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ANNO XIII - NUMERO 127 - DICEMBRE 2006
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Percorsi storici IL MESSAGGIO DI MOLLINO MUSEO ALINARI Reflex digitali CANON Eos 400D NIKON D40
GRANDE SCHERMO FOTOGRAFIA & CINEMA
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LOGORAMENTO «[...] Il delitto è raro; voglio dire il delitto qualificato, autentico, che cade sotto il colpo della legge. Gli uomini si distruggono con dei mezzi che rassomigliano loro, mediocri come loro. Si logorano di nascosto. E i delitti di logoramento, signore, non riguardano i giudici!...». Georges Bernanos (da Un delitto)
È doveroso precisare che su questo numero della rivista si susseguano tre interventi sullo stesso argomento, che è poi la storia della fotografia: in una edizione contraddittoria, da pagina 8; nel percorso del MNAF - Museo Nazionale Alinari della Fotografia, da pagina 28; e con il racconto di Carlo Mollino, da pagina 42. Per un caso simile, si relaziona anche di due iniziative che coinvolgono Maurizio Rebuzzini, direttore di FOTOgraphia: curatore di una delle sezioni del MNAF e co-curatore della mostra Fotografia & Cinema. Fotogrammi celebri, della quale riferiamo da pagina 48. Non c’è nepotismo, in questo, ma si tratta di un intreccio a incontro assolutamente casuale. E il Caso è uno degli elementi della VIta.
ANCORA FUR. Una doverosa postilla a quanto già scritto lo scorso mese sul contraddittorio film Fur. Un ritratto immaginario di Diane Arbus, che non ha minimamente affrontato la personalità fotografica della celebre autrice statunitense. In questo senso, la sceneggiatura è stata pesantemente condizionata dal fatto che gli eredi non hanno concesso l’utilizzo delle sue immagini, senza le quali il racconto si è indirizzato altrimenti. Come abbiamo, appunto, rilevato.
Copertina
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Fotografia di scena di Blow up (di Michelangelo Antonioni, 1966), ai tempi utilizzata per una delle locandine del film. Il gesto è inequivocabile: fotografia di moda in sala di posa (l’attore David Hemmings interpreta il fotografo londinese Thomas e la modella Veruschka, al secolo Vera von Lehndorff, se stessa). Situazione ripresa dalla mostra Fotografia & Cinema. Fotogrammi celebri, allestita alla Galleria Grazia Neri di Milano, a gennaio, che presentiamo da pagina 48
3 Fumetto Cartolina illustrata inviata il 28 agosto 1954 “alla cara bambina [...], baci e bacioni dalla mamma”. Sicuramente, questa rappresentazione della fotografia, in chiave infantile, è temporalmente precedente
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U
EPOPEA AMERICANA
na domenica pomeriggio fecero un picnic su in montagna. Joe Martin lindo e bello nella sua uniforme, Paul Hathaway serio e con un bell’aspetto da soldato con il suo cappello da parata un po’ all’indietro sulla testa, e Patricia, sorridente e oscuramente magnifica, e la piccola Bessie, che Pat aveva portato per Paul. Si fecero una foto. Una foto che Joe portò nel suo portafoglio per tutta la guerra e per molti anni dopo. Era una foto che davvero conteneva la deliziosa immagine della devozione di Patricia per lui, così come quella della leggenda del periodo della guerra per l’America, una foto su sui era scritta la grande storia del vagabondaggio, tristezza, separazione, addio e guerra. Da La città e la metropoli, di Jack Kerouac; Grandi Tascabili Economici Newton, Roma 1992
7 Editoriale Per caso (?), su questo numero della rivista tre interventi affrontano il medesimo argomento. La storia della fotografia è osservata da punti di vista autonomi e diversi. La storia e il costume sono espressioni parallele e collaterali, che dovrebbero/potrebbero arricchire il mondo italiano della fotografia
8 Ma che Storia è questa! Giuliana Scimé commenta le clamorose assurdità di una Storia della fotografia, che speriamo non capiti tra le mani di chi vorrebbe conoscere l’argomento
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12 Semplicemente... Nikon D40: ancora una reflex digitale che si rivolge al più ampio pubblico. Prestazioni ottimali a buon prezzo
14 A domani (con Nokia) 50
L’originario Nokia 7650 conclude il percorso storico del Museo Alinari, affermandosi come punto di partenza di un’altra socialità dell’immagine: da approfondire
. DICEMBRE 2006
RRIFLESSIONI IFLESSIONI,, OSSERVAZIONI OSSERVAZIONI EE COMMENTI COMMENTI SULLA SULLA FFOTOGRAFIA OTOGRAFIA
17 Verso il futuro
Anno XIII - numero 127 - 5,70 euro
La macchina fotografica che non c’è e non ci sarà mai: non documentazione del presente, ma visione in avanti. Da un vecchio telefilm alla narrativa, ai fumetti Ricerca iconografica di Filippo Rebuzzini
DIRETTORE
RESPONSABILE
Maurizio Rebuzzini
IMPAGINAZIONE Gianluca Gigante
REDAZIONE
22 Spazio all’ingegno Alterazione visiva volontaria. Con gli obiettivi Lensbaby, sfocature abilmente distribuite nell’inquadratura di Maurizio Rebuzzini
Angelo Galantini
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FOTOGRAFIE Rouge
SEGRETERIA Maddalena Fasoli
HANNO
28 La storia è qui Il nuovo Museo Nazionale Alinari della Fotografia si offre come indirizzo privilegiato della visione storica: sette sezioni, dall’immagine agli oggetti complementari (e non). Ma anche mostre temporanee e altro ancora di Angelo Galantini
34 Il mondo degli oggetti che parlano
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Le case della memoria della fotografa libanese Randa Mirza sono coinvolgenti rappresentazioni di una guerra (apparentemente) assente. In mostra, a Brescia di Roberto Mutti
COLLABORATO
Pino Bertelli Antonio Bordoni Roberto Mutti Loredana Patti Franco Sergio Rebosio Ciro Rebuzzini Filippo Rebuzzini Giuliana Scimé Zebra for You Redazione, Amministrazione, Abbonamenti: Graphia srl, via Zuretti 2a, 20125 Milano; 02-66713604, fax 02-66981643; graphia@tin.it. ● FOTOgraphia è venduta in abbonamento.
42 Attualità di un antico messaggio
● FOTOgraphia è una pubblicazione mensile di Graphia srl, via Zuretti 2a, 20125 Milano. Registrazione del Tribunale di Milano numero 174 del Primo aprile 1994. Poste Italiane SpA - Spedizione in abbonamento postale - D.L. 353/2003 (convertito in Legge il 27-02-2004, numero 46), articolo 1, comma 1 - DCB Milano.
Edizione anastatica del Messaggio dalla camera oscura di Carlo Mollino, del 1949: ancora oggi testo e analisi storica di straordinaria ed eccezionale modernità di Giuliana Scimé
48 Fotografia al cinema
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Alla Galleria Grazia Neri di Milano, ampia selezione di rappresentazioni cinematografiche della fotografia
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56 Percorso fotografico Monografia di Lisetta Carmi, fotografa di valore e talento che ha attraversato i decenni con rigore e intelligenza
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58 Alla portata di tutti Reflex digitale Canon Eos 400D da 10,1 Megapixel di Antonio Bordoni
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Fotocomposizione DTP e selezioni litografiche: Rouge, Milano Stampa: Arti Grafiche Salea, Milano
Rivista associata a TIPA
61 Grandi stampe Stampanti HP Designjet Z2100 e HP Designjet Z3100 (plotter) con convenienti soluzioni operative e di impiego
64 Adolfo Denci Sguardi su un fotografo che fece l’impresa di Pino Bertelli
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www.tipa.com
asualmente, ma forse non è proprio così, sulle pagine di questo numero della rivista sono ospitati tre argomenti storici. Di più, addirittura: si tratta di tre autentiche storie della fotografia, due delle quali analizzate da Giuliana Scimé, critica e storica di valore e personalità internazionale. Di caso, facciamo necessità, ribadendo una volta ancora la profondità di quelle appartenenze che danno spessore e senso (perfino) a ogni microcosmo. Nello specifico della fotografia, che è poi il mondo che soprattutto ci interessa, le consapevolezze storiche edificano solide basi di pensiero, ragionamento e, perché no, temperamento. A questo proposito, come spesso sottolineiamo, le coesistenti espressioni della fotografia italiana, dal commercio alla cultura senza soluzione di continuità, dovrebbero essere coordinate da una regia capace di far dialogare tra loro i diversi ambiti, finalizzando l’incontro a un reciproco beneficio. In definitiva, gli approfondimenti estetici possono benissimo fare da contorno alla redditività commerciale. A parte i grandi numeri del consumo di massa, la fotografia manifesta anche consistenti personalità all’interno di esercizi consapevoli ed educati: da quelli della fotografia professionale a quelli della più attenta fotografia non professionale. Siamo convinti che le divisioni che ancora separano tra loro i tanti operatori della fotografia, ognuno dei quali agisce in spazi che troppo spesso non comunicano, potrebbero essere appianate se soltanto ciascuno riconoscesse la legittimità delle esperienze altrui. Tanto per dire, ancora su questo stesso numero, nell’ambito della presentazione della mostra Fotografia & Cinema (da pagina 48), sottolineiamo come questa esposizione riveli una visione della fotografia che non esaurisce in se stessa, ma si potrebbe proiettare in un tangibile coinvolgimento generale: in egual misura, c’è curiosità, allegria, gioco e concreta indagine. Lo stesso, con un profilo più alto, si può riferire al Museo Nazionale Alinari della Fotografia (MNAF, da pagina 28), allestito con lo spirito anglosassone della partecipazione del pubblico. Ovvero. Comunque la si consideri e guardi, la fotografia è qualcosa di piacevole. È qualcosa di attivo e non passivo. È un esercizio creativo e di svago. È gioco e/o cultura allo stesso momento. Chi può, faccia in modo che gli entusiasmi di chi ne sa parlare e la sa presentare non si esauriscano in se stessi, logorandosi, ma si proiettino sul mercato. Con relativi risvolti commerciali. Perché no? Maurizio Rebuzzini
C
«Domani, e poi domani, e poi domani, il tempo striscia, un giorno dopo l’altro, a passetti, fino all’estrema sillaba del discorso assegnato; e i nostri ieri saranno tutti serviti [...]». (William Shakespeare; Macbeth, Quinto atto) «Vai troppo in fretta. Quasi non le guardi, le fotografie». «Ma sono tutte uguali». «Il posto è lo stesso, ma ogni foto è diversa dall’altra. [...]». «Rallentare, eh?». «Si, questo è il mio consiglio. Sai com’è: domani e domani e domani, il tempo scorre a piccoli passi». (Auggie Wren e Paul Benjamin; Smoke, di Wayne Wang)
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MA CHE STORIA È QUESTA!
N
Nel mese di marzo di quest’anno, FOTOgraphia pubblicò un articolo dal titolo Chi siamo? Dove andremo?, una sintetica riflessione sui mali che affliggono il mondo della fotografia in Italia, in tempi attuali. Accennavo appena a Storia della fotografia di Angela Madesani che, proprio in quei mesi, stava turbando le pochissime, per fortuna, persone che lo avevano fra le mani. Angela Madesani mi scrisse, in termini molto civili: Gentile Dottoressa Scimè, ho letto quanto da lei scritto sul mio libro. Il mio è stato un imperdonabile errore di stampa, ma credo che in quel libro vi sia anche del buono. Il titolo “pomposo” non l’ho scelto io, solo una faccenda editoriale. Come ho già scritto e spiegato la mia impresa ha solo la modesta pretesa di aiutare i miei studenti e non credo di avere commesso un delitto così atroce. Mi pare che ciascuno di noi abbia commesso degli errori durante il suo percorso e mi pare un po’ esagerato accanirsi sui colleghi con toni così forti. Con immutata stima Angela Madesani Risposi: Gentile Angela, credo di averle detto personalmente che stimo il lavoro che ha svolto. Di errori ne ho commessi anch’io e tantissimi. Di fianco alla mia scrivania ho una breve frase tratta da un lavoro di Bertolt Brecht: «Al signor K. chiesero che cosa stesse facendo: “Sto lavorando duro per preparare il mio prossimo errore”». Per quanto concerne il suo saggio, voglio innanzitutto sottolineare che da parte mia non vi è stato accanimento nei confronti di una collega.
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L’articolo era ed è una personale riflessione sulla mancanza di serietà -per usare un termine “leggero”- che sta imperversando nella fotografia in Italia. Ho considerato la sua opera uno degli esempi negativi. Perché? Gli errori clamorosi, l’ho letto oltre l’indice. L’impostazione. Una storia della fotografia è impresa che richiede studio, competenza, riflessione, capacità d’analisi e molte altre virtù. Se, poi, lei mi dice di averla scritta per aiutare i suoi studenti, rimango atterrita. Quando lei scrive a pagina 18, a proposito di Talbot: «[...] scene di vita quotidiana della campagna inglese. Molte sono dei ritratti e alcune, specialmente quelle dei lavoratori terrieri, sono considerate antesignane del futuro fotogiornalismo». Mi scusi l’impertinenza, ma lei ha mai visto le calotipie di Talbot? Forse non ha fatto un superfilo di confusione con Emerson? Peraltro trattato in due righe, senza alcuna rilevanza al movimento pittorialista che nasce proprio in Inghilterra. E Hill e Adamson, in scheda dopo Brady e Fenton, e guarda caso gli unici ad utilizzare in modo estensivo il processo di Talbot? E poi quel “futuro fotogiornalismo” è una perla che non ho idea in quale mare o fiume lei l’abbia mai trovata. Non proseguo, mi stanca e mi avvilisce troppo. Gentile Angela, la sua impresa, come ama definirla, è un disastro di proporzioni immani: se presa sul serio potrebbe arrecare dei danni irreparabili alla formazione dei futuri “operatori del settore fotografia”. Infine, la puerile giustificazione dell’errore di stampa.
È credibile che una lastra di rame placcata in argento o argentata si trasformi in supporto in cuoio? Una sfida alla più comune intelligenza che non le fa onore. In tutta sincerità, e proprio per evitare che nel nostro paese la situazione continui a precipitare invece che evolversi, consiglio di ritirare quel volume dalla distribuzione. Ne scriva un altro, corretto. Auguri, Giuliana Scimé Da quello scambio di messaggi scaturisce l’analisi del libro (se così si deve chiamare comunque un prodotto dell’editoria) che ritengo doverosa. E non è “accanimento”, è autentico terrore che anche una sola frase, un solo concetto possa tarlare per sempre la mente di chiunque, sprovveduto, desideri avvicinarsi alla fotografia, o al nostro armonioso e ricco idioma.
CONSIDERAZIONI GENERALI 1. Il lessico è così miserevole, che il verbo “fare” (sia pure un ausiliario) sostituisce qualsiasi altro verbo. I “di cui, per cui, in cui” sono un’ossessione e si sprecano; in otto righe ve ne sono ben quattro (pagina 114), solo un esempio. 2. Le trappole linguistiche tradiscono la dottoressa. Cuir (cuoio) e cuivre (rame), la celebre lastra di rame e supporto di cuoio. Talbot eccellente scolaro (in inglese, “scholar” significa studioso, erudito [a proposito, l’editore Zanichelli di Bologna ha in catalogo una collana di dizionari sui “falsi amici” delle lingue straniere: false analogie e ambigue affinità con l’italiano]). «Non sapevo dove piazzare la scatola nera, come effettuare una messa a fuoco. Fu con
enorme costernazione che effettuai la mia prima fotografia». Il testo originale nel diario di Julia Margaret Cameron, Annals of my Glass House (1874), recita: «I did not know where to place my dark box, how to focus my sitter, and my first picture I effaced to my consternation by rubbing my hand over the filmy side of the glass». In italiano corretto, la traduzione: «Non sapevo dove riporre la scatola dei materiali fotosensibili, come mettere a fuoco i miei soggetti, e con costernazione distrussi la mia prima fotografia strofinando la mano sul lato sensibilizzato della lastra». Esattamente il contrario, sorvolando sulla “scatola nera” che non si verificarono funesti incidenti d’aereo. «Albert Renger-Patzsch, fotografo industriale e pubblicitario che riuscì a rimanere a galla durante gli anni del nazismo grazie al tipo di fotografia da lui prodotto». «Si dedicarono alla fotografia pubblicitaria: basti ricordare appunto August Sander, che sbarcava il lunario con fotografie industriali. [...] Si utilizzava così la fotografia a scopo di marketing». Negli anni Venti e Trenta, la fotografia pubblicitaria e la fotografia a scopo di marketing? Il concetto di marketing è così recente da essere entrato nel lessico da pochissimo, e di pubblicità quei signori (Renger-Patzsch, Sander) non se ne sono mai occupati - è che publicity significa diffusione, divulgazione- e nemmeno di questo si occuparono, ma di sporadici lavori su commissione. Perché andare a leggere i testi in lingua originale (e la bibliografia è così vasta da provocare invidia persino alla Biblioteca di Stato Sormani), quando non la si domina? In internet, senza spostarsi dal tavolo di lavoro, si trovano centinaia di siti attenti e corretti e rispettosi del nostro
armonioso idioma, su queste elementari nozioni sulla storia della fotografia. E se la dottoressa avesse letto con attenzione solo un paio di testi fondamentali non sarebbe caduta in simili agghiaccianti oscenità. E che volgarità di espressione: rimanere a galla e sbarcava il lunario. «dal Bauhaus - che lavorava per l’industria» è atroce! Vuol dire non sapere nemmeno quali fossero i principi programmatici della Bauhaus, oltre a recare oltraggio alla nostra lingua come, più avanti «Hine biologo (a pagina 116 è finalmente sociologo) si interessa molto al rapporto di collaborazione, sempre in ambito lavorativo, tra l’uomo e la macchina». Non ci si può credere! Disturbi, miei, di lettura? Invenzioni allucinatorie che mi inducono a comporre frasi prive di senso? Mio attacco schizofrenico che antropoformizza la macchina? 3. «fotografia vegetale» (pagina 54) sono moto curiosa di vedere anche la fotografia animale e quella minerale, che in quella “vegetale” non mi sono mai imbattuta. «Leica impacchettata in un tovagliolo». «Lotte Jacobi, figlia d’arte, particolarmente versata al ritratto». È una tortura infame inflitta agli innocenti lettori -spero davvero esigui- che vanifica la passione intellettuale dei nostri Zingarelli, Devoto-Oli, Gabrielli... e di tutti coloro che hanno dedicato l’intera vita ad insegnarci il rispetto della nostra lingua. E tralascio scrittori, saggisti, giornalisti (escluso Vittorio Feltri, che dovrebbe essere radiato dall’Ordine dei Giornalisti con l’accusa di massacro linguistico), persino le avventure di Diabolik sono ineccepibili. 4. Le illustrazioni sono spesso di una qualità ignobile: riproduzioni da libro con la grana del retino che riportano alle sperimentazioni di Xanti Schawinsky. Chi era costui? Sempre internet avrebbe aiu-
tato, catturando immagini pregevoli. E sarebbe venuto in soccorso per evitare errori storici innominabili; ad esempio: «Tra le sue foto [Tazio Secchiaroli] più conosciute quella di “Anitona”, la bionda nordica Anita Ekberg, che si bagna nella Fontana di Trevi a cui si è poi ispirato Fellini per il suo film». Quella immagine è davvero un fotogramma del film, il direttore della fotografia era Otello Martelli. Il prezioso contributo di Secchiaroli è più complesso e Federico Fellini “disegna” su di lui il personaggio del fotografo di cronaca rosa Paparazzo (l’attore Walter Santesso), dal cui nome proprio si è da qui passati al nome comune (!), che affianca il protagonista, Marcello (Mastroianni), giornalista. 5. Gli argomenti sono suddivisi in capitoli, ma all’interno dei capitoli, per quanto abbia cercato di mettere insieme le tessere di un mosaico logico, non ho individuato la regola utilizzata da Angela Madesani per inserire le schede: non alfabetica, non data di nascita o di attività, non nazionalità... e sarei grata alla dottoressa Madesani se almeno mi risolvesse tale rebus. Robert Mapplethorpe è incorporato nel capitolo della fotografia di moda, mentre Richard Avedon e Irving Penn -sul serio “modisti” e rivoluzionari- si ritrovano nel generico Dagli anni quaranta ai sessanta assieme a tanti altri in una confusione da non riuscire a recuperare il più evanescente filo conduttore. E vale anche per il capitolo Anni ottanta e novanta, sparutissimo gruppo di italiani dove sono schizzati dentro Martin Parr, Joel-Peter Witkin e Sebastião Salgado. Del tutto ritenuti indegni di una scheda gli autori giapponesi che, da Shoji Ueda a Yasumasa Morimura, hanno espresso i più innovativi momenti della fotografia contemporanea. Così, Franco Fontana, il primo a comprendere che il colore non è una fotografia colorata, ma un mezzo espressivo. E tali assenze, inve-
ce di rattristare, riempiono di gioia: si sono salvati dall’eccidio. 6. I nomi di battesimo spesso mancano e provocano non poca perplessità -ad esempio chi è il surrealista Miller che influenza André Kertész? Henry Miller, lo scrittore che viveva a Parigi negli stessi anni o la bellissima Lee Miller?-, o sono sbagliati (Edwin Caldwell per Erskine). Così, il titolo della scheda (miserrima di quattordici righe) recita: John Heartfield, pseudonimo di Helmut Herzfeld e il testo inizia con: «È durante la prima guerra mondiale che John Herzfeld decide di anglicizzare il suo nome». Dottoressa lei rilegge quello che scrive? E le contraddizioni interne: «Beato stimola decisamente lo sviluppo della fotografia in Giappone, pur non avendo mai formato una vera e propria scuola». Si dà il caso che Felice Beato origina davvero la scuola della fotografia in Giappone, con discepoli indigeni e personaggi europei che seguiranno i suoi stili e le sue tecniche. Ed alcune righe sopra si legge: «molte delle quali [fotografie] colorate a mano con l’anilina da un suo pittore di fiducia». Beato impiega una schiera di coloristi giapponesi, abili nella stesura dell’acquarello -non anilina, che oggi quelle fotografie sarebbero del tutto ossidatesulle stampe della tradizione. Si giunge all’ilarità, se ancora si ha voglia di ridere e non rotolarsi dalle pene insopportabili, quando Claude Batho, scomparsa consorte di John Batho, diviene un uomo e il lavoro dei due artisti, peraltro assai differente, si sovrappone in un unicum (pagina 133). Mentre a pagina 132 si scrive di Arno Minkkinen (non Minkinnen) tutto al passato, come fosse morto. Il bravo Arno a sessantun’anni è felice e produttivo, con un suo bel sito web. «Lucien Clergue [...] come fotografo fu intenso e coriaceo». Clergue è pure superstizioso e non vorrei, per il be-
ne della Madesani, che qualcuno lo informasse di essere già morto. Coriaceo, poi, un fotografo celebrato per i suoi estetizzanti nudi femminili? «Quest’ultimo [René Burri] fotografò gran parte della storia del mondo a partire dagli anni sessanta, e le sue immagini, cariche di simboli e aneddoti, sono un vero e proprio reportage ragionato, privo, il più delle volte, dell’effimera immediatezza del fotogiornalismo». Anche Burri è in ottima salute ed attivissimo, che il suo reportage ragionato, privo,il più delle volte, dell’effimera immediatezza del fotogiornalismo non capisco cosa significhi, anzi ci perdo la ragione. In tutto, quattro righe per uno dei “monumenti” della Magnum (fondata a New York e non Parigi). Mentre a Raymond Depardon, «Le sue prime immagini hanno per soggetto un cane. [...] Le sue immagini a cavallo fra il reportage e il paesaggio sono difficilmente collocabili nelle ristrettezze dei vari ambiti». La stalla, forse, è troppo angusta. 7. Pesi e misure, infatti. Le schede hanno lunghezze del tutto diverse, assolutamente corretto se fossero in rapporto all’importanza dell’autore. E no, il problema deve risiedere nelle informazioni reperite: Alexadr Rodchenko è liquidato in poche striminzite righe e a Manuel Álvarez Bravo nemmeno il pudore di una scheda, ma nell’introduzione generale al capitolo Dagli anni quaranta ai sessanta si legge, a proposito del reportage: «In Messico figura di spicco fu Manuel Alvarez Bravo, stimolato dall’arte e dalle opere di Picasso, discepolo di Weston, affascinato da Tina Modotti e segnato da quella irripetibile epopea culturale messicana degli anni venti e trenta. Nel 1934, grazie ad André Breton, scoprì il surrealismo. Le sue immagini cariche di erotismo sono dominate da un profondo senso di solitudine. Attratto dalla tradizione e dalla storia del suo paese Alvarez Bravo è studioso di magia e di mitologia».
