FOTOgraphia 132 giugno 2007

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ANNO XIV - NUMERO 132 - GIUGNO 2007

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Tpw 2007 CORSI FOTOGRAFICI DI ALTO PROFILO

FinePix S5 Pro IMPERIOSAMENTE FUJI

Riflessione LIFE PER NOI

SGT. PEPPER


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RITROVAMENTO. Generalmente, le buone notizie sono rare: preziose, vanno centellinate. Così che la vendita all’asta di un apparecchio fotografico delle origini ha sollecitato consecuzioni distribuite su diverse pagine della rivista: qui riferiamo i dettagli; mentre in Editoriale traiamo spunto per ulteriori analisi (a pagina 7), e da pagina 18 ricordiamo l’anastatica della traduzione italiana del manuale di Daguerre, la Descrizione pratica del nuovo istromento chiamato il daguerrotipo che accompagnava gli apparecchi originari venduti dall’estate 1839 (quello di François Simon Alphonse Giroux, celebrato in tutte le Storie, e quello dei Susse Frères, appunto tornato alla recentemente alla luce). Questo apparecchio per dagherrotipia, costruito a Parigi dai Susse Frères (fratelli Susse), e commercializzato dai giorni immediatamente precedenti la presentazione ufficiale del procedimento (diciannove agosto), è stato venduto dalla Galleria Westlich di Vienna a fine maggio, in una sessione d’asta via Internet. Come rileviamo in Editoriale, fino a oggi le Storie hanno celebrato e conteggiato soltanto l’apparecchio prodotto da François Simon Alphonse Giroux, parente di Daguerre. Ora, questo ritrovamento colma un vuoto delle origini. Evviva! L’apparecchio per dagherrotipia dei Susse Frères è in tutto e per tutto identico a quello di Giroux, i cui dettagli riportiamo nell’articolo pubblicato da pagina 18. Il suo valore dipende dall’essere un pezzo unico, mentre di quello di Giroux ne sono noti almeno una dozzina di esemplari, conservati in musei internazionali. Tanto che, dal prezzo di partenza di centomila euro, in asta le offerte sono salite rapidamente, fino all’aggiudicazione a 588.613,00 euro. Così come è stata raccontata, la storia di questo apparecchio è curiosa. Di proprietà del professor Max Seddig (1877-1963), direttore dell’Institut für Angewandte Physik della Johann Wolfgang Goethe Universität di Frankfurt am Main, l’apparecchio fu regalato al suo assistente Günter Haase, successivamente docente universitario. Dimenticato nella soffitta di un appartamento di Monaco, alla sua morte (20 febbraio 2006, all’età di ottantotto anni) è stato scoperto dal figlio, professor Wolfgang, che si è fortunatamente rivolto a una galleria competente. Altrimenti, avrebbe potuto essere anche distrutto, privando così la Storia della tangibile testimonianza di qualcosa che si sapeva essere esistito, senza però averne alcuna prova concreta.

Ci sono istanti nei quali segnamo battute di arresto. Nessun’altro se ne accorge. Per qualche secondo, ci ritroviamo in un altro tempo e un altro spazio. Nostro.

Copertina Nel quarantesimo anniversario dell’uscita dell’album Sgt. Pepper’s Lonely Hearts Club Band dei Beatles (estate 1967-2007) non ne rievochiamo tanto l’aspetto musicale, quanto la confezione della copertina, che all’epoca fece scalpore: collage di personaggi della cultura pop del tempo. Ne riferiamo da pagina 9

3 Fumetto Nell’attualità di una gradita statuina di conio recente (da pagina 24), collegamento con la partecipazione di Timothy H. O’Sullivan, protagonista della fotografia dell’Ottocento, a una avventura di Tex Willer. Dettaglio da una vignetta di una seconda presenza di Timothy H. O’Sullivan negli albi di Tex: da La vendetta di Tiger Jack (numero 289; novembre 1984 e ristampe nel 1988 e 1999)

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7 Editoriale Nel proprio insieme, le Storie della fotografia registrano colpevoli assenze, condizionate da visioni geopolitiche (occidentali) e parzialità volontarie. A conseguenza, si deve far tesoro della combinazione tra storie minori, ognuna delle quali contribuisce al racconto globale

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9 La banda del Sgt. Pepper Quella che è considerata sia la più significativa raccolta dei Beatles, sia la loro migliore performance in sala di registrazione compie quarant’anni: estate 1967-2007. Rievochiamo i fasti di una copertina particolare e inconsueta, ricca di citazioni e richiami (svelati)

12 Notizie Attrezzature, vicende e altre segnalazioni

14 Reportage 9

Appunti e attualità del fotogiornalismo internazionale A cura di Lello Piazza

18 Alle origini (ancora) Torniamo sull’anastatica del manuale di Daguerre

20 Sardegna nei decenni 62

Selezione dal capace archivio di Gianni Berengo Gardin. Immagini del passato, accompagnate da scatti in attualità: appunto, Reportage in Sardegna 1968_2006


. GIUGNO 2007

RRIFLESSIONI IFLESSIONI,, OSSERVAZIONI OSSERVAZIONI EE COMMENTI COMMENTI SULLA SULLA FFOTOGRAFIA OTOGRAFIA

24 Di nuovo O’Sullivan

Anno XIV - numero 132 - 5,70 euro

Segnaliamo una pubblicazione Hachette dello scorso settembre 2006, che ha abbinato la statuina di Timothy H. O’Sullivan alla sua storiografia di Tex, leggendario fumetto italiano. Questa edizione richiama la presenza del celebre fotografo dell’Ottocento in una (anzi due) avventure di Tex Willer, che ricordiamo Ricerca iconografica di Filippo Rebuzzini

DIRETTORE

RESPONSABILE

Maurizio Rebuzzini

IMPAGINAZIONE Gianluca Gigante

REDAZIONE Angelo Galantini

FOTOGRAFIE Rouge

SEGRETERIA

30 Life per noi La nostra vita fotografica con (e senza) Life. Riflessione sulle edizioni successive: il fotogiornalismo del settimanale originario (1936-1972) e il giornalismo del mensile (1978-2000): a ciascuno, il suo (ricordo) di Maurizio Rebuzzini Ricerca iconografica di Ciro Rebuzzini

Maddalena Fasoli

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38 Pittura e fotografia In combinazione visiva, dipinti di Georgia O’Keeffe e suoi ritratti realizzati da John Loengard quarant’anni fa. Pensiamo al valore della fotografia, che si edifica sull’immancabile e inviolabile scorrere del tempo

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43 Con autentici maestri

COLLABORATO

Pino Bertelli Antonio Bordoni Maria Teresa Ferrario Massimiliano Mariello Loredana Patti Lello Piazza Franco Sergio Rebosio Ciro Rebuzzini Filippo Rebuzzini Luigi Tazzari Zebra for You Redazione, Amministrazione, Abbonamenti: Graphia srl, via Zuretti 2a, 20125 Milano; 02-66713604, fax 02-66981643; graphia@tin.it. ● FOTOgraphia è venduta in abbonamento.

Programma didattico del Toscana Photographic Workshop: ventotto corsi estivi con docenti di statura internazionale di Angelo Galantini

● FOTOgraphia è una pubblicazione mensile di Graphia srl, via Zuretti 2a, 20125 Milano. Registrazione del Tribunale di Milano numero 174 del Primo aprile 1994. Poste Italiane SpA - Spedizione in abbonamento postale - D.L. 353/2003 (convertito in Legge il 27-02-2004, numero 46), articolo 1, comma 1 - DCB Milano.

50 Fronte del porto

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L’avvincente serie Lat. 44° 29’ Nord / Long. 12° 17’ Est di Luigi Tazzari non si limita all’apparenza del soggetto

55 Frammenti di memoria

HANNO

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La Galleria Civica di Modena presenta Skin of the Nation, unica tappa italiana dell’itinerario internazionale della mostra di Shomei Tomatsu. Straordinaria esperienza visiva che induce a fermarsi e riflettere

● FOTOgraphia Abbonamento 12 numeri 57,00 euro. Abbonamento annuale per l’estero, via ordinaria 114,00 euro; via aerea: Europa 125,00 euro, America, Asia, Africa 180,00 euro, gli altri paesi 200,00 euro. Versamenti: assegno bancario non trasferibile intestato a Graphia srl Milano; vaglia postale a Graphia srl - PT Milano Isola; su Ccp n. 28219202 intestato a Graphia srl, via Zuretti 2a, 20125 Milano; addebiti su carte di credito CartaSì, Visa, MasterCard. ● Nessuna maggiorazione è applicata per i numeri arretrati. ● È consentita la riproduzione di testi e fotografie, magari citando la fonte (ma non è indispensabile, né obbligatorio farlo). ● Manoscritti e fotografie non richiesti non saranno restituiti; l’Editore non è responsabile di eventuali danneggiamenti o smarrimenti.

60 La fine del mondo Alla fondazione Mudima di Milano, selezione di opere fotografiche con le quali Saverio Chiappalone avvicina una più complessa sensibilità concettuale

Fotocomposizione DTP e selezioni litografiche: Rouge, Milano Stampa: Arti Grafiche Salea, Milano

Rivista associata a TIPA

62 Imperiosamente Fuji FinePix S5 Pro: l’impegno Fuji nella ripresa professionale di Antonio Bordoni

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64 Leni Riefenstahl Sguardi su la bella maledetta in camicia bruna di Pino Bertelli

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icuramente esiste la storia della fotografia. In reciproca influenza, è scandita dalle consecuzioni del linguaggio espressivo e dall’evoluzione tecnologica di materiali e strumenti. Altrettanto certamente, possiamo affermare che, però, non esiste alcuna “storia” narrata autenticamente tale, completa ed esaustiva. Per lo più, all’interno di una ricca bibliografia, si registrano e annotano parzialità di sostanza, quantomeno geopolitiche, di pensiero e visione: comunque sia, parzialità rivolte al solo mondo occidentale, con relative colpevoli esclusioni (per esempio della fotografia giapponese, che in Italia sta presentando in questi giorni una fantastica selezione del contemporaneo Shomei Tomatsu, alla Galleria Civica di Modena fino al ventidue luglio; su questo stesso numero, da pagina 55). In generale, le Storie della fotografia non considerano mai le esperienze maturate all’esterno dell’emisfero occidentale, frettolosamente licenziate come ininfluenti sul processo globale dell’evoluzione del linguaggio fotografico (ma sarà poi vero?). Tali e quali, anche le Storie tecniche sono altrettanto frazionate, fino a risultare perfino ingiuste. In generale, partono da collezioni private e raccontano su questa base, compromessa da amabili assenze. Quindi, poche retrospettive si allungano ai materiali sensibili, accessori, obiettivi e sistemi di stampa, altrettanto discriminanti nel percorso storico-evolutivo. Ogni tanto, accadono fatti imprevisti, che permettono di colmare lacune e ricucire fili dispersi. Uno è di stretta attualità. A fine maggio, in una sessione d’asta in Rete è stato aggiudicato un apparecchio per dagherrotipia costruito nell’estate 1839 dai Susse Frères di Parigi (fratelli Susse), in sintonia e accordo con i princìpi tecnici del procedimento di Louis Jacques Mandé Daguerre, che l’accademico Dominique François Jean Arago rese pubblico il diciannove agosto, sette mesi dopo la presentazione ufficiale all’Accademia di Francia (sette gennaio). Ribadiamo: in nessuna Storia della fotografia abbiamo letto di questa produzione, che pure conoscevamo, perché fino a ieri l’altro nessuno degli apparecchi dei Susse Frères (anche abili dagherrotipisti) era sopravvissuto al tempo. Si conoscono almeno una dozzina di identici apparecchi realizzati da François Simon Alphonse Giroux, parente di Daguerre, commercializzati dal dieci agosto. Ma, prima di questo ritrovamento e vendita, nessun Susse Frères: dobbiamo riscrivere, o quantomeno aggiornare le Storie? Sarebbe il caso. In Fotografia, qualcosa di analogo è già successo all’indomani del ritrovamento di Helmut Gernsheim della lastra esposta da Joseph Nicéphore Niépce nel 1826 (o 1827), che dal 1952 conteggiamo come la prima fotografia in assoluto. Allora, una considerazione si fa strada. Quella secondo la quale una sorta di Storia globale possa nascere dall’assimilazione di piccole storie singole: ruscelli che portano la propria acqua all’oceano. Da parte nostra, tra cronaca e riflessione, ogni mese cerchiamo di raccontarne qualcuna. Maurizio Rebuzzini

S

In assenza di esemplari sopravvissuti al tempo, l’apparecchio per dagherrotipia dei Susse Frères di Parigi (fratelli Susse, 31 place de la Bourse), commercializzato nell’agosto 1839, dieci giorni prima (?) della relazione di Dominique François Jean Arago del diciannove agosto, è stato ignorato dalle storiografie. Dopo il ritrovamento a Monaco di un esemplare, e la relativa vendita all’asta per 558.613,00 euro, da fine maggio si possono aggiornare le cronologie. Si tratta di un apparecchio assolutamente allineato con quello di ufficiale di François Simon Alphonse Giroux, parente di Daguerre, per dagherrotipi full plate 16,4x21,6cm.

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al centro

della fotografia

tra attrezzature, immagini e opinioni. nostre e vostre.


LA BANDA DEL SGT. PEPPER

P

Pubblicato in Inghilterra il Primo giugno 1967, l’album dei Beatles Sgt. Pepper’s Lonely Hearts Club Band (ai tempi si diceva long playing, per distinguere i trentatré giri dai quarantacinque) arrivò in Italia a cavallo tra luglio e agosto: quindi, ricorre il quarantesimo anniversario delle due date, appunto estate 1967-2007. Musicalmente, rappresentò una novità assoluta. Non una semplice raccolta di motivi, come spesso veniva fatto (e viene ancora fatto), ma un insieme senza soluzione di continuità dall’inizio alla fine. Sulle due facciate del disco, le singole canzoni sono unite da brusii di folla, note di strumenti ad arco, piccoli giochi vocali, rumori di sottofondo, messaggi cifrati, effetti orchestrali, chiasso da pollaio. Siamo nel periodo nel quale andavano di moda le uniformi militari, indossate con estrema disinvoltura e senza alcun ritegno (momenti grotteschi, dei quali molti debbono vergognarsi, soprattutto dal mondo dello spettacolo). In particolare, a Londra ebbero grande successo commerciale i negozi che vendeva-

no oggetti e divise dell’epoca vittoriana, e tra i tanti il più noto fu l’eccentrico I Was Lord Kitchener’s Valet (Sono stato il cameriere di Lord Kitchener), dove anche i quattro Beatles si servivano. Giocoforza che Paul McCartney, sempre attento agli umori del pubblico, abbia allora pensato a qualcosa di musicale da abbinare a questo interesse. Nacque così il motivo Sergeant Pepper’s Lonely Hearts Club Band, ovvero la banda del club dei cuori solitari del sergente Pepper.

Realizzata dagli artisti pop Peter Blake e Jan Haworth, la copertina di Sgt. Pepper’s Lonely Hearts Club Band presenta una nutrita serie di personaggi della pseudo cultura del tempo. Alla successiva pagina dieci, riportiamo una decifrazione attendibile.

BEATLES RITROVATI Il produttore George Martin, al quale va attribuito il grande merito del successo dei Beatles, ricorda la canzone di Paul McCartney: «Era del tutto normale, non particolarmente brillante. Quando finimmo, Paul disse: “Perché non costruiamo un album come se l’orchestra di Pepper esistesse realmente, come se fosse proprio il sergente Pepper a fare il disco? Possiamo creare effetti e oggetti”. Da quel momento fu come se il sergente Pepper avesse una sua vita propria» (da Shout! La

vera storia dei Beatles, di Phil Norman, Mondadori, 1981). Nella memoria dei protagonisti di quei momenti rimane la sensazione che all’inizio tutto fu soprattutto un gioco: le canzoni stesse e la ricerca dei rumori di collegamento tra i diversi motivi. Poi, in ognuno crebbe la sensazione di lavorare attorno la creazione di un capolavoro musicale. Con antiquati strumenti di registrazione, George Martin e i suoi tecnici si impegnarono a conciliare l’infinità di nuove idee partorite dai Beatles, che avevano da poco scoperto l’Lsd, il potente allucinogeno, e con questo avevano riscoperto il gusto di stare assieme. Tanto che, per molti critici della musica Sergeant Pepper è sia la più significativa raccolta dei Beatles, sia la loro migliore performance in sala di registrazione (altro discorso, di diverso spessore per il precedente Revolver, del 1966, e successivo “White Album”, del 1968). In ogni caso, con il senno di poi, annotiamo che questo rinnovato entusiasmo rappresentò anche l’inizio della loro fine. All’epoca, da un anno i Beatles avevano abbandonato le esibizioni dal vivo per mancanza di feeling con il pubblico, oltre che per contenere i propri guadagni e le conseguenti ingenti tasse. Inoltre, da molto si era esaurita l’amicizia originaria. In particolare, in quel 1967 divenne evidente l’acceso antagonismo musicale tra Paul Mc Cartney e John Lennon, in competizione per la leadership del gruppo. In quei giorni, Paul McCartney non riuscì ad eguagliare l’originalità creativa di John Lennon, che firmò i motivi migliori dell’album: Lucy in the sky with diamonds (per il quale si è sempre esplicitamente parlato degli

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influssi dell’Lsd, palesemente identificato anche nell’acronimo del titolo) e A day in the life.

IMMAGINE

All’interno della copertina originaria di Sgt. Pepper’s Lonely Hearts Club Band si trova un cartonato della serie “paper dolls”,

da ritagliare e sagomare: baffi, gradi militari e fregi per confezionare un abbigliamento in sintonia con l’ipotesi del leggendario sergente.

Oltre il fatto musicale, per se stesso significativo, Sgt. Pepper’s Lonely Hearts Club Band fece scalpore anche per l’insolita copertina: considerata la prima confezione spettacolare, che diede avvio a una stagione. I Beatles introdurrono se stessi nei panni della banda del sergente Pepper, appunto inguainati in altisonanti e colorate divise militari d’epoca. Magari anche più della musica, e prima di averla ascoltata, questa/quella copertina rispecchiò perfettamente la propria epoca. Gli artisti pop Peter Blake e Jan Haworth furono incaricati della sua impostazione grafica, per la quale furono espressamente esortati a non curarsi delle convenzioni. Nella coloratissima composizione, i Beatles reggono strumenti bandistici e vestono uniformi di raso giallo (John Lennon), fucsia (Ringo Starr), azzurro (Paul McCartney) e scarlatto (George Harrison). Per l’occasione, e per interpretare al meglio i personaggi, i quattro si fecero crescere i baffi. Da qui inizia, quindi, il gioco delle citazioni. Davanti alla finta solennità dei Beatles è composta una scritta con fiori, che sopravanza di poco un giardino di piante di marijuana. I

SGT. PEPPER’S WHO’S WHO all’alto e da sinistra i personaggi raffigurati sulla copertina di Sgt. Pepper’s Hearts Club Band, album dei Beatles del quale ricorre il quarantesiDmo Lonely anniversario: estate 1967-2007. A contorno, soprattutto alla base, si aggiungono statue (tra cui una dall’abitazione di John Lennon), suppellettili varie, oggetti di complemento e gnomi da giardino. Comunque, rimaniamo ai personaggi, riprendendo e proponendo una delle decifrazioni più attendibili; altri elenchi sono marginalmente diversi. Sri Yukestawar Giri (guru); Aleister Crowley (noto per i propri eccessi sessuali, nell’uso di droghe e nella frequentazione della magia); Mae West (attrice); Lenny Bruce (cabarettista); Karlheinz Stockhausen (compositore); William Claude Fields (attore); Carl Gustav Jung (psicologo); Edgar Allan Poe (scrittore); Fred Astaire (attore); Richard Merkin (artista); illustrazione di Alberto Vargas; [nel posto vuoto avrebbe dovuto essere raffigurato l’attore Leo Gorcey, che però chiese un compenso, e non venne accontentato]; Huntz Hall (attore, in coppia con Leo Gorcey nel film The Bowery Boys, del 1954); Simon Rodia (architetto, creatore delle Watts Towers di Los Angeles); Bob Dylan (musicista); Aubrey Beardsley (pittore e illustratore); Sir Robert Peel; Aldous Huxley (scrittore); Dylan Thomas (poeta); Terry Southern (scrittore); Dion (di Mucci; cantante); Tony Curtis

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(attore); Wallace Berman (attore); Tommy Handley (attore); Marilyn Monroe (attrice); William Burroughs (scrittore); Sri Mahavatara Babaji (guru); Stan Laurel (attore); Richard Lindner (scrittore); Oliver Hardy (attore); Karl Marx (filosofo); H.G. Wells (Herbert George; scrittore); Sri Paramahansa Yoganandu (guru); statua in cera; Stuart Sutcliffe (ex Beatle); statua in cera; Max Miller (attore); illustrazione di George Petty; Marlon Brando (attore); Tom Mix (attore); Oscar Wilde (scrittore); Tyrone Power (attore); Larry Bell (artista); Dottor David Livingstone (missionario ed esploratore); Johnny Weismuller (nuotatore e attore); Stephen Crane (scrittore); Issy Bonn (attore); George Bernhard Shaw (scrittore); H.C. Westermann (Horace Clifford; scultore); Albert Stubbins (calciatore); Sri Lahiri Mahasaya (guru); Lewis Carrol (scrittore); T.E. Lawrence (Thomas Edward; militare; Lawrence d’Arabia); Sonny Liston (pugile); illustrazione di George Petty; George Harrison (statua in cera); John Lennon (statua in cera); Shirley Temple (attrice); Ringo Starr (statua in cera); Paul McCartney (statua in cera); Albert Einstein (fisico e filosofo); John Lennon (con corno francese); Ringo Starr (con tromba); Paul McCartney (con oboe); George Harrison (con flauto); Bobby Breen (cantante); Marlene Dietrich (attrice); Mohandas Karamchand Gandhi (leader indiano); Legionario; Diana Dors (attrice); Shirley Temple (attrice).


quattro sono inquadrati in mezzo a un collage di figure che rappresentano numerosi eroi del pseudo culto della cultura pop del tempo. Con balzi arditi e in perfetta fusione (di intenti), da Karl Marx si arriva a Bob Dylan, da Edgar Allan Poe a Marlon Brando. Non mancano, ancora, spiritosaggini private: come le statue in cera del museo di Madame Tussaud del pugile Sonny Liston, di George Bernard Shaw e degli stessi Beatles in versione originaria 1961. Da segnalare anche la bambola sul cui abito campeggia la scritta Welcome The Rolling Stones (gli antagonisti londinesi di sempre).

