Mensile, 5,70 euro, Poste Italiane SpA - Spedizione in abbonamento postale - D.L. 353/2003 (convertito in Legge il 27-02-2004, numero 46), articolo 1, comma 1 - DCB Milano
ANNO XIII - NUMERO 125 - OTTOBRE 2006
.
Anticipazioni LEICA M8 OLYMPUS E-400 NIKON D80
Fotogiornalismo LINEE DI TENDENZA E PERCORSI
. non è venduta in edicola. Per averla hai una sola possibilità:
sottoscrivere l’abbonamento annuale.
12 numeri
.
in
57,00
euro Solo
abbonamento
Compilare questo coupon (anche in fotocopia), e inviarlo a: Graphia srl, via Zuretti 2a, 20125 Milano MI (02-66713604, fax 02-66981643; graphia@tin.it)
.
Abbonamento a 12 numeri (57,00 euro) ❑ Desidero sottoscrivere un abbonamento a FOTOgraphia, a partire dal primo numero raggiungibile ❑ Rinnovo il mio abbonamento a FOTOgraphia, a partire dal mese di scadenza nome
cognome
indirizzo CAP
città
telefono MODALITÀ DI PAGAMENTO
fax
❑ ❑ ❑
Allego assegno bancario non trasferibile intestato a GRAPHIA srl, Milano Ho effettuato il versamento sul CCP 28219202, intestato a GRAPHIA srl, via Zuretti 2a, 20125 Milano Addebito su carta di credito ❑ CartaSì ❑ Visa ❑ MasterCard
numero data
provincia
firma
scadenza
SULLA FOTOGRAFIA. Con la pubblicazione di una conversazione inedita del 1985 tra il fotografo e critico Renzo Chini (1920-1998; Sguardo su in FOTOgraphia dello scorso giugno), il professionista Romano Favilli e i fotografi non professionisti Pierluigi Galassi e Nino Marchi, Nuova Arnica Editrice dà avvio a una collana di agili testimonianze aperte alla interdisciplinarietà dei diversi saperi. Nel momento in cui si profilavano all’orizzonte i radicali e irreversibili cambiamenti della rivoluzione digitale, con la sua esclusiva capacità intuitiva, Renzo Chini progettò e condusse una intensa indagine, basata sulla tecnica dell’intervista, dal titolo All’interno della fotografia, rimasta fino a oggi inedita, alla quale aderirono qualificati e attenti protagonisti del nostro panorama. Nuova Arnica Editrice ha raccolto i testi, pubblicati in Conversando, volumetto-cult nel quale gli intervistati mettono a nudo le proprie passioni e preferenze, esprimendo al contempo i propri gusti nei confronti della fotografia, sapientemente “incalzati” da una sequenza di domande argute e penetranti.
Con il passare del tempo, finiamo per occuparci di che tempo fa, piuttosto che del tempo che passa.
Copertina L'attrice Silvana Mangano nella piscina vuota della sua casa; Roma, 1958. Questa fotografia anticipa le pagine che abbiamo dedicato e riservato allo straordinario Federico Garolla, sul quale si sono finalmente accese le luci della ribalta. Da pagina 34
3 Fumetto Consueto ingrandimento in dettaglio, qui accompagnato da altre due vignette riprese dalla stessa avventura di Mary Perkins, il personaggio creato nel 1957 da Leonard Starr. All’inizio, la serie era titolata On Stage, e dal dicembre 1961, sull’onda del successo personale della protagonista, diventa Mary Perkins On Stage. Ambientate nel mondo dello spettacolo, le strisce quotidiane raccontano la vita di una giovane e graziosa provinciale che ambisce a diventare stella del cinema e della televisione. La raccolta Flash story, terzo titolo della collana I libri di Linus (luglio 1971), sulla quale abbiamo individuato queste tre vignette, si allunga sull’incontro con il fotografo Peter Fletcher. In coda al fotogiornalismo, che presentiamo da pagina 47, sottolineiamo la banale retorica della sceneggiatura, che ha curiosi punti in comune con l’analogo dialogo del cinematografico La finestra sul cortile (Rear Window, di Alfred Hitchcock; 1954): tra il fotoreporter L.B Jefferies (James Stewart) e la sofisticata Lisa Carol Fremont (superfluo ricordarlo, interpretata da Grace Kelly)
Conversando. Riflessioni e sollecitazioni fotografiche di Renzo Chini; Nuova Arnica Editrice, 2006 (via dei Reti 19a, 00185 Roma; 06-4441611; www.nuovaarnicaeditrice.com); 32 pagine 17x11cm; 5,00 euro.
7 Editoriale 34
Lealmente, ed è ciò che conta, un sottile filo annoda tra loro personaggi e argomenti di questo numero
8 Tra nostalgia e storia
14
U
12 Notizie
LUCI DELLA RIBALTA
n lampo al magnesio. Un fotografo aveva scattato un’istantanea per il suo giornale, e la giovane donna alzò le spalle, come se quella popolarità le fosse indifferente. Da La ballerina del Gai-Moulin, di Georges Simenon; Le inchieste di Maigret; Adelphi Edizioni, Milano 1994
In coincidenza di date, sono arrivate in edicola due opere retrospettive, una televisiva e l’altra fotografica: dai Dvd della serie Ai confini della realtà (anni Sessanta) a Italia 1945-2005. Le grandi fotografie della nostra storia
Attrezzature, vicende e altre segnalazioni
14 Tre riferimenti colti Hasselblad, Leica e Manfrotto tra le pieghe di Closer Ricerca iconografica di Filippo Rebuzzini
24
18 Serenità e divertimento Ancora fenomenologia della fotografia da telefonino
. OTTOBRE 2006
RRIFLESSIONI IFLESSIONI,, OSSERVAZIONI OSSERVAZIONI EE COMMENTI COMMENTI SULLA SULLA FFOTOGRAFIA OTOGRAFIA
20 Il ritorno di Carnera 22 maggio 1967: Primo Carnera, il gigante di Sequals, torna nella propria terra. L’ultimo bagno di folla di Sandro Rizzi
Anno XIII - numero 125 - 5,70 euro DIRETTORE
RESPONSABILE
Maurizio Rebuzzini
30
IMPAGINAZIONE
Gianluca Gigante
REDAZIONE
24 Tre volte HCB
Alessandra Alpegiani Angelo Galantini
Henri Cartier-Bresson: mostra, biografia e testimonianza
FOTOGRAFIE
27 Reportage spontaneo (?!)
Alessandra Alpegiani Antonella Simoni
Lo stesso giorno, a metà agosto, L’Unità e La Repubblica hanno simultaneamente parlato di fotografia da telefonino, da punti di vista autonomi e diversi. I testi integrali
Maddalena Fasoli
SEGRETERIA HANNO
30 Definitivamente digitale È ufficiale, non soltanto certo: ecco qui la Leica M8 per acquisizione digitale di immagini. E altro ancora di Antonio Bordoni
37
34 Colta scrittura fotografica Fotogiornalista dalla fine dei Quaranta, Federico Garolla ha attraversato i generi e le stagioni. Con autorevolezza di Maurizio Rebuzzini
42 Suono del silenzio Litorale romagnolo innevato: è il Mare di silenzio delle fotografie di Silvio Canini, raccolte in volume
47 Giornalismo fotografico in Italia (1945-2005) A cura di Uliano Lucas, Linee di tendenza e percorsi del Fotogiornalismo in Italia 1945-2005: in mostra
52
54 Di fotografia, arte Andres Serrano affonda Il dito nella piaga di Angelo Galantini
58 Momenti di cinema Douglas Kirkland a Roma: alla nuova Galleria Cedro26
60 Per piccina che sia Olympus E-400: il sistema digitale QuattroTerzi avanza
62 Sempre più Nikon Reflex digitale Nikon D80, evoluzione lineare della D70
COLLABORATO
Pino Bertelli Antonio Bordoni Silvio Canini Federico Garolla Isabella Garolla Uliano Lucas www.makadam.it Marcello Mencarini Loredana Patti Lello Piazza Franco Sergio Rebosio Ciro Rebuzzini Filippo Rebuzzini Sandro Rizzi Zebra for You Redazione, Amministrazione, Abbonamenti: Graphia srl, via Zuretti 2a, 20125 Milano; 02-66713604, fax 02-66981643; graphia@tin.it. ● FOTOgraphia è venduta in abbonamento. ● FOTOgraphia è una pubblicazione mensile di Graphia srl, via Zuretti 2a, 20125 Milano. Registrazione del Tribunale di Milano numero 174 del Primo aprile 1994. Poste Italiane SpA - Spedizione in abbonamento postale - D.L. 353/2003 (convertito in Legge il 27-02-2004, numero 46), articolo 1, comma 1 - DCB Milano. ● A garanzia degli abbonati, nel caso la pubblicazione sia pervenuta in spedizione gratuita o a pagamento, l’Editore garantisce la massima riservatezza dei dati forniti dagli abbonati e in suo possesso, fatto diritto, in ogni caso, per l’interessato di richiederne gratuitamente la rettifica o la cancellazione ai sensi della legge 675/96. ● FOTOgraphia Abbonamento 12 numeri 57,00 euro. Abbonamento annuale per l’estero, via ordinaria 114,00 euro; via aerea: Europa 125,00 euro, America, Asia, Africa 180,00 euro, gli altri paesi 200,00 euro. Versamenti: assegno bancario non trasferibile intestato a Graphia srl Milano; vaglia postale a Graphia srl - PT Milano Isola; su Ccp n. 28219202 intestato a Graphia srl, via Zuretti 2a, 20125 Milano; addebiti su carte di credito CartaSì, Visa, MasterCard. ● Nessuna maggiorazione è applicata per i numeri arretrati. ● È consentita la riproduzione di testi e fotografie, magari citando la fonte (ma non è indispensabile, né obbligatorio farlo). ● Manoscritti e fotografie non richiesti non saranno restituiti; l’Editore non è responsabile di eventuali danneggiamenti o smarrimenti. Fotocomposizione DTP e selezioni litografiche: Rouge, Milano Stampa: Arti Grafiche Salea, Milano
Rivista associata a TIPA
58
65 David “Chim” Seymour Sguardi su un maestro del fotogiornalismo sociale di Pino Bertelli
62
www.tipa.com
ungo questo numero della rivista scorre un sottile filo, che collega assieme argomenti e considerazioni, ma anche persone e personalità. Prima di tutto, rileviamo la consistenza di un certo sguardo indietro: dalla nostalgia (da pagina 8) all’intenso fotogiornalismo italiano dal secondo dopoguerra (da pagina 47), alla presentazione di Federico Garolla (da pagina 34), sul quale stiamo giusto per soffermarci. Quindi, annotiamo una curiosa combinazione di rimandi: Primo Carnera passa dal ricordo del suo ritorno in Italia (da pagina 20) alla presenza nella cronaca fotogiornalistica che diventa storia (a pagina 48); Chiara Samugheo è ricordata nell’ambito delle rassegne retrospettive della fotografia (attorno la “nostalgia”), passa attraverso il fotogiornalismo (a pagina 51) ed è autrice dei ritratti di Henri Cartier-Bresson che illustrano la recente biografia (a pagina 24); tre volte anche Federico Garolla, dalla sua presentazione alla “nostalgia”, al fotogiornalismo (a pagina 48). Espressioni solide di fotografia che attraversa i tempi e stabilisce il proprio valore di testimonianza e memoria. In tutto questo c’è un che di leale: da una parte, registriamo la lealtà di tanta e tale fotografia; dall’altra, osiamo ipotizzare una nostra lealtà di osservazione e conseguente presentazione. Allo stesso momento, riveliamo come e quanto ci siamo sentiti a disagio di fronte al vasto materiale fotografico di Federico Garolla, cui abbiamo riservato il richiamo principale della nostra attuale edizione, prontamente evidenziato fin dalla copertina. Fotogiornalista dalla fine degli anni Quaranta, Federico Garolla ha interpretato numerose personalità professionali, tutte manifestate in ammirevole coincidenza di intenti: dal reportage più classico alla moda, alla fotografia di atelier, ai personaggi della cultura e spettacolo ha agito sia in qualità (e lo sottolineiamo), sia in quantità. E proprio la vastità del suo materiale mal si è conciliata con la necessaria sintesi di poche pagine redazionali: limitarci a una manciata di immagini è stato un grande sacrificio, oltre che una tremenda fatica. L’approfondimento è, quindi, rimandato alle monografie e mostre opportunamente segnalate sul suo sito personale www.archivigarolla.com. Per quanto ci riguarda, nella nostra presentazione accenniamo al reportage, alla moda e ai ritratti, dividendo in tre doppie pagine consecutive. Tra tanto, la moda di Federico Garolla esige/esigerebbe approfondimento per la capacità inventiva, generalmente attribuita ad altri autori internazionali: affermando il contributo italiano alla storia globale della fotografia si dovrebbero sostenere i relativi meriti. E proprio lo spessore di tanti autori italiani, solitamente dimenticati, a volte ignorati e raramente valutati a dovere, è ciò che definisce e caratterizza la certosina cura con cui Uliano Lucas (altra trasversalità di questo numero) ha allestito il percorso del fotogiornalismo italiano del dopoguerra, al quale pure ci riferiamo oggi (ripetiamo, da pagina 47). Non si tratta mai di sterile nostalgia, quanto di partecipe senso della Storia. Maurizio Rebuzzini
L
Ancora tre immagini di Federico Garolla, il cui capace archivio (per qualità e quantità) ci ha messi a dura prova. Annotiamo tre presenze dell’elemento fotografico, al quale riserviamo spesso la nostra attenzione. In ordine: turiste alla fontana di Trevi (Roma, 1959), fotografo ambulante a Capri (1959) e modelle per la strada, a Trani, tra la gente del paese (con Rolleiflex su treppiedi; 1954).
7
TRA NOSTALGIA E STORIA
S
Simone Signoret, straordinaria attrice (nata in Germania da genitori francesi; 1921-1985), ha titolato la propria autobiografia La nostalgia non è più quella di un tempo (pubblicata in Italia da Einaudi, nel 1980). Dice di aver letto questa frase su un muro e di esserne stata colpita: come se le urgenze del tempo arrivino a modificare, alterandoli, anche i ricordi, fino a trasformarli alla luce del presente, ovvero delle sue pressioni quotidiane. Questa osservazione di Casco d’oro, soprannome che è stato attribuito a Simone Signoret per la coinvolgente interpretazione nel film di Jacques Becker (1952), uno dei capisaldi della cinematografia internazionale, è di stretta attualità in questi giorni italiani, nei quali e tra i quali individuiamo, appunto, percorsi pervasi di nostalgia, della quale si fa commercio. L’ovvio intervallo di tempo che separa la stesura di queste note (agosto avanzato) dalla relativa pubblicazione (ottobre) modifica i riferimenti principali delle nostre osservazioni, ma non il loro senso e spirito. Infatti, d’agosto scriviamo
alla luce delle prime uscite in edicola di due edizioni, che per l’appunto accostiamo e dalle quali prendiamo spunto; mentre a ottobre, le stesse pubblicazioni saranno (sono) consistentemente avviate nei rispettivi percorsi editoriali a cadenza periodica. Alludiamo ai fascicoli di Italia 1945-2005. Le grandi fotografie della nostra storia e alla raccolta di Dvd della (antica) serie televisiva Ai confini della realtà.
PASSATO REMOTO In stretti termini ufficiali e oggettivi, l’unico punto in comune tra le due opere, assolutamente indipendenti una dall’altra, riguarda la sostanziale simultaneità di pubblicazione, con coincidente distribuzione capillare in edicola (attuale centro nevralgico di un commercio a tutto campo: già l’abbiamo rilevato in altre occasioni) dai primi giorni di agosto. Dal nostro particolare punto di vista, entrambe declinano un particolare sapore del passato, che qualcuno può estendere in senso nostalgico (lo confessiamo subito: noi, tra gli altri).
Coincidenza? È nell’aria? Caso? Fate voi. All’indomani della stesura dell’attuale articolo, che parte citando l’espressione che l’attrice Simone Signoret avrebbe letto su un muro francese, che recita La nostalgia non è più quella di un tempo, passeggiando per Milano abbiamo incontrato questo Il futuro non è più quello di una volta (da Paul Valéry). L’azione, non semplice scritta, è firmata “ivan”, che rimanda al proprio sito www.i-v-a-n.net: sul quale specifica «Quando la libertà d’espressione diviene illegale, ivan è colpevole». Il sito si presenta come «Manifesto per la poesia di strada e l’assalto poetico». Ovvero: «... la poesia di strada nasce gettando parole tra le vie, pugni di semi nel vento, è sensazione precipitata in sassi d’assalto tra lo snocciolarsi scomposto di questa città. Versi come pioggia tra le genti, inzuppate fin’oltre l’orlo dell’attenzione, senza corte di dotti né corona, perché d’ovunque e da sempre, una pagina bianca è una poesia nascosta...».
8
Ovviamente, la nostalgia non è il motivo conduttore esplicito delle due opere, perlomeno non lo è affatto per Italia 1945-2005. Le grandi fotografie della nostra storia, che l’editore Hachette ha realizzato in stretta combinazione con l’Agenzia Contrasto, uno dei pilastri italiani della distribuzione fotografica a uso editoriale, che rappresenta autori e archivi di straordinario valore fotogiornalistico (e non soltanto). Forse, più specificamente, la nostalgia calza meglio, addirittura ufficialmente, ai telefilm Ai confini della realtà, che si rivolgono a una identificata generazione, che può ricordarne l’attualità televisiva dei primi anni Sessanta, quando arrivarono in Italia sull’onda del successo dell’edizione originaria statunitense (The Twilinght Zone, ideata da Rod Serling; cinque stagioni dal 1959 al 1964). Già disponibili in cofanetto dalla fine dello scorso 2005, i Dvd di Ai confini della realtà sono ora arrivati alla distribuzione tramite edicola (Hobby & Work Publishing di Bresso, in provincia di Milano), approdando a una visibilità certamente capillare. Insieme, seppure ognuna per conto proprio, le due opere propongono visioni di un passato sostanzialmente remoto. Hanno successo? Non lo sappiamo per certo, ma pensiamo di sì. E a questo successo accostiamo, per diritto di considerazione, anche l’analoga fortuna editoriale (e commerciale) che sta premiando le ri-edizioni periodiche della testata L’Europeo, una delle più nobili della storia del giornalismo e fotogiornalismo italiano, che da tempo propongono cronache dello stesso passato, sempre sostanzialmente remoto.
SOLO NOSTALGIA? Come annotato e sottolineato, le convergenze tra Italia 1945-2005. Le grandi fotografie della nostra storia e Ai confini della realtà si limitano alle date delle rispettive e indipendenti distribuzioni in edicola, appunto curiosamente coincidenti. L’affini-
tà che ce le fa unire oggi è di altro ordine, diciamo così in sovralettura, del tutto personale e individuale. Riferendoci alla nostalgia, attuale motivo conduttore, ribadiamo l’assoluta dipendenza di Ai confini della realtà, che appunto evoca una televisione diversa da quella che viviamo ai nostri giorni, e della quale si può, appunto, avere nostalgia. Personalmente, ricordiamo bene quattro episodi di queste lontane sceneggiature, e uno, Discorso per gli angeli, è stato proposto nel primo Dvd della collana, che rispetta la cronologia originaria: con i tre episodi che nell’ottobre 1959 avviarono la fortunata stagione statunitense (andando in onda, rispettivamente, il due, nove e sedici del mese). Ancora, la colonna sonora è presto riconosciuta dalla memoria individuale, dove è rimasta latente per decenni, e richiama serate televisive familiari che appartengono (ancora!) alla nostalgia di tempi lontani, quando, considerata la fantasticità delle sceneggiature, questo appuntamento settimanale era atteso con un briciolo di apprensione. Tra parentesi, rivisto oggi, quel Discorso per gli angeli è più poetico di come lo ricordavamo: e ne siamo rimasti commossi, così come lo fummo più di quarant’anni fa, davanti a un teleschermo quantitativamente avaro di proposte, ma qualitativamente più appagante e arricchente delle esuberanti quantità del giorno d’oggi, che spesso si esauriscono in se stesse, senza lasciare traccia alcuna. Al ritmo di tre episodi ciascuno (ognuno di trenta minuti), i dodici annunciati Dvd della collana in edicola esauriscono i trentasei episodi della prima stagione di Ai confini della realtà, del 1959-1960, ai tempi totalmente riproposti in Italia (attenzione: il citato cofanetto dei trentasei episodi della prima stagione di Ai confini della realtà è formato da cinque Dvd). In edicola, altri Dvd seguiranno questo primo gruppo? Non lo sappiamo, né ci importa approfondirlo, quantomeno nell’ambito di questa nostra osservazione sulla nostalgia. A puro titolo di cronaca (del tempo passato), registriamo che in quei lontani anni Sessanta, dei quali si sollecita oggi un appello nostalgico, non arrivarono in Italia alcuni dei ventinove episodi della se-
In edicola da metà agosto, Italia 1945-2005. Le grandi fotografie della nostra storia è un’opera che racconta sessant’anni del nostro paese attraverso una selezionata serie di immagini. A periodicità quindicinale.
conda stagione (1960-1961; ma arrivò Un’insolita macchina fotografica, che vorremmo rivedere oggi), arrivarono la metà dei trentasette episodi della terza stagione (19611962) e una manciata dei diciotto della quarta stagione (1963); infine, non fu tradotto nessuno dei trentasei episodi della quinta stagione (1963-1964, la conclusiva). In sintonia nostalgica, registriamo che è tornata in libreria anche una raccolta di racconti di Rod Serling, come detto ideatore della serie televisiva, della quale fu anche produttore e presentatore. I diciannove racconti della selezione Ai confini della realtà propongono altrettanti episodi che furono anche sceneggiati: Fanucci Editore (via delle Fornaci 66, 00165 Roma; 06-39366384, fax 06-6382998; www.fanucci.it, info@fanucci.it); 432 pagine 13,5x21cm; 11,90 euro. Non serve sottolineare ancora il sapore del passato, che ognuno di noi condisce come meglio crede, ma, in termini concreti, è legittimo voler rivivere una fantasia televisiva che negli anni Sessanta aprì le porte di una immaginazione che ha poi generato numerose imitazioni. Parole magiche, che riportano all’infanzia (quantomeno alla nostra): «C’è una quinta dimensione, oltre quelle che l’uomo già conosce; è senza limiti, come l’infinito, e senza tempo, come l’eternità. È la regione intermedia tra la luce e l’oscurità, tra la scienza e la superstizione, tra l’oscuro baratro dell’ignoto e le vette luminose del
sapere. È la regione dell’immaginazione, una regione che si trova... ai confini della realtà». Anni passati, anni trapassati. Anni di Coppa dei Campioni (non Champions League): poche partite, ma significative. La Coppa era contesa dalle squadre europee vincitrici i campionati nazionali, le seconde e terze classificate andavano in Coppa Uefa (in Coppa delle Coppe, le vincitrici delle Coppe nazionali); al primo turno sparivano i comprimari, e il cammino era tracciato da formazioni autenticamente forti e migliori; in tempi di Ai confini della realtà, dopo il Milan, vittorioso a Londra sul Benfica di Eusebio (25 maggio 1963), arrivò l’Inter di Moratti (padre), Allodi e Herrera: Sarti, Burgnich, Facchetti, Tagnin, Guarneri, Picchi, Jair, Mazzola, Milani, Suarez e Corso (tre a uno, nella finale di Vienna contro il Real Madrid; 27 maggio 1964). Altre nostalgie. Ci torna in mente un significativo passaggio del film L’uomo dei sogni (inadatta traduzione dell’originario The Field of Dreams, il campo dei sogni: più preciso). Ci si riferisce allo spirito del baseball, ma non soltanto: «Pensa quanta gente, Ray; verranno per motivi che neanche loro sapranno spiegare. Imboccheranno il tuo viale, senza comprendere il perché; arriveranno alla tua porta innocenti come bambini, colmi di nostalgia. [...] Ti daranno i soldi senza pensarci un attimo: perché i soldi li hanno, è la pace che gli manca». Chiave della vicenda: se lo
9
costruisci (il campo da baseball), lui tornerà. Territorio della nostalgia: se lo tieni, loro verranno.
STORIA Con Roland Barthes: «La fotografia non esiste per rappresentare ma per ricordare». E così Italia 1945-2005. Le grandi fotografie della nostra storia è una collana editoriale che proprio si indirizza e rivolge al ricordo: ufficialmente, di una nazione; per estensione, della vita. Dal punto di vista logistico, i fascicoli, autentici volumi illustrati con copertina cartonata, propongono una cadenza biennale, con partenza 1945-1946: indiscutibilmente anni critici, di passaggio da uno stato di guerra a un controverso dopoguerra (e relative consecuzioni politiche e sociali). A parte altre precedenti iniziative editoriali fotograficamente mirate, da una recente Hachette-Contrasto, ancora, relativa ai fotografi dell’Agenzia Magnum Photos, a una più antica di Fabbri, dedicata ai “Grandi fotografi” (italiani e internazionali), comunque sia entrambe declinate sugli autori, è la prima volta che il fotogiornalismo che racconta la vita arriva al più grande pubblico della distribuzione indiscriminata attraverso l’edicola. E qui, una volta ancora, per Italia 1945-2005. Le grandi fotografie della nostra storia corre l’obbligo risottolineare quanto abbiamo già riferito ad altre raccolte fotografiche, sopra tutte l’epocale Things As They Are - Photojournalism in Context Since 1955, grandioso volume pubblicato in occasione del cinquantesimo anniversario del World Press Photo, sul quale ci siamo soffermati lo scorso aprile. Alla stessa maniera, seppure con costruzione diversa (qui le fotografie in quanto tali, là la loro utilizzazione originaria sui giornali), l’attuale Italia 1945-2005. Le grandi fotografie della nostra storia si propone come ponderoso casellario su sessant’anni di storia italiana, osservata attraverso le fotografie che l’hanno raccontata in cronaca. Dato l’indirizzo (più popolare) e la conseguente diffusione (attraverso il circuito delle edicole, con relativa promozione pubblicitaria televisiva), Italia 1945-2005. Le grandi foto-
10
grafie della nostra storia non può essere paragonata alla ponderosa L’immagine fotografica 1945-2000, che Uliano Lucas ha curato per Einaudi (2004; Annali 20 della Storia d’Italia; 726 più 38 pagine; 95,00 euro), peraltro arricchita da sostanziosi saggi a commento. L’intenzione è, comunque, coincidente: il racconto della storia attraverso la fotografia. E questa declinazione ci trova incondizionatamente consenzienti, tanto il nostro personale pensiero è vicino e solidale alla fotografia che, come spesso annotiamo, privilegia il valore di racconto, traccia del mondo, intuizione e folgorazione nel riconoscimento di istanti di vita (a differenza e discapito di tante altre applicazioni alle quali riserviamo una completa e consapevole indifferenza, che non vuol dire ignoranza: ci riferiamo, tanto per chiarire una volta ancora, alle applicazioni definite artistiche e concettuali; lo diciamo spesso, ma la ripetizione si impone).
