia di organizzare l’archivio. Questo personaggio, che ha procurato più danni alla fotografia in Italia di quanti “infiniti dolori inflisse agli Achei”, consigliò di stampare tutte le lastre, riprodurle in negativi, operazione che eseguì personalmente a fronte di congrua retribuzione, e distruggerle. La carta utilizzata non era adatta a restituire i soffici passaggi tonali della Carell, tantomeno la pellicola negativa 35mm troppo dura. Le lastre sono finite nella discarica, le fotografie originali della Carell sono rare preziosità e ciò che ci rimane di un patrimonio sono delle impossibili riproduzioni.
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CINDY MARLER: AMSTERDAM ANGEL, 1990
KHRYSTYNA ZIACH: BLACKNESS, 1985
CIRCA
LENI RIEFENSTAHL: DER
TURMSPRINGER,
1936
URSULA RICHTER: A DANCE
OF THE DEATH,
DRESDEN, 1926
ture, collages, ricami e murales. Il tema ricorrente è, ancora una volta, la donna, sia pure analizzata in espressioni diverse, le sue fantasie e candore, la malizia e gli impulsi.
IN DEFINITIVA «Vi sono stati pregiudizi storici contro le donne nella pittura e nella scultura. Siccome la fotografia è una forma d’arte più recente vi è più apertura e accettazione. Hanno avuto più opportunità, e sempre ci sono state buone donne fotografe quanti uomini. «Nel Ventesimo secolo, Imogen Cunningham, Margaret Bourke-White e Dorothea Lange hanno dimostrato la continuità delle grandi donne fotografe nella storia. Non significa che abbiamo avuto una vita facile. Fino a circa un decennio fa, secondo la gente di settore, le donne difficilmente trovavano un impiego nella fotografia commerciale o nel fotogiornalismo, e pertanto erano forzate a lavorare per conto loro». È la sintetica analisi di Joan Harrison, co-curatrice della mostra Photojournalism in the 80’s, organizzata presso il Fine Arts Center dell’Università del Massachusetts ad Amherst nel 1986. In quella stessa occasione, Cornell Capa, allora direttore dell’International Center of Photography di New York, espresse il proprio punto di vista: «Credo che sono state tenute fuori da attitudini maschiliste. Ma, in qualche punto, lungo il percorso, la diga si è rotta. Le donne posseggono entusiasmo ed energia ed obiettivi da perseguire». E vita facile, le donne, continuano a non averne, se Annie Leibovitz è stata incaricata del calendario Pirelli nel 2000, preceduta da soltanto altre due: Sarah Moon, la prima, nel 1972 e, a distanza di diciassette anni, nel 1989, Joyce Tennyson, in una tradizione annuale che prende le mosse nel 1964, quarantadue anni fa. E devono lottare per emergere anche le artiste che hanno eletto la fotografia quale puro strumento espressivo, in una logica di mercato dominato dagli uomini. Ricerche concettuali come la linea che da sempre persegue Mari Mahr, rivolta ad esplorare la propria esperienza familiare -e sono riflessive, le donne, sul loro microcosmo che è poi il macrocosmo dell’umanità- o ricognizioni sul già noto per estrarre nuove interpretazioni e approfondire la capacità della fotografia di raccontare sempre imprevedibili storie è il lavoro di Ernestine Ruben, dai poliedrici interessi. Poliedrici interessi, appunto, ed estrema flessibilità nell’uso del mezzo fotografia sono caratteristiche al femminile che gli uomini, in genere, si “specializzano”. Forse qui, e soltanto in questa particolarità, abbiamo trovato infine le differenze. Non duro o morbido, non elezione di soggetti, non attitudini di ripresa, ma un’ampia estensione di curiosità. Giuliana Scimé
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Museo di Santa Giulia, via dei Musei 81b, 25121 Brescia. Dal 9 giugno al 14 settembre; martedì-domenica 10,00-18,00. ❯ Appunti per una storia della fotografia al femminile. A cura di Ken Damy, Giuliana Scimé e Mario Trevisan. [Da pagina 32]. ❯ Perfume de mujer - Fotografia messicana. A cura di Giuliana Scimé, assistente Eliseo Barbàra. Tina Modotti, Lola Álvarez Bravo, Mariana Yampolsky, Flor Garduño, Daniela Rossell. [Da pagina 40]. ❯ Patrizia della Porta: Mu-seum. A cura di Fabio Castelli. ❯ Nel silenzio di una storia. A cura di Gigliola Foschi. Destiny Deacon, Anna Gaskell, Jitka Hanzlová, Hannah Starkey. [Da pagina 44]. ❯ Il mondo dell’arte. A cura di Massimo Minini. Elisabetta Catalano, Nanda Lanfranco. ❯ Contempor’art. A cura di Massimo Minini, Alberto Peola e Valerio Tazzetti. Piccolo Miglio in Castello, Brescia. Dal 9 giugno al 14 settembre; martedì-domenica 10,0013,00 - 14,00-18,00. Marina Abramovic, Vanessa Beecroft, Monica Carocci, Candida Höfer, Karen Knorr, Paola De Petri, Sophy Rickett, Daniela Rossell, Sandy Skoglund. ❯ Nuove generazioni. A cura di Mauro Corradini, in collaborazione con l’Accademia di Belle Arti di Brera (Milano). Sala dei Santi Filippo e Giacomo, via delle Battaglie 61, 25122 Brescia; 030-43018. Dal 12 giugno al 14 settembre; martedì-domenica 15,30-19,30. Alessandra Arnò, Elena Carozzi, Serena Gallini, Valeria Necchi, Serena Porrati, Ilaria Turba. ❯ Collezione privata. A cura di Paolo Clerici e Ken Damy. [Da pagina 52]. Museo Ken Damy di Fotografia Contemporanea, corsetto Sant’Agata 22, Loggia delle Mercanzie, 25122 Brescia; 030-3750295. Dal 10 giugno al 14 settembre; martedì-domenica 15,30,19,30. ❯ Flor Garduño: Flor. A cura di Ken Damy. Aab - Associazione Artisti Bresciani, vicolo delle Stelle 4, 25122 Brescia; 030-45222. Dal 10 giugno al 14 settembre; martedì-domenica 15,3019,30 (chiusura estiva dal Primo al 17 agosto). ❯ Maggie Cardelùs: Sculpture for a Farmer Church. A cura di Silvana Turzio. Chiesa di San Zenone all’Arco, vicolo San Zenone 1, 25122 Brescia; 030-45551. Dal 10 giugno al 14 settembre; martedì-domenica 15,30-19,30. ❯ Gruppo Quanta. A cura di Yves Chaineaux. Laba - Libera Accademia di Belle Arti, via Don Vender 66, 25127 Brescia; 030-380894. Dall’8 giugno al 14 settembre; lunedì-venerdì 9,00-19,30, sabato 9,30-12,30 (chiusura estiva dal 7 al 19 agosto). Nicole Heywang, Chantal Pinosa, Maryse Pinsar, Vicky Roux.
