Mensile, 5,70 euro, Poste Italiane SpA - Spedizione in abbonamento postale - D.L. 353/2003 (convertito in Legge il 27-02-2004, numero 46), articolo 1, comma 1 - DCB Milano
ANNO XIV - NUMERO 130 - APRILE 2007
Cronaca rosa IN NOME DI PAPARAZZO
Canon Eos-1D Mark III TERZA GENERAZIONE
Wpp 2007 UN ALTRO ANNO
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DIECI ANNI DOPO. Parliamo di fotografia e privacy, magari richiamando ancora la triste attualità di avvenimenti che si sono verificati in questi ultimi tempi, ai quali ci riferiamo anche su questo stesso numero, da pagina 9, commentandoli da un altro punto di vista. Il prossimo giugno, un numero speciale e dedicato di FotoDossier analizza lo spinoso argomento, a dieci anni dall’entrata in vigore in Italia della cosiddetta “legge sulla privacy” (ufficialmente legge 675/96 Tutela delle persone e di altri soggetti rispetto al trattamento dei dati personali ), che lo stesso competente periodico aveva affrontato, con tempestività, nel 1999, dedicandovi una propria edizione Fotografia e Privacy (FOTOgraphia, settembre 1999). Sempre avvalendosi della propria profonda esperienza nel campo della legislazione dell’immagine, che affonda le radici indietro nei decenni, Nuova Arnica Editrice ripercorre il cammino legislativo del diritto della persona alla propria immagine e compara le leggi pregresse, e tuttora in vigore, alla realtà che si è venuta a determinare nel delicato settore della produzione e della divulgazione delle immagini di persone. Soprattutto, oltre le teorie, vengono prese in esame e considerazione le applicazioni reali della legge, spesso contraddittorie. Prima domanda, di stretta attualità, assolutamente discriminante: nel corso di questi anni, a quali trasformazioni o condizionamenti è stato sottoposto il libero “pensiero fotografico”? Ancora: con quali prospettive si possono realizzare oggi riprese di persone, reportage, ritratti perché possano essere utilizzati liberamente per pubblicazioni, giornali e periodici, mostre, proiezioni secondo le previsioni della legge in vigore sul diritto d’autore? E poi: come comprendere il meccanismo anomalo che ha creato conflittualità tra l’interpretazione limitativa della “legge sulla privacy” e il dettato “concessivo” di leggi che autorizzano quanto l’interpretazione stessa sembra vietare? Le fotografie d’archivio che ritraggono persone: pubblicarle o no? Ci si augura una sola norma per i professionisti e per chi pubblica occasionalmente. Così come si vorrebbe un’interpretazione da condividere in pieno. Il numero speciale di FotoDossier, ribadiamo in uscita il prossimo giugno, tratta ampiamente questi temi, attualizzando il punto della situazione sui problemi più ricorrenti in materia. Tra questi: l’anomala classificazione delle semplici fotografie e delle opere fotografiche; l’uso del treppiedi (o di una postazione comunque sia fissa) sul suolo pubblico; il silenzio del legislatore sulla tutela delle fotografie digitali. Le richieste di modalità per la prenotazione del fascicolo possono essere inviate a: Nuova Arnica Editrice, via dei Reti 19a, 00185 Roma; 06-4441611, anche fax; n.arnica@libero.it.
Insomma, ci sarà pure un motivo se dicono che, in mancanza di amore, si cerca di essere ammirati; in mancanza di ammirazione, rispettati; in mancanza di rispetto, temuti. Ma, qual è?
Copertina Fotografia del tedesco David Helmrich, segnalato al Canon ProFashional Photo Award 2006, sulle cui consecuzioni scriviamo da pagina 38. In questo caso, ornamenti astratti completano una composizione di moda: forme sostanzialmente sperimentali per una raffigurazione di forte impatto. Nel proprio insieme, ci piaccia o meno, la fotografia di moda è uno degli specchi (visivi) nei quali si riflette la nostra attuale società occidentale
3 Fumetto
9
Dettaglio da una delle tavole che illustrano il romanzo Obiettivo Òstrakon, di Annamaria Ferretti (Edizioni Capitol Bologna, 1974). Visualizzazione di un passaggio del racconto (di profilo mediocre): «Il pomeriggio all’atelier di Madama Boriondo fu assai vivace, e corse via rapido. Le indossatrici erano in gamba: bastava che avessero indosso il modello per assumere istintivamente la posa giusta. Romantica per “Rêve d’un soir”, ingenua per “Cinderella”, ieratica per “Eudossia”. Il gatto Nerone, poi, sembrava non avesse fatto altro in vita sua che posare per foto di moda». Comunque, registriamo le inconfondibili forme del treppiedi Gitzo e la probabilità di una medio formato 6x6cm Rolleiflex biottica
7 Editoriale 64
Le rievocazioni televisive del Settantasette italiano, anno di sommovimenti cui seguirono scombussolamenti sociali e politici, declinano una mondanità giornalistica dei nostri giorni. Ma ci sono testimonianze fotografiche che raccontano con efficacia. Da non perdere
9 In nome di Paparazzo Estranei a qualsiasi commento sulle recenti vicende a base di foto-ricatti, sulle quali non ci interessa attardarci, due precisazioni: la non oggettività della fotografia e l’etimologia del sostantivo “paparazzo”. Quindi, qualche nostalgia per valori del passato
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14 Notizie Attrezzature, vicende e altre segnalazioni
16 In forma d’arte 24
In Friuli, avvincente personale di Hiroshi Sugimoto, uno dei più significativi autori/artisti contemporanei
. APRILE 2007
RRIFLESSIONI IFLESSIONI,, OSSERVAZIONI OSSERVAZIONI EE COMMENTI COMMENTI SULLA SULLA FFOTOGRAFIA OTOGRAFIA
19 Reportage con speranza
Anno XIV - numero 130 - 5,70 euro
A Michele Borzoni il Premio Yann Geffroy 2007, riservato al fotogiornalismo che offra una soluzione in positivo di un problema sociale, politico, scientifico, ecologico
DIRETTORE
RESPONSABILE
Maurizio Rebuzzini
IMPAGINAZIONE Gianluca Gigante
24 Giornata (tutto) Pentax 20 maggio: dodicesima edizione del Pentax Day
REDAZIONE
62
Angelo Galantini
FOTOGRAFIE Rouge
26 Un altro anno
SEGRETERIA
World Press Photo 2007: assuefazione alla fotografia del dolore e della tragedia. Senza icone visive di Maurizio Rebuzzini
HANNO
Maddalena Fasoli
34 Ora e sempre fotogiornalismo Werner Bischof in mostra a Reggio Emilia. Occasione per sottolineare l’eventualità del fotoreporter-artista
38 I modi della moda
16
La fotografia di moda appartiene al nostro tempo. Annotazioni dal Canon ProFashional Photo Award 2006 di Angelo Galantini
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45 Lungo il secolo Verona celebra una delle sue illustri famiglie: i Tommasoli, fotografi da tre generazioni, a partire dal 1906
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51 Terza generazione
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56 A spasso per Roma Miro Gabriele e Enrico Fontolan hanno compiuto un affascinante tragitto fotografico da Roma fino al mare
Alberto Giuliani alla Galleria Cedro26 di Roma (Trastevere)
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Canon Eos-1D Mark III: 10,7 Megapixel, dieci fotogrammi al secondo, sequenze continue fino a centodieci scatti di Antonio Bordoni
60 Sguardi dall’Argentina
COLLABORATO
Renzo Andrian Paolo Begotti Antonio Bordoni Maria Teresa Ferrario Enrico Fontolan Miro Gabriele Loredana Patti Franco Sergio Rebosio Ciro Rebuzzini Filippo Rebuzzini Studio Tommasoli Zebra for You
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● Nessuna maggiorazione è applicata per i numeri arretrati. ● È consentita la riproduzione di testi e fotografie, magari citando la fonte (ma non è indispensabile, né obbligatorio farlo). ● Manoscritti e fotografie non richiesti non saranno restituiti; l’Editore non è responsabile di eventuali danneggiamenti o smarrimenti. Fotocomposizione DTP e selezioni litografiche: Rouge, Milano Stampa: Arti Grafiche Salea, Milano
62 Taglia e incolla Soltanto un gioco, sia chiaro, senza altre intenzioni Ricerca iconografica di Ciro Rebuzzini
Rivista associata a TIPA
64 Forma e contenuto Compatta digitale Ricoh Caplio R6 con zoom 28-200mm
66 Walter Rosenblum In ricordo, a un anno dalla scomparsa (gennaio 2006)
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iffidate delle rievocazioni televisive del Settantasette, che commemorano i trent’anni dai fatti italiani del 1977, appunto, che definirono un disagio sociale dai mille risvolti, alcuni perfino tragici. Diffidate, perché nel frattempo un certo giornalismo italiano è stato assorbito dalla mondanità dei nostri giorni, che antepone l’apparire all’essere, lo sfoggio superficiale all’approfondimento, l’esibizione al confronto. Soprattutto, in molte trasmissioni televisive abbiamo assistito più alla celebrazione personale di alcuni (presunti) protagonisti di quella lontana e controversa stagione, che da quei palcoscenici pubblici presero il via per successive proprie carriere personali, molte delle quali coltivate all’interno di un giornalismo vissuto a stretto contatto (di gomito) con la politica italiana. E di questo, si sta soprattutto parlando, limitandosi spesso a una visione egocentrica di assoluto appagamento individuale. Fotograficamente parlando, quella del Settantasette e dintorni fu un’epoca ricca di impegno e concentrazioni, che coinvolse una identificata serie di fotogiornalisti. A differenza del panorama politico e sociale internazionale, che datò i propri sommovimenti agli anni del precedente Sessantotto, che in Italia fu più pallido che altrove e che, in modo particolare, non produsse una significativa corrispondenza fotografica, i movimenti giovanili del Sessantasette ebbero un sostanzioso accompagnamento fotogiornalistico. Purtroppo, lo ricordiamo bene, non tutto fu chiaro e limpido, e in quell’occasione si manifestarono anche complicazioni fotografiche almeno dubbie e inquietanti. Tra tanto, ricordiamo bene che proprio allora si cominciò anche a parlare della fotografia come documento di identificazione poliziesca dei manifestanti. Così che, a conseguenza, nacquero diffidenze e controversie proprio tra il cosiddetto “movimento” e i fotografi, ai quali molto spesso si è impedito di esercitare il proprio mestiere. Alcune delle figure dei fotografi ben visti e accettati non furono trasparenti nelle proprie azioni: e su questo, a porte chiuse, potremmo anche parlare. Per quanto, non possiamo però ignorare la statura di quei fotografi che allora furono testimonianza palpitante della vita e del tempo, affermando con forza e concentrazione il valore di un fotogiornalismo originale e indipendente nella propria visione e funzione sociale. Tra i tanti, ci concediamo un nome sopra e per tutti. Quello di Tano D’Amico, il cui occhio attento ha prodotto una straordinaria serie di immagini del nostro paese, non soltanto del Settantasette, sia chiaro, che sono irrinunciabile patrimonio visivo della nostra stessa vita. A cura di Marco Delogu e Giovanna Calvenzi, l’attento programma FotoGrafia di Roma ha allestito una sua personale, appunto indirizzata alla fotografia giornalistica e sociale di quegli anni: È il ’77 non è una selezione che deve esaurirsi nei giorni della propria esposizione romana, fino al tredici maggio al Museo di Roma in Trastevere, ma deve essere veicolata in altri luoghi e date a seguire. Maurizio Rebuzzini
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Tano D’Amico: Ragazza e carabinieri; Roma, 1977.
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IN NOME DI PAPARAZZO GIORNALFOTO / ARCHIVIO BEGOTTI (MILANO)
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Ossimoro. Scriviamo per non dire. Diciamo senza dare alcuna visibilità a persone e fatti in se stessi, ma per ragionare in proiezione più ampia, quantomeno particolare. Da metà marzo, la vicenda che sta all’origine di queste nostre considerazioni è stata affrontata, analizzata e vivisezionata dalla stampa nazionale, cartacea, radiofonica e -soprattutto- televisiva. In merito a situazioni di presunto ricatto e uso improprio dell’immagine, certi riferimenti e utilizzi fraudolenti della fotografia sono balzati agli onori (e oneri) della cronaca. Nell’insieme sono stati coinvolti i protagonisti che hanno tirato le fila, secondo quanto rilevato dalla relativa inchiesta giudiziaria, e gli involontari soggetti, che sono rimasti impigliati nella vischiosa rete. A distanza di tempo, l’eventuale cronaca dei fatti non ha alcun senso, perché, nel momento in cui si leggono queste righe, lo svolgimento potrebbe essere già approdato a una propria conclusione: in un senso, piuttosto che in un altro, non ci riguarda. E, in tutti i casi, la stessa cronaca dei fatti non ci interessa in quanto tale. Quello che invece annotiamo è che, sebbene la fotografia sia stata considerata protagonista volontaria e cosciente della situazione, si tratta di fotografia estranea al percorso lungo il quale sono incamminati i suoi interpreti più seri: senza soluzione di continuità, dai fotografi a coloro i quali usano e gestiscono l’immagine. In quanto è accaduto, nella propria proiezione verso personaggi dello spettacolo, sport e politica, è stato declinato un erroneo concetto di fotografia. Addirittura, l’esuberante apparenza della fotografia ha deviato i resoconti giornalistici, che avrebbero dovuto puntualizzare ben altre considerazioni. Una prima di tutte: non si è trattato tanto di vicenda fotografica, quanto di storia in linea e sintonia con il malcostume, l’ineducazione e l’assenza di valori dei nostri giorni attuali. In un concetto lombrosiano dei ter-
Alberto Sordi alla prima mondiale del film I tre volti: Teatro Nuovo, Milano, 12 febbraio 1965. Tra i fotografi presenti, ai piedi della scalinata del cinema, si riconoscono Paolo Begotti e Piero Cavaliere. In tutti i casi, sottolineiamo la formalità dello smoking indossato dai fotografi di cronaca rosa, condizione allora indispensabile per presenziare a una prima cinematografica.
mini, in un’idea scientifica che individua e indica caratteri fisici ritenuti negativi, specchio della mente e dell’animo, i concetti esistenziali espressi dai protagonisti inquisiti rivelano una povertà morale della quale bisogna tenere conto. Ripetiamo: perché questa aridità appartiene ormai alla nostra società, che dà peso a tutta una serie di apparenze dei nostri confusi giorni. Si è parlato sul nulla, come si stesse viaggiando in un treno che corre nella notte buia. E buia è la sordida regia delle vicende evocate dall’inchiesta giudiziaria.
Insomma, cosa possiamo esigere da una società nella quale si fa bandiera e ragione dell’ignoranza dichiarata? Cosa possiamo aspettarci dalla consecuzione di veline, calciatori opinionisti (?), risse in diretta e differita, ingiurie urlate senza ritegno e tanto altro ancora, puntualmente proposta e riproposta dai modelli televisivi nazionali? In un intreccio di trame, tramette (e perfino tramezze), ci si è trovati di fronte a autentici impedimenti e ostacoli esistenziali. Senza perdere di vista gli impegni morali, si è soltanto potuto scegliere se conve-
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nisse rimuovere gli uni e aggirare gli altri, o viceversa. Da parte nostra, estranei a qualsiasi tentativo di fare della morale -non è il nostro compito, né vogliamo che lo diventi-, ci permettiamo soltanto di sottolineare che siamo stati posti di fronte all’unico risultato possibile e plausibile del cammino della meschina socialità italiana dei nostri giorni. Punto.
DOCUMENTO (?) Da cui, una volta ancora, registriamo come in tutto il proprio svolgimento, la vicenda abbia declinato al negativo il concetto di “paparazzo”, ovverosia di fotografo intrigante, privo di morale e senza alcuna etica. Non per mal interpretato senso di gruppo, o appartenenza, ci permettiamo di dissentire, sottolineando l’assoluta dignità umana e professionale dei fotografi di cronaca, rosa come di altra tinta, cui vanno tutta la nostra ammirazione e il nostro massimo rispetto. Che poi esista un giornalismo che scarta a lato le proprie declinazioni, rivolgendole soprattutto in senso scandalistico, reale o ipotetico che sia, è tutta un’altra questione. Addirittura, un’altra ancora è quella che riguarda l’ipotesi di ricatti e pressioni, che è materia di indagine giudiziaria: e così è stato.
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L’arrivo a Roma di Sylvia è uno degli elementi portanti del film La dolce vita, di Federico Fellini (1960). È in questa occasione che sotto la scaletta dell’aereo si accalcano i fotografi di cronaca che si avventano (letteralmente) sulla diva, interpretata da Anita Ekberg. Tra questi c’è Paparazzo, compagno indivisibile del protagonista Marcello Mastroianni, dal quale è nato il neologismo che oggi identifica i fotografi di rosa, in una declinazione spesso negativa e dispregiativa.
Rimaniamo con la fotografia, e con l’occasione alziamo il tiro. A corollario dei recenti foto-ricatti, ci ha soprattutto sorpreso che la registrazione fotografica continui a conservare la propria antica magia di documentazione incontrovertibile: ancora oggi, all’alba del terzo millennio, con tutte le molteplici consapevolezze che accompagnano le combinazioni visive. Ancora si crede che la parola sia contestabile e la pittura soggettiva, mentre alla fotografia si riconosce una imbarazzante oggettività: ed è sul presunto spessore di questa “verità” che si sono basati i citati ricatti ai soggetti raffigurati in situazioni ritenute compromettenti (alla loro persona o immagine pubblica). La vantata oggettività della fotografia sollecita tanti collegamenti e altrettanti richiami, che potrebbero aprire infinite deviazioni e richiedere ulteriori approfondimenti. Soprattutto si devono esprimere coloro i quali, noi tra questi, sono coscienti di come gli stilemi della fotografia siano alterabili, manipolabili, interpretabili tanto quanto quelli della parola e del disegno. Non vogliamo certo esagerare, scomodando magari analisi di straordinario spessore culturale e artistico (a partire dalla cadenzata se-
rie di Verifiche con le quali, all’inizio degli anni Settanta, Ugo Mulas indagò il gesto fotografico), ma sappiamo bene di cosa stiamo parlando. Addirittura, ci torna alla mente che nel 1855 (!), quando la fotografia aveva soltanto sedici anni, la Regina Vittoria inviò in Crimea Roger Fenton, istruendolo preventivamente su come e cosa avrebbe dovuto fotografare. Il suo compito fotografico era prestabilito: raccogliere documenti visivi, che sarebbero stati diffusi attraverso la stampa periodica, conformi a un’idea di guerra legittima e indolore. In realtà, l’opinione pubblica inglese era sostanzialmente sconvolta dalle corrispondenze giornalistiche di William Russell, pubblicate sul Times: drammatici resoconti sulla condotta del conflitto, che puntavano il dito soprattutto sulle terribili condizioni climatiche che i soldati inglesi erano costretti ad affrontare senza l’equipaggiamento adatto e sulle inqualificabili condizioni igieniche dei servizi sanitari. Ben istruito, Roger Fenton non si soffermò mai sulle disagiate condizioni di vita o su raccapriccianti scene di battaglia, ma su ordinati accampamenti e teatri di guerra successivi al combattimento. Come ha ricordato Roberto Mutti, in FOTOgraphia dello scorso dicembre 2006, «tra le tante fotografie di Roger Fenton che ci sono pervenute, una colpì l’immaginazione dei contemporanei, e ancora oggi riesce a turbare già a partire dal titolo, La valle dell’ombra della morte (Valley of the Shadows of Death; 1855). Non compaiono figure, ma solo un gran numero di palle da cannone disseminate in una zona collinosa attraversata da una strada deserta». Si sa che della Valle dell’ombra della morte di Roger Fenton furono impressionate due lastre: nella prima, il fotografo riprese l’immagine così come la scena si presentava ai propri occhi; nella seconda, quella più pubblicata e nota, dispose le palle di cannone, componendo l’inquadratura fin nei minimi dettagli. Manipolazione estetica e coreografica, ma pur sempre manipolazione volontariamente applicata dal fotografo, consapevole dei termini del proprio linguaggio espressivo (nel 1855, ripe-
tiamo, soltanto sedici anni dopo la presentazione del dagherrotipo). In The Century’s Memorial. Photography and the Recording of History, Hubertus Von Amelunxen, docente di Filosofia dei Media e Studi Culturali presso la Graduate School di Saas-Fee, Svizzera, annota che «L’effetto di realtà della fotografia riguarda innanzitutto la propria aderenza formale a ciò che rappresenta, il suo contenuto può essere manipolato e selezionato senza inficiare il suo supposto valore di verità documentaria fondato sulla tecnica». Accordiamoci: la grande rivoluzione della fotografia è stata quella di mostrare la realtà senza apparenti mediazioni e da qui, forse, è nata la propria diffusione e popolarità anche come documento. Ma la sua oggettività è soltanto presunta.