RICONOSCIMENTI Ai propri tempi, quarant’anni fa, la copertina destò scalpore, e tra il pubblico iniziò il gioco del riconoscimento dei singoli personaggi che accompagnavano i Beatles. Alcuni volti erano (sono) noti anche al grande pubblico, invece altri era-

no (sono) conosciuti soltanto in una ristretta cerchia di persone. Tra i volti pubblicamente poco noti, i conoscitori della storia del gruppo (oggi diciamo “band”, ieri l’altro “complesso”) apprezzano la presenza di Stuart Sutcliffe, il quinto Beatles degli anni di Amburgo (1960) e dei primi provini discografici. Stuart Sutcliffe, che si separò dagli amici per restare in Germania, per vivere con Astrid Kirchherr, giovane assistente del grande fotografo tedesco Reinnhart Wolf, morì prima dell’esplosione del fenomeno Beatles e del relativo incontrastato successo internazionale (attenzione, questa storia è raccontata a margine del film Backbeat - Tutti hanno bisogno di amore, di Iain Softley; Gran Bretagna e Germania, 1994). L’assemblaggio del collage per la copertina di Sgt. Pepper’s Lonely Hearts Club Band non fu né semplice né lineare. I dirigenti della casa

Con l’occasione, e a margine della rievocazione dei quarant’anni dalla pubblicazione di Sgt. Pepper’s Lonely Hearts Club Band, ricordiamo che è ancora in corso l’annosa disputa tra i Beatles e Steve Jobs in relazione al marchio e logotipo della mela (Apple), che dalla metà degli anni Sessanta identifica la società commerciale degli stessi Beatles.

discografica, la Emi, non si erano accorti delle piantine di marijuana in primo piano (forse perché neppure le conoscevano o riconoscevano); invece, si preoccuparono per i diritti all’immagine dei personaggi presentati. Si temevano azioni legali contro la società. Comunque, dopo alcune transazioni, i Beatles accettarono soltanto di togliere Gandhi, la cui presenza accanto a frivole figure dello spettacolo avrebbe potuto compromettere le vendite dell’album sul mercato indiano. A seguire, a fronte di ricerche e consultazioni, sono stati identificati i personaggi raffigurati (riquadro sulla pagina accanto). Non mancano, a caso, Stan Laurel e Oliver Hardy (in Italia, Stanlio e Ollio), Albert Einstein, Marlene Dietrich, Oscar Wilde... e un’unica presenza è riconducibile al mondo fotografico: Lewis Carrol. A.G. Ricerca iconografica di Ciro Rebuzzini


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DUE VOLTE TAMRON. Per adempiere le esigenze tecniche della fotografia dei nostri momenti, Tamron propone due nuovi zoom finalizzati all’acquisizione digitale di immagini (Canon, Nikon, Pentax e Sony/Minolta/Konica-Minolta) e alla fotografia tradizionale 24x36mm: disegno ottico e copertura del sensore di dimensioni inferiori o uguali al fotogramma 24x36mm tradizionale. Dopo l’AF 18250mm f/3,5-6,3 XR Di II LD Aspherical [IF] Macro (FOTOgraphia, marzo 2007), arrivano le configurazioni ottiche SP AF 70200mm f/2,8 Di LD [IF] Macro, telezoom di alta luminosità relativa (109-310mm nella fotografia digitale con sensore di dimensioni inferiori al fotogramma fotografico), e AF 28-300mm f/3,5-6,3 XR Di VC LD Aspherical [IF] Macro, dotato di compensazione della vibrazione (43465mm in equivalenza digitale). Il Tamron SP AF 70-200mm f/2,8 Di LD [IF] Macro è uno zoom ad escursione tele con messa a fuoco da 95cm a ogni selezione focale, cui corrisponde un ingrandimento limite di 1:1,31, alla focale estrema 200mm. Nel disegno ottico di diciotto lenti divise in tredici gruppi, tre elementi in vetro Low Dispersion (a basso indice di dispersione) garantiscono la massima nitidezza e compensano le aberrazioni sull’asse e cromatiche laterali. La massima apertura di f/2,8, con scala dei diaframmi fino a f/32, si abbina a una confortevole leggerezza (1,112kg) e

una costruzione sostanzialmente compatta: 194,3mm di lunghezza e 89,5mm di diametro massimo. Lo speciale trattamento delle superfici interne riducono al minimo i riflessi e la perdita di definizione. Come appena anticipato, il Tamron AF 28-300mm f/3,56,3 XR Di VC LD Aspherical [IF] Macro è dotato di innovativo sistema VC (Vibration Compensation) di compensazione delle vibrazioni, sia con reflex ad acquisizione digitale di immagini, sia con reflex tradizionali 24x36mm (Canon e Nikon). Nello specifico, lo zoom incorpora un sensore giroscopico, che rileva le vibrazioni trasmesse dall’impugnatura e che opera unitamente a una Risc CPU a 32 bit, per efficaci effetti antivibrazione. La distanza minima di messa a fuoco di 49cm equivale a un ingrandimento massimo 1:3. Quindi, la combinazione ottica, finalizzata alla correzione ottimale, include lenti in vetro XR (Extra Refractive) ad alto indice di rifrazione, elementi GM (lenti asferiche in vetro sagomato), lenti in vetro LD a basso indice di dispersione e lenti in vetro AD (Anomalous Dispersion). Per comodità operativa, il blocco dell’escursione impedisce la variazione focale indesiderata. (Rossi & C, via Ticino 40, 50010 Osmannoro di Sesto Fiorentino FI).

fermatosi nell’ambito dei prestigiosi e qualificati TIPA Award, con la gamma 190XPROB (FOTOgraphia, maggio 2007), Manfrotto conferma e ribadisce la crescita della propria famiglia “X” di treppiedi. La nuova serie 055X si distribuisce in quattro modelli, dalle caratteristiche e prestazioni sistematicamente crescenti, in linea e sintonia con ogni esigenza di sostegno fotografico (e video), oltre che per la collocazione di sistemi di visione prolungata (binocoli e cannocchiali). Il modello base Manfrotto 055XPROB adotta il particolare ed esclusivo sistema incorporato nella crociera, che permette il posizionamento rapido della colonna centrale dall’originaria collocazione verticale a quella orizzontale, e viceversa. Come è stato sottolineato dalla motivazione del TIPA Award appena ricordato, questo «design innovativo permette di spostare velocemente la colonna centrale dalla posizione verticale a quella orizzontale; questa è una caratteristica importante per la fotografia macro e naturalistica: [altrimenti], con una procedura molto lenta, è necessario svitare la colonna centrale prima di poterla porre in posizione orizzontale». Il treppiedi raggiunge un’altezza massima di 142cm, che diventano 178,5cm con la colonna estesa, pesa 2,4kg ed è adatto a sostenere attrezzature fino a un carico massimo di sette chilogrammi. A seguire, la famiglia propone la classica dotazione 055XB e il più essenziale 055XDB, come pure la versione 055XV, specificamente dedicata alla fotografia di natura e al birdwatching. Rispettivamente, i treppiedi 055XB, 055XDB e 055XV raggiungono l’altezza di 137,5cm (178cm con la colonna estesa), pesano 2,3, 2,1 e 2,25kg e sostengono ognuno fino a 7kg. Ognuno sostituisce la precedente versione parisigla semplice, non “X”. (Bogen Imaging Italia, via Livinallongo 3, 20139 Milano).



National Geographic Magazine si è affermato nella sezione Photography degli ambìti riconoscimenti dell’American Society of Magazine Editors (Asme), che ogni anno segnalano le riviste americane giornalisticamente meritevoli.

MEDIA 1: USA. Segnaliamo una notizia che riguarda il noto mensile internazionale dalla cornice gialla, l’ultracentenario National Geographic Magazine, la rivista che fece del glorioso Kodachrome il must per il reportage antropologico, naturalistico e geografico (FOTOgraphia, dicembre 2005). Ogni anno, la Asme (American Society of Magazine Editors), l’autorevole associazione dei direttori dei magazine statunitensi, assegna diversi riconoscimenti che premiano le riviste americane meritevoli, in settori come Personal Service (servizi che aiutano il lettore a migliorare la propria qualità della vita), Feature Writing (articoli che si segnalaMenzione al premio dell’American Society of Magazine Editors (Asme), sezione Photojournalism, per il servizio di James Natchwey The Heroes, The Healing, pubblicato sul numero di dicembre 2006 di National Geographic.

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no per la qualità della scrittura) e Design (qualità della grafica del giornale). Ma anche Photojournalism, Photo Portfolio e Photography. Gli interessati all’elenco completo dei premiati, possono trovarlo su Internet, all’indirizzo: http://www.magazine.org/Editorial/National_Magazine_Awards/Winners_and_Finalists/. Il vincitore 2006 nel settore Photography è National Geographic Magazine. Il riconoscimento è stato assegnato per i numeri di maggio, novembre e dicembre 2006 (a sinistra), e premia il direttore Chris Johns, il photo editor David Griffin, e il deputy director Susan Smith. Sempre nella categoria Photography sono stati segnalati anche Country Home, Gourmet, Martha Stewart Living e W. Per il Photojournalism, il vincitore a sorpresa è risultato The Paris Review, per la pubblicazione del saggio fotografico Kibera di Jonas Bendiksen, dedicato al Kenya. Il National Geographic Magazine si è meritato “soltanto” una menzione per un servizio a firma James Natchwey, dal titolo The Heroes, The Healing (con testo di Neil Shea), pubblicato a dicembre 2006 (a sinistra, in basso). In questo settore, lo stesso James Natchwey è presente anche per un servizio pubblicato da Vanity Fair, The Vietnam Syndrome, dedicato ai bambini che, in Vietnam, nascono ancora oggi deformi per l’uso massiccio dell’Agent Orange fatto dagli americani durante la Guerra, più di trent’anni fa. Sempre per il fotogiornalismo, è stato segnalato anche Aperture, per la pubblicazione del servizio Women of the Middle East and Afghanistan di Alexandra Boulat. James Natchwey e Alexandra Boulat appartengono all’Agenzia VII (FOTOgraphia, settembre 2002 e febbraio 2004), che lo scorso aprile ha organizzato a Londra un seminario sulla fotografia, del quale riferiremo sul prossimo numero.

MEDIA 2: ITALIA. Mentre il National Geographic Magazine era premiato negli Stati Uniti, Airone, la nota rivista italiana di natura e civiltà, altrettanto caratterizzata dalla cornice gialla, ha svelato ai propri let-

tori la risposta a una domanda che da anni creava pensiero nel nostro paese: perché, quando una persona è fortunata, si dice che ha “un culo grosso così”? Nel numero di aprile 2007, a pagina 26, all’interno di un articolo dal titolo La fortuna esiste? l’antropologo Paolo Apolito (?!) racconta che durante le guerre sannitiche, in un’occasione nella quale i Sanniti sconfissero i Romani, per umiliare l’odiato nemico, ci fu una sodomizzazione di massa dei soldati dell’esercito sconfitto. Secondo l’antropologo (e, ovviamente, anche secondo il senso comune), fortunati furono coloro che avevano l’orifizio anale più grande, perché durante l’operazione soffrirono di meno. Ecco finalmente spiegato il curiosissimo modo di dire.

CARE, VECCHIE FOTO... [Da Donna Moderna, 22 febbraio 2007] Finalmente! Dopo due giorni di erronee peregrinazioni tra un palazzo Mondadori e un altro, è arrivato sulla scrivania il servizio di moda per il numero speciale (tutto sul ballo, dalla prima all’ultima riga) di Donna in forma: modelli d’eccezione gli allievi dell’Accademia della Scala. Apro la busta e, al posto del solito CD, ecco apparire dieci lenzuolini (quarantun centimetri e mezzo per trenta) di carta fotografica bella, lucida, corposa. Quadri senza cornice da cui Jessica (in arabesque penchée), Carmen (in échappée in quinta), Francesco (in grand temps levé in retiré) e tutti gli altri “esplodono”. Stesi sulla scrivania lasciano tutti a bocca aperta. Belli, bellissimi, ma accidenti, già eravamo in ritardo, pure le stampe ci volevano! È così comodo il digitale, sono così pratici i CD con cui normalmente ci passiamo e ci scambiamo le foto[grafie]. Pazienza... Il giornale è ormai chiuso, le foto[grafie] digitali che hanno riempito il numero sono state archiviate (su CD, ovviamente). Loro, i lenzuolini, resistono sul tavolo. Tutti si fermano a guardarli, a prenderli in mano, a studiarli con un gusto che non capitava da un bel po’. In cuor mio sono contenta: adoro le foto[grafie]. Tutte, quelle d’autore e quelle fatte per gioco nelle macchinette del metrò, quelle “vecchie” trovate ai mer-


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catini e le polaroid che col tempo scoloriscono, quelle dei miei figli da zero anni in su con cui ho riempito la casa e quelle conservate con amore nelle scatole dei ricordi. Quelle che si toccano, comunque! Che si tengono in mano, che hanno uno spessore, quelle che addirittura, secondo me, hanno un profumo. Quelle che ti permettono un contatto fisico. Oddio, allora sono una di quelle persone che secondo Oliviero Toscani, il fotografo creativo, «dice stupidaggini»? Cito La Repubblica dell’otto febbraio: «Ma quale contatto fisico, che stupidaggine, è una cosa che può dire solo chi guarda al mondo con lo specchietto retrovisore». Sono una «nostalgica feticista»? Sempre Oliviero Toscani: «È fantastico tenere le foto[grafie] in un CD, è una cosa straordinaria, bellissima, solo dei nostalgici feticisti possono avere rimpianti». E mentre lui, il noto fotografo, dichiara che non lavora più con la pellicola ma fa tutto sul digitale, io penso che sta proprio qui la differenza. Un conto è quando si parla di fotografia-lavoro: scegliere, comprare, vendere, usare foto[grafie] con il maggior utile possibile, nel minor tempo e con il maggior rendimento fotografico possibile, ben altra cosa mi sembra parlare di fotografia come vita, ricordi, bellezza. Centinaia di foto[grafie] di bambini, feste, amori, partite di calcio, amici, stipate in un CD secondo me soffrono di claustrofobia. Muoiono sterili. Così mi è tornato in mente il capitolo ventitreesimo de Il Piccolo Principe di Saint-Exupéry e il suo incontro con il mercante. «Buon giorno» disse il piccolo principe: «Buon giorno» disse il mercante. Era un mercante di pillole perfezionate che calmavano la sete. Se ne inghiottiva una alla settimana e non si sentiva più il bisogno di bere. «Perché vendi questa roba?» chiese il piccolo principe. «È una grossa economia di tempo», disse il mercante. «Gli esperti hanno fatto dei calcoli. Si risparmiano cinquantatré minuti alla settimana». «E che cosa se ne fa di questi cinquantatré minuti?». «Se ne fa quel che si vuole...». «Io», disse il piccolo principe, «se avessi cinquantatré minuti da spendere, camminerei adagio adagio verso una fontana...». Chissà quanti calcoli

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hanno fatto gli esperti per stabilire quanti minuti si risparmiano, lavorando, con le macchine digitali e le foto[grafie] scaricate sull’hard disk di un computer... Io, comunque, se avessi cinquantatré minuti da spendere, aprirei piano piano una scatola di vecchie foto[grafie]. Simonetta Fiorio (caporedattore)

PHOTOJOURNALISME ITALIEN. Sottotitolata Soixante ans d’historie de l’Italie, 1945-2005, arriva in Francia la rassegna a cura di Uliano Lucas, già presentata in Italia come Il fotogiornalismo in Italia 1945-2005. Linee di tendenza e percorsi (promossa dalla Fondazione Italiana per la Fotografia, a Palazzo Bricherasio di Torino, nel settembre 2005, e al Museo di Storia Contemporanea di Milano alla fine dello scorso 2006; FOTOgraphia, ottobre 2006): Le Pavillon Populaire, esplanade Charles-de-Gaulle, F-34000 Montpellier, fino al Primo luglio (www.montpellier.fr, monteppierphotovision@wanadoo.fr; martedì-domenica, 11,00-18,45). Ribadiamo che si tratta di un irrinunciabile appuntamento espositivo, che si allunga nel tempo e spazio con l’edizione di un coincidente volume-catalogo, che ora beneficia di anche di una propria edizione francese. La selezione è esattamente ciò che il titolo dichiara di essere: una approfondita analisi di sessant’anni di fotografia di informazione (e formazione?), realizzata con sapiente individuazione di Linee di tendenza e percorsi. Non una fotografia di superficie, isolata in se stessa, ma una concentrata ricostruzione del fotogiornalismo in tutte le proprie componenti, nell’esplicito riferimento al proprio uso sui giornali, potere politico ed economico compreso. In assenza di altri approfondimenti, che ormai da tempo mancano alla fotografia italiana, in particolare all’essenza del fotogiornalismo, il curatore Uliano Lucas, a propria volta fotogiornalista di prima grandezza, non ha compilato soltanto una insipida cronologia, ma ha autenticamente approfondito l’argomento. In particolare, non si è limitato alla sola e conseguente

Photojournalisme italien. Soixante ans d’historie de l’Italie, 1945-2005 è la trasposizione in Francia della selezione originaria Il fotogiornalismo in Italia 1945-2005. Linee di tendenza e percorsi, curata da Uliano Lucas e promossa dalla Fondazione Italiana per la Fotografia: Le Pavillon Populaire, esplanade Charles-de-Gaulle, F-34000 Montpellier; fino al Primo luglio.

raccolta di fotografie in quanto tali, che pure compongono l’ossatura della mostra e del relativo catalogo, ma ha ripreso la sostanza dei giornali che hanno fatto fotogiornalismo nel nostro paese. Ancora, la sequenza non è soltanto temporale, ma è soprattutto analizzata, commentata e approfondita. Così che, l’allestimento espositivo, insieme agli intensi testi a commento, risponde a una infinita serie di domande, che dalla superficie delle pagine (non sempre patinate) arrivano alla sostanza e fondamento di tante altre motivazioni che hanno guidato, come anche condizionato, il fotogiornalismo italiano, dal dopoguerra ai nostri giorni. Non è tanto presa in considerazione la qualità formale delle singole testate, anche se la relativa messa in pagina sottolinea le intenzioni del giornale (e dei propri referenti di potere), quanto la collocazione delle redazioni all’interno di una informazione che giocoforza risponde prima di altro a interessi politici, economici e sociali. Quindi, Il fotogiornalismo in Italia 1945-2005 non fa mistero di quel “potere” (quinto potere) che definisce e identifica il giornalismo, al quale il fotogiornalismo ha fornito declinazioni visive in sintonia di intenti: in relazione e dipendenza delle esigenze e richieste della committenza. Per questo, la sua attenta ricostruzione affronta il fotogiornalismo in ogni propria componente, fino ad indagare a fondo quelle linee di tendenza e quei percorsi che nel trascorrere degli anni e dei decenni sono stati tracciati da professionisti della comunicazione visiva e testate sulle quali hanno pubblicato le proprie fotografie. Non immagini a sé, come abbiamo già annotato, ma soprattutto immagini in relazione ai relativi utilizzi e in relazione alle vicende politiche, economiche e sociali del nostro paese. A cura di Lello Piazza



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ALLE ORIGINI (ANCORA)

In apertura di rivista, in margine al Sommario, appunto Prima di cominciare, commentiamo la recente vendita all’asta di un apparecchio per dagherrotipia costruito dai parigini Susse Frères (fratelli Susse). In prosecuzione ideale, e ricercata, anche l’Editoriale di questo numero approda a una propria conclusione certa a partire dalla stessa vicenda, coerentemente e convenientemente introdotta da considerazioni sulla dicotomia tra storia della fotografia e propria non/narrazione. Per andare più lontani di così, lungo il percorso tracciato dalla Storia della fotografia... bisogna retrocedere alla preistoria. Cioè, si può arretrare fino a considerare le fantastiche descrizioni della camera obscura di Alhazan (Abu Ali al-Hasan Ibn al-Haitham), del 1039, e di Leonardo da Vinci, del 1490 (o 1515); oppure, ancora più indietro, si possono considerare le annotazioni di Aristotele e del cinese Mo Ti sulla formazione dell’immagine che passa attraverso una piccola apertura (Quarto e Quinto secolo avanti Cristo). Ma non è il caso!