❯ Immagini nell’Università - Tre visioni al femminile. A cura del Laboratorio di organizzazione di eventi artistici dello Stars, tenuto da Piero Cavellini. Università Cattolica, via Trieste 17, 20121 Brescia. Dal 9 giugno al 14 settembre; lunedì-venerdì 10,00-18,00 (chiusura estiva dal Primo al 31 agosto). Paola Di Bello, Armida Gandini, Alessandra Spranzi. ❯ Elaine Ling: Stones east and west. A cura di Ken Damy. Ken Damy Fine Art, corsetto Sant’Agata 22, Loggia delle Mercanzie, Cortile interno, 25122 Brescia; 030-3750295. Dall’8 giugno al 14 settembre; martedì-domenica 15,30-19,30. ❯ Lieve Prins: Touch. A cura di Ken Damy. Atelier degli Artisti, via delle Battaglie 36b, 25122 Brescia; 030-3753027. Dall’8 giugno al 14 settembre; martedì-domenica 15,30-20,00 (chiusura estiva dal Primo al 31 agosto). ❯ Alma Davenport: Polaroid. A cura di Paolo Clerici. Associazione Culturale La Parada, via Milano 64, 25126 Brescia. Dall’8 giugno all’8 settembre; lunedì-venerdì 19,00-21,00 (chiusura estiva dall’8 luglio al 20 agosto). ❯ Barbara Forshay: Tra pittura e fotografia. A cura di Ken Damy. Galleria delle Battaglie, via delle Battaglie 69a, 25122 Brescia; 030-3759033. Dall’8 giugno al 14 settembre; lunedì 16,00-19,30, martedì-sabato 10,00-12,00 - 16,00-19,30 (chiusura estiva dal 24 luglio al 31 agosto). ❯ Martine Franck e Florence Henri: Ritratti. A cura di Chiara Fasser. [Da pagina 48]. Galleria dell’Incisione, via Bezzecca 4, 25126 Brescia; 030-304690. Dall’8 giugno al 14 settembre; martedì-domenica 17,00-20,00 (chiusura estiva dal 26 luglio al 31 agosto).
Piero Cavellini e Annalisa Portesi. Nuovi Strumenti, piazza Tebaldo Brusato 2, 25121 Brescia; 030-3757401. Dall’8 giugno al 14 settembre; martedì-sabato 15,30-19,30 (chiusura estiva dal Primo al 31 agosto). Catalogo in galleria. Elena Arzuffi, Annalisa Cattani, Paola di Bello, Barbara Faessler, Armida Gandini, Silvia Lenvenson, Marzia Migliora, Ottonella Mocellin, Liliana Moro, Cristina Pavesi. ❯ Armida Gandini: Rane in pancia. A cura di Fabio Paris. Fabio Paris Art Gallery, via Monti 13, 25121 Brescia; 030-3756139. Dall’8 giugno al 14 settembre; lunedì-sabato 15,00-19,00; dal Primo al 31 luglio lunedì-venerdì 15,00-19,00 (chiusura estiva dal Primo al 31 agosto). ❯ Manuela Carrano e Francesca Galliani: Il corpo umano come metafora. A cura di Giuliana Scimé. Primo’s Gallery, via Trieste 10d, 25121 Brescia; 030-2404183. Dall’8 giugno al 14 settembre; martedì-sabato 10,00-12,30 - 16,00-19,30 (chiusura estiva dal 15 luglio al 31 agosto).
Biennale Internazionale di Fotografia di Brescia 2006: Appunti per una storia della fotografia al femminile. Direttore artistico Ken Damy. Museo Ken Damy di Fotografia Contemporanea, corsetto Sant’Agata 22, Loggia delle Mercanzie, 25122 Brescia; 030-3750295. www.museokendamy.com info@museokendamy.com
❯ Femminile, singolare. A cura di Paola Nicita. Reali Arte, via Pietro Marone 13, 25124 Brescia tel. 03046042. Dall’8 giugno al 14 settembre; mercoledì-sabato 15,30-19,00 (chiusura estiva dal Primo al 31 agosto). Anne-Clémence de Grolée, Oksana Shatalova & Alla Girik, Yi Zhou. ❯ Ri-trattare. A cura di Sarenco. Sbac - Studio Brescia, via Milano 107, 25126 Brescia; 030-313888. Dall’8 giugno al 14 settembre; martedì-venerdì 15,00-19,00. Paola Mattioli, Patrizia Guerresi, Monica Biancardi, Almagul Menlibayeva. ■ Ancora: Eventi simultanei, Eventi collaterali, Spazi alternativi, Attorno alla Biennale, Workshop, Serate e Visione portfolio.