PAPARAZZO (!) Comunque, rientrando nei termini dei discorsi odierni, rileviamo come, una volta ancora, il termine “paparazzo” sia stato declinato soprattutto in senso negativo. Paparazzo? Chi è costui? Una volta ancora vale la spesa raccontare l’etimologia del sostantivo maschile “paparazzo”. Come annotato a margine della recente mostra Fotografia & Cinema. Fotogrammi celebri, a cura di Maurizio e Filippo Rebuzzini, esposta alla Galleria Grazia Neri di Milano dal ventidue gennaio al ventotto febbraio scorsi (FOTOgraphia, dicembre 2006), «da qualsiasi punto si osservi la vicenda e a qualsiasi livello culturale la si voglia iscrivere, la fenomenologia della fotografia nel cinema ha un proprio richiamo principale e discriminante, che si è proiettato con prepotenza nel costume quotidiano, entrando addirittura nel vocabolario. Dal nome proprio a nome comune, spesso declinato in senso negativo [soprattutto a contorno della recente vicenda giudiziaria dalla quale abbiamo preso spunto], l’identificazione di “paparazzo” nasce con l’epocale La dolce vita (Italia e Francia, 1960), la cui sceneggiatura è firmata dal regista Federico Fellini, Ennio Flaiano e Tullio Pinelli, tre personalità di spicco della cultura e socialità italiana del tempo (pur senza attribuzione ufficiale, alla sceneggiatura di La
dolce vita ha contribuito anche Pier Paolo Pasolini, raffinato intellettuale di straordinaria statura)». Interpretato da Walter Santesso, Paparazzo è uno dei fotografi di cronaca rosa della Dolce vita (ancora una identificazione che ha travalicato i propri confini originari). È un reporter particolarmente invadente e sfacciato, sulla cui genesi si è espresso lo sceneggiatore Ennio Flaiano, raccontandone in La solitudine del satiro (Rizzoli; Milano, 1973), dove è altresì svelata l’ispirazione/origine del fortunato nome. Testuale. «Una società sguaiata, che esprime la sua fredda voglia di vivere più esibendosi che godendo realmente la vita, merita fotografi petulanti. Via Veneto è invasa da questi fotografi. Nel nostro film ce ne sarà uno, compagno indivisibile del protagonista. Fellini ha ben chiaro in testa il personaggio, ne conosce il modello: un reporter d’agenzia, di cui mi racconta una storia abbastanza atroce. Questo tale era stato mandato al funerale di una personalità rimasta vittima di una sciagura, per fotografare la vedova piangente; ma, per una qualche distrazione, la pellicola aveva preso luce e le fotografie non erano riuscite. Il direttore d’agenzia gli disse: “Arrangiati. Tra due ore portami la vedova piangente o ti licenzio e ti faccio anche causa per danni”. Il nostro reporter si precipitò allora a casa della vedova e la trovò che era appena tornata dal cimitero, ancora in gramaglie, e vagante da una stanza all’altra, istupidita dal dolore e dalla stanchezza. Per farla breve: disse alla vedova che se non riusciva a fotografarla piangente avrebbe perso il posto e quindi la speranza di sposarsi, perché s’era fidanzato da poco. La povera signora voleva cacciarlo: figurarsi che voglia aveva di fare la commedia dopo aver pianto tanto sul serio. Ma qui il fotografo, in ginocchio, a scongiurarla di essere buona, di non rovinarlo, di piangere solo un minuto, magari di fingere!, solo il tempo di fare un’istantanea. Ci riuscì. La povera vedova, una volta presa al laccio della pietà, si fece fotografare piangente sul letto matrimoniale, sullo scrittoio del marito, nel salotto, in cucina.
Lapide ricordo collocata nel centro di Catanzaro dall’amministrazione comunale, il 23 ottobre 1999. L’iscrizione richiama il soggiorno del romanziere inglese George R. Gissing nell’Albergo Centrale, di proprietà di Coriolano Paparazzo, dal quale gli sceneggiatori di La dolce vita hanno tratto ispirazione per il nome del fotografo di cronaca rosa tratteggiato nel film.
«Ora dovremmo mettere a questo fotografo un nome esemplare, perché il nome giusto aiuta molto e indica che il personaggio “vivrà”. Queste affinità semantiche tra i personaggi e i loro nomi facevano la disperazione di Flaubert, che ci mise due anni a trovare il nome di Madame Bovary, Emma. Per questo fotografo non sappiamo che inventare: finché, aprendo a caso quell’aureo libretto di George Gissing che si intitola Sulle rive dello Ionio troviamo un nome prestigioso: “Paparazzo”. Il fotografo si chiamerà Paparazzo. Non saprà mai di portare l’onorato nome di un albergatore delle Calabrie, del quale Gissing parla con riconoscenza e con ammirazione. Ma i nomi hanno un loro destino». Probabilmente, Paparazzo è il più famoso tra i fotografi che hanno animato il grande schermo cinematografico, anche se non tutti ne sono coscienti. Come abbiamo già ricordato, è diventato sostantivo identificatorio di una categoria professionale, soprattutto usato in senso dispregiativo. A questo proposito, vale la spesa ricordare che in Il mistero della signora scomparsa
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ANCHE IN POLITICA
S
abato diciassette marzo, in coincidenza di messa in pagina e intenti, i quotidiani Il Giornale e Libero hanno sottolineato allo stesso modo l’interdizione a pubblicare fotografie che coinvolgono/coinvolgerebbero Silvio Sircana, portavoce del governo, uno dei più appetitosi piatti del menu dei foto-ricatti. Nelle rispettive prime pagine, un coincidente riquadro bianco ha sottolineato l’assenza delle fotografie: «Qui avremmo voluto pubblicare le foto[grafie] del tentativo di ricatto a Sircana», commenta Il Giornale, cui fa
(The Lady Vanishes, di Anthony Page; Gran Bretagna, 1979: opaco remake di La signora scompare, di Alfred Hitchcock, del 1938) la capricciosa ereditiera Amanda Kelly (interpretata da Cybill Shepherd) apostrofa con “paparazzo” il fotografo di Life Robert Condon, che incontra nelle prime sequenze del film (Elliott Gould sullo schermo, che era già stato affascinante fotografo nello statunitense Piccoli omicidi, di Alan Arkin, del 1971). Disprezzo a parte, c’è una incongruenza da sottolineare: la vicenda narrata dal film è ambientata in Germania nell’estate 1939, alla vigilia della Seconda guerra mondiale, vent’anni prima della Dolce vita e della conseguente fenomenologia.
NOSTALGIA (!) Da capo, con il richiamo originario dal quale abbiamo preso avvio. A margine dell’intera vicenda, oltre le considerazioni espresse in esordio, prima di analizzare la presunta og-
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A seguire, le fotografie in oggetto sono state pubblicate da numerosi quotidiani, questi compresi. Ne è conseguita una ulteriore querelle, soprattutto televisiva, basata su chi possedesse e/o non possedesse i relativi diritti di riproduzione. Non ci occupiamo neppure di quest’altra questione, ancora e altrettanto pretestuosa.
eco Libero con «In questo spazio avremmo voluto pubblicare le fotografie del portavoce del governo in una situazione sconveniente, ma ripetutamente negata. Il decreto fatto approvare a tempo di record e pubblicato ieri sulla Gazzetta Ufficiale ci impedisce di farlo. Ce ne scusiamo con i lettori». Oltre le tante tristezze esternate nel corpo centrale dell’attuale intervento redazionale, un’altra ancora: con amarezza abbiamo scoperto che anche il mondo politico, che dovrebbe gestire il paese, può incappare in inquietanti foto-ricatti.
gettività della fotografia e incamminarci sul neologismo di “paparazzo”, esterniamo anche un certo rincrescimento. Che tristezza le vuote personalità, i nomi e i volti dei personaggi coinvolti, senza alcuna soluzione di continuità dai presunti ricattatori ai relativi ricattati e alle conseguenti dichiarazioni pubbliche in merito! A volte, viene proprio da rimpiangere un certo passato, prossimo o remoto che sia. In merito alla cronaca rosa, scopriamo oggi di quale e quanto spessore fossero i settimanali popolari dei decenni scorsi, quando gli obiettivi e gli interessi erano focalizzati soprattutto sugli scampoli di nobiltà internazionale (compreso il matrimonio tra Grace Kelly e Ranieri III di Monaco, del 19 aprile 1956, ricordato lo scorso mese in calce a una cartolina dell’attrice/sovrana con Rolleiflex); di quale educazione fossero i rapporti; di quale acume le combinazioni tra testo e immagine. Oggi, in epoca
di effimere meteore, gli scandali coinvolgono autentiche sciacquette di inviolabile inconsistenza. E il resto arriva a conseguenza logica e inevitabile. E poi, se sono questi i risultati di tante trasformazioni, molte delle quali benvenute e benemerite, allora sfoderiamo altre nostalgie e altri rimpianti. Con la mente ritorniamo a forme antiche, che rivelano coerenza, rispetto e correttezza professionale da parte di tutti. Per esempio, alla prima mondiale del film I tre volti, con i protagonisti Alberto Sordi e Soraya al Teatro Nuovo di Milano, il 12 febbraio 1965, i fotografi presenti erano immancabilmente in smoking [a pagina 9]. Quindi, se questo può fare la differenza tra educazione, deontologia e ciò che vediamo oggi, ben torni il formalismo dell’abito da sera, anche se affittato per l’occasione. Dalla forma, al contenuto! Certo, niente è pulito, ma facciamo comunque del nostro meglio. M.R.
obiettivo ideale a complemento delle dotazioni originarie Nikon D80, D40 e D40x. (Nital, via Tabacchi 33, 10132 Torino).
LUCE MODELLATA. Specializ-
ANCORA STABILIZZATO. Telezoom sostanzialmente compatto, il Nikkor AF-S DX VR 55200mm f/4-5,6G IF-ED è riservato alle reflex Nikon ad acquisizione digitale di immagini, il cui sensore è di dimensioni inferiori al fotogramma 24x36mm. Così che la sua visione angolare equivale a quella della variazione 82,5-300mm di riferimento. In questo ambito, l’escursione zoom 3,6x in direzione tele, dal medio al lungo, si avvale dell’efficace motore SWM (Silent Wave Motor), per un autofocus efficace, rapido e silenzioso, e del sistema proprietario di riduzione delle vibrazioni VR (Vibration Reduction). Nel disegno ottico, una lente ED riduce al minimo le aberrazioni cromatiche e offre un contrasto adeguato e una risoluzione ottimale dell’immagine. In particolare, all’atto pratico, la tecnologia VR ha lo scopo di ridurre la sfocatura dovuta ai movimenti involontari della reflex. Si distingue per la semplicità di utilizzo, in quanto è legata all’obiettivo anziché al sensore di immagine. Grazie al VR System, ogni acquisizione è adeguatamente nitida, persino in condizioni di scarsa illuminazione oppure selezionando le lunghezze focali più lunghe. Commercialmente parlando (circa), lo zoom Nikkor AF-S DX VR 55-200mm f/4-5,6G IF-ED è definito da un eccellente rapporto qualità-prezzo, che dischiude le porte della fotografia tele, rivolta al ritratto, alla natura e allo sport. È stato concepito come
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zata nella fabbricazione di accessori per i più prestigiosi produttori mondiali di sistemi di illuminazione, l’orientale Photon conferma la propria innovativa e qualificata interpretazione della luce. Due nuove parabole si indirizzano alla fotografia di ritratto e beauty. Entrambe sono realizzate in attacco per torce flash Bowens e sono progettate per offrire l’efficace effetto di un flash anulare di grandi dimensioni, che raggiunge il soggetto inquadrato senza ombre e con una distribuzione di luce omogenea. Sia il Photon Diamond Reflector, sia il Double Ring Reflector sono dotati di un’ampia apertura centrale che permette, all’occorrenza, di inquadrare da una posizione molto vicina all’asse centrale della stessa parabola. La superficie di emissione della sorgente di illuminazione principale diventa così il punto di osservazione della fotografia realizzata, al quale consegue un suggestivo effetto visivo. Il Diamond Riflector ha superficie bianca. Otto alette esterne possono essere configurate per orientare e dirigere la luce; la struttura raccoglie e convoglia sul soggetto sia la luce centrale dell’emissione flash, sia quella periferica. In questo modo, si distribuisce un’illuminazione avvolgente su tutto il campo inquadrato: nel ritratto e nella fotografia di beauty, il volto viene evidenziato con particolare brillantezza e con una resa inviolabilmente affascinante. Diverso, il Double Ring Reflector è composto da una parabola molto aperta e specchiata. Oltre a rimandare la luce sulla parabola principale, un piccolo riflettore frontale impedisce alla luce diretta di raggiungere il soggetto, che rimane così avvolto in una luce multidirezionale, riflessa e diffusa. (Gruppo BP, via Cornelio Tacito 6, 20137 Milano).
RIGIDA. Realizzando dotazioni dedicate, da tempo la produzione Peli riserva attenzioni mirate sia all’infrastruttura fotografica nel proprio insieme, sia alle condizioni attuali della fotografia professionale. La nuova valigia rigida Peli 1080 HardBack rientra in questo ambito. È una elegante e conveniente valigia configurata per il trasporto sicuro e la protezione adeguata di laptop con monitor da 13 pollici. Disponibile nelle finiture argento e nera, la valigia 1080 Hard Back è indeformabile, idrorepellente, resistente al calore e agli agenti chimici; è disegnata per adattarsi perfettamente alla maggior parte delle borse da viaggio. Con il design a “doppia-banda”, tecnologia proprietaria e brevettata, la valigia presenta una solida struttura a involucro e una forte chiusura in alluminio anodizzato con rivetti in acciaio inox; avvolge il computer portatile in una schiuma sagomata Pick ‘N’ Pluck che assorbe ogni urto. Il meccanismo maschio-femmina del coperchio, un o-ring in polimero e una valvola automatica di equalizzazione della pressione pre-fabbricata in Gore-tex creano un sigillo ermetico all’acqua e facilitano l’apertura in ogni condizione ambientale. (Peli Products; 0034-93-4674999, fax 003493-4877393; www.peli.com, marketing@peli.com).
PULIZIA (E ALTRO). Azienda canadese leader nei prodotti per la pulizia dei sensori delle reflex digitali, VisibleDust è entrata nel network Bogen Imaging, che in
Italia, Francia, Germania, Giappone, e Inghilterra agisce sul mercato fotografico sia in direzione professionale, sia con indirizzo verso i più larghi consumi. Rola Hamand, vicepresidente e Research Scientist/Pharmacist della VisibleDust afferma che «La nostra filosofia è progettare sempre nuovi prodotti, pratici da usare e veloci, per la pulizia dei sensori delle reflex digitali. Stiamo ampliando fortemente la nostra gamma dei prodotti e abbiamo individuato in Bogen Imaging Italia un partner con grande potenzialità nella distribuzione sul territorio italiano». L’Amministratore delegato di VisibleDust, Fariborz Degan, aggiunge: «La nostra forza sta nella continua ricerca e sviluppo di nuovi prodotti efficaci, semplici da usare e facili da trasportare per tutti i fotografi del mondo». Si associa Arnaldo Calanca, Direttore generale di Bogen Imaging Italia: «Bogen Imaging Italia è una delle più affermate realtà sul mercato italiano nella distribuzione di prodotti per il mondo della fotografia e con VisibleDust arricchiamo la già ricca gamma di prodotti che proponiamo ai nostri clienti. Tengo a precisare che la gamma di prodotti distribuiti è una delle più ricche sul panorama italiano degli accessori per la fotografia, e comprende i treppiedi e supporti Manfrotto, le borse Kata, gli zaini National Geographic, i binocoli Steiner, i pannelli Lastolite, gli esposimetri Sekonic, gli incomparabili treppiedi e teste Gitzo, gli obiettivi Lensbabies [FOTOgraphia, dicembre 2006], le protezioni Camera Armor. Ora, con Visible Dust, siamo certi di offrire ai fotografi un nuovo prodotto che potrà migliorare il loro lavoro». (Bogen Imaging Italia, via Livinallongo 3, 20139 Milano).
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IN FORMA D’ARTE
Prima mostra in Italia dedicata a Hiroshi Sugimoto, uno tra i fotografi più significativi del panorama artistico contemporaneo internazionale, che dal Giappone proietta le proprie visioni in un ambito espressivo in equilibrio tra la mediazione fotografica e l’interpretazione onirica. A cura di Francesco Bonami e Sarah Cosulich Canarutto, la mostra friulana raccoglie cinquanta opere presentate in stampe di grandi dimensioni e due sculture dell’artista giapponese. L’ampia varietà di fotografie presenti tocca tutte le tematiche del lavoro di Hiroshi Sugimoto, dai primi Dioramas del 1975 alle serie Theaters, Seascapes, Portraits, Conceptual Forms, fino agli inediti Lightning Field e Talbot. Fortemente ispirati dalla tradizione concettuale e minimalista, i la-
Napoleon Bonapart, 1999; stampa su carta ai sali d’argento.
Cambrian Period; stampa su carta ai sali d’argento.
L’AUTORE
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iroshi Sugimoto è nato a Tokyo, nel 1948. Dopo la laurea in Economia, nel 1970 si è trasferito negli Stati Uniti per studiare fotografia presso l’Art Center College of Design di Los Angeles. Dal 1974 vive a New York e, contemporaneamente alla sua attività artistica, colleziona antichità. A partire dalla personale della Minami Gallery del 1977 ha allestito numerose esposizioni, tra le quali le recenti Hiroshi Sugimoto: End of Time, retrospettiva itinerante realizzata dal Mori Art Museum di Tokyo, e History of History alla Japan Society Gallery di New York. Nel 2001, ha ricevuto il Premio Internazionale della Hasselblad Foundation per la Fotografia.
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vori di Hiroshi Sugimoto affrontano l’idea di fotografia, negandone limiti e definizioni. Come puntualizza Francesco Bonami in presentazione: «Il lavoro di Hiroshi Sugimoto è una ricerca dentro le origini della Storia, sia questa la storia zoologica della Terra sia quella delle azioni umane, simbolicamente vista attraverso lo scorrere del tempo dentro la lente della macchina fotografica e utilizzando la pellicola come superficie della memoria». L’intero allestimento è stato concepito dallo stesso artista/autore che, rimasto colpito fin dalla sua prima visita a Villa Manin dall’edificio seicentesco dove ha luogo la mostra, ha inserito tra le sue opere e gli spazi espositivi una concentrata serie di rimandi e allusio-
ni, a volte palesi e più spesso sottili, quasi a coinvolgere il visitatore in un gioco mentale che si dipana lungo le varie sale. In questo senso, è esemplare la camera da letto al pianterreno -dove soggiornava l’imperatore Napoleone quando adottò Villa Manin come proprio quartier generale per l’avvio di un nuovo ordinamento dell’Europa-, che ospita appunto Napoleon Bonapart, opera appartenente alla serie Portraits (qui sopra), attraverso la quale Hiroshi Sugimoto ha visualizzato figure storiche e personalità contemporanee. Tutte le fotografie di questo gruppo tematico sono state realizzate isolando e illuminando su fondale nero statue di cera presenti in vari musei, enfatizzando così il rimando
ai modelli da cui traggono ispirazione, come i dipinti di Jacques-Louis David e di Hans Holbein. Ovviamente, rispondendo alla propria delicata sensibilità d’artista, Hiroshi Sugimoto è intervenuto sullo spazio espositivo con estremo rispetto, scoprendo le pareti e gli affreschi della residenza dogale: appoggiate a cavalletti semplici, progettati dall’artista stesso, poche fotografie per ogni sala, tranne quella che raccoglie, quasi in una riunione di famiglia, Enrico VIII e i ritratti delle sue sfortunate mogli. Durante il percorso di questa retrospettiva si incontrano le diverse serie. Come Dioramas, con scene di vita primitiva fotografate nei musei di storia naturale, che possono disorientare lo spettatore, abituato ad associare un certo tipo di fotografia documentaria alla riproduzione della realtà. O, ancora, Theaters, realizzata in cinema-teatri degli anni Venti e Trenta, come il Radio City Music Hall di New York e il Metropolitan Theatre di Los Angeles, dove l’autore ha condensato il corso del tempo e la percezione dello spazio in un singolo istante, uniformando il tempo di esposizione a quello della durata della proiezione
di un film. Il rettangolo bianco e luminoso che ne deriva illumina la sala altrimenti buia e contiene le tracce di un’unità di tempo più lunga. Il tempo è ancora protagonista nella serie sugli orizzonti marini, Seascapes, dove acqua e aria si incontrano nell’esatta mezzeria dell’inquadratura/composizione, che ricrea la prima, assoluta visione del mare da parte di antichi esploratori. Il desiderio di misurarsi con la riproduzione di ciò che “non è rappresentabile” ha portato Hiroshi Sugimoto a confrontarsi con modelli tangibili, per esprimere concetti teoretici e spirituali, come le su-
Winnetika Drive in, Paramount, 1993; stampa su carta ai sali d’argento.
(al centro) Ligurian Sea Saviorre, 1993; stampa su carta ai sali d’argento.
(a destra) Mechanical Forms, 2004; stampa su carta ai sali d’argento.
perfici curve delle Conceptual Forms, che rappresentano formule numeriche. Con sofisticati giochi di illusioni e rimandi, l’artista spinge lo spettatore a confrontarsi attivamente con l’immagine e con l’ambiguo intreccio tra tempo e memoria che la fotografia (così concepita e realizzata) comunica. Le collezioni fotografiche di Hiroshi Sugimoto sono raccolte in diverse monografie d’artista: Time Exposed, Sea of Buddha, Sugimoto: In Praise of Shadows, Theaters e Noh Such Things as Time. La mostra friulana, ribadiamo la prima in Italia, è accompagnata da un volume-catalogo, completo di testi critici, immagini e apparati biografici. Al termine dell’esposizione verrà, quindi, pubblicato un volume di fotografie dell’intero allestimento scenico, realizzate dallo stesso artista durante il periodo di apertura. A.G. Hiroshi Sugimoto. A cura di Francesco Bonami e Sarah Cosulich Canarutto. Villa Manin, Centro d’Arte Contemporanea, piazza Manin 10, 33033 Codroipo UD; 0432-906509; www.villamanincontemporanea.it, info@villamanincontemporanea.it. Dal Primo aprile al 30 settembre; fino al tre giugno martedì-venerdì 9,00-18,00, sabato e domenica 10,00-19,00; dal cinque giugno martedì-domenica 10,30-19,30.
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al centro
della fotografia
tra attrezzature, immagini e opinioni. nostre e vostre.
REPORTAGE CON SPERANZA
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Ripetendo quanto già riportato in occasione delle relazioni che abbiamo compilato per le precedenti edizioni del Premio Yann Geffroy, ribadiamo ancora i termini dell’iniziativa, organizzata e svolta dall’Agenzia Grazia Neri di Milano in memoria del proprio collaboratore, prematuramente scomparso nella primavera 1989, alla giovane età di ventisette anni. Statutariamente, il Premio mantiene vivo il ricordo di un ottimismo e una creatività che non si esaurivano nella personalità di Yann Geffroy, ma si allargavano a quanti ne venivano in contatto diretto. Per questo, nell’ambito dei tanti premi di settore, questo sottolinea una propria nota distintiva, istituzionalmente rivolta e indirizzata a un fotogiornalismo positivo nel contenuto, quanto nella forma. Composta da Grazia Neri, Elena Ceratti, Andrea Annaratone, Paola Riccardi, Nicoletta Travi e Natalia Zuccatosta, la giuria ha assegnato il Premio Yann Geffroy 2007, arrivato alla diciottesima edizione annuale, a Michele Borzoni, per il servizio fotografico Srebrenica, sete di giustizia.