PUBBLICO Non è certo per gioco, paradosso o voglia di stupire, che oggi abbiamo assimilato, le edizioni popolari di Italia 1945-2005. Le grandi fotografie della nostra storia e Ai confini della realtà, prendendole simultaneamente e insieme a spunto delle nostre riflessioni. Questo sguardo indietro, che le due iniziative sottolineano, seppure con intenzioni autonome e proprie, aleggia nell’aria, è tra di noi. Lo rivelano, se dobbiamo annotarlo e censirlo, una serie di mostre fotografiche, appunto retrospettive, che danno e hanno dato spazio e visibilità a fotografie del passato, più o meno remoto. Scusandoci con chi non è incluso nell’elenco (ma non è la completezza statistica che conta, quanto lo spirito e l’idea), ricordiamo l’imponente visione AnniCinquanta. La nascita della creatività italiana, al milanese Palazzo Reale la scorsa estate 2005, ricca di una significativa (e dibattuta) selezione fotografica a cura di Cesare Colombo; citiamo Superstar. Miti del Novecento, ancora allo stesso Palazzo Reale questa estate; non ignoriamo Bellissima, dive, divine e divette in centocinquanta immagini dall’archivio di Graziano
Autentica nostalgia: i telefilm della serie Ai confini della realtà (inizio anni Sessanta) sono disponibili in una collana di Dvd distribuita in edicola.
Arici, nella Venezia dei fasti cinematografici negli anni d’oro del Festival, al Centro Culturale Candiani di Venezia Mestre (FOTOgraphia, settembre 2006); segnaliamo Italia 1946-2006. Dalla Ricostruzione al Nuovo Millennio, a cura del friulano Craf (Centro di Ricerca e Archiviazione della Fotografia), a Pordenone all’inizio di settembre, poi in due sedi canadesi, a Toronto, che quest’inverno danno avvio all’itinerario internazionale, che toccherà, in tappe successive, la capitale statunitense Washington, Berlino e Halle, in Germania; e sottolineiamo una certa polverizzazione su tutto il territorio nazionale, che include le personali Seguendo la diva di Chiara Samugheo (a cura di Giovanna Bertelli) e Il mondo della moda di Federico Garolla (a cura di Antonella Russo), incluse dal direttore artistico Nino Migliori nel programma estivo di GabicceFotoFestival (a cavallo tra lo scorso luglio e agosto). A margine, prima di concludere le nostre osservazioni, soffermiamoci per un istante proprio sulla figura di Federico Garolla, straordinario protagonista della fotografia italiana, ignorato per decenni, sul quale si sono accese le luci della ribalta proprio in coincidenza di queste tante e ripetute retrospettive. Ne approfondiamo in altra parte della rivista, su questo stesso numero, da pagina 34, ma qui è necessaria la sottolineatura delle sue recenti mostre personali e par-
tecipazioni a collettive; a ritroso: La meglio Gioventù. Pasolini a Roma (partecipazione; Foyer del Teatro Tor bella Monaca di Roma, lo scorso febbraio); Reportage di Moda. Alta Moda a Roma nelle fotografie di Federico Garolla (Spazio Serra, Auditorium Parco della Musica di Roma, gennaio 2006); Italia 1948-1968. Venti anni di fotografie (con presentazione dell’omonima monografia, a cura di Giovanna Bertelli, pubblicata da Bolis edizioni; Librerie Feltrinelli di Roma e Milano, novembre 2005 e febbraio 2006); Pasolini a Roma (partecipazione; Museo di Roma in Trastevere, a cavallo dell’anno); La motocicletta italiana. Un secolo su due ruote tra storia, arte e sport (partecipazione; Fondazione Antonio Mazzotta di Milano, dall’ottobre 2005); Il fotogiornalismo in Italia 1945-2005. Linee di tendenza e percorsi, a cura di Uliano Lucas (Palazzo Bricherasio di Torino, settembre 2005; Museo di Storia Contempora-
nea di Milano, dal prossimo due novembre, ne riferiamo da pagina 47); Elsa Morante nelle immagini di Federico Garolla (1956-1961), a cura di Uliano Lucas (Sala Santa Rita di Roma e Foyer del Teatro Augusteo di Napoli, luglio e ottobre 2005); Volti alla moda, a cura di Giovanna Bertelli (Galleria Bel Vedere di Milano, marzo 2005); AnniCinquanta. La nascita della creatività italiana (partecipazione con quaranta immagini, a cura di Cesare Colombo; Palazzo Reale di Milano, dal marzo 2005); Federico Garolla (Arizona State University di Phoenix, ottobre 2004); Milano, la fabbrica del futuro. Il rinnovamento di una metropoli del Novecento (Spazio Oberdan di Milano, dal marzo 2004) e tanto alto ancora. Tornando all’attuale edizione di Italia 1945-2005. Le grandi fotografie della nostra storia, che al momento della pubblicazione di queste note avrà già accumulato fascicoli successivi (ma gli arretrati sono
sempre reperibili), cosa la distingue dall’insieme delle esposizioni retrospettive che abbiamo appena citato, sia in linea generale sia censendo la felice e opportuna riscoperta di Federico Garolla? Il pubblico! Mentre ogni mostra fotografica, volente o nolente, rimane limitata a un pubblico di addetti, formato da visitatori volontari e consapevoli, la distribuzione per edicola non discrimina e si rivolge a trecentosessantagradi a tutti, nessuno escluso. Dunque, Italia 1945-2005. Le grandi fotografie della nostra storia si offre e propone come edizione in larga tiratura, estesa oltre i ristretti confini degli addetti. E con ciò, assolve uno dei compiti istituzionali della fotografia, in questo caso storica, che vorrebbe e dovrebbe arrivare a tutti, senza condizionamenti né limiti. E non si tratta di una differenza, oppure sia personalità, da poco. Anzi, come spesso annotiamo, è esattamente vero il contrario. M.R.
SOSTEGNO ALTO. Progettato sulla base di esperienze maturate in settori complementari del supporto luminoso, per fotografia, cinema e spettacolo, il sistema Avenger Crosspole è indirizzato soprattutto al noleggio. Configurabile secondo necessità, in interni come in esterni, è garantito per una portata fino a ottanta chilogrammi e vanta una agevole e confortevole rapidità e semplicità di allestimento. Composto da elementi modulari, che possono essere collocati fino a sei metri di estensione, da parete a parete, il sistema Avenger Crosspole si basa su un concetto altamente efficace: la robustezza della struttura ad arco. Senza danneggiare pareti, soffitti o strutture fisse preesistenti, appositi compassi a regolazione salda assicurano la stabilità alle pareti di appoggio con relativa spinta verso le stesse pareti di collocazione, che viene addirittura aumentata dal peso applicato. Ovviamente, le aste modulari sono in diametro adatto alla pratica sistemazione di ogni tipo di sostegno dei sistemi di illuminazione Avenger e Manfrotto. (Bogen Imaging Italia, via Livinallongo 3, 20139 Milano). PROFONDAMENTE TELE. Il nuovo AF-S VR Zoom-Nikkor 70-300mm f/4,5-5,6G IF-ED è uno zoom-tele ad alte prestazioni comprensivo delle più avanzate funzioni Nikon, come due lenti in vetro Nikon ED (a bassissimo indice di dispersione), il motore SWM (Silent Wave Motor), il sistema di riduzione delle vibrazioni VR II e un sistema ottico finalizzato sia all’utilizzo specifico con sensori Nikon
12
DX ad acquisizione digitale di immagini, sia con reflex a pellicola (argentiche, analogiche). L’escursione focale 4,3x lo rende strumento ideale in svariate occasioni di ripresa nel campo tele, a partire dalla fotografia di sport e natura. Con reflex digitali Nikon, l’angolo di visione corrisponde a quello di uno zoom 105-450mm della fotografia tradizionale 24x36mm. Grazie all’avanzata tecnologia applicata Nikon, l’obiettivo si presenta compatto, leggero e di grande maneggevolezza, senza con ciò compromettere la qualità delle prestazioni ottiche. Il nuovo sistema di riduzione delle vibrazioni Nikon VR II offre risultati considerevolmente migliori nella ripresa a mano libera, con tempi di otturazione proporzionalmente più lunghi. Con il nuovo sistema VR II si ha lo stesso livello di nitidezza con un tempo di otturazione fino a quattro stop più lento (lungo). Per l’impiego della funzione VR II sono disponibili due modalità operative: il modo Normale interviene soprattutto sulle piccole scosse dell’apparecchio impugnato a mano libera, ed è in grado di rilevare automaticamente il panning; il modo Attivo serve, invece, a compensare vibrazioni indotte, per esempio quando si fotografa da un veicolo in movimento. (Nital, via Tabacchi 33, 10132 Torino).
opzionale), visualizza le fotografia su una cartina geografica, indicando esattamente luogo, data e ora in cui sono state scattate. (Sony Italia, via Galileo Galilei 40, 20092 Cinisello Balsamo MI).
IPERCOMPATTA. Sulla scia dell’acclamata Cyber-shot T9, la nuova compatta digitale Sony Cyber-shot T10 garantisce un’alta qualità delle immagini e una maggiore sensibilità, il tutto racchiuso in un sottile corpo dalle dimensioni estremamente ridotte, analoghe a quelle di una carta di credito: 21mm di spessore e 140g di peso. Anche l’estetica è sorprendentemente rivoluzionata. Il corpo in acciaio inossidabile ultracompatto esalta il fascino dell’apparecchio agli occhi di chi è sempre attento ai richiami della moda. La Cyber-shot T10 è dotata di sensore CCD Super HAD, con risoluzione di 7,2 Megapixel effettivi, e zoom ottico Carl Zeiss Vario-Tessar 3x, con accomodamento da un centimetro (!); quindi, si segnala un ulteriore ingrandimento, con lo zoom digitale 6x. Grazie alla tecnologia Double Anti-Blur, lo stabilizzatore ottico delle immagini Super SteadyShot e l’alta sensibilità sono eliminati i rischi del micromosso involontario. Il display a cristalli liquidi Clear Photo Plus da 2,5 pollici, a elevata risoluzione e luminosità, è dotato della funzione integrata di visualizzazione di slideshow con accompagnamento musicale. La modalità di ripresa ad alta sensibilità dà risultati sorprendenti in caso di scarsa luminosità. Memoria interna da 56Mb e slot per card Memory Stick Duo o Memory Stick Pro Duo. Collegamento PictBridge per la stampa diretta con stampanti fotografiche compatibili. In dotazione, il software Picture Motion Browser per gestire le immagini scaricate su computer; inoltre il software dispone anche della funzione Map View, che, grazie alla nuova unità GPS-CS1K (accessorio
MACRO. Oltre la vasta offerta di zoom a molteplici escursioni focali, Sigma presta particolare attenzione alle applicazioni particolari della ripresa fotografica. Ecco, quindi, il Sigma Macro 70mm f/2,8 EX DG, dichiaratamente indirizzato alla fotografia a distanza ravvicinata: per reflex tradizionali 24x36mm e reflex digitali con sensore di dimensioni inferiori, sulle quali l’inquadratura corrisponde alla visione 105mm. L’obiettivo vanta una costruzione ottica adatta per l’accomodamento dall’infinito al rapporto 1:1 (al naturale; da 25,7cm). Nel disegno di dieci elementi in nove gruppi, lenti in vetro SLD (Special Low Dispersion), a basso indice di dispersione, e due lenti ad alta refrattività correggono ogni tipo di aberrazione e fanno raggiungere risultati ottici di alto livello. Il trattamento Sigma super-multistrato riduce il flare e le immagini fantasma e consente una resa naturale dei colori. Il sistema di messa a fuoco flottante, comprensivo di limitatore Focus Limiter Switch a inserimento volontario, assicura alte prestazioni sia a distanze finite, sia in forte avvicinamento macro. (Mamiya Trading, via Cesare Pavese 31, 20090 Opera Zerbo MI).
TRE RIFERIMENTI COLTI
C
Commedia con pochi quadri, presto identificati nelle abitazioni dei protagonisti e in una manciata di altri richiami a una Londra soltanto evocata, mai raffigurata, Closer è un film di Mike Nichols che lascia un certo retrogusto amaro. Se ci si lascia coinvolgere troppo dalle vicende sentimentali dei quattro interpreti (unici) della sceneggiatura, si corre il rischio di parteggiare per qualcuno: e, in tutti i casi, si può rimanere profondamente delusi dallo svolgimento e dalla conclusione. L’intreccio d’amore tra il mancato scrittore Dan (l’attore Jude Law), che si contenta di scrivere necrologi per un quotidiano, la fotografa di successo Anna (cognome Cameron: l’omaggio alla celebre Julia Margaret non è certo un caso; sullo schermo Julia Roberts), il medico dermatologo Larry (Clive Owen) e la giovane, intraprendente e vitale Alice (che non è il suo vero nome: lo scopriamo alla fine della pellico-
14
In Closer, Julia Roberts interpreta la fotografa Anna Cameron (apprezzato richiamo alla celebre Julia Margaret): doppia sessione di ritratto nello studio-abitazione, breve situazione in esterni e inaugurazione di una imponente mostra personale. In sala di posa, scatta prima con Hasselblad 503CW su treppiedi Manfrotto e poi con Leica M6.
Due momenti “Manfrotto”: dettaglio della mano che agisce sulla testa 3D Super Junior e sollevamento a cremagliera della colonna centrale del treppiedi Triman. (pagina accanto) Anna esegue il ritratto per la copertina del libro di Dan (l’attore Jude Law). In successione, visualizziamo la sequenza operativa, richiamando in particolare lo scatto con flessibile, l’inserimento del volet nel magazzino portapellicola, una visione a inquadratura ampia e la composizione sul vetro smerigliato.
La fotografa Anna ha sollevato la colonna centrale del treppiedi Manfrotto Triman per cambiare la posa. Dopo i ritratti di Dan seduto, gli chiede di alzarsi in piedi, per una seconda serie di scatti.
Mandato da Anna per il ritratto da pubblicare sul retro della copertina del suo primo (e unico) romanzo, Dan viene fotografato con una classica Hasselblad 503CW dotata di winder aggiuntivo CW per l’avanzamento automatico della pellicola a rullo dopo lo scatto; l’obiettivo di ripresa tiene spesso la scena, forte dell’affascinante estetica del movimento delle lamelle del proprio otturatore centrale (Carl Zeiss MakroPlanar T* 120mm f/4, numero di matricola 8907922, sempre ben leggibile; a pagina 16). L’Hasselblad è montata su treppiedi Manfrotto Triman, uno dei veterani del catalogo, completo di testa a snodo 3D Super Junior (qui accanto). Nella stessa occasione, anche Alice, compagna di Dan, si fa fotografare, e allora compare una Leica M6 cromata, pure dotata di motore-winder (e Summicron-M 50mm f/2, ipotizziamo). Anna fotografa a mano libera, prima ignorando il winder, e dunque facendo avanzare la pellicola con la tradizionale leva; poi, in un momento di forte commozione, lasciando al la; con il volto di Natalie Portman) è assai complesso, e meriterebbe analisi psicoanalitiche di spessore e approfondimento. Che qui, comunque, non hanno diritto di ospitalità. Al solito, ciò che ci interessa è una certa combinazione fotografica, che si risolve presto, nelle scene iniziali, con una intensa sessione di ritratto/ritratti nello studio-abitazione di Anna (il solito loft di straordinario fascino visivo, così caro alle scenografie cinematografiche dei nostri tempi; in questa pagina). La citazione è sostanziale e colta, almeno per quanto riguarda la combinazione con gli strumenti della fotografia, nostri espliciti, dichiarati e riconosciuti oggetti di affezione.
TRE VOLTE CON LA FOTOGRAFIA
C
onfermiamo quanto abbiamo già avuto modo di rilevare in occasioni precedenti. All’interno di una sceneggiatura cinematografica, la combinazione di Closer rappresenta il terzo incontro di sostanza tra il bravo attore Jude Law e la fotografia. Una prima volta è stato un morboso fotografo-killer in Era mio padre (FOTOgraphia, novembre 2005), quindi è stato coprotagonista in Sky Captain and the World of Tomorrow (del quale abbiamo registrato una curiosa vicenda legata alla mancanza di pellicola; FOTOgraphia, dicembre 2005). In Closer si svolge, infine, una corposa sessione di ritratto. Quindi, confermando l’ordine di esposizione: folding in legno su treppiedi, Argus 35mm e Hasselblad 503CW (con treppiedi Manfrotto Triman).
15
winder il proprio compito istituzionale, e i rumori di fondo cambiano (qui sotto). Su questo uso della Leica M6, esprimiamo una certa riserva riguardo l’avvicinamento della fotografa Anna al volto di Alice, nella propria sostanza fino a una distanza inferiore alla minima di messa a fuoco degli obiettivi accoppiati al telemetro. Ma non importa nulla: si tratta di una concessione legittima alle esigenze di scenografia e sceneggiatura. Poco male. Ancora, registriamo che la stessa Leica M6 fa capolino in una altra breve situazione esterna, sulle rive del Tamigi, al momento del primo fatidico incontro della fotografa Anna con Larry, che diventerà suo marito e che si inserisce nella combinazione di amori che coinvolge i quattro personaggi: vicenda narrata dal film; momento che non conta visualizzare. Questa è quasi tutta la fotografia presente nell’enigmatico Closer, abilmente diretto dal citato regista
Pregevole sequenza dello scatto dell’otturatore centrale dell’Hasselblad 503CW, che è in evidenza nelle inquadrature del film, a tutto schermo/monitor televisivo, attraverso la trasparenza dell’obiettivo Carl Zeiss Makro-Planar T* 120mm f/4. Annotiamo anche la leggibilità dei dati identificativi dello stesso obiettivo: matricola 8907922. Dal nostro punto di vista viziato, una ghiottoneria di stampo feticistico (per il quale non proviamo alcuna vergogna).
16
Studio-abitazione della fotografa Anna. Tra tante suppellettili, additiamo il banco ottico 4x5 pollici Cambo su stativo a colonna. Cadenzate carrellate sull’ambiente di Anna: fotografie alle pareti, provini, annotazioni e cartella-portfolio. Lasciata l’Hasselblad, per i ritratti di Alice, Anna scatta a mano libera con Leica M6, muovendosi liberamente e cambiando continuamente punto di vista.
Mike Nichols (2004), che stagioni fa fece sognare il pubblico con il celebre Il laureato, del 1967, cult generazionale sia per le ottime interpretazioni della compianta Anne Bancroft (straordinaria Mrs. Robinson) e dell’esordiente Dustin Hoffman (l’imbranato Benjamin Braddock), sia e soprattutto per la straordinaria colonna sonora di Simon & Garfunkel. Citazioni raffinate quelle di Closer (Hasselblad, Leica e Manfrotto), cui fanno da contorno fascinose rappresentazioni di ottime stampe bianconero: prima di tutto nell’arredamento dello studio-abitazione della fotografa Anna (qui sopra), quindi nell’allestimento scenico di una sua mostra personale Strangers (pagina accanto). Proprio qui, tra ingrandimenti di generose dimensioni, ottimamente illuminati, si svolge un dialogo che vale la spesa riportare. Alice è assorta davanti a un suo intrigante ritratto, e viene avvicinata (in
realtà abbordata) da Larry, da quattro mesi compagno di vita di Anna (nota parallela: per la propria interpretazione in Closer, i due attori Natalie Portman e Clive Owen hanno ricevuto il Golden Globe e hanno avuto la nomination all’Oscar come attori non protagonisti; per l’Oscar, nel 2004, hanno ceduto il passo, rispettivamente, a Cate Blanchett, nella parte di Katha-
rine Hepburn in The Aviator, e Morgan Freeman di Million Dollar Baby). Testuale, il dialogo. «Che gliene pare, in generale?». «Vuole parlare di... arte?». «Lo so che è volgare discutere delle opere all’inaugurazione delle opere. Ma qualcuno deve pur farlo... dico sul serio... che ne pensa?». «Che è un inganno. C’è un branco di estranei tristi e fotografati da
Alice osserva rapita il proprio ritratto allestito nella mostra Strangers della fotografa Anna Cameron. Qui viene avvicinata da Larry, che la coinvolge in considerazioni sulla stessa mostra.
dio, e tutti i fighetti stronzi che si dichiarano amanti dell’arte dicono “bello”: perché è questo che vogliono vedere. Ma le persone nelle foto sono tristi... e sole. Però le foto fanno credere che il mondo sia bello... e così... sì, la mostra è rassicurante, quindi è un inganno. E un bell’inganno piace a tutti quanti». M.R. Ricerca iconografica di Filippo Rebuzzini
SERENITÀ E DIVERTIMENTO
C
C’è un che di fantastico nella nuova socialità fotografica introdotta dalle funzioni (appunto fotografiche) abbinate al telefonino. Oltre le considerazioni di sostanza che abbiamo già espresso, avviando lo scorso giugno questa serie di concentrate riflessioni a tema, va registrato anche un fenomeno trasversale, che si muove e manifesta in lungo e largo, senza alcuna soluzione di continuità. In straordinaria coincidenza di intenti, sia la comunicazione industriale, da parte delle case produttrici, sia tutta la fotografia da telefonino rivelano note allegre e spensierate. La sottolineatura, consentiteci il giudizio, non è da poco, e rimarca, rilevandola, una clamorosa differenza rispetto un certo e diffuso esercizio fotografico, solitamente proiettato in senso opposto, ovvero orientato a una sorta di melanconia visiva. A parte altre annotazioni sociali, prime tra tutte quelle espresse da Ferdinando Camon sull’Unità, in relazione alla cruda e crudele cronaca di guerra, che ai nostri giorni coinvolge appunto i telefonini (ne riferiamo su questo stesso numero, da pagina 27), va assolutamente registrata questa individuata allegria di intenti: non solo la fotografia come impegno di testimonianza dei momenti tragici della vita (che sono veramente tanti: e la storia della fotografia ne è piena), ma anche fotografia come esplicito e dichiarato divertimento. Ripetiamo, su questa lunghezza d’onda sono sintonizzate sia la stragrande maggioranza di immagini da telefonino, che veicolano per i nuovi canali dell’informazione spontanea, sia, in curiosa e involontaria coincidenza, le presentazioni industriali. Mentre, la fotografia tradizionale, e per estensione quella digitale dei no-
18
Dotato di obiettivo autofocus Carl Zeiss Tessar e zoom digitale 20x (video 8x), in 116g di peso e 110x49x19mm di ingombro, il Nokia N73 arriva alla qualità fotografica di 3,2 Megapixel (2048x1536 pixel), che si traducono in ingrandimenti fino a 20x25cm (almeno). In omaggio alla fotografia di tutti i tempi, è provvisto di otturatore meccanico (!). Dal monitor di 2,4 pollici si controllano sia le funzioni fotografiche sia le riprese video (a 1,5 fotogrammi al secondo, fino a tre ore di registrazione). A seguire, si annotano complete funzioni di gestione dell’immagine: appunto, computer multimediale.
stri giorni, è stata ed è promossa in relazione a concentrati impegni creativi, quella da telefonino suona e scandisce un altro motivo. Dice Nokia, marchio e produzione che più e meglio di altri interpreta la combinazione fotografica (e per questo rappresenta un nostro riferimento privilegiato): «Ogni attimo può darti un’ispirazione». Introduzione alla presentazione del Nokia N73, annunciato in tarda primavera e oggi disponibile sul mercato, questa espressione va indagata, perché nella propria declinazione, dal punto di vista semantico, rivela una sostanziosa filosofia di fondo: appunto quella della fotografia inviolabilmente quotidiana, contenutisticamente diversa da quella tradizionale (scattata su pellicola o acquisita in digitale, non fa differenza). Perché poi, a conferma, Nokia sollecita in analogo modo: «Scatta fotografie di qualità ogni volta che vuoi», esprimendo quindi un’idea qualitativa che si basa sulla risoluzione, che ha ormai sfondato la soglia dei tre Megapixel, proiettandosi oltre; «La vita va condivisa», in stretta relazione alle funzioni di gestione dell’immagine incluse nelle prestazioni dell’attuale telefonino con funzioni fotografiche (computer multimediale, abbiamo dichiarato lo scorso luglio); «Non smettere di divertiti» con le combinazioni aggiuntive alla ripresa fotografica. Il riscontro con queste affermazioni (di princìpio?!) si ha, per esempio, sul sito www.makadam.it, estensione in Rete dell’esperienza editoriale dell’omonimo periodico (del quale abbiamo riferito nel febbraio 2004 e febbraio 2005). Autentica espressione di una innegabile Nuova fotografia, questo spazio è aperto alle immagini inviate dal pubblico: non professionisti che rivelano e condividono le proprie emozioni esistenziali. Nell’apparente semplicità di soggetti, nella maggior parte dei quali prossimi alla vita quotidiana (dai pasti agli animali domestici, da scene stradali a incontri con amici, e via discorrendo: da non confondere con la foto-
ricordo, capitolo diverso), queste fotografie sono lo specchio fedele e trasparente della contemporaneità. Possiamo discuterne, se vogliamo. Possiamo mal giudicarle, se ci teniamo a farlo. Possiamo anche inorridire, se crediamo di averne diritto. Ma non possiamo ignorarle, né sottovalutarle. Spontanee nella propria realizzazione, giocose nella relativa declinazione, queste fotografie sono autenticamente tali: fotografie di vita, colte senza sovrastrati e senza implicazioni lessicali. Non hanno composizione, le inquadrature non rispondono ad alcuna regola... ma il racconto complessivo che scrivono è palese, esplicito e dichiarato: fino a diventare affascinante e coinvolgente. Pur nella nostra personale distanza (e distacco) da tutto questo, che magari non ci appartiene individualmente, anche solo per una questio-
ne generazionale, siamo affascinati e veniamo coinvolti da tanta leggerezza, che usa l’immagine in un modo che solo qualche giorno fa neppure osavamo immaginare. Ancora prima delle funzioni complementari del computer multimediale, cui ci siamo esplicitamente riferiti a luglio e settembre, che rappresenta un altro capitolo di sostanza sul quale torneremo presto, questa è una fotografia viva e vitale. Oltre la condivisione e connessione in tem-
BIANCO E NERO laboratorio fotografico fine - art solo bianco & nero
UMICINI GIOVANNI VIA VOLTERRA 39 - 35143-PADOVA
PH.& FAX 049 720 731 e-mail : gumicin@tin.it
Campionatura di fotografie scattate con telefonino, riprese tra le tante inviate e pubblicate sul sito di una Nuova fotografia www.makadam.it.
po reale, che eventualmente arriva immediatamente dopo, la fotografia da telefonino è una fantastica ed esuberante espressione di vita. Come abbiamo già annotato in altre occasioni, a questa precedenti, può non avere rapporti e debiti di riconoscenza con la storia evolutiva del linguaggio fotografico. Ma per la prima volta porta l’immagine e la sua fantastica fruizione nella vita vera. In questo senso, le sue paternità non vanno individuate nella lunga storia della comunicazione ed espressione visiva, dalla pittura alla fotografia, ma in quella della parola. Sono parole visive, sono parole che volano nell’aria. Riprendendo quanto rilevato lo scorso settembre, appunto “Foto(grafie) volant”, «La fotografia da telefonino vola nell’aria»: dove esprime una personalità che amplifica il senso e valore della parola detta. Tra l’altro, si rende qui necessaria una annotazione finale, proprio riferita a questo concetto.
Come è noto, tradotta letteralmente, la locuzione latina Verba volant, scripta manent significa le parole volano, ma gli scritti rimangono. Questo antico proverbio insinua la prudenza nello scrivere, perché, se le parole si dimenticano facilmente, gli scritti possono sempre formare documenti incontrovertibili. D’altro canto, se vogliamo stabilire un accordo, è meglio mettere nero su bianco, piuttosto che ricorrere a intese verbali largamente contestabili. Tuttavia è da notare che, in origine, tale proverbio aveva una valenza del tutto opposta. In un’epoca nella quale i più erano analfabeti, stava a indicare che le parole viaggiano, volano di bocca in bocca, e permettono che il loro messaggio continui a circolare, mentre gli scritti restano, fissi e immobili, a impolverarsi senza diffondere il proprio contenuto. In riferimento alle “foto(grafie) volant”, dal telefonino alla condivisione globale, l’esclamativo finale è d’obbligo! M.R.