❯ Toto Frima e Galina Moskaleva: Due differenti autobiografie. A cura di Lorenzo Merlo. Immagina di stile, via San Faustino 28, 25122 Brescia; 030-3774503. Dall’8 giugno al 14 settembre; martedì-sabato 15,00-19,00 (chiusura estiva dal Primo al 31 agosto). ❯ Paola Pansini: Introspezione. A cura di Martina Cavallarin e Gianpaolo Paci. Paci arte contemporanea, via Cattaneo 20b, 25121 Brescia; 030-2906352. Dall’8 giugno al 14 settembre; martedì-venerdì 10,30-13,00 - 16,0020,00, sabato 10,30-18,00 (chiusura estiva dal 13 al 27 agosto). ❯ Francesca Woodmann. A cura di Massimo Minini. Massimo Minini, via Apollonio 68, 25128 Brescia; 030-383034. Dall’8 giugno al 14 settembre; lunedì-venerdì 10,30-19,30, sabato 15,30-19,30 (chiusura estiva dal Primo al 31 agosto). ❯ Donnamadrebambina. Visioni e immagini di dieci artiste scelte con Annalisa Portesi. A cura di
Biennale Internazionale di Fotografia di Brescia 2006: Appunti per una storia della fotografia al femminile. Catalogo: Edizioni del Museo, 2006 (corsetto Sant’Agata 22, 25122 Brescia); 128 pagine 23x33cm; 30,00 euro.
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er quanto alcune industrie della fotografia dei nostri giorni siano diffidenti sui valori storici dell’evoluzione tecnologica degli strumenti, come se la storia non esistesse e avesse valore soltanto la cronaca, non possiamo ignorare che l’esperienza e le capacità applicate di chi può vantare antiche radici facciano ancora una sostanziale e sostanziosa differenza. La cultura di un mondo e un settore, che non va confusa con nulla di nozionistico o antiquato, è una cifra stilistica che consente ad alcuni marchi di collocarsi in posizioni più elevate di altri (nuovi arrivati, privi di passato, e dunque svincolati dalla realtà nella quale agiscono). Il caso di Hasselblad è sintomatico e rappresentativo: addirittura esemplare. Per quanto qualcuno possa erroneamente supporre che l’attualità tecnologica non abbia alcun debito di riconoscenza con la propria radicata vicenda produttiva, le interpretazioni tecniche proposte sono invece dipendenti da una esperienza che nei decenni si è formata, ed è maturata, a stretto contatto con il mondo del professionismo internazionale. La personalità digitale di Hasselblad non è certo slegata dalla sequenza di interpretazioni e soluzioni argentiche (oggi dobbiamo esprimere questa distinzione, ieri non era ancora il caso di farlo), avviate con l’originario progetto del fondatore Victor Hasselblad, del quale si è appena celebrato il centenario della nascita (FOTOgraphia, aprile 2006). Così, nel concreto, per quanto l’attuale Hasselblad H2D-39 sia espressione tangibile di una efficace tecnologia presente-futuribile, la sua
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apprezzata concretezza si deve anche (soprattutto?) a una cultura aziendale che da quasi cinquant’anni vive a stretto contatto con le esigenze e necessità dei propri clienti, degli utilizzatori professionali. Il DNA non mente mai!
39 MEGAPIXEL Premio TIPA 2006 nella categoria dei Sistemi digitali medio formato (FOTOgraphia, maggio 2006), la configurazione digitale Hasselblad H2D-39 si completa con l’omonimo dorso di acquisizione H2D-39, utilizzabile anche con altri apparecchi o sistemi (a corpi mobili) a magazzini intercambiabili. Come rivela la stessa sigla di identificazione, il dorso digitale dispone di un efficiente sensore da 39 Megapixel (!), che nei fatti stabilisce un nuovo standard della fotografia professionale. Di dimensioni 36,7x49mm, decisamente superiori alle dotazioni derivate da reflex 35mm (che hanno altro indirizzo professionale; ma oggi troppo spesso si stanno confondendo i termini), il sensore gestisce un elevato numero di pixel. A conseguenza, si registra una innovativa qualità dell’immagine, considerevolmente superiore a quella di altre dotazioni: ognuna delle quali è definita da propri ambiti specifici di impiego, che si basano su relativi parametri professionali. Come appena annotato, non è assolutamente il caso di mischiare queste carte in tavola, perché ogni applicazione professionale richiede ancora (richiederebbe sempre) adeguate mediazioni tecniche. Altrimenti, se dovessero bastare pallide apparenze, ci si potrebbe allargare anche alle compatte digitali di ultima generazione: ma non è il ca-
Evoluzione consequenziale dell’originaria H2, prima, e per ora unica, configurazione digitale medio formato autofocus di taglio più alto dotata di sensore da 39 Megapixel (!), l’Hasselblad H2D-39 sposa le attuali tecnologie con la sistematica evoluzione tecnica del proprio sistema fotografico, forte di radici che affondano nella storia. Dalla tecnologia proprietaria DAC (Digital Apo Correction) all’Architettura di Approvazione Immediata (IAA, Instant Approval Architecture), offre una confortevole combinazione di prestazioni e caratteristiche straordinariamente flessibili so di confondere le acque. La fotografia professionale resta (deve restare) un territorio dai pochi compromessi, meglio se di nessun compromesso. Le acquisizioni dell’Hasselblad H2D-39 sono definite da una superba resa cromatica, priva di marezzature e senza discontinuità delle gradazioni, anche sulle superfici del soggetto più delicatamente illuminate. I file si distinguono per elevata chiarezza e precisione, soprattutto garantita dall’alta risoluzione del sensore da 39 Megapixel. I documenti digitali di consistenti dimensioni, le maggiori attualmente disponibili sul mercato, sono ideali per applicazioni di stampa di classe superiore ad alta risoluzione. A conseguenza, si annota anche un controllo più flessibile e creativo dell’ingrandimento, sia dell’inquadratura completa sia di un proprio dettaglio.