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Caro amico, dall’alto dell’impero celeste degli Aztechi, che hai raggiunto a cento anni, e che fino agli scorci di questo terzo millennio hai regalato magnifiche visioni, trova la bontà di perdonare questa Angela Madesani che non sa cosa dice, tantomeno cosa scrive: discepolo di Weston? surrealismo, erotismo, solitudine? studioso di magia e mitologia? ed inserito nel fotogiornalismo? Cosa ha a vedere tutta questa palude di devianti falsità con uno degli eccellenti nella storia della fotografia del Ventesimo secolo? E qui entriamo nel merito, dolorosissimo, dei contenuti.
CONTENUTI «[...] mantenendo sempre una fedeltà verso l’intelligenza formale e la semplicità compositiva per dare risalto alle forme [...] uno spazio ristretto, racchiuso da due pannelli angolari che incuneano i soggetti costretti ad assumere atteggiamenti e posizioni originali. Ciò che emerge è il volto, o la testa tagliata, che riesce a dare una lettura immediata del personaggio e il senso di quiete che cattura il transitorio [...] riesce ad americanizzare i soggetti rendendoli moderni ed essenziali, tali da comunicare immediatamente il loro significato [...] che aveva già inventato la
sua luce, inventa anche il suo spazio e incastra i personaggi in un angolo acuto, in una posizione claustrofobica, che non lascia spazio per la fuga. Come se si trattasse di un interrogatorio visivo [...] Le sue fotografie sono distanti dai canoni estetici dell’epoca: corpi algidi ma soffici e pieni, rilassati e lontani da qualsiasi intesa sessuale [...] anche nelle immagini pubblicitarie scattate dal 1967 per la Clinique, marchio di cui è stato testimonial per più di trent’anni. Gli still life degli ultimi anni si distinguono per la presenza di materiali poveri e per la totale assenza di composizione dello spazio; uno spazio in cui gli oggetti sono impilati gli uni sugli altri, ma ciò non toglie la presenza di una forma chiara e semplice». La scheda dedicata ad Irving Penn, scelta a caso. E non crediate che l’estrapolazione delle frasi abbia reso incomprensibile il testo. Il Cielo deve essere particolarmente benevolo e protettivo se sono riuscita a sopravvivere, sana di mente, a simile massacro linguistico e concettuale. Sfido il più astuto dei criptografi a mettere “in chiaro” simili concetti. E poi, dottoressa Madesani, il “testimonial” non è il fotografo, ma il personaggio celebre o no-
to che veicola il messaggio pubblicitario e da quale gergo familiare o di villaggio ha estratto la disgustosa forma verbale “sono impilati”? Consiglio la consultazione attenta dei dizionari dei sinonimi, temo, però, che le ruberebbe tempo e frenerebbe il suo orgasmo creativo. «Lux Feininger, figura di spicco nel panorama della fotografia tedesca di quel periodo, soprattutto da un punto di vista teorico». L’anno di riferimento è il 1926. Lux è nato nel 1910 e non ha mai scritto una riga in tutta la sua vita; come un ragazzino può essere una figura di spicco? Viveva negli edifici della Bauhaus assieme alla famiglia e scattò delle istantanee sulle attività che si svolgevano e qualche ripresa dell’ambiente esterno. Forse un filo di confusione con il padre Lyonel, pittore e maestro alla Bauhaus, o con il fratello maggiore Andreas? Ed alla Bauhaus, che ancora oggi influenza ogni oggetto di design, è dedicata una scheda così ridicola e striminzita da gridare vendetta, e sì che la Madesani è specializzata in arte contemporanea, dovrebbe snocciolare ogni dettaglio della Bauhaus a memoria. Non c’è una scheda dedicata a Lázló Moholy-Nagy! Appena nominato sparso qua e là. Il mio urlo interiore ha infranto tutti i cristalli del sapere in fotografia. «[...] il lavoro di Strand ha una profonda influenza sulle ricerche di Stieglitz. In particolare sul lavoro degli Equivalenti». E ancor prima, all’inizio della scheda a lui dedicata (pagina 41) «La storia di Stieglitz è perlopiù legata al foto-secessionismo». Chi o cosa fosse il foto-secessionismo non è dato di sapere, come non è dato di sapere tutta una serie di sparse menzioni simili a pulviscoli sospesi nell’aria. Ciò che scandalizza peggio di un’aberrante devianza sessuale è l’assoluta cancellazione della parabola intellettuale di Alfred Stieglitz e l’ignoranza (assoluta) della sua pratico/teorica impo-
stazione della fotografia diretta o straight photography, come la volete definire. Ed è Paul Strand (i nomi completi!) che influenza Stieglitz! Come affermare che il signor Diesel suggerì l’invenzione del motore a scoppio o, per rimanere nell’ambito della fotografia, che Sebastião Salgado ispira Henri Cartier-Bresson. Qui siamo nel “giorno del non compleanno” e l’ammirevole Lewis Carroll (pagina 29) è trattato come un individuo che mise in scena qualche modesto teatrino infantile. La cultura di un’epoca, gli orientamenti religiosi divergenti della chiesa anglicana, la cornice intellettuale e del costume non esistono. Ed è proprio l’analfabetismo di qualsiasi riferimento storico/culturale che rende avulsi tutti questi personaggi dal contesto sociale, e dalle altri arti, e azzera il significato del loro lavoro. Signori, sono esausta. Qui mi fermo. E la professoressa Madesani, che insegna storia della fotografia in un paio di istituti, per fortuna, privati, ha stilato questo mostro con la “pretesa di aiutare i miei studenti” e si è autoriconosciuta “storica della fotografia”. Si sa che questo genere di recensioni stimolano all’acquisto. Per favore, non fatelo. Credetemi sulla parola e se proprio volete verificare, vi presto la mia copia, preziosissima, chiosata a mano. Mi hanno insegnato un rituale del nord Europa: a mezzanotte dell’ultimo dell’anno si promette qualcosa a se stessi per migliorare. Angela prometta, al varco fra il 2006 e il 2007, che prima studierà la grammatica e la sintassi italiana -qualche lettura così per caso... gliela invieremo noi come regalo di Natale-. Poi, con calma, diciamo la notte del 2020, si prometta di scrivere in futuro una storia della fotografia filologicamente corretta nel rispetto del nostro idioma, almeno quindici anni le servono tutti e con applicazione quotidiana. Giuliana Scimé
SEMPLICEMENTE... NIKON
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Continua inesorabile il cammino di quella tecnologia applicata che ha profondi riscontri commerciali. All’indomani della reflex D80, con tutti i propri riferimenti di mercato (FOTOgraphia, ottobre 2006), arriva subito una ulteriore configurazione tecnica Nikon D40. L’indirizzo è oggettivamente diverso, e nello specifico questa attuale combinazione annunciata di maneggevolezza di uso e prestazioni elevate si rivolge a un pubblico più ampio, raggiunto anche attraverso un prezzo di acquisto adeguatamente conveniente. Ovviamente, la tecnologia risolve un consistente insieme di praticità, tanto che si sottolinea una confortevole facilità di impiego, appunto rivolta a un’utenza non necessariamente già esperta di fotografia (a proposito, perché questa reflex digitale arriva solitaria, all’indomani della Photokina?). La nuova reflex digitale Nikon D40 è dotata di un sensore CCD di acquisizione ad alta risoluzione, in formato Nikon DX da 6,1 Megapixel ef-
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fettivi. In associazione, un motore avanzato di elaborazione delle immagini garantisce adeguati dettagli di immagine e colori fedeli e vivaci. Inoltre, con l’esclusiva misurazione esposimetrica Nikon Color Matrix 3D II si ottiene un accurato controllo della luce e della resa fotografica, anche in condizioni di illuminazione difficili.
RIPRESA Per determinare e impostare prontamente l’esposizione appropriata, la Nikon D40 valuta immediatamente luminosità, contrasto e colori dell’inquadratura, subito confrontati con le informazioni del proprio database incorporato, costituito da oltre trentamila situazioni reali di illuminazione. La funzionalità Auto Iso consente di mettere adeguatamente a frutto la luce disponibile, impostando automaticamente la sensibilità opportuna entro un’escursione da 200 a 1600 Iso equivalenti. Allo stesso momento, i medesimi valori possono anche essere impostati manualmente, approdando altresì a una ulteriore sensibilità HI 1, di uno stop superiore a 1600 Iso (che recupera la luminosità allo stesso modo delle pellicole chimiche trattate in sviluppo forzato a più uno stop, con riduzione automatica del rumore implicito). Grazie agli algoritmi perfezionati di controllo dell’autofocus, ereditati dalle dotazioni delle recenti Nikon D200 e D80, la D40 offre un sistema di messa a fuoco avanzato, in grado di garantire elevata nitidezza e precisione anche in condizioni di scarsa illuminazione. È una reflex digitale rapida, pronta all’uso in 0,18 secondi dall’accensione; il minimo scarto di scatto, consente quindi di acquisire scene di azione fino alla sequenza di
Novità tecnica, arrivata sul mercato all’indomani della Photokina (perché mai?), la reflex digitale Nikon D40 si indirizza al più ampio pubblico. Dunque, l’insieme delle prestazioni di uso si combina con un corpo macchina adeguatamente compatto ed ergonomico.
2,5 fotogrammi al secondo, per un massimo di cento scatti consecutivi in formato Jpeg Fine. In ogni condizione luminosa e di contrasto del soggetto inquadrato, le modalità Digital Vari-Program di automatismo di ripresa sono indirizzate a risultati ottimali, grazie alla scelta automatica delle impostazioni migliori in combinazione ai più opportuni valori di sensibilità Iso equivalente. Per esempio, l’automatismo senza flash disattiva il flash incorporato quando si impostano valori alti della sensibilità Iso: per mantenere l’atmosfera originaria della scena fotografata o fotografare nelle situazioni nelle quali non sia consentito l’uso dello stesso flash. Di dimensioni compatte e con una confortevole ergonomia, la Nikon D40 è dotata di mirino luminoso e nitido, con ingrandimento 0,8x. L’ampio monitor LCD a colori ad alta risoluzione da 2,5 pollici fornisce una visualizzazione chiara per controllare la nitidezza, l’esposizione e la messa a fuoco, potendo anche ingrandire l’immagine fino a diciannove volte. L’alimentazione con batteria ricaricabile agli ioni di Litio dà un’autonomia fino a quattrocentosettanta scatti. Il potente flash incorporato utilizza il controllo flash Nikon i-TTL, che consente una maggiore precisione nella valutazione dell’esposizione del flash e un migliore bilanciamento del flash automatico, anche in caso di scene con soggetti in controluce oppure oggetti riflettenti sullo sfondo.
GESTIONE Le funzionalità esclusive di modifica delle immagini, incorporate nel nuovo menu Ritocca della Nikon D40, garantiscono una maggiore libertà creativa senza usare un computer. Sono disponibili le funzionalità DLighting, Correzione occhi rossi e Ritaglio immagine, nonché altre funzionalità creative e personalizzate, quali Sovrapposizione foto, Mini-foto, Monocromatico (Bianconero, Intonazione seppia, Viraggio blu) ed
Effetti filtro (Skylight, Filtro caldo, Bilanciamento colore). Tanta e tale semplicità si abbina a un sofisticato controllo del bilanciamento del bianco, che consente di
gestire la maggior parte delle condizioni di illuminazione; inoltre sono disponibili sei impostazioni manuali specifiche e una opzione di pre-misurazione per la calibratura in condizioni di luci miste, in caso di riferimento a soggetti grigi o bianchi. Il software Nikon PictureProject,
Commercializzata in kit con l’obiettivo Zoom-Nikkor AF-S DX 18-55mm f/3,5-5,6G ED II, la reflex digitale Nikon D40 conferma l’insieme delle soluzioni tecniche della propria famiglia: sensore CCD da 6,1 Megapixel Nikon DX, misurazione esposimetrica Color Matrix 3D II, funzionalità incorporate di gestione dell’immagine, software PictureProject in dotazione e altro ancora.
fornito in dotazione, semplifica il trasferimento, l’organizzazione e la condivisione delle immagini. Per un maggiore controllo creativo è disponibile Capture NX (acquistabile separatamente), il nuovo e versatile software di fotoritocco di Nikon. Si tratta di un programma ideale per la fase di post-elaborazione che consente di mettere a frutto al meglio le immagini NEF (file grezzo RAW). La Nikon D40 viene commercializzata in kit con il nuovo Zoom-Nikkor AF-S DX 18-55mm f/3,5-5,6G ED II, dotato di motore SWM (Silent Wave Motor) e definito da un disegno ottico comprendente una lente ED a basso indice di dispersione, che riduce sensibilmente le aberrazioni cromatiche e offre una adeguata qualità dell’immagine. Inoltre, una lente asferica ibrida riduce l’astigmatismo e altre forme di distorsione, garantendo al contempo risoluzione e contrasto elevati. (Nital, via Tabacchi 33, 10132 Torino). A.Bor.
A DOMANI (CON NOKIA)
È
È assolutamente inutile difendere il passato, la storia, ragionando in termini e con concetti integralisti. La storia è qualcosa che procede, nonostante e malgrado noi e le nostre idee e opinioni. La storia è inarrestabile; ci piaccia o meno, anche la storia evolutiva degli strumenti tecnici. Ovverosia, degli apparecchi fotografici. Dal 1839, data ufficiale, per un secolo e mezzo abbondante, la fotografia è stata soltanto chimica, e si è basata su supporti sensibili alla luce: pellicole al momento dello scatto e carta per la stampa delle copie. Da tempo, l’acquisizione digitale di immagini, che dipende dalla trasformazione elettronica a partire da un sensore che interpreta la luce (diciamo-
BIANCO E NERO laboratorio fotografico fine - art solo bianco & nero
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Nokia 7650: primo telefono cellulare con obiettivo; 2001. Il percorso storico dell’evoluzione degli strumenti della fotografia allestito al MNAF (Museo Nazionale Alinari della Fotografia), del quale riferiamo da pagina 28, si conclude con questo telefono dotato di funzioni fotografiche. Non è un punto di arrivo, ma partenza di un’altra socialità.
la così), si è affiancata alla fotografia chimica tradizionale, per la quale sono stati coniati termini identificatori: il più usato è “fotografia analogica”, il preferito è “fotografia argentica”. Ma non è questo, il problema. Invece, bisogna prendere atto che i giorni della fotografia chimica sono ormai contati: lo rivelano le scelte industriali, che ripetono e ribadiscono annunci di cessate produzioni. Attendiamo l’epitaffio, imminente, della pellicola fotografica in quanto tale. Quindi, annunciata con doveroso anticipo, l’acquisizione digitale, attuale forma della fotografia, sta per sostituire in toto i materiali fotosensibili (pellicole sensibili alla luce), ai quali si è da tempo affiancata. Dovendo stabilire riferimenti temporali certi, va sottolineato il 24 agosto 1981, quando, con una conferenza stampa a sorpresa, Akio Morita, presidente Sony, ha dato avvio a una nuova era fotografica, che ha maturato i propri concreti frutti a cavallo del Millennio, ed oggi è una realtà affermata e consolidata. Con quell’originario prototipo Sony Mavica, oppure Sony EX-50, è nata la fotografia digitale, con sensore solido CCD di acquisizione delle immagini: cinquanta a colori sulla cassettina magnetica originaria. Inizialmente venne ipotizzata una commercializzazione a partire dal successivo 1983, ma poi i tempi della fotografia elettronica si sono dilatati; ma da anni, ormai, le sistematiche evoluzioni si susseguono a ritmo sempre più rapido, spesso addirittura forsennato. Comunque sia, a Sony va riconosciuta la primogenitura. Il resto sono soltanto parole. Sulla stessa lunghezza d’onda, si registra anche l’integrazione di funzioni fotografiche all’interno delle differenziate prestazioni degli attuali telefoni portatili. I telefonini con obiettivo e capacità di scattare fotografie sono una realtà che si proietta nell’immediato futuro, accodandosi a una radicale trasformazione del
modo di intendere la fotografia e della relativa impronta sociale del fare e consumare fotografia. A partire dalle originarie dotazioni, soprattutto Nokia rivela una particolare attenzione alla costante e continua progressione tecnica, che a tempi medi, ma forse addirittura brevi, allineerà la qualità della fotografia da telefonino a quella corrente della fotografia digitale, per immagini e copie su carta praticamente identiche e indistinguibili tra loro. Annotazione parallela: la libertà di fotografia indotta dalle funzioni fotografiche abbinate al telefonino (oggetto individuale, ormai indispensabile nel mondo occidentale) potrebbe non appartenere alla lunga storia evolutiva della fotografia, dalle origini ai giorni nostri. Questa tecnologia applicata manifesta e rivela altri debiti di riconoscenza, esterni ed estranei -appunto!- alla consecuzione fotografica. Non nasce nel mondo dell’immagine, ma declina l’immagine nel mondo quotidiano. E la differenza non è da poco. M.R. Presentazione della tematica espositiva A domani, dal catalogo guida del MNAF (Museo Nazionale Alinari della Fotografia), del quale riferiamo da pagina 28.