IL RITORNO DI CARNERA
2
22 maggio 1967: non aveva mai visto tanta folla la piccola stazione di Casarsa della Delizia, nella provincia friulana di Pordenone. Erano tutti lì per il ritorno del loro idolo, Primo Carnera. Tornava dall’America, gigante svuotato dalla malattia. Tornava per sempre. C’era forte commozione in quella gente semplice, felice di riavere il campione compaesano che aveva fatto conoscere al mondo il nome di Sequals e del Friuli, ma consapevole che era una festa triste, presagio del ben più triste ultimo corteo. Noi cronisti (allora lavoravo al Gazzettino, a Venezia, e con me quel giorno c’era il collega Franco Escoffier, una delle penne più lucide e sensibili del giornale, diretto in
20
Aiutato dai carabinieri, il campione si avvia all’uscita, verso il piazzale della stazione.
Sorretto dai nipoti, Carnera entra nella sua casa a Sequals.
SOLENNE CELEBRAZIONE
P
rimo Carnera, il gigante di Sequals. Nel centenario della nascita, 25 ottobre 1906-2006, la sua leggenda continua. La Provincia di Pordenone ed esaExpo (www.esaexpo.it) propongono un evento espositivo degno di questa scadenza. Dallo scorso sedici settembre al prossimo tre dicembre nel Palazzo della Provincia è allestita La leggenda di Primo Carnera, mostra nella quale il visitatore può riscoprire la vicenda umana e sportiva di uno dei pochi atleti che sono entrati di diritto nella storia del Novecento. A cura di Roberto Festi e Ivan Malfatto, una mostra e un catalogo che affrontano il tema Carnera con un taglio trasversale e assolutamente originale, accompagnando il racconto della vita del campione friulano con tutti quegli eventi e riferimenti che sono stati parte integrante della sua epoca. Sette sezioni: Il friulano Carnera (Emigrazione in Friuli Venezia Giulia tra Ottocento e Novecento); La montagna Carnera (Mito e leggenda dell’uomo gigante); Carnera e il pugilato (La carriera sportiva); Arte e sport negli anni del fascismo; La lotta per vivere (Carnera e il catch); Da Sequals a Hollywood (Carnera e il cinema); La forza del mito. Le sezioni tracciano un confine che va oltre lo specifico legato al pugile e alla sua intensa attività agonistica: prima pugilistica, fino all’apice del titolo mondiale dei pesi massimi, conquistato a ventisei anni, il 29 giugno 1933 al Madison Square Garden Bowl di Long Island City (New York) contro Jack Sharkey (KO al sesto round, in un incontro durato ventitré minuti, sullo stesso ring che fu palcoscenico delle imprese di James J. Braddock, noto al pubblico per la recente trasposizione cinematografica Cinderella Man, di Ron Howard, con l’interpretazione di Russel Crowe), e successivamente, dal dopoguerra e per quasi diciotto anni, nel catch, antesignano dell’attuale wrestling, una “lotta per la vita”, che Carnera affronta con tour estenuanti sui ring di tutto il mondo, per riconquistare quella solidità economica che il pugilato e le traversie della guerra gli avevano negato. In mostra, oggetti culto della vita sportiva: la cintura mondiale di Carnera; i guantoni da combattimento; la corda da allenamento; le scarpette; i pantaloncini; ma anche la maglia azzurra, i palloni e la mitica Coppa Rimet della nazionale italiana di Calcio guidata da Vittorio Pozzo, due volte campione del mondo nel 1934 e nel 1938; e poi il corredo da corsa del pilota automobilistico Tazio Nuvolari. A contorno, testimonianze d’arte classica, provenienti dal Museo Archeologico Nazionale di Firenze e dal Kunsthistorischesmuseum di Vienna, raffiguranti sce-
ne di pugilato, e opere di artisti del Novecento, con prestiti da autorevoli musei e collezioni private (Fortunato Depero, Tullio Crali, Carlo Vitale, Ivano Gambini, Mino Rosso, Renato di Bosso e il celebre ritratto di Carnera di Giacomo Balla), che, tra gli anni Venti e gli anni Quaranta, hanno raffigurato il mito dello sport. Ancora, i manifesti di boxe provenienti dalla raccolta Salce, mai esposti in precedenza, con significativi esempi di Carnera testimonial nella nascente pubblicità commerciale, si accompagnano con quelli della trasvolata atlantica del decennale di Italo Balbo, impresa concomitante al successo mondiale di Carnera. Quindi, fotografie, video inediti, brochure e bozzetti del Conte di Savoia e del Rex, i transatlantici protagonisti dei molti viaggi del campione friulano tra Europa e America. Non manca un commovente manoscritto, una vera e propria autobiografia tracciata negli anni in cui Primo Carnera viaggia nei cinque continenti per i combattimenti di catch. E vanno segnalate le strisce originali a fumetti con le sue “avventure”, pubblicate dai quotidiani statunitensi e da lui stesso firmate, e quelle più recenti, opera di Davide Toffolo, che documentano con sensibilità e disincanto la mitica avventura dell’“uomo più forte del mondo”. Non da ultimo, la mostra propone molti materiali legati all’attività di Carnera nel mondo del cinema, che lo vede coinvolto in diciassette film tra il 1933 e il 1959, spesso in ruoli marginali, ma sempre con l’aura mitica di chi è stato un protagonista. La documentazione su Villa Carnera a Sequals, costruita nel 1932, rappresenta il nodo per ricongiungere l’uomo con le proprie radici. Qui il vecchio pugile torna nel maggio 1967 [come testimoniano le parole e fotografie di Sandro Rizzi, all’epoca cronista per il Gazzettino di Venezia, pubblicate in queste pagine]. È un rientro triste, alla vigilia di una morte annunciata. Lo scrittore Nantas Salvalaggio, che lo ha frequentato in momenti diversi della sua vita, lo ricorda nell’introduzione al catalogo della mostra (a cura di Roberto Festi; 220 pagine con duecento illustrazioni); a seguire, quindici saggi tracciano quella che può essere considerata la più completa ed esaustiva trattazione su Primo Carnera e il proprio tempo. La leggenda di Primo Carnera. A cura di Roberto Festi e Ivan Malfatto. Palazzo della Provincia, corso Garibaldi 8, 33170 Pordenone; 0434-231418; www.provincia.pordenone.it. Fino al 3 dicembre; martedì-venerdì 15,30-19,30, sabato e domenica 10,00-19,00.
Tra la folla all’uscita dalla stazione.
Un primo piano che mostra tutta la sofferenza del campione malato.
21
quel periodo da Giuseppe Longo) ce ne rendemmo conto soprattutto quando tornammo in redazione e stampammo le fotografie. Il redattore capo, Gastone Hartsarich, un gentiluomo di poche parole, disse soltanto: «Tenetele pronte, dovremo riutilizzarle molto presto...». Le ripubblicammo poco più
di un mese dopo: Carnera morì il 29 giugno (il 25 ottobre avrebbe compiuto sessantun anni). Dall’ultima carrozza, in fondo alla banchina, scese per prima la moglie, Pina, con un cappellino chiaro e un soprabito blu, tenendo in mano un fascio di gladioli. Subito dopo, la figura di Carnera occupò tutto il vano dello sportello. Poliziotti e carabinieri lo aiutarono a scendere, si appoggiava a un bastone. Sorrideva, sembrava a tratti riconoscere qualche volto. Lo fecero salire su una vettura scura, con il finestrino aperto. Quante mani si spinsero avanti per sfiorare, accarezzare quel manone ormai privato della sua mitica forza. Quanti fiori piovvero sul cofano. Folla fino a Sequals. Il giardino era invaso. I nipoti lo sorressero per entrare. Lui si afflosciò su una poltrona. Era finalmente a casa, nella sua casa, in famiglia. Un po’ frastornato dal viaggio (arrivava da
La figura di Carnera occupa tutto il vano dello sportello.
Un curioso personaggio tra la folla alla stazione di Casarsa. A destra, l’inviato del Gazzettino Franco Escoffier, oggi scomparso.
Roma, dove era giunto, in volo, dagli Stati Uniti), sofferente. Ma continuava a sorridere. Non fui più capace di scattare. Sandro Rizzi
[[[ LJRIX MX /,%5, ', )272*5$),$ '$ 78772 ,/ 021'2 , PLJOLRUL YROXPL GL IRWRJUD¿D GHJOL HGLWRUL LWDOLDQL H LQWHUQD]LRQDOL LQ YHQGLWD SHU FRUULVSRQGHQ]D H RQOLQH
9PJOPLKP .9(;0: PS *H[HSVNV /-
$ISTRIBUZIONE SH NYHUKL SPIYLYPH KP MV[VNYHMPH
DQWRORJLH JUDQGL PDHVWUL IRWR VWRULFD IRWRJUD¿D FRQWHPSRUDQHD UHSRUWDJH PRGD QXGR ULWUDWWR VWLOO OLIH QDWXUD SDHVDJJLR H DUFKLWHWWXUD HWQRORJLD IRWR GL YLDJJLR IRWRJUD¿D GLJLWDOH IRWR VSRUWLYD FLQHPD PXVLFD GDQ]D H WHDWUR VDJJLVWLFD H FULWLFD PDQXDOLVWLFD ULYLVWH DEERQDPHQWL D ULYLVWH LQWHUQD]LRQDOL OLEUL IRWRJUD¿FL GD FROOH]LRQH
+) 'LVWULEX]LRQH &DVHOOD 3RVWDOH 9HUFHOOL WHO ID[ H PDLO KI GLVWULEX]LRQH#KIQHW LW
S
Bisogno di stabilità? Sei pronto per la nuova dimensione . La prima Reflex Sony è dotata di sensore da 10 Megapixel effettivi, sistema anti-polvere per la pulizia del CCD, stabilizzatore ottico Super Steady Shot all’interno del corpo macchina per scatti sempre perfetti. È solo l’inizio.
www.sony.it/reflex
Il simbolo “
” equivale ad “Alpha”. “Sony” e “like.no.other” sono marchi registrati di Sony Corporation, Giappone.
Una mostra, un libro, un film. Lo scorso tredici settembre, in rapida successione, di tempo e spazio, sono stati presentati tre eventi collaterali che celebrano la personalità di Henri Cartier-Bresson, a due anni dalla scomparsa (3 agosto 2004): Tutti si prolungano in avanti. La mostra HCB. Classics è allestita alla Galleria Photology di Milano fino al prossimo undici novembre; il volume Biografia di uno sguardo, pubblicato dalla stessa Photology, è in distribuzione libraria, il film Biographie d’un regard, di Heinz Bütler, è proiettato in Galleria e disponibile in Dvd. Non occorrono altre parole, oltre le tante scritte e lette, per commentare ancora la figura di Henri Cartier-Bresson (19082004), uno degli autori fondamentali della fotografia, che ha influito in misura determinante e discriminante sull’intera evoluzione dello
Ritratti in fronte e retro di Henri Cartier-Bresson. Biografia di uno sguardo, di Pierre Assouline; Photology, 2006 (via della Moscova 25, 20121 Milano; 02-6595285, fax 02-654284; www.photology.com, photology @photology.com); 264 pagine 15,5x23,5cm; 29,00 euro.
stesso linguaggio applicato: a partire dalla folgorante raccolta Images à la sauvette, che nel 1952 spalancò le porte di quel momento decisivo, cui si è riferita
© CHIARA SAMUGHEO (2)
U
TRE VOLTE HCB la fotografia del vero e dal vero del secondo Novecento.
MOSTRA E LIBRO Appunto inaugurata lo scorso tredici settembre, come appena annotato, HCB. Classics rimane esposta fino all’undici novembre. È composta da una significativa selezione delle più classiche fotografie di Henri Cartier-Bresson. Venti immagini, proposte in ingrandimenti da 30x40 a 40x50cm, firmati in margine dall’autore. Come tradizione della Gal-
DALL’INTRODUZIONE
E
stratto dall’introduzione Dove l’eroe diventa un amico, nella quale l’autore Pierre Assouline rivela dettagli e dietro-le-quinte alla preparazione e stesura di Henri Cartier-Bresson. Biografia di uno sguardo. «[...] La prima volta che ho incontrato Henri Cartier-Bresson è stato nel 1994. Quel giorno fu nelle vesti di giornalista, e non di scrittore, che bussai alla porta del suo studio, nei pressi di place des Victoires, a Parigi, dove si isolava spesso per disegnare. Alla fine aveva accettato di essere intervistato, ma a una sola condizione: che non fosse un’intervista. [...] Trascorremmo più di cinque ore a chiacchierare, risalendo il corso sinuoso della sua memoria senza altro criterio se non quello del cuore, della libera digressione. Nulla fu meno storico di quel viaggio nel tempo. Ne uscii stremato e sopraffatto dalle immagini caotiche di quell’epoca disordinata, che lui aveva vissuto giorno dopo giorno, attraversando la storia da protagonista. «Avevamo evocato il Ventesimo secolo in tutti i propri aspetti, gli uomini che l’avevano fatto e i luoghi che lo simboleggiavano. Ma non parlammo tanto degli avvenimenti, quanto piuttosto dei singoli momenti, come se la prova fosse meno importante della traccia. Soprattutto non citava date. Solo impressioni e sagome ricostruite con rara intensità e, quando meno me l’aspettavo, un racconto di una precisione incredibile. [...] «A un tratto, mentre portavo la tazza alle labbra, restò in silenzio e mi fissò per un istante. Quindi abbozzò un sorriso: “Poco fa mi ha chiesto se continuo a fare fotografie”. «”Infatti”. «”Ebbene, ne ho appena fatta una a lei, ma senza macchina... è venuta bene ugualmente. La stanghetta dei suoi occhiali, perfettamente parallela alla par-
24
te superiore del quadro dietro di lei, è sorprendente; non potevo lasciarmi sfuggire questa mirabile simmetria... ecco fatto! Di che parlavamo? Ah sì, Gandhi. Se ho conosciuto Lord Mountbatten?”. «[...] Alla fine della giornata sapevo di aver raccolto una testimonianza delle più preziose. Ero sotto il suo incantesimo. [...] «Se ci fossimo fermati lì, quel pomeriggio non avrebbe avuto altro risultato che una pagina di giornale. Tuttavia accadde che, mosso da qualcosa di ineffabile, al momento di congedarmi da lui mi sentii frustrato dalla sua reticenza a proposito della Guerra. «[...] A rischio di violare la sua discrezione, lo interrogai nuovamente sui suoi anni di prigionia in Germania, sul sovraffollamento, sulle evasioni fallite. [...] Per un lungo istante restò pensieroso, con lo sguardo perso nel vuoto, poi ricominciò a parlare. [...] Quando gli tornarono in mente i nomi dei suoi compagni denunciati, torturati o fucilati, la sua voce si appannò. Quando mormorò i loro nomi, anche il suo sguardo si annebbiò. Infine si voltò, incapace di trattenere le lacrime. «Da quell’istante, lasciando Cartier-Bresson, seppi che un giorno gli avrei dedicato non un articolo ma un libro. Non solo al più grande fotografo vivente, che aveva risuscitato la sua carriera artistica con il disegno, ma all’inviato di lungo corso, all’avventuriero tranquillo, al viaggiatore di un’altra epoca, al grande contemporaneo, all’eterno fuggiasco, al geometra ossessivo, al buddista inquieto, all’anarchico puritano, al surrealista impenitente, al simbolo del secolo dell’immagine, all’occhio che ascolta, ma soprattutto all’uomo dietro tutte queste identità, quello che le riunisce tutte, un francese del suo secolo. Perché, come dice il poeta, è dell’uomo che si tratta».
© HENRI CARTIER-BRESSON
Biographie d’un regard, film-documentario su Henri Cartier-Bresson di Heinz Bütler; regia di Matthias Kälin; suono di Henri Maikoff; con interventi di Isabelle Huppert, Robert Delpire, Elliott Erwitt, Joseph Koudelka, Arthur Miller e Ferdinando Scianna; 72 minuti; in Dvd, 32,00 euro.
leria Photology, tutte le fotografie in mostra sono in vendita. Allo stesso momento, Henri Cartier-Bresson. Biografia di uno sguardo è esattamente ciò che promette di essere: appunto, una biografia del fantastico personaggio. Ancora, storia del Novecento: dopo e oltre le immagini in bianconero in esposizione, si passa all’uomo Henri Cartier-Bresson, presentato come individuo privato nel racconto di Pierre Assouline, che Photology pubblica in italiano, dopo le edizioni francese e inglese di Plon e Thames&Hudson. È la vita di un uomo, rivelata in maniera immediata e veritiera, come sono stati i suoi scatti fotografici. Con Pierre Assouline, per anni Henri Cartier-Bresson ha stretto un rapporto di confidenza, discutendo ogni argomento: dalla sua giovanile devozione per il surrealismo alla passione di una vita per il disegno, dall’esperienza della guerra, i campi di prigionia, gli amici alle donne della sua vita. Una biografia delicata, il racconto di un uomo e del proprio partecipare alla storia con lo sguardo, incrociando il fascino dell’Africa degli anni Venti, il tragico destino dei repubblicani spagnoli e la Liberazione di Parigi, e poi la spossatezza di Gandhi poche ore prima del suo assassinio. Annota e ricorda l’autore (dall’introduzione): «Per lungo tempo,
Henri Cartier-Bresson non ha voluto nemmeno sentir parlare di biografia. Solo sentir pronunciare la parola gli faceva orrore. Tra l’altro, mi assicurava di non leggerne mai, come dimostra la sua biblioteca. Dedicargli un libro di questo tipo equivaleva a fargli il ritratto. Peggio ancora: ad accecarlo con un flash. Di fronte a un tale interrogatorio, avrebbe potuto esplodere, impugnare un coltello e minacciare quello che considerava un nemico. Non ha mai sopportato che gli si facesse ciò che lui fa agli altri [espressione che HCB riferiva al suo non voler essere fotografato; ndr]. «Allo stesso modo in cui vedeva le retrospettive della sua opera fotografica come elogi funebri prematuri, l’idea di una biografia gli faceva pensare alla posa di una pietra tombale. Vivere il momento presente, solo questo vale. La vita è immediata e folgorante. Il presente appartiene già al passato. Questo è ciò che insegna la sua Leica».
IL FILM A completare l’omaggio che Photology rende a Henri Cartier-Bresson, c’è il film Biographie d’un regard, firmato da Heinz Bütler nel 2003 (già disponibile nelle versioni in tedesco Henri Cartier-Bresson. Biographie eines Blicks e inglese Henri CartierBresson: The Impassioned Eye). Questo documentario è il primo
al quale Henri Cartier-Bresson ha accettato di partecipare così intimamente, lasciandosi andare a racconti nei quali parla di quello che più ha turbato il suo stato d’animo, che gli ha ispirato gioia o malinconia. È la sua voce a raccontare le fotografie, a svelarne i particolari e a commentarle. È la sua mano a firmare le stampe che appaiono nel film. A completamento, non senza humour e passione, l’attrice Isabelle Huppert, l’amico-editore di sempre Robert Delpire, il drammaturgo Arthur Miller, così come gli amici fotografi Elliott Erwitt, Joseph Koudelka e Ferdinando Scianna raccontano l’uomo Cartier-Bresson attraverso proprie visioni soggettive. Ne esce un ritratto vivissimo e nel contempo un possibile filtro per la comprensione storica e temporale di alcuni scatti che della fotografia hanno fatto la storia. Per tutta la durata della mostra, il film viene proiettato in Galleria: da martedì a sabato alle 17,30; prenotazione 02-6595285 (Lynda Scott). Quindi, il film è stato editato in Dvd, e viene venduto a 32,00 euro. A.G. HCB. Classics. Galleria Photology, via della Moscova 25, 20121 Milano; 02-6595285, fax 02-654284; www.photology.com, photology@photology.com. Fino all’11 novembre; martedì-sabato 11,00-19,00.
al centro
della fotografia
tra attrezzature, immagini e opinioni. nostre e vostre.
REPORTAGE SPONTANEO (?!) PASSO INDIETRO
C
Curiosa coincidenza di data, non di profilo. A ferragosto, martedì quindici agosto, i quotidiani La Repubblica e L’Unità hanno simultaneamente trattato l’argomento della fotografia da telefonino, muovendosi su terreni sostanzialmente diversi. In pagina interna, La Repubblica ha affrontato l’argomento, riferendolo a una sorta di nuovo fotogiornalismo (rosa?!): appunto, L’invasione dei paparazzi fai-da-te, con relativo sottotitolo esplicativo Con i telefonini rivoluzione degli scoop: si moltiplicano le foto rubate dei vip. Più alto e riflessivo il taglio dell’Unità, che accenna al telefonino in relazione a fotografie dalla guerra in Libano diffuse da agenzie di stampa. A firma di Ferdinando Camon, dalla prima pagina viene lanciato l’argomento, Un’istantanea di odio, con rimando all’interno, dove sono presentate fotografie di un linciaggio, nelle quali è evidente la presenza di telefonini. Prima di riportare i testi dei due interventi, ricordiamo e sottolineiamo che l’argomento è di effettiva e pressante stretta attualità fotogiornalistica. Ancora, confermiamo le nostre considerazioni sul fatto che in relazione alla capillare diffusione di telefonini con funzioni fotografiche (computer multimediale; FOTOgraphia, luglio 2006), «nulla avviene più e nulla avverrà più senza la relativa registrazione fotografica». Però, oltre le annotazioni che da tempo stiamo stilando a questo proposito, riferendole alla socialità quotidiana, è qui opportuno alzare il tiro, approdando, come appena annunciato, a questioni autenticamente fotogiornalistiche.
A questo proposito, torniamo al convegno che è stato svolto in occasione delle solenni celebrazioni dei cinquant’anni del prestigioso premio World Press Photo. Ne abbiamo riferito, in cronaca, lo scorso febbraio, e qui riprendiamo l’essenza dei commenti allora espressi dall’attento Lello Piazza. Ad Amsterdam, un anno fa, nei giorni di inizio ottobre dedicati ai cinquant’anni del World Press Photo, Shahidul Alam, fotografo e fondatore della Drik Picture Library (1989; www.drik.net), del BanglaPrima pagina e rimando interno dell’ Unità dello scorso quindici agosto. Ferdinando Camon riflette in profondità sulla crudeltà delle fotografie di guerra, a margine delle quali sottolinea l’immancabile presenza di telefonini.
desh Photographic Institute di Pathshala (1990) e del South Asian Institute of Photography (1998; www.pathshala. net), ha tenuto una conferenza dal titolo Publishing from the Streets: Citizen Journalism (Editoria dalle strade: il giornalismo dei cittadini). Shahidul Alam ha riflettuto sul fatto che c’è una sostanziale assenza di pluralità nell’offerta di informazione da parte dei media. Ciò spinge molti a utilizzare la potenza di Internet e degli strumenti digitali (blog, chat o email, gestiti da singole persone o da gruppi e associazioni), per fare circolare qualunque tipo di notizia; e c’è un grande pubblico che aspetta solo di leggere quanto si “pubblica” nel cyberspazio. Questi strumenti propongono spesso testi e immagini realizzati e prodotti da semplici cittadini. Il fenomeno influenzerà il
giornalismo professionale? Metterà sotto pressione i giganti dell’editoria? Porterà a una informazione migliore? O genererà il caos? È presto per rispondere. Shahidul Alam ha comunque preso atto che è nata una nuova figura di “giornalista”, che non ha nessuna investitura ufficiale, né grandi budget a disposizione, e in compenso non è soggetto ad alcun controllo da parte di nessun editore. Il motto della nuova informazione, ha detto Shahidul Alam, sembra essere “Every Citizen is a Reporter” (ogni cittadino è un reporter). Apparentemente, questo fatto rappresenta un aumento di democrazia, ma rimangono perplessità. E ha citato Noam Chomsky: «Il modo elegante per fare sì che la gente sia ubbidiente e passiva è quello di limitare molto lo spettro delle opinioni accettabili, ma di permettere il più vivace dei dibattiti all’interno di quello spettro, incoraggiando addirittura i punti di vista più critici e dissidenti. Questa tecnica dà alla gente il senso che si possa continuare a pensare in modo libero, mentre, al contrario, i presupposti del sistema sono rinforzati dai limiti stessi posti al dibattito» (Noam Chomsky, Il bene comune, Edizioni Piemme, 2004). L’informazione che arriva dai cittadini è un argomento caldo [bollente se si considera che, ribadiamo, «nulla avviene più e nulla avverrà più senza la relativa registrazione fotografica»: spontanea nella propria essenza, estesa e ramificata nella concretezza delle infinite possibilità del telefonino/computer multimediale]. Anche in Italia, alla fine dello scorso anno, qualche vestale della deontologia professionale ha riflettuto e argomentato, un po’ timoroso e un po’ indignato, sull’utilizzo da parte di tutti i giornali dell’immagine dell’attentato di Londra del precedente luglio, scattata con un telefono cellulare con funzioni fotografiche dal privato cittadino Alexander Chadwick.
27
Ma è veramente questo che mette in pericolo il lavoro dei “professionisti”? Probabilmente, l’uomo ha spesso la capacità di non vedere quali sono i veri problemi. Lello Piazza
DA L’UNITÀ Ferdinando Camon commenta fotografie di odio diffuse dalle agenzie di stampa in relazione alla situazione che questa estate ha contrapposto l’esercito israeliano alla popolazione libanese (per colpire gli Hezbollah). Il riferimento principale è proprio sulla ferocia che traspare da queste immagini, a margine delle quali fa capolino la questione della immancabile presenza di telefonini. Sotto l’occhiello La foto, l’argomento è stato avviato in prima pagina dell’Unità del quindici agosto, per proseguire in pagina interna: Un’istantanea di odio (a pagina 27). Ieri abbiamo visto per la prima volta cos’è questa guerra del Libano. Non sui tg, ma sui giornali. È corsa infatti una breve scelta di foto, duetre, una più disumana dell’altra, e la più disumana di tutte non è apparsa da nessuna parte, è rimasta online. In quelle pubblicate si vedono palestinesi che uccidono un palestinese, ma in massa, tutta una folla, tutta partecipante al sacrificio umano, con slancio, con vitalità. Il massacrato non è morto, ma è morente. In una foto uno dei palestinesi massacratori sta tirando un calcio sul corpo, collo-testa, del massacrato. Ha la posizione del calciatore quando tira una punizione, ha concentrato la potenza nel piede che sta sferrando il colpo, e tiene un braccio allargato, proprio come colui che tira il calcio di rigore. Intorno (ecco cosa fa di questa foto una foto storica) la folla preme, fa cerchio, si stringe, tutti sbirciano, e molti tengono il telefonino davanti all’occhio e scattano la foto. Palestinesi che uccidono un palestinese, infieriscono sul quasi-vivo o quasi-morto, e vogliono conservare quel ricordo per sempre: è l’apice della loro vita, la loro vita è sempre miserabile-perdente, ma in quel momento, mentre massacra un fratello, è gioiosa-trionfante.