ALLINEAMENTI Vincolata alla risoluzione, la qualità formale delle acquisi-
zioni dell’Hasselblad H2D-39 si basa anche sulle caratteristiche dell’apparecchio in quanto tale e dei suoi fantastici obiettivi. Discriminante è la tecnologia proprietaria Digital Apo Correction (DAC; Correzione Apocromatica Digitale), che consente di acquisire e gestire un set esteso di metadati, e quindi di apportare automaticamente eventuali opportune correzioni agli effetti di aberrazione cromatica di ogni ripresa. Ciò significa che ogni acquisizione digitale viene automaticamente allineata al migliore livello di dettaglio ottenibile con la risoluzione ottica dell’obiettivo usato. Questa funzione si basa sulla classificazione dettagliata di tutti gli obiettivi del sistema Hasselblad, e garantisce che ogni immagine sia la migliore otticamente ottenibile. In corrispondenza, Natural Color Solution applica una gestione del colore che interpreta e risolve ogni tonalità e riflessione luminosa del sogget-
SENZA DUBBIO
to, riconoscendo e distinguendo anche i comportamenti degli elementi che hanno sempre risposto con cromaticità non controllate: dalla tonalità dell’incarnato ai metalli, dai tessuti ai fiori, dalle superfici specchiate a quelle più assorbenti. Un nuovo e potente profilo colore si combina con il suo software di imaging FlexColor, ancora di tecnologia proprietaria. Hasselblad Natural Color Solution interpreta rapidamente colori vivi, fedeli e affidabili, anche in condizioni avverse.
FILE Un nuovo formato di file grezzo RAW, che agevola la combinazione l’esclusivo sistema cromatico, è denominato 3FR (appunto 3F RAW). È stato studiato per assicurare che le immagini acquisite con i sistemi digitali Hasselblad possano essere rapidamente ed efficientemente memorizzate nei supporti disponibili (card CF, archivi esterni e altro). Il formato del file include la compressione senza perdita di dati, con un risparmio di spazio di memorizzazione del 33 per cento. In abbinamento con l’architettura dei dorsi digitali Hasselblad consente di effettuare trentacinque scatti al minuto. Il file 3FR definisce i colori nello spazio colore RGB Hasselblad; inoltre, utilizzato in FlexColor, evita la calibratura di diversi profili colore e correzioni cromatiche selettive. I file 3FR possono essere convertiti direttamente nel formato immagine RAW di Adobe DNG (Digital NeGative), che consente l’apertura di file di immagine compressi RAW direttamente in Adobe Photoshop. È quindi possibile lavorare velocemente con efficienza, riducendo i “tempi mor-
ti” dovuti all’elaborazione dei dati delle immagini. Al solito, i file di immagini Hasselblad inglobano serie complete di dati complementari -comprese le condizioni di acquisizione, parole chiave e copyright-, che facilitano la gestione dell’archivio.
SICUREZZA Come è noto, nell’ambito di applicazioni di studio/sala di posa concretamente professionali (diverse dalla dinamicità del reportage), la grande libertà offerta dall’acquisizione digitale di immagini perde parte del proprio potenziale se non è possibile rivedere e selezionare velocemente le immagini migliori da presentare al cliente. Nata dal successo della tecnologia di Feedback Acustico dell’Esposizione, la nuova Architettura di Approvazione Immediata di Hasselblad (IAA, Instant Approval Architecture) assicura una serie di strumenti che consentono al fotografo di concentrarsi sulla ripresa, piuttosto che sul processo di selezione. L’IAA attiva segnali acustici e visivi per ogni acquisizione, comunicando immediata-
mente se l’immagine soddisfa i criteri predefiniti di “Approvata”, “Dubbia” o “Scartata”. Le informazioni sono registrate sia nel file sia nella relativa denominazione/identificazione, così da consentire di classificare e selezionare rapidamente e facilmente le immagini desiderate, sia sul campo, in fase operativa, sia nei tempi e modi della gestione a tavolino (postproduzione e dintorni). L’Hasselblad H2D-39 è totalmente integrata con l’Architettura di Approvazione Immediata. Il display Oled, migliorato e ingrandito nelle dimensioni, offre una accattivante visione realistica dell’immagine, di alta qualità e con un perfetto contrasto, perfino in piena luce; anche questa previsualizzazione facilita ulteriormente l’approvazione istantanea dell’immagine. L’Hasselblad H2D-39 consente di memorizzare i file acquisiti su scheda CompactFlash o unità Firewire flessibili, oppure in collegamento con controlli esterni di acquisizione: a ciascun fotografo, a ciascun utilizzatore, la scelta in base alle condizioni di lavoro o in relazione a ogni altra esigenza e necessità. Non ci si lasci ingannare dall’apparenza
delle caratteristiche, che può risultare complessa solo dal punto di vista fonetico. Nell’impiego, l’Hasselblad H2D39 è sostanzialmente semplice da usare, grazie un conveniente interfaccia utente, che permette al fotografo di concentrarsi sul proprio soggetto, senza doversi troppo occupare delle mediazioni tecniche della relativa raffigurazione: e non potrebbe essere altrimenti, considerata anche l’esperienza produttiva della stessa Hasselblad, da decenni a stretto contatto con le esigenze e necessità della fotografia professionale sul campo. Si annotano operazioni guidate da comandi e pulsanti di identificazione facile e intuitiva. Ancora tecnologia esclusiva e proprietaria, sia su piattaforme Apple Macintosh sia in ambiente Windows, FlexColor governa e gestisce il flusso di lavoro per l’elaborazione delle immagini, offendo un alto livello di controllo per il fotografo in studio. La più recente versione di FlexColor consente di intervenire sulla temperatura colore e di confrontare dettagli su molte immagini simultaneamente, per una selezione più precisa. FlexColor opera su file RAW DNG generati dall’Hasselblad H2D-39. (www. hasselblad.com, andrea.mariani@hasselblad.dk). Antonio Bordoni
PROFESSIONALE