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VERSO IL FUTURO
Senza andare troppo nel sottile, cioè senza richiamare teorie di spessore, ma rimanendo in superficie, ricordiamo che tra i valori che caratterizzano il linguaggio fotografico un posto d’onore spetta alla registrazione di fatti e avvenimenti che si proiettano al futuro. Diciamo che la fotografia ferma il tempo. Da qui (o, forse, non proprio da qui), una certa fantasia ha elaborato affascinanti visioni parallele, che modificano questa condizione, interpretandola in modo quantomeno stravagante. Di fatto, queste fantasie, più di una, come stiamo per vedere, hanno ipotizzato la macchina fotografica che non c’è e che, siamo sinceri, non potrà mai esserci: la macchina fotografica che vede e registra il futuro. È un gioco, ovviamente, che scarta a lato ogni concreta ipotesi tecnologica del presente-futuribile, e apre le porte di un territorio completamente diverso. Non quello della realtà, ma del sogno. In questo senso, le segnalazioni odierne non possono che aprirsi con un episodio della antica serie televisiva Ai confini della realtà, cui ci siamo riferiti lo scorso ottobre, quando abbiamo segnalato l’attuale edizione Dvd distribuita in edicola. Testuale il richiamo di ogni puntata degli avvincenti telefilm dei primi anni Sessanta: «C’è una quinta dimensione, oltre quelle che l’uomo già conosce; è senza limiti, come l’infinito, e senza tempo, come l’eternità. È la regione intermedia tra la luce e l’oscurità, tra la scienza e la su-
perstizione, tra l’oscuro baratro dell’ignoto e le vette luminose del sapere. È la regione dell’immaginazione, una regione che si trova... ai confini della realtà».
INSOLITA Un’insolita macchina fotografica è il decimo episodio della seconda stagione di Ai confini della realtà (19601961), che dovrebbe arrivare, o essere già arrivata, nei Dvd in edicola, pubblicati al ritmo di tre episodi alla volta, e che è disponibile nella raccolta completa dei telefilm in cinque Dvd, confezionati sulla cadenza delle stagioni televisive originarie, reperibile nei negozi specializzati. Nella propria camera d’albergo, una coppia di ladri lamenta la povertà di un bottino. Tra gli oggetti rubati in un negozio di antiquariato, che sulla carta prometteva bene (meglio), c’è anche una vecchia e inutile macchina fotografica a cassetta, con una curiosa etichetta “Dix a la proprietaire”. Addirittura, i due pensano che non funzioni; per provarla, lei si piazza davanti alla finestra, in posa da diva. Dopo lo scatto, alla maniera degli apparecchi Polaroid per pellicola a colori autosviluppante (nati con l’originaria SX-70 del 1972; più di dieci anni dopo questa sceneggiatura), la macchina fotografica espelle la copia bianconero che, a sorpresa, non raffigura ciò che l’obiettivo ha puntato, ma qualcosa di diverso: nella fotografia, la signora indossa una pelliccia, assente al momento dello scatto [a destra]. Stupore, incredulità e immediata consapevolezza, peraltro confermata da un secondo scatto prontamente realizzato: la macchina fotografica non fissa il presente, ma scruta avanti nel tempo, rivelando ciò che si svolge/rà cinque minuti dopo. Ovviamente, i due, cui si è unito il fratello di lei evaso di prigione, mettono prontamente a frutto questa incredibile visione nel futuro prossimo, andando a fotografare i tabelloni delle corse dei cavalli, per conoscere a priori l’ordine d’arrivo e
Fotogrammi consequenziali da Un’insolita macchina fotografica, decimo episodio della seconda stagione di Ai confini della realtà (1960-1961). Una coppia di ladri scopre di aver rubato una macchina fotografica particolare e unica, che mostra immagini cinque minuti avanti nel futuro. Finalizzano questa anticipazione per puntare su cavalli vincenti e poi incorrono in inevitabili guai: la legge del contrappasso.
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puntare a conseguenza sui vincenti. In un pomeriggio si arricchiscono; la felicità e il benessere sono però brevi, perché, ora di sera, le potenzialità della stessa macchina fotografica si ritorcono contro di loro: chi vuole, scopra da sé il triste finale, peraltro comune a molti episodi della serie Ai confini della realtà.
NARRATIVA Come abbiamo annotato, la macchina fotografica che scruta il futuro è un tema ricorrente in certa narrativa (lo stiamo per vedere) come in identificate sceneggiature (l’abbiamo appena annotato) oppure tra i fumetti (lo incontreremo più avanti). Nella traduzione dal russo del compianto Emilio Frisia, fotografo e cultore della fotografia recentemente scomparso, proponiamo un passaggio da un inedito di Vadim Sergeevich Schefner, Un eroe troppo modesto (ovvero Un viaggio dietro la propria schiena). - E questo che cos’è? - domandò Ljusja. - Che strana macchina fotografica. Non ne ho mai viste del genere. - Ma è una normalissima Fed, solo che le ho applicato un obiettivo speciale. Si tratta di un obiettivo che ho costruito io di recente e che permette di fotografare nel futuro. Tu metti a fuoco l’obiettivo sul riquadro di spazio che vuoi fotografare e di cui vuoi sapere come sarà il futuro, e poi schiacci il bottone. Il congegno è ancora molto rudimentale; si può fotografare solo con tre anni di anticipo; più in là non si riesce ad arrivare. - Ma anche con tre anni di anticipo è moltissimo! Tu hai fatto una grande scoperta!
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Pubblicati nella collana per ragazzi Piccoli brividi (Mondadori Editore), Foto dal futuro e Foto dal futuro n° 2, di Robert Lawrence Stine, sono racconti nei quali le fotografie sono premonitrici di qualcosa che avverrà.
Protagonista dell’omonima serie di fumetti di Akira Toriyama, il Dottor Slump ha inventato la «macchina [fotografica] che fotografa il futuro». Oltre le dotazioni consuete, dispone di un regolatore degli anni in avanti e del relativo contatore abbinato.
- Ma va, grande! - disse Sergej, facendo un gesto di noncuranza. - è una roba ancora molto rudimentale. - Ma ne hai già fatte delle foto? - domandò Ljusja. - Sì, le ho fatte; ho girato per la città e ho scattato qualche fotografia. Sergej tirò fuori dalla scrivania alcune stampe 9x12cm. - Guarda, qui ho ripreso una betulla in un prato com’è adesso senza il mio congegno. E guarda qui la stessa betulla come la si vedrà tra due anni. - È cresciuta un po’. - E qui tra tre anni - soggiunse Sergej. - Ma non c’è più - si meravigliò Ljusja. - C’è solo un mozzicone di pianta con una buca accanto, come un imbuto. E là lontano, guarda! Ci sono dei militari che corrono. E la loro divisa è davvero strana... Non ci capisco niente! - Sì, anch’io mi sono meravigliato quando ho stampato queste foto - disse Sergej. - Probabile che ci saranno delle manovre, ecco quel che penso. - Sai che ti dico Sergej? Bruciala questa foto. Può esserci dentro qualche segreto militare. La foto potrebbe finire nelle mani di qualche spia! - Hai ragione, Ljusja - disse Sergej. - Ci avevo appunto pensato anch’io. Strappò la foto, e la gettò nella stufetta, dove c’era già molto ciarpame, e l’accese. - Così mi sento più tranquilla disse Ljusja. - Ma adesso fotografa me, come sarò tra un anno. Ecco mi fotografi su questa poltrona vicino alla finestra. - Il mio obiettivo, però, riprende soltanto l’inquadratura del luogo e quello che ci sarà lì allora. Se tu tra un anno non ci sarai su questa poltrona, non verrai
fuori nemmeno sulla fotografia. - Tu comunque fotografami. Tra un anno esatto, in questo giorno e a quest’ora io mi siederò senza fallo su questa poltrona. - Va bene, allora proviamo. E lui fotografò Ljusja in poltrona con regolazione del tempo su un anno. - La sviluppo e stampo subito - disse. - Oggi, il bagno del nostro appartamento è libero e nessuno ci lava la biancheria. Quando la pellicola fu sviluppata, Ljusja la prese delicatamente per i bordi e guardò l’ultimo fotogramma; ma dal negativo è difficile giudicare l’immagine. Comunque le parve che la donna seduta in poltrona non fosse lei. Invece avrebbe tanto voluto esserci proprio lei seduta tra un anno su quella poltrona. “No, probabilmente sono io - decise -, solo che sarò riuscita male”. Quando la pellicola fu asciutta, andarono tutti e due in bagno, dove la lampadina rossa era già accesa. Sergej infilò la pellicola nell’ingranditore, diede luce e l’immagine negativa fu proiettata sulla carta sensibile. Con movimenti rapidi, mise la carta nel rivelatore. Sulla cartolina comparvero i tratti di una donna sconosciuta che sedeva sulla poltrona. Stava ricamando un grosso gatto su un pezzo di tela. Il gatto era quasi finito; gli mancava solo la coda. - Ma questa qui seduta non sono io - disse turbata Ljusja. - È proprio un’altra. - Eh sì, non sei tu - confermò Sergej. - Ma io non so chi sia. Questa donna non l’ho mai vista. - Sai, Sergej, è ora che me ne torni a casa - disse Ljusja. - E tu puoi anche non accompagnarmi. La macchina per scrivere la da-
rata? Pesavo due quintali?». Sempre nell’ambito della letteratura per ragazzi, nella collana dedicata Il giallo dei ragazzi, ancora Mondadori Editore, c’è un romanzo di Giulia Sarno a sfondo fotografico: per l’appunto, Il fotogramma rivelatore. In questo caso non si tratta di fantasia, né fantascienza, ma di qualcosa che ha eventuali debiti di riconoscenza con le sceneggiature del cinematografico Blow up di Michelangelo Antonioni (1966) e del fumetto Ciao Valentina di Guido Crepax (1966, cronologicamente anteriore al film; ribattezzato Ciao, Valentina! nel giugno 1972, nella reimpaginazione per il terzo titolo dei Libri di Linus), nei quali dettagli casualmente involontariamente compresi nei secondi piani di inquadrature fotografiche, defilati rispetto il soggetto principale, svelano e rivelano un omicidio. Ovviamente, non è sempre piacevole conoscere il proprio futuro, non soltanto dal punto di vista dell’aspetto fisico. [Attenzione: i fumetti giapponesi si devono leggere da destra a sinistra].
Sulla propria copia a sviluppo immediato, la Polaroid Onyx di Terrore dall’infinito, numero 61 di Dylan Dog, non registra la presenza dell’astronave aliena. [Attenzione: per evidenziare la consecuzione sottolineata, abbiamo inserito una colorazione artificiosa].
rò ad aggiustare al laboratorio riparazioni. - Ma lascia che ti accompagni a casa. - No, Sergej, non si deve. Sai, io non voglio immischiarmi nel tuo destino. - E se ne andò. “No, proprio non mi portano fortuna le mie invenzioni”, pensò Sergej. Prese un martello e fece a pezzi quella maledetta macchina. Analogamente, la stessa fotografia del futuro è tema di due romanzi della collana per ragazzi Piccoli brividi, dell’editore Mondadori. In sequenza algebrica, Foto dal futuro e Foto dal futuro n° 2, dello statunitense Robert Lawrence Stine, sono racconti nei quali le fotografie (ancora in stile polaroid, a sviluppo immediato ed espulsione istantanea) sono premonitrici di qualcosa che avverrà. La declinazione è assolutamente e volontariamente avventurosa, visto e considerato che la collana promette ai propri giovani lettori viaggi “nel mondo della paura”. Dalle rispettive presentazioni, in quarta di copertina: «La casa, comunque, era disabitata da anni, per lo meno da quanto ricordavano Greg e i ragazzi. Sarà stato per questo che in città si raccontavano strane storie su Villa Coffman, che avevano per protagonisti fantasmi inconsolabili o crudeli assassini as-
setati di sangue, che si erano macchiati di efferati delitti in quelle stanze», nelle quali i ragazzi trovano, appunto, la macchina fotografica che vede nel futuro. Seconda tornata: «Chiusi gli occhi. Non avevo il coraggio di guardare. Ma non avevo scelta. Dovevo farlo. Dovevo sapere che cosa mi era successo. Lentamente, molto lentamente, aprii un occhio. Poi l’altro. Inspirai a fondo e guardai il mio riflesso. La premonizione della foto si era avve-
FUMETTO Leggendario nell’ambito della cultura dei fumetti giapponesi, Dottor Slump & Arale è una delle più note e fortunate serie disegnate da Akira Toriyama, affermato autore proiettato nell’olimpo internazionale, ampiamente conosciuto in Italia. Nel dicembre 1996, esattamente dieci anni fa, la specializzata Star Comics, di Bosco, in provincia di Perugia, ha pubblicato l’avventura Verso il domani, basata sulle fantastiche pos-
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sibilità di una macchina fotografica che penetra il futuro: appunto attuale soggetto delle nostre osservazioni odierne. Senza alcun limite, un regolatore di tempo, non di sola otturazione, permette di vedere avanti negli anni e nei decenni. Inevitabile rilevare i disagi che questo provoca nei protagonisti, che si fotografano l’un l’altro, ottenendo proprie raffigurazioni in età cronologicamente a seguire, con relativa accentuazione di acciacchi fisici e deperimenti vari [a pagina 19]. Invece, scartando un poco a lato, la Polaroid Onyx di Terrore dall’infinito, sessantunesimo fascicolo della fortunata collana di Dylan Dog, di Sergio Bonelli Editore (ottobre 1991), annota non tanto in avanti nel tempo, quanto annulla qualcosa che si vede (?) a occhio nudo. A parte la colta e raffinata ci-
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Chi viene fotografato con la biottica dotata di obiettivo malefico si trasforma in un assatanato assassino, come l’aspirante modella Tippy, che infierisce sui propri genitori (da Safarà, avventura numero centottantadue di Dylan Dog).
Ancora da Safarà. Neanche la top model Emily sfugge alla maledizione, o maligna influenza, dell’obiettivo della biottica magica. Anche lei si trasforma in crudele assassina.
tazione della Onyx, la Polaroid con livrea trasparente, che lascia intravedere i propri ordinati dispositivi interni, annotiamo che sulle copie a sviluppo immediato scompaiono gli alieni, presenti nella scena in una dimensione [mentale] diversa da quella registrabile dalla pellicola fotosensibile [a pagina 19]. Per certi versi, declinando all’inverso, possiamo rimandare questa condizione e situazione alla fantasia con la quale, all’inizio del Novecento, abili truffatori speculavano sull’incredulità popolare, spacciando fotografie di presunti fantasmi. Inutile sottolineare che queste figure evanescenti, all’interno di inquadrature abilmente confezionate, si basavano sulla sapiente regolazione di tempi di esposizione lunghi, durante la cui estensione complici istruiti si muovevano sulla scena lasciando soltanto la scia del proprio passaggio. Ancora Dylan Dog arriva a una
fantascientifica situazione fotografica nell’episodio Safarà (numero 182, del novembre 2001). Anche qui, non c’entra il futuro, bensì i poteri di un particolare obiettivo, applicato a una biottica di fantasia, che trasformano i soggetti fotografati in assatanati assassini, che infieriscono sulle proprie innocenti vittime, dilaniandole [in questa pagina]. Ribadiamo: tante fantasie, tutte fantasie che vanno ben oltre il reale, proponendo macchine fotografiche che non avremo mai sui nostri scaffali e che non verranno mai realizzate da alcun produttore. Quindi, riferendoci ancora alla recente Photokina 2006, sul cui svolgimento ci siamo soffermati lo scorso novembre, si tratta di macchine fotografiche che non verranno mai presentate nell’ambito di alcuna carrellata di novità tecnologiche. Per la pace di tutti noi. M.R. Ricerca iconografica di Filippo Rebuzzini
Per quanto minimi e minimali, in un equilibrio tecnico e commerciale di altri numeri ed esuberanti potenzialità merceologiche, gli obiettivi Lensbaby sollecitano una applicazione intelligente dell’esercizio fotografico. E poi, a diretta conseguenza, danno lustro e contenuto all’intero mondo della fotografia, che può solo trarre beneficio da queste visioni creative di profilo Lensbaby/Lensbabies è un sistema di tre obiettivi per reflex 35mm (a pellicola) e reflex digitali derivate. La montatura flessibile di gomma consente sfocature volontarie e arbitrarie: a ciascuno, le proprie.
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ingolare e plurale. Realizzati in tre versioni differenti, ne stiamo per riferire, gli obiettivi Lensbaby appartengono alla famiglia Lensbabies: appunto, dal singolare al plurale nella lingua originaria inglese. Nel concreto, prima di altre considerazioni specifiche, rileviamo subito che si tratta di una produzione fotografica statunitense, da Portland, nell’Oregon. L’annotazione non è secondaria, né, tantomeno, superflua: sottolinea subito uno spirito leggero nei confronti dell’immagine e della tecnica, del quale si faccia prontamente tesoro, dando spazio e merito a quell’atteggiamento concreto e pragmatico che antepone i contenuti alla forma (apparente). Per certi versi, il sistema ottico Lensbabies appartiene alla fantastica ed affascinante genìa di strumenti creativi per vocazione e intenzione esplicita, tutti proiettati ad approfondimenti di linguaggio e fantasia applicata, della quale fa parte, tanto per esemplificare, la coinvolgente e prolifica esperienza
Holga e dintorni (FOTOgraphia, febbraio 1998, settembre 1998, giugno 2001, marzo 2002 e settembre 2005). In pratica, al pari di altre dotazioni tecniche di spiccata personalità, gli obiettivi Lensbaby proiettano lo scatto fotografico verso interpretazioni particolari nella forma, quanto significative nei contenuti. Sottolineiamolo: non è soltanto un gioco fine a se stesso, pure se per qualcuno potrebbe anche esserlo (e sono fatti suoi), ma una fonte espressiva da mettere proficuamente a frutto. Un per l’altro, con proprie configurazioni ottiche e costruzioni meccaniche autonome, i tre Lensbaby sono obiettivi per reflex 35mm (a pellicola, piuttosto che ad acquisizione digitale di immagini) in montatura flessibile di gomma a messa a fuoco e sfocatura controllata. L’effetto fotografico finale, ap-
SPAZIO ALL’INGEGNO
PEGGY DYER (LENSBABY 2.0) LISA SMITH (LENSBABY 2.0)
punto costruito soprattutto sulla sfocatura volontaria di porzioni del soggetto inquadrato, si basa sulla pertinente combinazione di due componenti ottiche: l’accomodamento selettivo della messa a fuoco e il basculaggio ottico (inclinazione) rispetto il piano immagine, appunto governato sulla montatura flessibile dell’obiettivo. Il princìpio è noto e conosciuto. L’alterazione della posizione originaria e basilare dell’obiettivo di ripresa, non più rigorosamente perpendicolare al piano immagine, al centro delle sue dimensioni, modifica la proiezione ottica. In molti casi, questa inclinazione (o basculaggio) è pertinentemente finalizzata all’estensione della nitidezza: per e con soggetti collocati su piani successivi. Quindi, in applicazione opposta e volontaria, può essere interpretata all’esatto contrario: per la contrazione consapevole della nitidezza, limitata a un solo piano del soggetto inquadrato. In definitiva, come hanno insegnato le lezioni specifiche della fotografia a corpi mobili (soprattutto con apparecchi grande formato a banco ottico e/o folding), si tratta semplicemente di orientare diversamente il piano di messa a fuoco, per svincolare l’estensione avanti-indietro della profondità di
L’effetto di sfocatura volontaria dipende soprattutto dall’inclinazione del gruppo ottico Lensbaby rispetto al piano immagine. Oltre il puro e semplice esercizio fotografico formale, i contenuti visivi ed espressivi sono applicati dalla capacità dell’autore.
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TRE LENSBABY, DUNQUE LENSBABIES
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ensbaby è il prodotto. Lensbabies, l’azienda produttrice. Lensbaby è l’obiettivo in montatura flessibile di gomma, per reflex 35mm (a pellicola) e reflex digitali derivate. Lensbaby è disponibile in tre diverse versioni. Quello che viene oggi definito “The Original”, l’Originale, è l’obiettivo Lensbaby a una sola lente, con lunghezza focale prossima a 50mm (che diventano 65mm con le reflex di maggiore tiraggio tra la montatura dello stesso obiettivo e il piano immagine). L’estensione della sua montatura flessibile consente un accomodamento da circa diciotto centimetri, che si combinano con la simultanea possibile inclinazione rispetto al piano immagine, per conseguenti distribuzioni volontarie e arbitrarie della nitidezza. Diaframmi mobili, da collocare manualmente sulla lente frontale, controllano la luminosità in entrata: f/2,8, f/4, f/5,6 e f/8 (che diventano f/3,3, f/5,1, f/7,5 e f/10 con le reflex di maggiore tiraggio). In montatura fissa per reflex 35mm e digitali Canon EF, Canon FD, Contax/Yashica, Minolta AF (Konica-Minolta e Sony), Minolta MD, Nikon, Olympus E (Panasonic e Leica TreQuarti), Olympus OM, Pentax K (Samsung GX), Leica R e vite 42x1. Nella propria sostanza, la versione Lensbaby 2.0 riprende i termini tecnici caratteristici dell’Originale: focale 50mm; a fuoco da 25cm; set di diaframmi mobili, a collocazione magnetica (per aperture relative diverse, lo stiamo per vedere); in montatura fissa per reflex 35mm e digitali Canon EF, Canon FD, Contax/Yashica, Minolta AF (Konica-Minolta e Sony), Minolta MD, Nikon, Olympus E (Panasonic e Leica TreQuarti), Olympus OM, Pentax K (Samsung GX), Leica R e vite 42x1. La differenza fotografica riguarda il gruppo ottico, formato da un doppietto (due lenti, da cui la definizione 2.0), e la scala dei diaframmi, che parte da un’apertura relativa di uno stop più ampia: f/2, f/2,8, f/4, f/5,6 e f/8. Quindi, novità maturata in occasione della recente Photokina di Colonia (FOTOgraphia, novembre 2006), la versione Lensbaby 3G riprende la costruzione ottica dell’obiettivo 2.0, in una montatura dotata di fini regolazioni micrometriche. Lo spirito originario non è stato tradito. La montatura flessibile in gomma è sempre a movimento libero; però, una volta raggiunta la regolazione desiderata, l’operatore può bloccarla definitivamente, senza doverla mantenere “a mano”. Solidali al blocco, ulteriori raffinate regolazioni micrometriche consentono interventi mirati sia sul basculaggio sia sulla messa a fuoco (in assoluto, da circa trentun centimetri). Ancora, la collocazione dei diaframmi mobili alla lente frontale è magnetica, come nel caso del precedente Lensbaby 2.0, con scala estesa: f/2, f/2,8, f/4, f/5,6, f/8, f/11, f/16 e f/22. In montatura fissa per reflex 35mm e digitali Canon EF, Minolta AF (Konica-Minolta e Sony), Nikon, Olympus E (Panasonic e Leica TreQuarti), Pentax K (Samsung GX) e Leica R.