28
Quando sugli oceani si scatena un ciclone, gli americani sganciano in aria aerei speciali, super-caccia, col compito di scoprire “l’occhio del ciclone” e fotografarlo. La foto servirà per capire quanta forza si carica in quel punto, come ruota su se stessa, come si scarica in basso, a capovolgere le imbarcazioni e sradicare le case. Queste foto-ricordo che i palestinesi scattano al fratello bastonato, scalciato e fucilato dai fratelli, servirà per mostrare a tutti coloro che le vedranno, fra anni o decenni, quanto odio, quanta vendetta corre in questa guerra, come si scarica, su chi, con quale furia, con quale istinto o sapienza, che poi in guerra sono la stessa cosa. Tutto questo dà “soddisfazione”. Ieri correva anche un’altra foto, che chiameremo della fucilazione: il massacrato è sempre a terra, ma stavolta è sdraiato su un fianco, il che fa supporre che lungo il rito del sacrificio il corpo è rotolato su se stesso; lo vediamo di schiena, e ha le mani unite e accostate alle caviglie, che son tirate in su; probabilmente, le mani son legate tra loro, e tutt’e due alle caviglie. Una vittima così disposta la mafia la chiama “incaprettata”. Non può, non dico scappare, ma nemmeno muoversi. Riceve i colpi così come piovono. In questa foto un fratello palestinese sta sparando sull’incaprettato: imbraccia il fucile, ha il calcio sulla spalla, il dito sul grilletto, sta mirando. Da quel che posso capire dalla foto che vedo (forse ne corrono altre), il colpo andrà un po’ più in basso della nuca, tra le scapole. Sarà un colpo mortale. Nei due secondi che noi impieghiamo a guardare la foto, l’uomo ritratto in quella foto passa dal di qua all’aldilà. Noi leviamo lo sguardo, e lui non c’è più. Non riesco a capire dove vada a situarsi un’altra foto, per fortuna non pubblicata sui giornali ma visibile in Internet, dove si vede una donna, coperta di un lungo velo bianco, che si curva a tirare, anche lei, un calcio sulla vittima. La vittima potrebbe essere ancora viva, e morire per quel calcio, ma potrebbe essere già morta, e non sentire niente di niente. Qualcosa, dentro di noi,
se lo chiede, e vorrebbe una risposta. Ma è una risposta senza importanza. Quel che importa è la motivazione di quell’atto: la donna ha avuto un figlio ucciso dagli israeliani, e quel palestinese viene ucciso dai palestinesi perché lo ritengono un informatore degli israeliani. Una spia. Un collaborazionista. Parrebbe una deviazione dalla guerra, una piega casuale, occasionale, maligna. Invece è la norma. In ogni guerra uccidiamo i nemici, ma uccidiamo anche gli alleati, e anche i fratelli. I francesi spiegano questa condizione così: «Une guerre / n’est pas une guerre / jusque le frère / n’aggresse le frère»: una guerra è una guerra quando il fratello aggredisce il fratello. In Libano c’è la guerra. L’immagine che la rappresenta non sta nella bomba che sgancia fumo e fuoco sui tetti di una città: quella è un’esplosione. Non sta nell’esercito israeliano che avanza a piedi, in fila per tre, riempiendo la strada: quella è un’avanzata. Non sta nelle ambulanze che portano via un ferito scavato dalle macerie: quello è un salvataggio. Ma sta qui: fratelli che sfracellano un fratello, e si portano via la foto, per riguardarlo e sfracellarlo anche domani, anche fra un anno, anche fra dieci: per sempre. Ferdinando Camon Didascalia alle fotografie pubblicate dall’Unità in pagina interna: «La sequenza dell’orrore: una donna, madre di un ragazzo ucciso dall’esercito israeliano nel 2002, prende a calci il corpo del supposto “collaborazionista” palestinese. Alcuni presenti fotografano la scena dell’uomo giustiziato di fronte a centinaia di persone con il loro cellulare».
DA LA REPUBBLICA A differenza, le considerazioni di Alessandra Retico, pubblicate in La Repubblica dello stesso quindici agosto, sono assolutamente e inviolabilmente lievi. Non le intendiamo in rapporto alla profonda riflessione di Ferdinando Camon appena riportata (ci mancherebbe altro), ma ne sottolineiamo, una volta ancora, la curiosa coincidenza di data. Oltre questo, nessun altro punto in comune tra i due testi, ognuno dei quali ha affrontato una ma-
Il giornalismo dei cittadini, alla portata dei telefonini con funzioni fotografiche. La Repubblica del quindici agosto annota il fenomeno, aggiornandolo con concreti riferimenti internazionali.
teria diversa, che si riunisce soltanto alla luce del nostro particolare e mirato punto di vista fotografico. Il titolo e sottotitolo già riferiti (L’invasione dei paparazzi fai-da-te e Con i telefonini rivoluzione degli scoop: si moltiplicano le foto rubate dei vip) sono presentati da un occhiello che introduce l’argomento dell’articolo: Su Internet e nelle pubblicazioni di gossip sempre più immagini inviate da persone qualunque armate di microcamere. Un rischio per la privacy. Ovviamente, più che di “microcamere” è lecito riferirsi esclusivamente alla “rivoluzione degli scoop” tramite telefonino (qui sotto). La star che fa la spesa, il politico con l’amante, la cellulite di troppo, il terremoto, il disastro. Clic. Uno scatto col telefonino, la digitale, basta poco per essere paparazzi. I giornali le comprano; non saranno granché come foto, ma fresche fresche, notizia. Vedi Zidane che fuma una sigaretta sul balcone dell’albergo, pochi giorni prima della semifinale con il Portogallo. Labbra strette sul filtro quasi a massaggiarlo, occhi semichiusi sull’orizzonte, un momento intenso. Immagine non perfetta, sgranata, da lontano. Ma che fa. Non è come la testata a Materazzi, insuperabile, però il ritratto del re contento con la sua bionda ha fatto effetto: un miniscoop. Mica perché è proibito fumare, e neanche a un campione, ma perché Zizou è stato testimonial di una campagna antitabacco nel 2002, che recitava: «Dire no si può». A beccare Zinedine, l’obiettivo di un telefonino dal palazzo di fronte. Così così per qualità, eppure l’mms l’ha comprato la Bild, il tabloid tedesco più venduto, ed è finito sui quotidiani inglesi scandalistici e non, dal Guardian all’Independent. Inquadrature alla portata
di tutti. Di tutti quelli che si trovano al posto giusto al momento giusto. Può capitare: cellulari e fotocamere digitali ci fanno un po’ tutti paparazzi, fotoreporter casalinghi e fai-da-te. Diversi giornali usano istantanee non professionali e chiedono ai lettori di contribuire. Si capisce, non sempre il fotografo laureato può stare lì dove accade l’imprevisto, mettiamo uno tsunami. Molte delle immagini del maremoto in Asia del 2004 sono arrivate proprio così, con un mms spedito da chi stava lì davanti all’onda. Pure la Cnn, tra le emittenti più tempestive sulle news, ha trasmesso, in quell’occasione, foto e video prodotti dalla gente comune. Il popolare norvegese VG e il regionale tedesco Saarbrücker Zeitung sono stati tra i primi a capire la forza della folla che guarda e racconta: hanno chiesto alla gente di collaborare alle notizie con sezioni di servizi “dal basso”. È ormai fenomeno: “giornalismo della cittadinanza”, lo chiamano. «Gli eventi importanti del futuro saranno documentati dai fotografi amatoriali», ha spiegato al New York Times Nicolaus Fest, della Bild. Perché è veloce, perché conviene: il tabloid tedesco, ai Mondiali, ha lanciato una rubrica di reportage “popolari”. Tariffe dai cinquecento ai mille euro per foto di celebrità, sportivi, politici in situazioni ad alto gusto di pubblicazione, scattate dai paparazzi dell’istante. Quelle più o meno “rubate” dei professionisti costano agli scandalistici fior di soldi. Alla Bild, tra mms ed email, sono arrivati circa mille scatti al giorno, molti buoni, fatevi il conto. «Prima la gente se vedeva qualcosa di strano o da segnalare chiamava il giornale. Ora invia messaggini. I tempi sono cambiati», ammette il direttore Christoph Simon. Più interattività e senso, appunto, di cittadinanza, di partecipazione nel raccontare il mondo. Democrazia dell’informazione, forse. Per i detrattori, la qualità ci perde e la privacy è sempre più un concetto che un diritto. Il controllo dell’uno sull’altro è orwelliano. Però le cose vanno veloci adesso, e non importa quanti particolari e quanto profondi si han-
no di un fatto, ma che la notizia ci sia e basta, un volto, una celebrità, un orrore. Kate Moss che sniffa cocaina a un party, Cecilia, moglie del ministro dell’Interno francese Nicolas Sarkozy, con un altro, Richard Attias, a New York. Diritto di cronaca o “ficcanasismo”? C’è un sito inglese, Scoopt.com, che si definisce “agenzia di giornalismo del cittadino”. Vende i servizi dei reporter della strada alle maggiori testate internazionali. Paga bene, il 50 per cento del ricavato. Il fondatore, Kyle McRae, ex giornalista freelance di tecnologie, dice che un giorno sarà tutto così, che i bloggers, quelli che tengono diari di bordo in rete, e i fotografi occasionali sostituiranno i tecnici. Schumacher che sorride, anche se è raro, non è granché come scoop. Il principe Harry con una divisa nazi o Ségolè Royal in bikini meglio. Blair che stende il bucato sullo yacht ai Caraibi (mentre il mondo è in fila agli aeroporti) fa montare gli animi. Stare lì occhi aperti, pollice sul clic, vale mille volte di più che fare un capolavoro. E se viene mossa, diceva Robert Capa, significa che è vicina. Alessandra Retico Beh, Bob Capa non diceva proprio così. Sono stati combinati assieme due suoi pensieri autonomi e indipendenti uno dall’altro: quello che se la fotografia non è efficace, vuol dire che non si era abbastanza vicini; e quello della fotografia valida anche se è leggermente fuori fuoco (e Leggermente fuori fuoco - Slightly Out of Focus è il titolo del suo diario-romanzo sulla partecipazione alla Seconda guerra mondiale, come fotoreporter, pubblicato da Contrasto; 304 pagine 16,5x20cm, 30,00 euro). La pagina di Repubblica si completa, quindi, con esempi illustrati, tra i quali qualcuno di quelli ricordati nell’articolo, e dati che definiscono il fenomeno dei telefonini in ambito fotogiornalistico, riprendendo valori segnalati nello stesso articolo. In aggiunta, la quantificazione che «Secondo un rapporto di IC Insights, entro il 2009, tre cellulari su quattro avranno una fotocamera inserita da più di un Megapixel». Uno? Saranno tanti di più! M.R.
29
DEFINITIVAMENTE DIGITALE
L
Leica, marchio storico e leggendario della fotografia, che ha tenuto alto un inderogabile princìpio di rigorosa applicazione, approda definitivamente a un programma digitale a tutto campo. Oltre le compatte, che, in questi ultimi tempi, hanno vivacizzato il mercato e la sua stessa proposizione commerciale, Leica converte all’acquisizione digitale di immagini il proprio sistema portabandiera: quella famiglia Leica M, che è esordita nel 1954 (cinquantadue anni fa!) con l’originaria M3, adeguatamente commemorata nel 1994, con l’edizione speciale M6J dei quarant’anni (FOTOgraphia, ottobre 1994), e nel 2004, con la finitura Leica M7 Titanio dei cinquant’anni (FOTO graphia, novembre 2004). La configurazione Leica M8, anticipata nei giorni immediatamente precedenti l’appuntamento con la Photokina di Colonia, dove è presentata con solenne ufficialità, declina in digitale una autentica leggenda della fotografia. Non è la prima digitale con mirino e messa a fuoco a telemetro, in innesto Leica M degli obiettivi intercambiabili (c’è già stata una precedente Epson R-D1, derivata Cosina/Voigtländer; FOTOgraphia, maggio 2004), ma questa Leica M8 è tutt’altra questione, appunto Leica, con relativo mirino-telemetro corrispondentemente leggendario. A questo proposito, e prima dello specifico digitale di questa configurazione, con quanto ne consegue, e sul quale ci stiamo per soffermare, è doveroso ricordare che la distinzione tra gli apparecchi Leica a telemetro è stata sempre semplificata in relazione all’innesto degli obiettivi intercambiabili: prima a vite, passo 39x1, poi, dalla M3, a baionetta M. Però, è ancora oggi necessario puntualizzare che con la classificazione M, nella propria progressione partita da M3 (perché poi “3”?), Leitz/Leica intese attirare l’attenzione proprio sull’innovativo mirino di ampie dimensioni: ottima visione, con rilevazione del telemetro ac-
30
coppiata al controllo dell’inquadratura. Per l’appunto, Leica M dal tedesco Meßsucher-Kamera. Si trattò e tratta ancora di un mirino estremamente luminoso, con generoso fattore di ingrandimento e cornici di inquadratura per l’angolo di campo di diverse focali (combinazioni diverse nella successione dei modelli).
M8 DIGITALE Quindi, Leica M8 ad acquisizione digitale di immagini su un corpo macchina che conferma e replica tutte le caratteristiche fondamentali della propria architettura classica a telemetro (analogica o argentica), che ha contribuito a scrivere fantastici capitoli nella storia evolutiva del linguaggio fotografico, a partire dal reportage. In particolare, si sottolinea ancora e sempre il design compatto ed ergonomico (inviolato, tanto che la M8 rivela la propria configurazione digitale soltanto per la presenza dell’ampio display LCD sul dorso; di fronte è una Leica M come le precedenti), l’elevata qualità di immagine assicurata dagli obiettivi Leica M e l’esclusiva modalità di composizione delle inquadrature è resa possibile dall’efficace mirino Leica. Proiettata in standard fotografico professionale, la Leica M8 digitale
Ecco qui. Attesa da tempo, paventata da qualcuno, sospirata da altri, la Leica M8 approda all’acquisizione digitale di immagini. Al di là delle sue prestazioni e caratteristiche, una sola perplessità personale: perché continuare il conteggio “M”? Probabilmente, anche questo sottolinea una sorta di continuità fotografica, dalle origini.
“Made in Germany” è dotata di un sensore immagine elaborato in maniera specifica per soddisfare le esigenze del sistema originario Leica M. Grazie al proprio elevato livello qualitativo e ottico, quasi tutti gli obiettivi Leica M prodotti a partire dal 1954 sono adatti alla fotografia digitale (stiamo per approfondire). La combinazione di obiettivi, sensore ed elaborazione dei dati immagine ad alte prestazioni genera fotografie di alta qualità, con una risoluzione di 10,3 Megapixel. La nuova Leica M8 impiega un sensore CCD di acquisizione dal rumore particolarmente contenuto, con una sensibilità base di 160 Iso equivalenti. La massima sensibilità raggiungibile, fino a 2500 Iso equivalenti, la rende ideale per la fotografia in luce ambiente, una delle prerogative e caratteristiche che hanno sempre identificato l’uso degli apparecchi a telemetro Leica M. Allo scopo di salvaguardare l’elevata risoluzione degli obiettivi Leica M, sul percorso immagine non è presente il tradizionale filtro antimoiré, che taglierebbe i dettagli più fini dell’immagine. Qualunque fenomeno di moiré dovesse presentarsi viene invece eliminato in fase di elaborazione dei dati digitali da par-
te del software dell’apparecchio. A seguire, la M8 offre funzioni operative particolarmente utili, quale è, per esempio, l’istogramma della scala tonale anche sulle aree ingrandite in fase di riproduzione, agevole per valutare qualitativamente l’esposizione anche sui più minuti dettagli del soggetto.
OBIETTIVI Le dimensioni 18x27mm del sensore solido CCD di acquisizione digitale di immagini della Leica M8 comporta un fattore di moltiplicazione ottica di 1,33x, adeguatamente inferiore a quello di altri sensori in uso su sistemi reflex (che si aggirano attorno 1,5x). In questo modo la trascodifica ottica è più lieve, con beneficio per le corte focali, che limitano la loro perdita di visione angolare. Nel sistema ottico Leica, il fattore 1,33x si traduce in equivalenze che slittano di circa un passo, lungo la cadenza focale. Per esempio, il grandangolare 21mm della fotografia tradizionale 24x36mm su pellicola agisce come un 28mm sul sensore digitale. In ogni caso, oltre l’esistente e la consistente storia ottica Leica M, assieme alla M8 digitale sono presentati obiettivi di focale accorciata,
utilizzabili anche con le Leica M a pellicola. In particolare, si segnala il disegno Tri-Elmar-M 16-18-21mm f/4 Asph, rielaborazione del noto trifocale 28-35-50mm (premio TIPA 1998); e poi c’è anche un nuovo Elmarit-M 28mm f/2,8 Asph (qui sotto). In tutti i casi, si ricorda e sottolinea la sostanziale compatibilità del sistema ottico Leica M, mantenuta anche nel passaggio dalla tradizionale tecnologia di esposizione ottica della pellicola a quella ad acquisizione digitale di immagini: con relative opportunità e vantaggi del mantenimento del valore nel tempo, caratteristico dei prodotti Leica. Come annotato, l’elevata precisione meccanica e ottica degli obiettivi Leica, unita alla loro alta qualità, li rende particolarmente adatti alle applicazioni digitali. Grazie a una nuova codifica a 6 bit sulla baionetta, la Leica M8 è in grado di riconoscere il tipo di obiettivo in uso (FOTOgraphia, luglio 2006). Questa informazione viene fi-
nalizzata a ulteriori miglioramenti della qualità delle immagini, a partire dalla compensazione della vignettatura, propria e caratteristica di ciascun obiettivo. Le informazioni relative al tipo di obiettivo vengono salvate nei dati Exif associati a ogni file immagine. Tutti gli obiettivi prodotti dallo scorso Primo luglio dispongono di questa codifica, che non interferisce con il loro impiego sulle attuali Leica MP e M7 (a pellicola), come su tutte le Leica M del passato, più o meno remoto. Gli obiettivi non codificati possono essere aggiornati, in modo da supportare questa funzione di perfezionamento dell’immagine offerta dalla nuova digitale. Comunque, anche senza modifiche, gli obiettivi sono totalmente compatibili con la Leica M8, naturalmente senza le nuove funzioni associate. In un corpo macchina che conferma e replica il design Leica M, la digitale M8 si riconosce a colpo d’occhio per l’ovvia assenza delle leve di avanzamento e riavvolgimento.
ALTRE FOCALI ssieme alla digitale a telemetro Leica M8, nascono anche due nuove interpretazioni ottiche che mettono a partiAgli obiettivi colare frutto la visione grandangolare sul sensore CCD di acquisizione (fattore di moltiplicazione 1,33x). Entrambi sono utilizzabili anche sul pieno formato fotografico 24x36mm. Il Leica Tri-Elmar-M 16-18-21mm f/4 Asph declina al più ampio angolo di campo l’interpretazione a tre focali, esordita con l’originario 28-35-50mm (premio TIPA 1998). In particolare, annotiamo che 16mm, e in subordine 18mm, è la più corta focale attualmente proposta dal sistema ottico Leica, che negli anni Settanta comprese la versione in proprio innesto a baionetta del (Carl Zeiss) Hologon 15mm f/8. In assoluto, tre focali estremamente grandangolari, che offrono prospettive visive di ampio respiro. L’adozione di due elementi asferici, nel disegno di dieci lenti in sette gruppi, permette una sostanziosa compattezza e assicura notevoli capacità di riproduzione delle immagini a tutte le focali e a tutte le distanze di messa a fuoco. Sul sensore digitale, la moltiplicazione focale 1,33x sposta le focali equivalenti a 21, 24 e 28mm. Mirino multifocale, accessorio opzionale. A seguire, il Leica Elmarit-M 28mm f/2,8 Asph si offre e propone come obiettivo grandangolare particolarmente compatto, dotato di prestazioni elevate. Ancora, l’impiego di un elemento asferico, all’interno della sequenza di otto lenti divise in sei gruppi, assicura una alta resa ottica a ogni distanza di messa a fuoco. I suoi centottanta grammi di peso lo qualificano come il più leggero tra tutti gli obiettivi Leica M. Sulla digitale M8, il fattore di moltiplicazione 1,33x della focale approda alla visione del 35mm della fotografia tradizionale 24x36mm, la più classica delle combinazioni della Leica M.
ALTRO La concezione particolare del mirino non reflex ha consentito di mantenere la tipica conformazione compatta e piatta delle Leica M, ma porta a una maggiore angolazione dei raggi luminosi che raggiungono il sensore. Per fare in modo di ottenere la qualità complessiva richiesta da Leica, sono state adottate particolari misure finalizzate. La configurazione del sensore immagine, dotato di microlenti disassate rispetto i pixel, evita la sgradita vignettatura verso i bordi dell’immagine. Un vetrino protettivo particolarmente sottile, ridotto a soli 0,5mm, previene i tipici e indesiderati fenomeni di rifrazione dei raggi di luce angolati. Ne consegue un’immagine ad elevato contrasto, nitida e con una fedele riproduzione dei colori fino ai bordi estremi del fotogramma. L’otturatore a tendine metalliche a controllo elettronico arriva a tempi di otturazione fino a 1/8000 di secondo, con conseguente sincronizzazione flash a 1/250 di secondo, agevole per la combinazione lampo in luce diurna (fill in). Quindi, fedele a se stessa e alla propria filosofia fotografica, la Leica M8 digitale ha un utilizzo intuitivo, che non distoglie la concentrazione dall’immagine. Il tutto, nel completo controllo degli aspetti creativi
31
della regolazione di diaframma, tempo di otturazione e messa a fuoco, che determinano il risultato fotografico. I comandi chiave per applicare le funzioni digitali sono i tasti direzionali e la ghiera di impostazione, la cui combinazione consente una rapida navigazione, con visualizzazione sul generoso monitor posteriore di 2,5 pollici.
REAZIONI Ma non è questo che conta, anche se è tutto questo che in un certo modo conta. Nel caso di Leica, il discorso digitale riaccende una serie di considerazioni parallele, alle quali solitamente evitiamo di dare fiato. Infatti, in assoluto, non si tratta di contrapporre tra loro tecnologie fotografiche diverse: diciamolo, pellicola contro acquisizione digitale (nello specifico della M8, memorizzata su card Secure Digital). Quanto, più concretamente, di valutarne sia le prerogative tecniche sia le relative proiezioni commerciali. Niente da aggiungere, quindi, per la fotografia di largo consumo, che è oggi è inevitabilmente digitale, con le proprie relative consecuzioni e conseguenze (prima tra tutte, l’abbattimento verticale, fino quasi all’azzeramento, delle copie stam-
L’ampio display LCD da 2.5 pollici è tradizionalmente collocato sul dorso della Leica M8, che ha conservato la struttura di ogni Leica M a telemetro della propria genìa.
pate su carta: con rispettivo disagio dell’intero mercato). Mentre, sono ancora legittimi altri distinguo di carattere emotivo e filosofico: la sostanza dei quali ha fatto di Leica bandiera e discrimine. Non entriamo nello specifico della inquadratura a mirino esterno e messa a fuoco a telemetro, sulle quali ci siamo spesso attardati, rilevandone l’implicito grande valore espressivo e lessicale. Ma, più specificamente, pensiamo al “popolo Leica”. Ovverosia a quel consistente e agguerrito numero di utilizzatori Leica che vengono superficialmente classificati come “tradizionalisti”, per non arrivare ad ammettere che, in realtà, sono più che altro
REFLEX QUATTROTERZI ifferente e distante dalla Leica M8, la nuova Digilux 3 è una reflex digitale a obiettivi intercambiabili che aderiDte D-Lux sce allo standard aperto QuattroTerzi, avviato e sollecitato da Olympus. Oltre due nuove compatte, rispettivamen3 e V-Lux 1 (reflex bridge), che rinnovano la particolare offerta tecnica e commerciale, la Digilux 3 avvia il terzo sistema digitale della casa di Solms (quattro, se si considera anche il dorso Digital-Modul-R per reflex Leica R8 e R9; FOTOgraphia, settembre 2004). Si tratta di un apparecchio con mirino ottico e visione dell’immagine in tempo reale su monitor. Prima dello scatto, l’anteprima a monitor permette una completa valutazione dell’esposizione, del bilanciamento del bianco e degli altri parametri relativi alla ripresa. Otticamente, la Digilux 3 accede alla gamma di obiettivi QuattroTerzi già presente sul mercato, a partire dal sistema ottico Zuiko Digital di Olympus (ne riferiamo, su questo stesso numero, a pagina 61). Sul mercato, esordisce con lo standard Leica D Vario-Elmarit 14-50mm f/2,83,5 Asph (equivalente alla variazione 28-100mm della fotografia 24x36mm; FOTOgraphia, giugno 2006), che accompagna anche la Panasonic Lumix DMC-L1 (FOTOgraphia, settembre 2006). Uno stabilizzatore di immagine integrato garantisce una protezione aggiuntiva contro il mosso indesiderato, anche nelle condizioni di illuminazione più critiche. Il nitido design modulare della reflex digitale a obiettivi intercambiabili Leica Digilux 3 è stato elaborato dal designer berlinese Achim Heine, che ha rivestito le sue solide prestazioni digitali e fotografiche: a partire dal sensore Live MOS da 7,5 Megapixel e dall’esclusivo processore di elaborazione dei dati immagine. Ampio display LCD da 2,5 pollici, con risoluzione di duecentosettemila pixel; memorizzazione su schede Secure Digital.
32
“integralisti”. Quindi, a conseguenza, la domanda è più che legittima: come reagiranno alla M8 digitale? La risposta è personale, ognuno ha la propria. Confortata da una conoscenza specifica e diretta, che oseremmo quantificare e definire approfondita, la nostra è estremamente lineare e chiara. I fronti saranno due: da una parte, ci sarà una consistente fascia di fotografi che farà tesoro delle possibilità fotografiche offerte dall'acquisizione digitale di immagini (e sarà l’indiscutibile maggioranza, ne siamo fermamente convinti); dall’altra, ci sarà anche chi approfitterà di questa inevitabile e indispensabile evoluzione tecnologica per arroccarsi e difendersi su posizioni intransigentemente a favore esclusivo della pellicola 35mm (e non saranno molti). Purtroppo, Leica non ammette l’indifferenza: non l’ha mai ammessa, vivendo sempre tra amore/tanto e odio/altrettanto. Quindi, ancora non saranno soltanto scelte personali, declinate nel proprio individuale esercizio fotografico, ma posizioni che verranno assunte anche per alimentare polemiche pretestuose: a favore e sfavore dell’una e dell’altra tecnologia. Non è questo il problema, ribadiamo e confermiamo, ma sarà questo il dibattito. Noi, non vi parteciperemo, se non per rimarcarne l’inutilità e inconsistenza. Per noi conta soltanto l’immagine e la sua forza espressiva. Non ci interessa nulla come viene realizzata, dal punto di vista di mediazione tecnica: sempre necessaria, mai sufficiente. (Polyphoto, via Cesare Pavese 11-13, 20090 Opera Zerbo MI). Antonio Bordoni
COLTA SCRIT FOTOGRAF Stazione Termini; Roma, 1959.
Federico Garolla; Milano, 1954.