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COSÌ COME sattamente un anno fa, la compatta Fujifilm FinePix F10 ha introdotto nuovi parametri nella concezione della fotografia digitale, offrendo una innovativa flessibilità operativa, derivata dalla propria alta sensibilità alla luce (FOTOgraphia, giugno 2005). Oggi, quel valore di 1600 Iso equivalenti, che appunto definì la FinePix F10, è stato addirittura raddoppiato. Applicando la più recente configurazione della tecnologia proprietaria Real Photo II, l’attuale Fujifilm FinePix F30 Zoom si allinea con la straordinaria sensibilità dell’occhio umano: quantificabile nell’ordine di 3200 Iso equivalenti. Soprattutto per questo, ma non soltanto per questo, è stata indicata come miglior compatta digitale della stagione dalla selettiva, autorevole e qualificata giuria dei prestigiosi TIPA Awards 2006 (FOTOgraphia, maggio 2006). Oltre la generosa sensibilità di 3200 Iso equivalenti, a piena risoluzione, che consente un uso esteso anche alle più avverse condizioni luminose, con soggetti in rapido movimento o in situazioni comunque difficili, non mancano versatili automatismi, tra i quali si segnalano quindici modalità scene, adatte a una vasta campionatura di soggetti possibili e potenziali. Oltre le impostazioni standard Naturale, Persone, Paesaggio, Sport e Ripresa notturna, segnaliamo le opzioni dedicate alla fotografia Subacquea, alla Macrofotografia, al Tramonto e al Museo (che non sono, comunque, le uniche). Inoltre, discorso a parte per la modalità “Testo”, adatta a fotografare documenti scritti e testi su fondo bianco (in so-
E SI VEDE
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Nella popolosa categoria delle compatte digitali, che presentano infinite interpretazioni tecniche e commerciali, la Fujifilm FinePix F30 Zoom impone le consistenti prestazioni di interpretazioni esclusive, che fanno la differenza. Premio TIPA 2006 di categoria, è la prima compatta digitale che approda all’elevata sensibilità di 3200 Iso equivalenti, a piena risoluzione
stituzione dello scanner?!). In un certo senso, è legittimo affermare che, in piena maturità tecnica, la fotografia digitale esce dal buio, consentendo di acquisire immagini così come l’occhio umano vede la scena inquadrata. A conseguenza, è altrettanto doveroso annotare che con la generazione Fujifilm FinePix F30 Zoom la tecnologia digitale entra in una propria nuova fase tecnico-commerciale,
entro la quale le scelte degli utilizzatori non sono più generiche e casuali (come spesso lo sono state in precedenza), ma si basano su consapevolezza, apprezzamento e analisi approfondita delle caratteristiche tecniche. Semplice da usare, come è necessario che sia, la FinePix F30 Zoom offre anche una più affidabile acquisizione, soprattutto in relazione alla efficiente interpretazione del se-
gnale, e una efficace postproduzione. Dotata di Super CCD HR di sesta generazione, da 6,1 Megapixel (!), come appena accennato, dispone anche della tecnologia proprietaria Fujifilm Real Photo Processor II, che è appunto approdata alla propria seconda generazione: confortevole riduzione del disturbo, che contiene il rumore e migliora la riproduzione del colore, nelle sue più delicate sfumature di tono. Lo zoom ottico 3x f/2,85,0, con escursione focale equivalente alla variazione 36-108mm della fotografia argentica 24x36mm, si combina con un programma “flash intelligente” a modulazione di esposizione, che previene la sovraesposizione del soggetto principale (individuato all’interno dell’inquadratura), registrando altresì dettagli sullo sfondo, che vengono adeguatamente illuminati e conseguentemente esposti (acquisiti). L’ampio display LCD da 2,5 pollici (230mila pixel) ha una superficie rivestita con l’esclusiva pellicola Fujifilm CV, che riduce al minimo l’abbagliamento e i riflessi, per una migliorata facilità di visualizzazione in ogni condizione luminosa. Ultimo ma non ultimo, perché il dettaglio delle consistenti caratteristiche tecniche merita di essere approfondito, magari consultando il ben allestito sito www.fujifilm.it, la FinePix F30 Zoom consente la registrazioni di filmati VGA con audio, a trenta fotogrammi al secondo. Le xD-Picture Card di archiviazione sono ora disponibili fino alla capacità di un Giga. (Fujifilm Italia, via dell’Unione Europea 4, 20097 San Donato Milanese MI). A.Bor.
ome annunciato, sul nostro numero dello scorso aprile, a margine della presentazione della nuova reflex digitale Olympus E-330, Leica Camera AG e Panasonic hanno aderito allo standard QuattroTerzi, ideato dalla stessa Olympus in forma aperta: per reflex e obiettivi tra loro autenticamente intercambiabili. Da tempo in collaborazione stretta, che si è concretizzata nella dotazione ottica Leica delle configurazioni digitali Panasonic di taglio alto, le due
C
CONDIZIONI OTTICHE
Nello specifico dello standard QuattroTerzi, avviato da Olympus nell’estate 2003 con l’originaria E-1 (FOTOgraphia, luglio 2003), ricordiamo che gli obiettivi non debbono assolvere altre condizioni che quelle specifiche della fotografia digitale. Sono obiettivi disegnati sul princìpio della costruzione ottica telecentrica, ereditato da applicazioni scientifiche: che consente alla luce di raggiungere il sensore solido di 4/3 di pollice, da cui la definizione, con raggi pressoché perpendicolari alla propria superficie. È
Accordatasi allo standard QuattroTerzi, avviato da Olympus, la tedesca Leica realizza il suo primo obiettivo intercambiabile finalizzato all’acquisizione digitale di immagini. Lo zoom Leica D Vario-Elmarit 14-50mm f/2,83,5 Asph incorpora un esclusivo sistema di stabilizzazione ottica dell’immagine, progettato e realizzato per le reflex digitali
LEICA case hanno progettato a quattro mani l’attuale zoom per acquisizione digitale di immagini con reflex della genìa QuattroTerzi: il primo di una famiglia “D”, che Leica dedica alla fotografia digitale reflex. Sul sensore, la lunghezza focale originaria dello zoom Leica D Vario-Elmarit 1450mm f/2,8-3,5 Asph equivale all’escursione comparata 28-100mm della fotografia tradizionale 24x36mm.