VERSO LA DICIANNOVESIMA EDIZIONE
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onfermiamo quanto già riportato in altre occasioni, a questa precedenti, oltre che nel corpo centrale dell’attuale intervento redazionale. Dal 1990, l’Agenzia Grazia Neri di Milano assegna un Premio annuale di fotogiornalismo in memoria di Yann Geffroy, un proprio collaboratore prematuramente scomparso all’età di ventisette anni. Il Premio ne ricorda la figura e il carattere positivo, nel proprio incontro con il fotogiornalismo internazionale. Edizione dopo edizione, ogni anno vengono simultaneamente sottolineati sia il suo spirito ottimista e creativo sia la sua intelligenza sensibile e brillante. Composta dalla titolare dell’agenzia e da dipendenti e collaboratori, la giuria sceglie il servizio che ha meglio interpretato fotograficamente, tanto nella forma quanto nel contenuto, una soluzione in positivo di un problema sociale, politico, scientifico, ecologico. In nessun caso, sono presi in esame portfolio generici o lavori che non corrispondano a tale requisito. Il Premio Yann Geffroy, che si concretizza in 1550,00 euro, è aperto a fotografi italiani e stranieri che non abbiano ancora compiuto i trentacinque anni di età. Per la prossima diciannovesima edizione del
Premio, i fotoreportage vanno inviati all’Agenzia Grazia Neri (via Maroncelli 14, 20154 Milano; 02-625271, fax 02-6597839; www.grazianeri.com, photoagency@grazianeri.com) entro il 31 gennaio 2008. Si richiede un servizio di venti immagini, in bianconero o a colori, edito o inedito, accompagnato da didascalie, dati anagrafici e recapiti del fotografo. Le stampe debbono essere di dimensioni comprese tra 20x25 e 30x40cm (da 8x10 a 12x16 pollici), non montate su supporto rigido, non incorniciate sotto vetro o plexiglas. Le diapositive devono essere del formato 35mm, dotate di montatura resistente al maneggiamento e alla proiezione. Sono accettati anche file digitali in Jpeg, a una risoluzione media, corredati da provini o stampe campione dei soggetti contenuti. In ogni caso, ricordiamo che la mancanza di un testo di presentazione del lavoro, delle didascalie relative alle immagini, o una non piena rispondenza al bando del Premio, che richiede lo svolgimento di una storia che presenti aspetti o visioni in positivo, fanno sì che anche fotoreportage di qualità, per quanto concordemente apprezzati dalla giuria, rimangano esclusi dalla competizione.
L’italiano Michele Borzoni si è affermato all’edizione 2007 del Premio Yann Geffroy con Srebrenica, sete di giustizia. A dieci anni dal massacro attuato dalle forze serbo-bosniache a Srebrenica (giudicato genocidio dal Tribunale Internazionale dell’Aja per la ex Jugoslavia), la serie documenta la volontà della città di risollevarsi e investire per un nuovo futuro possibile. I suoi dittici raffigurano gli scenari della tragedia (in bianconero) accostati a ritratti degli studenti della Facoltà di Giurisprudenza di Srebrenica (a colori).
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Con un linguaggio particolare, composto da dittici in combinazione e opposizione visiva, a dieci anni dal massacro attuato dalle forze serbobosniache a Srebrenica (giudicato
genocidio dal Tribunale Internazionale dell’Aja per la ex Jugoslavia), la serie documenta la volontà della città di risollevarsi e investire per un nuovo futuro possibile. Ne è esem-
Menzione d’onore al Premio Yann Geffroy 2007. Il servizio Again and again di Uwe H. Martin racconta sprazzi di vita di una giovane donna affetta da narcolessia e catalessia, che, nonostante il grave impedimento di una tale sindrome, riesce a organizzarsi e svolgere una vita serena, non rinunciando al matrimonio e alla maternità.
pio concreto la lodevole iniziativa di istituire una libera e gratuita Facoltà di legge, distaccamento dell’Università di Sarajevo, al momento frequentata da centocinquantotto studenti, musulmani e ortodossi. Il lavoro fotografico di Michele Borzoni presenta una serie di composizioni in rigorose inquadrature quadrate da medio formato, come appena annotato organizzate come dittici bianconero e colore che raffigurano gli scenari della tragedia (in bianconero) e ritratti degli studenti della Facoltà di Giurisprudenza di Srebrenica (a colori; a pagina 19). Dal punto di vista formale, la giuria del Premio ha sottolineato l’estremo rigore stilistico e la buona presentazione; per quanto riguarda il contenuto, è stato considerato lo svolgimento di un tema di grande rilevanza storica e collettiva, con effettive prospettive
DICIOTTO EDIZIONI
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alla propria istituzione, nel 1990, il Premio Yann Geffroy ha segnalato autori e reportage che successivamente si sono imposti all’attenzione generale. Nel ricordo del collaboratore dell’Agenzia Grazia Neri prematuramente scomparso, il Premio ne richiama la figura e il carattere positivo, andando a riconoscere servizi fotografici che offrano una soluzione in positivo di un problema sociale, politico, scientifico, ecologico. Dalle origini, i vincitori. 1990 Didier Ruef (Svizzera), per un servizio in bianconero su East Harlem. Menzione d’onore a Armando Rotoletti (Italia), per il servizio in bianconero Sulla loro pelle, sul tema dell’integrazione razziale. 1991 Fulvio Magurno (Italia), per il servizio in bianconero Luci e ombre. 1992 Stephane Compoint (Francia), per un servizio a colori sullo spegnimento dei pozzi di petrolio in Kwait. Menzioni d’onore a Claudio Vitale (Italia), per un servizio in bianconero sulla vita dei transessuali, e a Toty Ruggieri (Italia), per il servizio in bianconero Giovani pugili a Milano. 1993 Lisa Scarfati (Italia; Contact Press Images), per un servizio a colori sull’operazione per il cambio di sesso di due transessuali a Mosca. Menzione d’onore a Lucia Calleri (Italia), per un servizio in bianconero sull’Istituto Piccolo Cottolengo di Don Orione. 1994 Gideon Mendel (Inghilterra; Network), per un servizio in bianconero sulla cultura del calcio in Zambia. Menzioni d’onore a Jean-Claude Coutausse (Francia; Contact), per il servizio a colori sulla Somalia intitolato Ritorno a Baidoa, e a Antonio Biasiucci (Italia), per un servizio in bianconero sugli indios Xavante in Mato Grosso. 1995 Mark Power (Inghilterra; Network), per il servizio in bianconero The shipping forecast (Avvisi ai naviganti), sulla vita in alcune località di rilevazione meteorologica. Menzioni d’onore a Isabella Balena (Italia), per il servizio in bianconero Via Vaiano Valle, Milano, sul tema della sopravvivenza di una realtà sociale di povertà, e a Laurence Kourcia (Francia; Rapho), per il servizio in bian-
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conero Les Grosses, sul problema dell’obesità. 1996 Manuel Bauer (Svizzera; Lookat), per il servizio in bianconero Lost Shangrila - Escape from Tibet, che documenta il viaggio-fuga di un padre e una figlia tibetani per sfuggire alla dittatura della cultura cinese. Menzione d’onore a Seba Pavia (Italia), per il servizio a colori La Domenica, sull’impiego del tempo libero nella società industriale e post-industriale [FOTOgraphia, luglio 2003]. 1997 Ex-æquo tra Liana Miuccio (Usa), per il servizio in bianconero An italian journey, sui legami sopravvissuti tra famiglie emigrate in America e i parenti rimasti in patria, e Simona Ongarelli (Italia), per il servizio in bianconero Lustando, su un evento musicale che si svolge da anni a Lu nel Monferrato, come esempio di una realtà positiva nella provincia. Menzione d’onore a Robert Hubert (Svizzera; Lookat), per il servizio Work through leisure, dedicato alla trasformazione delle miniere carbonifere della Rhur in parchi di divertimento. 1998 Markus Buhler (Svizzera; Lookat), per il servizio in bianconero Short people, dedicato ai nani e alla propria difficile integrazione come “persone normali” in una società che tende ad ignorarli. Menzioni d’onore a Michele Cazzani (Italia [FOTOgraphia, settembre 1998]), per il servizio a colori La normalità di Alvise, sulla vita di un campione sportivo disabile, e a Paolo Cola (Italia), per il servizio in bianconero Ricominciare da zero, relativo al riutilizzo creativo di un’area in disuso, a cura di un gruppo di giovani bolognesi. 1999 Giorgia Fiorio (Italia; Contact), per il servizio in bianconero I Forzati del fuoco, dedicato a una iniziativa di riabilitazione di detenuti negli Stati Uniti, addestrati a domare incendi particolarmente pericolosi. Menzioni d’onore a Michi Suzuki (Giappone), per il reportage a colori Another family, sul tema dell’integrazione razziale, e a Gael Turine (Belgio), per il servizio in bianconero Cooperativa di Ciechi nella Costa d’Avorio. 2000 Ex-æquo tra Matias Costa (Spagna), per il servizio in bianconero The Country of the lost children, che documenta segni di pace in Rwanda, e Jordis
positive in un vicino futuro. Tra parentesi, e a completamento, bisogna rilevare che quello della visione in composizione quadrata, che affonda le proprie radici espressive indietro nei decenni, è oggi uno degli stilemi visivi di un certo fotoreportage dei nostri giorni, che sta rivolgendo le proprie attenzioni verso una fotografia che non sia soltanto banalmente documentaria, ma contenga elementi, anche formali, di ulteriore concentrazione: ed è proprio l’esplicito caso del servizio Srebrenica, sete di giustizia di Michele Borzoni, Premio Yann Geffroy 2007. Come annotato in altre occasioni, è questa una forma di fotoreportage che afferma la propria testimonianza della vita e dell’esistenza evitando la semplificazione illustrativa e/o la strumentalizzazione brutale del soggetto (prima che dell’osser-
Premio Yann Geffroy 2007: menzione d’onore a Simone Donati, per il servizio Io Mi Chiamo Giovanni, che racconta la storia di un ragazzo affetto da sindrome di Down, che ha trovato la propria realizzazione e si è inserito nella vita recitando come attore teatrale.
DICIOTTO EDIZIONI Schlösser (Germania; Ostkreuz), per il servizio in bianconero Living on the dump, su una comunità Rom in Romania. Menzione d’onore Vittore Buzzi (Italia), per un servizio in bianconero sulla pesca del tonno nell’isola di Carloforte. 2001 Teru Kuwayama (Giappone), per il servizio in bianconero Tibetan refugees, che documenta la vita di tibetani rinchiusi nei campi di rifugio, mettendo in evidenza la propria capacità e volontà di preservare e trasmettere la cultura del proprio paese ai figli nati in esilio. Menzioni d’onore a Naomi Harris (Usa), per il servizio a colori Haddon Hall Where living is a pleasure, sulla vita degli anziani in un hotel di Miami Beach loro riservato, e a Flore Aël Surun (Brasile), per il servizio a colori Sur-vie Sous, sui ragazzi di strada rumeni che vivono nelle condotte fognarie di Bucarest. 2002 Michelle Taylor (Usa), per il servizio in bianconero e a colori Flipside, che affronta il tema della critica situazione esistenziale giovanile e le proprie aporie nel realizzarsi, con un’ottima riuscita nella composizione tra l’opera fotografica e l’accompagnamento dei testi. Menzione d’onore a Felicia Webb (Inghilterra), per il servizio in bianconero Through Thick and Thin, che tratta il tema dell’anoressia in una prospettiva positiva e con linguaggio moderno e asciutto. 2003 Ex-æquo tra Yannis Kontos (Grecia), per il servizio in bianconero Kabul Photographers, che rileva e rivela una parte di vita tradizionale e di costume riemersa dal clima doloroso di lunghi anni di guerra, e Andreas Reeg (Germania), per il servizio a colori People with Down Syndrome, che descrive una situazione di handicap con la quale si può convivere [FOTOgraphia, novembre 2003]. Menzione d’onore a Simon Roberts (Inghilterra), per il servizio in bianconero The Gray Friars, su un gruppo di monaci che si occupa di adolescenti. 2004 Ex-æquo tra Tim Hetherington (Inghilterra; Network), per il servizio Blind School Link project, che descrive la realtà quotidiana in due scuole per ragazzi non vedenti, in Sierra Leone e nel Regno Unito, e Aubrey Wade (Inghilterra; Documentography), per il servizio a colori Chromosome 17-Rosie’s Story, che racconta
la storia di una bambina di venti mesi affetta da sintomi di disordine mentale dovuti a una rara malattia cromosomica [FOTOgraphia, aprile 2004]. Menzione d’onore a Ziv Koren (Israele; Polaris Images), per il servizio Louai Mer’i, a Sergeant, is Going Home, sul difficile tema del ritorno alla quotidianità di un militare israeliano cui sono state amputate entrambe le gambe. 2005 Riccardo Scibetta (Italia), per il servizio a colori Ouragan, che documenta l’esperimento di un laboratorio teatrale all’interno dell’Istituto penale per minori Malaspina di Palermo. Menzioni d’onore a Patrick Andrade (Usa; Polaris), per il servizio Irak Olimpics, sulla squadra olimpionica irachena, e a Reto Albertalli (Svizzera), per il servizio Matrimonio Rom. 2006 Ex-æquo tra Massimo Berruti (Italia), per il servizio Immigrazione in Italia, che documenta storie di avvenuta integrazione, e Jesco Denzel (Germania), per il servizio Hanover, Eatern cape, South Africa, che evidenzia una situazione di conservazione delle tradizioni e dei legami familiari, pur in una condizione di imposta emigrazione interna a fini lavorativi. Menzione d’onore a Sohrab Hura (India), per il servizio Rozgar Adhikar Yatra: The Mouvement and its causes, che testimonia le manifestazioni pubbliche del Movimento Indiano contro la disoccupazione [FOTOgraphia, aprile 2006]. 2007 Michele Borzoni (Italia), per il servizio Srebrenica, sete di giustizia, che documenta la volontà della città di risollevarsi e investire per un nuovo futuro possibile, a dieci anni dal massacro attuato dalle forze serbo-bosniache a Srebrenica (giudicato genocidio dal Tribunale Internazionale dell’Aja per la ex Jugoslavia). Menzioni d’onore a Simone Donati (Italia), per il servizio Io Mi Chiamo Giovanni, che racconta la storia di un ragazzo affetto da sindrome di Down, che ha trovato la propria realizzazione e si è inserito nella vita recitando come attore teatrale, e a Uwe H. Martin (Germania), per il servizio Again and again, che racconta sprazzi di vita di una giovane donna affetta da narcolessia e catalessia, che, nonostante il grave impedimento di una tale sindrome, riesce a organizzarsi e svolgere una vita serena, non rinunciando al matrimonio e alla maternità.
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vatore). Altrove e altrimenti ci si è espressi nel senso di un identificato e individuato fotoreporter-artista, e il dibattito al proposito è serrato [fin ancora su questo stesso numero, a margine della presentazione di una mostra retrospettiva di Werner Bischof, da pagina 34]. In tutti i casi, è comunque doveroso annotare una originalità e indipendenza di visione e rappresentazione fotografica: e l’argomento non dovrebbe essere lasciato qui latitante, ma andrebbe approfondito, in tempi, luoghi e occasioni opportune. Tornando in seminato, rileviamo che la giuria del Premio Yann Geffroy 2007 ha assegnato due menzioni d’onore: a Simone Donati e Uwe H. Martin. L’italiano Simone Donati è stato segnalato per il servizio a colori Io Mi Chiamo Giovanni, che racconta la storia di un ragazzo affetto da sindrome di Down, che ha trovato la propria realizzazione e si è inse-
rito nella vita recitando come attore teatrale. Di questo servizio, in relazione agli intendimenti espliciti del Premio, la giuria ha apprezzato la scelta di una storia a esito positivo, la modalità di realizzazione (il reportage è stato svolto seguendo il soggetto nel proprio quotidiano per oltre tre anni) e le qualità formali delle stampe di medie dimensioni di forte impatto visivo e grande pulizia stilistica (a pagina 21). Dalla Germania, il servizio a colori Again and again di Uwe H. Martin racconta sprazzi di vita di una giovane donna affetta da narcolessia e catalessia, che, nonostante il grave impedimento di una tale sindrome, riesce a organizzarsi e svolgere una vita serena, non rinunciando al matrimonio e alla maternità (a pagina 20). La giuria ha apprezzato i contenuti di una storia che, seppur molto personale, è in piena aderenza con quanto esplicitamente richiesto dal Premio. A.G.
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L’impossibile e oltre.
GIORNATA (TUTTO) PENTAX
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Tradizionale appuntamento tra presente/futuribile e passato. Organizzato dall’Asahi Optical Historical Club e Pentax Italia, il Pentax Day è arrivato alla dodicesima edizione: domenica 20 maggio, alla Casa della Cultura di Anzola dell’Emilia, in provincia di Bologna (piazza Giovanni XXIII 2). Al solito, l’incontro annuale dell’attento Club, che resiste alle intemperie del tempo, abbina l’approfondimento di aspetti storici della produzione Pentax, in origine Asahi Pentax, con la presentazione dell’offerta tecnicocommerciale attuale e delle novità tecnologiche in divenire del celebre marchio giapponese. Al dodicesimo Pentax Day, l’Asahi Optical Historical Club cura una avvincente e affascinante retrospettiva di pezzi storici e rarità, che quest’anno si sposa con i cinquant’anni di Asahi Pentax (1957-2007), denominazione successiva all’originaria identificazione Asahiflex, che definì le prime reflex 35mm, sul mercato internazionale dal precedente 1952. Allo stesso momento, il cinquantenario sottolinea anche l’adozione dell’innesto a vite passo 42x1 degli obiettivi intercambiabili, che per decenni si è imposto come standard per molte costruzioni fotografiche. Dopo essersi affermata come prima reflex 35mm giapponese (Asahiflex I del 1952), la denominazione “Pentax” venne allora adottata per sottolineare l’efficace combinazione con il pentaprisma fisso, che tracciò una delle strade fondamentali e discriminanti della costruzione fotografica che si è allungata fino ai nostri attuali giorni. La Asahi Pentax del 1957 è stata capostipite di una prolifica genealogia di reflex 35mm con innesto a vite degli obiettivi intercambiabili, che stabilì ulteriori primati, a partire dallo specchio a ritorno istantaneo e automatico. La famiglia Spotmatic, con misurazione esposimetrica TTL, nacque nel 1964 e l’automatismo di esposizione a priorità del diaframma data dall’Electro Spotmatic del 1971. L’innesto a
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Il Pentax Day è un incontro conviviale elaborato attorno il celebre marchio fotografico giapponese: animazioni, mostre fotografiche, set di ripresa e altro ancora. Dodicesima edizione: domenica 20 maggio a Anzola dell’Emilia, in provincia di Bologna.
A cura dell’Asahi Optical Historical Club, la mostra retrospettiva di pezzi storici e rarità Pentax si sposa con i cinquant’anni di Asahi Pentax (1957-2007), denominazione successiva all’originaria identificazione Asahiflex.
baionetta Pentax K degli obiettivi intercambiabili, a propria volta standardizzato per una diversificata serie di reflex 35mm, fu adottato nel 1975, con l’originaria serie Asahi Pentax KM, KX e K2. Quindi, con le prime MX e ME del successivo 1976, venne abbandonata la dizione Asahi (peraltro minoritaria già sulle tre Kappa appena citate), per una definitiva identificazione Pentax. A onore del vero, dopo il precedente abbandono dell’innesto a vite, quell’ulteriore passaggio aziendale fu sofferto da chi, noi (allora) tra questi, si sentiva vincolato a una radicata tradizione fotografica. Però, in tutta sincerità, ricordiamo bene come nessuno riuscisse mai a pronunciare “Asahi”, che in italiano corrente diventava spesso, forse sempre, “Asachi”, e non riusciamo a immaginare
cosa succedesse in altre lingue. All’interno dell’odierna offerta commerciale e tecnica Pentax si segnalano le reflex digitali K10D e K100D, dotate di stabilizzatore d’immagine incorporato (FOTOgraphia, novembre e settembre 2006) e la nuova serie di obiettivi professionali SMC Pentax-DA “Star” SDM, con motore autofocus a ultrasuoni. Nell’ampio sistema ottico Pentax sono attualmente presenti undici obiettivi espressamente progettati per l’acquisizione digitale di immagini, e altri cinque sono già annunciati. Inoltre, le reflex digitali attuali sono sostanzialmente compatibili con gli obiettivi Pentax K precedenti, con i quali mantengono le funzioni esposimetriche e l’indicazione della corretta messa a fuoco (manuale). Dopo di che, non bisogna ignora-
Check-up gratuito di apparecchi fotografici Pentax a cura di Tecno 2000, referente ufficiale di assistenza tecnica del marchio.
re le interpretazioni fotografiche medio formato delle evoluzioni Pentax 67 e Pentax 645, per riprese 6x7 e 4,5x6cm su pellicola a rullo 120 e 220. Per decenni soltanto reflex, il sistema fotografico Pentax approdò
anche a una curiosa Auto 110 Super, che nel 1983 propose una configurazione a obiettivi intercambiabili per caricatore di pellicola Pocket Instamatic! Ovviamente, arrivarono anche le compatte, che oggi si concre-
tizzano nella gamma di digitali Optio. Il dodicesimo Pentax Day si completa con mostre fotografiche, set di ripresa (a cura di Bogen Imaging) e altre iniziative collaterali, a partire dalla consulenza Tecno 2000, referente ufficiale di assistenza tecnica Pentax, che allestisce un proprio servizio di check-up gratuito. In concomitanza, a cura della Pro Loco, la festa di primavera Cavalli a confronto, tradizionale appuntamento con i purosangue delle prestigiose Scuderie Orsi Mangelli. A.Bor. Dodicesimo Pentax Day. Casa della Cultura, piazza Giovanni XXIII 2, 40011 Anzola dell’Emilia BO; www.aohc.it/pentaxday/index.htm. Domenica 20 maggio. ❯ Asahi Optical Historical Club, Dario Bonazza, via Badiali 138, 48100 Ravenna; 0544-464633; www.aohc.it, info@aohc.it. ❯ Pentax Italia, via Dione Cassio 15, 20138 Milano; 02-5099581; www.pentaxitalia.it, info@pentaxitalia.it.