Per le dotazioni ottiche originarie Lensbaby (focale circa 50mm) sono previsti e disponibili aggiuntivi universali macro, grandangolare e tele.
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Come tutti i Lensbaby, anche il nuovo 3G è disponibile in baionetta fissa per un consistente insieme di reflex 35mm e digitali. Oltre i movimenti liberi di messa a fuoco e inclinazione (basculaggio) della montatura flessibile in gomma, dispone di blocco della posizione raggiunta, che inserisce una regolazione micrometrica supplementare, per accomodamenti raffinati. Tutti gli obiettivi Lensbaby dispongono di proprie scale di diaframmi mobili, che si collocano alla lente frontale (in maniera “antica”): sistemazione libera per il Lensbaby Originale (The Original, da f/2,8 a f/7) e magnetica per i Lensbaby 2.0, qui illustrato (da f/2 a f/8), e Lensbaby 3G (da f/2 a f/22), con penna di recupero e disposizione dell’anello-diaframma. Ovviamente, l’effetto di sfocatura volontaria della montatura flessibile di gomma dipende anche dalla stessa apertura del diaframma.
Infine, per i tre Lensbaby (Lensbabies?) sono disponibili kit ottici aggiuntivi, rispettivamente indirizzati alla fotografia macro, all’inquadratura macro grandangolare e alle conversioni grandangolare e tele. Distribuzione: Bogen Imaging Italia, via Livinallongo 3, 20139 Milano.
CHERIE STEINBERG COTÉ (LENSBABY THE ORIGINAL) / 2
PEGGY DYER (LENSBABY 3G)
campo dall’originaria distribuzione perpendicolare/parallela al piano immagine. L’intenzione Lensbaby/Lensbabies, che ne fa bandiera e motivo conduttore, è completamente rivolta alla interpretazione creativa del soggetto, costruito in inquadrature e composizioni di forte connotazione visiva: distribuzione volontaria di una nitidezza estremamente selettiva all’interno di sfocature arbitrarie. Il tutto, va sottolineato una volta ancora, sia con pellicola chimica tradizionale 24x36mm sia in acquisizione digitale di immagini, con sensori di dimensioni inferiori o uguali.
La forte distribuzione dei piani, con netta separazione tra nitidezza e sfocatura, è congeniale sia alla fotografia di oggetti (still life) sia alla fotografia di figura. L’arbitrarietà della raffigurazione è finalizzata all’espressione visiva realizzata.
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JEROME HART (LENSBABY THE ORIGINAL)
LISASMITHSTUDIOS.COM / 3 LENSBABY 2.0 + WIDE 0,6X, f/5,6
LENSBABY 2.0 + TELE 1,6X, f/5,6
MIKE MOHAUPT (LENSBABY THE ORIGINAL)
CRAIG STRONG (LENSBABY THE ORIGINAL)
LENSBABY 2.0, f/5,6
Tre esempi di sfocatura volontaria, formalmente successivi a una comparazione ottica in tre tempi.
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La differenza tra la famiglia Lensbabies e gli obiettivi basculabili e decentrabili presenti in taluni sistemi ottici di profilo alto è sostanziale. Anzitutto, riguarda la pratica e agevole azione diretta sulla montatura in gomma flessibile, che attiva immediatamente infinite interpretazioni del campo inquadrato; in secondo luogo, non certo secondario, si basa su una economia di spesa estremamente contenuta. Rispetto gli obiettivi specialistici, che si accompagnano con costi di vendita sempre impegnativi (proporzionali alle raffinate prestazioni fotografiche che offrono e consentono), gli obiettivi Lensbaby sono economica-
mente confortevoli. Costano pochi euro: al massimo poco più di duecento, nella costruzione ottica e meccanica più raffinata Lensbaby 3G (per i dettagli, riferirsi al distributore italiano Bogen Imaging). A parte sintetizziamo le brevi note tecniche dei tre obiettivi Lensbaby (Originale, 2.0 e 3G; a pagina 24), mentre qui è doveroso ribadirne i contenuti qualificati. Come visualizzano gli esempi pubblicati in queste pagine, si tratta di interpretazioni arbitrariamente personali e personalizzate della realtà. Ovverosia, di una fotografia che acquisisce i termini della propria vantata “creatività” nell’alterazione volontaria dei soggetti inquadrati, sistematicamente esaltati in composizioni costruite con abili e intelligenti piani selettivi di nitidezza e sfocatura. È una moda? Magari vorremmo che lo diventasse anche; ma non nei termini della propria espressione effimera, quanto in quelli di una ragionata e consapevole costruzione fotografica proiettata verso stagioni espressive che diano piacere e gioia individuale e collettiva all’esercizio stesso della fotografia. È un momento passeggero? Non sia mai! La fotografia ha tanto bisogno di invenzioni e creazioni, sia nella propria dimensione chimica (argentica), sia in quella digitale. Inoltre, l’intero mondo della fotografia, come spesso annotiamo e sottolineiamo, non può che trarre proficui e concreti benefici da proposte e proposizioni che sollecitano la mente e il cuore di chi scatta, quali sono quelle indotte dall’accorto e avveduto uso degli obiettivi Lensbaby. Infatti, a ben guardare, un mondo che può contare anche su queste espressioni tecniche è un mondo ricco e vivace. Invece, e al contrario, un mondo che rifiuta l’arbitrarietà espressiva non può che richiudersi in se stesso e nei propri sterili piagnistei commerciali. Maurizio Rebuzzini
ORIGINI DELLA FOTOGRAFIA
LE
Allegoria della fotografia; 1899 (Stabilimento Fotografico dei Fratelli Alinari; lastra 21x27cm).
A
A Firenze, milletrecento metri quadrati di spazi espositivi del Museo Nazionale Alinari della Fotografia. Mostre temporanee e percorso storico-contemporaneo permanente, diviso in sette sezioni: dalla storia della fotografia alle vicende complementari (negativi, album, apparecchi e contorni). Ottimo allestimento, impianto d’eccezione e attenzione rivolta anche ai non vedenti
cronimo di Museo Nazionale Alinari della Fotografia, l’identificazione MNAF irrompe con forza e autorevolezza addirittura in tre ambiti, ognuno dei quali prestigioso per se stesso e nella propria combinazione articolata. Anzitutto, in assoluto, si tratta di un qualificato Museo, che arricchisce la particolare e specifica offerta italiana di competenti visioni storiche e retrospettive; quindi, non certo in subordine, amplia il già vasto ed eterogeneo turismo d’arte nel centro storico di Firenze, dove il Museo è allestito; in chiusura, si propone e offre come indirizzo privilegiato per il racconto della storia della fotografia. Ed è ciò che a noi più interessa. Inaugurato a fine ottobre, il Museo Nazionale Alinari della Fotografia è autenticamente tale: Museo. In un paese, come l’Italia, nel quale termini e qualifiche che dovrebbero sottintendere meriti e competenze specifiche vengono usati con disinvoltura, e spesso fuori luogo, il MNAF è Museo sia dal punto di vista burocratico (certificato dalla pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale
LA STORIA È QUI L’ETA D’ORO
DELLA FOTOGRAFIA
della Repubblica Italiana), sia da quello contenutistico. In questo senso, la combinazione Alinari è discriminante, in quanto la configurazione museale si basa sull’accostamento tra gli spazi istituzionali ed espositivi dello stesso MNAF, in piazza Santa Maria Novella, di fronte alla Basilica, e la sede Alinari, toponomasticamente vicina, in largo Fratelli Alinari, dove si trovano gli uffici amministrativi e direttivi (anche del Museo), la Biblioteca, gli Archivi dei negativi, le Collezioni delle stampe vintage, il Laboratorio di restauro fotografico e la Stamperia d’Arte. In attesa di ulteriori ampliamenti fisici già previsti e programmati, tutti vincolati alla prosecuzione dei lavori di restauro del complesso ex Leopoldine, dove si trovano i locali espositivi del MNAF, al momento attuale il Museo Nazionale Alinari della Fotografia è distribuito su due livelli
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Dalla mostra temporanea, a piano terra si accede al percorso museale storico-contemporaneo del neocostituito MNAF, confezionato con scrupolosi criteri scientifici e didattici, attingendo soprattutto alle vaste collezioni Alinari. Qui si incontrano subito le prime quattro sezioni del Museo: tre direttamente collegate tra loro da un filo temporale in consecuzione e la quarta introduttiva, in un certo senso, del particolare punto di vista com-
Tempio di Saturno al Foro Romano; Roma, 1845 circa (dagherrotipo anonimo, 161x122mm). Bambina che dorme; 1850 circa (dagherrotipo anonimo, 88x120mm). Tempio Greco; Paestum, 1852 (fotografia di Eugène Piot; stampa su carta salata da negativo calotipo, 25x32,7cm).
DELLE AVANGUARDIE
STORIA DELLA FOTOGRAFIA
plementare che ha guidato l’intero racconto storico predisposto. Con ordine. La storia evolutiva del linguaggio fotografico è stata scomposta in tre periodi, ognuno identificato da un proprio richiamo/riferimento e ciascuno affidato a un curatore diverso, che ha potuto approfondire la visione e relativa presentazione. A cura di Monica Maffioli, che è anche direttrice del Museo, Le origini della fotografia (1839-1860) richiama subito la contrapposizione primigenia della storia. Da una parte, l’ufficialità dell’invenzione della fotografia, abbinata al processo dagherrotipico di Louis Jacques Mandé Daguerre (1787-1851), incoronato dall’accademico Dominique François Jean Arago nella nota sequenza di date successive (7 gennaio 1839, annuncio all’Accademia di Francia, e 19 agosto presentazione del procedimento); dall’altra, le prime coeve stampe fotografiche da negativo di carta, ottenute con il processo calotipico dell’inglese William Henry Fox Talbot (1800-1877). Suddivise per generi, dal paesaggio al ritratto, alla composizione artistica, affascinanti e avvincenti opere rivelano come fin dalla nascita la fotografia abbia affrontato la propria espressività creativa e rappresentativa, ulteriore all’appagamento tecnico dell’invenzione. Con L’età d’oro della fotografia (1860-1920), il curatore Italo Zannier accompagna l’osservatore
L’AVVENTO
di milletrecento metri quadrati totali, più ulteriori quattrocento di infrastruttura tecnica. A piano terra, oltre l’area di ingresso e bookshop, si apre l’ampio spazio/salone riservato alle mostre temporanee, che per l’inaugurazione e fino al dieci dicembre sta debuttando con l’imponente selezione di Vu d’Italie 1841-1941. I grandi Maestri della fotografia italiana nelle collezioni Alinari, curata da Anne Cartier-Bresson e Monica Maffioli in collaborazione con l’Atelier de Restauration et de Conservation des Photographies de la Ville de Paris e il Pavillon des Arts di Parigi (dove la mostra è stata esposta in prima mondiale dal novembre 2004 al marzo 2005). A seguire, altre mostre in successione animeranno periodicamente la vita del Museo: dal 14 dicembre al 7 gennaio 2007 è prevista una celebrazione dei sessant’anni dell’Ataf, l’azienda dei trasporti pubblici di Firenze, e dall’11 gennaio all’11 marzo sarà allestita una selezione di opere di Walker Evans.
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SCENOGRAFIA DI GIUSEPPE TORNATORE
Siniolchun; Himalaya, 1909 (fotografia di Vittorio Sella; stampa alla gelatina bromuro d’argento, 39,5x29,8cm). Nudo; 1920 circa (fotografia di Carlo Wulz; stampa alla gelatina bromuro d’argento, 23,7x29,7cm). Donna giapponese che usa cosmetici; 1863 circa (fotografia di Felice Beato; stampa all’albumina colorata a mano, 20,4x25,5cm).
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lungo un tragitto fantastico per creazioni e prolifico per idee. Sono i serrati decenni nei quali la tecnica si evolve, e a conseguenza l’espressione fotografica acquista sicurezza formale, che subito proietta nei propri contenuti culturali. Attraverso l’opera e l’impegno di straordinari autori, la fotografia afferma la propria autonomia artistica. Dall’Europa all’America rimbalzano idee, correnti, scuole di pensiero (e azione). Ormai, la fotografia non limita le proprie potenzialità a una individuata schiera di facoltosi appassionati. È alla portata di tutti, e si allarga a macchia d’olio. Dal Novecento, soprattutto all’indomani della Grande guerra, si registrano sperimentazioni di nuovi linguaggi espressivi, non necessariamente limitati e/o vincolati al presunto realismo e alla schematica oggettività della registrazione ottica. In serrato confronto, suggestive correnti artistiche spalancano porte di visioni che ancora oggi appartengono alla fotografia contemporanea. La fotografia, consistentemente emancipata, non chiede più soccorso alla pittura, ma impone il valore del proprio linguaggio espressivo, proponendosi sia nel mondo dell’arte sia nella vita quotidiana. È questo il senso della sezione L’avvento delle avanguardie (1920-2000), con la quale CharlesHenri Favrod conclude il percorso storico. Selezione di opere dei maggiori protagonisti del Novecento, che hanno arricchito la cultura visiva del mondo con vere e proprie icone del nostro tempo. La storia della fotografia scandita dal MNAF ha, infine, una sorta di postilla, che si propone altresì come ponte di collegamento diretto e introduttivo alle tre sezioni di racconto attraverso gli oggetti (non certo genericamente complementari, quanto autonomamente significativi). Immagini in trasparenza, a cura di Maria Possenti, è una sa-
la delle emozioni per chi, noi tra questi, sa considerare il delicato rapporto, non soltanto formale, che lega e collega il negativo originario, ottenuto dall’esposizione diretta della pellicola fotosensibile, all’espressività creativa dell’immagine. Anche qui, la consecuzione è storica, e il viaggio entusiasmante: dai negativi di carta alle lastre di vetro con le diverse e successive tecniche di sensibilizzazione, dal colore (originario) Autochrome dei fratelli Auguste e Louis Lumière (1862-1954 e 1864-1948, che nel 1895 inventarono anche il cinema!) alle diapositive di vetro colorate a mano, alle pellicole moderne, che hanno definito la seconda metà del Novecento. Nel complesso, una ricca serie di originali da osservare in trasparenza, appunto, per comprendere a fondo le caratteristiche delle indispensabili matrici dell’intero processo fotografico. [A questo proposito rimandiamo alla monografia Celebrating the Negative,
di John Loengard (1994), che raccoglie una serie fotografie di negativi di immagini che appartengono alla storia della fotografia e al costume sociale; FOTOgraphia, maggio 1995].
ALTRE STORIE
nologico, ma si scompone e ricompone in nove capitoli monografici, accostati in uno spazio autonomo, e otto tematici, distribuiti lungo il percorso storico delle immagini, a piano terra. Nel dettaglio, le tematiche di In principio, Box Kodak, Leica e Contax, Rolleiflex, Polaroid, Hasselblad, Nikon F, A domani e le serialità (diciamola così) di Belle o impossibili, Due obiettivi, Reportage statunitense, Tre dimensioni, Italia, Popolari, Interpretazioni reflex, Fenomenale Holga, A contorno. Due annotazioni, ancora: per la spettacolarità di molti di questi apparecchi, sopra a tutti il Megaletoscopio di Carlo Ponti (circa 1870; qui a sinistra), e per l’approdo al telefono cellulare con funzioni fotografiche Nokia 7650 (2001; approfondiamo a pagina 14), che non è considerato il punto di arrivo di un percorso avviato nel 1839 con il dagherrotipo. Bensì: «La libertà di fotografia indotta dalle funzioni fotografiche abbinate al telefonino (oggetto individuale, ormai indispensabile nel mondo occidentale) potrebbe non appartenere alla lunga storia evolutiva della fotografia, dalle origini ai giorni nostri. Questa tecnologia applicata manifesta e rivela altri debiti di riconoscenza, esterni ed estranei -appunto!- alla consecuzione fotografica. Non nasce nel mondo dell’immagine, ma
Idaho, 1939 (fotografia di Dorothea Lange; stampa alla gelatina bromuro d’argento 19,8x24cm). Megaletoscopio di Carlo Ponti; Venezia, 1870 circa. Album in cofanetto a scrigno; 1890 circa. All’interno quattro stampe all’albumina e alla gelatina bromuro d’argento, formato cabinet.
LA FOTOGRAFIA CUSTODITA
Il piano superiore dell’attuale disposizione del Museo Nazionale Alinari della Fotografia, che più avanti allargherà ulteriormente la propria esposizione, sia temporanea sia permanente, si attarda su particolari combinazioni e visioni di oggetti che nel corso dei decenni hanno accompagnato la gestione delle immagini (album e contorni), oppure l’hanno addirittura determinata (apparecchi fotografici). Oltre la scientificità dell’intero progetto, queste tre sezioni danno la misura di una interpretazione storica senza soluzione di continuità, che non si nasconde, né tutela, entro confini culturali preconcetti, ma è capace di guardare a trecentosessanta gradi. Tra l’altro, nota parallela, proprio queste tre sezioni sono invidiate da altre istituzioni museali straniere, che ne sono prive: sia per irreperibilità dei soggetti (dei quali la collezione storica Alinari è comunque ricca), sia per incapacità di superare linee di confine prevenute. Rara raccolta di album delle più varie fogge, dimensioni, materiali, nonché raffinate lavorazioni, La fotografia custodita: gli album fotografici, a cura di Luigi Tomassini, dischiude un universo raramente esplorato, e ancora più raramente portato in superficie. Individuati all’interno delle collezioni Alinari, che ne conservano almeno seimila esemplari, preziosi album per custodire le fotografie sottolineano attenzioni alla copia stampata, da condividere in famiglia o altrove, che rivelano la dimensione e scrupolosità di mondi ed epoche che da lontano guardano i nostri giorni, controversi, contraddittori e, soprattutto, profondamente casuali ed effimeri. Pagine che svelano vicende e atmosfere dalle quali avremmo molto da imparare, ammesso che ci sia ancora modestia e umiltà in quantità necessaria. Passo dopo passo: apparecchi fotografici dal 1839 al Duemila, a cura di Maurizio Rebuzzini, è esattamente ciò che dichiara di essere: un (inedito) percorso attraverso gli strumenti della fotografia, a partire dalle origini. Allestito in collaborazione con Ferruccio Malandrini, il tragitto non è cro-
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declina l’immagine nel mondo quotidiano. E la differenza non è da poco». Infine, Guido Cecere ha curato la sezione conclusiva Intorno alla fotografia, che rimanda il visitatore a un giro su se stesso, quasi si trattasse di un ritmo a rincorsa e ripresa costante. Capitolo poco comune, ricco di spunti e sollecitazioni; per questo, visione irrinunciabile di un percorso museale moderno e contemporaneo. La sezione presenta una raccolta di carte intestate, documenti, cartoline, pubblicità, ma anche ceramiche, vetri, stoffe, gioielli, mobili, oggetti di vario uso e cornici: elementi di rilievo e spicco per la storia della fotografia. Il tutto per raccontare (anche, ma non soltanto) come i fotografi hanno commercializzato attività e prodotti e l’uso fatto delle proprie immagini.
Lampada pubblicitaria Ferrania, disegnata dallo studio Mingozzi; 1950 circa (diametro 35cm). Stendardo pubblicitario dello studio fotografico Alvino, dipinto a tempera da A. Micheli; Firenze, 1899 (190x225cm).