34
nnotatevi questo nome: Federico Garolla. E, quindi, sottolineatelo, meglio con inchiostro colorato (rosso?!), sì da dargli l’evidenza che merita. Oggi ottantunenne, ancora alle prese con la gestione quotidiana del proprio vasto archivio fotografico, Federico Garolla è una delle tante (troppe, forse) personalità della fotografia italiana colpevolmente poco considerate dalle storiografie ufficiali, che raccontano l’evoluzione di questo fantastico linguaggio visivo nel nostro paese. Grazie a sapienti iniziative, all’interno delle quali si segnalano consistenti partecipazioni a mostre collettive (tutte con visione storica di luoghi, situazioni e personaggi) ed esposizioni personali di spessore e fascino, Federico Garolla è recentemente uscito dall’oblio, per affermare a chiare lettere e voce tonante il proprio straordinario valore.
A
Tra i tanti meriti acquisiti, la recente stagione fotografica della rievocazione storica ne ha uno in particolare, che prontamente rileviamo: quello di aver saputo guardare indietro con lucidità e intelligenza. Nello specifico, queste doti sono state applicate a una competente osservazione della fotografia italiana, che ha ripreso e dato giusto, meritato e legittimo valore a personalità fino a ieri colpevolmente dimenticate. Tra i tanti nomi, uno si alza con potenza e autorevolezza: Federico Garolla, fotogiornalista dalla fine degli anni Quaranta
Aspettando la pioggia; Motta Montecorvino, Foggia, 1958.
(pagina accanto) Tiro dei barconi; Veneto, 1956. Dal reportage Vita sul fiume Brenta.
Preparazione alla passeggiata domenicale dei ragazzi dell’Istituto Don Bosco; Napoli, 1959. Dal reportage Infanzia abbandonata.
TTURA FICA Tra tanto, come registrato anche a margine di nostre odierne riflessioni sulla nostalgia (da pagina 8), corre qui l’obbligo di ricordare sostanziose mostre personali, allestite in sollecita successione di date nel corso delle più recenti stagioni: Il mondo della moda, a cura di Antonella Russo (nell’ambito di GabicceFotoFestival, direttore artistico Nino Migliori, a cavallo tra lo scorso luglio e agosto); Reportage di Moda. Alta Moda a Roma nelle fotografie di Federico Garolla (Spazio Serra, Auditorium Parco della Musica di Roma, gennaio 2006); Italia 1948-1968. Venti anni di fotografie (con presentazione dell’omonima monografia, a cura di Giovanna Bertelli, pubblicata da Bolis edizioni; Librerie Feltrinelli di Roma e Milano, novembre 2005 e febbraio 2006); Elsa Morante nelle immagini di Federico Garolla (1956-1961), a cura di Uliano Lucas (Sala Santa Rita di Roma e Foyer del
35
Teatro Augusteo di Napoli, luglio e ottobre 2005); Volti alla moda, a cura di Giovanna Bertelli (Galleria Bel Vedere di Milano, marzo 2005); Federico Garolla (Arizona State University di Phoenix, ottobre 2004). Da una parte, lo stesso Federico Garolla ha, in qualche misura, creato i presupposti per tanta colpevole dimenticanza (ribadiamo entrambi i concetti: colpevole e dimenticanza): quando, all’alba degli anni Ottanta, accantona il reportage e la moda che l’hanno impegnato dalla fine dei Quaranta (!), per dedicarsi all’illustrazione enciclopedica, all’edizione di guide di Musei e alla fotografia di cucina. Dall’altra, è doveroso sottolineare come il suo professionismo e la sua professionalità fotogiornalistica appartengano a pieno diritto (e dovere) alla straordinaria stagione dei settimanali che hanno accompagnato la vita e la storia italiana nei decenni successivi alla Seconda guerra mondiale. In quale contesto si collocano, la sua personalità di fotogiornalista (a volte prestata alla moda: un’alta moda ambientata in avvolgenti esterni delle città d’arte italiane) e la sua capacità di racconto (che si è manifestata in notevoli e non comuni servizi pubblicati da testate autorevoli e prestigiose)? Soprattutto, occorre rilevarlo, in una interpretazione fotografica costruita su una solida cultura individuale: non nozionismo di date, persone e luoghi, ma fon-
36
data e solida materia attraverso la quale esprimere inquadrature dirette, composizioni di immediata decifrazione, resoconti in forma fotografica che hanno alimentato, assieme a una identificata schiera di altri autori parigrado, una irripetibile stagione del fotogiornalismo italiano, in capace equilibrio tra la cronaca del giorno e la testimonianza in profondità. A questo punto va rilevato come non sia certo per caso che Federico Garolla è significativamente e consistentemente presente nelle più accreditate retrospettive, che da qualche tempo stanno attraversando il nostro paese, dando peso, valore e sostanza a una fotografia italiana che dalle relative cronache si è proiettata a testimonianza viva e palpitante di una concreta storia nazionale. In particolare,
escludendo le rievocazioni di personaggi (per esempio, Pier Paolo Pasolini): La motocicletta italiana. Un secolo su due ruote tra storia, arte e sport (Fondazione Antonio Mazzotta di Milano, dall’ottobre 2005); Il fotogiornalismo in Italia 1945-2005. Linee di tendenza e percorsi, a cura di Uliano Lucas (Palazzo Bricherasio di Torino, settembre 2005; Museo di Storia Contemporanea di Milano, dal prossimo novembre, ne riferiamo da pagina 47); AnniCinquanta. La nascita della creatività italiana (con quaranta immagini, a cura di Cesare Colombo; Palazzo Reale di Milano, dal marzo 2005); Milano, la fabbrica del futuro. Il rinnovamento di una metropoli del Novecento (Spazio Oberdan di Milano, dal marzo 2004). In questa sede va rilevata e rimarcata la natura e sostanza della fotografia di Federico Garolla, per i cui approfondimenti biografici e critici rimandiamo a due sostanziose edizioni librarie, entrambe curate da Giovanna Bertelli: Italia 1948-1968. Venti anni di fotografie (Bolis Edizioni, 2005) e Volti alla moda (catalogo all’omonima esposizione alla Galleria Bel Vedere di Milano, 2005). Come abbiamo appena annotato, la fotografia di Federico Garolla appartiene a un tempo e un ambiente giornalistico entro il quale si sono mossi fotografi di «solida cultura individuale», che si è tradotta in una attenta visione della società, rappresentata in
Collezione primavera-estate di Emilio Schuberth, indossata dalla modella Harriette Jones; Milano, 1955. [Ai tempi, la fotografia è stata rifiutata dalla rivista Bellezza perché il cavallo sullo sfondo risultava mosso (?!)]. L’indossatrice Sophie Malga all’Arco di Trionfo; Parigi, novembre 1952. Collezione primavera-estate di Vito; Isola dei Pescatori, Lago Maggiore, 1954. (pagina accanto) Le sorelle Fontana nell’Atelier di piazza di Spagna; Roma, 1953. Indossatrici durante una pausa di lavoro; Trani, 1953.
37
Il regista e attore Vittorio De Sica nella Galleria del Chiatamone; Napoli, 1961.
Il regista del neorealismo italiano Pietro Germi all’osteria; Roma, aprile 1956.
38
immagini capaci di agire su un doppio binario coesistente: alla mente e al cuore dell’osservatore (diciamo del pubblico dei giornali dai quali i servizi fotografici sono stati originariamente commissionati, e sui quali sono stati pubblicati). È, non soltanto è stata, una fotografia di concreta visione e documentazione, come anche una fotografia, simultaneamente, di emozione; soprattutto nel caso e in presenza di personaggi pubblici, dalla letteratura e cultura (ai tempi osservate con avida attenzione) al cinema (in un divismo d’altra epoca e consistenza). In momenti nei quali tutto, non solo tanto, andava inventato, fotogiornalisti del calibro di Federico Garolla hanno addirittura creato un linguaggio: quello di una fotografia italiana che meriterebbe sollecita e diligente considerazione internazionale (ma è un problema di poteri economici e culturali, ancora latitanti nel nostro paese). Tra l’altro, sebbene in molti ambiti Federico Garolla venga oggi individuato e indicato anche come fotografo di moda, oltre che raffinato fotogiornalista, bisogna rilevare un sottile distinguo. Certo, le sue fotografie di moda sono incantevoli: sia quanto lo sono gli abiti dell’alta moda che ha sapientemente raffigurato, sia in relazione alla sua capacità di fare necessità virtù. «Quando tutto andava inventato», Federico Garolla ha portato le modelle per strada, dove ha applicato i canoni del fotogiornalismo per costruire e realizzare situazioni in pertinente equilibrio tra la vita reale e il sogno evocato. A livello internazionale, Richard Avedon è celebrato per questa fotografia di moda degli anni Cinquanta: e l’attribuzione, come appena rilevato, dipende dall’assenza della fotografia italiana dal palcoscenico internazionale. Date alla mano, Federico Garolla ha realizzato fotografie di alta moda in esterni con sostanzioso anticipo temporale. Ma non è di questo che occorre parlare, quanto, rientrando prontamente nel percorso, evidenziare il distinguo annunciato. Oltre che nella generica fotografia di moda, Federico Garolla ha particolari ed esclusivi meriti in quella che potremmo definire “fotografia di atelier”. È all’interno di questi autentici laboratori di creatività applicata che, nell’intensità degli anni Cinquanta, ha realizzato mirabili racconti, trasferendo al pubblico atmosfere e visioni inedite, che
mai prima di allora avevano varcato la porta di ingresso (e relativa uscita). Gli atelier di Valentino, Salvatore Ferragamo, delle sorelle Fontana, di Jole Veneziani, di Emilio Schuberth, di Antonelli, di Angelo Litrico sono stati fotografati tra il lavoro, la presen-
Prove in teatro del regista Luchino Visconti con l’attrice Ilaria Occhini; Roma, 1957.
L’attrice Anna Magnani in piazza Pio XI, sul set dell’episodio La famiglia del film Made in Italy di Nanni Loy; Roma, 1965.
tazione dei modelli, le visite del jet-set e momenti di rilassata intimità. In quegli anni, Federico Garolla ha confezionato e messo insieme una serie fotografica che non ha eguali al mondo, e che da sola basterebbe a incoronarne la personalità d’autore. Però, non sarebbe legittimo farlo, perché risulterebbe riduttivo limitarsi a un solo aspetto di una poliedrica capacità espressiva. Diciamolo con franchezza, con la franchezza che tanta onestà fotografica merita (senza peraltro esigerla): senza costringerci e comprimerci in etichette e definizioni prestabilite, Federico Garolla è un fotografo a tutto campo. Con maestria e capacità fuori del comune è passato attraverso molteplici generi applicati. Ma, in definitiva, è sempre stato un autentico fotogiornalista: la vocazione non mente mai. Lo è stato, come ci siamo dilungati, quando ha affrontato l’alta moda. Lo è stato, quando ha disegnato incantevoli ritratti di personaggi del cinema, della cultura e della società. Lo è stato, quando è passato alle più cadenzate sessioni di cucina e documentazione d’arte. Lo è stato, perché è. Maurizio Rebuzzini
I fotografi della redazione del settimanale Le Ore (anni Cinquanta); da sinistra, in senso orario: Franco Fedeli, Federico Patellani, Giancolombo, Federico Garolla e Paolo Costa.
39
Sara Dominici, 31 anni, architetto: creativa, innamorata della fotografia, alla sua prima esperienza con il Nikon Life Team. catturata. E lei ha catturato il Messico, con la sua nuova Nikon D80.
L'ottica a corredo Nikkor AF-S DX 18-70 mm è la
Un duro anno di lavoro, mille appuntamenti, giornate in
anche il soggetto più lontano sarà a portata di mano!
cantiere a seguire i lavori, disegni, progetti… ma finalmente
Talvolta bastano pochi elementi, semplici forme, per generare
le vacanze sono arrivate.
immagini ricche di fascino. Importante è far lavorare la propria
Ad ospitarmi sarà la terra del sole e dei colori: il Messico.
fantasia, mettere la creatività al servizio delle capacità tecniche;
Il viaggio è lungo, così colgo l’occasione per mettere a punto
un pizzico di passione e tutto prende forma.
la mia compagna di viaggio: la nuova Nikon D80.
Grazie alla velocità dell’autofocus ed al fulmineo
Sarà lei il diario, la tela su cui dipingerò i magnifici ricordi
motore AF-S delle mie ottiche, nulla mi sfugge: gli
di questo tanto sospirato viaggio. Controllo la carica della
animali, il movimento dei bambini… ora ogni
batteria, formatto le card e inizio ad addentrarmi nel suo
situazione è “a fuoco”.
menù. Colorato, facile, intuitivo. La sua forma, il suo
Giorno dopo giorno, il mio viaggio prende forma; la praticità,
design: tutto è estremamente ergonomico.
la versatilità di utilizzo e la velocità della mia compagna
Con le doppie ghiere posso variare i tempi e i diaframmi
mi permettono, scatto dopo scatto, di congelare indelebilmente
senza distrarmi dall’inquadratura, il mirino luminoso mi
il sorriso dei bambini, le geometrie delle case, spiagge
informa costantemente su tutti i parametri di scatto.
paradisiache, fiori di incredibile bellezza e i colori dei manufatti
compagna ideale per il reportage di viaggio, la sua gamma focale permette di realizzare paesaggi e ritratti con la stessa elevata qualità. Inoltre con il mio nuovo obiettivo tele Nikkor AF-S VR 70-300 mm completo la gamma delle focali, così
artigianali. Premetto di non essere una fotografa professionista, ma sono proprio soddisfatta dei risultati. La sera in hotel riguardo gli scatti nell’ampio e luminoso monitor LCD; con la funzione zoom osservo i minimi particolari, i colori sono davvero saturi e anche il dettaglio è perfettamente inciso. La cosa sbalorditiva è che con la Nikon D80 posso, qualora sia necessario, migliorare le immagini direttamente “on camera”. La libertà di scatto del digitale amplia veramente le mie possibilità, l’immediatezza dei risultati e la sicurezza di portare a casa ciò che voglio. E’ la prima volta che mi sento realmente in piena sintonia con una macchina fotografica, l’estrema intuitività delle funzioni mi rende padrona delle sue potenzialità e permette di esaltare la mia creatività e il desiderio di fotografare divertendomi. Nikon D80 ha una risposta ad ogni esigenza e il suo completo sistema di ottiche, flash e accessori rende davvero possibili risultati che credevo appartenessero solo al mondo dei fotografi professionisti.
P
resente e attivo nel mondo della fotografia non professionale, soprattutto in quella componente che fa esplicito riferimento alle manifestazioni che mantengono viva l’attenzione pubblica (festival e lettura portfolio, sopra tutto), Silvio Canini è un autore che più e meglio di altri esprime una chiara, pregevole e stimabile personalità. Da tempo, questo mondo fotograficamente non professionale si sta dibattendo in complesse ricerche espressive di richiamo dichiaratamente letterario e/o filosofico, cui corrispondono immagini cupamente introspettive, quasi che certi affanni esistenziali richiedano altrettanto ansia e angoscia visiva. Al contrario, e in controtendenza, Silvio Canini mantiene uno sguardo formalmente leggero. Attenzione: formalmente leggero. Le sue produzioni fotografiche raggiungono lo spessore di significati profondi, ne stiamo per scrivere, senza bisogno di passare attraverso raffigurazioni inquiete. Silvio Canini osserva i riti dell’esistenza con occhio e fotografia lievi nella forma, quanto efficaci e vigorosi nella sostanza. In stretta attualità temporale, la sua più recente serie Mare di silenzio, raccolta in monografia da Damiani Editore, arriva a seguito di altre rilevazioni fotografiche, analogamente realizzate nel proprio immediato circondario, sia fisico sia emotivo.
AUTORE In questo senso, senza richiamare in causa altre produzioni fotografiche dell’autore, realizzate in geografie e situazioni lontane (ma non è lo spazio che fa la differenza, quanto la capacità di vedere, non soltanto guardare), Silvio Canini arriva al Mare di silenzio, immediatamente dopo due altre serie che l’hanno proiettato in avanti, facendone iscrivere il nome nel qualificato novero dei fotografi di statura. Come già scritto, è un «autore che coglie quell’attimo che trasforma uno scatto in arte fotografica» (in FOTOgraphia dello scorso settembre, in occasione della presentazione della sua mostra alla Galleria Bel Vedere di Milano). E questo, ribadiamolo, lo si è ben visto e assaporato con la raccolta Vendi-
Serie fotografica di Silvio Canini, raccolta in volume da Damiani Editore. La forma di Mare di silenzio è presto rivelata: litorale romagnolo d’inverno, coperto da un inconsueto manto di neve. La sostanza non è univoca, e ciascuno ha tempo e modo di leggere secondo proprie intenzioni. Il suono del silenzio dipende dall’anima
SUONO tori d’ombra del 2002 (Aiep Editore) e con l’installazione audiofotografica Zero del 2000, recentemente riproposta alla Libreria Feltrinelli di Firenze (dopo il primo allestimento originario alla Rocca Malatestiana di Montefiore Conca, in provincia di Forlì). Venditori d’ombra è stata, ed è, una disincantata visione del litorale romagnolo nel pieno della propria messa in scena estiva. Con l’attenta applicazione delle prerogative visive della Fotografia Holga, della quale abbiamo scritto in molte occasioni, a partire dalla prima, originaria presentazione di questo fenomeno espressivo dei nostri giorni (FOTOgraphia, febbraio 1998), Silvio Canini ha rappresentato i riti e cerimoniali della vacanza (a tutti i costi?), offrendo concreti e tangibili elementi di riflessione: individuale, come anche collettiva e sociologica. Una volta ancora, potere e magia della buona fotografia, realizzata non tanto per raccontare un effimero presente, quanto per consegnare la vita al ricordo. Accompagnato da un audio che ne riprende il clima e tema, in diciotto immagini, il bianconero di Zero riporta i primi giorni della vita del figlio. Questo in sovrastrato; quindi, nell’approfondimento personale, ciascuno può aggiungere significati e valenze (si dice così). Ma, tutto sommato, bastano già l’intenzione e il coinvolgimento emotivo che l’installazione richiama e suggerisce: è già tanto.
ANCORA HOLGA Anche le fotografie di Mare di silenzio sono state realizzate con la Holga, questa volta senza metterne in scena le caratteristiche formali del fotogramma, evanescente soprattutto verso i bordi del campo inquadrato, solitamente soffici e inconsistenti. Per quanto non vincoliamo mai il gesto fotografico alla propria mediazione tecnica (necessaria, mai sufficiente), riferendoci a questa serie di Silvio Canini sentiamo l’obbligo di sottolineare lo stretto legame che intercorre tra tecnica e creatività, là dove e quando il mezzo si presta e adatta alla declinazione di un ricercato linguaggio espressivo. Soprattutto, prima ancora di annotare il soggetto (spiagge romagnole d’inverno, coperte da un inconsueto manto di neve), ribadiamo il senso e valore di un gesto fotografico, che pur nella leggerezza e libertà favorita dall’essenzialità tecnica Holga, applica i canoni di un concreto e consapevole linguaggio fotografico. Come ricordato in altre occasioni, la consecuzione fotogra-
42
fica può sempre riferirsi a quell’espressione di André Kertész che suona così: «Io credo che devi essere un perfetto tecnico per esprimere te stesso come vuoi. Allora puoi scordarti della tecnica». Nella sequenza del rapporto tra il linguaggio fotografico e i propri mezzi, che parte dall’idea dell’istantanea ripresa con l’apparecchio portato all’altezza dell’occhio, per approdare alla posa ragionata dell’apparecchio grande formato su treppiedi (con il rito magico dello châssis), bisogna aggiungere la deviazione della fotografia espressiva che rifiuta i connotati tipici della stessa fotografia: la sua idea di nitidezza, minuziosa leggibilità e concentrata qualità formale. Ben applicata da Silvio Canini in modi e tempi legittimi (in un modo per il precedente Venditori d’ombra, in un altro per l’attua-
le Mare di silenzio), la Fotografia Holga è esattamente il contrario di questo, nella coscienza di essere tale: ovverosia il contrario. Tutte le sue presunte deficienze tecniche si assommano all’idea di puntare e scattare, senza altra preoccupazione se non quella -pure secondaria- dell’accomodamento su una delle tre possibili distanze di messa a fuoco (peraltro sostanzialmente approssimative). L’ipotesi è quasi eretica, nella propria provocazione, ma non lontana dal vero. Fotografare con la Holga equivale a pensare alla maniera di quegli autori che hanno fatto linguaggio dell’intuizione e folgorazione nel riconoscimento di istanti di vita: si punta l’obiettivo su quanto colpisce l’attenzione, si inquadra e si scatta senza altri pensieri tecnici, ma con la sola concentrazione concettuale ed espressiva. Non conta più il rapporto formale
DEL SILENZIO
43
con le linee diritte, con i toni di grigio perfettamente scanditi, con l’efficace distribuzione di luci e ombre, con una impeccabile sapienza cromatica. Contano altri valori, che dall’animo di ciascun autore arrivano direttamente all’osservatore.
SILENZIO D’INVERNO Sotto la neve, che da quelle parti non deve proprio essere di norma, come sottolinea il titolo della serie fotografica di Silvio Canini, il litorale romagnolo precipita in un autentico silenzio, che è appunto un Mare di silenzio. Sono lontani i frastuoni dell’estate, ma qui se ne percepiscono le tracce, i segni caratteristici. Da una parte, c’è l’estate della famiglia, con giochi di bambini e rituali di vorace alimentazione; dall’altra, c’è l’estate giovane e giovanile, che finalizza le ore di spiaggia all’organizzazione della notte. Nel silenzio, abbagliati da questo candido bianco, che tutto copre e tutto rende omogeneo, l’altro e altrui frastuono pare lontano, pare impossibile. Ma qui, nostra lettura personale (a ciascuno, la propria), i suoni del silenzio sono più presenti che nella re-
44
Il silenzio, così come il rumore, è un’invenzione della mente: diciamola anche così. Il rumore presuppone partecipazione (e il paradosso è sempre lo stesso: se un albero si abbatte in una foresta deserta, dove nessuno ne può percepire lo schianto, fa rumore?); il silenzio richiede anima. Silvio Canini, «autore che coglie quell’attimo che trasforma uno scatto in arte fotografica», ci ha messo la sua. Ognuno, sintonizzi la propria. Angelo Galantini
lativa realtà d’estate. Li sentiamo, perché noi vogliamo sentirli. Oltre il reale, li selezioniamo e distribuiamo a piacere, come meglio crediamo. L’autore Silvio Canini apparentemente non parla: ma con queste immagini dice molto, e noi riusciamo ad ascoltare. Non siamo costretti a sentire ciò che altri vorrebbero farci sentire, ma scegliamo e inventiamo a nostro piacere e secondo nostre sole intenzioni. Se ci garba, e non è detto che ci garbi sempre, l’altalena e i giochi dell’infanzia si animano di strilli e gioie; altrimenti, nostra volontà, possiamo andare oltre, mantenendo il silenzio promesso e distribuito dall’autore. Ancora, nell’aria percepiamo un’eco residua di motivi dell’estate, ma scegliamo di quale estate, su una lunghezza d’onda totalmente personale. Oppure, ci può bastare la sensazioni dello scricchiolio del passo leggero che interrompe l’omogeneità del manto nevoso. Ma anche immaginiamo la quantità di corpi che in stagione danno vita a questi luoghi. Per quanto possiamo essere anche abitudinari, non torniamo negli stessi luoghi solo per il senso di sicurezza che ne deriva, ma per l’immancabile e continuo fascino della scoperta.
Oltre i dati tecnici, che riportiamo in chiusura, l’edizione libraria di Mare di silenzio di Silvio Canini richiede un ulteriore commento. Nella messa in pagina, la sequenza delle immagini è inframmezzata da citazioni che sottolineano intenzioni dell’autore. È questo un modo per indicare un percorso, lungo il quale ci si può sintonizzare; oppure, ognuno trovi un proprio spazio e ritmo: il suono del silenzio è questione assolutamente individuale. Mare di silenzio, fotografie di Silvio Canini; prefazioni di Claudio Cerritelli e Cristina Paglionico. Damiani Editore, 2006 (via Zanardi 376, 40131 Bologna; 051-6350805; www.damianieditore.it, info@damianieditore.it); 72 pagine 24x24cm, cartonato; 25,00 euro.
45
xää\Ê«Õ â >Ê i ½ >} i Ì }À>wÊiÊ À Û >ÌiÊ `>Ê «>ÀÌ Vi iÊ ` Ê « ÛiÀiÊ Ê >Ãà >Ê Ì `iââ>Ê ` } Ì> i¶Ê >VV iÊ` Êë ÀV Ê Ê ½iÃV ÕÃ Û Ê ÌÀ Ê-Õ«iÀà VÊ7>Ûi¶Ê >} ÊÃi «ÀiÊ `>ÊÀ Ì VV>ÀiÊ ÊÎx°äääÊÛ LÀ>â Ê> ÊÃiV ` Ê«iÀÊ«Õ ÀiÊÕ Ê
Ê`>ÊnÊ Ê ` Ê« Ýi ¶Ê ÊÌiÊ >ÊÃVi Ì>°Ê xääÊ" Þ «ÕÃÊ -ÞÃÌi ]ÊV «>ÌÌ>ÊiÊ i}}iÀ>]Ê
Ê Þ«iÀ ÀÞÃÌ> Ê`>ÊÓ°x»ÉÈ°{V ]ÊÌiV } >Ê+Õ>ÌÌÀ /iÀâ ÊiÊ> « >Ê}> >Ê` Ê L iÌÌ Û Ê `i` V>Ì Ê <1 "Ê / °Ê 6 à Ì>Ê Ê Ã Ì Ê ÜÜÜ° Þ «Õð Ì°Ê -Vi} Ê Ê ÌÕ Ê À V À` ° xää
GIORNALISMOF OTOGRAFICOINIT ALIA(1945-2005) Irrinunciabile appuntamento espositivo, che si allunga nel tempo e spazio con l’edizione di un coincidente volume-catalogo. A cura di Uliano Lucas, Il fotogiornalismo in Italia 1945-2005 è esattamente ciò che il titolo dichiara di essere: una approfondita analisi di sessant’anni di fotografia di informazione (e formazione?), realizzata con sapiente individuazione di Linee di tendenza e percorsi. Non una fotografia di superficie, isolata in se stessa, ma una concentrata ricostruzione del fotogiornalismo in tutte le proprie componenti, nell’esplicito riferimento al proprio uso sui giornali, potere politico ed economico compreso
Alfa Castaldi: Al bar Giamaica; Milano, circa 1956. [Attenzione: nel quartiere attorno la Pinacoteca di Brera, frequentato da artisti, negli anni Cinquanta e Sessanta il bar Giamaica (oppure Jamaica) fu una sorta di quartier generale della disinvolta “scapigliatura” milanese, formata da pittori, scultori, scrittori e fotografi. Un’epoca irripetibile].
47
Evaristo Fusar / L’Europeo: Incontro di catch tra Primo Carnera e “l’uomo mascherato”; Parigi, 1958.
Federico Garolla [su questo numero, da pagina 34]: dal reportage Infanzia abbandonata; Istituto Don Bosco di Napoli, 1959.