Un altro anno è passato. Il fotogiornalismo lo ha vissuto, documentato e raccontato. Prestigioso riconoscimento internazionale, il World Press Photo ha il merito di focalizzare l’attenzione sugli avvenimenti della cronaca, che non necessariamente si proietta sulla storia: e su questo riflettiamo. Pur confermando la matrice della fotografia del dolore, che ormai caratterizza e definisce il nostro tempo, la selezione delle fotografie premiate e segnalate all’edizione 2007 dell’ambìto Premio, per fotoreportage realizzati nel precedente 2006, stabilisce i connotati del nostro tempo, annotando anche visioni di profilo World Press Photo of the Year 2006: Spencer Platt, Usa, Getty Images; Giovani libanesi attraversano in auto un quartiere a sud di Beirut devastato dai bombardamenti, il primo giorno di cessate-il-fuoco tra Israele e l’ala politica di Hezbollah, 15 agosto.
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Q
uali connotati deve possedere una fotografia, per elevarsi a icona del proprio tempo? Per quanto non sia questo lo scopo, né l’intenzione prima e originaria, dell’immagine -soprattutto nel momento in cui viene realizzata-, la domanda è in qualche misura lecita, se e per quanto consideriamo la cronaca che si proietta nella storia. Ricca di indelebili icone, che appartengono alla cultura visiva universale, da tempo la vita contemporanea non si attarda più molto sulla propria raffigurazione, tanto che l’idea stessa di icona, alla quale stiamo dando peso e valore, pare essere questione antica, superata e messa in disparte dai ritmi rapidi dell’informazione dei nostri giorni. Così che, a integrazione di quanto tanto già scritto negli scorsi anni, sempre in occasione del tradizionale appuntamento con il World Press Photo, scartiamo a lato altre considerazioni già espresse, analizzate e approfondite, per introdurre oggi una nuova ipotesi, appunto quella del fotogiornalismo che non ha più modo e tempo di proiettare in avanti la propria influenza e il relativo valore visivo, ma si deve concentrare soprattutto sulla propria palpitante attualità. Da oltre cinquant’anni, il World Press Photo è sia uno dei più significativi riconoscimenti nell’ambito del fotogiornalismo internazionale sia una coerente e convincente testimonianza visiva delle vicende dell’anno appena trascorso (FOTOgraphia, febbraio 2006). Divise in categorie tematiche, che da tempo sono dieci, a propria volta scomposte nella duplice indicazione di immagine singola (appunto, Singles) e reportage completo (Stories), a tutti gli effetti le fotografie vincitrici sono le più forti e significative di un intero anno, pubblicate sui giornali di tutto il mondo. Sono inserite nel cadenzato volume-catalogo, ospi-
tate sul sito www.worldpressphoto.nl, che per la prima volta ha allestito una galleria di immagini di tutti i premiati, estendendosi alle selezioni complete delle Stories, e riunite in una mostra itinerante, in occasione della quale ogni anno riflettiamo sulla proiezione del fotogiornalismo nella storia evolutiva del linguaggio fotografico e nelle vicende quotidiane della società contemporanea. Come abbiamo avuto modo di sottolineare in tante occasioni, da tempo l’insieme del World Press Photo è testimonianza di dolore e tragedia della vita: a partire dalla World Press Photo of the Year, ovverosia la fotografia dell’anno, che si eleva sopra tutte, fino alle indicazioni delle categorie proprie del fotoreportage sulla e della vita. Tanto che, riprendendo l’ipotesi originaria, alcune delle fotografie affermatesi in passato non si sono esaurite nelle rispettive cronache, ma si sono distese e allungate avanti negli anni. La qualifica di icona, eccoci, dipende in eguale misura, anche se su due livelli concettuali diversi, dallo spessore visivo dell’immagine stessa e/o dalla vicenda documentata, testimoniata e raccontata.
UN ALTRO
ANNO
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Primo premio Spot News Stories: Davide Monteleone, Italia, Agenzia Contrasto; Bombardamenti israeliani sul Libano, luglio. (in alto) Primo premio Spot News Singles: Akintunde Akinleye, Nigeria, Reuters; Un uomo si protegge il volto dopo l’esplosione di un condotto petrolifero, Lagos, Nigeria, 26 dicembre. (a destra) Secondo premio General News Singles: Jan Grarup, Danimarca, Politiken / Newsweek; Rifugiati dal Darfur, sul confine tra Sudan e Ciad, novembre.
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Per cui, possiamo considerare “icone” in assoluto la fotografia del generale della polizia Nguyen Loan che uccide un sospetto vietcong sparandogli alla tempia, in mezzo alla strada (di Eddie Adams, World Press Photo of the Year 1968), e la fotografia del dimostrante che blocca i carri armati dell’esercito cinese durante le proteste di piazza Tiananmen per le riforme civili (di Charlie Cole, World Press Photo of the Year 1989). Nel primo caso, l’immagine è devastante per se stessa; nel secondo, la sua assimilazione visiva si conteggia anche sulla ripetizione a mezzo stampa, determinata da un certo orrore provocato dalla cruda repressione militare di un movimento universalmente considerato pacifico.
LA VITA, IN DIRETTA Così che, di fronte alle fotografie premiate e segnalate dalla giuria dell’attuale World Press Photo 2007, che ha preso in esame e considerazione fotografie scattate lo scorso 2006, non abbiamo strumenti incontestabili per stabilire quali e quante hanno/avranno valore visivo oltre i riferimenti temporali delle rispettive cronache. Però, un’idea l’abbiamo, e la esterniamo. Non certo per mancanza di spessore o valore documentativo, osiamo pensare che nessuna delle fotografie attuali possiede le stigmate dell’icona, ma potremmo essere smentiti da futuri svolgimenti, che ri-
teniamo comunque ampiamente improbabili. Perché pensiamo che nessuna di queste fotografie possa estendere il proprio destino, a esclusione, forse, della testata di Zidane a Materazzi durante la finale dei Campionati mondiali di calcio della scorsa estate (della quale, oltre la fotografia di Peter Schols, primo premio nella sezione Sport Action Stories, esistono infinite altre versioni e molteplici riprese televisive da varie angolazioni)? Perché, ci piaccia o meno, la tragedia della vita, il suo dramma e la sua commedia (che il World Press Photo segnala nelle proprie sezioni più “leggere”) non sono più eccezioni esistenziali ma componenti quotidiane con le quali facciamo i conti ogni sera, sintonizzando i nostri televisori domestici su qualsivoglia telegiornale. Così che ogni giorno spazza via quanto successo ventiquattro ore prima, ogni settimana, ogni mese e ogni anno si susseguono con ritmo sempre più vorticoso, senza concedere più tempo alla riflessione e all’approfondimento: questo è il prezzo da pagare, ci piaccia o meno, all’incalzare dell’informazione, alla esasperata successione di fotografie che raccontano la vita, in diretta e senza soluzione di continuità. Oltre il senso trionfale che quantifica il successo della manifestazione, un certo successo della manifestazione, le cifre del World Press Photo esprimono anche questo, se in tale direzione accettiamo di interpretarle e leggerle. Cifre da brivido: all’edizione 2007, per fotografie scattate nel 2006, hanno partecipato quattromilaquattrocentosessanta fotografi (4460), che da centoventiquattro paesi (124) hanno inviato settantottomilaottantatré immagini (78.083). Per dovere di resoconto registriamo che sull’onda lunga delle trasformazioni tecnologiche, da tre anni tutte le fotografie sono proposte in formato digitale (quando questo non era richiesto, le fotografie digitali furono il 57 per cento del totale nel 2002, il 69 per cento nel 2003 e l’80,7 per cento nel 2004). Ma non di questo vogliamo parlare, bensì analizzare le cifre da un altro punto di vista, diciamo così, quantitativo e statistico. Per i trecentosessantacinque giorni del 2006, al World Press Photo 2007 sono arrivate settantottomilaottantatré fotografie: in arrotondamento e accomunando immagini singole e fotoreportage di
Primo premio Contemporary Issues Singles: Walter Astrada, Argentina, World Picture Network; Donna vittima di violenza domestica, Guatemala.
Primo premio Contemporary Issues Stories: José Cendón, Spagna; Internati in ospedali psichiatrici, Burundi e Repubblica democratica del Congo.
più immagini, duecentoquattordici fotografie al giorno, quasi nove all’ora! Se accettiamo questo conteggio, riconosciamo che si tratta di una documentazione potenziale della vita senza soluzione di continuità, come abbiamo appena annotato. Ovviamente, questi valori non richiamano giudizi, né si accompagnano con considerazioni consequenziali. Soltanto, conteggiano come sia sempre più improbabile arrivare a una sintesi visiva dell’esistenza che sia effettivamente rap-
presentativa della vita, individuata in un proprio momento isolato e significativo: la parte per il tutto. Ovvero, l’abbondanza va a scapito dell’effettiva possibilità di concentrazione individuale. (Rilevando questo, sappiamo benissimo di essere in torto e malafede. Infatti, non è assolutamente un problema di quantità, che pure potrebbe presentarsi in altre condizioni e situazioni, ma di colpevole assenza dei giornali di tutto il mondo, che pubblicano sempre meno servizi
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Secondo premio General News Stories: Peter van Agtmael, Usa, Polaris Images; Controlli notturni dell’esercito statunitense, Iraq, gennaio-agosto.
fotografici di impatto, preferendo a questi una informazione generica, oltre che asservita. Con ciò, la nostra ardita teoria di conteggi soltanto matematici è comunque provocatoria: parliamone).
WPP 2007 (SUL 2006) Non certo parole in libertà, ma osservazioni che mirano a stabilire confini di ragionamento, quantomeno ipotetico, i rilievi appena espressi hanno uno scopo sostanziale: quello di stabilire la potenziale e inevitabile esuberanza quantitativa dell’informazione fotogiornalistica dei nostri giorni, che rischia di comprometterne la presumibile qualità (ammessa e non concessa una attenta informazione giornalistica internazionale). Non è facile preventivare i pericoli veri e tangibili, ma non per questo si deve evitare il ragionamento: in tempi, spazi e luoghi opportuni. Dopo di che, la rituale occasione della mostra itinerante delle fotografie premiate e segnalate al World Press Photo, che in primavera inizia il proprio tragitto italiano in due (tradizionali) sedi espositive di Roma e Milano, rispettivamente al Museo di Roma in Trastevere e alla Galleria Carla Sozzani, impone riferimenti e richiami dedicati e specifici. (Attenzione, prima di altre parole in merito, ricordiamo che la mostra del World Press Photo viene successivamente allestita in altre sedi italiane, tra le quali vanno segnalate le sontuose sale del piano nobile di Villa Bottini, che fanno parte del programma espositivo del LuccaDigitalPhotoFest di fine anno; FOTOgraphia, febbraio e novembre 2006). Anzitutto una annotazione. Rispetto il più recente passato, rileviamo che, pur continuando a registrare tragedie e drammi (è inevitabile), alcune immagini premiate al World Press Photo 2007 declinano una sorta di osservazione parallela e di la-
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GIURIA 2007
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hoto editor di The New York Times, lo statunitense Michele McNally ha presieduto la giuria del World Press Photo 2007, per fotografie scattate nel precedente 2006, riunitasi ad Amsterdam dal ventisette gennaio all’otto febbraio. Sono state valutate settantottomilaottantatré immagini (78.083), inviate da quattromilaquattrocentosessanta fotografi (4460) di centoventiquattro paesi del mondo (124). Hanno fatto parte della giuria: Peter Bialobrzeski (Germania), fotografo Laif Photos & Reportagen; Philip Blenkinsop (Australia), fotografo Agence Vu; Ruth Eichhorn (Germania), photo editor di Geo; Adrian Evans (Inghilterra), direttore di Panos Pictures; Maya Goded (Messico), fotografa Magnum Photos; Diego Goldberg (Argentina), fotografo; Wen Huang (Repubblica popolare cinese), picture editor dell’agenzia Xinhua News; Alexander Joe (Zimbabwe), fotografo Agence France-Presse; Jerry Lampen (Olanda), fotografo Reuters; Jean-François Leroy (Francia), direttore di Visa pour l’Image; Maria Mann (Usa), consulente di fotografia. Segretario di giuria l’inglese Stephen Mayes, direttore dell’archivio Art + Commerce Anthology.
WORLD PRESS PHOTO 2007 (SUL 2006)
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ibadiamo: nel proprio insieme, le fotografie premiate e segnalate al World Press Photo sintetizzano un anno di cronaca. A volte, queste immagini si proiettano nella storia: non dipende tanto dalla forza dell’immagine, anche se il suo valore implicito ha un proprio peso, quanto dalle vicende narrate e visualizzate. In assenza di fatti epocali, seppure in drammatica presenza di un’esistenza che non è certo avara di tragedie umane, rileviamo che le fotografie di quest’anno sono sostanzialmente prive di quel carisma che le può elevare a icone del nostro tempo: non certo per propria insufficienza, quanto per dolorosa abitudine al dolore, oggettivamente en-
demico nello svolgimento della vita contemporanea. Oltre la World Press Photo of the Year, la fotografia dell’anno, le dieci categorie tematiche del World Press Photo sono scomposte nella duplice indicazione di immagine singola (Singles) e reportage completo (Stories). Tutte le fotografie premiate e segnalate sono inserite nel volume-catalogo che accompagna la mostra itinerante, che all’inizio di maggio avvia il proprio cammino italiano con gli allestimenti al Museo di Roma in Trastevere e alla Galleria Carla Sozzani di Milano (a seguire altre sedi e date, fino all’appuntamento di fine anno al LuccaDigitalPhotoFest; FOTOgraphia, febbraio e novembre 2006). Inoltre, da quest’anno
World Press Photo of the Year 2006: Spencer Platt (Usa), Getty Images; Giovani libanesi attraversano in auto un quartiere a sud di Beirut devastato dai bombardamenti, il primo giorno di cessate-il-fuoco tra Israele e l’ala politica di Hezbollah, 15 agosto [a pagina 26]. Spot News Singles: 1) Akintunde Akinleye (Nigeria), Reuters [a pagina 28]; 2) Arturo Rodríguez (Spagna), The Associated Press; 3) Mohammed Ballas, Territori palestinesi, The Associated Press. Menzione d’onore) Jeroen Oerlemans (Olanda), Panos Pictures. Spot News Stories: 1) Davide Monteleone (Italia), Agenzia Contrasto [a pagina 28]; 2) Agnes Dherbeys (Francia), Cosmos / Eve; 3) Yonathan Weitzman (Israele), Reuters. Menzione d’onore) Joao Silva (Sudafrica), The New York Times. General News Singles: 1) Paolo Pellegrin (Italia), Magnum Photos per Newsweek e The New York Times Magazine; 2) Jan Grarup (Danimarca), Politiken / Newsweek [a pagina 28]; 3) Daniel Aguilar (Messico), Reuters. General News Stories: 1) Zsolt Szigetváry (Ungheria), per MTI; 2) Peter van Agtmael (Usa), Polaris Images [a pagina 30]; 3) Moises Saman (Spagna), Newsday. People in the News Singles: 1) Oded Balilty (Israele), The Associated Press; 2) Christopher Anderson (Canada), Magnum Photos per Newsweek; 3) Stephanie Sinclair (Usa) NPR. People in the News Stories: 1) Q. Sakamaki (Giappone), Redux Pictures per Newsweek; 2) Arturo Rodríguez (Spagna), The Associated Press; 3) Espen Rasmussen (Norvegia), Verdens Gang. Sport Action Singles: 1) Max Rossi (Italia), Reuters; 2) Alex Livesey (Inghilterra), Getty Images per Sports Illustrated; 3) Jeffrey Phelps (Usa), The Associated Press Sport Action Stories: 1) Peter Schols (Olanda), Dagblad De Limburger / GPD / Reuters; 2) Craig Golding (Australia), Sydney Morning Herald; 3) Steve Christo (Australia), Sydney Morning Herald. Sport Features Singles: 1) Franck Seguin (Francia), Deadline Photo Press; 2) Nicolas Gouhier (Francia), Abaca Press per Sports Illustrated; 3) Lorenzo Cic-
to. Non più soltanto il dolore in quanto tale, che pure caratterizza e definisce molte immagini dell’anno, ma anche rappresentazioni in qualche misura discoste. Per esempio, è giusto il caso della World Press Photo of the Year 2006 (assegnata nel corrente 2007), dello statunitense Spencer Platt, dell’agenzia Getty Images [a pagina 26]: un gruppo di giovani libanesi attraversa in automobile un quartiere a sud di Beirut, devastato dalle bombe israeliane. È un caso fotografico tipico, che per essere decifrato richiede l’accompagnamento di un testo chiarificatore, in assenza del quale l’immagine perde molto del proprio significato (se non già tutto). Bisogna sapere che la fotografia è sta-
tutte le fotografie sono pubblicate sul sito www.worldpressphoto.nl, sul quale la galleria delle immagini premiate si estende alle selezioni complete delle Stories. Tra i premiati, prima dell’elenco completo, rileviamo e sottolineiamo la presenza di cinque fotografi italiani: Davide Monteleone e Lorenzo Cicconi Massi dell’Agenzia Contrasto, rispettivamente primo premio Spot News Stories e terzo premio Sport Features Singles; Paolo Pellegrin, Magnum Photos per Newsweek e The New York Times Magazine, primo premio General News Singles; Max Rossi, Reuters, primo premio Sport Action Singles; Massimo Berruti, Agenzia Grazia Neri, secondo premio Contemporary Issues Stories.
coni Massi (Italia), Agenzia Contrasto. Sport Features Stories: 1) João Kehl (Brasile), Cia de Foto; 2) Pep Bonet (Spagna), Panos Pictures; 3) David Klammer (Germania), Visum. Contemporary Issues Singles: 1) Walter Astrada (Argentina), World Picture Network [a pagina 29]; 2) Daniel Beltrá (Spagna), Zuma Press per Greenpeace; 3) Per-Anders Pettersson (Svezia), Getty Images per Stern. Contemporary Issues Stories: 1) José Cendón (Spagna) [a pagina 29]; 2) Massimo Berruti (Italia), Agenzia Grazia Neri; 3) Bruno Fert (Francia) In Visu. Daily Life Singles: 1) Spencer Platt (Usa), Getty Images; 2) David Butow (Usa), Redux Pictures per US News & World Report [a pagina 32]; 3) Steven Achiam (Danimarca), Dagbladet Børsen. Daily Life Stories: 1) David Guttenfelder (Usa), The Associated Press [a pagina 32]; 2) Jon Lowenstein (Usa), Aurora Photos; 3) Moises Saman (Spagna), Newsday. Portraits Singles: 1) Nina Berman (Usa), Redux Pictures per People; 2) Wang Gang (Repubblica popolare cinese); 3) Damon Winter (Usa), Los Angeles Times. Portraits Stories: 1) Nicolas Righetti (Svizzera), Rezo; 2) Mathias Braschler e Monika Fischer (Svizzera), Agenzia Grazia Neri per L’Equipe, Guardian Weekend, Sports Illustrated, Stern; 3) Erin Trieb (Usa). Arts and Entertainment Singles: 1) Espen Rasmussen (Norvegia), Verdens Gang; 2) Carolyn Cole (Usa), Los Angeles Times; 3) Paul Zhang (Repubblica popolare cinese), The Beijing News. Arts and Entertainment Stories: 1) Denis Darzacq (Francia), Agence Vu; 2) Magnus Wennman (Svezia), Aftonbladet; 3) Meyer (Francia), Tendance Floue per VSD, La Vie. Nature Singles: 1) Michael Nichols (Usa) National Geographic Magazine; 2) Fayez Nureldine (Territori palestinesi), Agence France-Presse; 3) Jørgen Flemming (Danimarca). Nature Stories: 1) Paul Nicklen (Canada), National Geographic Magazine; 2) Chang He (Repubblica popolare cinese), Oriental Morning Post; 3) Maria Stenzel (Usa), per National Geographic Magazine.
ta scattata il quindici agosto, nel primo giorno di cessate-il-fuoco tra Israele e l’ala politica di Hazbollah, nel momento in cui migliaia di cittadini cominciavano a rientrare nelle proprie abitazioni. Michele McNally, photo editor del New York Times, presidente della giuria del World Press Photo 2007, è rimasto particolarmente colpito da questa immagine, che descrive in toni assoluti: «È una fotografia che non smetteresti mai di guardare. Ha in sé la complessità e le contraddizioni della vita reale, ne contiene il caos. Questa immagine ti induce a guardare oltre l’ovvio». Guardare, per vedere, aggiungiamo noi. Altre rappresentazioni rimangono dirette, con
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Primo premio Daily Life Stories: David Guttenfelder, Usa, The Associated Press; L’uomo solitario, Tokyo. (a destra) Secondo premio Daily Life Singles: David Butow, Usa, Redux Pictures per US News & World Report; Incrocio, New York.
la propria dose di dolore elevata a simbolo del soggetto esplicito dell’immagine e di tragedie trasversali alla società: gli ospedali psichiatrici africani del reportage dello spagnolo José Cendón, primo premio Contemporary Issues Stories [a pagina 29]; i bombardamenti israeliani sul Libano, dell’italiano Davide Monteleone, dell’Agenzia Contrasto, primo premio Spot News Stories [a pagina 28]; la donna vittima di violenza domestica, dell’argentino Walter Astrada, primo premio Contemporary Issues Singles [a pagina 29]; i rifugiati dal Darfur, ammassati al confine tra Sudan e Ciad, del danese Jan Grarup, secondo premio General News Singles [a pagina 28]; gli effetti dell’esplosione di un condotto petrolifero in Nigeria, di Akintunde Akinleye, primo premio Spot News Singles [ancora a pagina 28]. Accanto a questo, a parte le “leggerezze” delle due sezioni dello sport, in azione e dietro le quinte, del ritratto, dell’arte e intrattenimento e della natura, nella sintesi espressa dalle segnalazioni del World Press Photo 2007, le visioni trasversali del fotogiornalismo dei nostri giorni conciliano la cronaca di guerra all’osservazione della vita quotidiana in condizioni di serenità. In un certo modo, sono questi i connotati espressivi dell’ampio reportage sulle incursioni militari not-
WORLD PRESS PHOTO FOUNDATION
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reata nel 1955, la World Press Photo Foundation (www.worldpressphoto.nl) è un’istituzione internazionale indipendente per il fotogiornalismo, che ha base in Olanda e opera senza fini di lucro. Scopo principale della Fondazione è l’organizzazione del Premio annuale e della relativa mostra, ma anche la possibilità di riunire i più bravi fotogiornalisti del mondo e farli discutere sui principali temi di attualità, avvicinando nazioni diverse. Questo è reso possibile dall’indipendenza della Fondazione, efficace ponte tra le persone e le nazioni. Al proposito, ogni anno la premiazione viene preceduta da due giorni di proiezioni e seminari sulla fotografia, con l’intervento di esperti di settore. Un’occasione, questa, che permette a fotografi, photo editor e giornalisti provenienti da tutto il mondo di incontrarsi per discutere il presente e futuro del fotogiornalismo. Dal 1994, la World Press Photo Foundation propone un’iniziativa di alto contenuto formativo: il Joop Swart Masterclass, un corso gratuito di perfezionamento per fotografi giovani, selezionati da una giuria di esperti del settore. Il corso è tenuto in autunno a Rotterdam da insegnanti qualificati in diverse discipline del fotogiornalismo.
