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ANNO XIV - NUMERO 133 - LUGLIO 2007
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Pena di morte NON UCCIDERE!
Samsung NV11 EVOLUZIONE DIGITALE
Che e Rancinan A PROPOSITO DI ICONE
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A CONTORNO. Spetta ad altri approfondire i valori musicali del gruppo inglese Status Quo, uno dei pochi ad aver attraversato indenne i decenni, dagli anni Sessanta. Comunque, tanto per definire i loro contorni, annotiamo che la formazione creata dagli allora tredicenni Francis Rossi e Alan Lancaster nel 1962 vanta sostanziosi record personali: ha venduto centoventi milioni di dischi; è l’unica presente nelle Top Ten Singles inglesi di quattro decenni consecutivi (dai Sessanta ai Novanta); detiene il primato assoluto del maggior numero di singoli e album nelle classifiche inglesi (dal 1968, sessantadue brani e trenta raccolte); ha eseguito oltre seimila concerti (unico gruppo con quaranta esibizioni alla prestigiosa Wembley Arena di Londra), quattro dei quali addirittura immediatamente consecutivi, il ventun settembre 1991, in quattro città (Sheffield, Glasgow, Birmingham, Wembley), nell’arco di undici ore e undici minuti. Tutto questo per rilevarne lo spessore. Ciò che invece rientra nel nostro panorama fotografico è la copertina dell’album Whatever You Want del 1979 (Tutto ciò che desideri). Come evidenziato nella precedente pagina, là dove siamo soliti presentare forme grafiche della fotografia in dettagli volontariamente ingranditi, sulla copertina fanno capolino una identificata serie di macchine fotografiche da fotocronaca degli anni Cinquanta e contorni. Oltre la visualizzazione di autentiche icone (a caso, Humphrey Bogart, Marilyn Monroe e Marlon Brando), personalmente rileviamo la sostanziosa presenza di apparecchi fotografici e flash lampeggianti. Tra tanto, sottolineiamo anche la rievocazione dell’inconfondibile logotipo Linhof (scudetto sulla piastra porta obiettivo) sulla folding impugnata da un riconoscibile Humphrey Bogart.
Here’s to you Nicola and Bart. Vi rendo omaggio Nicola e Bart.
Copertina Indonesian Portrait, di Darvis Triadi, figura di spicco della fotografia contemporanea orientale, che nelle proprie raffigurazioni inserisce canoni estetici del “batik” indonesiano (polaroid 4x5 pollici; a pagina 45, l’inquadratura originaria, comprensiva di “sporchi di lavorazione”). Dalla imponente selezione Asia: un itinerario sulla via della seta, che a San Vito al Tagliamento, in provincia di Pordenone, allestisce un percorso storico tra Occidente e Oriente, dando visibilità ad autori, appunto asiatici, solitamente esclusi dalla Storia. Ne riferiamo da pagina 41
3 Fumetto
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Dalla copertina dell’album Whatever You Want del gruppo inglese Status Quo, formazione storica della musica pop, in attività dagli anni Sessanta. Al solito, siamo stati attratti dagli apparecchi fotografici compresi nella composizione. Qui accanto, approfondiamo la presentazione degli Status Quo
7 Editoriale Una volta ancora, e una di più, pensiamo al Tempo. Questa volta in chiave generazionale e di comprensione individuale del suo svolgimento prossimo e remoto. Al solito, in relazione al parlare di Fotografia
8 Quell’esecuzione 46
Trasversalmente a questo numero della rivista scorrono tre interventi contro la pena di morte: per tanti versi, questo è il primo. Se indesiderato, il riferimento esplicito e dichiarato può essere ignorato, per lasciare posto e spazio alla sola rievocazione storica di una drammatica fotografia “rubata”: l’esecuzione sulla sedia elettrica di Ruth Snyder (1928)
10 Notizie Attrezzature, vicende e altre segnalazioni
14 Adams con Horseman 18
Fine anni Novanta: Ansel Adams testimonial Apple con un ritratto comprensivo di Horseman 450. Rievochiamo, soffermandoci anche sulla personalità del banco ottico, al quale siamo particolarmente legati Ricerca iconografica di Ciro Rebuzzini
16 Buon compleanno 56
Canon celebra solennemente i cinquant’anni della filiale europea, annunciando programmi futuri
. LUGLIO 2007
RRIFLESSIONI IFLESSIONI,, OSSERVAZIONI OSSERVAZIONI EE COMMENTI COMMENTI SULLA SULLA FFOTOGRAFIA OTOGRAFIA
18 Reportage
Anno XIV - numero 133 - 5,70 euro
Appunti e attualità del fotogiornalismo internazionale A cura di Lello Piazza
DIRETTORE
RESPONSABILE
Maurizio Rebuzzini
IMPAGINAZIONE
22 In posa, per scherzo Allegata al mensile degli amati personaggi dei cartoni, Fotosquirt di Cip & Ciop non fotografa, spruzza acqua
Gianluca Gigante
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REDAZIONE Angelo Galantini
FOTOGRAFIE Rouge
24 Lezione di reportage
SEGRETERIA
Testimonianza dal primo VII Photo Seminar, di Londra, che la celebre agenzia ha svolto per i giovani fotografi di Lello Piazza
HANNO
Maddalena Fasoli
29 Volti quotidiani Raffinati ritratti di Marco Moggio, realizzati con concentrata applicazione di princìpi maturati nella professione
34 A proposito di icone Alla Triennale Bovisa di Milano, due allestimenti espositivi simultanei: l’iconografia di Che Guevara (fotografie e altro) e le consecuzioni iconiche di Gérard Rancinan di Maurizio Rebuzzini
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Redazione, Amministrazione, Abbonamenti: Graphia srl, via Zuretti 2a, 20125 Milano; 02-66713604, fax 02-66981643; graphia@tin.it. ● FOTOgraphia è venduta in abbonamento.