DATA UFFICIALE: 1839 La Storia è quella che fissa la sequenza delle proprie date di origine al 1839: sette gennaio, l’astronomo Dominique François Jean Arago presenta all’Accademia di Francia il processo di Louis Jacques Mandé Daguerre: appunto dagherrotipico, da cui i dagherrotipi (in relazione al quale, il pittore e accademico Paul Delaroche avrebbe affermato che «Da oggi la pittura è morta»: non è stato così, tutt’altro); ventinove gennaio, l’inglese William Henry Fox Talbot scrive a François Arago, padrino di Daguerre, per rivendicare la priorità del propri esperimenti (che definisce “disegni fotogenici”, relazionandone alla Royal Society di Londra il successivo trentun gennaio): ventotto febbraio, in una lettera a Talbot, per la prima volta John Herschel, al quale si deve il fissaggio a base di iposolfito di sodio, usa il termine “fotografia”;

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due maggio, François Arago scrive al ministero degli Interni per raccomandare Joseph Nicéphore Niépce e Louis Jacques Mandé Daguerre: in cambio della pubblicazione del procedimento dagherrotipico, lo Stato propone un vitalizio (nel maggio-giugno, dopo dimostrazioni alla Camera dei Deputati e dei Pari, il governo francese acquista i diritti dell’invenzione di Daguerre e ne liberalizza l’uso); sette agosto, Luigi Filippo d’Orlèans, re dei francesi, firma il decreto per l’acquisto e la pubblicazione delle tecniche di Daguerre (seimila franchi l’anno per lui e quattromila per Isidore Niépce, figlio di Joseph Nicéphore, mancato nel 1833); diciannove agosto, il procedimento di Daguerre viene reso pubblico. Parentesi italiana: dodici novembre, alla Reale Accademia delle Scienze di Napoli, Macedonio Melloni, direttore dell’Osservatorio meteorologico e del Conservatorio di arti e mestieri a Napoli, tiene la prima relazione in Italia sul dagherrotipo (riprendiamo altri dettagli più avanti); ottobre, Enrico Federico Jest fabbrica a Torino il primo apparecchio italiano per dagherrotipi (con il figlio Carlo gestisce una del-

Descrizione pratica del nuovo istromento chiamato il daguerrotipo; anastatica a cura di Photographica, via Guardabassi 11, 06123 Perugia (075-5727819); 40 pagine 14,6x20,8cm; 10,00 euro.

Tavola I: il telaio e la lamina per dagherrotipia.

le più note produzioni torinesi di strumenti scientifici; nel 1845, il figlio Carlo tradurrà il trattato francese sulla dagherrotipia di Marc-Antoine Gaudin); otto ottobre, primo esperimento fotografico di Enrico Federico Jest (Veduta della Gran Madre di Dio); novembre, Alessandro Duroni importa a Milano i primi apparecchi Daguerre-Giroux. Tra le pieghe di queste date, altre ne vanno ricordate. A parte la diatriba con William Henry Fox Talbot, il cui procedimento fotografico è comunque diverso, è il caso di sottolineare ancora come, pur nascendo per caso, ma inevitabilmente, l’idea di realizzazione automatica di immagini (fotografia) sia comunque stata simultaneamente affrontata da più ricercatori, in luoghi diversi, ognuno all’oscuro degli esperimenti degli altri. Così che, non possiamo ignorare la straordinaria personalità di Hippolyte Bayard, messo proditoriamente da parte dal potere scientifico. Funzionario del ministero delle Finanze francese, scienziato autodidatta, Hippolyte Bayard iniziò i propri esperimenti nel 1837, ottenendo presto deboli negativi (procedimento analogo al calotipo di Fox Talbot). Allo stesso momento, realizzò un sistema assolutamente più avanzato del dagherrotipo, del quale nel frattempo correva voce nell’ambiente


guerre, lasciando lui senza un soldo. (Attenzione, a margine: di fatto, si tratta del primo autoritratto della storia della fotografia. Per paradosso, è un autoritratto impossibile, perché il soggetto dichiara di essersi suicidato. Morto, non può certo compiere le azioni fotografiche della ripresa).

scientifico (è del 1838 la vista del boulevard du Temple, sulla quale Daguerre raffigura per la prima volta una presenza umana: un gentiluomo fermo dal lustrascarpe). Le immagini di Bayard sono ottenute esponendo nella camera obscura un foglio di carta al cloruro d’argento che veniva sviluppato in una soluzione di ioduro di potassio. All’indomani della presentazione di Arago del precedente sette gennaio, il venti gennaio Hippolyte Bayard annuncia di aver migliorato la propria tecnica di ripresa positiva diretta su carta; dunque, l’ignorato ricercatore aveva raggiunto due princìpi autonomi, il negativo da cui moltiplicare copie positive (analogo al calotipo di Fox Talbot) e il positivo diretto (paragonabile al dagherrotipo). Il successivo venti marzo approda a risultati ancora migliori, tanto che il quattordici luglio, data fatidica per la Francia, in polemica con François Arago, espone a Parigi trenta immagini ottenute con questo suo metodo fotografico (così lo identifichiamo e definiamo oggi). Del 1840 è invece il suo celebre autoritratto in posa da affogato, con il quale Hippolyte Bayard ipotizza il proprio suicidio perché, complice l’affarista François Arago, lo Stato francese ha finanziato soltanto Da-

MANUALE: ANCHE OGGI

Tavola IV: spaccato della camera obscura per dagherrotipia.

Ne abbiamo riferito in cronaca nell’ottobre 2003, e ora è opportuno tornare all’edizione anastatica della Descrizione pratica del nuovo istromento chiamato il daguerrotipo, l’effettiva prima traduzione italiana del testo originario che accompagnava gli apparecchi venduti dall’estate 1839: quello di François Simon Alphonse Giroux, celebrato in tutte le Storie, e quello dei Susse Frères, tornato alla recentemente alla luce, oltre che alla ribalta, all’indomani della vendita all’asta cui ci siamo già riferiti (soprattutto, a pagina 4 e 7 di questo stesso numero). Parente di Daguerre, Alphonse Giroux (da forniture per artisti a mobili e accessori di arredamento), iniziò a vendere l’apparecchio per dagherrotipia con proprio marchio, sua garanzia e firma di Daguerre il dieci agosto; stessa data, presumibilmente, anche per i Susse Frères, che il successivo cinque settembre pubblicano un annuncio pubblicitario su Le Parisienne. I due apparecchi sono sostanzialmente uguali: 26,7cm di lunghezza (chiuso) e 50,8cm al massimo allungamento; 31,1cm di altezza e 36,8cm di larghezza; per lastre 16,4x21,6cm; obiettivo costituito da una lente a menisco o piano-convessa di 406mm di lunghezza focale e 83mm di diametro; il diaframma fisso di 23,8mm riduceva l’apertura di lavoro all’equivalente del diaframma f/17. L’attuale (o recente?) anastatica della Descrizione pratica del nuovo istromento chiamato il daguerrotipo è stata pubblicata da Francesco Gaggini di Perugia, sotto la propria identificazione Photographica (con la quale opera nel mercato dell’antiquariato e collezionismo di fotografia). Stampata in tiratura limitata, speriamo non troppo limitata, come appena annotato, l’edizione è esattamente ciò che dichiara di essere: la prima traduzione italiana del ma-

nuale originario di Daguerre, che dall’agosto 1839, all’indomani della presentazione ufficiale, accompagnava l’attrezzatura venduta per realizzare dagherrotipi (con l’occasione, ricordiamo che questo originario manuale venne pubblicato in diverse edizioni tipografiche, che si sono rapidamente susseguite in quei frenetici mesi, dall’estate 1839). Pubblicata a Roma nel 1940, nel nostro paese (non ancora unificato), questa Descrizione pratica seguì di qualche mese l’iniziale Relazione intorno al dagherrotipo, letta da Macedonio Melloni alla Reale Accademia delle Scienze di Napoli, nella propria tornata del 12 novembre 1839, che può essere considerata la prima passerella pubblica della fotografia in territorio italiano, oltre che il primo testo sulla materia: stampato a Napoli, dalla Tipografia di Porcelli. Però, per certi versi, si tratterebbe del secondo, se e quando si consideri come primo testo italiano il Metodo per eseguire sulla carta il fotogenico disegno (rinvenuto dal signor Fox Talbot), tradotto da Gaetano Lomazzi e stampato dal milanese Giuseppe Crespi nei primi mesi dello stesso 1839, sulla base dell’originale inglese, inserito nei numeri del due, nove e ventitré febbraio da The Athenaeum. Disquisizioni a parte, ininfluenti sulle nostre attuali considerazioni, la riedizione anastatica della Descrizione pratica del nuovo istromento chiamato il daguerrotipo, curata da Photographica, si inserisce in una ipotetica scuola di pensiero, alla quale sentiamo di appartenere. Invece di tante/troppe fantasie personali, basate su opinioni coltivate sulla lettura e rielaborazione di storiografie note, siamo sempre stati convinti che sia opportuno andare alla ricerca di fonti non inquinate da alcuna opinione, ovvero sia necessario tornare il più possibile ai testi originari. Se ancora disponibili, e tentare non nuoce, le quaranta pagine 14,6x20,8cm di questa apprezzata edizione anastatica della Descrizione pratica del nuovo istromento chiamato il daguerrotipo, divulgata da Photographica (di Francesco Gaggini, via Guardabassi 11, 06123 Perugia; 075-5727819, anche fax), costano soltanto 10,00 euro! M.R.

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SARDEGNA NEI DECENNI

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Circa tre anni fa, nell’ottobre 2004 registrammo che Gianni Berengo Gardin, una delle più autorevoli personalità della fotografia italiana contemporanea, aveva raggiunto e superato la ragguardevole soglia di duecento libri pubblicati. L’occasione fu allora propiziata dalla rapida consecuzione di nove monografie, edite tra la fine del precedente 2003 e il primo semestre dell’anno, che si collocavano, appunto, a cavallo della fatidica quantità. Oggi, a distanza di altri mesi e anni, il conteggio va così sostanzialmente aggiornato da anticipare un imminente nuovo traguardo: quello dei duecentocinquanta titoli, cui faranno quindi seguito ulteriori mete/tappe a cifra tonda. Come spesso accade, di fronte a questi valori, sorge spontanea una domanda, anzi due. La prima, che non deve restare sola: tanta quantità va a scapito di una augurabile qualità? Risposta immediata: no, non è detto, perché la fotografia di Gianni Berengo Gardin è tan-

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to connotata e definita da non consentire deviazioni da un percorso ormai stabilito e identificato. Per quanto molti dei suoi lavori raccolti in volume rispondano prima di tutto, ma non soltanto, a particolari e individuate esigenze di committenza, che ha interesse a sottolineare le specificità di talune situazioni e territori, l’insieme della sua fotografia è tanto partecipe da superare con un balzo ogni presumibile urgenza. Così che, l’insieme delle sue fotografie è sempre e comunque partecipe dell’argomento affrontato, anche quando è specificamente richiesto e/o sollecitato. Discriminante, se non già addirittura fondamentale, è però la seconda delle due domande che sono sorte spontanee: quante e quali delle tante fotografie che Gianni Berengo Gardin realizza, lui prolifico autore che non passa giornate senza scattare (quasi a rispondere anche a un forte impulso interiore), sopravvivono nel tempo? Addirittura: meritano di sopravvivere nel

Oliena, 1968.

tempo? Qui la risposta non è semplice, e tantomeno immediata. Non certo pretestuosamente, evitiamo l’approfondimento, che merita riflessioni autonome, indipendentemente dai riferimenti specifici a uno titolo, piuttosto che a un altro (dal cui insieme isoliamo le raccolte d’autore, che rappresentano ancora un altro capitolo, da trattare a sé). Evitiamo l’approfondimento, facendo utilitaristicamente nostra una delle affermazioni di Henri CartierBresson, al quale GBG viene spesso associato, sebbene la sua fotografia abbia maggiori debiti di riconoscenza con quella di Willy Ronis (FOTOgraphia, maggio 2004 e Sguardo su, di Pino Bertelli, in FOTOgraphia del giugno 2003); HCB ha più volte detto che ogni fotografo, lui compreso, può realizzare circa quattro o cinque buone immagini all’anno. Non di più. Drastica visione e quantificazione, che non condividiamo appieno, rispetto la quale dovremmo definire i termini del severo giudizio. Avendo tra le mani la recente raccolta Reportage in Sardegna 1968_2006 di Gianni Berengo Gardin, pubblicata da Imago Multimedia di Nuoro, le due domande appena poste assumono connotati nuovi. Anzitutto, impongono altre risposte, peraltro di conferma: no, la quantità di monografie di GBG non va a scapito della qualità della sua fotografia; quindi, sono sostanzialmente molte (di più delle quattro l’anno) le fotografie da salvare. Immediatamente a seguire, sollecitano un’altra riflessione sul valore dell’archivio e la sua lettura e rilettura a distanza di tempo (e non accresciamo i termini del dibattito con considerazioni specifiche sul senso e spessore dei negativi bianconero, patrimonio indissolubile e indispensabile non tanto della sola fotografia argentica/analogica [da Vues n° 0 in FOTOgraphia dello scorso maggio], quanto della Fotografia nel proprio complesso). Per quanto poco si possa ancora aggiungere sull’espressività


d’autore di Gianni Berengo Gardin, per la definizione della cui personalità sono stati già versati fiumi di inchiostro e stilate tesi universitarie, incredibile a dirsi, questa raccolta consente di aggiungere ancora qualcosa. Nell’ambito della sua prolifica produzione, che scorre senza soluzione di continuità dagli anni Cinquanta, quelli sardi sono forse soggetti meno noti di altri, a partire dalla straordinaria raccolta Venise des Saisons, primo titolo di Gianni Berengo Gardin, pubblicato da Guilde du Livre di Losanna (Éditions Clairefontaine) nel 1965, con testi di Giorgio Bassani e Mario Soldati. Oltre i tanti ulteriori valori individuali, che ciascuno può cogliere dalla successione delle immagini raccolte in volume, non necessariamente con cadenza cronologica, uno è trasversale: il senso del tempo. Infatti, più di ogni altra geografia italiana, e non soltanto, e diversamente da ogni altro luogo, nel corso dei recenti quarant’anni la terra sarda è stata travolta da trasformazioni ambientali e sociali di assoluta rilevanza. Non parliamo, necessariamente, della mondanità delle sue coste e del suo mare, meta di un turismo di profilo inviolabilmente alto, quanto, più tranquillamente, di un quotidiano che,

Ghilarza, 1976.

Bitti, 1968.

come osservò Pier Paolo Pasolini nei suoi efficaci Scritti corsari, originariamente ospitati sulle pagine del milanese Corriere della Sera, è ormai pesantemente condizionato da omogeneizzazioni culturali indotte dalla sistematica diffusione di un pensiero globale (veicolato soprattutto attraverso la televisione). Così che, ancora prima di anda-

re a leggere le date che specificano ogni immagine, ognuno di noi può individuare e leggere la successione di epoche e socialità. La Sardegna delle prime fotografie di Gianni Berengo Gardin, appunto attribuite alla fine degli anni Sessanta, ha niente in comune con la Sardegna delle immagini più recenti, addirittura di ieri l’altro. Da

Reportage in Sardegna 1968_2006, di Gianni Berengo Gardin; testi di Pino Corrias e Pasquale Chiesa; Imago Multimedia, 2006 (via Manzoni 24, 08100 Nuoro; 0784-204117; www.imagomultimedia.it, info@imagomultimedia.it); 200 pagine 24x28cm, cartonato con sovraccoperta; 70,00 euro.

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Alghero, 2006.

una parte si intravedono i termini della Storia e tradizione, dall’altra i connotati di qualcosa d’altro, che non è più necessariamente sardo,

ma appartiene a un appiattimento generale e generalizzato. Dunque, per concludere, anche se l’idea di archivio fotografico ra-

zionalmente visitato solleciterebbe tante altre riflessioni, non possiamo evitare una ulteriore risposta, in questo caso l’ultima, a una domanda ancora implicita: sì, la fotografia non esaurisce i propri compiti e visioni nella cronaca dei propri istanti originari, ma proietta avanti nel tempo e nello spazio la propria analisi. Anche involontariamente, e soprattutto involontariamente nel caso di Gianni Berengo Gardin, la fotografia di documentazione del reale, «la fotografia che privilegia il valore di racconto, di traccia del mondo, di intuizione, di folgorazione nel riconoscimento di istanti di vita, reali, surreali, che la fotografia, vero linguaggio della modernità, ha introdotto in modo rivoluzionario nel panorama culturale dell’uomo contemporaneo» (Ferdinando Scianna) può trasformarsi in antropologia dell’esistenza: visualizzando ciò che è stato, attraverso ciò che è. Istante dopo istante. M.R.



DI NUOVO O’SULLIVAN

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Siamo in clamoroso anticipo, ma, se volete, prendetene nota. Per la fine del 2009 (!) è previsto l’arrivo in edicola dell’avventura numero Duecentocinquanta (250) di Tex, proposta per la quarta volta (ma in realtà quinta, ne stiamo per scrivere) nella collana Tex Nuova Ristampa. Intitolata Il solitario del West, a differenza dei fumetti autoconclusivi, questa avventura si allunga su tre album consecutivi: a seguire, Giungla crudele (251) e Il volto del traditore (252). La prima volta, questi tre fascicoli vennero pubblicati nella collana originaria Tex, dall’agosto all’ottobre 1981; in seguito, sono stati riproposti altre due volte nelle collane/ristampa Tex-Tre stelle (dicembre 1984, gennaio e febbraio 1985) e TuttoTex (quindicinale: 29 luglio, 14 agosto e 27 agosto 1997). Come rilevato, la cadenza quindicinale della terza Tex Nuova Ristampa, in edicola a fine maggio con il numero Centottantacinque (185), arriverà al Solitario del West alla fine del 2009. Ripetiamo quanto abbiamo già riferito nel febbraio 2001, in occasione dell’edizione da libreria della stessa avventura, alla quale stiamo per riferirci: l’interesse fotografico per questa storia di Tex Willer dipende dalla combinazione tra l’eroe inventato da Giovanni Luigi Bonelli, leggendario protagonista del fumetto italiano, e il fotografo statunitense Timothy H. O’Sullivan. Con sapiente combinazione tra realtà e invenzione, la vicenda si svolge nelle giungle dell’America centrale, dove l’intrepido fotografo svolge un ruolo primario. Ovviamente, in ogni edizione, nelle tre collane già pubblicate e nella quarta che arriverà tra due anni e mezzo, gli albi di Tex sono rigorosamente in bianconero. Quindi, rileviamolo, l’avventura nella quale Tex Willer accompagna Timothy H. O’Sullivan, in una clamorosa inversione di ruoli (protagonista a tutti gli effetti è proprio il fotografo), è stata anche pubblicata a colori. Alla fine del 2000, le tavole dei tre albi appena citati so-

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La statuina di Timothy H. O’Sullivan, una delle figure storiche della fotografia statunitense dell’Ottocento, è stata realizzata per il fascicolo numero 26 della collana Il mondo di Tex di Hachette: si richiama all’apparizione del fotografo in una delle avventure del celebre fumetto. Può essere richiesta come arretrato all’apposito servizio clienti dell’editore: 02-96248842; www.hachette-fascicoli.it (9,90 euro).

no state raccolte in prezioso volumestrenna da Arnoldo Mondadori Editore. Tra l’altro, per la gioia dei cultori del fumetto, questa edizione di Tex nell’Inferno Verde, nuovo titolo, si fa apprezzare anche per l’ottima stampa tipografica in generose dimensioni: 22x31cm, superiore agli albi originari 16x21cm, comunque sia di ottima fattura editoriale e grafica.