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turne dell’esercito statunitense in Iraq, di Peter van Agtmael, secondo premio General News Stories [a pagina 30], del delicato punto di vista dello statunitense David Butow, che ha isolato un incrocio newyorkese, secondo premio Daily Life Singles [qui sopra], e dell’acuto sguardo con il quale David Guttenfelder ha individuato la solitudine esistenziale nella megalopoli Tokyo, primo premio Daily Life Stories [qui accanto]. Insomma, per quanto nessuna di queste immagini e nessuna delle vicende raccontate possa ambire a diventare icona del nostro tempo, tutte insieme le fotografie premiate e segnalate al World Press Photo 2007 (sul 2006) sintetizzano un anno della nostra vita. Un anno che, purtroppo, conferma una tragica condizione: quella della assoluta normalità, ormai, delle manifestazioni del dolore. Con la propria colta visione e sintesi, i fotogiornalisti dei nostri giorni sottolineano che la guerra, l’oppressione dei popoli, le disgrazie ambientali, le prevaricazioni politiche e militari, le violenze domestiche e tanto altro sono parte integrante della vita. Non stupiscono più. Oppure, non ne riconosciamo più la tragedia, che non identifichiamo come tale, perché ne siamo assuefatti? Che almeno queste fotografie sollecitino qualche orrore individuale. Alcune immagini colpiscono prima lo stomaco, altre arrivano dirette al cuore. Tutte finiscono nella mente, là dove la razionalità esistenziale comanda e guida il raccoglimento. Maurizio Rebuzzini World Press Photo: Fotografia e giornalismo (le immagini premiate nel 2007). Catalogo pubblicato da Contrasto (www.contrasto.it). ❯ Museo di Roma in Trastevere, piazza Sant’Egidio 1b, 00153 Roma; 06-5813717, fax 06-5884165; www.museodiromaintrastevere.it. Dal 5 al 27 maggio; martedì-domenica 10,00-20,00. A cura dell’Agenzia Contrasto. ❯ Galleria Carla Sozzani, corso Como 10, 20154 Milano; 02-653531, fax 02-29004080; www.galleriacarlasozzani.org, info@galleriacarlasozzani.com. Dal 6 al 27 maggio; lunedì 15,30-19,30, martedì-domenica 10,30-19,30, mercoledì e giovedì fino alle 21,00. A cura dell’Agenzia Grazia Neri.
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rematuramente mancato il 16 maggio 1954, a trentotto anni, Werner Bischof è stata una delle figure significative del fotogiornalismo di metà Novecento. Ha partecipato al rinnovamento del linguaggio espressivo della fotografia, e un tragico destino ne ha interrotto il percorso all’alba di una ulteriore trasformazione della comunicazione visiva, che siamo soliti datare dalla pubblicazione di New York di William Klein, le cui fotografie furono scattate proprio nel 1954, per essere raccolte in volume due anni più tardi (FOTOgraphia, febbraio 1997). Giusto questa serie fotografica di William Klein ha rappresentato una tappa fondamentale della fotografia, stabilendo un evidente e manifesto cambio di tono ed espressione del fotogiornalismo, con il quale tutti i fotografi hanno fatto i propri conti: chi conservando il proprio passo originario (per esempio, Henri Cartier-Bresson), chi allineandosi al diverso modo di affrontare il soggetto e, più in generale, la composizione dell’immagine e del relativo racconto. Non si costruisce nulla con le ipotesi. I “se” e i “ma” non sono materia utile ad alcuna edificazione e, quindi, non possiamo supporre come sarebbe stata la successiva fotografia di Werner Bischof, all’indomani delle mutazioni fotogiornalistiche della seconda metà degli anni Cinquanta. Neanche tentiamo di incam-
minarci in questo pericoloso terreno di supposizioni ed eventualità. Però (spesso c’è un “però”, che inverte i ritmi di marcia), non possiamo ignorare una esplicita dichiarazione di Werner Bischof, che soprattutto oggi offre spunti di analisi e approfondimento. Ci riferiamo all’iscrizione che introduce la recente selezione di Werner Bischof Immagini, esposta in mostra a Palazzo Magnani di Reggio Emilia e raccolta in volume monografico da Federico Motta Editore. Testuale: «Io non sono e non mi sento un fotogiornalista [...]. Nel profondo del mio cuore io sono sempre -come sempre- un artista». E qui sta tutta l’essenza di una serie di considerazioni e consecuzioni di stretta attualità espressiva. Idee e valori di “fotogiornalismo” e “arte”, che in origine potrebbero non avere punti in comune, né di contatto, sono da tempo abbinati e declinati in comunione di intenti, cinquant’anni dopo la prematu-
Per accordi distributivi, la presentazione giornalistica della mostra Werner Bischof Immagini non può utilizzare più di due fotografie, fornite in forma gratuita. In assenza di economie gestionali che consentano l’acquisto di ulteriori diritti di riproduzione, a questo ci atteniamo.
In anticipo su valutazioni maturate soprattutto in tempi recenti, negli anni Cinquanta lo svizzero Werner Bischof sottolineò la scomposizione della sua fotografia, alla quale riferiva più lo spirito artistico che quello fotogiornalistico. Personalmente, non considereremmo i due momenti in antitesi, e forse neppure apriremmo alcuna discussione in proposito. Comunque, l’attualità di una mostra che ripercorre il suo consistente tragitto espressivo indirizza una serie di pensieri a tema: appunto in equilibrio e sintesi tra racconto dell’esistenza e sua rappresentazione visivamente creativa
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ORA E S F OT O G I O R
ra scomparsa di Werner Bischof: potere e fascino del tempo, che forse non scorre sempre soltanto invano.
FOTOREPORTER-ARTISTA
AVVOLTOI DEI CAMPI DI BATTAGLIA; KAESONG, COREA, 1952 (WERNER BISCHOF / MAGNUM PHOTOS)
Antesignano di un dibattito che si è palesato in momenti recenti, e sul quale stiamo per tornare, lo svizzero Werner Bischof ha accostato il fotoreportage all’espressione artistica in tempi non sospetti. Del resto, in un’epoca nella quale la fotografia era frequentata e animata soprattutto da autodidatti (salvo poche e rare eccezioni), Werner Bischof poteva contare su una solida educazione e formazione scolastica, pratica quanto soprattutto teorica: fu allievo di Hans Finsler (1891-1972) alla celebre e qualificata Kunstewerbe Schule di Zurigo, la scuola di arti applicate nella quale confluì lo spirito del Bauhaus, schiacciato dal tal-
lone nazista. Da cui, l’origine di una fotografia che, per quanto fotogiornalistica di utilizzo, è stata subito caratterizzata da particolari scelte dell’angolo visivo, in combinazione con una accurata e delicata cura dell’inquadratura, sempre orientata verso una estetica formale e un riconoscibile impegno etico e umanista nei confronti del soggetto rappresentato. Se su queste rilevazioni si basa la componente e personalità artistica, dobbiamo giocoforza compiere un ardito balzo temporale in avanti, per approdare addirittura alla nostra odierna contemporaneità. È proprio di questi nostri giorni (ma, forse, anni) la sottolineatura di una identificata nuova personalità espressiva che richiede la propria codificazione. Per quanto ai tempi di Werner Bischof molte condizioni espressive della fotografia fossero già da tempo assimilate e accettate, tanto da non presupporre neppure scomposizioni di carattere formale (con la fotografia che aveva da tempo stabilito il proprio valore e spessore creativo autonomo), nel proprio cammino il linguaggio fotografico ha richiesto nuovi chiarimenti, se non già identità accertate. A questo proposito, non possiamo che tornare alla raccolta Things As They Are - Photojournalism in Context Since 1955, grandioso volume pubblicato in occasione del cinquantesimo anniversario del World Press Photo, del quale (volume) abbiamo ampiamente riferito esattamente un anno fa (FOTOgraphia; aprile 2006). Curata da Mary Panzer, storica della fotografia, e arricchita da una postfazione di Christian Caujolle, direttore dell’agenzia fotografica e della galleria VU, critico fotografico di fama mondia-
SEMPRE RNALISMO Werner Bischof Immagini; a cura di Marco Bischof, Simon Maurer e Peter Zimmermann; Federico Motta Editore, 2007 (via Branda Castiglioni 7, 20156 Milano; 02-300761, fax 02-38010046; www.mottaeditore.it, editor@mottaeditore.it); 464 pagine 24x26,7cm, cartonato con sovraccoperta; 65,00 euro.
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SUONATORE DI FLAUTO ; STRADA PER CUZCO, PERÙ, 1954 (WERNER BISCHOF / MAGNUM PHOTOS)
le, la monografia scandisce il ritmo delle decadi del secondo Novecento, a ciascuna delle quali assegna una riflessione. Per l’appunto, in relazione a quanto stiamo considerando ora, gli anni dal 1995 al 2004 (e ancora avanti) sono stati riconosciuti come quelli della Crescita del fotoreporter-artista. In totale accordo, ribadiamo come la concreta dimensione attuale del fotogiornalismo debba inderogabilmente rifarsi al passaggio da un ruolo discriminante nella visualizzazione dello svolgimento della vita (documentazione? testimonianza?) a una attuale nuova personalità professionale, che sta caratterizzando l’odierna figura del fotoreporter, le cui immagini non assolvono solo la cronaca, ma vengono immediatamente fatte proprie da una identificata estetizzazione. Analogamente, anche i tempi espositivi della mostra Il fotogiornalismo in Italia 1945-2005, a cura di Uliano Lucas (FOTOgraphia, ottobre 2006) sono approdati a considerazioni coincidenti: nei i nostri anni recenti la fotografia giornalistica nell’era postmoderna riflette su Creatività o omologazione? (altro modo di riferirsi al presunto e probabile fotoreporter-artista).
APPUNTO, ARTISTA Si può quindi essere simultaneamente fotogiornalisti e artisti, per quanto spesso queste sottolineature (distinzioni?) ci appaiano anche fuoriluogo. Infatti, la storia evolutiva del linguaggio fotografico è ricca di esempi e personalità di straordinaria statura e alto valore che non richiedono etichette di forma, ma soltanto valutazioni di sostanza. E poi, siamo anche convinti che le due condizioni non siano contrarie o contrastanti tra loro, ma convivano con assoluta coincidenza di intenti. Così che, l’iscrizione di Werner Bischof, che ha fornito spunto di meditazione, si allinea con considerazioni dei nostri giorni. A questo proposito, è opportuno riprendere passi dall’intervista che il fotografo spagnolo Pep Bonet ha rilasciato a Lello Piazza tre anni fa (FOTOgraphia, aprile 2004). Il tema è giusto quello del fotogiornalismo che slitta verso l’arte (cui strizza l’occhio o dalla quale è sedotto?).
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Chiede Lello Piazza: «Recentemente, a Verona, visitando la grande mostra dedicata al lavoro dei fotografi della VII [Inviati di guerra; FOTOgraphia, febbraio 2004] ho avuto la sensazione di una imbarazzante estetizzazione della fotografia di guerra. Spero di sbagliarmi, e d’altra parte rifiuto l’idea che fotogiornalisti come Christopher Morris o James Nachtwey possano considerarsi più artisti che giornalisti. Ma la quasi totale assenza di didascalie alle fotografie mi ha fatto pensare che almeno il curatore della mostra fosse un po’ scivolato nella direzione dell’arte invece che in quella della testimonianza. Da questo disagio nasce la mia prima e un po’ ingenua domanda: nella fotografia news per te è più importante lavorare sullo stile o sul contenuto?». Risponde Pep Bonet: «Non penso che si possano separare stile e contenuto, e per me sono importanti entrambi. E a proposito dello stile, aggiungo che per me è spontaneo; io non lo razionalizzo, semplicemente mi viene così. Inoltre, non credo più al modo tradizionale di raccontare le storie, lo trovo noioso. Il mio approccio è “non avere regole, non tenere conto delle esperienze precedenti, seguire l’istinto, ascoltare me stesso e non quelli che mi danno suggerimenti”. Mi immagino anche che il pubblico si stanchi di guardare le fotografie di un fotografo che non cambia mai il proprio stile per anni». Più avanti, Lello Piazza ritorna e insiste: «Quando hai cominciato come fotogiornalista, ti saresti aspettato di poter essere considerato un artista?». Da cui, la confessione: «Certamente, perché credo che sia un aspetto del mio mestiere: io cerco di cancellare i confini tra giornalismo e lavoro artistico. Non credo nell’oggettività dell’informazione. Mi piace raccontare le mie sensazioni su quello che vedo. Per far questo talvolta uso fotografie mosse o sfocate, per trascinare lo spettatore dentro l’atmosfera del luogo e fargli sentire la sofferenza o la confusione della realtà che riporto. Cosa c’è di sbagliato in questo? «Un’altra questione è parlare di etica, e perché fai quello che stai facendo, e perché fotografi quello che stai fotografando. «A me interessano le vicende che non conosco, e mi impegno nel lavoro fotografico con passione per scoprirle. Non voglio cambiare il mondo, voglio solo raccontare alla gente ciò che vedo e soprattutto mostrare loro la mia esperienza».
FOTOGRAFIA UMANISTA Esposta a Palazzo Magnani di Reggio Emilia fino al ventisette maggio, la mostra Werner Bischof Immagini riunisce e presenta centotré fotografie. L’allestimento espositivo ripercorre i viaggi fotografici dell’autore svizzero: India, Giappone, Corea, Indocina Panama, Cile e Perù, dove è morto nel maggio 1954 (sulla pagina accanto riproponiamo la testimonianza che Ferdinando Scianna scrisse nel quarantesimo dalla sua scomparsa, coincidente con quella di Robert Capa, per il primo numero di FOTOgraphia, del maggio 1994: testo nel quale, in spirale con le nostre odierne considerazioni, si sottolineano le proiezioni della fotografia, tra fotogiornalismo e arte). Dal 1949, fotografo socio della celeberrima Magnum Photos, nelle sue esplorazioni dei paesi del sud e dell’est del mondo, Werner Bischof rimase fortemente colpito dal forte contrasto tra modernità e tradizione, che visualizzò e raccontò con le sue immagini di paesaggio e con ritratti di toccante personalità: volti di uomini, donne e soprattutto bambini colti nella propria quotidianità. In viaggio attraverso l’Europa devastata dalla Seconda guerra mondiale o attraverso la povertà e la miseria dell’Oriente, Werner Bischof non limitò la propria espressività fotografica agli stilemi di un fotogiornalismo di sola cronaca. Per sua dichia-
WERNER BISCHOF (E ROBERT CAPA)
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erù, 16 maggio 1954. Werner Bischof, dopo aver fotografato la città incaica di Machu Picchu, decide di fare un giro nella provincia amazzonica assieme al geologo Ali de Szepessy e un autista. Ha da poco compiuto trentotto anni, festeggiati a Lima. Il 16 maggio, verso mezzogiorno, la jeep precipita in un burrone delle Ande. Muoiono tutti e tre. La notizia venne data il 25 maggio dal Neue Zürcher Zeitung, mentre la moglie, Rosellina, dava alla luce Daniel, il loro secondo figlio. Quello stesso martedì 25 maggio, in Indocina, presso il forte di Doai Than, Robert Capa, verso le 14,55, risale un terrapieno cercando l’angolo giusto per una fotografia che mettesse insieme i soldati e il forte che stava per essere fatto saltare dopo essere stato abbandonato. Incappa in una mina antiuomo che lo dilania e uccide. Aveva quarant’anni. Sono passati altri quarant’anni, e corre l’obbligo degli anniversari. Robert Capa è stato l’inventore di Magnum e, nel 1947, uno dei suoi fondatori, insieme a Henri Cartier-Bresson, David “Chim” Seymour, George Rodger e William Vandivert. Per sette anni ne fu anche il motore e l’anima. Werner Bischof, entrato nell’agenzia nel 1949, ne era diventato una delle colonne e vi aveva introdotto una coscienza inquieta. Io sono a Magnum da dodici anni e molte volte mi sono chiesto se Capa e Bischof hanno mai cominciato a morire, tanto continuano a essere presenti nella coscienza e nelle contraddizioni che, nello stesso tempo, lacerano e uniscono un gruppo di fotografi tanto diversi tra loro per origine, idee e temperamento, e che, pure, in permanente instabilità, continuano da quasi mezzo secolo a inventare le ragioni per stare insieme. I morti, in realtà, sono tre, perché, nel 1956, “Chim” Seymour, che aveva preso in mano l’agenzia, ci lasciò a sua volta la pelle, in Egitto, dov’era per coprire il secondo conflitto arabo-israeliano, assassinato da un cecchino poche ore dopo che era stato firmato il cessate il fuoco. Cartier-Bresson mi ha raccontato come, a Parigi, ha saputo della morte di Capa e di Bischof. Suonò il telefono e rispose la moglie; la vide sbiancare, ma non gli passò la chiamata. Intuì una cattiva notizia. Subito dopo, il telefono squillò ancora e rispose lui. «Werner!», gridò. La moglie rientrò nella stanza: «Non Werner», esclamò, «Bob». Le due notizie erano arrivate a distanza di un minuto una dall’altra. Una mazzata. Due amici morti, praticamente insieme, in due diversi angoli del mondo. Che sarebbe stato di Magnum? C’è un’opinione molto diffusa dentro l’agenzia: senza Capa non ci sarebbe stata Magnum, con Capa vivo non ci sarebbe più stata Magnum, o sarebbe stata un’altra cosa. È noto, infatti, che Bob, lucidamente proiettato verso l’avvenire, verso l’evoluzione dei nuovi mezzi di comunicazione e del loro mercato, nutriva forti dubbi sul futuro della fotografia, specialmente sulla possibilità di esercitare, con libertà di invenzione e di giudizio, una fotografia di racconto e di giornalismo che era stata alla base di quell’idea tanto rivoluzionaria da essere ancora adesso, a
distanza di quasi cinquant’anni, messa in discussione dai padroni dell’informazione: la creazione di un’agenzia di fotografi responsabili del loro lavoro, proprietari delle proprie idee e dei diritti d’autore sulle loro immagini. Capa vedeva nel cinema e soprattutto nella televisione, giustamente per certi versi, il grande campo nuovo nel quale tentare una diversa avventura. Non è un mistero che anche Bischof, come si deduce dai suoi diari e dalle sue ultime lettere, fosse profondamente amareggiato e in crisi nei confronti di un giornalismo che stava già diventando il giornalismo dello scoop e dello spettacolo che tutti, purtroppo, abbiamo sotto gli occhi. Il paradosso è che la loro morte, e poi quella di Seymour, invece di fare esplodere le loro inquietudini, abbia invece contribuito a cementare nei loro compagni, e in almeno altre due generazioni di fotografi che hanno poi raggiunto il gruppo, le ragioni e i valori che erano stati alla base della fondazione di Magnum. Queste ragioni e valori, anzi, poiché avevano prodotto dei martiri, hanno assunto il ruolo di mito fondatore, contribuendo non poco alla leggenda di Magnum, che è leggenda esterna all’agenzia, ma è anche interna, perché ha caricato i fotografi membri di una responsabilità nei confronti del passato storico del gruppo che si è trasformata in energia, volontà, disperata qualche volta, di superare le pur fortissime contraddizioni interne: ostinazione, a volte “eroica”, a volte ciecamente conservatrice, nell’opporsi ai cambiamenti del mondo e alla loro forza disgregatrice. A quarant’anni di distanza si può affermare, con un certo orgoglio, che l’esplosione della televisione non ha delegittimato l’esercizio di una fotografia che, pur continuando a essere testimonianza della vita e del tempo, non si è fatta sommergere, almeno non completamente, da un fotogiornalismo sciattamente illustrativo o strumentalmente brutale e continua ad affermare con orgoglio, originalità e indipendenza di visione la propria funzione. L’esempio di Magnum ha ispirato molte altre esperienze di fotografi che, cercando di ricalcarne la formula, si sono variamente associati, e certo il grande filone della fotografia come testimonianza critica e creativa non si esaurisce con Magnum. Ma si può forse affermare che è ancora in Magnum che, fra difficili compromessi e risultati di grande valore, si sono concentrate, per quel tipo di immagini, le migliori energie della fotografia contemporanea. A quarant’anni dalla loro scomparsa, Capa e Bischof continuano a dibattere nella mente e nella coscienza dei fotografi Magnum. Bisogna volere essere artisti o fotogiornalisti? Capa aveva avvertito Cartier- Bresson: «Stai attento all’etichetta di artista! Sii fotogiornalista e fai quello che vuoi». In una delle ultime lettere di Bischof, amareggiato e furioso con i giornali, si legge: «Sono e sarò sempre un artista». Dibattito apparentemente falso e inutile, ma che è servito a tre generazioni di fotografi per interrogarsi in maniera sincera sulla ricerca di una difficile via etica ed estetica. Ferdinando Scianna (da FOTOgraphia, maggio 1994)
razione esplicita («nel profondo del mio cuore io sono sempre un artista»), espresse una fotografia umanista di profonda riflessione, rappresentando in forma fortemente espressiva (appunto, artistica) quelle dicotomie tra sviluppo industriale e povertà, affari e spiritualità che riteneva tipiche e caratteristiche del proprio tempo: noi amiamo riferire questi connotati all’idea di fotografia umanista, che attraversa trasversalmente tutta la lunga e appagante storia del linguaggio visivo. Nelle centotré fotografie che la compongono, l’attuale Werner Bischof Immagini raccoglie una ricca selezione dei suoi più
importanti reportage, che quindi si estendono quantitativamente sull’omonima monografia che accompagna la mostra, nella quale sono pubblicate quattrocentotrenta fotografie. Angelo Galantini Werner Bischof Immagini. Palazzo Magnani, corso Garibaldi 29, 42100 Reggio Emilia; 0522-454437, fax 0522.444436; www.palazzomagnani.it, info@palazzomagnani.it. Dal Primo aprile al 27 maggio; martedì-domenica 9,30-13,00 - 15-00-19,00. Monografia pubblicata da Federico Motta Editore, estesa a quattrocentotrenta immagini (in mostra, centrotré).