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questo un requisito essenziale dell’acquisizione digitale di immagini, indispensabile per ottenere fotografie dai colori perfetti, oltre che nitidezza e luminosità estese a tutto il campo. Assieme all’elevata risoluzione degli obiettivi, i raggi immagine paralleli, e perpendicolari alla proiezione, garantiscono che il sensore riceva i dati con la massima precisione, raggiungendo così il massimo delle proprie potenzialità tecniche.
Una ulteriore sostanziale caratteristica discriminante dello standard QuattroTerzi consiste nelle dimensioni compatte dei propri elementi e, nello specifico ottico, nel peso relativo degli obiettivi, peraltro tutti di elevata luminosità relativa.
D VARIO-ELMARIT Estremamente compatto e fedele a una consolidata tradizione di alta qualità ottica, che affonda le proprie radici indietro nei decenni e che è stata sempre aggiornata, l’attuale zoom Leica D Vario-Elmarit 1450mm f/2,8-3,5 Asph è composto da sedici lenti divise in dodici gruppi, in una combinazione ottica comprendente anche due elementi asferici. Si annuncia e propone come obiettivo capace di offrire una resa d’immagine di elevata definizione, arricchita dai più fini dettagli e sfumature di colore. Allo stesso tempo, la costruzione ottica riduce al minimo la distorsione e la vignettatura agli angoli dell’immagine. Per ottenere le migliori prestazioni ottiche, è stata incorporata una lente asferica con diametro molto ampio, realizzata interamente in vetro. Il Leica D Vario-Elmarit 1450mm f/2,8-3,5 Asph è dotato anche del Sistema Mega OIS, elaborato interamente da Panasonic. Si tratta di un
esclusivo sistema di stabilizzazione dell’immagine, che rende possibile realizzare immagini nitide in ogni condizione luminosa, senza l’utilizzo di treppiedi. Il qualificato zoom, erede di una scuola ottica che ha scritto straordinari capitoli nella lunga storia evolutiva della fotografia, è completo di propria ghiera di selezione e impostazione dell’apertura del diaframma, ulteriore a quelle di messa a fuoco manuale e di selezione della focale. In questo modo, si hanno modalità di ripresa versatili e semplici anche nella combinazione con reflex ad acquisizione digitale di immagini. Riservato alle reflex digitali QuattroTerzi, il Leica D VarioElmarit 14-50mm f/2,8-3,5 Asph è utilizzabile con le Olympus E-1, E-300, E-500 e E-330 (e con le altre reflex che si aggiungeranno al sistema nel futuro), così come sarà utilizzabile con l’annunciata Panasonic DMC-L1, la prima reflex digitale a obiettivi intercambiabili della casa giapponese, e con ogni ulteriore reflex QuattroTerzi che arriverà sul mercato. (Polyphoto, via Cesare Pavese 11-13, 20090 Opera Zerbo MI). A.Bor.
QUATTROTERZI
R
Renzo Chini, fotografo, critico e storico della fotografia, che mi è stato maestro e amico, nasce a Calci (Pisa) nel 1920. Scompare in un giorno leggero d’estate, nel 1998. Dopo aver conseguito il diploma magistrale e una specializzazione in psicopedagogia, comincia a insegnare nelle scuole elementari e medie. Prende a fotodocumentare l’ambiente, la gente e i fatti della città-fabbrica (Piombino) dove vive. Nel 1968 pubblica un libro importante, Il linguaggio fotografico (Edizioni Sei, Torino), e successivamente cura il capitolo Storia, tecnica e critica della fotografia per l’Enciclopedia della stampa (1969). È uno dei redattori (esterni) della rivista Photo 13, collabora con l’Archivio Fotografico Toscano e Fotologia. Tiene corsi di fotografia, instaura rapporti di studio con il Centre of Creative Photography dell’Università dell’Arizona e con il Centro della Comunicazione del Comune di La Spezia. Ha lasciato in avanzata fase di preparazione un Dizionario fotografico complementare: Parole per fare e dire le immagini e uno studio intitolato Prove di fotologia. Il suo ultimo lavoro, Piombino del 1955/56 (Bandecchi e Vivaldi, Pontedera, 1998), curato dal Comune di Piombino, è un libro che contiene molto della sua teoria e critica della fotografia. Documenta i momenti sociali e politici della “città dalle rosse bandiere”, quando ancora sventolavano nei sogni e nei miti della guerra partigiana e agitavano i ragazzi con le magliette a strisce, che negli anni Sessanta si riversarono nelle strade italiane per lottare contro il rigurgito del “nuovo” fascismo. In questo senso, il libro di Renzo Chini resta una testimonianza insostituibile su Piombino e i
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RENZO CHINI piombinesi, in un periodo significativo della loro storia.