48
R
ispetto l’edizione originaria, presentata nell’ambito dell’Undicesima Biennale Internazionale di Fotografia di Torino (a Palazzo Bricherasio, nel settembre 2005, mostra promossa dalla Fondazione Italiana per la Fotografia), l’allestimento milanese di Il fotogiornalismo in Italia 1945-2005. Linee di tendenza e percorsi si amplia, con l’aggiunta di materiale che riguarda specificamente vicende del capoluogo lombardo: al Museo di Storia Contemporanea, dal prossimo due novembre. Allo stesso tempo e momento, il consistente catalogo, che è poi preziosa testimonianza che sopravvive all’esposizione degli originali, include un ulteriore saggio del sociologo Aldo Bonomi, che si aggiunge ai testi di Uliano Lucas e Tatiana Agliani, straordinario commento/complemento alla ricca sequenza di immagini, Piero Berengo Gardin, il cui Fotografia, televisione e altre visioni offre una attenta combinazione sociale tra il racconto giornalistico e le influenze della televisione (appunto), e Carlo Cerchioli, che con Dall’analogico al Web analizza la più recente trasformazione, non soltanto logistica, del fare fotogiornalismo. Al pari di altri analoghi racconti storici, alcuni di sguardo internazionale, altri di concentrazione nazionale, questo Il fotogiornalismo in Italia 1945-2005 presenta e vanta una diversa personalità, subito rivelata dal quel sottotitolo Linee di tendenza e percorsi che definisce e disegna l’autentica differenza. In assenza di altri approfondimenti, che ormai da tempo mancano alla fotografia italiana, in particolare all’essenza del fotogiornalismo, il curatore Uliano Lucas, a propria volta fotogiornalista di prima grandezza, non ha compilato soltanto una insipida cronologia, ma ha autenticamente approfondito l’argomento. In particolare, non si è limitato alla sola e conse-
guente raccolta di fotografie in quanto tali, che pure compongono l’ossatura della mostra e del relativo catalogo, ma ha ripreso la sostanza dei giornali che hanno fatto fotogiornalismo nel nostro paese. Ancora, la sequenza non è soltanto temporale, ma è soprattutto analizzata, commentata e approfondita. Così che, l’allestimento espositivo, insieme agli intensi testi a commento, risponde a una infinita serie di domande, che dalla superficie delle pagine (non sempre patinate) arrivano alla sostanza e fondamento di tante altre motivazioni che
hanno guidato, come anche condizionato, il fotogiornalismo italiano, dal dopoguerra ai nostri giorni. Non è tanto presa in considerazione la qualità formale delle singole testate, anche se la relativa messa in pagina sottolinea le intenzioni del giornale (e dei propri referenti di potere), quanto la collocazione delle redazioni all’interno di una informazione che giocoforza risponde prima di altro a interessi politici, economici e sociali. Quindi, Il fotogiornalismo in Italia 1945-2005 non fa mistero di quel “potere” (quinto potere) che definisce e identifica il giornalismo, al quale il fotogiornalismo ha fornito declinazioni visive in sintonia di intenti: in relazione e dipendenza delle esigenze e richieste della committenza. Per questo, la sua attenta ricostruzione affronta il fotogiornalismo in ogni propria componente, fino ad indagare a fondo quelle linee di tendenza e quei percorsi che nel trascorrere degli anni e dei decenni sono stati tracciati da professionisti della comunicazione visiva e testate sulle quali hanno pubblicato le proprie fotografie. Non immagini a sé, come abbiamo già annotato, ma soprattutto immagini in relazione ai relativi utilizzi e in relazione alle vicende politiche, economiche e sociali del nostro paese.
OLTRE LA SUPERFICIE Per certi versi, la comune paternità impone un riferimento tra l’attuale affascinante viaggio allestito da Uliano Lucas -la cui personalità imporrebbe anche il discorso sulla capacità di certi fotografi di vivere l’immagine oltre le proprie superficialità ufficiali- e quello che lo stesso Uliano Lucas ha realizzato nel 2004 per Einaudi: L’immagine fotografica 1945-2000, ventesimo volume dell’opera enciclopedica Storia d’Italia. Per quanto fotogiornalisticamente ricca, questa Immagine fotografica è omnicomprensiva, e abbraccia l’intera espressione della fotografia a trecentosessantagradi; mentre, Il fotogiornalismo in Italia 1945-2005 è, per l’appunto, mirato. Però, attenzione, entrambe le selezioni, così tanto diverse nelle intenzioni, hanno un punto in comune eloquente e indicativo: quello dell’immagine fotografica mai estranea al mondo che documenta e testimonia e al quale si rivolge. Con questo, nell’una e nell’altra opera, rileviamo la completa assenza di un punto di vista cattedratico: quello delle parole estetizzanti, spesso estranee alla concretezza che la fotografia richiede e della quale dovrebbe essere alimentata. Entrambe le selezioni sono esplicite e dirette, e affrontano la fotografia per ciò che realmente è, nella propria costituzione e nel proprio relativo rapporto con il pubblico. La discriminante individuata e sottolineata, che distingue le parole solo critiche (di lode o biasimo, secondo i casi) dall’analisi contestualizzata, non è poca cosa. Anzi, come spesso rileviamo, è esattamente vero il contrario. Per quanto ognuno -critico etereo o curatore cosciente di legami e consecuzioni- compia il proprio dovere, quello della visione e osservazione composta, completa dei propri riferimenti storici e sociali (oltre che politici ed econo-
Federico Patellani: dal reportage Vita di minatore, per il settimanale Tempo; Carbonia (Cagliari), 1950.
Numero 8 del settimanale Vie Nuove (20 febbraio 1964; originale a colori). Grafica di Albe Steiner.
mici, data la materia del fotogiornalismo) ci pare decisamente più meritevole e, in questo caso, degna della massima attenzione. Ciò che distingue, separandoli, i due esami, uno critico della superficie, l’altro approfondito ai contenuti e alle successioni implicite (ma non sempre esplicite), è il punto di vista dal quale ciascuno parte. E il punto di vista è diretta conseguenza delle diverse estrazioni culturali. La critica fotografica appartiene soprattutto al gesto dell’esecuzione (fotografica); spesso è pu-
49
Mario Dondero: Il gioco degli sguardi; Parigi, 1955.
ramente teorica, in un modo che non presenta alcun contatto con l’uso dell’immagine e il proprio peso politico, nel caso del fotogiornalismo, una volta che viene utilizzata dalla stampa secondo intenzioni “a monte”. Occorre ammettere che spesso questo si traduce nell’incapacità concreta di comprendere e presentare determinate problematiche. A differenza, l’analisi a tutto tondo, che considera l’immagine non come elemento asettico, a sé stante, ma come parte di un processo sociale, culturale e politico, escogita strategie e metodi di osservazione appropriati. Vincolati come siamo all’osservazione fenomenologica della fotografia, tutte queste sono idee che ci fanno esprimere con termini che di solito non usiamo, che ci suscitano diffidenza. Ma in questo caso, la precisazione e distinzione si è sostanzialmente imposta.
FOTOGIORNALISMO Nel proprio tragitto espositivo, adeguatamente ripreso e riproposto sulle pagine del catalogo che accompagna la mostra, sopravvivendole nel tempo e spazio, Il fotogiornalismo in Italia 1945-2005 ripercorre una storia che, a conti fatti, è fotografiL’Europeo numero 2 dell’11 gennaio 1968. Fotografia di Gianfranco Moroldo [ FOTOgraphia, aprile 1995].
50
ca per necessità, ma nel concreto è storia di una nazione, osservata attraverso gli accadimenti che dalla cronaca quotidiana si sono proiettati in avanti. Si possono anche dibattere le scelte del curatore Uliano Lucas, e la discussione sarebbe bene accetta, ammesso e non concesso che di concreta fotografia ancora si parli nel nostro paese. Però, pur preventivati legittimi distinguo, non è possibile non apprezzare la concretezza di una visione che, va riconosciuto, non si è limitata al già noto e risaputo, ma ha dato spazio e tempo a giornali che la memoria collettiva sta dimenticando e a fotografi mai inclusi nelle storiografie ufficiali: quelle che da tempo osserviamo con motivata diffidenza. Tanto fotoreportage minimo, estraneo ai consorzi che ormai detengono la parola sulla storia della fotografia italiana (troppo spesso limitata a poche e identificate personalità), compone un corpus che racconta lungo un binario doppio. Da una parte, il soggetto principale (ma non unico) è giusto Il fotogiornalismo in Italia dal secondo dopoguerra; dall’altra, il complemento riguarda, come annotato, il potere politico ed economico dell’editoria periodica italiana, che ha espresso interessi di classe senza soluzione di continuità. Dove sta la verità del fotogiornalismo? Se dovessimo citare in grande, potremmo riferire ancora una volta l’opinione di W. Eugene Smith, universalmente riconosciuto e identificato come il fotogiornalista per eccellenza e antonomasia, al quale si è riferito l’impegno sociale di generazioni successive di fotografi di tutto il mondo: «Usate la verità come unico pregiudizio». Ma la verità, qualsiasi presunta verità, non è universale. Ed ecco che la sequenza allestita da Uliano Lucas rivela esattamente questo, con un tragitto storico disegnato attorno tante verità, ognuna dipendente da altrettanti pregiudizi e indirizzi. Proprio per questo, la corrente storia del fotogiornalismo italiano è fondatamente e genuinamente tale, storia, proprio per questo: per la sua inquadratura entro i legami del potere, politico ed economico, che hanno definito l’utilizzo della fotografia nel giornalismo. Soprattutto, la sequenza definisce con lucidità dove e in che modo la stampa periodica ha indirizzato le proprie visioni, prontamente riportate al relativo pubblico. Tra le pieghe di tanto, se un’amarezza individuale ha diritto di ospitalità, si può rivelare come il panorama del giornalismo italiano si sia via via culturalmente impoverito. Per quanto nei decen-
ni lontani le differenze politiche siano state forse più profonde di quelle che identificano le attuali testate in edicola, non possiamo non rilevare che c’è stato un tempo (appunto lontano) caratterizzato, definito e identificato da fini intellettuali, capaci di esprimere pensieri e opinioni definitive. A differenza, oggi i periodici non rispondono più a un dovere di informazione, ma si configurano come contenitori di annunci pubblicitari: referente primario, prima ancora dell’ipotetico lettore. Se serve sottolinearlo, lo rivelano le combinazioni di vendita, che ormai promuovono le testate in relazione agli inevitabili allegati e non per i propri contenuti giornalistici. Oppure, annotazione parallela, lo testimonia il fatto che, negli ultimi mesi, una celebre casa editrice italiana ha assunto un certo numero di manager (per il marketing) e nessun nuovo giornalista. Non sappiamo cosa, ma qualcosa questo significa.
TENDENZA E PERCORSI Curiosamente, corre annotarlo una volta ancora e una di più, le idee volano nell’aria e vengono espresse in modo analogo, senza essenziali punti in comune. In coincidenza di osservazione, l’uno con respiro internazionale (e, dunque, volo più alto e leggero sulla storia), questo di Il fotogiornalismo in Italia 1945-2005 con esplicito e concreto riferimento al nostro paese, il racconto fotografico allestito da Uliano Lucas coincide, nella propria sostanza e con i dovuti distinguo locali, con quello di Things As They Are - Photojournalism in Context Since 1955, l’approfondita analisi sul fotogiornalismo internazionale realizzata in occasione dei cinquant’anni del World Press Photo (FOTOgraphia, aprile 2006). Nell’uno e nell’altro caso, l’analisi contestualizza le fotografie nei relativi propri contesti giornalistici; in entrambi i casi, la successione temporale degli anni viene scandita dal ritmo delle trasformazioni sovrastanti della società. In relazione alla celebrazione allestita, Things As They Are - Photojournalism in Context Since 1955 è scomposta in cinque decadi, ognuna delle quali identificata da un proprio motivo conduttore; ne abbiamo riferito (in libera traduzione): 19551964, Quando gli illustrati sono stati grandi; 1965-1974, Gli anni del Vietnam; 1975-1984, Eroi e antieroi; 1985-1994, L’ordine del nuovo mondo (Il nuovo ordine del mondo?); 1995-2004, Affermazione del fotoreporter-artista.
Senza vincoli di cadenza ritmata, Il fotogiornalismo in Italia 1945-2005 individua analoghe e concrete Linee di tendenza e percorsi, che il testo introduttivo di Uliano Lucas e Tatiana Agliani commenta con colta consapevolezza (non senza richiami a una doviziosa serie di rimandi di ulteriore approfondimento e/o chiarificazione). È giocoforza ripetere l’idea che abbiamo già riferito all’edizione di Things As They Are - Photojournalism in Context Since 1955: anche Il fotogiornalismo in Italia 19452005. Linee di tendenza e percorsi è un (catalogo) volume da non perdere. Bisogna averlo. Bisogna fare tesoro della sua visione e del suo racconto. Secondo l’attento punto di vista del curatore Uliano Lucas, sette capitoli in successione definiscono il tragitto, che -ancora curiosamente- approda alla stessa conclusione della citata visione internazionale (senza contatti preventivi, considerata la sostanziale simultaneità, a distanza geografica e operativa, delle due retrospettive). In ordine: Cronaca, reportage e grafica nell’immediato dopoguerra: il giornalismo italiano scopre la fotografia (datiamo, con legittima approssimazione, a tutta la seconda metà degli anni Quaranta); Dall’informazione all’intrattenimento: il nuovo corso della fotografia degli anni Cinquanta (con estensione sul decennio); La fotografia come denuncia e libertà: i freelance degli anni Cinquanta (straordinaria e ammirevole visione, comprensiva di figure e situazioni ignorate dalla storiografia ufficiale); Una lezione inascoltata: il “giornalismo totale” di “Le Ore” e “Vie Nuove” (settimanali popolari di sostanzioso e sostanziale impegno sociale); Boom economico: un nuovo modello di vita (controversi anni Sessanta); Il fotogiornalismo della contestazione: cronaca e reportage (stagione che dalla fine dei Sessanta si è estesa al decennio successivo, influenzando tutta la fotografia so-
Copertine illustrate con ritratti realizzati da Chiara Samugheo.
51
Uliano Lucas: Emigrante davanti al palazzo della Pirelli; Milano, 1968.
Duilio Pallottelli / L’Europeo: New York, circa 1960.
52
ciale e umanistica nel nostro paese); Creatività o omologazione? La fotografia giornalistica nell’era postmoderna (per se stessa, analisi allineata con quella che è stata internazionalmente individuata come Affermazione del fotoreporter-artista). In aggiunta, l’allestimento al Museo di Storia Contemporanea si allunga con il capitolo “cittadino” Metamorfosi di una città: Milano e le sue rappresentazioni. Quante visualizzazioni costruiscono questo tragitto? In origine trecentosessanta pannelli di dimensioni medie 40x50cm, inframmezzati da generosi ingrandimenti (gigantografie) che danno ritmo all’allestimento scenico della mostra Il fotogiornalismo in Italia 1945-2005. Linee di tendenza e percorsi; sul catalogo, invece, la messa in pagina risponde ad altre esigenze di lettura e decifrazione consequenziale. L’allestimento al Museo di Storia Contemporanea
di Milano arriva a quattrocento soggetti. Quali immagini ed esempi di impaginazione giornalistica? Qui non facciamo nomi, né indichiamo testate. Da una parte, rischieremmo clamorose dimenticanze; dall’altra, non pensiamo che sia necessario entrare in questo dettaglio. Per quanto indicativa dello spessore della ricerca, una minuzia di presentazione non aggiungerebbe valore all’insieme della selezione, che si afferma per il proprio consistente apparato e per la propria autorevole visione. Ripetiamolo e ribadiamolo: una doppia storia, che corre in parallelo. La cronaca fotogiornalistica è qui significativa del proprio essere, della propria realtà, del proprio riferimento al potere politico ed economico che gestisce l’informazione, così come, per conseguenza, racconta l’Italia dal dopoguerra. Nessuna leziosità, nessun compromesso, nessuna assenza (ad esclusione delle defezioni di chi non ha concesso i propri materiali fotografici). Ma solo competenza, lucidità di visione e presentazione, voglia di capire e far capire. Anche questo, oppure proprio questo, è giornalismo. Maurizio Rebuzzini Il fotogiornalismo in Italia 1945-2005. Linee di tendenza e percorsi. A cura di Uliano Lucas. Museo di Storia Contemporanea, via Sant’Andrea 6, 20121 Milano; 02-76006245; www.museidelcentro.mi.it. Dal 2 novembre al 7 gennaio; martedì-domenica 14,00-17,30. Volume-catalogo con testi critici di Uliano Lucas, Tatiana Agliani, Piero Berengo Gardin, Carlo Cerchioli e Aldo Bonomi; 28,00 euro. ❯ Nell’ambito della mostra si svolge un convegno sulle Nuove tecnologie del fotogiornalismo. Al momento non si conosce la data: riferirsi al Museo.
DI FOTOGRAFIA
ARTE A
THE MORGUE (INFECTIOUS PNEUMONIA), 1992; YORK)
CIBACHROME, SILICONE, PLEXIGLAS
(COURTESY DELL’ARTISTA E
DI
PAULA COOPER GALLERY, NEW
rtista che, pur senza essere fotografo, impiega il mezzo fotografico per creare i propri lavori (ammissione e certificazione diretta dell’autore), Andres Serrano è una delle più controverse figure dell’espressione visiva contemporanea, identificato e etichettato in tante maniere. Di certo è che le sue opere hanno suscitato scandalo, consenso, emozione; il suo spirito d’artista concettuale ha (ri)creato attimi di realtà-raffigurata difficili da dimenticare. Ci soffermiamo sulla sua personalità d’autore, alla luce di una
consistente mostra esposta in una sede pubblica di assoluto prestigio: quel PAC-Padiglione d’Arte Contemporanea di Milano, che in genere è rigorosamente selettivo nelle proprie scelte. Destina le proprie sale con accuratezza e compostezza, selezionando tra le espressioni d’arte consolidate, e non certo lanciandosi in spericolate avventure. Quando ha aperto alla fotografia effettivamente tale, lo ha fatto con consapevolezza; ma il caso di Andres Serrano non appartiene, come appena sottolineato, alla fotografia, ma di fotografia l’artista fa uso per la propria espressione. A cura di Oliva María Rubio, da metà ottobre, per un mese e mezzo, Il dito nella piaga (trascrizione dell’originario El dedo en la llaga) presenta una selezione di sessanta lavori, significativi dell’espressione artistica di Andres Serrano, che -dobbiamo confessarlo- raramente ci ha convinti personalmente, e altrettanto di rado interessato, distanti come siamo da questo modo di rivelare i propri percorsi concettuali. Uso della fotografia a parte, che riguarda altri dibattiti e intendimenti (ne riflettiamo a margine, riferendone in un riquadro pubblicato sulla pagina accanto), non siamo mai riusciti a condividere mol-
54
te delle raffigurazioni di Andres Serrano, genericamente identificate come provocatorie. Quindi, quelle più lievi ci lasciano indifferenti: e qui ci permettiamo di valutare la combinazione fotografica, linguaggio al quale affideremmo altri contenuti. Comunque, va detto, il percorso espressivo dell’artista è coerente con se stesso, ben accettato e glorificato sia dalla critica ufficiale (soprattutto d’arte), sia da una consistente considerazione da parte dei collezionisti (loro pure, soprattutto d’arte). Dal punto di vista logistico, il passaggio italiano di questa mostra è inserito nell’ambito della Seconda edizione della Giornata del Contemporaneo (quattordici ottobre), promossa dall’Associazione dei Musei d’Arte Contemporanea Italiani (Amaci) con il patrocinio del Ministero per i Beni e le Attività Culturali - Dipartimento per i Beni Culturali e Paesaggistici - Direzione Generale per l’Architettura e l’Arte Contemporanee (Darc). Dal punto di vista culturale, la mostra dà spazio (pubblico) e visibilità a un artista visivo che ha fatto linguaggio della provocazione, volontaria e ricercata. Oltre questa immagine che Andres Serrano dà di sé, le più approfondite annotazioni critiche (d’arte e di fotografia) sottolineano come la sua opera appaia complessa e ricca di sfumature. Genio ribelle per eccellenza, «l’autore esprime severi giudizi sulla società contemporanea, in sottile dicotomia che sottende le sue immagini fotografiche, patinate e perfette, scioccanti e trasgressive, rifiutando le finzioni del mondo attuale e illustrandone i turbamenti interiori e le manie».
PERFEZIONE FORMALE Dagli esordi, agli inizi degli anni Ottanta, le fotografie di Andres Serrano (New York, 1950) rappresentano i temi più controversi e polemici del convulso mondo nel quale viviamo. Soprat-
PAULA COOPER GALLERY, NEW YORK) DI
(COURTESY DELL’ARTISTA E CIBACHROME, SILICONE, PLEXIGLAS
1984; VACA,
CABEZA DE
Per quanto il mondo ufficialmente fotografico lo corteggi, con le sue controverse opere lo statunitense Andres Serrano non si riferisce al linguaggio della fotografia. Tanto è vero che si presenta (testualmente) come «artista concettuale con una macchina fotografica». Ma fotografiche sono le sue visioni, anche solo per necessità. Quindi, per quanto l’indirizzo espressivo sia diverso, in una certa misura quest’azione appartiene anche alla fotografia, magari in subordine alle intenzioni primarie dell’autore, pardon artista. Ergo, è doveroso registrare la consistente mostra Il dito nella piaga, esposta in un prestigioso indirizzo (d’arte): il PAC-Padiglione d’Arte Contemporanea di Milano
tutto la religione, il fanatismo, la corporeità, la xenofobia, la malattia e la morte sono stati oggetto della sua meticolosa attenzione, che ha prodotto una identificata serie di immagini, come Bodily Fluids, The Morgue, Nomads, Ku Klux Klan, The Church. Al di là delle controversie e polemiche (che non sono mai mancate, le une e le altre), nelle intenzioni dell’autore, l’attuale selezione riflette la densità, profondità e complessità della realtà umana, mettendo, per l’appunto, Il dito nella piaga. Quanto si presenta come forma di provocazione, e così è accolta, si manifesta come una vocazione (lo rileva la critica d’arte): «quella di trattare temi e problematiche che ci riguardano come esseri umani attraverso immagini che si distinguono, inoltre, per la propria bellezza: componente essenziale del lavoro di Andres Serrano. Attraverso la bellezza, l’artista intensifica la tensione che seduce lo spettatore con il fascino proibito dei temi tabù. Di fatto, Andres Serrano ha confessato che il suo obiettivo come artista è sempre stato quello della bellezza: “Credo che sia necessario cercare la bellezza anche nei luoghi meno convenzionali o nei candidati meno insospettabili. Se non incontro la bellezza, non sono capace di scattare alcuna fotografia”».
CONCETTUALMENTE
P
rima o poi, chissà dove, quando e con chi, oltre che perché, bisognerà pur affrontare un certo dibattito attorno la fotografia, per arrivare a distinguere definitivamente il proprio linguaggio espressivo (fotografia per se stessa e in se stessa) dall’espressione artistica che parla e agisce con la fotografia (concettuale e non soltanto). Non si tratta tanto di stabilire gerarchie, ci mancherebbe altro, quanto di identificare il senso dell’immagine, che risponde e si riferisce a un ambito, piuttosto che a un altro. A ciascuno, il proprio. Queste considerazioni sono d’attualità in presenza di un autore (così diciamo dal mondo fotografico), che esplicitamente si presenta e offre come «artista concettuale con una macchina fotografica». Ovvero di una personalità che non si richiama a una storia evolutiva lineare del linguaggio fotografico, ma mette in scena intenzioni concettuali che si esprimono con il mezzo fotografico. L’eventuale dibattito è complesso e sfaccettato, anche perché l’azione di Andres Serrano va distinta, ne siamo convinti, da quella degli artisti concettuali di inizio Novecento, il cui gesto fotografico dipendeva dichiaratamente dall’azione esplicita (e non solo implicita) della fotografia. Insomma: in luogo, tempo giusti, e con interlocutori adatti, è una stimolante discussione da affrontare. Dove, quando, con chi e perché?
55
PAULA COOPER GALLERY, NEW YORK) DI
(COURTESY DELL’ARTISTA E CIBACHROME, SILICONE, PLEXIGLAS
PROVOCAZIONE ESPLICITA Muovendosi sulla sottile linea che separa il sacro e il profano, il morale e l’immorale, il lecito e l’illecito, l’opera di Andres Serrano ha evitato i limiti del puro decorativismo. Travalica i confini del permissibile -tanto nell’ambito personale quanto in quello sociale-, per adescare e sorprendere gli
56
AMERICA (THOMAS BUDA, HAZMAT CHEMICAL BIOLOGICAL WEAPONS RESPONSE TEAM), 2002;
L’efficacia delle sue immagini trova riscontro nei meccanismi formali ed espressivi della pubblicità: il ricorso a una illuminazione dichiaratamente caravaggesca, i colori accesi, la precisione dei titoli, e, soprattutto, l’uso di un linguaggio breve, ma sempre eloquente. Tecniche di lavoro che Andres Serrano ha appreso lavorando, ventenne, in una agenzia pubblicitaria, e che oggi gli permettono di esprimersi in forma diretta e avvolgente. Tuttavia, nonostante l’impeccabile formalismo delle sue inquadrature, l’artista non ha un interesse specifico per il processo fotografico. Piuttosto, è un formalista che si identifica fortemente con la tradizione e i grandi maestri della pittura barocca, definendosi un artista religioso del passato con idee contemporanee. Le sue composizioni sono rigorose e i simboli allegorici appaiono in ognuna delle sue serie fotografiche. Costruisce elaborati tableaux, che adottano la qualità e il virtuosismo manierista dei grandi dipinti seicenteschi, che presenta in stampe fotografiche convenzionali di dimensioni relativamente grandi, tra cinquanta e ottanta centimetri di base. Andres Serrano non censura mai le sue fotografie e non scende mai a compromessi.