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I MODI DELLA MODA Nel proprio insieme, le fotografie vincitrici e segnalate all’edizione 2006 del Canon ProFashional Photo Award, premio internazionale per la fotografia di moda, rappresentano una opportuna sintesi di un mondo che produce una disorientante quantità di immagini, entro le quali è solitamente difficile muoversi. Allo stesso modo, su un diverso piano di lettura, queste fotografie sono testimonianza del proprio tempo, della propria epoca e della socialità dei nostri giorni: ci piaccia o meno ammetterlo, presi come siamo a scomporre i meriti della fotografia, assegnando con pregiudizio ruoli positivi e/o negativi. Forse, il diavolo veste veramente Prada, ma la moda è uno dei momenti portanti della società (occidentale) contemporanea pesso semplificato nell’acronimo Cppa, il Canon ProFashional Photo Award è un concorso fotografico internazionale che nella sigla identificatoria racchiude i propri elementi distintivi e specifici. Dopo la paternità della celebre produzione giapponese, che allarga i propri orizzonti istituzionali alla promozione della fotografia professionale a tutto campo, sono altrettanto evidenti le altre attribuzioni: appunto, premio alla fotografia professionale di moda, per la cui combinazione il logotipo originario
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sottolinea con colori alternati la declinazione/identificazione Pro-Fashion-al, che elabora un neologismo miscelato tra Professional e Fashion (moda). Meno noto al pubblico fotografico di altri analoghi concorsi, il cui sostanziale impegno e impatto sociale attira maggiormente l’attenzione (pensiamo soprattutto ai premi indirizzati e riservati al fotogiornalismo), il Canon ProFashional Photo Award ha un proprio merito particolare e specifico: visualizza con chiarezza l’insieme della fotografia di moda internazionale, osservata attraverso una efficace serie di
Martin Klimas, primo premio Canon ProFashional Photo Award 2006. È digitale? È analogica? La questione è secondaria. Ciò che conta è la freschezza e originalità dell’esecuzione e della relativa visualizzazione.
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Klaus Altevogt, segnalato al Cppa 2006. Richiamo a un nobile pesce giapponese, il Koi. La camicetta avvolge il pesce, impreziosendone la forma. Efficace effetto visivo, capace di attirare l’attenzione.
(in alto) Thomas Rusch, segnalato al Cppa 2006. Composizione seducente. Declinazione nella moda di un altro connotato, rivisitato dall’espressione erotica. Dove starebbe il confine?
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immagini di autori che la realizzano e frequentano quotidianamente, magari all’esterno delle più celebrate testate internazionali o delle pubblicità a grande diffusione. Oppure, ed è lo stesso, la concretezza di questa sintesi permette di orientare le considerazioni attraverso una benefica selezione, che mostra i valori che la fotografia di moda solitamente sommerge nella propria quantità: tante/troppe le pagine delle riviste specializzate, che quindi finiscono per essere indecifrabili ai non addetti al lavoro. Sapientemente, le immagini premiate e segnalate al concorso vengono pubblicate sul sito della filiale tedesca www.canon.de/cppa, che lo organizza e svolge, e raccolte in un conveniente volume(tto)catalogo, nel quale ogni fotografia è altresì commentata e motivata. Se di questo vogliamo anche parlare, ecco una sostanziale differenza con altri premi fotografici. Per esempio, nell’ambito del fotogiornalismo (dal World Press Photo a tanto altro ancora) sono gli autori che sottolineano il senso delle pro-
Konrad Gös, segnalato al Cppa 2006. La storia della fotografia è ricca di precedenti, e l’ispirazione è legittima. Interpretazione attuale della sensualità delle gambe femminili con combinazione grafica accentuata dalle calze a rete. Ralf Bernert, segnalato al Cppa 2006. Allo stesso tempo soggetto e fondo, il deserto della città simboleggia il clima dei nostri giorni. Inoltre, si annota l’ispirazione giudiziaria e poliziesca: fotografia della scena del delitto.
(pagina accanto, al centro) Francis Koenig, secondo premio Cppa 2006. Occhi luminosi e capelli rossi in contrasto con i toni bassi dell’abito. Le nuove generazioni finalizzano la forma alla evidenziazione dei contenuti.
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Adrian Greiter, segnalato al Cppa 2006. Attrazione del profano. Abiti collocati in aree industriali di forte connotazione. Contrasto volontario tra delicatezza del capo fotografato e desolazione dei luoghi.
(pagina accanto, in alto) Matthäus Contopidis, segnalato al Cppa 2006. Palese e dichiarato omaggio alla fotografia di Helmut Newton, tragicamente mancato nel 2004 ( FOTOgraphia, febbraio 2005). Bianconero elaborato sulla consapevole e controllata distribuzione di luci e ombre. (pagina accanto, al centro) Uwe Johannsen, segnalato al Cppa 2006. Innegabile sensualità. Illustrazione di lingerie con avvincente combinazione di gioielli. Il richiamo sessuale è esplicito: questa è fotografia di moda femminile che si rivolge all’uomo.
Sebastian Burgold, segnalato al Cppa 2006. Espressione radicale dell’immaginario visivo. L’impatto della fotografia si basa su una inquadratura forzata, nella quale il soggetto, volontariamente decentrato, è in qualche modo doppio: la modella con il proprio make-up e gli accessori.
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prie immagini, approfondendo l’argomento o le condizioni sociali documentate con testi di accompagnamento. In questo caso, non contano le intenzioni originarie, e neppure sono predominanti gli incarichi professionali (riferimento allo stilista, piuttosto di altro). Nel caso della moda, assolto il compito professionale, l’immagine si svincola da ogni possibile legame e si offre per se stessa, magari proiettando-
si in avanti nel tempo, come è il caso di fotografie che oggi consideriamo parte integrante della storia evolutiva del linguaggio visivo. Una per l’altra, e tutte insieme, le fotografie di moda, in generale, e queste del Canon ProFashional Photo Award sono immagini che non richiedono presentazioni, precisazioni, contestualizzazioni: ovvero, sono immagini in quanto tali. Però, e allo stesso momento, sono immagini che portano con sé valori visivi universali, con i quali è doveroso incontrarsi e fare i propri conti, fossero anche effimeri. Per questo, le puntualizzazioni che accompagnano le fotografie segnalate assumono un proprio sostanziale valore, che è poi quello della messa in evidenza di particolari condizioni, situazioni, stilemi e, perché no?, espressioni culturali. A proprio modo, sono tutte fotografie che esprimono una efficace
appartenenza al mondo e alla società, che si manifesta anche attraverso queste rappresentazioni (non soltanto raffigurazioni: la differenza è di sostanza). Non c’è scontro, né combattimento di immagine; dunque, è assolutamente legittimo, oltre che doveroso, rilevare come la fotografia di moda possa raccontare la vita come fa altra fotografia dichiaratamente rivolta a questo. Cambiano gli stilemi, ma non il senso sociale dell’immagine (una volta esaurito il compito “moda” primario). Anno dopo anno, la fotografia di moda del Canon ProFashional Photo Award è racconto di vita. Una vita (del mondo e pensiero occidentale, ne siamo consapevoli) osservata e visualizzata in toni statutariamente leggeri, ma non per questo meno significativi. Quindi, confermiamo: nel proprio insieme le fotografie vincitrici e segnalate all’edizione 2006 del Canon ProFashional Photo Award, che presentiamo in selezione su queste pagine, rappresentano una opportuna sintesi (seppure di forte connotazione tedesca, a scapito dell’originaria internazionalità degli intenti), che consente di orientarci in un mondo quantitativamente esuberante. Ancora, le stesse fotografie sono testimonianza del proprio tempo, della propria epoca e della socialità dei nostri giorni. Forse, il diavolo veste veramente Prada. Se è così, il diavolo è tra noi: vive e respira accanto a noi. Angelo Galantini
Harry Vorsteher, segnalato al Cppa 2006. Occhi come stelle. Fotografia attuale che riprende connotati di immagini degli anni Sessanta (Hiro e dintorni). Nulla si crea, poco si distrugge, tutto ritorna.
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ante domande, alcune senza risposta plausibile. Riguardo la partecipazione o il contributo italiano alla storia evolutiva del linguaggio fotografico, una risposta è certa, quanto amara. La presenza limitata di autori italiani al movimento internazionale, che nei propri resoconti storici continua a scandire ritmi geograficamente esterni ai nostri confini, dipende proprio dal loro essere... italiani. Ovvero dall’aver agito e operato in un paese che ha poca memoria di sé e ancor meno tutela delle proprie glorie; e poi, in soprammercato, la fotografia è materia e disciplina completamente estranea al nostro tessuto. Anche la fama degli autori italiani più acclamati e conosciuti nel nostro ambito è limitata al riconoscimento soltanto nazionale; e dalle considerazioni generali sono perlopiù ulteriormente escluse le esperienze che non possono vantare la visibilità del fotogiornalismo, della moda, della pubblicità e contorni. Raramente, parlo e scrivo in prima persona; in genere mi posiziono in modo defilato, e racconto con partecipe impersonalità. Ora, invece, riferendoci alla imponente mostra Oltre l’argento, che a Verona, città natale (!), celebra le generazioni dei Tommasoli fotografi, dal 1906, si impone una rilevazione assolutamente individuale. Rendo pubblico ciò che racconto agli studenti iscritti al mio corso di Storia della fotografia, presso la Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università Cattolica del Sacro Cuore di Brescia, dove il percorso didattico è scomposto tra storia della fotografia in assoluto e approfondimento della fotografia italiana (e per ognuno dei due momenti, gli studenti debbono poi presentarsi a singole sessioni di esame). In breve, sottolineo la dicotomia tra la straordinaria espressività della fotografia italiana e la malaugurata invisibilità internazionale, complici mille fattori: molti dei quali endemici nel nostro carattere italiano, altrettanti dipendenti dalla cronica mancanza di strutture e istituzioni a tutela. Da cui, oltre compiere un percorso didattico che comprenda anche fotografi solitamente non considerati dalle banali storie italiane della fotografia, troppo spesso limi-
tate alla solita sequenza di nomi (tutti validi, sia chiaro, ma non sempre significativi della variegata e fantastica fotografia italiana), sono solito consigliare gli studenti a individuare realtà locali meritevoli di attenzione pubblica. Da qui in avanti, per la presentazione della mostra cui ci riferiamo, attingiamo a piene mani dal comunicato ufficiale di introduzione.
Silvio Tommasoli: Nudo, 1910; stampa su carta ai sali d’argento.
Allestita nella città natale Verona, Oltre l’argento è una mostra che racconta la lunga parabola dello Studio Tommasoli, nel quale si sono succedute tre generazioni di fotografi, a partire dal 1906. Da una parte, c’è l’assolvimento concreto degli incarichi professionali; dall’altra, un fantastico percorso espressivo allineato con i tempi e modi della ricerca artistica. Fino alle più attuali esperienze contemporanee
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STUDIO TOMMASOLI
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iglio di Filippo Tommasoli, pergamenista e calligrafo proveniente da Urbino, Silvio (1878-1943), il fondatore dello Studio fotografico Tommasoli di Verona, compie studi artistici all’Accademia di Belle Arti Cignaroli della città, della quale era presidente il fotografo Richard Lotze [altri tempi!], con maestri quali Napoleone Nani e Mosé Bianchi. Nel 1898, si trasferisce a Milano, dove frequenta l’Accademia di Brera, presso la quale ottiene l’abilitazione all’insegnamento; si dedica alla pittura, alla grafica -sua è la copertina del mensile L’amore illustrato del gennaio 1900, che inaugura il nuovo secolo- e alla fotografia, collaborando con la storica casa editrice Eliotipie Calzolari e Ferrario, con la quale partecipa nello stesso anno alla Esposizione Universale di Parigi. Nel 1902, con l’amico Gian Antonio Bressanini, Silvio Tommasoli ha l’opportunità di aprire uno studio fotografico a Recoaro Terme, nota località climatica alla moda della provincia vicentina, al quale fa capo un identificato mondo culturale dell’epoca. È in questi anni che l’autore indaga e approfondisce i termini originari del proprio linguaggio fotografico, che poi articolerà percorrendone con personalità diversi generi, a volte interpretando con ironia il forte ruolo sociale che li caratterizza, altre volte traducendo l’azione fotografica in provocazione: come è evidente in alcune opere seriali (1902-1905) o in Modella del 1910, dove le scarpe nere sono l’unico indumento indossato dalla donna, protagonista straniante della composizione in un’intrigante inquadratura. Nel 1906, Silvio Tommasoli apre il suo primo studio a Verona, in via XX settembre, da dove si trasferisce successivamente in via Sant’Andrea e poi, nel 1922, in via San Nicolò. Il lavoro professionale di Silvio Tommasoli è dedicato soprattutto al ritratto e al paesaggio, che realizza con stile poco incline al pittorialismo, sebbene ne rimangano alcune pregevoli citazioni, mentre molte sono le opere di ricerca che testimoniano la sua particolare attenzione all’azione (evento) della fotografia in sé, che a volte invade il soggetto rappresentato fino a dichiarare apertamente il processo (rito) del fare. Un esempio è la fotografia Pace, del 1918, che porta in modo volutamente evidente i segni dell’intervento grafico, con scritte che sembrano fatte con gesso bianco e colore sulla scena prima della ripresa, mentre sulla lastra risulta esasperata la luce che entra prepotente dalla finestra e illumina la figura simbolica del bambino-coscritto.
Silvio Tommasoli: senza titolo, 1910; stampa su carta ai sali d’argento.
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A Silvio Tommasoli, allontanato dalla città dal regime fascista, negli anni Trenta succedono i figli Filippo (1910-1985), con alle spalle studi filosofici, e Fausto (1912-1971), pittore diplomato all’Accademia di Belle Arti. Tutti e due hanno studiato anche al Conservatorio Musicale, e questo spiega l’assiduità con cui il loro atelier è frequentato non solo da artisti e poeti, ma anche da musicisti e cantanti: tra i tanti, Carlo Carrà, Lucio Fontana, Giacomo Manzù, Arturo Benedetti Michelangeli, Maria Callas. Filippo e Fausto Tommasoli, che hanno sempre firmato assieme le proprie fotografie, hanno continuato a operare nella sede di via San Nicolò, dedicandosi con grande personalità e professionalità al ritratto, soprattutto in bianconero, e al reportage culturale e del territorio, lavorando per Enti turistici in Veneto, Liguria, Campania, Sicilia, oltre che per la Cassa di Risparmio e la Banca Popolare di Verona, la Achille Lauro, la Metro-Goldwyn-Mayer. La loro attività artistica spazia dal nudo, genere in cui esprimono un linguaggio secco e essenziale, allo still life, al paesaggio urbano. Si tratta di immagini ricche di cultura e forza, complesse e a volte aggressive, sempre dense di tendenze e tensioni della propria epoca. Dagli anni Settanta, lo Studio Tommasoli è condotto, in altra sede, dal nipote Sirio (classe 1947) che, con la moglie Alessandra Salardi (1961), ha continuato la tradizione centenaria, associando all’attività di artista la coltivazione di iniziative editoriali e la professione nell’ambito della comunicazione. Laureato in sociologia, dal 1970 Sirio Tommasoli è artista visivo (fotografia, videoart, installazioni), pubblica e tiene mostre in Italia e all’estero. Il suo lavoro è dedicato soprattutto allo studio ed evoluzione dell’“immagine successiva” con interpretazioni seriali e, dal 1980, fotogrammiche. Sue opere sono conservate in numerose collezioni pubbliche e private. Già docente di fotografia all’Accademia d’Arte Cignaroli, dal 1990 è redattore di Anterem, rivista di ricerca poetica, e dal 2004 è direttore artistico della sezione Arti visive della Biennale Anterem di Poesia. Alessandra Salardi, diplomata in fotografia all’Accademia d’Arte Cignaroli, si occupa della cura dell’archivio e svolge un’intensa attività fotografica, dedicandosi soprattutto al reportage. L’ambito culturale e il territorio sono suoi temi preferiti, con una particolare attenzione per l’ambiente rurale e il prodotto tipico. Ha pubblicato numerosi libri fotografici su diversi temi. Sue ricerche espressive sulla maternità e il corpo, visualizzato impressionando direttamente la carta sensibile, hanno partecipato a mostre internazionali.
I TOMMASOLI Allestita al prestigioso e qualificato Centro Internazionale di Fotografia Scavi Scaligeri di Verona, che nel corso dei recenti anni ha ospitato selezioni di pregio e prestigio, Oltre l’argento è una mostra che racconta l’epopea di una straordinaria famiglia di fotografi veneti -i Tommasoli, in attività dal 1906, per tre generazioni successive-, sintetizzandone il percorso espressivo in una qualificata e affascinante serie di immagini. A cura dell’Assessorato alla Cultura del Comune di Verona, con il contributo della Regione Veneto e il contributo e patrocinio della Provincia di Verona, Oltre l’argento raccoglie una consistente selezione delle immagini più significative dello Studio Tommasoli: una grande mostra di fotografie che percorre le tendenze artistiche del Novecento e apre al nuovo secolo. Da non perdere. Lo Studio Tommasoli conserva le immagini di tre generazioni di fotografi, che si sono succedute negli anni, in alcuni dei quali si sono perfino accavallate: dal fondatore Silvio (1878-1943) ai figli Filippo (1910-1985) e Fausto (1912-1971), fino a Sirio (1947) e Alessandra (Salardi; 1961).
Filippo e Fausto Tommasoli: Maria Callas, 1947; stampa su carta ai sali d’argento.
(al centro) Silvio Tommasoli: Giuseppina Renier, 1913; stampa su carta al bicromato di potassio.
Il passare del tempo, che si evidenzia particolarmente nei ritratti e nei paesaggi, si manifesta e rivela nelle opere degli autori: pur impegnati a dare continuità al nome dello Studio, elaborano personalità e attenzioni individuali, testimoniando, con la passione per l’arte, il senso di appartenenza a una tradizione che si afferma nei decenni a seguire. Il linguaggio della fotografia viene indagato in percorsi autonomi, da cui a volte traspaiono memorie improvvise, che rivelano una profonda convinzione artistica familiare. Le conoscenze tecniche passano di mano in mano, aggiornandosi senza soluzione di continuità. Il divenire della cultura visiva, nell’unicità di questo fantastico archivio lungo un secolo, dal 1906, facilita la lettura delle immagini nelle due direzioni del tempo, consentendo inoltre continui passaggi dalle prassi professionali alle indagini più libere della ricerca artistica. Ed è qui che più appare il valore aggiunto di questa “storia di famiglia”, che si sovrappone per un secolo alla storia della fotografia e dell’arte. Tre le sezioni in mostra, che scandiscono i tempi delle relative generazioni successive.
rassegna di opere inerenti i temi fondamentali attraversati dall’autore. Le prime fotografie sono stampe originali d’epoca e ristampe successive, alcune attuali, da lastre appartenenti agli anni dello studio di Verona e a quello estivo di Recoaro Terme, in provincia di Vicenza, condiviso con l’amico Gian Antonio Bressanini fino al 1908: tra queste, alcune opere seriali, che rappresentano con ironia gli ozi e i giochi della rituale villeggiatura borghese, oltre che ritratti di amici (il poeta Berto Barbarani, l’antropologo Guido Valerio Callegari, il pittore Umberto Boccioni). Quindi, ampio spazio al ritratto, in misura dell’importanza che ha avuto nell’attività professionale di Silvio Tommasoli, con la sperimentazione di specifiche formule espressive, compositive, ottiche e chimiche. In particolare, si segnalano anche stampe al carboFilippo e Fausto Tommasoli: Still life, 1935; stampa su carta ai sali d’argento.
SILVIO, IL FONDATORE Attivo dal 1906 al 1940, Silvio Tommasoli (18781943), fondatore dello Studio, arriva alla fotografia dopo studi artistici all’Accademia di Belle Arti Cignaroli di Verona e all’Accademia di Brera di Milano. L’impronta che dà all’attività fotografica è consequenziale: oltre l’assolvimento degli incarichi quotidiani, tra sala di posa e committenze esterne, si afferma subito una interpretazione estetica che fa tesoro del dibattito artistico dei propri tempi. Nell’allestimento della mostra Oltre l’argento, la prima sezione che apre le porte al percorso complessivo, appunto riservata alla fotografia di Silvio Tommasoli, è ordinata cronologicamente: è costituita da una
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Filippo e Fausto Tommasoli: Nudo, anni Cinquanta; stampa su carta ai sali d’argento.
(al centro) Sirio Tommasoli: Waiting 11, 2002; pigmenti su banner.