INTORNO ALLA FOTOGRAFIA
PASSO
DOPO PASSO: APPARECCHI FOTOGRAFICI DAL
1839 AL DUEMILA
ANCORA
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I tre enti promotori del Museo Nazionale Alinari della Fotografia sono la Fondazione Alinari, della quale è presidente Claudio de Polo, che dalla metà degli anni Ottanta ha avviato una concreta e sistematica opera di rilancio aziendale della firma (creata nel 1852 dai fratelli Leopoldo, Giuseppe e Romualdo Alinari [1832-1890, 18361890, 1830-1891]), il Comune di Firenze, proprietario del complesso ex Leopoldine di piazza Santa Maria Novella, e l’Ente Cassa di Risparmio di Firenze, presidente Edoardo Speranza, che ha finanziato l’operazione. A seguire, si segnalano diverse sponsorizzazioni di appoggio, alcune delle quali finalizzate alle dotazioni tecniche e infrastrutturali del Museo. Dal nostro punto di vista mirato, sottolineiamo la fattiva e attiva partecipazione di HP, che ha fornito l’infrastruttura hardware necessaria a costruire l’insieme delle installazioni multimediali del percorso. In combinazione con le tematiche della storia degli apparecchi fotografici, già commentate, su monitor scorrono immagini collegate e conseguenti; quindi, in una scenografia di grande impatto visivo, dispositivi HP, collegati a computer ancora HP, proiettano immagini all’interno di cornici rotanti di varie dimensioni, che scendono dal soffitto. Infine, nel bookshop, una Print Station HP consente la stampa immediata di stampe fotografiche scelte e acquistate dai visitatori. L’ottimo progetto del MNAF, che si presenta in maniera impeccabile, degna dei più prestigiosi indirizzi internazionali, ai quali si affianca, è firmato dagli architetti Armando Biondo e Lidia Fiorini (Studio Associato Arktre); il convincente allestimento è stato realizzato dall’architetto Luigi Cupellini, con la collaborazione di Carlo Pellegrini; mentre l’ideazione scenografica si deve al regista cinematografico Giuseppe Tornatore (premio Oscar 1989 per il miglior film straniero, con Nuovo cinema Paradiso); progetto grafico di Stefano Rovai. Da registrare, ancora, una novità sostanziosa,
che accompagna la scientificità dei percorsi storici, e che è stata sottolineata dalla stampa nazionale che ha già avuto modo di presentare il Museo. In uno spirito “politicamente corretto”, sorvolando spesso sugli altri valori del MNAF, il giornalismo italiano si è soprattutto attardato sul percorso per non vedenti: oltre i testi e le didascalie presentati anche in Braille, venti immagini storiche sono ricreate in rilievo per essere identificate dai non vedenti attraverso il tatto. Personalmente, siamo coscienti e consapevoli che la fotografia non dipenda soltanto dal soggetto raffigurato, e appunto proiettato in altra identificazione tattile, ma dipenda da una sottile rappresentazione definita e disegnata da sfumature soltanto visive. Per cui, non siamo completamente convinti della “visibilità” del solo rilievo fisico. Però, siamo assolutamente convinti dell’opportunità di non escludere nessuno dal coinvolgimento emotivo della fotografia. E su questo, sarebbe opportuno riflettere, con contributi di chi può esprimersi al riguardo meglio di quanto non lo si possa fare dal nostro punto di vista non educato. Infine, una sottolineatura conclusiva per il ben allestito catalogo che accompagna l’esposizione permanente del Museo. Su queste pagine, oltre i testi dei curatori delle sette sezioni storico-contemporanee, si incontrano altri approfondimenti utili alla definizione dell’intera operazione allestita. Angelo Galantini ❯ MNAF - Museo Nazionale Alinari della Fotografia, piazza Santa Maria Novella 14a rosso, 50123 Firenze; 055-216310, fax 055-2646990; www.alinarifondazione.it; mnaf@alinari.it. Ingresso 9,00 euro; giovedì-martedì 9,30-19,30, sabato fino alle 23,30. Catalogo guida (62 più 314 pagine 14x24cm) 29,00 euro. ❯ Fondazione Alinari, largo Fratelli Alinari 15, 50123 Firenze; 055-23951, fax 055-2382857; www.alinari.it, info@alinarifondazione.it.
IL MONDO Q uando l’inglese Roger Fenton sbarcò nel porto di Balaklava con un grande carro contenente cinque macchine fotografiche e settecento lastre di vetro, la fotografia aveva appena sedici anni: tanti ne erano passati dall’annuncio dell’invenzione, dato a Parigi nel 1839. Conosciuto fino ad allora per le sue belle riprese architettoniche e come fotografo ufficiale del British Museum, Roger Fenton sarebbe passato alla storia come il primo autore capace di documentare una guerra, che nel suo caso era quella di Crimea. Era una impresa difficile, pericolosa e tecnicamente complessa, perché Roger Fenton usava il procedimento al collodio umido e quindi doveva spalmare la gelatina sulle lastre, utilizzarle mentre erano ancora umide e subito svilupparle. Tra le tante immagini che ci sono pervenute, una colpì l’immaginazione dei contemporanei e ancora oggi riesce a turbare già a partire dal titolo: La valle dell’ombra della morte. Non compaiono figure, ma solo un gran numero di palle da cannone, disseminate in una zona collinosa attraversata da una strada deserta. Da allora, la fotografia di guerra è diventata un vero e proprio genere reportagistico, si è soffermata su ogni orrore e ha mostrato la sofferenza attraverso i corpi e i volti
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O DEGLI OGGETTI CHE PARLANO Delicate ma coinvolgenti rappresentazioni di una guerra (apparentemente) assente. Le case della memoria della fotografa libanese Randa Mirza visualizzano la tragedia della guerra con la forza di osservazioni a posteriori, quasi di lato, che colpiscono la mente, passando direttamente dal cuore (o viceversa). In mostra, a Brescia
delle vittime, eppure quella fotografia della valle disseminata di palle da cannone non è stata dimenticata. Nelle immagini della giovane fotografa libanese Randa Mirza si ritrova pienamente quel modo di raccontare la violenza con una intensità priva di ogni compiacimento. Si tratta di una scelta che trova le proprie radici nel fatto stesso che la fotografa, al contrario di quanto hanno fatto tanti altri, riprende il suo paese: non va solo alla ricerca di un rapporto oggettivo con la realtà, ma fa anche i conti con se stessa, con la propria cultura, con una storia personale che si è intrecciata da sempre con un conflitto che c’era già quando lei è
nata e continua a esserci in modo endemico. Ma se non si può sfuggire alla guerra, bisogna saperla affrontare, perché solo così sarà lei ad aver paura di te e non il contrario. A proprio tempo, Beirut è stata oggetto di una particolare at-
DIETRO LE QUINTE
A
lla trentasettesima edizione dei Rencontres de la Photographie, svoltasi ad Arles, in Francia, all’inizio dello scorso luglio, la fotografa libanese Randa Mirza, che appartiene agli ambienti della cultura democratica e laica di Beirut, ha vinto il Premio giovani con un lavoro di centoventi immagini a colori intitolato Le case della memoria. Con delicatezza femminile e grande sapienza estetica, le fotografie raccontano tracce di vita rimaste dentro abitazioni devastate dalle numerose guerre di ogni genere che il Libano ha subìto dal 1975 al 1990. Una selezione dell’intero progetto è pubblicata sul sito www.randamirza.com, al rimando “abandoned rooms”. Pochi giorni dopo il conferimento del Premio, è scoppiato il recente tragico conflitto con Israele, e la fotografa non ha potuto rientrare in patria che due mesi dopo. A seguito di contatti con Vincenzo Cottinelli, ai Rencontres, la fotografa ha preparato una sequenza di ottantasei stampe per la Galleria La Stanza delle Biciclette di Brescia (alla sua seconda esposizione fotografica, successiva a quella di Luigi Ghirri, che lo scorso maggio ha inaugurato questo nuovo spazio). Nel frattempo, Randa Mirza sta lavorando su “nuove stanze abbandonate” e porta a Brescia materiale per quattro ulteriori ingrandimenti e un CD che verrà proiettato all’inaugurazione. L’attualità e l’originalità della mostra sono evidenti: non si tratta di un reportage duro e drammatico, ma di un lavoro delicato e commovente, che ha avuto un riconoscimento prestigioso e tende a far conoscere al mondo le sofferenze di una città e un popolo e a rafforzare la volontà di pace, nel momento in cui anche le nostre truppe sono impegnate in Libano in una delicata missione militare.
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tenzione: nel 1991, in una parentesi di pace e prima della ricostruzione del centro urbano, la “mission” fotografica voluta dalla Fondazione Hariri ha portato alcuni fotografi internazionali a misurarsi con la città con un esito (il volume collettivo Beyrouth, pubblicato nel 1994) di grande suggestione, sottolineata dallo stile di autori del calibro di Gabriele Basilico, Raymond Depardon, René Burri, Josef Koudelka, Robert Frank e del fotografoarchitetto Fouad Elkoury, l’unico libanese del gruppo. Il lavoro di Randa Mirza è lontano da quegli esiti, dei quali non raccoglie, per citarne solo alcune, né la visione rigorosamente architettonica e volutamente inquieta che ha caratterizzato la ricerca di Gabriele Basilico, tutta concentrata su un solo chilometro quadrato del centro cittadino, usato come parte per il tutto [FOTOgraphia, marzo 1995], né quelle trasognanti di Josef Koudelka e Robert Frank. Per altro verso, la giovane fotografa libanese si è consapevolmente tenuta molto lontana anche dagli stilemi del fotogiornalismo classico: le sue immagini non aiutano a capire le ragioni e cause specifiche del conflitto, non parlano apertamente dell’occupazione delle truppe siriane, non documentano i bombardamenti israeliani, gli
LA STANZA DELLE BICICLETTE
N
uovo spazio destinato alla fotografia. Con attento lavoro di pulitura e conservazione delle decorazioni esistenti, la Galleria La Stanza delle Biciclette è stata ricavata da Vincenzo Cottinelli all’ingresso del seicentesco palazzo Bailo di Brescia, poi Cottinelli, in un vecchio stanzone che fungeva da “ricevitoria” per fornitori, esattori, postulanti, mezzadri, artigiani (via delle Battaglie 16). Si sono conservati i mobili d’archivio originari, incastrati sotto le finestre, macchiati da gocce di inchiostro di china, così come il circostante pavimento di vecchio cotto lombardo. Il soffitto è ricco di fiori ottocenteschi, mentre gli intonaci dei muri perimetrali hanno tracce di diversi strati decorativi ben più antichi. Negli ultimi cento anni, lo stanzone era diventato, tra l’altro, deposito di biciclette e motorini delle numerose famiglie del palazzo: da cui l’attuale identificazione, provocatoriamente mantenuta dopo lo sgombero, il restauro e la nuova destinazione. Spazio per la fotografia, dunque, appartato, lontano dal rullo di tamburi dei più clamorosi eventi fotografici di cui Brescia è ricca, ma con non minore ricerca della qualità e serietà. Non galleria di tendenza, né sede di un gruppo, ma luogo per esporre alla verifica e alla discussione immagini filtrate dal proprio ideatore (Vincenzo Cottinelli) con il supporto degli amici dell’Associazione il biancoenero.
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espropri, i saccheggi. Eppure, fanno tutto questo in modo ancora più alto, perché mirano direttamente al cuore mostrando la violenza senza ricorrere al raccapricciante o al macabro, due categorie che sono, talvolta perfino involontariamente, espressioni di un’altra violenza, quella visiva. A una prima lettura, queste immagini sembrano generate solo da una delicatezza tutta femminile, ma poi ci si accorge che possiedono una forza spaventosa, perché somigliano alle fiabe che si raccontano ai bambini: le parole sono dolci, i personaggi hanno come nome dei vezzeggiativi, ma per arri-
vare al lieto fine bisogna rassegnarsi a un percorso fatto di genitori che abbandonano i propri figli, di maghi che li perseguitano, di streghe che li terrorizzano, di orchi che li divorano. Randa Mirza fa parlare gli oggetti, perché si avvicina alle case abbandonate indagandole con la curiosità della ricercatrice e la scientificità dell’archeologa, usando una tecnica di ripresa che padroneggia con sicurezza: nessun compiacimento “artistico” nei particolari dei suoi oggetti, sempre ripresi perfettamente a fuoco, in composizioni rigorose, nessun estetismo ricercato nella serie degli interni delle stanze
abbandonate. Semplicemente, la fotografa prende per mano l’osservatore e lo accompagna in un viaggio dove la colonna sonora è costituita dal rumore di passi sui frammenti di vetro che ricoprono i pavimenti e da quel silenzio irreale che invade le case abbandonate. Però, proprio grazie a queste immagini, gli oggetti finalmente parlano per raccontare storie interrotte, come nella metafora insita nella fotografia di una bambina sorridente nel suo abito rosso, incollata al muro nella parte superiore ma strappata in quella inferiore. Le tappezzerie si slabbrano, si aprono come sipari e sul-
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IO E LA GUERRA
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RANDA MIRZA: AUTORITRATTO CON TELECOMANDO
tanze abbandonate e altro. Quando sono nata, la guerra aveva tre anni. Divenne parte dello svolgersi normale della mia vita, come la scuola o i sogni. La guerra finì improvvisamente nel 1990. Avevo dodici anni e crebbi ignorando, anzi quasi rifiutando di capire le ragioni che avevano spinto il popolo a combattere. Volevo non avere niente a che fare con la guerra. Volevo dimenticarla. Ma, a quanto pare, la guerra non dimenticava me. Quando, dopo essermi diplomata alla Scuola di pubblicità, andai a Parigi per studiare fotografia, stavo cercando risposte. Avevo bisogno di una distanza di sicurezza per guardare più da vicino dentro di me. Ma la guerra divenne così vivida durante il mio soggiorno in Francia, che sembrava mi stesse dando la caccia. Capii che avevo dei conti in sospeso con la guerra, così tornai a casa nell’estate 2004 per affrontarla. Il due settembre 2004, il Consiglio di Sicurezza dell’Onu approvò la risoluzione 1559, che imponeva l’uscita dal Libano delle truppe e dei servizi segreti siriani. L’assassinio dell’ex primo ministro Rafiq Hariri, il 14 febbraio 2005, suscitò dimostrazioni di massa che portarono all’allontanamento delle forze siriane nell’aprile dello stesso anno. Queste, fin dal 1976, avevano occupato appartamenti, case di vacanza, ville, hotel sparsi intorno al villaggio di Dhour el Chweir e città confinanti nelle colline del Metn Libanese. Ma anche le varie milizie libanesi e altri eserciti stranieri si erano appropriati di questi edifici, trasformandoli in alloggi o comandi militari. Poiché una gran parte del popolo libanese aveva perso le sue proprietà durante le guerre civili, ondate di cittadini migranti avevano lasciato le regioni devastate. Da quando la guerra civile finì nel 1990 a quando gli eserciti stranieri più recentemente hanno lasciato il territorio libanese (nel 2000 Israele, nel 2005 la Siria) parte di questi spazi sono tornati gradualmente ai proprietari originari,
che finalmente hanno potuto accedervi di nuovo. Anch’io ero curiosa di vedere questi edifici abbandonati. A dispetto dell’impeto ricostruttivo che ha attraversato il paese, fortemente incoraggiata dai governi postbellici, molti di questi edifici che punteggiano tutto il Libano sono tuttora in rovina. Rappresentano i resti e le tracce della guerra: buchi sparsi nella memoria collettiva. Dhour el Chweir sembrava un campo di battaglia, una città fantasma. L’esercito siriano aveva smantellato gli edifici dove aveva alloggiato. Un infinito numero di case era completamente distrutto e questa atmosfera, insieme con la frenesia che stava prendendo il Libano, sia nelle strade sia sul fronte politico, facevano rivivere i miei ricordi e le mie paure. Nel settembre 2005 cominciai a guardarmi intorno, cercando la guerra. C’era una enorme quantità di costruzioni in rovina. Con le proprie molteplici identità e storie, questi monumenti sono documenti di memoria. Spesso inosservati dai libanesi, sono parte integrante del paesaggio urbano, ergendosi come bordi del passato contro un periodo tanto stagnante quanto presente, un promemoria di guerra incombente. Ogni volta che entravo in una struttura, mi sentivo più vicina alla guerra. Questa azione è stata sia eccitante sia auto-curativa. Sono entrata in queste macerie spinta da una necessità mescolata alla paura di ritornare indietro. Cataste di vite aspettavano nelle stanze fotografate. La guerra aveva finito di essere un infestante fantasma del passato. Finalmente la potevo afferrare, vedere, sentire. Da qui nascono le immagini della stanze abbandonate: una sequenza su vite frammentate, vite schiacciate tra la realtà del cambiamento e l’incubo della guerra. Parlano del passato nel presente, di presenza in assenza, di morte e sopravvivenza, di ciò che è dimenticato e ciò che perdura, di ciò che marcisce trasformandosi in un paese che vuol risorgere dalle proprie rovine. Nell’estate 2006, pochi giorni dopo aver inaugurato la mostra delle Stanze abbandonate ai Rencontres di Arles, ero ospite in un corso residenziale per artisti in Finlandia, quando la nuova guerra è esplosa, il 12 luglio. La guardavo in tv, in Internet, sui giornali, nei blog. Sono ritornata in Libano appena è stato possibile. Autoritratto con telecomando (qui a sinistra) è una singola immagine del mio progetto attualmente in corso, concepito a Helsinki, su guerra, media, turismo. I media non piangono i morti. I morti sono trattati come fatti e notizie... e il giorno dopo diventano immagini d’archivio. Dopo esser stati terrificati da notizie in arrivo, come spettatori passivi del “dolore degli altri” siamo invitati a guardare il telegiornale di prima serata previamente preparato per noi dai programmisti tv. Questo mio autoritratto è un fotomontaggio, ma credo che sia un discorso veritiero e duraturo sulla violenza della guerra e sulla impossibilità di controllo sui media. Randa Mirza (ottobre 2006)
la scena appare il becco adunco di un rubinetto, la danza leggera di una molletta rossa su un filo, la massa aggrovigliata di un grembiule appeso a un chiodo. Colpisce il gran numero di prese di corrente: alcune sono intatte, magari fermate storte al muro con due viti nel frattempo arrugginite, ma per lo più sono ridotte a buchi vuoti come occhiaie dalle quali emergono talvolta vecchi fili elettrici serpeggianti. Quello che era parso silenzio, ora viene interrotto da strani rumori: vengono da panciuti rubinetti antropomorfi, che sembrano ancora gorgogliare, da buchi alle pareti attraverso cui passa leggero il vento, da brandelli di tappezzeria che si agitano, da frammenti di intonaco di muri che lentamente si sbriciolano. Anche a terra c’è un intero mondo: le pantofole azzurre sono ancora perfettamente accostate, una borsetta è composta come uno still life per una rivista di moda, ma, più avanti, due bambole mutilate e una pistola giocattolo spezzata trasmettono una sottile inquietudine. Randa Mirza ora allarga il proprio sguardo, e l’obiettivo co-
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glie la visione d’assieme di altre stanze. Per quanto possa apparire paradossale, queste sono fotografie bellissime, tutte riprese frontalmente con le linee di fuga che convergono verso le finestre che occupano la parte centrale dell’inquadratura. Qui il rumore si sente più intenso e continuo, lo stesso che si avverte accostando una conchiglia all’orecchio: è un suono dove si mescolano lo scricchiolio degli infissi cadenti, lo sbattere della plastica che ha sostituito i vetri, il quasi impercettibile movimento delle coperte lasciate appese alle pareti, il lento lavorio del tarlo che, incurante di tutto, se ne sta nelle travi del soffitto a far sentire, finalmente, un frammento di vita. Roberto Mutti Randa Mirza: Di guerra in guerra. Memorie di vita distrutta nelle case del Libano. A cura dell’Associazione il biancoenero, con il patrocinio del Comune di Brescia. Galleria La Stanza delle Biciclette, via delle Battaglie 16, 25122 Brescia; 030-3773269; www.vincenzocottinelli.it, v.cottinelli@alice.it. Dal 16 dicembre al 15 gennaio 2007; martedì-domenica 18,00-20,00. Con catalogo.
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ATTUALITÀ
Il messaggio dalla camera oscura, di Carlo Mollino; AdArte, 2006 (via Manara 6, 10133 Torino; 011-19715289, anche fax; info@ adartepublishing.it); 12 illustrazioni a colori e 323 illustrazioni in bianconero; 448 pagine 24,5x34cm, cartonato con sovraccoperta; 130,00 euro.