CELEBRAZIONI ITALIANE
P
rima dell’attuale allestimento al prestigioso PAC-Padiglione d’Arte Contemporanea di Milano, Andres Serrano è stato esposto in numerose sedi italiane. Sopra tutte vanno citate le mostre realizzate dalla Galleria Photology (via della Moscova 25, 20121 Milano): The Interpretation of Dreams, nell’autunno 2001, e una personale, all’inizio del 2004. Quindi, è significativo (dell’arte) l’inserimento di Andres Serrano in Orizzonti, progetto triennale di Achille Bonito Oliva, presentato a Forte Belvedere di Firenze nell’estate 2003. Infine, limitando all’indispensabile le nostre segnalazioni, non si ignori la serie Via Crucis. Un viaggio tra il sacro e il profano. Un ambiente di contrasti, adeguatamente messo in scena nella Chiesa Sconsacrata di Santa Marta di Roma, nell’ottobre 2002. Tra tutto, va poi sottolineata la partecipazione di Andres Serrano alla Seconda edizione di La generazione delle immagini, avvincente ciclo di conferenze a cura di Roberto Pinto e Marco Senaldi per il Comune di Milano - Settore Giovani. Svolto nell’ambito del tema di quell’anno Sguardi planetari, l’incontro alla Triennale di Milano è stato registrato ed è disponibile in cassetta Vhs (la si può rintracciare in Rete, dove è proposta in diversi cataloghi d’arte; magari anche in Dvd?): qualcuno la data 7 novembre 1995, altri posticipano al diciassette novembre. Ma la sostanza non cambia: è la riproduzione fedele della conferenza tenuta dall’artista newyorkese. Un assaggio: «[...] Fondamentalmente mostrerò delle diapositive, ne parlerò, ne parlerete voi, ne parleremo insieme, quindi potrete rivolgere domande in qualsiasi momento. [...] Vi mostrerò una panoramica cronologica dei miei lavori, partendo dal 1983. [...] «Questa si intitola Cabeza de vaca, cioè Testa di mucca [a pagina 55], che era il nome di un esploratore spagnolo del Quindicesimo secolo. Come vedete, nei miei primi lavori c’è una disposizione che è simile a quella dei quadri; c’è uno sfondo, ci sono dei primi piani, è una cosa che considero molto tradizionale. [...]. «Domanda: [...] Vorrei sapere se l’occhio è stato spostato artificiosamente da te in modo tale che sembri guardare chi osserva il quadro? «Andres Serrano: Sì, in effetti l’ho spostato io; non solo, ma l’ho dovuto anche ripulire, perché era piuttosto sanguinolento. Ho piegato all’interno le ciglia, perché erano troppo lunghe. «Domanda: C’è un motivo particolare per cui l’hai fatto? «Andres Serrano: Intervengo sulle fotografie per renderle più belle possibili, e perché penso alla gente che guarderà la fotografia». [...] «Questo è il famoso Cristo. È del 1987. A questo punto ero passato da una fase astratta a una figurativa. Per me è stato logico riunire in quest’immagine le due differenti direzioni che avevo seguìto fino a quel momento, ossia il lavoro con i fluidi e il lavoro religioso che avevo svolto in precedenza. Questa fotografia è stata denunciata, non solo da alcuni fondamentalisti, ma anche da una serie di senatori che si proponevano di eliminare questo genere di arte. Da ex cattolico, da persona pervasa dal sentimento di appartenenza a una religiosità, il mio intento non poteva essere eversivo. In effetti, piuttosto che distruggere le icone, le immagini esistenti, io cerco di creare le mie icone. «Domanda: Cosa vuol dire quando un’immagine viene “denunciata”, non può più essere vista? Non può più essere esposta al pubblico? Cosa accade? «Andres Serrano: Quest’immagine non è mai stata censurata, non mi è mai stato proibito mostrarla. Con questa denuncia ne hanno solo accresciuto il valore di un centinaio di volte; e comunque sono stato ostacolato, direi ostracizzato quando l’anno scorso ho chiesto un sussidio e, nonostante avessi la benedizione del comitato responsabile, mi è stato rifiutato. Nonostante il fatto che questo Cristo stesse diventando lo stendardo politico che rimbalzava tra destra e sinistra, io tentavo di estraniarmi da questo gioco, di allontanarmi da questa disputa».
spettatori, mettendoli a confronto con immagini che, come primo impulso, farebbero chiudere gli occhi, se non fossero presentate in modo bello e pittorico. Come anticipato, Andres Serrano si propone come artista (testuale, «artista concettuale con una macchina fotografi-
(COURTESY MARELLA GALLERY, MILANO / PECHINO) CIBACHROME, SILICONE, PLEXIGLAS
THE CHURCH (FATHER FRANK, ROME), 1991;
ca»): e con ciò ribadiamo la sua estraneità all’azione fotografica, applicata e finalizzata soltanto come mezzo espressivo necessario (ma non sufficiente), senza altre frequentazioni di linguaggio. Come in tutta l’arte concettuale, le sue opere dipendono più dalle informazioni extravisuali che dalla rappresentazione, qualsiasi sia, di un soggetto esplicito. Le sue sono astrazioni, che suggeriscono viaggi individuali e percorsi condivisi, ai quali la fotografia (per necessità) offre soltanto spunto d’avvio. Statunitense di origine latina, il padre è immigrato dall’Honduras, la madre è afro-cubana, educato a un rigoroso cattolicesimo, appartiene alla generazione artistica che rivolge le proprie attenzioni alle questioni primarie della natura umana. L’abbiamo appena annotato, ma la ripetizione si impone: sesso, religione e razzismo, sopra tutto. Presente sulla scena internazionale dell’arte dagli anni Ottanta, all’indomani di una formazione scolastica al Brooklyn Museum of Art School (seconda metà degli anni Sessanta), si è presto imposto per le tinte forti delle proprie costruzioni e visioni. Dopo un esordio con composizioni di pezzi di carne macellata grondanti di sangue, si è avvicinato a costruzioni formalmente geometriche e monocromatiche, nelle tinte del rosso, giallo e bianco: sangue, urina e latte, a suo dire i simboli della vita. Si è soliti raccontare che la sua notorietà sia legata a un episodio particolare, che ne ha sancito la statura di provocatore (subito adottato dalla critica d’arte). Ne riferiamo rapidamente: durante una riunione del Senato statunitense, il 18 Maggio 1989, il senatore Alphonse D’Amato ha stracciato in aula la sua immagine di Piss Christ (fotografia in rosso di un crocifisso immerso nell’urina dell’artista). Oltre a consacrare Andres Serrano, quel lontano gesto aprì un dibattito nazionale sulla libertà di espressione attraverso l’arte, che coinvolse addirittura il National Endowment of the Arts. In particolare, fu messa in discussione l’azione stessa dell’agenzia federale (finanziata dai contribuenti) a sostegno degli artisti, invitata a non devolvere risorse a coloro i quali (come Andres Serrano) disprezzano esplicitamente i valori della società entro la quale agiscono e alla quale si rivolgono (e dalla quale traggono aiuti economici). In conclusione, il National Endowment of the Arts inserì una clausola di “anti-obscenity” nella propria guida di riferimento alla concessione di sostegni economici agli artisti. A seguire, forte anche delle luci della ribalta accese sulla sua personalità espressiva, le opere di Andres Serrano si sono rivolte al ritratto in scala naturale, a partire dalla serie originaria Nomads (senzatetto incontrati nelle stazioni della metropolitana newyorkese), allestita in ambiti che ne hanno sottolineato la personalità espressiva più reale della realtà rappresentata. La successiva serie The Morgue si è materializzata in ingrandimenti cibachrome di grandi dimensioni, rappresentanti cadaveri ripresi in primissimo piano, particolari di corpi, una mano, un torso, inseriti in contesti talmente neutri da riuscire a distrarre l’attenzione dal soggetto, per elevarla a una considerazione puramente estetica (continuiamo a riferire annotazioni critiche che hanno accompagnato le esposizioni). I dettagli sono attentamente curati, i colori purissimi, ma i corpi sono veri, talmente veri da sembrare finti. Con A History of Sex (1996), Andres Serrano ha quindi esplorato l’identità sessuale di alcune categorie di persone che non vengono comunemente immaginate come “sessuate”, come gli anziani e i disabili. Nell’autunno 1997, con un misto di cu-
riosità e stupore, si è interessato al mondo delle donne che si dedicano al body-building. Ancora, nel 2001 ha realizzato The Interpretation of Dreams, esposta prima in Europa e poi negli Stati Uniti (alla Galleria Photology di Milano, nell’autunno 2001): ritratti e scene costruite per rappresentare una galleria di sogni, incubi, fantasie. Nonostante la forte connotazione personale e idiosincratica, «le immagini riconducono ad archetipi culturali e psico-sessuali di derivazione freudiana» (virgolettato da attribuire alla critica d’arte). In questo caso, l’impostazione delle immagini si basa sulla ritrattistica dello star system, ma l’enfasi è posta sulla diversità, sulla deformità. L’artista si addentra nell’indagine delle paure inconsce e delle divisioni sociali e razziali che si legano alle ansie generate dalla fisicità del corpo umano. Ne emerge una collezione di fantasmi che mantengono il consueto carattere di preponderante realismo. In ogni caso, il pensiero di Andres Serrano è esplicito, peraltro è reso ulteriormente esplicito dallo stesso artista: «Nel mondo dei sogni non c’è un sopra e un sotto, un giusto e uno sbagliato. È in questo spirito che ho creato il mio lavoro. Per me, l’arte ha un obbligo morale e spirituale, che rifiuta qualunque tipo di finzione e parla direttamente all’anima». Tant’è. Angelo Galantini Andres Serrano: Il dito nella piaga. A cura di Oliva María Rubio. PAC-Padiglione d’Arte Contemporanea, via Palestro 14, 20121 Milano; 02-76009085, fax 02-783330; www.comune.milano.it/pac. Dal 14 ottobre al 30 novembre; martedì-domenica 9,30-19,30, giovedì fino alle 21,00.
57
MOMENTI DI CINEMA
S
Sabato quattordici ottobre, alle 18,00, inaugura un nuovo spazio espositivo di Roma, che prende il nome dalla propria ubicazione: Galleria Cedro26, vicolo del Cedro 26, a Trastevere. La mostra d’apertura, in cartellone fino al dodici novembre, si sintonizza con il Primo Festival del Cinema di Roma, promosso e voluto dal sindaco Walter Veltroni, notoriamente grande appassionato di cinema (appunto). La selezione a tema Momenti di cinema. Uno sguardo intimo dietro le scene (dall’originario Cinema Moments. An Intima-
te Look Behind the Scenes) riunisce e presenta immagini che lo statunitense Douglas Kirkland, di origine canadese, ha raccolto in cinquant’anni di carriera sui set cinematografici di tutto il mondo. Sono fotografie inedite, mai esposte prima, che l’autore ha selezionato dal proprio capace archivio con il dichiarato intento di mostrare momenti magici, surreali, privati e irripetibili. La mostra è stata curata e prodotta dalla moglie Françoise. Come sostiene lui stesso, e come ha pubblicamente ribadito alla fine
Nei giorni di lavorazione di Caccia alla volpe (After the Fox; regia di Vittorio De Sica), Peter Sellers con la moglie Britt Ekland si sono prestati a questa raffigurazione del fotogiornalismo rosa, stile paparazzo; Roma, 19 agosto 1965. Jeanne Moreau in Messico, durante le riprese di Viva Maria; maggio 1965.
58
dello scorso novembre, in occasione della cerimonia di consegna del Primo LuccaDigitalPhotoFest Award, con relativa serata di gala con proiezione pubblica dei suoi lavori (FOTOgraphia, febbraio 2006), Douglas Kirkland ha avuto la possibilità e fortuna di lavorare con i personaggi più importanti e noti dell’industria cinematografica di Hollywood e Cinecittà. Attori, registi, produttori, direttori della fotografia, tutti ormai passati alla storia e diventati leggende. Qualcuno, addirittura mito (evitiamo di soffermarci, una volta di troppo, sulla combinazione Una notte con Marilyn, degli inizi della sua folgorante carriera fotografica; FOTOgraphia, dicembre 2002). È entrato nel mondo del cinema e lo ha esplorato da un punto di vista privilegiato, ne ha fatto parte ed è riuscito a cogliere, oltre l’ufficialità e il lavoro professionale quotidiano, lampi di svago, divertimento, tensio-
COLLEZIONE PERMANENTE oppio indirizzo fotografico. La neonata Galleria CeDbinadro26, nell’omonimo vicolo in Trastevere, a Roma, abl’allestimento di mostre con l’offerta di collezioni fotografiche. In avvio, sono proposte due diverse collezioni, unite tra loro dall’attenzione allo spazio, all’ambiente in cui vive l’uomo. In questo ambito fotografico, gli segnalano le vedute di Roma, nella Collezione dedicata interamente alla città, e i luoghi del mondo, nelle immagini degli autori che la Galleria rappresenta in esclusiva per l’Italia. Quindi, Cedro26 offre molteplici possibilità di approccio al mondo della fotografia e del collezionismo fotografico: la fotografia ricordo, oggetto d’arredo della Collezione Roma, e la fotografia d’autore, pezzo d’arte numerato, frammento della visione fotogiornalistica del mondo della Collezione arte fotografica. Le immagini, a tiratura illimitata, sono una caratteristica produzione di Cedro26, nei cui locali sono sempre visibili queste due collezioni permanenti. ❯ Collezione Roma è un insieme di immagini sulla città, particolari e vedute d’insieme. Stampate su tela e montate in cornici di legno, le fotografie diventano finestre con vista sulla Roma storica e contemporanea: via Appia Antica, l’Auditorium di Renzo Piano, San Pietro dal Gianicolo, il Palatino, Castel Sant’Angelo e Ponte Milvio, tra le altre. La Collezione è caratterizzata dalla varietà di formane. Il dietro-le-quinte, motivo conduttore dell’attuale selezione Momenti di cinema, è un mondo familiare per Douglas Kirkland: qui, e in tale rilassatezza, stabilisce rapporti di amicizia e confidenza con i propri soggetti e si muove in piena libertà. Anche fuori dal set, la sua particolare partecipazione emotiva con i soggetti e la propria relativa aura crea contesti cinematografici. In questi istanti, in questi momenti, in questa atmosfera, Douglas Kirkland chiede ai protagonisti di recitare per il suo personale “film”, tanto da far diventare i suoi ritratti vere e proprie situazioni filmiche. Tra i tanti, è il caso della posa di Peter Sellers (peraltro appassionato fotografo; FOTO graphia, aprile 2004), che interpreta un plausibile o improbabile paparazzo: fate voi (pagina accanto). Attenzione, però, a non limitare il proprio sguardo, la propria partecipazione soltanto a queste fotografie. La condivisione di Douglas Kirkland con il mondo cinematografico, del quale la selezione Momenti di cinema presenta e offre uno sguardo particolare e mirato, è generale e
ti e dimensioni: panoramici (da 30x90 a 40x270cm, sia verticali sia orizzontali); quadrati (da 40x40 a 130x130cm); inquadrature tradizionali (da 60x80 a 110x160cm). Inoltre, alcune immagini sono suddivise in diverse tele e possono essere scomposte e ricomposte sulla parete a proprio gusto. Sono opere leggere e facili da trasportare, anche nel caso delle dimensioni maggiori, c’è la possibilità di smontarle e arrotolarle. ❯ Collezione arte fotografica presenta un gruppo di autori, fotogiornalisti di livello internazionale: Alberto Giuliani, Giovanni Del Brenna, Jeff Jacobson, Thomas Meyer, James Whitlow Delano. Ognuno è presente in Galleria con serie di immagini stampate su carta fotografica di alta qualità. Il comune denominatore delle diverse serie è lo spazio: urbano, nel lavoro di Giovanni Del Brenna, che ha osservato le metropoli di tutto il mondo; sconfinato e ironico, nelle fotografie sugli Stati Uniti di Jeff Jacobson; condiviso e quotidiano, per il tedesco Thomas Meyer; onirico e poetico, nelle immagini di James Whitlow Delano di Kashmir, Giappone, Cina [FOTOgraphia, settembre 2005]; emotivo e ricco di contrasti, nell’Argentina di Alberto Giuliani. Galleria Cedro26, vicolo del Cedro 26, 00153 Roma (Trastevere); 06-58335299, anche fax; www.cedro26.it, info@cedro26.it.
globale. Mirabili sono le sue fotografie di scena, straordinari e coinvolgenti i suoi posati. Uno l’abbiamo presentato recentemente: è il ritratto del regista James Cameron, che dal set di Titanic aderisce alla campagna sociale Milk Mustache (FOTOgraphia, maggio 2006); un’altra serie l’amiamo per motivi assolutamente privati e personali: è quella dell’attore Peter Falk negli inconfondibili panni del tenente Colombo, le cui sceneggiature conosciamo praticamente a memoria (a ogni replica del telefilm, in qualsiasi istante accendiamo il televisore, identifichiamo la puntata nell’arco di tre secondi massimi!). [Attenzione, annotazione parallela. Il primo episodio della serie Colombo, in origine Columbo, quello che potrebbe essere conteggiato come “pilota” (ma forse, il “pilota” è un altro), intitolato Murder by Book, in italiano Un giallo da manuale, è stato diretto da Steven Spielberg, allora venticinquenne. Siamo nel 1971, anno in cui il regista diresse anche il televisivo Duel, arrivato nei cinema italiani, che viene considerato il suo primo autentico film].
Brigitte Bardot dietro-le-quinte di Viva Maria; Messico, maggio 1965.
Tornando a Douglas Kirkland e alla sua selezione Momenti di cinema, che dà avvio alla Galleria Cedro26 di Roma, occorre ancora riferire la sua presenza fotografica sui set di oltre cento film (da Butch Cassidy a La mia Africa, da Titanic a Moulin Rouge), nel cui ambito ha realizzato immagini che sono diventate autentiche icone. Tra le sue monografie, segnaliamo Light Years, Legends, Body Stories, Una notte con Marilyn (FOTOgraphia, dicembre 2002) e il best seller Titanic. Tra i premi più recenti, Lucie Award for Outstanding Achievement in Entertainment Photography nel 2003, LuccaDigitalPhotoFest Award nel 2005 (FOTOgraphia, febbraio 2006), The Golden Eye of Russia e Life Time Achievement Award nel corrente 2006. A.G. Douglas Kirkland: Momenti di cinema. Uno sguardo intimo dietro le scene. A cura di Françoise Kirkland. Ingrandimenti realizzati con stampante HP Photosmart Pro B9180. Galleria Cedro26, vicolo del Cedro 26, 00153 Roma (Trastevere); 06-58335299, anche fax; www.cedro26.it, info@cedro26.it. Dal 14 ottobre al 12 novembre; lunedì-giovedì 14,00-20,00, venerdì e sabato 14,00-22,00. L’autore Douglas Kirkland è presente all’inaugurazione, sabato 14 ottobre, 18,00. Le fotografie sono in vendita.
59
spliciti e intriganti riferimenti numerici. Nato con l’originaria E-1, in proiezione sostanzialmente professionale (FOTO graphia, luglio 2003), il sistema reflex digitale Olympus, basato sullo standard Quattro Terzi (appunto avviato allora), ha poi allargato i propri orizzonti tecnici e commerciali, differenziandosi in una linea di prodotti concretamente cadenzati uno rispetto l’altro. Così, in sequenza e successione temporale, sono arrivate reflex alternativamente indirizzate sia a utilizzi professionali, ancora, sia a impieghi non professionali (ammessa, ma non sempre concessa, tale linea demarcatoria assoluta). Ricordiamo e registriamo
E
della Olympus E-400, tali dimensioni compatte e peso ridotto sottolineano la massima trasportabilità e promettono una agevole naturalezza di ripresa, senza rinunciare ai considerevoli vantaggi della fotografia reflex, sia a intendimento non professionale sia a indirizzo professionale (per esempio, prima di altre applicazioni, pensiamo al confortevole uso nel reportage).
APPUNTO, E-400 Per una strategia di date e legittimi anticipi, annunciata nelle settimane immediatamente precedenti il fatidico appuntamento con la Photokina di fine settembre, l’attuale reflex digitale Olympus E-400 è dotata di sensore CCD di acquisizione da dieci Megapi-
xel, valore tecnico che va subito precisato, considerata la propria discriminante di classificazione tecnica. Questo sensore ad alta efficienza energetica è abbinato a un ef-
ficace circuito amplificatore, che annulla il rumore elettronico con notevole e apprezzata velocità operativa. In modalità rapida sono consentiti scatti in sequenza fino a tre acquisizioni al secondo, con un buffer da cinque immagini
PER PICCINA il ritmo tecnico-commerciale scandito dalle reflex digitali a obiettivi intercambiabili Olympus E-300, E-500 e E-330, rispettivamente presentate e commentate in FOTOgraphia del febbraio 2005, dicembre 2005 e aprile 2006. Allo stesso momento, va sottolineata l’adesione di Panasonic e Leica allo standard digitale QuattroTerzi, con relative linee di prodotti che si inseriscono nel princìpio originario della completa intercambiabilità tra corpi macchina e obiettivi di ciascuna produzione. Nell’annotata combinazione di riferimenti numerici, si inserisce l’attuale reflex digitale a obiettivi intercambiabili Olympus E-400 (aritmeticamente equidistante dalle altre reflex del sistema), che si offre e propone come «la più piccola e leggera reflex digitale al mondo» (aggiornamento alla condizione tecnica e commerciale di fine agosto). Prima della sostanza dei valori tecnici
60
CHE SIA Al momento, l’Olympus E-400 è la più piccola e leggera reflex digitale al mondo (aggiornamento alla fine di agosto). Ancora e con coerenza una reflex per lo standard QuattroTerzi, che prosegue il proprio inesorabile cammino, tracciato da valutazioni tecniche adeguatamente finalizzate alla più efficace acquisizione digitale di immagini. Corpi macchina (in sistema) e obiettivi intercambiabili a costruzione inderogabilmente finalizzata; peraltro, gli obiettivi sono in configurazione aperta, disponibili per apparecchi di ogni produzione affiancata
in formato grezzo RAW o fino a venti in qualità Jpeg HQ. Grazie alla compatibilità con lo standard QuattroTerzi, si dispone di una agevole flessibilità operativa, definita e disegnata dai propri elementi tecnici, oltre che da quelli di altre produzioni (anche). Inoltre, come tutte le reflex del sistema, anche l’Olympus E-400 dispone dell’ormai collaudato filtro di rimozione della polvere (Supersonic Wave Filter), per una fotografia digitale senza problemi di polvere sul sensore, anche alla sostituzione degli obiettivi intercambiabili in condizioni ambientali difficili e avverse, magari con preoccupanti livelli di polveri in sospensione. Elaborato da Olympus, il Supersonic Wave Filter genera vibrazioni ad altissima frequenza, che scuotono la polvere dal sensore, facendola poi depositare in una membrana adesiva dedicata. Per un’efficacia ancora superiore, il filtro Su-
personic Wave della E-400 è stato perfezionato in dimensioni inferiori e frequenza di vibrazione più elevata.
VOCAZIONE PROFESSIONALE Anche una reflex digitale ricca di funzioni può essere semplice da usare. Però, oltre una vasta gamma di impostazioni automatiche e semiautomatiche, per un utilizzo facilitato, l’Olympus E-400 dispone del completo controllo manuale, per non porre limiti alla creatività del fotografo utilizzatore. Nello specifico, sono disponibili anche trentun programmi di ripresa, per coprire la più ampia varietà di situazioni di scatto. Tra questi, si segnalano le modalità finalizzate alla fotografia Subacquea e Macro, che fin dalle origini sono indirizzi privilegiati della progettazione digitale Olympus, ma anche le proiezioni verso interpretazioni fotografiche in toni alti e bassi (High Key e Low Key), che richiamano e replicano orientamenti classici del più concentrato esercizio fotografico. Ancora, si possono impostare altre modalità ereditate dalla fotografia analogica (o argentica, come si vuole dire), per personali restituzioni del colore e bianco-
ZUIKO DIGITAL
G
li obiettivi del sistema Olympus sono divisi in tre famiglie ottiche, che ne rimarcano i valori di qualità formale: Top Pro, Pro e Standard. In ordine (tra parentesi sono indicati i valori equivalenti sul formato fotografico 24x36mm, fattore di moltiplicazione 2x dal sensore digitale QuattroTerzi 17,4x13,1mm). ❯ Zuiko Digital Top Pro (con elevata luminosità relativa): Zuiko Digital ED 7-14mm f/4 (14-28mm); Zuiko Digital ED 14-35mm f/2 (28-70mm) [disponibile dal 2007]; Zuiko Digital ED 35-100mm f/2 (70-200mm); Zuiko Digital ED 90-250mm f/2,8 (180-500mm); Zuiko Digital ED 150mm f/2 (300mm); Zuiko Digital ED 300mm f/2,8 (600mm). ❯ Zuiko Digital Pro (combinazioni ottiche mirate): Zuiko Digital 11-22mm f/2,8-3,5 (22-44mm); Zuiko Digital 14-54mm f/2,8-3,5 (28-108mm); Zuiko Digital ED 50-200mm f/2,8-3,5 (100-400mm); Zuiko Digital ED 8mm f/3,5 Fisheye (16mm); Zuiko Digital ED 50mm f/2 Macro (100mm; massimo ingrandimento 0,51x, equivalente all’inquadratura 1:2). ❯ Zuiko Digital Standard (praticità e convenienza): Zuiko Digital ED 14-42mm f/3,5-5,6 Asph (28-84mm); Zuiko Digital 14-45mm f/3,5-5,6 (28-90mm); Zuiko Digital ED 18-180mm f/3,5-6,3 (36-360mm); Zuiko Digital 40-150mm f/3,5-4,5 (80-300mm); Zuiko Digital ED 40-150mm f/4-5,6 (80-300mm); Zuiko Digital 35mm f/3,5 Macro (70mm).
nero, con possibilità di applicare una serie di filtri di contrasto tonale e cromatico. Per assicurare riprese prolungate, l’Olympus E-400 dispone di una nuova batteria ricaricabile ad elevata capacità. Accettando sia schede CompactFlash sia xD-Picture Card, la reflex offre una scelta di maggiore flessibilità per quanto riguarda le opzioni di salvataggio in memoria.
QUATTROTERZI Da ribadire sempre. Come tutte le reflex dello standard digitale QuattroTerzi, avviato con l’originaria Olympus E-1 (già l’abbiamo detto, ma la ripetizione serve), la E-400 entra a far parte di un versatile e pratico cartello tecnico e commerciale. Compatibile con l’in-
RIASSUNTO ❯ Sensore CCD di acquisizione digitale di immagini da dieci Megapixel. ❯ Monitor LCD da 2,5 pollici. ❯ Supersonic Wave Filter per la rimozione della polvere eventualmente depositatasi sul sensore. ❯ Doppio slot per schede di memoria xD-Picture Card e CompactFlash. ❯ Trentun modalità di ripresa dedicate (cinque di esposizione, sette creative e diciannove programmi scene). ❯ Flash incorporato (Numero Guida 10). ❯ Registrazione Jpeg e RAW (file grezzo). ❯ Tre scatti al secondo, con buffer fino a cinque fotogrammi in formato grezzo RAW o venti in formato Jpeg HQ. ❯ Bilanciamento del bianco One touch. ❯ Impostazioni filtro (giallo, arancio, rosso, verde) per riprese in bianconero. ❯ Nuovo processore di immagine TruePic Turbo. ❯ Funzione controllo dell’estensione della profondità di campo. ❯ Misurazione esposimetrica Digital Esp a quarantanove segmenti e Spot. ❯ Funzione di bracketing sull’esposizione. ❯ Ampio e completo schermo informativo (con istogramma, in riproduzione).
tera gamma di accessori dell’Olympus E-System, a partire dalla gamma di obiettivi dedicati Zuiko Digital, con copertura focale da 8 a 300mm, può mettere a frutto accessori e obiettivi di altre produzioni (tra le quali, si distingue quella del neonato sistema ottico Leica D, avviato con lo zoom Leica D Vario-Elmarit 14-50mm f/2,83,5 Asph, dotato di un esclusivo sistema di stabilizzazione ottica dell’immagine; FOTO graphia, giugno 2006). Nell’ambito degli accessori del sistema, va annotata l’imminente custodia subacquea dedicata (PT-E03), per immersioni fino a quaranta metri di profondità. Ma uno dei punti di forza dello standard digitale Quattro Terzi rimane e si conferma la progettazione ottica finalizzata. Tutti gli obiettivi digitali Zuiko del sistema Olympus E sono progettati per le migliori prestazioni delle reflex digitali che si basano, e baseranno, sullo standard QuattroTerzi. Sono obiettivi disegnati sul princìpio della costruzione ottica telecentrica, ereditato da applicazioni scientifiche: che consente alla luce di raggiungere il sensore solido CCD con raggi pressoché perpendicolari alla propria superficie. È questo un requisito essenziale dell’acquisizione digitale di immagini, indispensabile per ottenere fotografie dai colori perfetti, oltre che nitidezza e luminosità estese a tutto il campo. Assieme all’elevata risolu-
zione degli obiettivi, i raggi immagine paralleli, e perpendicolari alla proiezione, garantiscono che il sensore riceva i dati con la massima precisione, raggiungendo così il massimo delle proprie potenzialità tecniche. Inoltre, grazie al dialogo dedicato, gli obiettivi trasferiscono al software della reflex ogni informazione su eventuali aree d’ombra o distorsioni ottiche da correggere, in modo da raggiungere risultati sempre perfetti. Una ulteriore sostanziale caratteristica discriminante dello standard QuattroTerzi consiste nelle dimensioni compatte dei propri elementi e, nello specifico ottico, nel peso relativo degli obiettivi, peraltro tutti di elevata luminosità relativa. Due nuovi obiettivi del sistema Olympus QuattroTerzi accompagnano il lancio dell’attuale E-400. Lo Zuiko Digital ED 14-42mm f/3,5-5,6 Asph (equivalente alla variazione focale 28-84mm sul formato fotografico 24x36mm) è configurato come zoom standard: a fuoco da 25cm, costruzione ottica con elementi ED a basso indice di dispersione e due lenti asferiche. Infine, il supercompatto Zuiko Digital ED 40150mm f/4-5,6 (equivalente a 80-300mm) è proiettato a un significativo avvicinamento tele: a fuoco da 90cm, con elementi ottici ED a basso indice di dispersione. (Polyphoto, via Cesare Pavese 11-13, 20090 Opera Zerbo MI). Antonio Bordoni
61
M
anco a dirlo: il cammino della tecnologia reflex è inevitabile e inviolabile. Coerentemente prosegue nelle direzioni da tempo individuate: da una parte, rivolgendosi a un pubblico professionale e sofisticato, che richiede prestazioni tecniche anche particolari, adatte e adeguate alle esigenze pratiche che il professionismo deve affrontare e risolvere; dall’altra, si indirizza simultaneamente a un pubblico di fascia commerciale più ampia, che richiede una pertinente combinazione tra concrete e agili prestazioni tecniche e semplicità di impiego. Del resto, non si tratta di nulla che non si sia già visto, fin dai tempi delle reflex 35mm tradizionali (argentiche o analogiche, a ciascuno la definizione che preferisce), a propria volta distribuite in fasce tecniche e commerciali distinte: appunto rivolte all’impiego professionale (soprattutto reflex a sistema) e alla più generica fotografia di ogni giorno. Ancora: inevitabilmente e inesorabilmente, ogni evoluzione tecnica digitale, che si manifesta con ritmo so-
62
Prestazioni di spicco, facilità di uso, controllo personale versatile e funzionalità esclusive. Il cammino cadenzato che si propone di portare la fotografia digitale reflex al più ampio pubblico, con la maggiore accessibilità tecnica possibile, approda alla configurazione Nikon D80. Allo stesso modo della precedente D70, che va a sostituire sul mercato, l’attuale reflex digitale Nikon a obiettivi intercambiabili conferma analoghe semplificazioni pratiche, in una dotazione tecnica di taglio sostanzialmente alto stenuto (impensabile ai tempi delle costruzioni meccaniche), rappresenta la sostanziale evoluzione di una dotazione precedente. Così, nello specifico, è giocoforza riferire l’attuale dotazione reflex digitale a obiettivi intercambiabili Nikon D80 alla precedente configurazione D70, della quale eredita la sostanza della proposizione tecnica e commerciale, adeguatamente aggiornata nella propria operabilità.