IL SOLITARIO DEL WEST Ribadiamolo: dal nostro punto di vista fotografico siamo ammaliati dall’inserimento di un autore storico della fotografia, uno dei nomi di spicco dell’Ottocento, in un affermato fu-

metto italiano. Come accennato, l’autentico protagonista dell’avventura è proprio Timothy H. O’Sullivan. Del resto, ottimo interprete di se stesso, Tex Willer sa mettersi discretamente in secondo piano quando la scena viene presa e momentaneamente occupata da una personalità di carattere. E questa intelligenza la dice lunga sulla capacità dei soggettisti e sceneggiatori del fumetto che, come osserva Renato Genovese, nella partecipe introduzione a Tex nell’Inferno Verde (adeguatamente intitolata La grande avventura di un uomo tranquillo: appunto il fotografo Timothy H. O’Sullivan), «attingono alla realtà senza falsarla, modulando spesso la propria scrittura in base all’essenza dei fatti; riportando fedelmente, anche se in forma fantasiosa, “la pura verità” dell’epopea western». Dunque, questa vicenda, questa storia è meno di Tex, che pure rimane il protagonista inviolabile della serie a lui dedicata, di quanto non sia di Timothy H. O’Sullivan, fotografo dell’Ottocento, pioniere della fotografia di rilevazione del territorio alla quale ancora si riferiscono (spesso impropriamente) molte esperienze visive contemporanee. Fu avviato alla fotografia da Mathew B. Brady, che lo coinvolse nella documentazione della Guerra civile americana assieme a Alexander Gardner; nei decenni successivi, il giovane Timothy Henry O’Sullivan (1840-1882) seguì come fotografo diverse spedizioni scientifiche. Dal 1867 al 1869, il suo leggendario carro fotografico, perfettamente attrezzato (che compare pure nella sceneggiatura del fumetto cui ci stiamo allineando; a pagina 26), si ac-


codò alla spedizione di Clarence King per l’esplorazione geologica del Quarantesimo parallelo. In quegli anni, Timothy H. O’Sullivan fotografò le Montagne Rocciose, il deserto del Nevada e vari insediamenti minerari. Poi, nel 1870 partecipò alla spedizione scientifica che avrebbe dovuto valutare la possibilità di tracciare un canale attraverso l’istmo di Panama (ed è alla vigilia di questa missione che, nella fantasia, si incontra con Tex Willer); infine, dal 1871 al 1873 collaborò con William Bell nella spedizione di George M. Wheeler verso il Centesimo meridiano, e viaggiò in Arizona, Nevada, Utah e

New Mexico (riprendendo, in questa occasione, il Canyon de Chelly, già mostrato a Tex nel 1870: all’inizio dell’avventura che commentiamo, alla cui sceneggiatura concediamo, come a ogni finzione, il beneficio della «forma fantasiosa»; a pagina 27). Nel 1875, Timothy H. O’Sullivan lasciò definitivamente il selvaggio West, e nel 1880, dopo diverse esperienze professionali, ottenne un incarico presso il Dipartimento del Tesoro a Washington. Malato di tubercolosi, dovette abbandonare il lavoro. È morto a Staten Island nel 1882, lasciando un vasto patrimonio fotografico sull’epopea del West, che è stato raccolto in una vasta serie di volumi illustrati.

FUMETTO Scrittore, soggettista, sceneggiatore, Giovanni Luigi Bonelli (19082001) è l’inventore di Tex, creato insieme a Galep (Aurelio Galleppini, 1917-1994), che ha disegnato numerosi episodi e tutte le copertine della serie fino al numero Quattrocento (FOTOgraphia, maggio 1994). Dopo innumerevoli avventure scritte in proprio, da qualche an-

Gli albi Il solitario del West (250, agosto 1981), Giungla crudele (251, settembre 1981) e Il volto del traditore (252, ottobre 1981), nei quali è originariamente divisa l’avventura che comprende la presenza del fotografo Timothy H. O’Sullivan, sono stati ristampati nelle collane Tex-Tre stelle (dicembre 1984, gennaio e febbraio 1985) e TuttoTex (quindicinale: 29 luglio, 14 agosto e 27 agosto 1997). Per Tex Nuova Ristampa bisogna attendere la fine del 2009. Nel dicembre 2000, Mondadori ha riunito l’intera avventura nel volume a colori Tex nell’Inferno verde (356 pagine 22x31cm, cartonato; 24,80 euro).

no alla sceneggiatura di Tex si alternano altri scrittori, tra i quali si distingue Guido Nolitta (pseudonimo di Sergio Bonelli, figlio di Giovanni Luigi e Tea, titolare dell’omonima casa editrice che pubblica una diversificata serie di fumetti italiani di grande successo). Appunto Guido Nolitta-Sergio Bonelli è lo sceneggiatore di Tex nell’In-

Il fotografo Timothy H. O’Sullivan torna in una successiva avventura di Tex Willer, distribuita su altri tre fascicoli: L’uomo nell’ombra (287, settembre 1984), Grido di guerra (288, ottobre 1984) e La vendetta di Tiger Jack (289, novembre 1984). Segnaliamo anche le ristampe mensili di Tex-Tre stelle (gennaio, febbraio e marzo 1988) e quindicinali di TuttoTex (13 e 26 febbraio e 11 marzo 1999).

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ferno Verde, disegnato dal senese Giovanni Ticci, nello staff di Tex dal 1967 (attenzione: l’avventura originaria, a partire da Il solitario del West, albo Duecentocinquanta della serie, era stata attribuita a Giovanni Luigi Bonelli). La narrazione è piacevole, lineare e scorrevole. Si parte dal West, per approdare all’impervia giungla centroamericana. Ovviamente, non tutto scorre liscio, e non mancano intrighi e colpi di scena, come in ogni vicenda nella quale Tex Willer si impegna con i propri pard: alternativamente nelle vesti di Ranger o di capo bianco degli indiani Navajo (per i quali è Aquila della

Nella colorazione di Tex nell’Inferno verde, volume Mondadori che riunisce tre originari albi di Tex, l’incontro con Timothy H. O’Sullivan, che attraversa il West con il proprio carro fotografico, del quale proponiamo la sua realtà, in una immagine ripresa nel Carson Desert, in Nevada, nel 1867.

Notte). Si sfiora il giallo, e tra realtà e fantasia la narrazione è adeguatamente e felicemente coinvolgente. Può piacere ai cultori della letteratura a fumetti, alla quale Tex offre sia eccellenti sceneggiature, sia tratti grafici precisi, dettagliati e ricchi di apprezzate sfumature; così come non manca di attirare l’attenzione del mondo fotografico, appunto coinvolto attraverso la figura storica e reale di Timothy H. O’Sullivan, comprimario (e non comparsa!, come osserva il già citato Renato Genovese) di un brillante Tex Willer, per l’occasione addirittura più brioso, vivace e arguto del solito. Per intenderci all’altezza del Tex di Dodge City, Yampa Flat, Old Pawnee Bill, El Rey, Yuma!, El Morisco,

Condor Pass (...): tanto per citare episodi che appartengono alla Storia del fumetto italiano. Per completare la segnalazione, annotiamo che, conclusa la serie dei tre fascicoli successivi -Il solitario del West (appunto lui: Timothy H. O’Sullivan; 250), Giungla crudele (251) e Il volto del traditore (252)-, Timothy H. O’Sullivan fa ancora capolino a margine di un’altra avventura. Non più protagonista, ma concreta comparsa, Timothy H. O’Sullivan torna a es-


sere il fotografo delle selvagge terre dell’Ovest nell’avventura che si distribuisce su alti tre fascicoli. Con testi di Giovanni Luigi Bonelli e disegni di Galep (Aurelio Galleppini), la storia parte con Il killer senza volto (da pagina 56 del numero 287, L’uomo nell’ombra; settembre 1984), si allunga in Grido di guerra (288; ottobre 1984) e si conclude a pagina 70 di La vendetta di Tiger Jack (289; novembre 1984). Ovviamente, vanno ancora segnalate anche le ristampe mensili di Tex-Tre stelle (gennaio, febbraio e marzo 1988) e quindicinali di TuttoTex (13 e 26 febbraio e 11 marzo 1999). Dopo alterne circostanze, al solito gestite e risolte da provvidenziali interventi di Tex Willer, che sbroglia una complessa matassa di equivoci e reciproche diffidenze, si approda alla storica firma del trattato tra il Governo degli Stati Uniti, rappresentato dal generale Thomas Madison e dai senatori William Meredith e Richard Fletcher, e il capo Cheyenne Appanoosa. Proprio Timothy H. O’Sullivan scatta la fotografia ufficiale dell’incontro, con i protagonisti in posa davanti all’immancabile treppiedi. La sua partecipazione all’episodio, in gergo “comparsata”, è distribuita tra questo finalino buonista e l’inizio della vicenda, quando Tex i suoi pard si imbattono nel suo carro fotografico, e grazie al suo intervento danno una significativa e conclusiva svolta a un’indagine basata su un ritratto di donna, guarda caso eseguito proprio da Timothy H. O’Sullivan (bontà del margine di fantasia e invenzione che si concede ogni bravo sceneggiatore). Dal dialogo tra Tex e Tiger Jack, il fedele pard Navajo: «Che mi venga un colpo! Ma quello... quello non ti ricorda il carro di quel simpaticone di O’Sullivan?»; «Woah! Mi sembra quasi uguale...», «... anzi, proprio uguale, tanto uguale che...»; «Ma è lui!! È proprio lui, quel matto di fotografo!»; «O’Sullivan! Ma è incredibile!».

STATUINA Per quanto l’attesa della quarta edizione di Il solitario del West, albo numero Duecentocinquanta di Tex, con altri due fascicoli immediatamente a seguire, sia ancora

PAROLE SUE (?)

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itiamo da Grido di guerra, albo Duecentottantotto di Tex, nel quale, dopo un incontro casuale e fortuito (?), Timothy H. O’Sullivan racconta a Tex Willer e Tiger Jack che sta andando a fotografare la firma al trattato di pace con gli indiani Cheyenne del fiero Appanoosa. Nella fantasia della sceneggiatura di Giovanni Luigi Bonelli, Timothy H. O’Sullivan si esprime così: «Ho fatto fotografie di tutti i tipi nel corso della mia carriera, Tex, voi lo sapete bene... / ... Battaglie, incendi, alluvioni, eruzioni, cataclismi e poi indiani, cinesi, banditi e sceriffi, insomma tutto quello che questa straordinaria terra può offrire a un occhio attento come il mio... / ... Ma, per una strana serie di coincidenze, non mi è mai capitato di immortalare un fatto storico come questo: la firma di un trattato di pace tra una grande potenza militare e industriale e un gruppo sparuto di poveri, primitivi individui che sembrano l’immagine di un passato scomparso. / Questa potrebbe essere l’ultima volta che si verifica un avvenimento di questo genere, capite? La mia ultima occasione! / Per questo andavo tanto di corsa, come giustamente hai detto tu, Tiger! Perché, dopo un viaggio così lungo, ho perso la cognizione del tempo e non vorrei arrivare in ritardo».

Assai dettagliato, spesso il disegno di Tex si è ispirato a fotografie dell’Ottocento. In questo caso, la citazione è d’obbligo: Timothy H. O’Sullivan mostra una propria fotografia del Canyon de Chelly, nel New Mexico, ripresa nel 1873, durante la spedizione di George M. Wheeler verso il Centesimo meridiano, alle frontiere del territorio.

Timothy H. O’Sullivan racconta a Tex Willer e Tiger Jack che è in cammino per raggiungere Fort Smith, dove intende fotografare la storica firma del trattato tra il Governo degli Stati Uniti, rappresentato dal generale Thomas Madison e dai senatori William Meredith e Richard Fletcher, e il capo Cheyenne Appanoosa.

lunga, è ovvio che le precedenti versioni, dall’originaria alle ristampe, sono facilmente reperibili sul mercato dei fumetti usati, nel quale costano pochi euro. Nel frattempo, in colpevole ritardo, perché ne siamo venuti a conoscenza soltanto ora (e ringraziamo Massimiliano Mariello per la sua apprezzata segnalazione), registriamo un’altra

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edizione che si attarda sulla medesima vicenda: precisamente, l’incontro di Tex Willer con Timothy H. O’Sullivan. A cura di Hachette, da tempo è pubblicato il quattordicinale Il mondo di Tex, che racconta i retroscena della lunga storia del celebre fumetto, approfondendo aspetti coincidenti e in collegamento diretto. Arrivato in edicola alla fine dello scorso settembre 2006, il numero Ventisei (26) è dedicato a Timothy H. O’Sullivan. Al solito, il fascicoletto di accompagnamento approfondisce le combinazioni, appunto raccontando sia l’apparizione del fotografo nella sceneggiatura illustrata sia la sua biografia. Le poche pagine sono pretesto per distribuire attraverso le edicole una serie di statuine di personaggi: e nello specifico si tratta

Originariamente pubblicata in Giungla crudele, secondo albo (numero 251) dei tre che raccontano l’avventura di Tex Willer con Timothy H. O’Sullivan, questa tavola acquista particolare sapore nella colorazione per l’edizione di Tex nell’Inferno verde (Mondadori).

Dopo l’avventura della quale è autentico protagonista, Timothy H. O’Sullivan torna in Tex in occasione della firma del trattato tra il Governo degli Stati Uniti e il capo Cheyenne Appanoosa, che fotografa (da La vendetta di Tiger Jack / 289).

proprio della statuina di Timothy H. O’Sullivan, raffigurato dietro l’immancabile apparecchio fotografico a soffietto di grandi dimensioni su treppiedi (a pagina 24). Oltre i doverosi richiami al personaggio, questa odierna annotazione venga iscritta nell’ambito delle nostre consuete segnalazioni degli aspetti complementari e paralleli della fotografia. Questa statuina di Timothy H.

O’Sullivan è piacevole e gradita; inoltre, è una delle poche presenze della fotografia esterna al mondo degli addetti: dunque, è da tenere in particolare considerazione. Costa 9,90 euro e può essere richiesta come arretrato all’apposito servizio clienti dell’editore: 02-96248842; www.hachette-fascicoli.it. M.R. Ricerca iconografica di Filippo Rebuzzini



LIFE PER NOI ommentando la chiusura della terza esperienza editoriale di Life, la più recente, come supplemento settimanale di una identificata serie di quotidiani statunitensi (centotré, per tredici milioni di copie diffuse), lo scorso maggio, da queste pagine Lello Piazza ha compilato una serie di domande: tutte rivolte alla definizione della statura del fotogiornalismo dell’edizione originaria settimanale di Life, alla quale si riferisce tanto fotoreportage dei nostri tempi. Non stiamo qui a ripetere quelle domande, ma, a seguire, ne è maturata un’altra: forse, quella di sempre. Cosa sarebbe del fotogiornalismo, se Life non fosse esistita? (Così come, alla stessa maniera, possiamo declinare tante altre interrogazioni, da riferire a tutta la storia evolutiva della fotografia, senza soluzione di continuità dal linguaggio alla tecnica: se Edwin H. Land non avesse inventato la fotografia immediata? se Akio Morita non avesse accelerato verso l’evoluzione digitale dell’acquisizione di immagini? se Ernst Leitz II non avesse imposto la produzione della Leica originaria? se, se, se, se, all’infinito). Però, rivolgendoci a noi stessi, la domanda è altrimenti declinabile: come sarebbe stata la nostra vita in fotografia senza Life? Probabilmente, la stessa, perché alla resa dei conti, la risposta a tutte le domande che possiamo porci, e che ci siamo appena posti, è sempre la stessa: inevitabilmente, ciò che è accaduto in fotografia, così come nel macrocosmo dell’esistenza, doveva per forza di cose accadere. Se non ci fosse stata Life, ci sarebbe stato comunque qualcosa di identico, non soltanto analogo: perché i tempi erano maturi per questo tipo di giornalismo il-

C

A partire da questa uscita della primavera 1998, per qualche anno Life ha raccolto in fascicolo la selezione dell’Alfred Eisenstaedt Award, premio fotogiornalistico intitolato al celebre fotografo del proprio staff (mancato nel 1995, a novantasette anni). The Eisie Issue è stato sistematicamente presentato come The Best Magazine Photography of the Year.

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lustrato, che ha dato impulso e vigore all’intera concezione del fotogiornalismo moderno. Dunque, i riferimenti storici conseguenti si richiamano a Life, perché Life c’è stata; così come si sarebbero riferiti a ciò che avrebbe potuto succedere invece di Life.

DUE CHIARIMENTI Ciò detto, dobbiamo continuare a pensare e scrivere riferendoci a Life e non ad altre ipotetiche vi-


cende. Quindi, sono sostanzialmente indispensabili almeno due precisazioni (che potrebbero anche essere quantitativamente più corpose). La prima riguarda quell’idea di fotogiornalismo moderno che la Storia riporta sempre all’esperienza giornalistica di Life. È vero, anche noi ne siamo perfettamente convinti: così come lo intendiamo ancora oggi, il fotoreportage ha sostanziosi debiti di riconoscenza con l’impostazione originaria che Henry R. Luce diede alla rivista, fin dalla propria nascita. Testuale: «Vedere la vita, vedere il mondo; essere testimoni oculari di grandi eventi; osservare i volti dei poveri e i gesti dei superbi; vedere cose strane, macchine, eserciti, moltitudini, ombre nella giungla e sulla luna; vedere l’opera dell’uomo: dipinti, torri, scoperte; vedere cose che esistono a miglia e miglia di distanza, cose nascoste dietro le pareti, nelle stanze, cose pericolose da avvicinare; le donne che gli uomini amano e molti bambini; vedere e gioire nel vedere; vedere ed essere stupiti, vedere e imparare cose nuove. Così vedere ed essere visti diventa ora e resterà in futuro il desiderio e il bisogno di metà del genere umano».

Però, attenzione, insieme a queste belle proposizioni, tutte teoriche e intrise di buonsenso da padre di famiglia, la fotografia di Life e degli illustrati statunitensi che ne hanno seguito l’orma è stata soprattutto ideologica. Braccio (involontario?) di quella distribuzione e diffusione di pensiero americano che è dilagato in tutto il pianeta dalla fine degli anni Trenta. Tanto che bisogna richiamare ancora la fantastica mostra fotografica allestita alla prestigiosa Concoran Gallery of Art di Washington DC, nel 1999, che visualizzò un parallelo che oggi è congeniale. Propaganda & Dreams è stata una comparazione tra la fotografia sovietica e statunitense degli anni Trenta: ciascuna a proprio modo, entrambe caratterizzate da spiriti politici forti ed evidenti, oltre che dichiarati. Da una parte, la curatrice Leah Bendavid-Val ha collocato la Propaganda di regime (sovietico); dall’altra, i Sogni di uno stile di vita (statunitense) da proporre al mondo intero. Volendolo, e con punto di vista opposto, i termini potrebbero anche essere invertiti: Propaganda statunitense e Sogno socialista.

Come sanno tutti coloro i quali si occupano di fotografia, anche la terza edizione di Life ha chiuso i battenti all’inizio della scorsa primavera: ne abbiamo riferito e commentato lo scorso maggio. Per quanto si tratti di una vicenda interna al giornalismo statunitense, e soprattutto alle sue logiche di distribuzione e diffusione commerciale (a noi sostanzialmente estranee), è giocoforza tornare con il pensiero a quella lezione di fotogiornalismo definita e tracciata dalla prima edizione settimanale di Life, quella originaria, che dalla fine del 1936 si allungò nei decenni fino al 1972. Per quanto diversa -meno fotogiornalismo d’azione e più giornalismo di scrivania-, la seconda edizione mensile, che dal 1978 pubblicò fino al 2000, è stata analogamente affascinante. La nostra vita fotografica con (e senza) Life

Evitando altri clamori, come l’epopea delle missioni lunari, leggera passerella di numeri significativi della prima edizione settimanale di Life, quella alla quale si riferisce il particolare contributo dei suoi fotogiornalisti alla storia evolutiva del linguaggio fotografico. Il 10 ottobre 1955, la rivista ripropone il servizio originario di Edward Steichen su Greta Garbo, commissionato da Vanity Fair nel 1928. Uno dei celebri balzi di Philippe Halsman, che ha fatto saltare personaggi di spicco dell’arte, della politica e dello spettacolo: Marilyn Monroe, 9 novembre 1959. Numero speciale dedicato a John F. Kennedy, il presidente assassinato a Dallas il 22 novembre 1963. Quindi, due copertine in doppia pagina: oltre la composizione verticale di presentazione, l’inquadratura orizzontale completa si svela in un secondo momento, dispiegando l’anta piegata in interno. Il jazzista Louis Armstrong (15 aprile 1966) e l’attrice Mae West (18 aprile 1969), entrambi fotografati da Philippe Halsman.

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Nell’autunno 1996, alla fatidica scadenza del sessantesimo compleanno, Life ha confezionato un numero autocelebrativo, compilato con grande rispetto al valore dei fotografi autori delle immagini presentate. In copertina, un fotomosaico di Robert Silvers, che ricostruisce un ritratto di Marilyn Monroe attraverso una preordinata sequenza di copertine storiche della rivista.

Più che alle pubblicazioni settimanali di Life, che sono vissute nell’ambito della società statunitense, il mondo fotografico internazionale si riferisce forzatamente alle immagini (d’autore

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e o per argomento) estrapolate dalla propria messa in pagina originaria. In questo senso, oltre le accreditate storie della fotografia, sono discriminanti le raccolte curate dallo staff di Life.


Del resto, come sottolineato dal curatore Uliano Lucas trasversalmente alla selezione Il fotogiornalismo in Italia 1945-2005. Linee di tendenza e percorsi, promossa dalla Fondazione Italiana per la Fotografia (a Torino nel settembre 2005 e a Milano alla fine dello scorso 2006; FOTOgraphia, ottobre 2006), attualmente proposta a Montpellier, in Francia, fino al prossimo Primo luglio (su questo stesso numero, a pagina 16), il fotogiornalismo non è estraneo al giornalismo, al quale fornisce declinazioni visive in sintonia di intenti: in relazione e dipendenza delle esigenze e richieste della committenza. Per questo, parlando di fotogiornalismo, bisogna richiamare anche ogni sua componente, fino a indagare a fondo quelle linee di tendenza e quei percorsi che nel trascorrere dei decenni sono stati tracciati da professionisti della comunicazione visiva e testate sulle quali hanno pubblicato le proprie fotografie. Non immagini a sé, quindi, ma soprattutto immagini in relazione ai relativi utilizzi e in relazione alle vicende po-

litiche, economiche e sociali di riferimento. Seconda precisazione: quando si esalta il fotogiornalismo di Life ci si riferisce esclusivamente all’edizione originaria settimanale. Soprattutto agli anni che dalla fine dei Trenta si sono estesi fino alla tragedia della guerra in Vietnam. La successiva edizione mensile di Life non c’entra nulla con questo fotogiornalismo d’azione, segnalandosi invece per arguzia giornalistica e capacità di affrontare e proporre punti di vista di affascinante originalità. Tutt’altro discorso, dunque.