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Il mondo di Bravo appare come quello raro e prezioso che partecipa all’ansia o la prova di un pericolo; è l’aria immobile, in silenzio con gli uccelli le fronde e le pianure, il tempo fermato che si ritrova dopo la fucilata che ci ha cercato e non si sa da quale anfratto sia venuta; è la natura quale ci appare, dolce in quei comuni particolari che solo in quegli istanti lucidi, quasi per assurda distrazione, percepiamo nella loro essenzialità, mentre la proterva attenzione dell’istinto ci guida un superamento e a una salvezza insieme; [...]. «Soffiata la vita alla sua immagine Alvarez Bravo scompare, nulla più sappiamo di lui all’infuori di questa creazione ben sua, ma che ormai vive autonoma tanto da apparirci come casuale prodigio di natura poetante». Si direbbe un brano del testo che Octavio Paz, premio Nobel della letteratura nel 1990, scrisse in prefazione, con alcuni fulminanti rapidi poemi, a, forse, il più bel libro mai pubblicato sull’opera di Manuel Álvarez Bravo. La sorpresa, invece, è sconvolgente. Queste poche righe, estratte da una lunga e magistrale analisi, sono di Carlo Mollino, e non è uno sporadico esercizio intellettuale, ma uno dei tanti temi che affronta in Il messaggio dalla camera oscura, ponderoso -e lieve quale piuma- volume pubblicato nel 1949 [FOTOgraphia, settembre 2006]. A metà del secolo scorso, furono rarissime le incursioni organiche nella storia della fotografia: Helmut Gernsheim dà alle stampe nel 1955 un volume in lingua inglese che, tuttavia, si interrompe al 1914; il francese Jean-A. Keim pubblica il suo breve saggio, peraltro piuttosto corretto ed attento, nel 1970. Non è correlato da illustrazioni, ma tuttora è consigliabile, malgrado le inevitabili carenze temporali; nel 1982, esce negli Stati Uniti l’opera di Beaumont Newhall che ignora totalmente le esperienze europee, e Carlo Mollino si era già avviato verso la misteriosa nebulosa della fotografia teorica. Carlo Mollino deve aver raccolto, prima, e consultato con metodica riflessione centinaia di riviste e pubblicazioni sparse, per recuperare un così ricco paniere di immagini, idee, informazioni. Il messaggio dalla camera oscura, per decenni, è rimasto appunto “oscuro”, privilegiata avventura per quei pochissimi che lo possedevano. Oggi, finalmente, è un’esperienza unica per tutti: la nuovissima casa editrice AdArte di Torino ne ha stampato una stupenda copia anastatica che rispetta il formato, la veste grafica, le illustrazioni con le tavole a colori applicate a mano su cartoncino, come l’originale. L’unico appunto a tanta cura e perizia, è il testo
introduttivo di Fulvio Ferrari, fondatore del Museo Casa Mollino, che sta dedicando la propria vita a questo genio del design e della fotografia italiana. Un vezzo d’immodestia non perdonabile in una copia anastatica che dovrebbe rispettare appieno l’integrità dell’originale. Giusto un foglio, inserito e volante, avrebbe sal-
DI UN ANTICO MESSAGGIO Ripubblicato in occasione di due esaustive visioni dell’opera e personalità di Carlo Mollino, architetto, designer e fotografo, in mostra a Torino, il ponderoso Il messaggio dalla camera oscura del 1949 (!) rappresenta ancora oggi -soprattutto oggi- una straordinaria analisi del linguaggio e della storia della fotografia. Testo di eccezionale attualità e modernità, capace di osservare, presentare e giudicare con apprezzata competenza. Ancora
vaguardato il rispetto dell’opera, e l’orgoglio del signor Ferrari. La qualità editoriale per un oggetto così prezioso è indiscussa, e già provoca meraviglia, ma è la lettura dell’opera che trascina in splendenti universi del piacere. La prosa di Mollino, fluida ed armoniosa, di poesia rara, aggancia come leggere le pagine di un narratore di superba maestria linguistica. La trama del “romanzo fotografia” è più coinvolgente di un best seller, con la delizia, appunto, di questa scrittura ricchissima di espressioni e vocabolario, mai ripetitiva, mai incorrendo in cadute banali. A volte il lessico di Mollino, nella scelta dei termini -ed ama riferimenti e metafore auliche- risente del tempo, però, in questa nostra epoca di comunicazione linguistica dai ritmi sincopati e dalla povertà espressiva, ci aiuta a recuperare la “bellezza perduta”. E proprio sulla bellezza, d’immagine, si fonda tutta l’analisi di Carlo Mollino. Non è una bellezza estetizzante, e vuota, ma il profondo senso del bello che, in termini contemporanei, potremmo tradurre in perfetta sintesi di forma e contenuto. Attento, appunta l’interesse sui grandi maestri che appena si erano affacciati (si veda Manuel Álvarez Bravo che negli anni Quaranta era noto a rarissimi super sofisticati cultori dell’arte che avevano compreso che anche la fotografia -non tutta, al
Brassaï: La statua del maresciallo Ney nella nebbia (Parigi, 1935).
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Manuel Álvarez Bravo: Dopo la sommossa.
Man Ray (1928).
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pari dell’espressione manuale- lo è). Dedica a Man Ray un testo - sono soltanto quattro le analisi monografiche nell’intera opera, il già citato Álvarez Bravo, Nadar assieme a David Octavius Hill, Atget. «L’incontro con Man Ray avviene in un silenzio notturno o d’aurora, spenti fuochi nel sonno di ogni volontà. [...] «La esaltata e sicura facoltà di associazione intuita fra i mezzi visivi più eclettici e contradditori, ogni volta riscoperti e improvvisati di fronte al più vario mondo offerto alla sua esperienza, caratterizza lo stile, anzi gli stili di M.R. e insieme il suo limite. Simbolismi o accostamenti formali ed espressionistici minacciano di rimanere allusione cerebrale ben fabbricata, razionali sottintesi, in ogni caso intrusione della volontà con programma. «Stili che non sono mai ricerca in sempre mutata direzione, ma appuntamento, incontro puntuale ogni volta in luoghi diversi, con un medesimo fantasma poetico: larve fosforescenti nella notte di un negativo [...]».
Nessuno mai è riuscito a penetrare meglio il senso dell’opera di Man Ray ed in termini di così sognante aderenza. Sa, Carlo Mollino, con lucida precisione che cosa è la “fotografia pura” e, già allora, stigmatizza con spietato sarcasmo i mali che ha prodotto e produrrà sugli ottusi: «Con Stieglitz, Steichen fu tra i primi ad intuire i limiti e il rapido esaurirsi in cerchio chiuso della “pictorial photography” e ad inserirsi senza brusche conversioni in quella che più che una rivoluzione si può definire, come vedremo, reazione: la “fotografia pura”, quella che la solita intransigenza dei neofiti e ultimi arrivati pretende come l’unica ammissibile e vera. [...] Già nel 1890 Stieglitz afferma l’autonomia del nuovo mezzo espressivo dichiarando la fotografia “potential art”, ma precisa: “But it is not painting, any more than painting is sculpture”. «Ogni movimento rinnega senza riserve un passato intero e remoto senza sapere che legittimamente reagisce solo al passato prossimo, cioè a quello esausto e oramai incapace di rispondere alle istanze di un gusto attuale che si afferma e muta con il continuo divenire del mondo». Quest’ultimo paragrafo è la magistrale sintesi di tutti quei testi teorici che con cascate di parole hanno preteso di motivare la nascita dei movimenti in arte. Il volume è suddiviso in centoventiquattro pagine di testo, punteggiate da tantissime immagini, e in trecentoundici pagine di “Tavole”, come le definisce Mollino: portfolio dedicati a singoli autori e fotografie a volte bizzarre ed inconsuete. Ed è pure, sorprendentemente imprevedibile nelle scelte: di Edward Steichen seleziona una serie, sicuramente recuperata da Camera Work, il celebre ritratto di Greta Garbo e un’immagine a colori di moda. Così di Edward Weston riproduce fotografie famose e una poco nota.
Libero dagli stereotipi, da sovrastrutture, si abbandona al proprio gusto, peraltro infallibile. E recupera chissà da quali “cassetti” del proprio sapere autori oggi celebrati quali Philippe Halsman e Lillian Bassman, Carl Mydans e Dorothea Lange, Eugene Smith e Richard Avedon ed altri, che solo le rivisitazioni contemporanee stanno valutando nella luce corretta: Rudolf Koppitz, José Ortiz Echagüe, Laure Albin-Guillot, William Mortensen, George Hurrell, Fritz Henle, tanti autori italiani ed ancora una miriade di geni e di fotografie anonime, riprese da riviste, regalandoci, a distanza di oltre cinquant’anni -pari al periodo della glaciazione in rapporto alla storia della fotografia- la possibilità di riflettere sulla nostra incommensurabile presunzione. Così avveniristica la sua impostazione da obbligare alla revisione di quasi tutto quanto è stato scritto e celebrato. Certo non mancano imprecisioni, ad esempio ritiene Robert Adamson niente più che il “portaborse” di David Octavius Hill, del tutto perdonabile per le conoscenze del tempo. Per contro, è assolutamente avveniristica l’analisi di Mollino dei movimenti della pittura in relazione alla fotografia, e rari sono ancora oggi gli storici della fotografia, e dell’arte, che si rendono conto di tali reciproci scambi. Nel capitolo che intitola proprio Il messaggio dalla camera oscura al paragrafo Fotografia e arte scrive: «Ogni istante dell’ingegnoso operare umano può essere pretesto di nascita del gusto per un
Carl Mydans: Fotografia di guerra (Stati Uniti, 1941). Edward Steichen: Ritratto di Greta Garbo (1927).
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Toni Frissel: Fotografia pubblicitaria (Stati Uniti, 1940). Eugène Atget: Avenue de Gobelins (Francia, 1925).
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nuovo ed inopinato linguaggio e insieme di una ennesima musa. Anche se le altre nove muse, tradizionali e primigenie, scrutano ostili dall’Elicona l’occhio di vetro e la cassetta nera sospetta di troppo gratuiti prodigi, Venere sorride e ancora sorride all’ultima nata la madre comune Mnemosine, dea del ricordo: le vie della poesia sono infinite». E in La riproduzione della natura: «Ripiegata, la camera oscura dormiva ancora nelle menti increate di Leonardo e di Niépce che già una stereoscopica a colori più piccola di un “minimo formato”, poco più di un millimetro quadro di lastra sensibile, presiedeva alle inconscie figurazioni dei miti e delle favole. [...] Quest’occhio [dell’uomo] era già quello preistorico che nell’uomo dell’era magdaleniana presiedeva alle nascite prodigiose dei bisonti delle grotte di Altamira e della “Venere impudica” e di Lespougue, presiedeva a quella pratica di mimesi perpetuata fino ai nostri giorni dall’amore per il bello attraverso i confini indistinti del piacere e del bisogno». E in Note e pretesti, Carlo Mollino rileva: «Helmotz e Hindemit potranno spiegarci il mistero commovente del rapporto dominante-tonica di ogni suono, Chevreul oppure Ostwald insegnarci a forza di cerchi magici e costruzioni geometriche, le leggi della simpatia dei colori, Hambidge e Moessel quelle dello spazio armonioso, ma nessuno di costoro potrà rivelarci il magico tetragramma o l’artificio di scien-
za capace di farci valicare razionalmente l’abisso che separa il ritmo dall’incanto della poesia. I continuatori al più potranno fornirci esaurienti spiegazioni sul modo di Orfeo di ammansire le fiere e sradicare gli alberi, sull’arcano del flauto magico o della danza a tempo di valzer dei cavalli di Elbelferd e ancora sulle manifestazioni soprannaturali (cioè non ancora spiegate come naturali) generate dai ritmi sonori e mimici delle danze collettive dei popoli primitivi; non faranno altro, in ultima analisi, che rivelarci il meccanismo segreto degli incantatori di serpenti, sostituendo autentiche leggi di tecnica all’empirico uso di questa». Vengono i brividi, i quesiti e le risposte, mai cercate e cercate senza successo, trascinano la mente in turbine psichedelico. Questo libro ha un solo difetto: troppo voluminoso e pesante per portarlo con sé, e forse è il grande vantaggio. La lettura sul treno, aereo, autobus, sala d’attesa di medici, sempre in debito con gli appuntamenti, sarebbe frammentata e disturbata dagli eventi contingenti. Seduti, tranquilli, si sfogliano parole e pagine e si entra nell’universo del pensiero visivo. I confini del reale si disciolgono. Giuliana Scimé Ricordiamo che due esposizioni coincidenti celebrano a Torino la figura di Carlo Mollino ( FOTOgraphia, settembre 2006). A cura di Fulvio e Napoleone Ferrari, fino al prossimo 7 gennaio 2007. ❯ Lavoro di architetto: Gam-Galleria Civica d’Arte Moderna e Contemporanea, via Magenta 31, 10128 Torino; 011-4429518, fax 011-4429550; www.gamtorino.it, gam@fondazionetorinomusei.it. Martedì-domenica 10,00-19,00, giovedì fino alle 23,00. ❯ Fotografia: Castello di Rivoli - Museo d’Arte Contemporanea, piazza Mafalda di Savoia, 10098 Rivoli TO; 011-9565222, fax 011-9565230; www.castellodirivoli.org, info@castellodirivoli.org. Martedì-giovedì 10,00-17,00, venerdì-domenica 10,00-21,00 (24 e 31 dicembre 10,00-17,00).
FOTOGRAFIA
AL CINEMA A
rgomento spesso frequentato su queste stesse pagine, quello della combinazione consapevole e ragionata della fotografia nella rappresentazione cinematografica è tema di una mostra allestita alla Galleria Grazia Neri di Milano, a cavallo tra i prossimi gennaio e febbraio. In definitiva, i curatori Maurizio e Filippo Rebuzzini hanno messo ordine e consecuzione nelle ripetute analisi sul particolare fenomeno, spesso ospitate da FOTOgraphia nell’ambito e all’interno di quell’interesse dichiarato per le manifestazioni parallele della fotografia, che
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partono dal costume, oppure vi si proiettano. In questo senso, allargando le considerazioni, l’abbinamento con il cinema si accompagna con quello della fotografia nei fumetti, nella narrativa e in filatelia. Quasi a dispetto del titolo esplicativo e diretto, Fotografia & Cinema. Fotogrammi celebri è caratterizzata da un percorso espositivo particolare e a mosaico. Le forti componenti visive in esposizione, appunto concretamente fotografiche, sono introdotte da un dettagliato testo di Maurizio Rebuzzini, Fotogrammi. Fotografi e fotografia nel cinema, che si propone e offre come saggio a tutto cam-
Un allestimento scenografico in doppio ritmo disegna la mostra Fotografia & Cinema. Fotogrammi celebri, esposta a Milano tra gennaio e febbraio. Il percorso è stabilito da una nutrita serie di fotografie di scena a soggetto mirato, rafforzata da pannelli che riuniscono e presentano attinenti fotogrammi da film: a complemento e integrazione. Analisi e censimento di un fenomeno che dà (o potrebbe dare) grandiosità all’intero discorso sulla fotografia (e della fotograpo: fia)con considerazioni allargate nella quantità dei più che immorale e, novità per il cinema di allora, La fenomenologia titoli presi in esame, estese nelle situazioni e dis- dedito ad amori omosessuali (Dora Monier, inter- della fotografia tribuite in un lungo arco temporale. A parte questo saggio, elemento sostanzialmente aggiuntivo, con vita autonoma, il corpo della mostra Fotografia & Cinema. Fotogrammi celebri è composto da quarantacinque stampe 30x40cm incorniciate di fotografie di scena che, nell’alternanza e successione delle pareti espositive, delineano un percorso scandito da consecuzioni tematiche (sono tutte immagini provenienti dall’archivio dell’agenzia francese specializzata Photos 12, rappresentata in Italia dall’Agenzia Grazia Neri). Inframmezzati a queste stampe, nove pannelli di grandi dimensioni (realizzati su tela canvas, base 61cm) sottolineano i medesimi argomenti, cui si accostano, con la visibilità esplicita di fotogrammi da film, abilmente individuati e combinati assieme da Filippo Rebuzzini. Oppure, ed è lo stesso, questi pannelli ampliano i punti di osservazione e vista, proponendo e sottolineando argomenti complementari e aggiuntivi. Insomma, precisato il ritmo di un percorso espositivo consequenziale, appunto cadenzato anche da adeguate e opportune didascalie esplicative, la presenza della fotografia nel cinema (sceneggiatura e/o scenografia) è esaminata ed esplorata a tutto campo, con concentrata osservazione a trecentosessanta gradi.
SULLA SCENA
Avviata con uno sguardo Alle origini, la partenza è obbligata. Si comincia con Blow up di Michelangelo Antonioni (Italia e Gran Bretagna, 1966), che per lungo tempo ha costituito una linea demarcatoria del fenomeno, avendo altresì involontariamente favorito e sollecitato una miriade di oscure rappresentazioni della fotografia nel cinema. Quattro altri film sono immediatamente conseguenti e, a propria volta, capostipiti: La finestra sul cortile (Rear Window, di Alfred Hitchcock; Usa, 1954), nel quale James Stewart interpreta il fotografo L.B. Jefferies che, temporaneamente immobilizzato in casa, a causa di un incidente sul lavoro, scruta il microcosmo che si affaccia sul proprio cortile (appunto), scoprendo addirittura un omicidio; Legittima difesa (Quai des Orfèvres, di Henri-Georges Clouzot; Francia, 1947), che accompagna l’apparizione sullo schermo della prima figura di donna fotografa con l’oscura rappresentazione di un personaggio ambiguo, amorale
pretata da Simone Renant); Occhio indiscreto (The Public Eye, di Howard Franklin ; Usa, 1992), con il fotocronista newyorkese Leon Bernstein, detto Bernzy oppure Grande Bernzini, fotografo degli anni Quaranta liberamente, quanto dichiaratamente ispirato a Weegee (al secolo, Arthur H. Fellig), ottimamente interpretato da un convincente Joe Pesci; La dolce vita (di Federico Fellini; Italia e Francia, 1960), dal quale, tra tanto altro, conteggiamo la definizione di “paparazzo”, dal nome dell’invadente e sfacciato fotografo di rosa interpretato da Walter Santesso [FOTOgraphia, giugno 2000]. Quattro esempi per il capitolo successivo In guerra, rappresentativi di una quantità ben più consistente, che in questi giorni si è ulteriormente arricchita con l’arrivo nelle sale cinematografiche italiane di Flags of Our Fathers, di Clint Eastwood (Usa, 2006), film elaborato attorno la vicenda della fotografia epocale di Joe Rosenthal dei marine che issano la bandiera statunitense sul monte Suribachi, sull’isola di Iwo Jima [FOTOgraphia, marzo 2006 e su questo stesso numero, a pagina 53]. Il fotoreporter che fa capolino in Apocalypse Now
nel cinema ha un proprio richiamo principale e discriminante, che si è proiettato nel costume quotidiano, addirittura nel vocabolario. Dal nome proprio a nome comune, l’identificazione di “paparazzo” nasce con la sceneggiatura del film La dolce vita, diretto da Federico Fellini, che l’ha scritto con Ennio Flaiano e Tullio Pinelli. Interpretato da Walter Santesso, Paparazzo è uno dei fotografi di cronaca rosa tratteggiati nel film: reporter particolarmente invadente e sfacciato.
Per propria dichiarazione di intenti, Fotografia & Cinema. Fotogrammi celebri non si sofferma sui dialoghi cinematografici che, pur nella propria (apparente) profondità, appartengono già all’analisi teorica della fotografia. Per cui, le pur ottime osservazioni nella sceneggiatura di L’ospite d’inverno ( The Winter Guest, di Alan Rickman; Gran Bretagna e Usa, 1997) cedono il passo alla sola raffigurazione di Frances (Emma Thompson) con la propria Nikkormat. Sulla quale riflette: «Vede quello che dico io. Di volta in volta, scopre l’animo delle persone, vede quello che hanno dentro, se si lasciano andare. [...] Se sono fortunata, mi mostrerà anche i loro segreti, li porterà allo scoperto, uno ad uno».
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In Occhio indiscreto, un ottimo Joe Pesci replica bene modi, gesti e atteggiamenti nei quali siamo disposti a individuare il leggendario Weegee, a partire dall’immancabile sigaro tra i denti, anche quanto il mirino della Speed Graphic è portato all’occhio.
Dennis Hopper è il fotoreporter che fa capolino in Apocalypse Now di Francis Ford Coppola: esempio di fotografia di guerra, in raffigurazione cinematografica. Alla rappresentazione di Blow up di Michelangelo Antonioni va addebitata la linea divisoria tra una visione della fotografia precedente e una seguente. In particolare, le va oggettivamente imputato di aver stabilito i connotati cinematografici del fotografo porno, o comunque sia sporcaccione, che estende fino alle estreme conseguenze il modo di vivere interpretato sullo schermo da David Hemmings (Thomas), senza però la sua intelligenza e senza i suoi dubbi.
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(di Francis Ford Coppola; Usa, 1979), interpretato da Dennis Hopper, e il soldato-fotografo frastornato nella cruenta battaglia evocata in We Were Soldiers (di Randall Wallace; Usa e Germania, 2002) richiamano la guerra in Vietnam; mentre, il fotoreporter Russell Price, con il volto di Nick Nolte, di Sotto tiro (Under Fire, di Roger Spottiswoode; Usa, 1983), e il fotogiornalismo di Urla del silenzio (The Killing Fields, di Roland Joffé; Gran Bretagna, 1984) raccontano la guerriglia in Nicaragua (1979) e nella Cambogia dei Khmer rossi (1975). Quindi, a seguire, successivi capitoli sottolinea-
no altre componenti fotografiche, caratteristiche nella/della raffigurazione cinematografica. Non continuiamo qui uno sterile casellario di film, sull’onda di quanto appena fatto, perché ormai la struttura dell’esposizione è sufficientemente chiara. Superando il microdettaglio di quanto presentato in mostra, è soltanto opportuno scandire i tempi nei quali la selezione Fotografia & Cinema. Fotogrammi celebri ha scomposto il proprio insieme. Dopo i due capitoli appena commentati nei relativi dettagli, si va Dietro le quinte, dove quattro fotografie di scena sottolineano la lavorazione foto-
grafica, dalla camera oscura alla visione del negativo, alla presenza consapevole e cosciente di stampe (e diapositive) sparse su tavoli di lavoro o disseminate sul pavimento. Ancora avanti, per conseguenza logica, si approda proprio alle Stampe fotografiche in quanto tali. Sono state rimarcate sia fotografie presenti in maniera seriosa in sceneggiature e scenografie di film di diverso spessore, sia situazioni di carattere leggero e allegro. Proprio qui vale la spesa richiamare il brillante uso di un ritratto femminile incorniciato, che serve all’avvocato londinese Archie Leach (John Cleese) per coprire la propria nudità davanti a una allibita famigliola inglese, in Un pesce di nome Wanda (A Fish Called Wanda, di Charles Crichton; Usa e Gran Bretagna, 1988). E non si deve ignorare che in Guinevere (di Audrey Wells; Usa, 1999) una fotografia del proprio seno nudo è usata dalla protagonista Harper Sloane (Sarah Polley) in una sorta di trompe-l’œil poggiato sul petto. Rispettivamente, i successivi capitoli Il gesto e L’attesa sottintendono esplicitamente il momento dello scatto fotografico: con reflex portate all’altezza dell’occhio, apparecchi medio formato su treppiedi o, ancora, apparecchi grande formato in configurazioni alternate. Il percorso espositivo si avvia, quindi, a conclusione, attardandosi ancora sulle situazioni definite come A contorno, prima di approdare alle Vite vere e alla fotografia Giudiziaria. Da notare che, partita con un film italiano, Blow up, la mostra Fotografia & Cinema. Fotogrammi celebri si conclude, per propria volontà, con un altro film italiano: Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto (di Elio Petri; Italia, 1970), per il quale registriamo anche accelerazioni da psicoanalisi: prima di uccidere la propria amante Augusta Terzi (Florinda Bolkan), il capo della Sezione Omicidi (Gian Maria Volonté) si fa coinvolgere da lei
in morbosi giochi fotografici, basati sulla sollecitata ricostruzione di scene del delitto.