Sirio Tommasoli: Scritture Donna n. 4, 1999; cibachrome su alluminio.
ne, all’olio e alla gomma, viraggi e fotografie dipinte. Altrettanta attenzione espositiva per le fotografie di paesaggio urbano e del Lago di Garda. Infine, si registra la confortevole presenza in mostra di opere che appartengono più strettamente alla ricerca espressiva di Silvio Tommasoli: nudi e particolari elaborazioni che indagano in profondità il linguaggio della fotografia e dell’arte, con risultati di grande rilevanza e suggestione. Si tratta di circa quaranta opere di vario formato, alcune stampate con tecniche diverse dall’autore, a volte allestite con fondi o cornici dell’epoca, altre ristampate dai successori dalle lastre originali.
FILIPPO E FAUSTO A metà degli anni Trenta, figli di Silvio, Filippo e Fausto Tommasoli (1910-1985 e 1912-1971) entrano nello Studio approdando alla fotografia da percorsi educativi diversi: studi filosofici per Filippo e diploma all’Accademia di Belle Arti per il pittore Fausto. La loro attività si estende su quarant’anni, conteggiata fino al 1975 per Filippo e alla scomparsa
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di Fausto, di poco precedente questa data. Confermando la struttura espositiva avviata con la prima sezione, analogamente cronologico, anche il secondo capitolo di Oltre l’argento ripercorre i generi più frequentati dagli autori, che hanno sempre lavorato e firmato assieme le proprie opere. Ritratti in bianconero, molti dei quali di personaggi del mondo artistico e culturale, e soggetti professionali, quasi sempre realizzati con il grande formato, a banco ottico piuttosto che folding, e stampati su raffinate carte al cloro-bromuro, sono presentati in copie d’epoca (vintage, per dirla in gergo) e in copie di produzione più recente. Considerati gli anni di attività, e le relative proiezioni della fotografia professionale, i soggetti includono architetture e paesaggi. E, ancora, non man-
Alessandra Salardi: Ombre n. 4, 1998; corpo a contatto su carta ai sali d’argento.
(al centro) Sirio Tommasoli: ritratto dell’architetto Renato Dal Maso, 1983; stampa su carta ai sali d’argento.
cano esempi delle particolari ricerche espressive che i due fratelli hanno condotto dagli anni Cinquanta, indirizzate al nudo e allo still life, che oggi possiamo osservare nella delicatezza di stampe d’epoca (una volta ancora, vintage).
SIRIO E ALESSANDRA Conservando l’ordine cronologico che scandisce il tempo dello Studio Tommasoli, la terza e ultima sezione di Oltre l’argento ribadisce il passo di quaranta opere, che portano il totale della mostra a centoventi fotografie esposte: dagli anni Settanta, si approda ai giorni nostri. In merito all’attività artistica di Sirio Tommasoli, nipote di Silvio, classe 1947, sono esposte opere concettuali e immagini seriali di nudo degli anni Settanta e Ottanta, “scritture fotogrammiche” e lavori più recenti appartenenti alle serie Waiting, Windows e Writing, su carta e banner, oltre a un video della serie Waves. Di Alessandra Salardi, moglie di Sirio, classe 1961, è proposta una particolare ricerca realizzata negli anni Novanta: immagini ottenute impressionando la carta fotografica con il proprio corpo posto direttamente a contatto con il materiale sensibile. Questo a sottolineare, una volta ancora, la sintonia dello Studio Tommasoli, sempre in equilibrio tra l’assolvimento di incarichi professionali e la ricerca espressiva individuale, che nell’arco di un secolo (1906-2006!) ha attraversato i segni, i sentimenti e l’intensità della fotografia di ricerca. Ricollegandoci all’avvio, con un solo rammarico: quello dell’indifferenza italiana per le proprie manifestazioni della fotografia in forma d’arte. Maurizio Rebuzzini
Oltre l’argento. I Tommasoli, fotografi dal 1906. Centro Internazionale di Fotografia Scavi Scaligeri, Cortile del Tribunale, piazza Viviani, 37121 Verona; 045-8007490; www.comune.verona.it/scaviscaligeri/. Dal 25 aprile al 23 settembre; martedì-domenica 10,00-19,00.
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Con la nuova Eos-1D Mark III da 10,7 Megapixel, Canon impone nuovi standard e riferimenti alla fotografia professionale dei nostri giorni. Efficace reflex digitale a obiettivi intercambiabili, in grado di assicurare dieci fotogrammi al secondo con sequenze continue fino a centodieci immagini Jpeg della massima qualità (trenta in formato grezzo Raw), la terza generazione della configurazione di punta del sistema Eos raggiunge un primato tecnico assoluto. Sempre e comunque Eos-1D, in configurazione rivoluzionata Mark III
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estata in situazioni professionali annunciate, soprattutto nell’ambito dello sport, della cronaca e della moda, la terza generazione della reflex ammiraglia del sistema digitale Canon, l’attuale Eos-1D Mark III, sarà disponibile sul mercato da maggio inoltrato. Quindi, va a giorni: pochi, e di attesa concentrata. Prima delle necessarie e doverose puntualizzazioni tecniche, ancora una osservazione a margine. Senza alcuna nostalgia, che non ha alcun diritto di ospitalità, ma soltanto per il senso stesso della riflessione, rileviamo che in passato ci sono stati tempi e momenti nei quali una tale e tanta configurazione fotografica avrebbe fatto declinare termini assoluti e di incontenibile entusiasmo. Oggi, penalizzati dal frenetico ritmo delle evoluzioni tecnologiche, che si inseguono l’un l’altra, siamo quasi condizionati alla sola registrazione. Peraltro, ammettiamolo con franchezza, siamo altresì vincolati a una presentazione... d’attesa. Quasi che già pensassimo a future e imminenti ulteriori evoluzioni, capaci di superare, in tempi neppure dilatati, i valori tecnici che stiamo per registrare. Insomma, nulla è più definitivo, tutto è consistentemente migliorabile e modificabile. Niente può ormai stupire e attirare ammirazioni incondizionate, e neppure dare il tempo per tradurre le potenzialità tecniche in funzioni di immagine, per relative e consequenziali applicazioni pratiche. Tutte condizioni che pure accompagnano questa concreta evoluzione tecnologica dell’acquisizione digitale di immagini (Canon Eos-1D Mark III al top del proprio efficiente sistema fotografico digitale), ovvero delle possibilità operative offerte oggi alla fotografia, soprattutto a quella professionale.
TERZA GENERAZIONE A MONTE
Prima di altro, la configurazione della Canon Eos1D Mark III segnala la presenza attiva di due processori Digic III (pure alla propria terza generazione: felice coincidenza), sui quali si basa l’elevata velocità operativa della reflex e le conseguenti ottime
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CPS: CANON PROFESSIONAL SERVICES
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cronimo di Canon Professional Services, CPS è un servizio a supporto dei professionisti che usano soluzioni Eos. Assolutamente gratuito per i fotografi accreditati, il servizio CPS offre supporto in occasione di tutti i principali eventi sportivi o di cronaca che si svolgono in Europa. I requisiti dell’iscrizione e ulteriori informazioni sono riportati al sito http://www.cps.canon-europe.com.
Reflex digitale professionale, al vertice del proprio sistema fotografico, la Canon Eos-1D Mark III offre 10,7 Megapixel di risoluzione. La sua rapidità operativa si estende alla ripresa fino a dieci fotogrammi al secondo, con sequenze continue fino a centodieci immagini Jpeg (trenta in formato grezzo Raw).
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prestazioni ad alta risoluzione (10,7 Megapixel): per la prima volta elaborazione delle immagini a 14 bit, per una profondità colore quattro volte superiore rispetto le dotazioni reflex precedenti. In seguito a una completa riprogettazione della reflex, nella Eos-1D Mark III -al vertice del sistema digitale professionale di Canon- sono state incluse numerose nuove funzionalità, che ormai paiono essere indispensabili nella fotografia dei nostri giorni. Tra queste, si annotano l’ampio monitor LCD da tre pollici, la modalità Live View, il sistema integrato di pulizia Eos, un nuovo sistema autofocus con diciannove punti/aree a croce e la misurazione dell’esposizione su sessantatré zone. Il sensore CMOS di acquisizione digitale di immagini, in formato 28,1x18,7mm, da 10,7 Megapixel, offre una gamma di sensibilità estesa da 100 a 3200 Iso equivalenti, ulteriormente espandibile all’intervallo da 50 a 6400 Iso equivalenti. Nel commentare la filosofia di fondo di questa nuova e innovativa configurazione reflex, Tsunemasa Ohara, Senior General Manager del Camera Development Center di Canon, ha sottolineato l’idea e concetto di evoluzione nella continuità: evoluzione di un progetto radicalmente rivoluzionato, continuità del sistema
Eos, sul mercato da vent’anni (1987-2007), all’interno di una storia fotografica che celebra i propri primi settant’anni di attività (1937-2007) e cinquanta di Canon Europa (1957-2007). Testuale: «Nel realizzare questa nuova reflex siamo partiti da zero. Ogni minimo aspetto del processo fotografico è stato ridefinito, ogni condizione progettuale valutata con l’esplicito intento di ottenere una reflex che combinasse la consueta ergonomia della serie Eos con un corredo di specifiche ampiamente migliorate».
SENSORE Da tempo, il riferimento “Mark” definisce le progressioni di una configurazione digitale originaria della quale Canon mantiene la definizione di partenza Eos-1D, affermatasi in ambito professionale, che rappresenta un irrinunciabile richiamo operativo e di mercato. Tecnologia proprietaria, i due processori Digic III assicurano livelli di velocità, risposta e qualità di immagine senza precedenti. Pronta allo scatto in 0,2 secondi dall’accensione, la reflex Canon Eos-1D Mark III è in grado di acquisire ed elaborare oltre cento Megapixel di dati immagine al secondo. Inoltre, lo svuotamento rapido della memoria di transito consente sequenze rapide di scatto fino a centodieci fotogrammi consecutivi (trenta in formato grezzo Raw). L’elaborazione a 14 bit delle immagini offre una profondità totale del colore che raggiunge i sedicimilatrecentottantaquattro toni per pixel (16.384), contro i quattromilanovantasei delle immagini a 12 bit (4096). L’interpretazione Canon della tecnologia CMOS, qui portata a una risoluzione di 10,7 Megapixel, rappresenta oggi uno dei maggiori vantaggi competitivi delle relative configurazioni fotografiche reflex che, grazie al circuito di riduzione del rumore a livello di singolo pixel, offrono immagini sostanzialmente prive di disturbo. Rispetto alla tecnologia del sensore CCD, il minor consumo energetico del sensore CMOS contribuisce a prolungare la durata dell’alimentazione e, a diretta conseguenza, l’autonomia di lavoro. La conversione del segnale nei sensori è gestita tramite singoli amplificatori disposti su ogni pixel. Dal momento che vengono evitati i trasferimenti di carica non necessari, l’invio del segnale al processore di immagini risulta più rapido, il rumore generato è inferiore, il consumo energetico limitato e la velocità di scatto maggiore. L’attuale sensore Canon CMOS di terza generazione è configurato con pixel di nuovo progetto che, interagendo con il circuito di riduzione del rumore integrato, assicurano un’elevata qualità d’immagine anche all’alta sensibilità di 3200 Iso equivalenti. A seguire, la possibilità di espandere ulteriormente la sensibilità, fino a 6400 Iso equivalenti, rappresenta un enorme vantaggio per i professionisti attivi in eventi di cronaca o sport nei quali non è consentito, o è sconsigliato, l’impiego del flash elettronico.
CONTROLLI
Per una migliore gestione dei soggetti decentrati all’interno dell’inquadratura, Canon ha riprogettato il sistema autofocus della Eos-1D Mark III, includendovi diciannove punti a croce con una sensibilità massima di f/2,8, collocati lungo l’intera area AF. Inoltre, ventisei ulteriori punti di assistenza AF permettono di migliorare il tracking del sistema autofocus, per garantire maggiore precisione con i soggetti in movimento. È stata migliorata anche l’operabilità. Sul retro della reflex è posizionato un apposito pulsante AF che consente l’attivazione e/o disattivazione rapida della messa a fuoco automatica senza dover distogliere lo sguardo dal mirino. Lo stesso mirino è ora più luminoso e offre un angolo visuale più ampio. Il nuovo sistema di misurazione della luce a sessantatré zone assicura, quindi, maggior controllo sull’esposizione. Il luminoso e ampio monitor LCD da tre pollici, con risoluzione di 230.000 pixel, consente un’inquadratura accurata e una visione brillante. Del tutto nuova per la serie Eos, la modalità Live View permette di inquadrare e comporre direttamente sul monitor, senza utilizzare il mirino. Il sistema di menu della reflex digitale professionale Canon Eos-1D Mark III è stato completamente rivisitato, per sfruttare al meglio le dimensioni del
monitor LCD, con un significativo guadagno in leggibilità e fruibilità. Una gamma di cinquantasette funzioni personalizzate offre più flessibilità nell’adattare le impostazioni della reflex a specifiche esigenze di lavoro. La nuova opzione My Menu consente anche di salvare in un menu separato le impostazioni utilizzate più frequentemente, in modo da accedervi più rapidamente. Le impostazioni relative ai nuovi accessori, quali il flash elettronico dedicato Speedlite 580EX II e il trasmettitore di dati senza cavi Wireless File Transmitter WFT-E2 (a pagina 54), possono essere controllate direttamente dallo stesso monitor LCD.
AFFIDABILITÀ Nel proprio uso pratico, la reflex digitale di vertice Canon Eos-1D Mark III incorpora una nutrita serie di migliorie, tutte rivolte all’impiego professionale. Il test dell’otturatore è stato portato a trecentomila cicli, con un aumento del cinquanta per cento. Il corpo macchina è in lega di magnesio, con guarnizioni resistenti alla polvere e all’umidità. Se e quanto l’alloggiamento della scheda di memoria viene aperto durante la registrazione dei file immagine, per evitare errori nella loro memorizzazione, viene visualizzato un avviso sul monitor LCD ed emesso un allarme sonoro. Le interfacce disponi-
Oltre le proprie dotazioni tecniche principali, sia fotografiche sia digitali, la Canon Eos-1D Mark III è provvista di sistema integrato di pulizia Eos Ics (Integrated Cleaning System). Tre funzioni essenziali: riduce, respinge e rimuove. Nell’insieme, è garantita la massima affidabilità, con riduzione di ogni pulizia manuale del sensore di acquisizione digitale di immagini.
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ALTRO ANCORA
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anon completa il lancio della nuova reflex Eos-1D Mark III di vertice con la presentazione di altri elementi dell’affermato e versatile sistema professionale Eos. ❯ Zoom Canon EF 16-35mm f/2,8L II USM: ultragrandangolare e luminoso, assicura un’alta qualità di immagine a qualsiasi apertura del diaframma. ❯ Flash elettronico dedicato Speedlite 580EX II: aggiornamento del precedente Speedlite 580EX, offre un’ottima resistenza agli agenti atmosferici quando è montato sulla reflex Eos-1D Mark III. ❯ Wireless File Transmitter WFT-E2: più piccolo, leggero e versatile della prima versione originaria, questo trasmettitore velocizza i flussi di lavoro consentendo di trasferire le immagini durante lo scatto tramite connessione wireless. ❯ Original Data Security Kit OSK-E3: verifica l’autenticità delle immagini acquisite con la reflex e ne supporta la crittografia come ulteriore misura di sicurezza.
Il luminoso e ampio monitor LCD da tre pollici, con risoluzione di 230.000 pixel, consente un’inquadratura accurata e una visione brillante. Del tutto nuova per la serie Eos, la modalità Live View permette di inquadrare e comporre direttamente sul monitor, senza utilizzare il mirino.
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bili comprendono un’uscita Video per la visualizzazione in formato NTSC e PAL e una porta USB 2.0. Il sistema integrato di pulizia Eos Ics (Integrated Cleaning System), che rimuove la presenza di polvere sul sensore, garantisce ulteriore affidabilità e riduce al minimo la necessità di pulizia manuale. Questo sistema integrato di pulizia svolge tre funzioni essenziali: riduce, respinge e rimuove. In ordine. Riduce: i meccanismi interni della reflex sono progettati in modo da ridurre al minimo la produzione di polvere. Il design del coperchio protettivo del corpo macchina è stato rielaborato al fine di evitare che anche l’usura dello stesso coperchio possa generare polvere. Respinge: sono state applicate tecnologie antistatiche al filtro passa-basso che copre la parte anteriore del sensore, per impedire di attirare la polvere. Rimuove: le vibrazioni ad alta frequenza di cui si avvale Eos Ics scuotono la polvere dal filtro passa-basso per un periodo di circa un secondo circa a ogni accensione dell’apparecchio;
se indesiderata, questa funzione di rimozione automatica può essere disinserita.
SOFTWARE Oltre i consueti Eos Utility, ImageBrowser/Zoom Browser e Photostitch, la reflex digitale di vertice Eos-1D Mark III, da 10,7 Megapixel e prestazioni di efficiente rapidità, è corredata da una completa suite di applicazioni. Tra queste è incluso Digital Photo Professional (DPP), un efficace convertitore di file Raw che garantisce un controllo completo sull’elaborazione delle immagini grezze. DPP si integra ad altre funzioni della reflex, quali Picture Style e Dust Delete Data, in grado di identificare la posizione di eventuali tracce di polvere sul sensore, consentendo di rimuoverle automaticamente dopo lo scatto. Le preselezioni Picture Style semplificano il controllo della qualità dell’immagine attraverso la reflex. Il loro impiego può essere paragonato a quello dei diversi tipi di pellicola, ognuno con una risposta differente nella resa del colore. Nell’ambito di ogni preselezione, si ha il controllo su nitidezza, contrasto, tonalità e saturazione. Le sei preselezioni comprendono: Standard, per immagini nitide e vivaci che non richiedono post-elaborazione; Ritratto, che finalizza i toni e la saturazione, evitando una nitidezza eccessiva e migliorando la tonalità dell’incarnato; Paesaggio, per verdi e blu più incisivi, con una decisa nitidezza che dà enfasi ai bordi delle montagne, agli alberi e agli edifici; Neutro, ideale per la post-elaborazione; Fedele, che regola i colori per adeguarli con quelli del soggetto quando si scatta con una temperatura colore di 5200 kelvin; Monocromatico, per acquisizioni in bianconero con la simulazione degli effetti di una serie di filtri colorati (giallo, arancio, rosso e verde) e viraggi (seppia, blu, porpora e verde). Infine, con l’opzione User Defined Picture Style è possibile salvare fino a tre preselezioni personalizzate o una qualsiasi delle preselezioni scaricabili dal sito www.canon.co.jp/Imaging/picturestyle/file/index.html. (Canon Italia, via Milano 8, 20097 San Donato Milanese MI). Antonio Bordoni
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nal, in via Panisperna 83, a Roma, all’inizio dello scorso 2006). Scatto dopo scatto, le fotografie di Miro Gabriele e Enrico Fontolan si presentano con una personalità doppia, che subito individuiamo e riferiamo. Ogni fotografia è se stessa, nella propria originaria rappresentazione del soggetto specificato (in fondo al libro sono indicati i singoli luoghi, con relativa attribuzione all’autore: ne stiamo per scrivere), così come, allo stesso momento, ogni fotografia è parte del tutto. Cioè, ogni immagine si
Roma fino al mare, di Miro Gabriele e Enrico Fontolan; introduzione di Diego Mormorio; Gangemi Editore, 2006 (piazza San Pantaleo 4, 00186 Roma; 06-6872774; www.gangemi.com); 29,7x21cm; 24,00 euro.
CAMPIDOGLIO (ENRICO FONTOLAN)
bbiamo bisogno di fotografie come queste. Abbiamo bisogno di fotografi come questi. La raccolta Roma fino al mare, pubblicata da Gangemi Editore, riunisce una incessante sequenza di fotografie di Miro Gabriele e Enrico Fontolan, la cui giovane anagrafe esprime anche una benefica freschezza di visione e rappresentazione. Scartando a lato ogni sovrastrato di ulteriori pensieri e significati, che troppo spesso appesantiscono alcune intenzioni della fotografia contemporanea, italiana più che internazionale, i due autori sottolineano e ribadiscono come e quanto l’immagine fotografica sia spesso sufficiente a se stessa e al proprio racconto. E poi, la loro sequenza è altresì confezionata in un numero di visioni concretamente contenuta, che arriva subito allo scopo. Anche per questo, bravi. Con le proprie visioni naturali e dirette, Miro Gabriele e Enrico Fontolan rivelano di non appartenere ad alcuna di quelle scuole di pensiero che imbrigliano l’azione fotografica in proiezioni estranee alla franca comunicazione visiva. Le loro immagini sono esattamente ciò che promettono di essere: un cammino cadenzato, che dalla città si muove verso l’esterno, appunto da Roma fino al mare. Nello specifico, si tratta di un incontro fotografico che fa bene allo spirito di chi, noi tra questi, assegna all’immagine particolari compiti di racconto, che siano subito e soprattutto spartizione equilibrata di intenti tra chi agisce, appunto l’autore fotografo, e chi riceve: l’osservatore, che può sfogliare l’insieme delle immagini, in questo caso raccolte in forma di libro, con un proprio ritmo visivo in confortevole sintonia. (Attenzione, poi, che le stesse immagini sono state anche allestite in mostra, alla Galleria Acta Internatio-
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A SPASSO PER ROMA
VICOLO DEL BOTTINO (MIRO GABRIELE)
In perfetta e pertinente comunione di intenti, Miro Gabriele e Enrico Fontolan hanno compiuto un tragitto fotografico da Roma fino al mare, che è poi il titolo manifesto della raccolta nella quale sono riunite, in successione consequenziale, le loro immagini. Insieme, i due autori esprimono una benefica e fresca fotografia, che raggiunge l’osservatore per linee dirette. Senza cercare altre vie o aggiungere sovrastrati devianti, hanno applicato un linguaggio espressivo esplicito, che accogliamo e registriamo con particolare piacere
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LARGO LAMBERTO LORIA (ENRICO FONTOLAN)
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TORRINO (ENRICO FONTOLAN)
METRO GARBATELLA (ENRICO FONTOLAN)
collega e congiunge direttamente con quelle che la precedono e quelle che, quindi, la seguono lungo il cammino specificato nel titolo, che è didascalico del progetto visivo: dal Campidoglio, proposto anche sulla copertina della monografia, allo Stabilimento balneare di Ostia, che conclude il percorso. Annotando questa particolare personalità, sottolineiamo come ciascuna immagine sia autenticamente fotografia, con tutte le relative componenti dello specifico linguaggio espressivo, da tempo codificato. Così come, tutte insieme, siano a propria
ISPIRAZIONI ulle pagine di Roma fino al mare, la serie di fotografie è preceduta da due ciStazioni d’autore, che riteniamo necessario sottolineare. «La musica, gli stati di felicità, la mitologia, i volti scolpiti dal tempo, certi crepuscoli e certi luoghi, vogliono dirci qualcosa, o qualcosa dissero che non avremmo dovuto perdere, o stanno per dire qualcosa; quest’imminenza di una rivelazione, che non si produce, è, forse, il fatto estetico» (Jorge Luis Borges). «Ti metti la macchina fotografica al collo la mattina mentre infili le scarpe ed eccola lì, un’appendice del tuo corpo, che condivide l’esistenza con te. La macchina fotografica è uno strumento che insegna alla gente come vedere senza la macchina fotografica» (Dorothea Lange).