GIORNALISMO, APPUNTO Riflettendo su cosa abbia rappresentato Life per successive generazioni di fotografi e frequentatori della fotografia, noi tra questi, non pensiamo sia ancora il caso di sottolineare tutti quei sommi valori che la Storia ha già sancito e codificato, e che si trovano in ogni narrazione degna di questa definizione. Per cui, pensando a Life per noi, preferiamo annotare alcune particolarità dell’edizione mensile che

Ricordiamo qui alcune avvincenti selezioni. Da decenni, The Best of Life (1973) è una preziosa opera di consultazione, cui sono seguiti altri titoli, retrospettivi o a tema: tra i tanti, Life 1946-1955 (1984),

Da una guerra all’altra, poco cambia. Un esempio degli anni della Seconda guerra mondiale (9 aprile 1945, fotografia di W. Eugene Smith) e due della guerra in Vietnam: 16 aprile 1965 (fotografia di Larry Burrows, richiamato in copertina) e 11 febbraio 1966 (fotografia di Henri Huet/AP).

Life Faces (1991), Life Goes to the Movies (1975), Life Goes to War - A Picture History of World War II (1977), Life on the Move (2000), Life Classic Photographs (1988) e Life World War II (2001).

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La copertina dello speciale estate 1996 di Life fu messa in pagina con le fototessere semi-adolescenziali (dal Club di Mickey Mouse) di ventiquattro dei cinquanta più influenti personaggi statunitensi nati nell’epoca del “baby boom” (boomers): dal 1946 al 1964.

Lezione di giornalismo, con la capacità (e coraggio) di mettere in pagina un “God” / “Dio” in caratteri cubitali, a pieno formato. Life del dicembre 1998 si chiede «When You Think of God, What do You See?» (Quando pensi a Dio, come lo vedi?).

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è stata pubblicata dal 1978 al 2000 e che, per quanto estranea al mito del fotogiornalismo che ha definito i lunghi anni del settimanale originario, ha espresso affascinanti lezioni professionali: sapendo alternativamente guardare a se stessa e al mondo con un equilibrio del quale il giornalismo internazionale dovrebbe fare tesoro (e dovrebbe farlo soprattutto quello italiano, da troppo tempo latitante). Anzitutto, meritano una lode particolare alcune delle copertine di questa edizione mensile di Life, che spesso ha confezionato numeri monografici, affrontando argomenti anche insospettabili, oppure avvicinando in modo originale argomenti previsti. È il caso, tanto per esemplificare (argomento e copertina insieme), dello speciale estivo del 1996, già commentato in cronaca (FOTOgraphia, settembre 1996). È stata un’apprezzata lezione di giornalismo, analisi retrospettiva ed editoria, con contorno di immagine fotografica usata in modo superlativo. Sul filo dei ricordi, soprattutto statunitensi, con un salto temporale indietro, Life ha indagato sulla generazione nata negli anni del boom sociale immediatamente seguente la Seconda guerra mondiale. Il boom del dopoguerra statunitense portò con sé uno stile e una narrativa ufficiali. Lo stato d’animo era ottimista. Nacque la televisione. Le automobili, gli elettrodomestici per la cucina e persino le persone erano splendide e brillanti. Dopo la depressione e la guerra, la visione di una casa suburbana su quote diverse e un felice nucleo familiare prese residenza permanente nella mente nazionale. Tutte le conclusioni erano felici. Ufficialmente, non c’erano problemi. Anche se i problemi sono arrivati poi, presentando un conto carico di interessi passivi. Di tutto questo si è occupato lo speciale di Life, che prese spunto dai cinquanta più influenti personaggi nati nell’era del “baby boom” (appunto, boomers), ventiquattro dei quali furono presentati in copertina con relativi ritratti adolescenziali (o quasi) delle rispettive tessere del Club di Mickey Mouse, l’originale del nostro Club di Topolino (in

questa pagina, in alto). Tra questi, John Belushi (nato nel 1949 e prematuramente scomparso nel 1982), Bill Clinton (1946), Madonna (1958), Bill Gates (1955), Michael Jordan (1963), Hillary Clinton (1947), Spike Lee (1957), Bruce Springsteen (1949), Steven Spielberg (1947), Stephen King (1947) e Oliver Stone (1946). Altra copertina degna di particolare nota, a confezione di una retrospettiva autocelebrativa addirittura esaltante (FOTOgraphia, dicembre 1996), è stata quella dei sessant’anni di Life, dell’autunno 1996. Un ritratto di Marilyn Monroe, autentica icona del Novecento, fu interpretato da Robert Silvers (FOTOgraphia, marzo 1999), che per l’occasione


SOLO SUL WEB

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realizzò uno dei suoi fotomosaici utilizzando una ragionata serie di copertine storiche di Life (a pagina 32). Annotiamo che, successivamente, altri due periodici europei fecero qualcosa di analogo, in modo sostanzialmente posticcio: papa Wojtyla, l’uomo del decennio, fu abbinato ai primi dieci anni di Sette, supplemento settimanale del Corriere della Sera (10 marzo 1998) e il tedesco Spiegel compose una scritta celebrativa del cinquantenario della Repubblica federale tedesca (settembre 1998). In entrambi i casi, non autentico fotomosaico, con ragionata alternanza di toni e chiaroscuri, indispensabile per la ricostruzione della raffigurazione finale, ma schiarimenti e oscuramenti artificiosi e finalizzati.

opo il laconico annuncio dello scorso ventisette marzo, con il quale l’editore Time Inc ha decretato e motivato la terza chiusura di Life, dal 2004 supplemento settimanale a centotré quotidiani statunitensi, la testata sopravvive soltanto sul web: non come giornale, ma come collezione di oltre dieci milioni di immagini che coprono gli eventi e temi più importanti del Novecento. Due gli indirizzi principali: uno diretto, www.life.com/Life/gallery/movie.html; e l’altro riflesso, www.iphotoart.com, che gestisce diversi archivi fotografici statunitensi, tra i quali quelli della National Geographic Society, della George Eastman House, dell’Associated Press, di Joe McNally e Nat Fein. Causa o effetto, le stampe fotografiche oggi attribuite alle Life Picture Collection e Life Gallery of Photography si riferiscono a soggetti estremamente riconosciuti, mille volte citati, mille volte pubblicati, mille volte presentati nelle storie della fotografia e in quelle della società contemporanea: per una volta in dimensione fotografica originaria. Ovvero: copie bianconero (soprattutto), piuttosto che colore, ottenute dai negativi originari, conservati nel capace archivio della casa editrice. Negli Stati Uniti, da tempo questa vendita è promossa con annunci pubblicitari, pubblicati su testate mirate. Uno di questi annunci, che qui replichiamo, visualizza una fotografia più che conosciuta, più che pubblicata, più che storicizzata: la bandiera statunitense issata sul monte Suribachi, isola di Iwo Jima, il 23 febbraio 1945, momento focale della controffensiva statunitense sul fronte del Pacifico, durante la Seconda guerra mondiale. Come specifica l’attribuzione, in questo caso si tratta di stampa fotografica moderna (ovvero realizzata in tempi recenti, con interpretazioni tonali attuali, su supporti sensibili tecnologicamente odierni), tirata in una edizione limitata, nel formato 16x20 pollici, che equivalgono a 40,6x50,8cm, impreziosita dalla firma autografa dell’autore Joe Rosenthal. A seguire, altri soggetti sono proposti in finiture analoghe, per il cui dettaglio tecnico, anche variabile da caso a caso, è bene consultare i siti appena ricordati. Annuncio di vendita di fotografie d’archivio In chiusura, e con l’occasione, anno- realizzato dalla Life Gallery of Photography, tiamo che le quotazioni delle Life Pictu- gestita da www.iphotoart.com, re Collection e Life Gallery of Photo- che cura diverse collezioni. fotografie storiche di Life si trovano graphy sono oggettivamente lontane dai Le anche all’indirizzo diretto valori di speculazione forzata che incon- www.life.com/Life/gallery/movie.html. triamo altrove: si ragiona nell’ordine di qualche centinaio di dollari, con valutazioni economicamente assai convenienti. Quindi, pur senza approdare al processo alle intenzioni, e senza congelare alcuna ipotesi futuribile (perché poi, domani, ciascuno può comportarsi come crede e fare ciò che vuole), la linearità di questa proposta dipende dalla propria aderenza al mondo della valorizzazione degli archivi fotografici, estranea al circuito della fotografia mercantile. Acquistando una delle fotografie proposte, o più di una, non ci si muove nel territorio della fotografia d’arte, con le relative regole di quotazioni in crescendo stabilite dagli Dalla Home Page della directory www.life.com/Life/gallery/movie.html equilibrismi dei mercanti e critici della si accede all’archivio fotografico di Life. materia, ma in quello, parallelo e non Le stampe sono proposte a condizioni contrapposto, della collezione d’amore. economiche particolarmente convenienti.

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Ottobre 1994. Con sulle spalle il cane Eddie, che l’accompagnava nella seguita serie Frasier, l’attore televisivo Kelsey Grammer richiama l’argomento di una inchiesta di sostanza: «Why We Love Cats More Than Dogs (and vice versa)» / «Perché amiamo i gatti più dei cani (e viceversa)». Quindi, il gioco degli opposti è sottolineato dalla copertina della rivista (sempre Life), che l’attore tiene tra le mani, che illustra un gatto e recita «Why We Love Dogs More Than Cats (and vice versa)» / «Perché amiamo i cani più dei gatti (e viceversa)».

i cani domestici o i gatti (terribile diatriba, paragonabile a tanti altri dualismi: Coppi-Bartali, Beatles-Rolling Stones, Moser-Saronni, Inter-Milan, Roma-Lazio, Juventus-Torino, Sampdoria-Genoa, Partito comunista-Democrazia cristiana, Windows-Mac, a ciascuno il proprio). In copertina, con sulle spalle il cane Eddie, che l’accompagnava nella seguita serie Frasier, l’attore televisivo Kelsey Grammer, vincitore di cinque Emmy, richiama una risposta inequivocabile a una domanda esplicita: «Why We Love Cats More Than Dogs (and vice versa)» / «Perché amiamo i gatti più dei cani (e viceversa)». Quindi, il gioco degli opposti è sottolineato dalla copertina della rivista (sempre Life), che l’attore tiene tra le mani, che illustra un gatto e recita «Why We Love Dogs More Than Cats (and vice versa)» / «Perché amiamo i cani più dei gatti (e viceversa)» (qui a sinistra). Attenzione: in copertina e nel servizio interno, ritratti di Harry Benson, uno dei più affermati fotografi del genere. Planando più bassi, ma neppure poi tanto, ancora due segnalazioni, rappresentative di un insieme quantitativamente assai consistente (degno di un capitolo della ipotetica e improbabile Storia del giornalismo internazionale). Sopra tutto, un esempio dal punto di vista dell’impatto visivo sul lettore/cliente potenziale, che in Italia viene per lo più attirato con allegati di vario genere, se non già con raffigurazioni di nudi femminili assolutamente pretestuosi (tanto che il settimanale Cuore, anni fa, compilava la classifica dei “culi” e delle “tette” ingannevolmente sulle copertine dei periodici nazionali). In inglese, la domanda è esplicita tanto quanto lo è in italiano: «When You Think of God, What do You See?». Cioè: «Quando pensi a Dio, come lo vedi?». Argomento esistenziale di quelli tosti! Copertina da lezione di giornalismo, con la capacità (e coraggio) di mettere in pagina un “God” / “Dio” in caratteri cubitali, quasi a pieno formato: Life del dicembre 1998 (a pagina 34). Assolutamente più leggera era stata, in precedenza, l’inchiesta condotta interpellando una consistente serie di personaggi pubblici statunitensi, dalla politica allo sport, allo spettacolo: Life dell’ottobre 1994. Ognuno si è espresso circa la propria predilezione per Nell’ottobre 1999, alla vigilia della fine del decennio, secolo e millennio, Life realizzò un numero speciale di rievocazione fotografica anticipatorio delle monografie a tema pubblicate nello stesso inverno ( FOTOgraphia, dicembre 1999). Life Great Pictures of the Century sintetizzò il Novecento attraverso una qualificata e identificata serie di immagini epocali: tutte fotografie individuate all’interno del capace archivio della rivista, che ha osservato il Ventesimo secolo con particolare attenzione fotogiornalistica, celebrata dalla Storia della fotografia.

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QUINDI, LIFE PER NOI Indipendentemente da fatti concreti e tangibili, come sanno esserlo quelli della Vita, per successive generazioni di fotografi e appassionati di fotografia Life è stato un concetto. Non possiamo pensare che chi si occupa di fotografia abbia modo di seguire in diretta le cronache del fotogiornalismo, però ognuno di noi ha sempre saputo che, comunque andassero le storie, Life c’era. Per il passato meno prossimo, (per scaramanzia e amor proprio) non diciamo addirittura remoto, attingiamo dal patrimonio visivo dei fotografi di Life per conoscere lo svolgimento dei fatti e averne una visione chiara ed esplicita: dai fronti delle guerre, come anche dal quotidiano più minuto. Sfogliamo libri e raccolte, e quelle di Life sono veramente tante, oltre che belle (in selezione a pagina 32), per incontrare e ri-percorrere tempi e luoghi che conosciamo proprio in virtù di queste immagini (fino alle più recenti rievocazioni, compilate in occasione del passaggio di decennio/secolo/millennio 1999-2000; qui accanto e in FOTOgraphia del dicembre 1999). A seguire, nel più recente passato, quello soltanto prossimo, abbiamo goduto della buona compagnia di un mensile attento e giornalisticamente ammirevole, dalle cui pagine abbiamo sicuramente imparato qualcosa. Forse, addirittura molto. Infine, se una risposta va data al quesito esistenziale proposto in partenza, uno dei tanti che condiscono questa rievocazione soprattutto intima, dobbiamo pensare di essere ciò che siamo, e in alcuni casi siamo sostanzialmente belli (dentro, più di quanto non lo si possa essere fuori), anche grazie alla fotografia e al giornalismo di Life. Non ne avremmo certo potuto fare a meno; dunque, se non ci fosse stato Life, ci sarebbe stato comunque qualcosa di coincidente e identico capace di guardare la Vita con analoga franchezza e chiarezza. Con uno sguardo che, comunque lo consideriamo (e ci consideriamo), ha arricchito il nostro personale bagaglio culturale. Maurizio Rebuzzini Ricerca iconografica di Ciro Rebuzzini



Georgia O’Keeffe / John Loengard. Dipinti e fotografie; Johan & Levi Editore, 2007 (via Valosa di Sopra 9, 20052 Monza MI; 039-7390330, www.johanandlevi.com; info@johanandlevi.com); 80 pagine 24x30cm, cartonato con sovraccoperta; 33,00 euro.

«Non c’era nulla di simile a un fiore sulla terra, solo bianche ossa secche. Così le raccolsi» Georgia O’Keeffe

PITTURA E FOTOGRAFIA uante, le storie di fotografia da raccontare! Quante ancora, le storie di fotografia da raccontare, magari nell’intenzione e con lo spirito di comporre quadretti di particolare sapore e curiosità, da collocare all’interno della più ampia e ufficiale Storia. Questo è il princìpio, forte e inviolabile, che caratterizza la preziosa edizione libraria di Georgia O’Keeffe / John Loengard. Dipinti e fotografie, pubblicata in Italia da Johan & Levi Editore, la cui personalità fotografica è temporalmente recente, e il cui impegno è adeguatamente concentrato su una vi-

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sione di profilo confortevolmente alto. Già ne abbiamo riferito, lo scorso marzo, in occasione della presentazione della monografia Biblioteche, di Candida Höfer; e qui è obbligatoria la ripetizione. Oltre una divisione scientifica Johan & Levi Science, che pubblica monografie di prodotto, riviste e testi scientifici, Johan & Levi Editore è attivo principalmente in ambito umanistico: cinque collane di libri d’arte e fotografia e una di saggistica. Attraverso una accurata selezione dei progetti, l’indirizzo editoriale è rivolto alla divulgazione di materiali inediti e presentazione di documenti, opere e vite d’artista.


Con il sasso di Eliot Porter in mano, Abiquiu; 1966.

Ecco, dunque, la collocazione editoriale dell’attuale Georgia O’Keeffe / John Loengard. Dipinti e fotografie, che il mondo della fotografia deve considerare per una coincidente serie di ragioni. Le principali: avvincente raccolta di ritratti della celebre pittrice statunitense, che vanta meriti artistici autonomi, che noi coniughiamo anche per il suo essere stata compagna di vita di Alfred Stieglitz; attraverso la registrazione fotografica, affascinante clima di vita e pacificazione creativa; osservazione fotografica di traverso, condotta da un autore che ha frequentato a lungo il mondo della comunicazione visiva; luci della ribalta accese su un profondo materiale fotografico, fino a oggi sostanzialmente inedito, a quarant’anni dalla propria attualità. Nel concreto, una straordinaria lezione di fotografia e storia in efficace combinazione.

O’KEEFFE IN PRIVATO Nel giugno 1966, John Loengard, fotografo e photo editor tra i più preparati al mondo (nello staff di Life fino alla fine degli anni Ottanta), visitò la pittrice statunitense Georgia O’Keeffe nelle sue tenute di Ghost Ranch e Abiquiu, nel New Mexico, dove tornò l’anno dopo. Ai tempi, alcune fotografie riprese in quell’occasione furono pubblicate su Life. Oggi, a distanza di quarant’anni, trentanove immagini sono state riunite nell’attuale edizione libraria di Georgia

Una intensa serie di ritratti di Georgia O’Keeffe è raccolta in una preziosa edizione libraria comprensiva di suoi dipinti. Con il proprio linguaggio esplicito, ben declinato da John Loengard, la fotografia testimonia il forte legame tra la pittura surreale della nota artista statunitense e l’aspra realtà del deserto circostante. Profondo materiale fotografico, fino a oggi sostanzialmente inedito, a quarant’anni dalla propria attualità. Fotografie realizzate nella seconda metà degli anni Sessanta, che rivelano il valore stesso dell’immagine fotografica, che si costruisce ed edifica sull’immancabile e inviolabile scorrere del tempo 39


DIPINTI E FOTOGRAFIE

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ata il 15 novembre 1887, nei pressi di Sun Prairie, nel Winsconsin, secondo genita di una coppia di agricoltori, Georgia O’Keeffe venne lanciata come pittrice dal futuro marito, il fotografo Alfred Stieglitz, che attraverso la sua celebre e celebrata 291 Gallery sosteneva artisti d’avanguardia statunitensi ed europei. All’inizio degli anni Dieci (del Novecento), la introdusse negli ambienti artistici newyorkesi, che subito apprezzarono le sue illustrazioni a carboncino e i suoi acquarelli: opere tra le più innovative di tutta l’arte statunitense del periodo. Negli anni Venti, Georgia O’Keeffe si dedica a pitture a olio di grandi dimensioni, con forme naturali e architettoniche ispirate agli edifici di New York. A metà degli anni Venti è riconosciuta come una delle artiste più importanti degli Stati Uniti. Dal 1929, passa diversi mesi dell’anno nel New Mexico, dipingendo alcune tra le sue creazioni più famose, nelle quali sintetizza l’astrazione con la rappresentazione di fiori e paesaggi tipici della zona. Negli anni Trenta e Quaranta riceve numerosi riconoscimenti e lauree ad honorem. Nel 1946, alla morte di Alfred Stieglitz, si trasferisce definitivamente nel New Mexico, e negli anni Cinquanta produce una serie di dipinti con forme architettoniche ispirate alla sua casa e una vasta serie di pitture di nuvole come viste da un aeroplano. Muore il 6 marzo 1986, a Santa Fé, a quasi novantanove anni di età. John Loengard, classe 1934, ha studiato a Harvard, e dopo l’università ha lavorato come fotografo indipendente. Nel 1961 entra nella redazione di Life e successivamente lavora per altre pubblicazioni del gruppo Time Inc. Ha pubblicato numerosi libri, premiati con prestigiosi riconoscimenti, curato edizioni speciali di Life e raccontato straordinarie storie di fotografia (tra le quali, ricordiamo la monografia Celebrating the Negative, nella quale ha raccolto cinquantadue negativi di fotografie storiche scattate da quarantatré grandi autori; FOTOgraphia, maggio 1995). Sue opere sono state esposte in numerose mostre personali e collettive e fanno parte di collezioni permanenti di musei di tutto il mondo. Vive a New York.

Con un libro di Leonard Baskin, camera da letto, Abiquiu; 1966.