IN EVOLUZIONE Dunque, nel concreto, la nuova D80 prosegue il cammino intrapreso da Nikon nell’eterogeneo mercato di largo consumo,
prosumer in gergo, coniugando assieme funzionamento diffusamente automatico e funzioni avanzate, combinazione che consente a tutti gli appassionati di realizzare fotografie appaganti, di alta qualità formale. A questo proposito, arrivando alle dotazioni, la Nikon D80 dispone di un nuovo sensore solido CCD di acquisizione digitale di immagini in formato DX da 10,2 Megapixel effettivi, che consente di raggiungere elevati livelli di risoluzione e nitidezza, garantendo, allo stesso tempo, la massima libertà nell’eventuale ingrandimento di particolari estrapolati dal file totale e complessivo. Il sensore in formato Nikon DX e l’immutato innesto a baionetta degli obiettivi garantiscono la massima compatibilità con tutta la gamma di focali AF Nikkor e DX Nikkor (compreso il più recente AF-S DX Zoom-Nikkor 18-135mm f/3,5-5,6G IF-ED, del quale riferiamo sulla pagina accanto). Una delle principali novità della Nikon D80 riguarda il modulo di elaborazione delle immagini ad alta risoluzione. Tra i vantaggi mutuati dalle reflex digitali professionali Nikon di ultima generazione sono inclusi un sistema di condiziona-
mento indipendente dei segnali di colore, predefinito rispetto la conversione A/D, e gli algoritmi avanzati per l’elaborazione delle immagini digitali a 12 bit. Insieme, queste due dotazioni approdano a un effetto estremamente realistico delle immagini, grazie alla fedele riproduzione dei colori e dei toni. Un nuovo microcircuito ad alte prestazioni, appositamente studiato, accelera notevolmente le prestazioni a tutti i livelli e riduce il consumo energetico, garantendo più fotografie per ogni carica della batteria.
CONFERME Grazie a un database interno di oltre trentamila scene, individuare da situazioni reali, che consente di calcolare il valore finale dell’esposizione, l’esclusivo sistema di misurazione Nikon Color Matrix 3D II garantisce il controllo accurato dell’esposizione automatica, per ottenere immagini formalmente perfette, persino nelle condizioni di illuminazione più difficili. In combinazione, si confermano le misurazioni esposimetriche ponderata centrale e spot centrata sull’area di messa a fuoco,
SEMPRE PIÙ
oltre la compensazione dell’esposizione e il bracketing di esposizione automatica. La funzione avanzata di bilanciamento automatico del bianco consente una resa naturale dei colori tramite la misurazione dell’intero fotogramma, con corrispondente bilanciamento alla fonte di luce presente nella scena inquadrata. Per un ulteriore, maggiore controllo personale si può usufruire di sei impostazioni manuali specifiche (Incandescenza, Fluorescenza, Sole diretto, Flash, Nuvoloso e Ombra), oltre a una ulteriore opzione predefinita per l’utilizzo di un elemento bianco o grigio neutro di riferimento. L’innovativo sistema autofocus a undici aree assicura il blocco rapido e preciso della messa a fuoco in varie condizioni di ripresa, offrendo maggiore sicurezza di ottenere lo scatto desiderato. La nuova Nikon D80 è adeguatamente rapida. La sua risposta è immediata: 0,18 secondi per l’accensione e ritardo allo scatto di circa ottanta millisecondi. Le immagini vengono subito elaborate e registrate rapidamente sulla scheda di memoria Secure Digital. Analogamente, anche le immagini in anteprima vengono visualizzate in modo istantaneo. Le riprese in sequenza a tre fotogrammi al secondo, fino a un massimo di cento acquisizioni Jpeg consecutive (formato Fine M o inferiore), sono adeguate alle esigenze e necessità della fotografia d’azione.
SEMPLIFICAZIONI La capacità di offrire prestazioni e risoluzione elevate in un corpo macchina sottile e compatto (più della prece-
dente D70), consente alla Nikon D80 di mantenere anche l’impegno per un funzionamento intuitivo. Dimensioni, disposizioni e funzionamento di tutti i pulsanti e comandi sono appunto finalizzati alla massima semplicità d’uso. La D80 dispone di un mirino ampio e luminoso, con un ingrandimento di 0,94x, in grado di garantire una visione molto nitida. Il nuovo e ampio monitor LCD ad alta risoluzione da 2,5 pollici e duecentotrentamila punti fornisce un angolo di visione adeguatamente ampio di 170 gradi da tutte le direzioni. Un nuovo pulsante zoom dedicato semplifica la visualizzazione delle immagini in anteprima e consente di valutarne la nitidezza fino a un ingrandimento 25x. La D80 include l’opzione Pictmotion, per la creazione “on-camera” di slideshow, con cui è possibile controllare la transizione delle immagini e inserire musiche di sottofondo. Con la nuova impostazione Mio Menu è possibile personalizzare il menu (appunto), in modo da visualizzare soltanto le voci selezionate. Quindi, le esclusive funzionalità di modifica dell’immagine, incorporate nel nuovo menu Ritocca, consentono di garantire risultati sempre soddisfacenti e una maggiore libertà creativa senza l’utilizzo del computer. Il menu Ritocca include: D-Lighting, che consente di finalizzare automaticamente la resa dei dettagli, migliorando i risultati e aggiungendo stile creativo e consente di ottenere, allo stesso tempo, il bilanciamento globale dell’esposizione; Correzione occhi rossi, che rileva e compensa automatica-
NIKON
SETTE VOLTE E MEZZO
Z
oom con escursione focale 7,5x. Compatto e leggero, dotato di lenti asferiche e motore SWM (Silent Wave Motor), l’AF-S DX Zoom-Nikkor 18-135mm f/3,55,6G IF-ED si inserisce nel sistema ottico Nikon DX. Sul sensore digitale, di dimensioni inferiori al fotogramma 24x36mm, la sostanziosa variazione dalla visione grandangolare all’avvicinamento tele equivale all’intervallo 27-202,5mm, che consente di affrontare e risolvere un significativo campionario di situazioni fotografiche. La progettazione ottica include una lente in vetro ED e due lenti asferiche di tipo ibrido, che riducono al minimo l’aberrazione cromatica, l’astigmatismo e altre forme di distorsione, per garantire immagini di alta risoluzione e contrasto adeguato. Quindi, il motore SWM assicura un autofocus fluido e silenzioso.
mente il fastidioso effetto degli occhi rossi talvolta causato dal flash diretto (nella fotografia di ritratto); Taglia, che può essere utilizzato per produrre file di piccole dimensioni; Sovrapponi immagini, per unire due immagini NEF (file grezzi RAW), per creare una nuova immagine composta.
VERSATILITÀ Tra le altre funzioni sono incluse le impostazioni Monocromo (Bianconero, intonazione Seppia, intonazione Azzurra/Cianotipia) e Effetti filtro (Skylight, Filtro caldo, Bilanciamento colore). Inoltre, la nuova opzione di ripresa Esposizione multipla consente di creare un’immagine singola all’interno della reflex a partire da un massimo di tre esposizioni consecutive, producendo automaticamente un risultato che richiama le tecniche di esposizione multipla della fotografia su pellicola. Sette opzioni Digital Vari-Program semplificano la realizzazione di fotografie creative: Auto, Ritratto, Paesaggio, Macro/Close up, Sport, Paesaggio notturno, Ritratto notturno. La filosofia Nikon Total Imaging System racchiude un numero consistente di elementi, tra cui la linea di obiettivi intercambiabili di elevata qualità Nikkor AF e DX e il sistema di illuminazione creativa Nikon, che offre vantaggi quali il con-
trollo flash i-TTL, l’illuminazione avanzata wireless e l’utilizzo del flash ad alta precisione (con i flash elettronici dedicati SB-800, SB-600 e SB-R200). Tra gli accessori opzionali del sistema Total Imaging si segnalano il nuovo Multi-Power Battery Pack MB-D80, di design ergonomico, che unisce maggiore stabilità e potenziale di ripresa alla comodità nella ripresa verticale, il comando wireless ML-L3 (IR) e il cavo remoto MC-DC1, che forniscono la stabilità necessaria alla reflex in caso di lunghe esposizioni, per esempio nella fotografia di paesaggi e in quella macro. Il software Nikon PictureProject, fornito in dotazione, consente di importare, modificare, organizzare e condividere in modo semplice le immagini; mentre Capture NX (da acquistare a parte) rappresenta la nuova soluzione Nikon di modifica delle fotografie. È molto versatile e semplice, progettato per chi desidera un maggiore controllo creativo in fase di post-elaborazione e per consentire di sfruttare appieno le potenzialità delle immagini grezze NEF (RAW); ovviamente, gli strumenti di elaborazione e modifica possono essere applicati anche ai file in formato Jpeg e Tiff. (Nital, via Tabacchi 33, 10132 Torino). A.Bor.
63
DAVID “CHIM” SEYMOUR
D
David “Chim” Seymour nasce Szymin, in una famiglia ebrea, a Varsavia, nel 1911. Allo scoppio della Prima guerra mondiale si trasferisce in Russia con i genitori; la rivoluzione d’Ottobre non li conquista (forse), e tornano in Polonia nel 1919. Dicono poi le carte che “Chim” frequenta l’Accademia Grafica di Lipsia (1931; Leipzig Akademie der Graphischen und Buch Künste) e completa gli studi alla Sorbona di Parigi (chimica e fisica; 1931-1933). Vuole diventare editore. I suoi genitori sono tipografi e editori di libri Yiddish. La crisi economica che investe la Polonia getta sul lastrico gli Szymin, e il “parigino di Montparnasse” (come lo definisce l’amico Henri Cartier-Bresson) comincia a lavorare come fotografo per le agenzie Rap e Alliance. Con la sua macchina fotografica si butta nelle strade in rivolta, sui campi di guerra o nelle strade più povere della Terra, e insieme a Robert Capa e Henri Cartier-Bresson diventa uno dei padri fondatori del fotogiornalismo sociale. Presto si farà chiamare “Chim”, per l’impronunciabilità del proprio cognome e per evitare spiegazioni e problematiche razziali, anche. I primi servizi fotografici di “Chim” sono i congressi della sinistra, le dimostrazioni popolari parigine, i ritratti di intellettuali antinazisti; ed è subito evidente e straordinaria la sua capacità di scippare il reale alle piccole cose della vita ordinaria. A leggere con attenzione la fotografia che “Chim” ha scattato nella periferia parigina, Sciopero generale. Operai in un fabbrica occupata (1936; si tratta di un girotondo di operai che danzano sul canto di un motivo popolare, altrimenti titolato Lavoratori in sciopero danzano nel cortile della fabbrica), il rapporto di
fratellanza tra fotografo e soggetti è scoperto. Molti guardano in macchina e l’inquadratura sghemba di “Chim” sembra quasi giocare e ridere gioiosamente insieme a loro.
UN MAESTRO DEL FOTOGIORNALISMO SOCIALE Nel 1936, “Chim” va in Spagna, dalla parte della rivoluzione sociale, e lì affina la Fotografia in utopia, della quale sarà maestro. Non ama la guerra, e le sue immagini lo dicono forte. Lavora sulle quotidianità più minute, dietro le linee di fuoco, accanto alle lacrime dei civili, sulle facce degli uomini devastati dall’orrore dei potenti. L’immagine Riunione
timi, i migranti d’ogni paese, spinti come naufraghi della politica e della società sulle rive della storia. L’arte della fotografia di “Chim” (e Capa), non piegata alle leggi di mercato, porta fratellanza, amorevolezza e bellezza là dove regnano la miseria, la morte e la sottomissione. La fotografia dei Giovani minatori (Francia del Nord, 1935), visti come angeli senza ali, con la faccia sporca di carbone, o quella della Commemorazione dei morti della Comune di Parigi davanti al Museo dei Federati, nel cimitero du Père-Lachaise (Parigi, 24 maggio 1936), dove sono colti, nella propria straordinaria regalità libertaria, gli scrittori Paul Nizan,
«Chim afferrava la macchina fotografica come un medico prende la sua borsa per diagnosticare le condizioni di un cuore. Il suo era molto vulnerabile» Henri Cartier-Bresson per la distribuzione della terra in Estremadura (1936) contiene l’aristocrazia radicale dello sguardo di “Chim”. È una “Madonna del popolo”, presa mentre allatta il bambino con gli occhi buttati al cielo (tagliato, forse, dalle bombe degli aerei nazisti-fascisti, sganciate sulla popolazione civile, colpevole di essere dalla parte della libertà): qui “Chim” afferma che l’umanitarismo è l’ultima maschera strappata ai “signori della guerra” per giustificare il genocidio. La visione della realtà di “Chim”, come quella del suo amico Robert Capa, è la comprensione con i diseredati, gli ul-
Louis Martin-Chauffier e André Wumser, o l’immagine della guerra civile spagnola, Soldati delle Brigate Internazionali durante la cerimonia di addio, prima di lasciare la Spagna (Barcellona, 28 ottobre 1938), dove i soldati della rivoluzione sociale sono fotografati con i pugni stretti alla testa e gli occhi aperti su un futuro di perduta libertà, effigiano, come è raro vedere, l’infanzia violata dal lavoro, la bellezza dell’utopia comunarda e la grandezza della dignità nella sconfitta. È deplorevole scoprire nelle storie della fotografia (specie in quelle scritte da “esperti”, che di fotografia conoscono sol-
tanto le schede d’archivio mondadoriane) che la forza visiva di “Chim” sia confusa con lo spontaneismo o la rapina d’autore, quando non è relegata o circoscritta alla sola informazione o al documento. «Fotografare significa inquadrare e inquadrare vuol dire escludere» (Susan Sontag): il banale truccato come arte. Quando è grande, la fotografia mostra, non evoca. Come in Caravaggio, Piero della Francesca o Goya, in “Chim”, Henri Cartier-Bresson, Diane Arbus e August Sander la ritrattistica è una sintesi di quanto accade di fronte alla loro macchina fotografica; le loro scritture visuali si tagliano via dal presente che crolla, per rinascere nella poetica del “vero”, che insorge al di qua dei confini permessi dalle idee dominanti. Le note biografiche continuano, come al solito, tra l’amore per l’uomo e la fascinazione del personaggio. “Chim” viaggia molto. Ha un carattere schivo, riservato. Veste bene, frequenta ottimi alberghi, ama buone compagnie. Le sue cravatte di seta nera diventano celebri anche in Italia, in piazza del Popolo, a Roma, nelle conversazioni al bar con amici come Carlo Levi. Quando gli commissionano un reportage sul nascente Stato di Israele, scrive alla sorella Eileen Shneiderman: «È stato come tornare a casa. Come raccogliere tutti i fili della mia vita, che ero andato cercando invano nei mucchi di macerie e cenere di Varsavia». I genitori di “Chim” e altri membri della sua famiglia erano stati prelevati dal ghetto di Otwock e fatti passare dai camini di un campo di sterminio nazista. Per sfuggire alle leggi razziali e al franchismo, nel maggio 1939, “Chim” si imbarca (con
65
emigranti e rifugiati politici spagnoli) sulla nave Sinai e raggiunge il Messico. Nel corso della guerra mondiale si arruola volontario nel corpo dell’intelligence, e alla fine del conflitto sarà decorato e diventerà cittadino degli Stati Uniti. Su incarico dell’Unicef, fotografa i bambini colpiti dall’orrore della guerra. Gira l’Europa, e in Italia, Grecia, Polonia e Austria mette la sua macchina fotografica dalla parte dei bambini affetti da disturbi psichici, vittime del conflitto mondiale (ciechi e mutilati), dei riformatori, delle carceri minorili; le immagini malinconiche e amorevoli di questi bambini svantaggiati, feriti o rinchiusi, figurano quanto di più alto un fotografo può esprimere davanti all’innocenza violata o fatta a pezzi. Nel 1947, dopo abbondanti bevute insieme agli amici Robert Capa, Henri Cartier-Bresson, George Rodger, William Vandivert, “Chim” fonda con loro la cooperativa fotografica Magnum Photos. I cinque fotografi vogliono affermare la propria totale indipendenza dallo sfruttamento dell’industria culturale. L’aspetto creativo, la scelta dei reportage, il controllo sulle immagini pubblicate, la proprietà dei negativi, degli originali e la distribuzione restano nelle loro mani. Qui sono gettate le prime basi sui diritti d’autore, in rapporto non solo alle strozzature editoriali, ma anche, e soprattutto, al riconoscimento e alla valenza sapienziale della Fotografia nel mondo dell’arte. Nel 1954, Robert Capa salta in aria su una mina in Indocina, e il 10 novembre 1956, mentre documenta uno scambio di prigionieri vicino al Canale di Suez, “Chim” è colpito da una pioggia di proiettili egiziani. Lì, in quel deserto bagnato di sangue e chiacchiere delle Nazioni Unite sui diritti dell’uomo, muore un poeta dell’iconografia della sofferenza, della gioia perduta e sempre ritrovata sui volti amorosi dei senza voce e dei ribelli d’ogni-dove.
66
LA FOTOGRAFIA IN UTOPIA La poetica trasversale della Fotografia in utopia di “Chim”, annuncia che il peso del mondo è nelle idee che possediamo senza pensare di averle. Le idee possiedono noi, e il nostro modo di amare corrisponde all’anima collettiva, che è anche l’anima della terra sconsacrata dalla violenza istituzionale e dall’indifferenza conviviale. La filosofia orientale antica ci ricorda che l’uomo ricorre a ogni sorta di terrore quando la dolcezza delle parole hanno fallito il proprio scopo di ponte, ascolto, solidarietà. Il sogno di tempi migliori è affidato ai segni, alle immagini, ai suoni; l’uomo migliore è lì, in attesa di schiudere la propria bellezza di verità, giustizia, accoglienza... là dove l’amore si sostituisce all’odio e la pace getta nelle tenebre la storia della catastrofe. La scrittura fotografica di “Chim” è incentrata su una filosofia del rispetto, è al servizio di qualcosa o qualcuno in difficoltà. Per “Chim”, e per tutti gli utopisti irriducibili, rispettare l’altro significa guardare ancora. Non rinunciare alla magia o allo stupore del vero oltre il sogno. Disvelare, dunque, la cultura della vergogna, mettersi dalla parte della comprensione nei confronti di tutto quanto richiede aiuto e diritto. I fotografi del sociale alla “Chim” lavorano sul non ancora della fotografia. Sui vuoti dell’iconologia corrente o sui falsi idoli della seduzione, che incensano la coazione a ripetere di un’arte morta nel mercimonio. Non è il vernissage nella galleria che fa il fotografo (anzi, sovente, è la sua tomba soltanto), sono, piuttosto, le profondità comunicative della sua opera, che restituiscono la vita rivendicata, tutta intera, nel rovesciamento dell’esistente. Lo sguardo atonale ai valori dominanti di “Chim” è di quelli severi, senza rinunce al disprezzo e alle bassure dei produttori di dolore. Non teme l’i-
solamento, e nei confronti della dominante stupidità si chiama fuori, in anticipo di mezzo secolo, da quella concimazione del gusto che viene chiamata “libero mercato”. Le sue fotografie dicono dritto, senza gridare però, che i campi di sterminio, l’estetismo mercantile o il funzionalismo religioso continuano a far parte della coscienza occidentale e dei fondamentalismi islamici (le guerre di religione, come quelle neo-colonialiste del petrolio, dei diamanti o dell’acqua, sono firmate dalle stesse bombe, sostenute dalle stesse banche e dagli stessi servizi segreti delle “grandi potenze”: amen e così sia). “Chim” è un filosofo fuori centro della fotografia randagia e spodesta dal solco tracciato della mediocrità il chiasso dell’edonismo e il rovereto dell’arte come canto illusorio degli imbecilli. «Bastano cinquecento persone per fondare un’umanità» (Ezra Pound) e «una soltanto, con una torcia in mano, a distruggerla» (Luther Blissett Project). Chi ha veramente qualcosa di nuovo da dire, lo dice come può e in ogni modo. Non importa avere cattedre, pulpiti o scranni: quelli, basta uno sputo per cancellarli. I creatori di cultura sono al centro delle trasvalutazioni di tutti i valori preconizzati da Nietzsche; più ancora, sono i dinamitardi di tutte le morali che hanno fatto della dotta barbarie il patibolo dove sopprimere lo scandalo della “ragione incolta”. E «andare avanti, adesso, significa andare verso il basso, verso gli errori della nostra cultura, e indietro verso il dolore racchiuso nella sua memoria» (James Hillman). Le immagini visionarie di “Chim” sono disseminate su questa strada di periferia e non ammettono fughe, né elusioni. Un artista di valore si dedica a ripulire le spiagge dal catrame o a disvelare l’inautentico idolatrato della società omologata. La menzogna politica non
ammette disertori né eretici. La giustizia non può prevalere sino a quando i maldestri “furfanti del parlamento” o i “profeti del mercato” saranno resi innocui o dovranno perire nelle immondizie che loro stessi hanno generato. La fotografia del profondo di “Chim” si ritaglia in una condizione esistenziale apolide. Per chi non ha più patria, affabulare una qualsiasi espressione estetica può diventare una sorta di luogo dove stare. Gli apolidi non hanno una patria. La loro patria è la propria gente. Le immagini apolidi di “Chim” smascherano un’umanità che aspira solo alla costrizione, alla genuflessione, al mercanteggio dell’intelligenza, che sono i pilastri comunicazionali sui quali poggia la continuazione del dominio. La fotografia del disagio di “Chim” non sostiene, in modo particolare, la ragione d’una condizione, d’una classe o di un popolo: è piuttosto un processo di liberazione (non solo estetica) da tutte le credenze e illusioni che allontanano l’uomo dalla bellezza della verità. L’imperfezione figurativa delle immagini di “Chim” è sostenuta da un’idea di lontananza da un ideale certo ma, nel contempo, si solleva contro gli ammaestramenti di forme e le corruttele dello spettacolo, che è la produzione principale della società moderna. L’iconologia radicale di “Chim” smaschera tutto ciò che è direttamente vissuto come rappresentazione del governo dello spettacolo, che organizza magistralmente il servaggio, l’ignoranza e financo il dissenso. Rompe lo stato mediale del ruolo e spegne il brillare falso delle mitologie di consumo di massa. L’etica utopica di “Chim” si porta sopra le differenze di spazio e tempo e parla a noi con un linguaggio della contemporaneità, che rende eterna la sua visione dell’esistenza. Pino Bertelli (10 volte agosto 2006)
Benvenuti sul pianeta divertimento. Se riesci a vedere un’immagine che altri non vedono, la nuova Reflex digitale EOS 400D è quello che fa per te. Scatta anche con poca luce a 1600 ISO e sbizzarrisciti con l’ampio assortimento di obiettivi. È ora di provare prospettive diverse e fare nuove divertenti scoperte. È ora di divertirsi con EOS 400D. www.canon.it/eos400d
LE NUOVE STAMPANTI HP SONO COME TE. HANNO UN OCCHIO INNATO PER IL COLORE. Come i migliori fotografi, le nuove stampanti HP Designjet hanno un proprio senso del colore. Lo spettrofotometro integrato analizza e imposta automaticamente il colore, adattandolo al supporto di stampa impiegato (puoi usare una gamma di supporti più estesa che mai). Il procedimento diviene talmente semplice che puoi creare i profili colore in minuti, non ore; profili che si mantengono inalterati stampa dopo stampa, su ogni supporto, a colori e in bianco e nero. Inoltre, la stampante HP Designjet Z3100 abbina a 11 inchiostri pigmentati un intensificatore di lucidità per ottenere una gamma cromatica, una performance di lucidità e un bianco e nero reale eccezionali. Qualità che resisterà per almeno 200 anni**. L’arte della fotografia richiede un senso del colore altamente sviluppato. Fai in modo che la tua stampante lo abbia. Stampa la tua realtà.
hp.com/it/printyourtruth/photo
HP PHOTOSMART PRO B9180*
HP DESIGNJET Z2100*
HP DESIGNJET Z3100*
Stampante A3+ a 8 inchiostri
Stampante per grandi formati (24”- 44”) a 8 inchiostri
Stampante per grandi formati (24”- 44”) a 12 inchiostri
©2006 Hewlett-Packard Development Company, L.P. Tutti i diritti riservati. Immagine centrale ©Chris Steele-Perkins/Magnum Photos. *Compatibile con MAC e PC. **Resistenza allo sbiadimento di oltre 200 anni secondo Wilhelm Imaging Research, Inc. su una gamma di supporti di stampa professionali e per belle arti HP. Per informazioni: http://www.hp.com/go/supplies/printpermanence