CASTEL FUSANO, STABILIMENTO (MIRO GABRIELE)
CASTEL FUSANO, STABILIMENTO (MIRO GABRIELE) OSTIA, SPIAGGIA (MIRO GABRIELE)
volta fotografie in coerente combinazione e consecuzione. Immediatamente a seguire, in coincidenza di considerazioni e rilevazioni, va osservato che i due autori hanno agito in pertinente e perfetta ulteriore sintonia espressiva, impedendoci di distinguere le fotografie di uno da quelle dell’altro; e soltanto in chiusura, come appena registrato, arriviamo all’attribuzione ufficiale. Insomma, quello di Miro Gabriele e Enrico Fontolan è un racconto corale, nel quale ciascuno ha portato il proprio specifico contributo, e per armonizzare il quale ciascuno ha altresì ceduto qualcosa all’unione. Anche in questa apprezzata comunione di intenti e stile visivo sta il valore delle fotografie di Roma fino al mare, attraverso la cui successione ciascuno di noi, osservatori attenti e
partecipi, compie il medesimo percorso visivo. Nulla è turistico o cartolinesco; e l’occhio si ferma là dove i due autori hanno indirizzato e puntato le proprie osservazioni, con le quali hanno selezionato una Roma molto personale e particolare, che raggiunge anche la nostra meditazione individuale. È autentica fotografia. È ciò che la fotografia si propone con il proprio linguaggio. È quanto Miro Gabriele e Enrico Fontolan hanno messo abilmente in pratica. Maurizio Rebuzzini
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SGUARDI DALL’ARGENTINA
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Pesarese di nascita, classe 1975, da anni Alberto Giuliani lavora in Argentina, dove l’assolvimento di incarichi professionali si alterna a ricerche personali. In particolare, la sua è una fotografia di reportage che osserva con occhio attento e partecipe ciò che gli sta attorno. Forte di contatti professionali con testate giornalistiche internazionali, attraverso le quali passa anche una crescita individuale, e rafforzato dalla partecipazione al selettivo Joop Swart Masterclass World Press Photo, il qualificato corso ad alto contenuto formativo che svolge a Rotterdam, a cura della World Press Photo Foundation, Alberto Giuliani si indirizza verso identificati aspetti della socialità quotidiana. In coincidenza, sta documentando la vita della classe media, ha interpretato fotograficamente gli effetti della crisi economica che ha investito il paese sudamericano, registra le espressioni del tango, si rivolge alla folta comunità di psicoterapeuti (la più grande al mondo: a Buenos Aires ci sono più psicanalisti che a New York), è affascinato dalla vastità degli spazi e dalle città che, come oasi ingigantite, sorgono nel mezzo di questi vuoti.
A cura di Irma Arestizábal, storica dell’arte, titolare della cattedra di Arte Latinoamericana Contemporanea all’Università di Buenos Aires, curatrice di programmi culturali e attuale Segretario Culturale dell’Istituto Italo-Latino Americano di Ro-
Quando Alberto Giuliani ritrae i paesaggi, la sua opera trasmette una sensazione di ammirazione.
IN GALLERIA
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naugurata lo scorso autunno con la mostra Momenti di cinema. Uno sguardo intimo dietro le scene di Douglas Kirkland (FOTOgraphia, ottobre 2006), la Galleria Cedro26, nell’omonimo vicolo in Trastevere, a Roma, abbina l’allestimento di mostre con l’offerta di due collezioni fotografiche, unite tra loro dall’attenzione allo spazio, ovvero all’ambiente in cui vive l’uomo. Nel concreto, Cedro26 offre accattivanti possibilità di approccio al mondo della fotografia e del collezionismo fotografico. Anche oggetto di arredo, la Collezione Roma è un insieme di immagini sulla città, particolari e vedute d’insieme. Stampate su tela e montate in cornici di legno, le fotografie diventano finestre con vista sulla Roma storica e contemporanea. Tra le altre, via Appia Antica, l’Auditorium di Renzo Piano, San Pietro dal Gianicolo, il Palatino, Castel Sant’Angelo e Ponte Milvio. Ingrandimenti panoramici (da 30x90 a 40x270cm, sia verticali sia orizzontali), visioni in composizione quadrata (da 40x40 a 130x130cm) e inquadrature tradizionali (da 60x80 a 110x160cm). Alcune immagini sono suddivise in diverse tele e possono essere scomposte e ricomposte sulla parete a proprio gusto. Sono opere leggere e facili da trasportare, anche nel caso delle dimensioni maggiori, c’è la possibilità di smontarle e arrotolarle. Invece, la Collezione arte fotografica è fotografia d’autore, pezzo d’arte numerato, frammento della visione fotogiornalistica del mondo: autori fotogiornalisti di livello internazionale, dei quali sono proposte immagini stampate su carta fotografica di alta qualità.
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ma, la selezione Argentina raccoglie il senso e insieme dei reportage di Alberto Giuliani. Alla Galleria Cedro26 di Roma, l’allestimento della mostra ricrea la tipicità abitativa argentina: la dicotomia, lo squilibrio tra l’immensità degli spazi e la densità di popolazione nelle aree urbane. Stampe di grandi dimensioni per i paesaggi e, in formato più piccolo, un numero superiore di immagini di vita quotidiana. Dalla presentazione Paesaggio urbano e paesaggio naturale di Irma Arestizábal: «Da sempre la tematica del paesaggio ha interessato scrittori, pittori, disegnatori, registi e fotografi. Per citare solo alcuni esempi, l’attenzione al contesto urbano compare nel recente Istanbul di Osrahm Pamuk, o nel bel libro di Alejo Carpentier, con fotografie di Paolo Gasparini, Avana, Città delle colonne (1972), in Paris, Texas (1984) e ne Il cielo sopra Berlino (1987) di Wim Wenders. Mentre la pittura romantica, la fotografia di Hiroshi Sugimoto [su questo stesso numero, da pagina 16]
della Patagonia e ne fotografa il silenzio e la solitudine. Quando ritrae i paesaggi, la sua opera ci trasmette una sensazione di ammirazione davanti alla magnificenza della natura e cerca di richiamare la nostra attenzione sulla sua maestosità. «La ricerca di Alberto Giuliani parla della relazione dell’uomo con la diversità delle realtà che lo circondano, dall’ambiente domestico a quello naturale, che qui ci appare come luogo dove riflettiamo e incontriamo i nostri propri pensieri». E su questa lunghezza d’onda ci sintonizziamo. A.G.
«La ricerca di Alberto Giuliani parla della relazione dell’uomo con la diversità delle realtà che lo circondano, dall’ambiente domestico a quello naturale, che qui ci appare come luogo dove riflettiamo e incontriamo i nostri propri pensieri».
o gli scritti di Bruce Chatwin ci servono per ricordare come il paesaggio naturale segni l’uomo. «Alberto Giuliani è un fotografo italiano e per tanto erede di questo serto di civiltà che è l’Italia (Cesare Di Seta su La Repubblica, 29 gennaio 2007). Un paese che si rico-
nosce dal paesaggio che ci circonda e dalle città che viviamo, koiné visiva di un’identità nazionale. Oggi siamo davanti alla sua opera che riflette sulla città argentina a partire dalle sue più nascoste e soggettive osservazioni, o che si lascia afferrare dal paesaggio senza tempo
Alberto Giuliani: Argentina. A cura di Irma Arestizábal; in collaborazione con Ambasciata Argentina in Italia. Galleria Cedro26, vicolo del Cedro 26, 00153 Roma (Trastevere); 06-58335299, anche fax; www.cedro26.it, info@cedro26.it. Dal 21 aprile al 3 giugno; martedì-giovedì 14,00-19,00, venerdì e sabato 14,00-21,30.
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TAGLIA - E - INCOLLA
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Pubblicata in forma di cartolina postale dal 1988, dal francese Parmentier, che ha oggi in catalogo una nuova versione colorata da 2,50 euro (www.pascal-p-parmentier.com), la macchina fotografica che riproduciamo sulla pagina accanto è originariamente proposta in formato 15x21cm. Da ritagliare, prevede un tempo di montaggio di ventotto mi-
nuti. In versione ingrandita, noi ne abbiamo impiegati meno, ma non è questo il problema. Così come sottolineiamo soltanto per dovere di cronaca di aver omesso l’uccellino da ritagliare e montare sulla slitta porta accessori. La reflex così com’è ci è parsa già sufficiente. Ovviamente, la leggerezza della carta con la quale stampiamo la rivista non è adatta all’operazione, per cui consigliamo di fotocopiare la figura su un cartoncino di altra consistenza, piuttosto che di acquisire a scanner l’immagine, per poi stamparla su carta di buona grammatura, capace di resistere al taglio e alle piegature. L’operazione è semplice e consequenziale. La sequenza dei numeri dovrebbe o potrebbe guidare l’azione. Da “1” a “4” si piegano all’interno le relative linguette della parte inferiore destra della (futura) reflex, e poi si fa lo stesso con i tre “5” della corrispondente parte superiore destra. Quindi, si ripete la
Il produttore francese Parmentier, da cui l’identificazione reflex “Parmentax”, teorizza un tempo di montaggio di ventotto minuti. Noi ne abbiamo impiegati di meno. In tutti i casi è opportuna la riproduzione su carta di buona grammatura della sagoma pubblicata qui accanto. Attenzione: nonostante la sequenza che sintetizziamo nel testo, per il montaggio è meglio procedere a istinto.
sequenza con le combinazioni delle parti inferiore e superiore di sinistra, delle cifre da “6” a “9” e triplo “10”, avendo altresì cura di piegare all’interno le rispettive sagomature del corpo macchina. A questo punto, le linguette esterne “11” si avvicinano a “12” e “13”, che posizionano l’obiettivo. Proseguendo con i tripli “14” e “15”, si prepara la chiusura “16” dell’obiettivo, che si colloca nelle corrispondenti chiusure dei “17”. Manca il “18” (perché?), ma la sequenza “19” conclude la montatura frontale dell’obiettivo, prima di sistemare le “A” del treppiedi. Ma non è proprio vero. Perché è meglio fare come si crede. Da quanto scritto non capiamo nulla neppure noi, ma in qualche modo abbiamo giustificato i numeri di contorno. Personalmente, ci siamo lasciati guidare dall’istinto: volendo montare questa reflex su treppiedi, a ciascuno il proprio (istinto, sempre). Ovviamente è un gioco, un relax, tanto per continuare a osservare le manifestazioni parallele della fotografia, nel cui ambito questo taglia-e-incolla occupa una propria posizione. Magari, non di rilievo, ma pur sempre posizione. A.Bor.
el consistente ambito delle possibili distinzioni e identificazioni del diversificato mercato delle compatte digitali, che possono essere scomposte per molteplici categorie di appartenenza, la nuova Ricoh Caplio R6 si iscrive simultaneamente a quelle dell’ampia escursione zoom, con avvio dalla visione grandangolare 28mm (angolo di campo della fotografia 24x36mm, riferimento d’obbligo), e del raffinato design: elegante utilizzo di metallo e avvolgenti linee curve, in una combinazione di forma e materiali che trasmettono un apprezzato senso di robustezza e una migliore sensazione al tatto (nelle finiture nero, argento e rosso). Immediatamente a seguire, si segnalano prestazioni fotografiche di spicco, a partire dalla funzione di correzione automatica del micromosso involontario, con accomodamento del sensore CCD di acquisizione, che garantisce una conveniente nitidezza delle riprese. La variazione focale 7,1x da 28 a 200mm, sempre in equivalenza alla fotografia 24x 36mm, si combina con la risoluzione di 7,2 Megapixel del sensore di acquisizione digitale di immagini, a propria volta estesa fino alla sensibilità di 1600 Iso equivalenti a selezio-
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FORMA E In un corpo macchina estremamente sottile, tanto da vantare un primato assoluto (20,6mm di spessore per 135 grammi di peso), la compatta digitale Ricoh Caplio R6 riunisce prestazioni fotografiche di taglio alto, a partire dall’escursione 7,1x dello zoom, estesa da 28 a 200mm (equivalenti). Non mancano, poi, diffuse funzioni di impiego indirizzate ai migliori risultati fotografici
ne automatica. La gestione delle immagini ad alta qualità e la produzione di immagini con un basso livello di disturbo vengono ottenute attraverso un motore proprietario di elaborazione delle immagini, che opera ad alta velocità. Immediatamente a seguire, va annotato che lo slot per schede di memoria SD, attualmente disponibili fino all’autonomia di 2Gb (e fino a 4Gb nella versione SDHC), fa il paio con una capace memoria in-
terna, portata a 54Mb, che consentono un’autonomia fino a trentaquattro acquisizioni da 7Mb ciascuna.
IN RIPRESA Operativamente, lo zoom 28200mm f/3,3-5,2 (equivalente; 4,6-33mm nominale) vanta la progettazione ottica Double Retracting Lens System: tecnologia proprietaria che ha consentito di miniaturizzare tutti i componenti e dotare la Ri-
coh Caplio R6 di un obiettivo efficacemente retrattile di ingombro minimo, coordinato con le ridotte dimensioni del corpo macchina (20,6mm di spessore). Il tutto, offrendo comunque una variazione di inquadratura dall’ampia visione grandangolare all’efficace avvicinamento tele. In aggiunta, l’ulteriore moltiplicazione zoom digitale 4,8x porta a 34,1x l’ingrandimento massimo, per una equivalenza pari al raggiungimento della focale 960mm della fotografia 24x36mm. Nell’immancabile modalità macro, la messa a fuoco automatica si accomoda da un solo centimetro dall’obiettivo, in inquadratura grandangolare, che corrisponde a una osservazione estremamente dettagliata di soggetti ravvicinati di piccole dimensioni. In posizione tele, la messa a fuoco macro parte da venticinque centimetri. In condizioni standard, la messa a fuoco automatica si avvia a trenta centimetri e un metro, rispettivamente agli estremi grandangolare e tele dell’escursione zoom. Ormai consuete, le funzioni dedicate aggiuntive dell’immagine: Ritratto, Sport, Paesaggio, Fotografia notturna, Alta sensibilità, Bianconero, Seppia, Testo (3072x2304 pixel o 2048x1536 pixel) e Video (640x480 pixel, 320x240 pixel o 160x120 pixel). Queste si abbinano con la nuova modalità di riconoscimento dei volti, che finalizza l’identificazione automatica dei volti appunto presenti nell’inquadratura alla loro distinzione dall’insieme del soggetto complessivo, per regolare, a conseguenza, impostazioni ottimali per l’acquisizione digitale. Oltre il tempo rapido di risposta, con attivazione dello
CONTENUTO scatto in soli 0,011 secondi, le modalità di registrazione delle immagini sono molteplici, per adattarsi alle diverse esigenze possibili: F (Fine) e N (Normale) da 3072x2304 pixel a 640x 480 pixel. In particolare, la modalità di registrazione in doppio formato consente di registrare contemporaneamente due file con un’unica ripresa. È così possibile scegliere tra le risoluzioni da un Megapixel, VGA, HVGA o QVGA per il formato ridotto; quest’ultimo è indirizzato all’uso dell’immagine in Rete, in allegato alla posta elettronica o inserita in un blog.
IN GESTIONE Per estendere la propria autonomia di utilizzo, la Ricoh Ca-
plio R6 è dotata di una sottile batteria ricaricabile di lunga durata, per circa trecentotrenta acquisizioni digitali, in riferimento agli standard Cipa. In aggiunta, la durata prolungata delle stesse batterie si basa su consistenti funzioni di risparmio energetico. Anche l’ampio monitor da 2,7 pollici TLF LCD da 230.000 pixel, ad elevato angolo di visualizzazione, non compromette l’alimentazione elettrica dell’apparecchio, pur offrendosi come auspicabile centro comandi attivo e passivo. In particolare, una nuova funzione ad anteprima rapida consente di ingrandire l’immagine di ben sedici volte, con un semplice tocco di un pulsante:
in questo modo è possibile verificare immediatamente che la ripresa effettuata sia perfettamente a fuoco e nitida. Quindi, durante la riproduzione è possibile saltare di dieci immagini in avanti o indietro, per individuare rapidamente l’immagine ricercata all’interno di una quantità considerevole di fotografie acquisite. Ancora, si segnala l’opportunità della nuova funzione di recupero file, che permette di ripristinare i file cancellati per errore. Quindi, per evitare fotografie con distribuzione luminosa squilibrata, è stata aggiunta una nuova funzione per evitare la saturazione del bianco, che nell’anteprima rapida e nella riproduzione evidenzia
e fa lampeggiare le aree con elevati valori di luminosità. Infine, la Ricoh Caplio R6 conferma la funzione di correzione delle distorsioni. In base alla composizione al momento della ripresa, un algoritmo proprietario rileva automaticamente le forme trapezoidali nelle immagini e le corregge in rettangoli. Questa funzione della compatta digitale risulta particolarmente efficace nelle condizioni ambientali nelle quali non è possibile inquadrare frontalmente soggetti rettangolari che sarebbe opportuno restituire nella propria geometria originaria. (Mamiya Trading, via Cesare Pavese 31, 20090 Opera Zerbo MI). Antonio Bordoni
WALTER ROSENBLUM
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Accompagnata da una proiezione di sue fotografie, a metà dello scorso gennaio, a un anno dalla scomparsa dello statunitense Walter Rosenblum, nella Sala Paladin di Palazzo Moroni di Padova ha avuto luogo una conversazione-incontro per ricordare la figura del grande maestro newyorkese. Nell’occasione sono intervenuti il fotografo Giovanni Umicini, intimo amico di Walter Rosenblum, Enrico Gusella, responsabile Centro Nazionale di Fotografia di Padova, e i componenti del gruppo fotografico Mignon, le cui ricerche visive si richiamano esplicitamente alle lezioni e teorie della sua scuola di pensiero. Per oltre mezzo secolo, Walter Rosenblum (Primo ottobre 1919 23 gennaio 2006) è stato una figura di rilievo per la storia evolutiva del linguaggio della fotografia, non solo degli Stati Uniti, ma nel mondo. È stato testimone attivo di alcuni dei più significativi eventi dell’età moderna e, durante gli anni giovanili, sperimentò personalmente le condizioni degli immigrati in America; visse la grande Depressione, la Seconda guerra mondiale e la repressione del maccartismo. In tempi più recenti, ha potuto osservare il mutarsi delle condizioni di vita delle minoranze di New York e la crescita di una consapevolezza politica ed estetica nel Terzo Mondo. Walter Rosenblum usò occhi e apparecchio fotografico per cercare di capire il corso delle vicende umane e celebrare i sentimenti degli uomini. All’età di diciassette anni entrò a far parte della Photo League di New York, dove incontrò Lewis Hine, e studiò con Paul Strand: due personalità fotografiche che contribuirono in modo fondamentale alla formazione della sua visione sull’arte e sulla vita. In particolare, con Lewis Hine condivise la convinzione che con la fotografia fosse possibile dimostrare che la dignità è un sentimento universale e che non si possono fare differenze tra gli uomini in base alla razza, alle religioni, alla naziona-
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Bambina in altalena, New York, 1938.
lità o alle condizioni economiche. Fotografo dell’esercito statunitense nel corso della Seconda guerra mondiale, sbarcò in Normandia il 6 giugno 1944 (D-Day). Per la morte di un cineoperatore nel corso dello stesso sbarco degli alleati, ne dovette prendere il posto per i restanti mesi del conflitto, attraversando così Francia, Germania e Austria; tra tanto materiale girato, realizzò il primo film sul campo di concentramento di Dachau, nei pressi di Monaco di Baviera, appena liberato. Per le coraggiose azioni svolte durante i combattimenti fu insignito della Silver Star, della Bronze Star, del Purple Heart e ottenne la Unit Citation presidenziale, divenendo uno dei fotografi più decorati della Seconda guerra mondiale. Nel proprio percorso professionale, Walter Rosenblum non mancò di fotografare i quartieri dove vivevano gli immigrati di New York e del South Bronx, con gli insediamenti della nuova immigrazione; in seguito si spinse anche ad Haiti, Francia, Italia, Cuba, Cina, nell’Unione Sovietica e in Brasile. Da quest’immensa ricchezza di esperienze e dal pro-
lungato rapporto con le diverse culture, la sua visione fotografica divenne testimone della condizione umana come di una comunità globale nella quale i bisogni fondamentali, i valori e le aspirazioni esistenziali sono universalmente condivisi. Con i propri soggetti, mai semplici vittime, ma persone integre e complesse, la cui umanità sopravvive intatta malgrado le circostanze avverse, Walter Rosenblum sottolineò la dignità dell’essere umano. La sua macchina fotografica fu strumento affinché gli uomini si potessero riconoscere nelle proprie azioni e comportamenti, nella speranza che la comprensione delle dinamiche interpersonali potesse estinguere ignoranza e paura e le principali cause di tante ingiustizie sociali. Le opere di Walter Rosenblum sono conservate in prestigiose collezioni pubbliche, quali il J. Paul Getty Museum di Malibù (Los Angeles), la Library of Congress di Washington, il Museum of Modern Art (MoMA), il Metropolitan Museum of Art e l’International Center of Photography (ICP) di New York e la Bibliothèque Nationale de France (BnF) di Parigi. A.G.
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