LA FOTOGRAFIA SI FA CON I PIEDI In tutta la sua opera fotografica, i soggetti di Renzo Chini sono sovente ambientati e in quelle facce denudate, in quei corpi appoggiati alla storia, in quegli atteggiamenti popolari o guasconi, riemergono i mestieri, le
emozioni, le paure o le incoscienze della gente semplice. A leggere con attenzione le fotografie pubblicate in Piombino del 1955/56 si coglie uno stile scevro da tutti i compiacimenti estetici. Gli operai che parteciparono alla serrata e l’occupazione dello stabilimento La Magona nel 1953, il commerciante Dante Agroppi, la pesciven-
«Questo 14 luglio è del 1948, giorno dell’attentato all’allora segretario nazionale del Partito comunista, Palmiro Togliatti. La rossa Piombinese credette che fosse il principio della Rivoluzione. Il Partito comunista prese il potere. Carabinieri e Polizia vennero disarmati; in città non si entrava e non si usciva senza un lasciapassare del comitato di governo che si era subito costituito [...]. La repubblica di Piombino, titolò la notizia un quotidiano di destra, non ricordo quale. La speranza piombinese del felice mondo nuovo durò trenta ore. L’indomani, al tramonto, i carri armati dei Carabinieri riconquistarono Piombino alla patria» Renzo Chini
dola Emma Bussotti o l’immagine disadorna di una ragazzina, Rosella, sono parte di un’etica visiva del reale che invita a una interpretazione e ricostruzione dell’immediato. La fotografia di Renzo Chini è di quelle a “tono basso”. Le sue immagini non gridano il dolore, lo annunciano in punta di sguardo. Anche la felicità è trattata con lo stesso apparente distacco e la sua ritrattistica popolare a questo mirava. L’intelaiatura fotografica che trattava è il luogo di un taglio sublime tra ciò che accade e quanto viene scippato alla storia: la realtà del banale struccato che emerge, appunto, dal rivissuto della memoria e dalla carezza della speranza. C’è un tempo che esige di essere ricordato o esaudito nelle sue immagini addossate allo stupore o al disincanto di un mondo visibile, tenuto sempre fuori dalla sacralizzazione del mezzo. C’è un tempo del vero senza orpelli estetici che determina tutto quanto è dimenticato o perduto nell’apologia del mercimonio fotografico; e l’opera di Renzo Chini ricorda che non esiste un uso buono o cattivo del linguaggio fotografico, esiste soltanto un suo uso insufficiente. Il discorso fotografico della malinconia, teorizzato e messo in pratica da Renzo Chini, esprime una filosofia dell’esperienza che dà libera docenza alla costruzione dell’inquadratura forte, lasciando sempre una finestra aperta sul magico e l’imprevisto. L’iconografia che prediligeva non lasciava spazio a fantasiose costruzioni concettuali, non amava l’informale né sopportava molto tutto ciò che era propaganda o merce soltanto. Ricordo una sua regola (che ho fatto mia): la fotografia si fa con i piedi. In fotografia, come nella vita, l’anima non è solo dentro di noi, ma anche fuori.
TRA DIVERGENZE
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uesto scritto su Renzo Chini non è imparziale, né voleva esserlo. Non è nemmeno il ricordo di un amico e maestro scomparso, con il quale abbiamo lavorato per più di quindici anni, fatto piccoli film sperimentali (o punti di vista documentati) e condiviso molti progetti di ordinaria fotografia del sociale. C’eravamo incontrati nel 1968. Avevo fatto un film insolente contro la guerra in Vietnam. Si chiamava Gli amerikani. Non gli piacque molto, ma trovò stimolante l’uso situazionista del montaggio di fotografie, pubblicità e filmati rubati dalla televisione. Il documentario fu censurato dai committenti (il Partito comunista italiano) e buttato insieme agli straccetti rossi che i giovani partigiani si strinsero al collo quando passarono alla macchia per fare la guerra di Resistenza contro il nazifascismo. I nostri film parlavano di emarginazione omosessuale, delle torture dei ribelli eseguite nelle prigioni di Pinochet, dei manicomi aperti, della rivoluzione delle donne, dei grandi scioperi operai. Erano metafore di un’umanità che andava alla deriva della propria mediocrità o che si riscattava nell’insurrezione dell’intelligenza. Abbiamo praticato insieme la deriva della fotografia come documentazione dell’esistente. Andammo a vagabondare con le macchine fotografiche nelle strade, nelle case, nelle fabbriche della nostra città; e con sguardi differenti e passioni radicali per la bellezza della fotografia diretta, riuscimmo a chiudere un canto d’amore per immagini della città-fabbrica, che è ancora inedito, sepolto nei nostri archivi. Sul finire degli anni Ottanta ho dovuto affrontare una lunga serie di processi alle idee e a fatti politici che mi videro coinvolto contro una grande azienda statale che fabbricava acciaio. Su alcuni giornali nazionali, riviste e fogli sindacali non autorizzati avevo espresso il mio pensiero sull’inquinamento industriale, l’inerzia dei sindacati e le connivenze dei partiti con le politiche aziendali, che in quel momento tendevano alla produzione di “acciai al piombo” senza alcuna prevenzione e minavano la salute dei lavoratori e dei cittadini. Ricordo gli amici che si strinsero intorno a me (Franco Fortini, Pio Baldelli, Carlo Cassola, Leo Ferré, Mario Capanna, Maurizio Moretti, Sauro Checchi e tutta una messe di operai che
Siamo fatti del tessuto di cui sono fatti i nostri sogni.