TRA LE SCENE (?) Annotiamo che le quarantacinque fotografie di scena sono presentate in proprie cornici semplici, senza valori estetizzanti aggiunti [stampe a getto di inchiostro su carta fotografica, realizzate con HP Photosmart Pro B9180]. Non sono trattate e intese come immagini d’autore. Per cui, niente passepartout o altro finissaggio, perché non si dà evidenza ad altro che al soggetto raffigurato, prima rappresentativo di se stesso e poi connesso alla relativa combinazione consequenziale della mostra. Nell’esplorazione del fenomeno della presenza della fotografia nel cinema, come già annotato, queste stampe sono inframmezzate da nove pannelli di grandi dimensioni, sui quali opportune e ragionate combinazioni di fotogrammi da film ribadiscono il
La fotografia segnaletica e antropometrica fa da contorno all’indagine del detective e psicologo Alex Cross (l’attore Morgan Freeman), che in Il collezionista ( Kiss the Girls, di Gary Fleder; Usa, 1997) indaga sulle macabre azioni di un serial killer, che ha allestito un proprio harem-carcere.
Psicoanalisi e dintorni. Meglio di altri film, Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto descrive una concreta forma di scopofilia: il bisogno patologico di contemplare attraverso la mediazione di strumenti tecnici, quali sono quelli fotografici. Prima di uccidere la propria amante Augusta Terzi (Florinda Bolkan), il capo della Sezione Omicidi (Gian Maria Volonté) si fa coinvolgere da lei in morbosi giochi fotografici, basati sulla sollecitata ricostruzione di scene del delitto.
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In Born Romantic (di David Kane; Gran Bretagna, 2000), Adrian Lester interpreta il tassista Jimmy, che impartisce lezioni di vita. Tra le sue mani, una Lomo, apparecchio fotografico che sta alla base di un sostanzioso fenomeno sociale e di costume.
Due brillanti usi dell’ingrandimento fotografico. In Guinevere, una fotografia del proprio seno nudo è usata dalla protagonista Harper Sloane (Sarah Polley) in una sorta di trompe-l’œil poggiato sul petto. Mentre in Un pesce di nome Wanda, un ritratto femminile incorniciato serve all’avvocato londinese Archie Leach (John Cleese) per coprire la propria nudità davanti a una allibita famigliola inglese.
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percorso allestito [stampe su canvas, base 61cm, realizzate con plotter a getto di inchiostro HP Designjet Z3100 Photo, del quale riferiamo su questo stesso numero, da pagina 61]. È questo un elemento fondamentale dell’intera esposizione, che non isola un solo istante (effimero o rappresentativo che sia), ma dà consecuzione a situazioni omogenee, piuttosto che originariamente distanti, accostate assieme, le une accanto alle altre, in dipendenza di pertinenti considerazioni, analisi e sintesi. I punti di vista sono qui propriamente fotografici, complementari a quelli ufficialmente cinematografici delle fotografie di scena, che considerano la presenza della fotografia nel cinema in subordine (ovvio e legittimo) al film in quanto tale, piuttosto che alla notorietà pubblica degli attori interpreti. Analizzando invece i fotogrammi, i curatori sono andati sottotraccia, e hanno autenticamente vivisezionato la fenomenologia affrontata, della quale offrono una luminosa visione. Qui non contano tanto i temi affrontati, né i film attraverso i quali sono stati risolti, quanto l’intenzione originaria, che riguarda, appunto,
il competente censimento ragionato di un fenomeno che potrebbe significare molto di più di quanto possa farlo una semplice mostra, se soltanto il mondo italiano della fotografia non fosse diviso e scomposto, come invece è, in compartimenti stagni senza punti di contatto e momenti di reciproco confronto. Per quanto possano anche suonare plausibili tante lamentele di settore -consentiteci la digressione (mirata)-, non ci si scordi mai che ogni mondo che perde memoria di se stesso, o non coltiva la propria
storia e il proprio costume sociale è edificato su fondamenta fragili e deboli. Così, il mondo italiano della fotografia, che non riesce a integrare tra loro le diverse componenti, da quelle merceologiche e commerciali a quelle culturali ed espressive, finisce per essere un bastimento preda dei bruschi cambiamenti climatici. Vele al vento, purtroppo, quelle della fotografia italiana vanno dove soffiano le correnti, senza imprimere direzioni stabili al proprio percorso.
FENOMENO Certo, Fotografia & Cinema. Fotogrammi celebri non ha modo, né mezzi, per imporre altro che la propria approfondita analisi. Non si prefigge altre mete, così come queste nostre riflessioni non hanno alcu-
na intenzione moralista. Però! Però, siamo fermamente convinti che il mondo italiano della fotografia dovrebbe fare tesoro di queste espressioni parallele, per indirizzare la propria personalità. Ciò che effettivamente conta è soprattutto che ciascuno compia bene il proprio dovere e che qualcun altro sappia registrare e dare regia a tutto questo. I fenomeni di contorno servono a rinvigorire ogni microcosmo. Nello specifico ci interessa quello della fotografia, che dalla propria rappresentazione cinematografica può cogliere indicazioni, lezioni e opinioni anche convertibili e trasformabili nella conduzione commerciale quotidiana (forse). Cioè, Fotografia & Cinema. Fotogrammi celebri non rappresenta soltanto se stessa, come pure fa, ma è indica-
Gli anni di piombo italiani, culminati con il rapimento e l’assassinio di Aldo Moro, osservati dal punto di vista di un corrispondente americano, accompagnato dalla fotoreporter Alison King (Sharon Stone). È la trama di L’anno del terrore ( Year of Gun; di John Frankenheimer; Usa, 1991).
FLAGS OF OUR FATHERS
E
nnesima regia di Clint Eastwood, come ampiamente commentato lo scorso marzo, Flags of Our Fathers richiama una vicenda discriminante del fronte del Pacifico della Seconda guerra mondiale, consegnata alla Storia da una fotografia epocale: i marine che issano la bandiera statunitense sulla sommità del monte Suribachi, nell’isola di Iwo Jima (23 febbraio 1945). Fotografato da Joe(seph) Rosenthal dell’Associated Press, il momento è diventato uno dei simboli della Seconda guerra mondiale e un’icona per l’eroismo americano. La fotografia ha vinto il premio Pulitzer ed è stata riprodotta su francobolli, poster, magliette (FOTOgraphia, maggio 2000 e marzo 2006), oltre ad essere stata elaborata in bronzo per il monumento ai marine sulla collina di Arlington, a Washington, all’ingresso dell’Arlington National Cemetery, comunemen-
te citato e indicato come “Iwo Jima Memorial”. Flags of Our Fathers si basa sul romanzo omonimo di James Bradley: una biografia degli uomini nella fotografia di Joe Rosenthal, della quale è coautore il figlio di uno di loro, che nel 2000 è arrivata al vertice delle classifiche librarie del New York Times, nella categoria dei saggi. In precedenza, già nel 1961, il regista Delbert Mann girò The Outsider, che in Italia è stato trasformato in Il sesto eroe: storia (reale? inventata? interpretata?) dell’indiano Ira Hayes (l’attore Tony Curtis), elevato a eroe nazionale per aver issato la bandiera sul monte Suribachi. L’attuale Flags of Our Fathers, nelle sale dallo scorso novembre, racconta il disagio della condizione innaturale e retorica dei marine della fotografia. Per certi versi, può essere considerato un film di controdenuncia.
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Ritratto di Alice (l’attrice Natalie Portman), esposto nella personale Strangers della fotografa Anna Cameron (Julia Roberts). Sottolineato dalla silhouette della stessa Natalie Portman (Alice), questo passaggio di Closer (di Mike Nichols; Usa 2004) è anche esempio della affascinante spettacolarità della stampa bianconero nella scenografia cinematografica.
DOVEROSE PRECISAZIONI
S
confinando dal seminato, nel corpo centrale di questo intervento redazionale, relativo alla presentazione della mostra Fotografia & Cinema. Fotogrammi celebri, sono stati espressi giudizi riguardo la non attenzione che il mondo italiano della fotografia riserva alle proprie manifestazioni caratteristiche (e parallele), ognuna delle quali isolata per sé e mai coordinata in un dibattito/discorso comune. L’essenza di queste riflessioni è stata sollecitata e suggerita dalla postfazione riportata nel testo di accompagnamento Fotogrammi. Fotografi e fotografia nel cinema. Testuale: «Ci saranno altre occasioni per censire e catalogare la presenza dei fotografi e della fotografia nel cinema, oltre questo racconto e la mostra che accompagna? Analogamente, ci saranno occasioni per estendere ad altri fenomeni coincidenti, quali la presenza della fotografia nei fumetti, piuttosto che nella narrativa (taglio più alto)? [... Difficile rispondere]. Infatti, queste visioni, al pari di tante altre occasioni concretamente culturali, sociali e storiche, dipendono da incontrollati e incontrollabili equilibri e disponibilità, soprattutto da parte delle istituzioni». Allo stesso modo, è opportuno riferire anche due precisazioni di introduzione: «Anzitutto, va chiarito che questa catalogazione [...] non pretende di essere enciclopedica, né totale. La sua sola ambizione dichiarata è indirizzata altrimenti: [...] si propone soltanto come visita guidata. «In secondo luogo [non sono stati presi] in considerazione quei dialoghi cinematografici che, pur nella propria (apparente) profondità, appartengono già alla riflessione teorica della fotografia. Questo censimento ragionato non [riguarda] tanto il soggetto fotografico in se stesso e nel proprio dibattito istituzionale di (e per) addetti, quanto la proiezione della fotografia verso il grande pubblico».
Addetto alla stampa colore di un minilab, in One Hour Photo (di Mark Romanek; Usa 2002) Seymour “Sy” Parrish (Robin Williams) vive la vita della famiglia Yorkin attraverso le loro fotoricordo. Tema inquietante ( FOTOgraphia, novembre 2002).
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tiva di ulteriori proiezioni e fonte di coinvolgimenti potenziali. Magari soltanto per il piacere di stare insieme e condividere, con gioia e serenità. Così come è stata concepita, la successione delle immagini forma un percorso, completato il quale ciascuno può ripartire per altri viaggi individuali, scanditi da altro ritmo e altre intenzioni. Le stampe e i pannelli di Fotografia & Cinema. Fotogrammi celebri non sono autoconclusivi. Al contrario, scomponendo le tessere, si possono ricostruire altre consecuzioni, altrimenti ritmate. E ogni possibile tragitto approda alla medesima conclusione: all’insospettata ricchezza di un fenomeno,
che rivela la potenziale ricchezza della stessa fotografia nel proprio complesso. Ed è di questa ricchezza, che la mostra sollecita a fare tesoro. Angelo Galantini Fotografia & Cinema. Fotogrammi celebri. A cura di Maurizio e Filippo Rebuzzini. Galleria Grazia Neri, via Maroncelli 14, 20154 Milano; 02-625271, fax 02-6597839; www.grazianeri.com, photoagency@grazianeri.com. Dal 22 gennaio al 16 febbraio 2007; lunedì-venerdì 9,00-13,00 14,30-18,00, sabato 10,00-12,30 - 15,00-17,00. Con il contributo di HP (Hewlett-Packard Italiana) e in collaborazione con la rivista Ciak.
PERCORSO FOTOGRAFICO
P
Poco ricordata nelle cronache e storie della fotografia contemporanea, Lisetta Carmi (classe 1924) ha attraversato con passo lieve i nostri tempi, osservando con occhio leggero, ma penetrante, prima di ritirarsi dalla fotografia e dedicarsi ad altre attività sociali. A parte due reportage precedenti, ognuno profondo e coinvolgente, uno su Israele (in tempi non ancora sospetti; pubblicato da Bompiani nel 1965) e l’altro sul poeta Ezra Pound (in Marcatré del luglio 1967), fu folgorante la visione di I travestiti, che Essedì Editrice pubblicò nel 1972 (con testi della stessa fotografa e Elvio Fachinelli). Tema successivamente affrontato e svolto da molti altri fotografi, quello dei travestiti era allora un mondo sconosciuto, del quale non era neppure lecito parlare. Con straordinario coraggio e apprezzata forza visiva, Lisetta Carmi lo rivelò senza compiacimenti, ma con la delicatezza di chi sa osservare per raccontare, vedere per condividere. A seguire, siccome Lisetta Carmi non appartiene a nessuna scuola di
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pensiero fotografico, le sue fotografie sono state per lo più dimenticate, e la sua personalità va a ingrossare quell’elenco, purtroppo lungo, di autori ignorati dall’ufficialità del racconto e della riflessione sulla fotografia. Soltanto il bravo Uliano Lucas l’ha sempre inclusa nelle proprie appassionate e competenti retrospettive, in cima alle quali vanno considerate la recente mostra Il fotogiornalismo in Italia 1945-2005. Linee di tendenza e percorsi (a Torino nell’autunno 2005 e a Milano fino al prossimo 7 gennaio; FOTO graphia, ottobre 2006) e L’immagine fotografica 1945-2000, ventesimo volume dell’opera enciclopedica Storia d’Italia di Einaudi. Ancora Uliano Lucas, sempre nelle vesti di curatore, oltre la sua principale personalità di attento fotogiornalista, ha firmato assieme a Tatiana Agliani e Maruzza Capaldi una mostra complessiva dell’opera fotografica di Lisetta Carmi. Esposta alla Sala Murat di Bari, in primavera, Lisetta Carmi, fotografie si è accompagnata con un volume catalogo, che le sopravvive nel tempo e che rappresenta una preziosa testimonianza, a comoda portata di mano. Completate da un saggio di Uliano
Orgosolo, 1973: dalla serie di reportage realizzati da Lisetta Carmi a partire dal 1964. Da I travestiti, intenso reportage raccolto in volume nel 1972.
Lucas e accompagnate da una conversazione con Tatiana Agliani, Sul filo delle immagini, Lisetta Carmi racconta, le immagini tracciano i tempi e modi di un percorso fotografico esemplare, che arricchisce il patrimonio del fotogiornalismo italiano e che rivela una personalità di grande risalto, in un continuum narrativo che ha osservato lo svolgimento della vita con apprezzata partecipazione. M.R.
Lisetta Carmi, fotografie; a cura di Tatiana Agliani, Maruzza Capaldi e Uliano Lucas; Associazione Culturale Recherche, Bari, 2006; 96 pagine 22,5x19,2cm, cartonato con sovraccoperta; 30,00 euro.
si migliora e lo fa in grande stile
o tinat a s ento g r : a olorelu-rosso c i t rian o-b 5 vao-bianc ner nditĂ mpe o f o r r p are sta sore o i g magincornic di spes ggio a t r m n e o m p a5 om m i s fino s i i t ncet e veloc a g i e nuovun facil per Via della Lira, 617 31053 Pieve di Soligo (TV) - Italy Tel. centralino 0438.9065 - uff. vendite 0438.906650 www.bubolaenaibo.com e-mail: bubolaenaibo@bubolaenaibo.com
ALLA PORTATA O gni volta che le questioni tecniche vengono osservate anche dal punto di vista commerciale, è obbligatorio riferirsi alle interpretazioni di mercato che nella successione e consecuzione del tempo hanno definito la personalità Canon. Nell’ambito delle attuali configurazioni digitali reflex, si richiama sempre l’originaria Eos 300D, con la quale è stata avviata quella che indichiamo come “Seconda generazione” (in attesa della prevedibile e prevista “Terza generazione; FOTOgraphia, novembre 2006), definita dal drastico contenimento dei prezzi di vendita, capaci di richiamare un pubblico sistematicamente e potenzialmente ampio (FOTO graphia, ottobre 2003). Ancora a ritroso, la stessa Eos 300D evocò esperienze tecniche e commerciali precedenti. In particolare, va ricordato il momento nel quale, nel 1976, fu lanciata sul mercato la reflex Canon AE-1, la cui favorevole combinazione tra prestazioni ottimali e prezzo conveniente diede fantastico impulso all’intero commercio della fotografia dei tempi, sollecitando un consistente indotto. Per diritto di anagrafe, lo ricordiamo personalmente: fu una autentica esplosione, che allargò in modo considerevole la base di appassionati della fotografia, trainando con sé l’intero mercato. A partire dalla Eos 300D, l’attuale fotografia digitale reflex si è allargata in modo analogo. Osserva e afferma Massimiliano Ceravolo, Country Director dell’area Consumer Imaging di Canon Italia: «Stiamo costatando che il passaggio alle reflex digitali diventa
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una tendenza di consumo di massa. Le indagini di mercato indicano che non sono solamente i possessori di reflex a pellicola a convertirsi all’acquisizione digitale di immagini. Dati alla mano, vediamo emergere un consumatore dal profilo radicalmente nuovo, che si va ad aggiungere agli oltre ventun milioni di possessori di apparecchi analogici Eos e che, adottando le reflex Eos digitali, sta spingendo questa crescita». Considerando che in Europa la diffusione di reflex digitali ha raggiunto solamente il tre per cento delle famiglie, non è più tempo di chiedersi se questo mercato diventerà importante, bensì quanto grande potrà diventare, come annotiamo spesso sulle nostre pagine.
IL NUOVO Anticipata le settimane precedenti l’appuntamento fieristico della Photokina, dove è stata presentata ufficialmente, la nuova reflex digitale Canon Eos 400D si propone come attuale riferimento tecnico per la fascia commerciale di esordio, appunto richiamata da una sostanziosa convenienza economica, per la quale non è stato sacrificato il consistente insieme delle prestazioni operative di uso.
Dotata di sensore CMOS da 10,1 Megapixel, del nuovo Eos Integrated Cleaning System (sistema integrato di pulizia) e di un monitor LCD da 2,5 pollici, la reflex digitale Canon Eos 400D si orienta verso il più ampio pubblico potenziale, al quale offre interpretazioni di taglio alto e una configurazione tecnica estremamente efficace Oltre all’introduzione dell’innovativo Eos Integrated Cleaning System, rispetto la precedente configurazione Eos 350D, la Eos 400D è caratterizzata da un corpo compatto e leggero e da una serie di migliorie. La risoluzione è aumentata a 10,1 Megapixel (contro i precedenti otto), grazie all’avanzata tecnologia del sensore CMOS, attualmente presente nelle sei reflex digitali Eos, che vanta alta sensibilità, alta velocità, basso rumore e minori consumi di corrente rispetto i sensori CCD. Quindi, persino con l’aumentata risoluzione delle immagini, è quasi raddoppiata l’autonomia di scatti consecutivi possibili, che passa da quattordici a ventisette in formato Jpeg alla massima risoluzione e da cinque a dieci in formato grezzo RAW.
Il monitor LCD da 2,5 pollici ad alta risoluzione (230.000 pixel), con angolo visuale da 160 gradi, grande quasi il doppio rispetto al display della Eos 350D, riferimento d’obbligo, è il più luminoso della gamma Eos. Consente di visualizzare in modo ancora più chiaro tutte le informazioni chiave di interfaccia utente e di rivedere in modo brillante le immagini acquisite. Allo stesso tempo, il sistema autofocus cresce da sette a nove aree di messa a fuoco: con rilevazione centrale altamente sensibile (f/2,8), per ottenere prestazioni adeguate anche ai più bassi livelli di luminosità.