(pagina accanto, in alto) Sul tetto, Ghost Ranch; 1967. (pagina accanto, in basso) Pelvis with Distance; 1943 (60,6x75,6cm; Indianapolis Museum of Art; dono di Anne Marmon Greenleaf, in memoria di Caroline Marmon).

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O’Keeffe / John Loengard. Dipinti e fotografie. Raccolte e impaginate in volume, rafforzate dal proprio valore storico, queste fotografie assumono un carattere addirittura seducente. Anzitutto, documentano il forte legame tra la pittura surreale di Georgia O’Keeffe e l’aspra realtà del deserto circostante, nella quale oggetti quotidiani -ossa, sassi, i sonagli di un serpente- emanano una singolare magia. In coincidenza, una volta ancora e una di più rivelano il valore stesso dell’immagine fotografica, che si costruisce ed edifica sull’immancabile e inviolabile scorrere del tempo. L’alternanza tra i dipinti, ovviamente nelle cromie originarie, e i ritratti privati di Georgia O’Keeffe, che John Loengard ha realizzato con evidente affetto e complicità di intenti, stabilisce un ritmo visivo che fa tesoro e vanto del linguaggio fotografico esplicito, capace sia di rivelare ciò che la fotografia mostra in modo palese sia di svelare ciò che l’animo e la mente dell’osservatore è in grado e condizione di riconoscere (facendo leva sulla propria esperienza individuale).

STORIA PER IMMAGINI

Come annotato, Georgia O’Keeffe / John Loengard. Dipinti e fotografie è una storia per immagini: felice consecuzione di opere della pittrice (la signora del deserto) e suoi ritratti fotografici eseguiti da John Loengard, che compongono una sorta di binario parallelo e collegato. Nel particolare, le fotografie svelano anche come la realtà del deserto sia impressa a fuoco nelle opere pittoriche dell’artista americana. Trentenne inviato dal settimanale Life (prima edizione; ne abbiamo scritto lo scorso maggio e ribadiamo su questo numero, da pagina 30), John Loengard incontra l’anziana pittrice nel giugno 1966 e nel 1967, per un servizio da pubblicare in occasione del suo ottantesimo compleanno (17 novembre 1887-1967). A Abiquiu, nel New Mexico, è accolto da una signora dai capelli bianchi, in abito scuro, ferma sulla soglia della sua casa. Il giovane fotografo è immediatamente colpito dalla sorprendente vitalità di quella meravigliosa signora, che tutti ritenevano ormai un’eremita. Da


vent’anni, Georgia O’Keeffe viveva defilata ed estranea alla mondanità artistica del mondo che pure aveva intensamente frequentato per decenni. Viveva sola nel New Mexico, dopo aver lasciato New York nel 1946, alla morte del marito Alfred Stieglitz. Rispettando il silenzio dei luoghi, John Loengard realizza una fantastica sequenza fotografica che ha come motivo conduttore il sapore di momenti e gesti. «Osservavo Georgia O’Keeffe con attenzione, per vedere come la luce si posava su di lei», ricorda oggi John Loengard. «Valutavo se ripeteva un gesto e aspettavo che muovesse la testa da un lato o dall’altro. [...] In altri momenti, le chiesi di posare. Lei lo fece volentieri e con molta grazia». John Loengard fotografò Georgia O’Keeffe in vari momenti della giornata: mentre scuote i sonagli, trofei di serpenti uccisi durante le sue passeggiate nel deserto; mentre passeggia col suo cane all’alba, sullo sfondo dell’aspra roccia di un paesaggio desertico; seduta in camera da letto, con un libro di Leonard Baskin in mano. Come riferito, alcune di queste fotografie furono pubblicate su Life nel 1967, e decenni dopo l’intero portfolio di John Loengard arriva nelle mani di un editore e collezionista tedesco, Lothar Schirmer (!), che progetta un libro nel quale affiancare i ritratti a opere pittoriche realizzate da Georgia O’Keeffe tra gli anni Trenta e i Settanta. La vicenda editoriale di questo libro è raccontata nella prefazione dello stesso Lothar Schirmer, che introduce Georgia O’Keeffe / John Loengard. Dipinti e fotografie.

A seguire, la parte illustrata della monografia, che è poi la sua autentica anima e il suo motivo di esistere, è preceduta anche da una testimonianza di John Loengard, apprezzato complemento alla sequenza di immagini. Angelo Galantini

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CON AUTENTICI MAESTRI Come consueto, il programma didattico del Toscana Photographic Workshop (TPW), in Val d’Orcia tra luglio e agosto, prevede una incessante e qualificata sequenza di corsi ad alto contenuto. Docenze di riconosciuti professionisti di spessore internazionale, coinvolti in un clima di benefica convivialitĂ

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N Sandro Santioli: Light, Colour and Landscape (dal 5 all’11 agosto).

ell’ambito dei programmi estivi di fotografia, che da tempo proliferano sul nostro territorio nazionale, proponendo appuntamenti spesso discutibili (a ciascuno, le proprie intenzioni e proiezioni), il Toscana Photographic Workshop si è ritagliato un proprio spazio di alta qualità, che ha proiettato l’indirizzo a livello internazionale. A complemento, oltre la sostanza dei propri corsi estivi, che si allungano per un mese, dalla metà di luglio, si segnalano i progetti speciali, distribuiti nel corso dell’anno: dalle date delle Processioni pasquali in Sicilia agli incontri alle isole Eolie, al Masterclass Focus in Monferrato (Piemonte), dove a settembre si svolgerà la prima sessione didattica di dieci gior-

ni nella quale giovani fotografi staranno a stretto contatto con photo editor, giornalisti ed editori. E poi, ancora, si registrano gli incontri periodici presso le sedi Fnac e i corsi di fotografia digitale del progetto Canon Academy. Tutto questo dà la misura di un impegno fotografico di spessore, che non si esaurisce nelle (altre) leggerezze della sola vacanza estiva, che per lo più caratterizzano e definiscono le personalità dei programmi estivi in riva al mare, soprattutto indirizzati al passatempo ricreativo con vista su corpi femminili nudi, in procaci pose fotografiche. No! Ciò che specifica e descrive il Toscana Photographic Workshop, ideato e creato da Carlo Roberti, che ne è il (magnifico) direttore, è qualcosa di autenticamente altro, qualcosa che ha sostanziosi punti di collegamento con la più concreta cultura della fotografia, che qui viene affrontata e proposta con adeguata onestà di intenti (www.tpw.it, info@tpw.it).

SENZA CONFINI Alla propria quattordicesima edizione, il programma estivo del Toscana Photographic Workshop,

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Antonin Kratochvil: Portraits on the Edge of Light (dal 29 luglio al 4 agosto).

Bruno Stevens: Catching Souls (dal 5 all’11 agosto).

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David Alan Harvey: Creating a Photographic Book (dal 15 al 21 luglio).

(pagina accanto) Andreas H. Bitesnich: Form & Tension (dal 5 all’11 agosto).

Arno Rafael Minkkinen: In Search of the Center (dal 22 al 28 luglio).

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cuore pulsante del progetto didattico complessivo, prima e oltre le sue altre diramazioni, cui abbiamo appena accennato, conferma la struttura attiva dal 1994, anno di partenza e origine: approfonditi corsi fotografici della durata di una o più settimane. Ancora, e allo stesso momento, riafferma e rafforza il carattere internazionale dell’appuntamento: docenti e studenti provengono da nazioni diverse, da tutto il mondo siamo tentati di affermare, con-

tribuendo così a una ulteriore e unica esperienza di scambio culturale. In assoluto, i fotografi-insegnanti del Toscana Photographic Workshop (TPW, in sigla) sono selezionati tra i più affermati e preparati professionisti della fotografia contemporanea, riconosciuti a livello planetario: fotogiornalisti di prestigiose redazioni -dal National Geographic Magazine al New York Times, a Newsweek- e di agenzie giornalistiche di spicco -come Magnum Photos, VII, Agence Vu e Grazia Neri-, oltre a professionisti della pubblicità e fotografi artisti che espongono in gallerie e musei di tutto il mondo. Le personalità coinvolte nella sessione di questa estate 2007, della quale riferiamo in un apposito riquadro a pagina 48, sono in sintonia e linea con il cammino fin qui tracciato. Una volta ancora, e una di più, nomi del panorama internazionale della fotografia, capaci anche di trasmettere in forma didattica le proprie esperienze, maturate sul campo. Fotografia pratica, dunque, ma anche clima adeguato a una frequentazione collettiva, che si allunga e distribuisce nei giorni: dai momenti ufficiali a quelli conviviali della vita in comune.

ESTATE 2007 Al Toscana Photographic Workshop non ci sono spazi didattici tradizionali: qui la fotografia si incon-


tra e pratica in casali, vecchi fienili, campi di grano e caffè sulla piazza. Sempre con l’intenzione dichiarata ed esplicita di comunicare ai partecipanti una particolare visione fotografica, che li accompagnerà poi nei propri percorsi individuali. L’edizione 2007 del TPW è distribuita su quattro fasce di date: dal quindici al ventun luglio, dal ventidue al ventotto luglio, dal ventinove luglio al quattro agosto e dal cinque all’undici agosto. In ognuna, sono previsti più corsi simultanei, che affrontano specifiche visioni della fotografia contemporanea: Gente e luoghi (People & Places), Fotografia documentaria (Documentary Photography), Professione e carriera (Profession & Career), Paesaggio e architettura (Landscape & Architecture), Ricerca personale (Personal Research), Ritratto, nudo e figura (Portrait, Nude & Figure), Tecniche fotografiche (Photo Techniques). Tra i ventotto corsi, ci preme richiamare quattro autori/docenti che in tempi diversi sono stati pubblicati sulle nostre pagine. Assieme a Kent Kobersteen, il tedesco residente negli Stati Uniti Gerd Ludwig (copertina di FOTOgraphia del luglio 2005, dall’ampio programma fotografico di ObiettivoUomoAmbiente, a cura di Lello Piazza, a Viterbo nell’autunno 2005) tiene una sessione sull’incarico fotografico: On Assignment, nell’ambito di Gente e luoghi, dal quindici al ventun luglio.

Quindi, due fotografi dell’agenzia VII (FOTOgraphia, settembre 2002 e febbraio 2004), entrambi al TPW dal ventinove luglio al quattro agosto: Antonin Kratochvil con Portraits on the Edge of Light e Alexandra Boulat con The Art of Photojournalism, rispettivamente per la Fotografia documentaria e la Professione e carriera. Con l’occa-

Roderick Macdonald: Digital Nude Photography: an Introduction (dal 15 al 21 luglio).

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TPW 2007 15-21 luglio

22-28 luglio

29 luglio - 4 agosto

Gente e luoghi (People & Places)

Kent Kobersteen e Gerd Ludwig On Assignment

Randy Olson Bob Sacha Ordinary Lives, Extraordinary Spirit of People Stories: the People of Tuscany Monika Bulaj About Seeing

Fotografia documentaria (Documentary Photography)

Stanley Greene Along the Chalk Lines

Mauro D’Agati Other People’s Life

Professione e carriera (Profession & Career)

David Alan Harvey Andrea Pistolesi Creating a Photographic Book The Photo-Story from Idea to Publishing

Antonin Kratochvil Portraits on the Edge of Light

Bruno Stevens Catching Souls

Alexandra Boulat The Art of Photojournalism

Maggie Steber The Photo-Essay Sandro Santioli Light, Colour and Landscape

Paesaggio e architettura (Landscape & Architecture) Ricerca personale (Personal Research)

5-11 agosto

Paul Elledge Environmental Photography

Arno Rafael Minkkinen In Search of the Center

Anders Petersen Lorenzo Castore Surprised by the Unpredictable Eyes Wide Open

Antoine D’Agata Till the End of the World Ritratto, nudo e figura (Portrait, Nude & Figure)

Roderick Macdonald Digital Nude Photography: an Introduction

Philippe Pache Sensuality of Light

Tecniche fotografiche (Photo Techniques)

Erminio Annunzi Brian Storm Digital World: an Introduction Multimedia Story-Telling Claudio Amadei Lighting Techniques

I corsi del TPW si svolgono presso il Monastero benedettino di Sant’Anna in Camprena, nel cuore della Val d’Orcia.

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sione, ricordiamo ancora che il servizio Women of the Middle East and Afghanistan di Alexandra Boulat, pubblicato nel 2006 da Aperture, è stato segnalato nella categoria del fotogiornalismo dei prestigiosi riconoscimenti assegnati dall’American Society of Magazine Editors (Asme), l’autorevole as-

Amy Arbus The Narrative Portrait

Andreas H. Bitesnich Form & Tension

Gianluca Colla The Digital Workflow: RGB unrevealed

Erminio Annunzi Advanced Printing Techniques Marianna Santoni Photoshop for Photographers

sociazione dei direttori dei magazine statunitensi (su questo numero, a pagina 14). Infine, l’incontro su Lighting Techniques, appunto per le Tecniche fotografiche, dal quindici al ventun luglio, è svolto da Claudio Amadei, del quale abbiamo più volte sottolineato la statura espressiva: a partire dall’impeccabile finalizzazione dell’illuminazione (eccoci), con la serie In Deep (FOTO graphia, novembre 1997), per approdare alla sostanziosa esperienza Holga (Visioni siciliane in FOTOgraphia del febbraio 1998, È corsa nel giugno 2001, Holga mon amour nel marzo 2002 e Ferriera Valsabbia nel settembre 2005). I corsi estivi si svolgono presso il Monastero benedettino di Sant’Anna in Camprena, vicino Pienza, nel cuore della splendida Val d’Orcia, conosciuto per essere stato la location del film Il paziente inglese. Quest’area offre il giusto isolamento e permette di raggiungere velocemente straordinari centri d’arte della Toscana, quali Siena, San Gimigniano e Pienza. Per informazioni dettagliate e aggiornamenti: 051-6440048, www.tpw.it, info@tpw.it. Angelo Galantini


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nalizzare la fotografia è un esercizio della parola (anche scritta) che può riferirsi a molteplici aspetti e personalità del suo linguaggio espressivo. Tra le tante considerazioni possibili, molte delle quali soltanto probabili, una in particolare riguarda i luoghi e le situazioni verso i quali (le quali) l’autore fotografo rivolge la propria attenzione. In assoluto, si possono identificare due direzioni, formalmente opposte: il fotografo può avvicinare condizioni completamente estranee alla propria vita quotidiana, appunto osservate con lo stupore e fascino della novità (e consecuzioni); oppure, al contrario, il fotografo può agire entro ambiti a lui vicini, noti e conosciuti, tanto da appartenere alla sua stessa esistenza. In entrambi i casi, la fotografia esprime proprie personalità di spicco, che danno senso e valore alla sua stessa espressività, che nasce, riferendoci alla scomposizione appena

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annotata, dalla sorpresa senza condizionamenti oppure, analogamente anche se con segno algebrico diverso, dall’affiatamento con il soggetto, altrettanto fascinoso. La serie fotografica Lat. 44° 29’ Nord / Long. 12° 17’ Est, del ravennate Luigi Tazzari, professionista della sala di posa, appartiene alla seconda delle due categorie che abbiamo considerato e sottolineato (due categorie della fotografia, tra le sue mille possibili). Le coordinate di latitudine e longitudine espresse nel titolo individuano il porto di Ravenna, soggetto esplicito delle immagini, e quindi l’azione fotografica è stata compiuta in spazi e luoghi del proprio vissuto, quantomeno di riflesso. Esposte in mostra nella stessa Ravenna, a cavallo dell’anno presso i Chiostri della Fondazione Oriani, e dunque originariamente rivolte prima di altri a osservatori vicini e coincidenti, le fotografie sono state raccolte anche in monografia, che ne conserva e ripropone l’identificazione: ribadiamo, Lat. 44° 29’ Nord / Long. 12° 17’ Est. Quindi, nella propria edizione, il volume illustrato estende e amplifica la sua proiezione creativa, indirizzandosi a un pubblico potenzialmente più ampio di quello soprattutto locale dell’allestimento in mostra. Per quanto l’editoria fotografica sia oggi estremamente prolifica, tanto da consentire edizioni un tempo impensabili, e tanto da confondere l’orientamento di coloro i quali, noi tra loro, frequenta questo

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A ciascuno, la propria lettura fotografica. Per quanto estranei e lontani da molte introspezioni visive, che si contorcono su se stesse, quando l’incontriamo sappiamo riconoscere l’immagine che agisce su un binario parallelo: quelli della raffigurazione esplicita del soggetto e della rappresentazione implicita di sentimenti e sensazioni. Concentrata sul porto di Ravenna, la serie Lat. 44° 29’ Nord / Long. 12° 17’ Est di Luigi Tazzari ha il carisma della fotografia che non si limita all’apparenza del soggetto

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VIA E. MANFREDI

ROSETTI MARINO

particolare mondo, il volume di Luigi Tazzari merita attenzione e andrebbe premiato con una diffusione di sostanza. Infatti, le fotografie sono concretamente belle. C’è differenza tra una bella fotografia e una fotografia bella: la prima lo è soprattutto, e forse soltanto, nella propria apparenza (di forma e in superficie), la seconda lo è nel profondo (di contenuto e nel significato). Queste di Luigi Tazzari sono fotografie belle perché raccontano con una avvincente proprietà di linguaggio, consentendo l’avvicinamento visivo ai luoghi descritti anche a coloro i quali, come noi, non conoscono a priori la vicenda narrata. L’autore rivela di essersi mosso a proprio agio all’interno delle complesse e varie-


TERMINAL DOCKS CEREALI RIMORCHIATORI SERS RIMORCHIATORI SERS

gate strutture del porto di Ravenna, attorno il quale gravitano circa quattromila persone e nel quale si esercitano innumerevoli attività, passive e attive. Allo stesso momento, con profonda delicatezza d’animo, Luigi Tazzari allinea la maestosità dei luoghi, molti dei quali di innegabile fotogenia, alla presenza di uomini. La sua fotografia porta in superficie situazioni e volti originariamente anonimi, che invece sono l’anima pulsante della vita del porto. Così, distribuendo nel tempo la propria azione (ci sono perfino momenti innevati!), oltre che nell’ampio spazio delle strutture e infrastrutture, Luigi Tazzari compone una scrittura che dà alla fotografia almeno tanto quanto riceve dalla fotografia. Infatti, queste immagini compiono un percorso a doppio senso, che è necessario sottolineare. Nel momento della propria esecuzione, le fotografie di Luigi Tazzari applicano una attenta serie di stilemi sui quali si basa la stessa comunicazione visiva: punto di vista, inquadratura, composizione. Ciò che è compreso nello spazio immagine ha pertinenti rapporti e adeguate consecuzioni con quanto ne è stato consapevolmente escluso; così come la prospettiva compone quella geometria sulla quale l’occhio si sofferma, per collegarsi immediatamente con l’animo. In linea diretta, ancora, nel momento della propria visualizzazione, sulla sequenza delle pagine di Lat. 44° 29’ Nord / Long. 12° 17’ Est, e presumiamo anche nell’allestimento scenico della mostra degli ingrandimenti fotografici, le stesse immagini sollecitano un analogo percorso espressivo, che consente la più pertinente identificazione del soggetto, e che -siamo sinceri- favorisce addirittura la sua comprensione, in una condivisione di intenti con l’autore. Ciò detto, Luigi Tazzari restituisce alla fotografia ciò che dalla

fotografia ha avuto: con la propria abilità, ma soprattutto con il proprio sentimento, ricambia la generosità del linguaggio originario con una declinazione estremamente raffinata. È per questo, che noi osservatori scavalchiamo l’apparenza evidente, riuscendo a cogliere i nessi impliciti della vita del porto di Ravenna. A questo punto, soltanto un’altra domanda potrebbe essere ancora legittima. Possiamo essere lontani dal soggetto, addirittura estranei, perfino disinteressati: che ci interessa del porto di Ravenna? Personalmente poco, forse nulla. Ma non è questo un problema della fotografia, che deve esprimere sensazioni e sentimenti perfino indipendentemente dal proprio soggetto dichiarato. Magari lontani dall’autore Luigi Tazzari per quanto riguarda il microcosmo della sua rilevazione fotografica, non possiamo che essergli vicini, e restargli accanto, per l’intensità dello sguardo. Sì, se possiamo avvicinarlo in questo modo, il porto di Ravenna ci interessa, per quanto e perché queste immagini rappresentano scampoli di vita che non si esauriscono nelle esistenze individuali, ma appartengono a tutti noi. Bravo e meritevole è quel fotografo che non limita la propria applicazione agli aspetti evidenti del soggetto, ma è capace di cogliere quell’animo delle persone e degli oggetti che si propagano nell’aria e diventano collettivi (giammai globali!). Bravo e meritevole è Luigi Tazzari. Maurizio Rebuzzini

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FRAMMENTI DI MEMORIA niversalmente considerato uno dei capisaldi della fotografia giapponese contemporanea, erede di una tradizione che affonda le proprie radici indietro nei decenni (per quanto ignorata dalle storiografie occidentali), Shomei Tomatsu, classe 1930, interpreta un linguaggio visivo profondo, capace di raggiungere il cuore dell’osservatore, immediatamente assorbito da immagini avvolgenti che spalancano spiragli di riflessione individuale. Purtroppo (per noi, soprattutto), la fotografia orientale è stata sostanzialmente estranea al circuito della comunicazione visiva occidentale, la cui narrazione si è sempre e soprattutto basata sul percorso statunitense e, in subordine, europeo. Come appena annotato, lo stesso si deve dire per le Storie, le cui parzialità geografiche sono quantomeno colpevoli.