LA REALTÀ OGGETTIVA DELLA FOTOGRAFIA
La realtà oggettiva della fotografia di Renzo Chini coglie l’istante supremo dell’uomo, di ogni uomo, e consegna per sempre all’epica della fotografia il senso e la relazione segreta tra fotografo e gestualità dei ritrattati, la ricapitolazione di un esistente sovente lasciato nell’ombra del vero o fuori dal clamore dell’iconologia del mondano. La fotografia di Renzo Chini, annodata alla grandezza della fotografia sociale di Paul Strand, Walker Evans o Dorothea Lange, non contempla il mucchio di rovine del passato, e nemmeno esprime una dialettica del nuovo e del sempre uguale, dispensato nelle circolari mediatiche della civiltà dello spettacolo (carta
stampata, cinema, fotografia, telefonia, radio, internet). Renzo Chini sa bene che tutto ciò che è veramente attuale è effimero. La poetica della ferita, che guarda nel cuore dei significati e del mistero, è il filo rosso che lega le sue icone a costruzioni di speranze mai gridate e strappate alla ritrattistica dell’ordinario, quanto alla segnatura dell’occasionale. La fotoscrittura di Renzo Chini è una registrazione della vita corrente, così come capita davanti al fotografo. La sua visione dell’esistenza è sempre soggetta a una certa “disaffezione” del fotografo nei riguardi della “cosa fotografata” e questo senso della storia o dell’oggettività è al fondo del suo pensiero fotografico. Il discorso trasversale sulla fotografia che fa Renzo Chini è semplice: dice che è un mezzo per conoscere la realtà e ciò
insorse contro i guinzagli sindacali e della politica). La battaglia fu dura, la fabbrica perse e presi a girare il mondo e fare libri fotografici sui ragazzi di strada in Brasile (insieme alla Teologia della liberazione), la rivoluzione dei fiori in Lituania, la lotta in armi del popolo Sahrawi, la grande catastrofe di Chernobyl, la filosofia di sopravvivenza in Amazzonia, la guerra in Iraq. E i contatti con Renzo si fecero più radi, ma le nostre passeggiate sul mare si rinnovavano ogni volta che ritornavo nella città-fabbrica e animavano le nostre differenti visioni sui dannati della Terra. Quando cominciò a star male, si isolò: non voleva vedere più nessuno degli amici, e rispettai il suo volere. Un paio d’anni dopo la sua scomparsa, feci un libro sulla città di Livorno e lo dedicai a lui, con le lacrime agli occhi e il sorriso nel cuore, in ricordo del maestro che era stato per me e dell’amico che ancora è. Questa piccola annotazione sul suo linguaggio fotografico (che forse lui non avrebbe condiviso appieno) è la continuazione della nostra amicizia profonda, singolare e un po’ libertaria. Con Renzo, eravamo in accordo su poche cose, ma quelle cose erano le più importanti, come l’utopia possibile della fotografia come mezzo di conoscenza, di amore e fraternità dell’uomo per l’uomo. Amavamo il cinema, ma vedevamo gli stessi poeti maledetti in modo diverso (Luis Buñuel, Erich von Stroheim, Carl Theodor Dreyer, Jean Vigo, Pier Paolo Pasolini o Jean-Luc Godard). A lui interessava la “purezza” dello “strumento artistico” (macchina da presa o macchina fotografica, fa lo stesso), a me le trasgressioni dei corsari dell’immaginario. Anche i grandi fotografi (Henri Cartier-Bresson, August Sander, Diane Arbus o Ansel Adams) ci emozionavano in modo diseguale. A lui interessava l’“oggettività storica” della fotografia, a me la “soggettività surreale” di ogni disobbedienza e violazione del conforme. Renzo resta il “compagno di strada” che mi ha insegnato a vedere quel nocciolo di grandezza che c’è dentro ogni persona, e solo partendo dal rispetto di sé possiamo comprendere e amare la dignità (sovente calpestata) degli altri. che veramente siamo. L’origine della fotografia è nella museografia mercantile e soltanto i passatori di confine sono riusciti a fare (non solo) della fotografia lo specchio rovesciato della disobbedienza e segnare la fine dei miti e degli eroi. La realtà dell’immaginazione (anche fotografica) segna un mondo che non è né spirito né materia. La fotografia è il mezzo (forse il più crudo) con il quale l’immaginale umano si collega all’immaginale archetipo dell’umanità. L’immaginazione ereticale è alla base della filosofia politica della fotografia, e nella trascolorazione di tutti i filisteismi fotografici si adopera per far crollare i sostegni di un’intera tradizione dell’iconografia dominante, che sono il collante per la fabbricazione dei modelli di comportamento e consenso generalizzato atti a perpetuare la teolo-
gizzazione del dolore e della sofferenza. Il dolore è il destino dell’uomo; e la fotografia del dissidio, il fuoco con il quale bruciare il confessionale inconfessato. La fotografia documentaria di Renzo Chini contiene la lezione estetica di Paul Strand, come si è detto, ma c’è anche una “purezza” tecnica legata a Edward Weston o Ansel Adams; più ancora, è l’accorata prosecuzione di tutto quel filone della fotografia d’impegno civile che da Jacob A. Riis, Lewis W. Hine, la fotografia americana del New Deal passa attraverso Henri Cartier-Bresson, August Sander o Josef Koudelka e traduce in immagini le inquietudini, le vivacità o le eversioni di un secolo. Renzo Chini non è stato il primo teorico o/e storico della fotografia che è riuscito anche a fare immagini straordinarie. Ando Gilardi e Italo Zannier
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hanno prodotto fotografie del sociale di notevole talento poetico e forse, a differenza di Renzo Chini, con più partecipazione emotiva. Ma la sua visione sulla fotografia come mezzo per conoscere la realtà e ciò che veramente siamo è di grande importanza teoretica. La fotografia della ferita o della malinconia dispersa nell’insensibilità delle coscienze di ordinaria banalità, elaborata da Renzo Chini, è semplice, spoglia, diretta. Certi suoi ritratti sono di una dolcezza estrema, altri (quasi) scippati alla realtà più celata. Il suo sguardo ha spaziato dall’architettura industriale a frammenti di costume, dall’urbanistica popolare alle lotte della classe operaia. La trattazione fotografica che più lo interessava è sempre sorretta da un certo distacco che l’autore prendeva dalla “cosa fotografa-
ta”; e questo senso della storia o dell’oggettività è al fondo del suo pensiero fotografico. Il linguaggio fotografico di Renzo Chini coniuga l’estetica (il mezzo) con l’etica (la filosofia del fotografo). La bellezza tenue e icastica delle sue immagini non sempre è compresa, ma nella sua ritrattistica ci sono la tenerezza delle cose e la risposta poetica della dignità come anima della Terra. La fotografia di Renzo Chini, sotto ogni taglio, esprime il coraggio del cuore che si batte per un mondo più giusto e più umano per tutti. Niente è perduto quando restano le tracce (non solo fotografiche) di un maestro dell’utopia possibile, che dispiegano ovunque i significati amorosi del suo passaggio nel mondo. Pino Bertelli (3 volte aprile 2006)
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