ASPIRA POLVERE Il citato Eos Integrated Cleaning System è un dispositivo di rimozione della polvere
DI TUTTI eventualmente depositatasi sul sensore; si basa su tre funzioni: minimizza, respinge ed elimina. Anzitutto, i meccanismi interni della reflex sono progettati per ridurre al minimo la produzione di polvere (funzione Minimizza). In particolare, il coperchio protettivo del corpo macchina è stato riprogettato in modo da evitare che la sua stessa usura possa generare polvere. In secondo tempo, per impedire che la polvere si catalizzi, sono state applicate tecnologie antistatiche al filtro passa-basso, che copre la parte anteriore del sensore (funzione Respinge). Infine, una consecuzione di vibrazioni ad alta frequenza, che accompagnano la Self-Cleaning Sensor Unit (unità autopulente del sensore), scuotono la polvere dal filtro passa-basso ad ogni accensione della Canon Eos 400D (funzione Elimina). Se indesiderato, questo breve tempo di rimozione, può essere disattivato, per consentire di scattare immediatamente. Allo stesso momento, Canon ha elaborato anche il sistema interno Dust Delete Data, in grado di identificare
la posizione di eventuali tracce di polvere sul sensore, che possono essere rimosse automaticamente dopo lo scatto tramite l’applicazione Digital Photo Professional.
TECNOLOGIE La Eos 400D incorpora lo stesso processore Digic II, presente in altre configurazioni reflex digitali Canon, comprese le professionali della serie Eos-1. Ricordiamo che si tratta di un processore di immagine ad alta velocità appositamente realizzato con lo specifico compito di svolgere le funzioni di diverse e distinte unità di elaborazione, in modo da accelerare l’elaborazione stessa, risparmiare spazio e tutelare la durata della batteria di alimentazione. Grazie alla rapida pulizia della memoria di transito tra gli scatti continui, oltre a produrre immagini di alta qualità, tramite una gestione avanzata degli algoritmi, e ad avere un tempo di accensione istantaneo di 0,2 secondi, l’accelerazione di elaborazione dati del Digic II assegna la priorità alla capacità del fotografo di continuare a scattare. A que-
sto proposito, è stata ampliata anche la capacità di memoria delle cartelle, che ora arrivano fino a novemilanovecentonovantanove immagini. Conformemente al resto della gamma delle reflex digitali Eos, anche la Canon Eos 400D è corredata di un vasto pacchetto di applicazioni, per agevolare il flusso di lavoro. Il conosciuto software Digital Photo Professional (DPP) è un potente convertitore di file RAW, che garantisce un controllo completo sull’elaborazione delle immagini grezze. DPP supporta gli spazi colore sRGB, Adobe RGB e Wide Gamut RGB; il profilo colore ICC viene automaticamente inserito alle immagini RAW convertite in TIFF o Jpeg, per permettere una riproduzione più fedele dei colori nelle applicazioni software che supportano tale configurazione, come Adobe Photoshop. Inoltre, il software si integra ad altre funzioni della reflex, quali il sistema Dust Delete Data e i parametri Picture Style. In dotazione anche le applicazioni Eos Capture, Image/Zoom Browser e Photostitch, oltre il consueto accesso a 100Mb di spazio on-line gratuito sul portare Canon Image Gateway di condivisione delle immagini.
PICTURE STYLE La nuova Eos 400D eredita una serie di caratteristiche avanzate, presenti nelle reflex digitali Eos di fascia superiore, quali le Eos 30D e Eos 5D. Tra queste, si segnalano le impostazioni Picture Style, che semplificano il controllo della qualità dell’immagine attraverso l’apparecchio. Le preselezioni Picture Style possono essere considerate come differenti tipi di pellicola, con diverse caratteristiche di risposta. All’interno di ogni preselezione, si ha il controllo su nitidezza, contrasto, tonalità e saturazione. Sei impostazioni predefinite: Standard, per immagini brillanti, vivide che non
richiedono ritocchi; Ritratto, per controllare la saturazione e i toni del colore, evitando una nitidezza eccessiva e ottenere attraenti tonalità dell’incarnato; Paesaggio, per verdi e blu più incisivi, con una nitidezza dedicata che dà enfasi ai bordi delle montagne, agli alberi e agli edifici; Neutro, ideale per la post-elaborazione; Fedele, che regola i colori per allinearli con quelli del soggetto quando si scatta con una temperatura colore di 5200 kelvin; Monocromatico, per acquisizioni in bianconero con la simulazione degli effetti di una serie di filtri di contrasto (giallo, arancio, rosso e verde) o di intonazioni in sviluppo (seppia, blu, porpora e verde). Con User Defined Picture Style (definito dall’utente), è possibile salvare fino a tre parametri personalizzati predefiniti, oppure scegliere uno dei parametri predefiniti scaricabili dal sito internet di Canon. Diverse le confezioni di vendita: solo corpo e in kit con zoom di diversa escursione focale 18-55mm f/3,55,6, oppure 17-85mm f/4-5,6 IS USM, oppure 18-55mm f/3,5- 5,6 e 55-200mm f/4,55,6 II USM. (Canon Italia, via Milano 8, 20097 San Donato Milanese MI). Antonio Bordoni
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GRANDI STAMPE N
ell’ambito della nuova gamma di stampanti HP a getto di inchiostro di grande formato, la Serie Z propone due interpretazioni di alto profilo, caratterizzate da una consistente serie di innovazioni, che si proiettano sia su una vantata qualità delle copie, sia sulla produttività. Nello specifico, le stampanti HP Designjet Z2100 e HP Designjet Z3100 (plotter) procedono in parallelo: rispettivamente con funzionalità a otto e dodici inchiostri. Entrambe sono indirizzate agli impieghi dichiaratamente fotografici e grafici, per i quali è prevista un’ampia scelta di supporti di stampa e ai quali si offrono in due rispettive versioni di diverse dimensioni di stampa, per un totale di sei unità (tre più
tre). La luce in uscita di 44 pollici (112cm) è proposta nell’unica configurazione fotografica, mentre la luce in uscita di 24 pollici (61cm) è disponibile anche in configurazione grafica dedicata GP, con appositi Rip di gestione dei file e del colore. I nuovi inchiostri Vivera pigmentati, che offrono doti di stabilità, fluidità, resistenza e qualità formale, si combinano con innovative teste di stampa HP 70, definite e caratterizzate anche da un avanzato sistema di controllo di stampa
e manutenzione degli ugelli. In questo senso, va rilevato che un processo automatico viene attivato periodicamente a macchina accesa, con un minimo utilizzo di inchiostro. Ciò garantisce la presenza di inchiostro fresco negli ugelli, prevenendone l’otturazione; inoltre, viene eseguito un test automatico e periodico di controllo degli stessi ugelli, senza stampa di test diagnostici. In sequenza, le prestazioni annunciate: la stabilità è raggiunta dopo pochi minuti dalla stampa su carta fotografica; la fluidità evita l’otturazione degli ugelli, migliora la lucidità e riduce sensibilmente la grana visibile sulle copie, assicurando, al contempo, una sostanziale affidabilità di impiego (soprattutto, allungamento della vita della testa di stampa e ripartenza ottimale dopo fermi macchina); resistenza, sia agli agenti atmosferici esterni sia alla luce, con garanzia di duecento anni (rilevazione dell’istituto specializzato statunitense Wilhelm Imaging Research); qualità formale, infine, per una combinazione di gamma cromati-
All’interno della tecnologia di stampa a getto di inchiostro, le nuove configurazioni HP Designjet Z2100 e HP Designjet Z3100 propongono interpretazioni e soluzioni di conveniente gestione del flusso di lavoro. Sempre, e comunque, a partire dal un’altra qualità formale delle relative prestazioni ca estesa e dettaglio capaci di esaudire ogni esigenza di stampa nei settori della fotografia professionale e fine art, prova colore concettuale e contrattuale e servizio di stampa per piccole tirature. Gli otto inchiostri dell’unità HP Designjet Z2100 comprendono una gamma di cinque colori e tre neri, in cartucce da 130ml. Quattro le teste di stampa (a millecinquantasei ugelli per colore, fino a un totale di ottomilaquattrocentoquarantotto ugelli), per una qualità definita in 2400x1200dpi: gocce da quattro e sei picolitri, nell’alternanza della successione dei colori. I dodici inchiostri dell’unità HP Designjet Z3100 sono scomposti in sette colori, quattro neri e un esaltatore di lucentezza, sempre in cartucce da 130ml. Ancora: sei teste di stampa (per un totale di dodicimilaseicentosettantadue ugelli) e qualità di stampa da 2400x1200dpi. In particolare, oltre ogni possibile considerazione cro-
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PREMIO TIPA 2006
L’
matica sul valore e qualità della stampa a colori, le due unità sottolineano la propria particolare predisposizione anche per la stampa bianconero, con gradazione neutra (dal bianco-al-nero) e ridotta grana immagine. L’HP Designjet Z2100 utilizza due neri per i supporti lucidi e tre per quelli opachi (matt); analogamente, nelle stesse condizioni, l’HP Designjet Z3100 ne attiva tre o quattro. In entrambe le combinazioni, si ha
una regolazione della stampa differenziata tra le aree nere a sfondo bianco, le alte luci, i mezzi toni e le ombre, rispettivamente risolte da adeguate combinazioni di inchiostri. Lo stesso si può dire per le miscelazioni ragionate e consequenziali dei colori, che nel caso dell’unità HP Designjet Z3100 prevedono anche un esaltatore di lucentezza finale. Non si tratta di una pellicola di protezione, diciamolo subito, ma di un inchiostro trasparente, che viene stampato insieme
insieme e la sostanza delle caratteristiche e prestazioni delle due stampanti di grandi dimensioni HP Designjet Z2100 e HP Designjet Z3100, per bobine fino a 44 e 24 pollici (112 e 61cm), si replicano nell’unità compatta HP Photosmart Pro B9180, premio TIPA 2006 nella categoria delle stampanti formato A3 (FOTOgraphia, maggio 2006). Ripetiamone la motivazione: «Per copie fino alla dimensione A3+, o A3 Plus (32,9x43,8cm), la stampante HP Photosmart Pro B9180 è indirizzata all’uso professionale. Otto inchiostri separati HP Vivera sono finalizzati alla migliore restituzione del colore, per stampe accurate e di qualità. Il software in dotazione consente la pertinente combinazione con ogni profilo colore, per una produzione che sia costante nel tempo».
agli altri colorati, che migliora alcune delle caratteristiche visive degli stessi inchiostri pigmentati, sia su carta lucida sia su carta semi-lucida. In particolare, l’esaltatore di lucentezza elimina differenze di lucidità tra carta e inchiostri, minimizza le differenze di lucidità nelle aree stampate ed elimina l’effetto bronzing nelle stampe. Inoltre, per la gestione del colore in stampa grafica, nelle unità dedicate si segnala la presenza di uno spettrofoto-
metro integrato, che crea automaticamente il profilo ICC in base al supporto di stampa utilizzato, e un densitometro, ancora integrato, che governa l’allineamento del colore e consente una calibrazione avanzata del supporto di stampa. Ovviamente, software dedicati guidano e comandano in semplicità e convenienza le sessioni operative. (HP / Hewlett-Packard Italiana, via Di Vittorio 9, 20063 Cernusco sul Naviglio MI). A.Bor.
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al centro
della fotografia
tra attrezzature, immagini e opinioni. nostre e vostre.
N
ADOLFO DENCI
Nell’eruzione della fotografia storica, o della memoria che ogni città, paese o borgo porta alla luce da archivi pubblici, collezioni private, ritrovamenti occasionali dai rigattieri, non sempre la forza visiva dell’insieme raccolto è all’altezza delle celebrazioni che sostengono l’evento, anzi quasi mai. Non tutto è Alinari o Brogi. Né possiamo far diventare arte della fotografia un qualsiasi documento visivo o ritratto familiare, soltanto perché realizzato un secolo fa. Anche il Sessantotto, visto in molte fotografie ormai celebrate anche da Santa Romana Chiesa (che sono di una bruttezza partigiana inaudita), contengono in sé qualcosa di mortifero, di decadente e non dicono nulla della grande festa dell’utopia che ha incendiato quegli anni formidabili. Quando la politica si ammanta di cultura, c’è il sospetto che la forca sia dietro l’angolo. Nell’armadio della fotografia sconosciuta o non celebrata c’è un fotografo della bassa Maremma che ha fatto l’impresa, cioè quella di lasciare al dopo di lui una raccolta di duemila lastre fotografiche che esprimono bene il sangue, il sudore e la dignità della sua Terra (oggi conservate nell’archivio del pronipote Ildebrando Denci). Le note che accompagnano i suoi lavori (curati da Marcello Baraghini e Alfio Cavoli) sono parche, ma fanno luce su un fotografo sovente straordinario.
UN FOTOGRAFO CHE FECE L’IMPRESA Lorenzo Adolfo Denci nasce a Pitigliano, in provincia di Grosseto, il 17 giugno 1881. Nel 1905, a ventiquattro anni, vince come fotografo la medaglia d’oro all’Esposizione Universale di Berlino. Porta all’altare
una ragazza di famiglia benestante, Ester Orlandi, e hanno una figlia, Annunziata. Nel 1912, dopo la morte della moglie, Adolfo Denci sposa l’ostetrica Giuseppina Mangiò, che gli resterà accanto per tutto il resto della sua esistenza. La passione di Adolfo Denci per la fotografia è stata di quelle che marchiano una vita intera. Nel 1911, si avventura nelle valli del Fiora e dell’Albegna, e le sue fotografie finiscono nel libro di Carlo Alberto Nicolosi La montagna maremmana. Il fotografo stringe amicizia con il direttore didattico Evandro Baldini e il veterinario Gian Ugo Bo-
il suo studio fotografico in una specie di mansarda (al numero dieci di vicolo Venezia), uno dei punti più belli della “città del tufo”. Le sue fotografie coprono quasi mezzo secolo di storia di quelle terre di “briganti” e ebrei in fuga. “Adolfino” muore durante il bombardamento del 17 giugno 1944, l’unico su Pitigliano: resta sepolto sotto le macerie dell’edificio del Monte dei Paschi di Siena; aveva sessantatré anni. Scompariva l’uomo, ma restavano le sue immagini a testimoniare la bellezza e il fascino di una terra selvatica tra le più belle dell’Italia.
«Lo spettacolo organizza magistralmente l’ignoranza di ciò che succede e, subito dopo, l’oblio di ciò che siamo riusciti ugualmente a sapere. [...] Tutto ciò che era direttamente vissuto si è trasferito in una rappresentazione» Guy Debord scaglia, autori di libri e articoli, che spesso si servivano delle fotografie di Adolfo Denci per le proprie pubblicazioni. Anche sotto il fascismo, “Adolfino” (così lo chiamavano gli amici, per la piccola statura), lavorava di fotografia. Lui non è mai stato fascista, ma le cronache del paese lo segnalano sotto il protettorato di Evandro Baldini, fervente sostenitore del regime. Più tardi, Adolfo Denci apre
UN TESTIMONE DEL QUOTIDIANO La fotografia di Adolfo Denci esprime un singolare realismo, che non si riconosce nel documento soltanto o nel recupero nostalgico della Maremma perduta. Il fotografo era cosciente di raccontare l’ordinario di una terra fascinosa, insieme alla sua storia profonda, e molte delle sue immagini tendono appunto a valorizzare gli uomini e i costumi del tempo.
Le fotografie di Adolfo Denci mostrano subito la commissione, che era il suo solo pane, ma a vedere in profondità l’insieme del suo fare-fotografia non è difficile scorgere -al di là dell’immediato- lo sguardo melanconico di un fine testimone del quotidiano. La scrittura fotografica di Adolfo Denci supera la posa “classica”, dalla quale parte, e mette al centro dell’immagine il popolare, il semplice, financo il fiabesco. Molte delle sue riprese sono tagliate via dall’occasionale estetico e si riversano nell’immaginale magico di un’esistenza vissuta nella strada. I ritratti di gruppo, le adunate fasciste, i ragazzi della scuola, la vita di paese sono raccontati senza slanci apologetici; anzi il fotografo è attento ai dettagli, agli sguardi dritti in macchina, al racconto dovuto alla celebrazione del momento. Le strade parlano. I bambini giocano sul tufo, le nonne filano la lana, le mamme lavano al fiume e i babbi lavorano in comunità. L’oleografia sembra esserci tutta, eppure Adolfo Denci la elude o l’aggira, e i volti aspri dei maremmani raccontano per proprio conto la loro memoria storica. Per cogliere nella scrittura visiva di Adolfo Denci un’etica o precetto di un’esperienza morale, che rifluisce in un’estetica popolare di grande spessore autoriale, occorre andare a leggere le fotografie di Pitigliano (ma questo vale, in parte, anche per le immagini di Sorano, Sovana, Manciano, Saturnia, Orbetello): La porta d’ingresso, Operai rimuovono la frana sotto la Madonne della Grazie, La scelta delle ginestre, Il lavatoio della Ripa, La lavorazione della pasta delle olive, Il Giro d’Italia del 1936 o Il greto del fiume Meleta. In queste fo-
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tografie emerge ancora la freschezza emozionale, l’istantaneità della permanenza o la realtà spinta verso la storia in forma di canto crepuscolare. Le ingenuità fattuali di Adolfo Denci sono nella sua fotografia, che non è mai reportage fino in fondo, né ritrattistica estrema, dove muore la maschera di rito e nasce l’uomo e la propria appartenenza a una scena sociale. Le sue immagini sono popolate di figure, sovente “ferme”, o, come si dice in modo più appropriato, “ingessate” per/nella fotografia; tuttavia, la forza della composizione, la bellezza delle luci e delle ombre, la scelta di congelare l’accadere fuori dal tempo medesimo fanno della scrittura fotografica di Adolfo Denci un encomio di notevole bellezza del sincero e dell’umile scippati al reale.
DELLA FOTOGRAFIA DELLA MEMORIA
Quella di Adolfo Denci è una fotografia dell’intuizione, non della spontaneità. Il fotografo è il vero padrone dell’istante che crea. Per significare l’ambiente che l’avvolge costruisce la situazione, la inquadra in una disciplina spirituale che dà piena libertà al proprio
sguardo e nel contempo è la testimonianza di un tempo altro. Quello di un’altra verità. Quella commissionata. Non è la fotografia trovata, che incendia lo sguardo del fotografo, né la dimensione casuale. Il vero si presenta ai suoi occhi come ritrattistica personale e, al di là dell’oggettività praticata dal mestiere, fissa sulle lastre le cose “non come sono”, ma come “lui vede e fabbrica queste cose”. La fotografia è una forma di registrazione della vita reale o non è nulla. Solo un giochetto mercantile fatto passare come “arte” nei luoghi deputati alla circolazione della menzogna. La civiltà dello spettacolo sembra macinare immagini, parole, sogni... e tutto muore nel consumo di massa. La domesticazione dell’immaginario è al fondo d’ogni consenso elettorale, d’ogni potere, d’ogni genocidio orchestrato dall’economia politica sovranazionale. Quando non c’è critica radicale della politica né disobbedienza civile, cominciano a parlare i fucili e i diritti più elementari dell’uomo sono calpestati. La fotografia popolare di Adolfo Denci è una testimonianza di pregio, un pezzo di
storia (nemmeno troppo conosciuta) di un’Italia che passa dalla retorica strapaesana del fascismo e si ferma sotto le bombe degli alleati, responsabili di mattazioni di civili: e tutto, s’intende, nel nome santificato della liberazione. Sotto i proclami di giustizia, pace e diritto, armi alla mano, i “ liberatori” hanno ricordato agli italiani tutti che i codici di libertà condizionata della quale sono portatori poggia su una morale fatta per una società di schiavi e non di angeli. L’importante è dare loro l’illusione d’essere importanti e protagonisti dello sviluppo collettivo. L’ideale dell’uomo è la felicità. Lo spettacolo delle merci e una vita di sopravvivenza sembrano assolvere questo desiderio profondo del vivere comune. Laddove l’intelligenza dell’uomo è impoverita, violata e oppressa, la dimensione autentica dell’uomo è spazzata via: e questa involuzione della soggettività creativa lo rende incapace di godere di qualunque cosa. Una scrittura fotografica del sociale -alla quale Adolfo Denci tende e qualche volta raggiunge- è una sorta di deriva delle passioni che conducono verso la realizzazione
del desiderio di negazione dell’arte e superamento dell’arte nella rivendicazione dell’uomo liberato da tutto l’imperio della falsificazione e dell’impostura che albergano nei valori dominanti. La fotografia del sociale è una “puttana che non sorride”, sputa contro gli untori della ragione: il solo compito al quale aderisce è quello di non far dimenticare e risvegliare le coscienze di fronte all’indifferenza e alla rassegnazione. La vera insurrezione dell’intelligenza non è quella che nasce dal soddisfacimento dei desideri indotti, ma che se ne prende gioco. Non ci sono uomini stupidi, ci sono soltanto saperi imbecilli, che intrappolano l’uomo nel confortorio della sofferenza e del consenso generalizzato. La barbarie della società dello spettacolo cade nella fotografia, ma nessuno se ne accorge. La stupidità è gradita a chi detta le regole del mercato. Nell’epoca dell’inganno universale, dichiarare la verità e parlare di bellezza è un atto eversivo. Il re non è nudo, è morto. Pino Bertelli (24 volte ottobre 2006)
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©2006 Hewlett-Packard Development Company, L.P. Tutti i diritti riservati. Immagine centrale ©Chris Steele-Perkins/Magnum Photos. *Compatibile con MAC e PC. **Resistenza allo sbiadimento di oltre 200 anni secondo Wilhelm Imaging Research, Inc. su una gamma di supporti di stampa professionali e per belle arti HP. Per informazioni: http://www.hp.com/go/supplies/printpermanence