U

Oltre il materiale fotografico originario, la tappa italiana della mostra Skin of the Nation di Shomei Tomatsu si completa con una videointervista di Filippo Maggia, coordinatore dell’esposizione alla Galleria Civica di Modena. Esperienza visiva che sottolinea come e quanto le immagini, anche in un’epoca nella quale scorrono disordinate e senza sosta, possano ancora costringere a fermarsi e riflettere, specie quando rappresentano un frammento essenziale della memoria collettiva

Per questo, all’esterno del ristretto ambito degli addetti, personalità fotografiche come quella di Shomei Tomatsu sono per lo più ignorate dal pubblico occidentale. A diretta conseguenza, è più che lodevole l’iniziativa della Galleria Civica di Modena, che nella propria sede di Palazzo Margherita allestisce l’unica tappa italiana di Skin of the Nation, concentrata riflessione del fotografo giapponese sui

Prostitute, Nagoya; 1958 (stampata nel 2003); carta ai sali d’argento, 25,9x35,2cm (donazione di Al Alcorn al San Francisco Museum of Modern Art).


Senza titolo, dalla serie On the Road, Tokyo; 1962 (stampata nel 1995); carta ai sali d’argento, 30,2x36,7cm (proprietà dell’autore).

Senza titolo [Rice Farmer, Ishiki, Aichi], dalla serie Floods and the Japanese; 1966; carta ai sali d’argento, 20,3x32,5cm (collezione privata).

disastri e la disperazione dell’era atomica. Itinerante dal maggio 2005, quando è stata allestita alla Concoran Gallery of Art di Washington DC (al San Francisco Museum of Modern Art, per conto del quale è stata prodotta, nel maggio 2006), in ogni propria sede espositiva precedente, la mostra si è affrancata per la chiarezza di una rappresentazione che ha scosso le coscienze. A cura di Sandra Phillips e Leo Rubinfien, per conto del San Francisco Museum of Modern Art, in collaborazione con la Japan Society di New York, in Europa Skin of the Nation è già stata presentata a Praga e Winterthur (Svizzera), così che l’appuntamento emiliano inserisce la Galleria Civica di Modena in una prestigiosa rete internazionale. Accanto a una selezione di oltre duecentosessanta fotografie, l’appuntamento espositivo si arricchisce di una videointervista con l’autore Shomei Tomatsu a cura di Filippo Maggia e di alcuni

film -inediti in Italia- realizzati da John Junkerman, regista indipendente statunitense, collaboratore alla mostra: lungo e approfondito viaggio nella storia del Giappone dal dopoguerra ai giorni nostri, che rivela aspetti determinanti della cultura orientale, utili alla comprensione del lavoro fotografico dello stesso Shomei Tomatsu e indispensabili per l’avvicinamento a una società così diversa dalla nostra occidentale, ormai in precario equilibrio tra tradizione e globalizzazione.

ERA ATOMICA Adolescente quando sente le sirene annunciare l’arrivo dei B-29 americani durante la Seconda guerra mondiale, Shomei Tomatsu è stato segnato da quell’esperienza originaria, sia come uomo sia co-

BIOGRAFIA

S

homei Tomatsu è nato il 15 gennaio 1930 a Nagoya. Attualmente vive tra Nagasaki e Naha, nell’isola di Okinawa. Nel 1954, si laurea presso la Aichi University e si trasferisce a Tokyo, dove quattro anni più tardi riceve il New Artist Award dalla Japan Photo Critics Association. Nel 1959 tiene la prima mostra personale al Fuji Photo Salon, cui seguono nei cinque anni successivi la mostra 11.02 Nagasaki e Kingdom of Mud. Dal 1966 al 1973 insegna come professore associato presso la Zokei University di Tokyo, compiendo negli stessi anni diversi viaggi nell’isola di Okinawa, tornata ai giapponesi dopo l’occupazione americana del dopoguerra. Nel 1974 partecipa alla mostra New Japanese Photography, a cura di John Szarkowski e Shoji Yamagishi, al Mu-

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seum of Modern Art di New York (MoMA), con Nobuyoshi Araki, Masahisa Fukase, Eikoh Hosoe, Daido Moriyama e Noriaki Yokosuka. Nel decennio successivo riceve numerosi premi e pubblica diversi libri. Nel 1984, la mostra Shomei Tomatsu: Japan 1952-1981 viene proposta in diverse sedi museali europee, e da allora molte sono le esposizioni personali in Giappone e all’estero, tra le quali vanno ricordate quelle al Perspektief Centrum Voor Fotografie di Rotterdam (1990), al Metropolitan Museum of Art di New York (1992), al Trinity College (Vermont, 1995) e al Tokyo Metropolitan Museum of Photography (1999). Prima dell’attuale selezione Skin of the Nation, in mostra a Modena fino al ventidue luglio, nel 2004 è stata allestita una antologica al National Museum of Modern Art di Kyoto.


Senza titolo [Iwakuni], dalla serie Chewing Gum and Chocolate; 1960 (stampata nel 1983); carta ai sali d’argento, 21,9x30,5cm (proprietà dell’autore).

Card Game, Zushi, Kanagawa; 1964 (stampata nel 1980); carta ai sali d’argento, 21x31,9cm (collezione privata).

me artista. Laureato alla Aichi University nel 1954, si impegna subito nella fotografia. A Tokyo, dove si è trasferito dalla natia Nagoya, si afferma presto come uno dei giovani fotoreporter più capaci della propria generazione, soprattutto per l’intelligenza e sagacia con le quali entra nel vivo delle situazioni affrontate, senza limitarsi alla semplice documentazione di superficie. Nel 1958 riceve il prestigioso e qualificato New Artist Award, assegnato dalla Japan Photo Critics Association, e l’anno dopo espone la sua prima personale al Fuji Photo Salon. Shomei Tomatsu si autodefinisce “puro interpre-

te del tempo presente”; non pare interessato a “fermare il tempo”, come alcune delle sue più famose fotografie sembrerebbero significare, quanto a celebrarlo, dandone ogni volta una lettura diversa, drammatica o giocosa, ma comunque autentica, vissuta e condivisa in prima persona. Questo approccio è evidente nelle immagini appartenenti alla celebre serie intitolata 11.02 Nagasaki, dei primi anni Sessanta, il cui titolo richiama uno dei più tragici momenti della più recente storia giapponese, indelebilmente impresso nella memoria collettiva (non soltanto nazionale). Origina-

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Steel Helmet with Skull Bone Fused by Atomic Bomb, Nagasaki; 1963 (stampata nel 1980); carta ai sali d’argento, 20,2x29,8cm (proprietà dell’autore).

(al centro) Senza titolo, dalla serie Golden Mushroom; 1990-92 (stampata nel 1993); stampa cromogena, 37,9x37,9cm (proprietà dell’autore).

Hibakusha Tomitarô Shimotani, Nagasaki; 1961 (stampata nel 1980); carta ai sali d’argento, 21x32,1cm (collezione di Edwin Cohen).

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ria riflessione sull’era atomica, amplificata nell’attuale sequenza Skin of the Nation, in mostra a Modena fino al ventidue luglio, quell’11.02 Nagasaki ha ripreso come un monito l’istante nel quale il tempo si è fermato a Nagasaki, il nove agosto 1945, quando sulla città fu sganciata la seconda delle bombe atomiche con le quali gli Stati Uniti piegarono l’esile e cocciuta resistenza dell’impero giapponese (questa seconda bomba atomica fu battezzata “Fat Man”, la prima, sganciata su Hiroshima il precedente sei agosto, era stata graziosamente definita “Little Boy”). Con la prima esposizione di queste immagini, Shomei Tomatsu impose la propria forte personalità creativa. Assieme a Ken Domon (1909-1990), già apprezzato e stimato autore nel panorama nazionale, al

quale venne commissionato un lavoro parallelo su Hiroshima, venne identificato come fotografo capace di offrire una interpretazione originale e appassionata di ciò che la bomba atomica aveva significato per il popolo giapponese, specialmente nel decennio che seguì la fine della Seconda guerra mondiale.

IL TEMPO SCORRE Due le linee conduttrici. Anzitutto si registra una serie di immagini che restituiscono la crudeltà e la ferocia della guerra, senza mai mostrarne direttamente gli effetti se non attraverso osservazioni di lato (soprattutto oggetti: una bottiglia di birra fusa che sembra essere un osso umano, una statua quasi disciolta dal calore; attenzione: sulla guerra assente abbiamo riflettuto e ci siamo soffermati in FOTOgraphia del luglio 2004). Accanto a queste visioni, Shomei Tomatsu ritrae persone, e specialmente le loro vite, raccontandone con grande de-


Japan World Exposition, Osaka; 1970 (stampata nel 2003); stampa termica, 26,4x39,4cm (collezione privata).

licatezza e pudore la difficile attività quotidiana. Cosa abbia realmente significato la sconfitta e la successiva occupazione americana per il Giappone è quasi una sua ossessione, affrontata e raffigurata anche nella successiva serie Chewing Gum and Chocolate. La consapevolezza di riuscire a vivere il tempo presente -sua peculiarità espressiva- ha segnato tutta la carriera di questo straordinario autore: dal racconto delle contraddizioni che hanno accompagnato il rapido sviluppo economico del Giappone, diventato in soli vent’anni una grande potenza industriale, ai moti studenteschi della fine degli anni Sessanta, alla nascita di nuovi stili di vita, che guardano all’Occidente ma che ancora affondano le proprie radici nella pura tradizione e cultura giapponese, sino a raggiungere, negli anni recenti, una sorta di equilibrio formale e di contenuti, magnificamente espresso nella serie intitolata The Pencil of the Sun. La sua lunga avventura esistenziale e creativa è stata raccontata da Shomei Tomatsu nella videointervista realizzata da Filippo Maggia lo scorso febbraio a Naha, capoluogo dell’isola di Okinawa, dove il fotografo risiede nel periodo invernale. Quando risponde alla domanda sul perché spesso includa nelle immagini la propria ombra, Shomei Tomatsu grida la propria lucida partecipazione alla realtà, come attore e non semplice spettatore: «perché io appartengo a questo preciso momento, esattamente come ciò che sto fotografando». Affermazione, questa, che suona come monito alla contemporaneità e ricorda quanto le immagini, anche in un’epoca nella quale scorrono disordinate e senza sosta, possano ancora costringere a fermarsi e riflettere, specie quando rappresentano un frammento essenziale della memoria di noi tutti. Angelo Galantini

Shomei Tomatsu: Skin of the Nation. A cura di Sandra Phillips e Leo Rubinfien, per conto del San Francisco Museum of Modern Art, in collaborazione con la Japan Society di New York. Galleria Civica di Modena, Palazzo Santa Margherita, corso Canalgrande 103, 41100 Modena; 059-2032911; www.comune. modena.it/galleria, galcivmo@comune.modena.it. Fino al 22 luglio; mercoledì-domenica 10,30-13,00 - 16,00-19,30. Videointervista a cura di Filippo Maggia, coordinatore dell’edizione italiana; film inediti di John Junkerman. Alla realizzazione della mostra hanno contribuito il National Endowment for the Arts, Allan Alcorn, Linda e Jon Gruber, la E. Rhodes and Leona B. Carpenter Foundation, Bob e Randi Fisher, la Blakemore Foundation, William S. Fisher, Prentice e Paul Sack, Ellen Ramsey Sanger, la Japan Foundation e Fuji Photo Film Co. La mostra è dedicata alla memoria di Ellen Ramsey Sanger. Produzione dell’edizione italiana con il contributo della Fondazione Cassa di Risparmio di Modena.

Eiko Ôshima, Actress in the Film Shiiku (Prize Stock); 1961 (stampata nel 2003); carta ai sali d’argento, 27,5x42,7cm (collezione privata).

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LA FINE DEL MONDO

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Titolo impegnativo, oltre che risolutivo, quello con il quale il curatore Luca Beatrice ha identificato la più recente produzione di Saverio Chiappalone, artista che si esprime con le forme e gli impliciti contenuti della fotografia, proposta dalla attenta selettiva Fondazione Mudima di Milano dal cinque giugno al successivo quattordici luglio: appunto, La fine del mondo (Fotografie 2005-2007). In esposizione, cinquanta opere, la maggior parte delle quali tratte dal volume La fine del mondo, del quale è conservato e riproposto il richiamo, pubblicato da Cudemo Editore, che raccoglie le più recenti indagini dell’autore, attraverso immagini bianconero realizzate tra il 2005 e il 2007, che esprimono indagini su diversi temi, dal nudo femminile alla natura. A partire dallo scandaloso (all’epoca) L’origine du monde, dipinto di Gustave Courbet del 1866 (Musée d’Orsay, Parigi), del quale riprende titolo e visione, Saverio Chiappalone riferisce la propria visione a una rappresentazione classica del nudo. Quindi, dopo aver appunto omaggiato esplicitamente il pittore francese, alla cui opera si ispira la composizione e interpretazione fotografica (pagina accanto), prosegue lungo un tragitto che, nelle intenzioni, pone un sigillo al

Dalla serie Cose che dimentico; 2005.

Blondinka; 2007.

Dalla serie Purezza; 2005.

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percorso espressivo iniziato a metà Ottocento: drasticamente (e ironicamente), La fine del mondo. Alla maniera di molti autori storici della fotografia, ai quali dobbiamo opere fondamentali dell’evoluzione

del linguaggio visivo, l’azione di Saverio Chiappalone allinea il nudo femminile a una concentrata rappresentazione della natura. Giocoforza pensare a profondi debiti di riconoscenza con la parabola espressiva di


FONDAZIONE MUDIMA

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iretta da Gino Di Maggio, la Fondazione Mudima è la prima fondazione italiana costituita per l’arte contemporanea. Nasce all’inizio del 1989 con lo scopo di realizzare un programma articolato dedicato alle esperienze internazionali nel settore dell’arte visiva e della musica contemporanea; è un’istituzione senza fine di lucro e non svolge attività mercantile. In pochi anni, la Fondazione Mudima è diventata un indirizzo nevralgico sulla scena internazionale dell’arte contemporanea, promuovendo mostre di grande rilievo (Yoko Ono, Marcel Duchamp, Wolf Vostell, Nam June Paik, Joseph Beuys, Imai, Arman, César, Daniel Spoerri, Mimmo Paladino, Jaume Plensa, Michelangelo Pistoletto, Enrico Baj), concerti (John Cage, Pianofortissimo, Daniele Lombardi, La Monte Young) e manifestazioni legate al design (Master Domus Academy); inoltre, collabo-

L’origine du monde; 2005.

ra con autorevoli istituzioni nazionali e internazionali. Da tempo, la Fondazione Mudima persegue un progetto culturale di grande respiro, volto a intensificare il rapporto tra l’Italia e i Paesi dell’Estremo Oriente. Ne è testimonianza la grande mostra Italiana, presentata in Giappone, a Yokohama (Tokyo) nel 1994, che per la prima volta ha unito Arte Povera e Transavanguardia in un progetto assolutamente rivoluzionario per la scena artistica contemporanea. In sintonia, ricordiamo anche l’organizzazione del padiglione coreano alla Biennale di Venezia del 1993 e la rassegna Civilization, City and Cars - From Leonardo Da Vinci to Pininfarina, tenutasi a Seul nel maggio 1996. Fondazione Mudima, via Tadino 26, 20124 Milano; 02-29409633, fax 02-29401455; www.mudima.net, info@mudima.net.

Edward Weston, sopra tutti, e con i percorsi di Bill Brandt, Man Ray e Paul Outerbridge. Nel suo saggio introduttivo, alla mostra come al volume, il curatore Luca Beatrice evidenzia, poi, un sostanzioso dato di partenza, ovvero l’empatia tra chi fotografa e ciò che è rappresentato (non certo, soltanto raffigurato): «Saverio Chiappalone ama le cose che fotografa, le sente sue con trasporto, passione e

intelligenza. Non conosce il distacco, pur utilizzando soltanto il bianconero non ne contempla la freddezza e la distanza. [L’autore] “difende” i propri soggetti, protegge le modelle dallo sguardo voyeuristico di noi spettatori, indaga la pelle, rendendola più morbida di un velluto». Ecco: nelle sue opere, Saverio Chiappalone esplora il corpo femminile, ricercandone la sensualità anche attraverso la restituzione vi-

siva nei toni caratteristici del bianconero fotografico. In molte opere, si sofferma sui particolari che esaltano la femminilità; in altre, pare estraniarsi dal reale. Si tratta di una ricerca fotografica che, con eleganza e senso estetico (proprio e caratteristico degli autori in rimando appena ricordati), esalta le forme, nei particolari ravvicinati, nella composizione, nei chiaroscuri. Caratteristica delle sue fotografie è giusto «la rinuncia a sovrapporre un’espressione facciale ai suoi corpi, e questo è un dato non trascurabile e veramente originale della sua poetica rispetto alle foto[grafie] di nudo oggi più diffuse». In un certo senso, Saverio Chiappalone, classe 1966, accompagna l’osservatore dalla fotografia a una più complessa sensibilità concettuale: «per lui il nudo è natura e paesaggio, è fiore e frutta, è sesso e roccia, è sabbia e acqua. Non racconta niente della donna e ne fa perdere le forme nell’assoluta anonimia degli elementi». Come annotato, i nudi fotografici sono affiancati a immagini della natura, che sembrano creare parallelismi con il corpo femminile, come la serie intitolata Purezza (pagina accanto) o quella di Cose che dimentico (ancora pagina accanto), nella quale le forme delle rocce richiamano addirittura quelle del corpo femminile. In mostra, stampe in tiratura: vintage e ingrandimenti lambda montati su alluminio. In particolare, la serie Onde, ricerca fotografica che si è estesa dalla fine del 2005 allo scorso gennaio, è prodotta e presentata in ingrandimenti lambda di generose dimensioni, che il prossimo settembre saranno esposti in Francia, al Musée d’Art Moderne et d’Art Contemporain di Nizza. A.G. Saverio Chiappalone: La fine del mondo (Fotografie 2005-2007). A cura di Luca Beatrice. Fondazione Mudima, via Tadino 26, 20124 Milano; 02-29409633, fax 02-29401455; www.mudima.net, info@mudima.net. Dal 5 giugno al 14 luglio; lunedì-venerdì 11,00-13-00 - 16,00-19,30. La fine del mondo; testo introduttivo di Luca Beatrice; Cudemo Editore, 2007; 152 pagine; 32,00 euro.

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A

nticipata alla Photokina 2006 (FOTOgraphia, novembre 2006), è sul mercato la nuova reflex digitale a obiettivi intercambiabili Fujifilm FinePix S5 Pro, la cui sigla identificativa specifica immediatamente la propria proiezione professionale, specificamente “Pro”. Erede delle precedenti configurazioni, tra le quali si segnala l’apprezzata dotazione FinePix S3 Pro (FOTOgraphia, aprile 2005), TIPA Award 2005 (FOTOgraphia, maggio 2005), l’attuale Fine Pix S5 Pro ribadisce l’impegno Fuji verso la fotografia professionale, dove propone una alta qualità di immagine, in linea e sintonia con l’affermata resa delle pellicole professionali Fujifilm, sempre e comunque al vertice tecnico del mercato. Nello specifico, l’evoluzione FinePix S5 Pro conferma l’insieme delle caratteristiche e prestazioni della propria genìa, che hanno trovato consistenti campi di applicazione nella fotografia professionale in studio, nella fotografia di cerimonia e nel ritratto. Sopra tutto, va ancora sottolineata l’estesa gamma dinamica della tecnologia a doppio pixel del sensore Super CCD SR 23x15,5mm da 12,34 Megapixel effettivi (6,17 Megapixel S e 6,17 Megapixel R). Nella conferma tecnologica, la nuova Fujifilm FinePix S5 Pro continua questa tradizione e va oltre, combinando il nuovo sensore Super CCD SR Pro con il nuovo

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Real Photo Processor Pro, tecnologia proprietaria, per risultati adeguatamente simili a quelli ottenuti con la pellicola. La FinePix S5 Pro offre queste due tecnologie all’interno di un nuovo corpo macchina particolarmente resistente, in lega leggera, progettato per l’acquisizione

digitale di immagini; nel concreto apre la strada all’espansione delle tecnologie d’imaging digitale Fujifilm verso applicazioni incrementate, come la fotografia in esterni e commerciale.

VALORI PROPRI Un consistente e considerevole insieme di caratteristiche e prestazioni definisce quelli che sono i punti salienti della Fine Pix S5 Pro. Anzitutto, dal punto di vista di elaborazione e qualità immagine, si segnala

IMPER la tecnologia proprietaria, appena ricordata, Real Photo Pro, che, unendo il sensore Super CCD SR Pro e il processore RP Pro, consente un’ampia gamma dinamica, qualificata da gradazioni di tonalità più uniforme e sfumate dalle alte luci fino alle ombre più dense. Il nuovo e riprogettato Super CCD SR Pro presenta un innovativo sistema di controllo del rumore, che riduce i disturbi e minimizza l’effetto moiré. Il nuovo processore RP Pro presenta due cicli di riduzione dei disturbi, che consentono sensibilità fino a 3200 Iso equivalenti con minore disturbo.

Immediatamente a seguire, si segnala un controllo migliorato del colore e della gamma dinamica. Per una maggiore applicazione creativa, si può scegliere tra sei intervalli predefiniti dell’ampia gamma dinamica della FinePix S5 Pro, compresa tra 100 e 400 per cento. Inoltre, sono state aggiunte tre nuove variazioni della modalità originaria di simulazione pellicola (cinque modalità in totale), per una migliore riproduzione delle tonalità naturali dell’incarnato e dei colori/materiali di più difficile interpretazione. Ancora, ereditata da applicazioni altrimenti indirizzate, l’efficace tecnologia Face De-


IOSAMENTE Unica azienda impegnata in tutti i fronti della fotografia professionale e non professionale, con una gamma di prodotti che si estende perfino alla gestione conto terzi (!), Fujifilm conferma la propria presenza di qualità anche nell’ambito della ripresa fotografica professionale. La nuova reflex digitale a obiettivi intercambiabili FinePix S5 Pro, erede di una genìa di particolare personalità, ribadisce l’efficacia della tecnologia a doppio pixel del sensore Super CCD SR da 12,34 Megapixel effettivi (6,17 Megapixel S e 6,17 Megapixel R), combinato con il nuovo Real Photo Processor Pro

tection individua fino a dieci volti all’interno dell’inquadratura, subito dopo l’acquisizione di ciascuna immagine. Sull’ampio monitor LCD da 2,5 pollici si possono così verificare rapidamente i dettagli del viso, per controllare subito i corretti parametri fotografici di esposizione e messa a fuoco, oltre le variabili soggettive.

NELLO SPECIFICO Come le precedenti configurazioni derivata da corpo macchina originario Nikon, anche l’attuale Fujifilm Fine Pix S5 Pro conferma e ribadisce la compatibilità con l’innesto Nikon F degli obiettivi intercambiabili: dai Nikkor AFD e AF-G ai più recenti Nikkor AF-S, specificamente dedicati all’acquisizione digitale di

immagini. Analogamente, la reflex è dotata di controllo flash ad alta precisione i-TTL e dispone si sensore autofocus a undici punti, per una messa a fuoco accurata, rapida e precisa (sostanzialmente superiore a quella del sensore a cinque punti della precedente FinePix S3 Pro). Su schede CompactFlash o Microdrive, la modalità di doppio salvataggio Raw e Jpeg simultaneo, con relative scale di qualità a scelta, permette di acquisire e archiviare contemporaneamente file grezzi, da interpretare successivamente con una efficace postproduzione, e file compressi, utili per la prima gestione dell’immagine, ma già adatti a utilizzi di carattere professionale. Ovviamente,

FUJI le proprietà di questi documenti immagine sono estese alle piattaforme Windows e Mac, attraverso le quali, con software opzionale Hyper Utility, si possono anche governare le modalità di controllo remoto dell’apparecchio. In ripresa, la compensazione dell’esposizione da meno cinque a più cinque Valori Luce, in una scala con progressioni da un terzo di stop, mezzo stop o un valore intero, consente di adattare gli automatismi a ogni particolare condizione luminosa. La gamma dei tempi di otturazione è estesa dai trenta secondi pieni a 1/8000 di secondo, con sincronizzazione flash a 1/250 di secondo. Scatto in sequenza rapida fino a tre fotogrammi al secondo. La raffinata ed efficace misurazione esposimetrica si basa su tre sistemi di lettura TTL: valutazione 3D Color Matrix (sensore RGB a 1005 segmenti), valutazione Media compensata al centro e valutazione Spot concentrata. Queste misurazioni si estendono alle modalità di esposizione automatica Program [P], automatica a priorità dei tempi di otturazione [S], automatica a priorità del diaframma [A] e Manuale [M]. Il bilanciamento del bianco è automatico per condizioni

luminose identificabili (luce incandescente, luce fluorescente, sole, flash, ombra) e personalizzabile in relazione a particolari situazioni di temperatura colore. Una particolare funzione Nota consente l’aggiunta di commenti ai singoli file immagine, decodificabili da un lettore di codice a barre combinato con il corpo macchina. Il display LCD da 2,5 pollici, con risoluzione di 235.000 pixel, vanta una copertura completa, cento per cento, del campo effettivamente inquadrato; è altresì dotato di visualizzazione Live da trenta secondi, a colori o in bianconero, per verificare la corretta messa a fuoco e i dettagli dell’immagine. Oltre la dotazione standard, si segnala una gamma di accessori opzionali dedicati: adattatore Lan, per il trasferimento di immagini wireless ad alta velocità; Hyper Utility Software, per un affrancato controllo ed editing delle immagini acquisite in formato grezzo Raw a 14 bit (lo stesso software consente anche il controllo remoto della reflex da postazioni computer); batteria ricaricabile, carica batterie e adattatore di rete. (Fujifilm Italia, via dell’Unione Europea 4, 20097 San Donato Milanese MI). Antonio Bordoni

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L

LENI RIEFENSTAHL

Leni Riefenstahl (Berta Helene Amalie Riefenstahl), la bella maledetta in camicia bruna, è una donna particolare: attrice, regista e fotografa di notevole talento figurativo, sul quale precisiamo subito il nostro distinguo: ne scriviamo. Nasce in Germania, a Berlino, il 22 agosto 1902. La sua figura di cineasta e fotografa investe l’intero secolo. Sullo schermo, è stata poco più di una bambola fascinosa, sovente impudente, romantica, sentimentale, materiale delicato per uomini senza desideri e pubblici sbigottiti di tanta aristocratica bellezza. I film di Arnold Fanck, sopra tutti Der weisse Rausch (Ebbrezza bianca, 1931) e SOS Eisberg (S.O.S Iceberg, 1933), la impalmano nel suo splendore di diva del cinema tedesco. È bella, brava e intelligente. Nella frequentazione dei capi nazisti non si accorge di quanto predica Adolf Eichmann, il boia degli ebrei, a capo dell’operazione del Terzo Reich definita “soluzione finale” (Endlösung). Quando fu processato a Gerusalemme, dichiarò che aveva ordinato lo sterminio di milioni di uomini, donne e bambini perché quello era il suo lavoro. Leni Riefenstahl debutta come produttrice (in collaborazione con Béla Balázs, il teorico del montaggio cinematografico in forma d’arte) e regista di se stessa con Das blaue Licht (letteralmente La luce blu, distribuito in Italia come La bella maledetta, 1932). Interpreta Junta, una ragazza gitana, la sola persona del villaggio che riesce a scalare le pareti del Monte Cristallo, guidata da una luce blu. Il bagliore di una roccia di cristalli blu attira l’avidità degli uomini, che violano il segreto della ragazza e lo distruggono insieme alla sua vita. In questo film, molti hanno visto un apologo fiabesco, cancellato dalla brutalità del presente che

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così determina anche la perdita dei valori magici del mistero. È la retorica del melodramma o, se vogliamo, del romanzo d’appendice. Tutto ritorna al proprio posto con la morte dell’eroe/ eroina, e il mito risorge nell’immaginario collettivo. Come regista di fiction, Leni Riefenstahl è piuttosto inconsistente. Invece, e al contrario, il suo valore di documentarista innegabile. I film che ha diretto e interpretato, Das blaue Licht e Tiefland (Bassopiano, tratto dall’operetta di Eugen d’Albert, terminato nel 1944, poi sequestrato dalle forze di liberazione e proiettato soltanto dieci anni più tardi), non lasciano traccia del suo particolare talento filmico e confermano invece la struggente bellezza di un corpo fuori del tempo e del gusto comune.

Riefenstahl muore a Pöcking, in Germania, l’8 settembre 2003, pochi giorni dopo aver compiuto centouno anni.

IL TRIONFO DELLA VOLONTÀ IN CAMICIA BRUNA

La luce e l’ombra del nazismo di Leni Riefenstahl si coglie nei documentari di esaltazione del regime: Triumph des Willens (Il trionfo della volontà, 1935), Tag der Freiheit - Unsere Wehrmacht (Giorno della libertà - La nostra Wehrmacht, 1935), Olympia (1938). In queste imbarazzanti apologie della “razza nordica”, la sua macchina da presa riesce a significare un’estetica dei corpi e una composizione dei movimenti che la proiettano di forza nello sparuto gruppo dei grandi cinedocumentaristi (Robert J. Flaherty, Joris Ivens, Dziga Ver-

«L’umanità degli umiliati e offesi non è mai vissuta all’ora della liberazione neppure per un minuto» Hannah Arendt Leni Riefenstahl viene arrestata nel primo dopoguerra per propaganda nazista, rilasciata nel 1948, dopo quattro anni di carcere in Francia, e assolta dalle accuse più gravi. Ma non le furono scontate, né perdonate, le sue simpatie per Hitler, e fu oggetto di altri processi. Nel 1993, il regista Ray Müller realizza il documentario Die Macht der Bilder: Leni Riefenstahl (distribuito nei festival cinematografici internazionali, Italia compresa, come The Power of Image: Leni Riefenstahl, ovvero Il potere dell’immagine: Leni Riefenstahl, oppure The Wonderful, Horrible Life of Leni Riefenstahl, ovvero La meravigliosa, orribile vita di Leni Riefenstahl): da dimenticare. Leni

tov). Tuttavia, va detto, e anche con chiarezza, che Leni Riefenstahl non è stata uno strumento più o meno inconsapevole del nazismo, è stata la “pupilla di Hitler”: i suoi lavori sono stati concertati su un’idea “ariana” dell’esistenza, e il posto degli dèi è quello dell’altare purificatorio dove sventola la svastica. Leni Riefenstahl faceva parte della cerchia privilegiata di intellettuali favoriti di Adolf Hitler e Josef Goebbels, lo zoppo che quando sentiva parlare di cultura metteva mano alla pistola. Ci sono molte fotografie che la ritraggono felice e orgogliosa accanto a questi aguzzini con la faccia da padri di famiglia. Nelle loro scampagnate estive, for-

se non discutevano solo delle prossime grandezze della cinematografia tedesca, ma anche delle nefandezze legate allo sterminio di ebrei, zingari, omosessuali, handicappati, pazzi, sovversivi contrari al regime. La Shoah non ha rappresentato soltanto il genocidio degli ebrei d’Europa, è stata anche una “pulizia etnica” che prevedeva la fine materiale di ogni (presunta e teorizzata) diversità. La colpa di Leni Riefenstahl non è stata quella di appoggiare con la propria persona e i propri film un manipolo di assassini, ma di avere taciuto all’intera umanità gli eccidi di massa degli ebrei, la tortura, l’annientamento di tutti quelli che esprimevano il dissenso contro Hitler o, più semplicemente, non erano ariani, cioè “perfetti”. Tacere il dolore di un popolo significa erigere la forca del boia. Il nazi-fascismo (come il cristianesimo, l’islamismo, l’ebraismo e il comunismo) ha insegnato ad abbassare gli occhi, affinché l’obbedienza diventi il primo passo verso la sottomissione e renda gli individui mansueti e schiavi. In un tempo nel quale tutti fornicavano con tutti, i figli di puttana come Leni Riefenstahl si votavano alla genuflessione. «Per quanto sublime possa essere l’arte di dimenticare, noi non possiamo praticarla» (Gershom G. Scholem). Le guerre le inventano un manipolo di imbecilli e le subiscono i popoli, sempre. Chi non ha fame d’amore, è assetato di anime morte. Dei terrori di Stato son piene le fosse.

L’APOLOGIA DEL CORPO DELL’AFRICA NERA Nella storia della fotografia, Leni Riefenstahl ha un proprio percorso, e non sono pochi gli estimatori di questa teorica della bellezza eterea o dell’apologia del corpo nazista -come quello


dei guerrieri Nuba, che incontrò negli anni Sessanta-. I suoi lavori hanno trovato posto nelle gallerie, nei musei o tra gli operatori del settore. C’è chi non dimentica il suo sostegno al nazismo e chi, invece, le perdona tutto, anche una scrittura fotografica fortemente segnata dall’esaltazione della “purezza” come mimesi di un’espressione e di una sensibilità insincera, o comunque che non tocca le zone profonde della materia trattata. Le sue fotografie sono la celebrazione del kitsch, tableau vivant di una struttura narrativa che emula la pittura e piega il vero nell’ambiguità della lusinga. Nel primo dopoguerra, e fino agli anni Cinquanta, Leni Riefenstahl ha cercato di tornare al cinema. Però, il suo passato al servizio di Hitler la connota senza scampo tra i complici più paludati, e le è difficile realizzare i suoi progetti. Anche il film sugli schiavi, Die schwarze Fracht (Il carico nero), che avrebbe voluto girare in Kenia, non va a buon fine. Nel 1962, fulminata sulla via della fotografia da una celebre immagine di George Rodger, si trasferisce nel Sudan meridionale e realizza splendidi reportage “etnologici” sui Nuba (documentari e fotografie). La bellezza delle sue fotografie è coinvolgente, così come lo è l’elegia dei corpi di un popolo che lei vede e rappresenta come conservatore di antiche gesta guerresche. Frequenta i Nuba e l’Africa in diversi periodi, e dopo molte controversie editoriali dà alle stampe Die Nuba (1973), Die Nuba von Kau (1976) e Mein Afrika (1982), pubblicati anche in edizioni internazionali. Gli arrivano premi e onorificenze. Incontra personaggi di interesse pubblico, almeno per i consumatori di idoli, come Mick Jagger o Andy Warhol, e ovunque nel mondo gli rinnovano i tributi del passato. Poiché nelle sue fotografie l’eterno ritorno dell’identico si impone (Nietzsche non c’entra), l’insufficiente diventa evento, e la mediocrità l’arte di ritrattare storie che puzzano di assassinio.

Nel 2000, quasi novantenne, Leni Riefenstahl torna dai Nuba, ed è un commiato. Li trova decimati dalla guerra civile, dalla miseria, dalle malattie, convertiti o costretti ad abbracciare la religione fondamentalista islamica (ma il cattolicesimo e l’ebraismo non sono stati da meno, in quanto a truci inquisizioni) e rischiano l’estinzione. L’avanzare del progresso a colpi di fucile porta ovunque la richiesta di cannibalismo mercantile e neocolonialista dell’economia globale. C’è da dire che nelle fotografie di Leni Riefenstahl, la visione estetica o pittorialista -come sostiene Susan Sontag- non sembra perdere quell’esibizione del bello esteriore caro alla cultura della vigliaccheria delle dittature. I corpi nudi dei Nuba sono affascinanti. Leni Riefenstahl li fotografa in modo imperioso, sovente in controluce, esalta gesti e tratti, congela momenti e costruisce simulacri, esibisce trattamenti elementari dell’immagine e finisce per allontanarsi dallo stupore della fotografia. Si accosta alle abitudini dei Nuba, ma non è lo sguardo della ricerca antropologica che la guida, semmai è un’abrasione delle forme, dei colori, degli atteggiamenti che fissa sulla sua pellicola. A leggere con attenzione le sue fotografie si vede che i ritratti ravvicinati, ritagliati, colti fuori del proprio accadere mantengono una certa vitalità espressiva quando si accosta agli usi e costumi dei villaggi (danze, vestizioni, lavori, rituali); ciò che resta dell’attimo catturato è soltanto l’estetizzazione del fatto, niente più.

IL CARATTERE DELLA PROPAGANDA Nelle fotografie dei Nuba sono riproposti con la medesima enfasi, con eguale mancanza di profondità etica, i fotoritratti statuari che celebrarono i giochi olimpici di Berlino del 1936 (pubblicati nel 1937 in un libro così “bello” e adatto ad emulare, che è stato poi studiato con attenzione nei corsi di grafica pubblicitaria: Schönheit im Olympischen Kampf). Qui, come là, Leni Ri-

efenstahl si abbandona a immagini-simulacro, e mostra che l’ultimo asilo dell’arte è l’imbalsamazione della propria intelligenza nei magazzini dello spettacolo. I commentari di un’opera d’arte sono la critica radicale alla seduzione che si porta dentro. Il fascino di un’espressione artistica coincide con il contenuto di verità che rivela e come deborda o insorge dalla decostruzione dell’impero dei segni. Non c’è nulla che leghi il successo di un artista ai paradisi artificiali del mercato, quanto un’opera d’arte svuotata di contenuti e avvolta magnificamente nella forma. Il culto della bellezza eterea della fotografa tedesca lascia fuori il dolore dei popoli dalla sua opera tutta. L’apparenza seduttiva di Leni Riefenstahl è inseparabile dall’inconscio sociale al quale mira, e sembra non comprendere che abitare il corpo significa lasciare impronte. Di più. Le sue immagini sono feticci che trasferiscono il carattere della propaganda o dell’esaltazione della razza “pura” nella merce. Quanto di peggiore possa capitare a un artista è che la sua “arte” possa essere marchiata come espressione compiuta dei valori e delle idee dominanti. Del resto, la fotografia è sempre stata dalla parte dei potenti fin dalla propria nascita. I mercanti hanno fatto il resto. I critici e gli storici, poi, specie quelli che sembrano mordere più degli altri, sono subito entrati nei libri paga degli “affaristi” e trafficanti d’arte, e sono diventati i più fedeli cani da guardia dei saperi imbavagliati nei centri di potere. Amen! e così sia. È un fatto che la fotografia abbia contribuito potentemente ad estendere l’ambito dell’economia consumistica, «offrendo sul mercato in quantità illimitata personaggi, scene, avvenimenti, che non sarebbero mai stati utilizzati o potevano esserlo solo come immagini di un cliente» (Walter Benjamin). Da qualunque punto di vista possa essere letta, la fotografia di Leni Riefenstahl è un abbellimento, un’esi-

bizione plastica di ciò di cui si occupa. Le sue immagini sono proiezioni del desiderio in cui la comunità è cancellata nell’ordinamento o nella costruzione dell’effimero come forma normale di delirio. Il corpo ideologizzato, che la fotografa mette in scena, prende valore tanto nelle propagande di regime, quanto nelle riviste di moda e nei rotocalchi. Il corpo bello, sano e stagliato contro la miseria quotidiana incita all’ottimismo e all’accettazione del potere in carica. Anche la guerra è bella. Anche la fame. Anche il genocidio, dicono i telegiornali internazionali. Senza un filo di dignità, la fotografia più consumata dissemina la libertà e la bellezza, tutta falsificata, della civiltà dello spettacolo.

VERITÀ E RAGIONE A sfogliare il libro di fotografie subacquee di Leni Riefenstahl, Korallengärten (1978), o a rivedere le immagini del già citato Schönheit im Olympischen Kampf (1937), passando per i corpi celebrati dei Nuba, non è difficile scorgere l’epifania del gioco al rialzo, nel quel il corpo, come i colori dei fiori marini, esprime non tanto una filosofia della vivenza, ma si trascolora in metafora figurativa che frattura il rapporto tra bellezza e verità. L’estetismo è l’abisso della tragedia e gli dèi sono i soli in grado di comprendere che le idee della fotografia stanno alla realtà come il cappio del boia sta alla giustizia. La fotoscrittura simbolica o lo stile “abbronzante” di Leni Riefenstahl rimanda a una metafisica del corpo che ha nulla da condividere con le citazioni della classicità greca, sparsa come modello. E le corrispondenze geometriche non riportano alla preistoria dell’umanità, come lei stessa ha sostenuto e in molti hanno scritto, ma rappresentano le rovine di un pensiero elitario, dove la sublimazione dei corpi risponde alla politicizzazione mercantile dell’arte. Le dittature fasciste, naziste o comuniste, al pari delle gogne mediatiche delle democrazie dell’opulenza,

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hanno usato l’ideologizzazione e l’esibizione dei corpi come autoaffermazione liberatoria e vestito di supremazia razziale la ricerca del consenso. La fotoritrattistica più alta mostra la realtà dell’uomo colta sul fatto. Poi l’attimo scompare, muore nell’evento fotografico. Situarsi in rapporto con quello che il nostro sguardo percepisce significa non tradire il contenuto dalla forma. Per “significare” il mondo, «occorre essere coinvolti nella scelta di quanto lasciamo fuori dall’inquadratura» (Henri Cartier-Bresson, il maestro). La fotografia è la “terra di nessuno”, dove l’istante scippato alla storia è nel contempo domanda e risposta. Una sola immagine di Robert Capa, leggermente fuori fuoco, contiene più poesia che l’intera opera di Leni Riefenstahl. Ma Robert Capa aveva un “grande cuore ebreo

pieno d’amore” per gli sfruttati e gli oppressi, Leni Riefenstahl non ha mai compreso che possedere la verità e avere ragione sono due cose diverse. Nella fotografia di Leni Riefenstahl emerge una “teologia mondana” della decadenza, che non contempla né il sangue dei ribelli né la sclerosi dei regimi, semmai ne decreta l’impossibilità storica o la ignora. I corpi fotografati da Leni Riefenstahl esprimono un’arte media che, come insegna Pierre Bourdieu, è un’estetica che sta a metà strada tra l’arte nobile e l’arte popolare. La fotografia non è un’impressione della realtà, è la realtà impressa nella storia dell’immagine e dell’umanità che mette sulla stessa linea di mira il cervello, l’occhio e il cuore, diceva, o non è niente. Che la Fotografia sia con noi. Pino Bertelli (15 volte maggio 2007)

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