41 Vento dell’Est Asia: un itinerario sulla via della seta è una imponente selezione che dà particolare visibilità a situazioni e autori solitamente esclusi dal racconto della Storia di Angelo Galantini
● FOTOgraphia è una pubblicazione mensile di Graphia srl, via Zuretti 2a, 20125 Milano. Registrazione del Tribunale di Milano numero 174 del Primo aprile 1994. Poste Italiane SpA - Spedizione in abbonamento postale - D.L. 353/2003 (convertito in Legge il 27-02-2004, numero 46), articolo 1, comma 1 - DCB Milano.
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48 Non uccidere! Esplicitamente, ci allineiamo contro la pena di morte. Le linde e asettiche Omega Suites, della statunitense Lucinda Devlin, scuotono la coscienza (di chi ce l’ha) di Maurizio Rebuzzini
● A garanzia degli abbonati, nel caso la pubblicazione sia pervenuta in spedizione gratuita o a pagamento, l’Editore garantisce la massima riservatezza dei dati forniti dagli abbonati e in suo possesso, fatto diritto, in ogni caso, per l’interessato di richiederne gratuitamente la rettifica o la cancellazione ai sensi della legge 675/96. ● FOTOgraphia Abbonamento 12 numeri 57,00 euro. Abbonamento annuale per l’estero, via ordinaria 114,00 euro; via aerea: Europa 125,00 euro, America, Asia, Africa 180,00 euro, gli altri paesi 200,00 euro. Versamenti: assegno bancario non trasferibile intestato a Graphia srl Milano; vaglia postale a Graphia srl - PT Milano Isola; su Ccp n. 28219202 intestato a Graphia srl, via Zuretti 2a, 20125 Milano; addebiti su carte di credito CartaSì, Visa, MasterCard.
54 In alluminio Al proprio novantesimo anniversario (1917-2007), Gitzo riconferma la linea di treppiedi in alluminio ALU13 di Antonio Bordoni
COLLABORATO
Antonio Bordoni Maria Teresa Ferrario Chiara Mariani Marco Moggio Grazia Neri Loredana Patti Lello Piazza Franco Sergio Rebosio Ciro Rebuzzini Filippo Rebuzzini Fabio Santin Zebra for You
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● Nessuna maggiorazione è applicata per i numeri arretrati. ● È consentita la riproduzione di testi e fotografie, magari citando la fonte (ma non è indispensabile, né obbligatorio farlo). ● Manoscritti e fotografie non richiesti non saranno restituiti; l’Editore non è responsabile di eventuali danneggiamenti o smarrimenti. Fotocomposizione DTP e selezioni litografiche: Rouge, Milano Stampa: Arti Grafiche Salea, Milano
56 Sempre più NV
Rivista associata a TIPA
La sofisticata ed efficace famiglia di compatte digitali si arricchisce della configurazione Samsung NV11
58 Vi rendiamo omaggio 23 agosto 1927: Nicola Sacco e Bartolomeo Vanzetti sono giustiziati sulla sedia elettrica, vittime innocenti di un clima di intolleranza e odio. Per non dimenticare Ricerca d’archivio di Ciro Rebuzzini
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www.tipa.com
anto tempo fa, significa nulla. Poco tempo fa, significa altrettanto nulla. Il nostro rapporto con lo scorrere del tempo è assolutamente soggettivo: dipende dalle anagrafi personali. Quando lo quantifichiamo, inevitabilmente lo mettiamo in relazione con noi stessi, con la data della nostra nascita, con la nostra età. Una prova, se servisse averla, ce la dà la rilettura di libri, che riprendiamo in età diverse. Esempio: a me piacciono i romanzi di Georges Simenon, sia quelli con protagonista il commissario Maigret, sia quelli della sua lunga produzione letteraria. L’occasione della rilettura è stata recentemente sollecitata dalle nuove edizioni e traduzioni a cura di Adelphi (e “recentemente” è già una quantificazione soggettiva: il valore di questi dieci anni lo misuro sui miei cinquantasei; un giovane di venti-venticinque anni la pensa diversamente). Quando ho cominciato a leggere Simenon avevo poco più di vent’anni, e spesso la mia età anagrafica coincideva con l’età nella quale l’autore aveva scritto, e alla quale riferiva le proprie osservazioni. Molte annotazioni di Simenon quantificano le età dei protagonisti: spesso, nei suoi romanzi, “vecchio” è un uomo di quarant’anni, “finito” uno che ha superato i cinquanta. Rileggendo oggi, in un’età diversa, provo un sostanziale imbarazzo. Posso soltanto rilevare che queste quantificazioni sono anche legate ai propri tempi (ancora): anche in un recente passato, tra posture, modi di vivere, alimentazioni e altro, la vita presentava effettivi conti severi, oggi slittati in avanti. Dubito, a questo proposito, che i cinquantenni di ieri fossero disinvolti e freschi come quelli di oggi. Ma non è ancora questo il punto. Più concretamente, si tratta di sintonizzare il concetto di Tempo, per poter parlare senza doversi necessariamente limitare a incontri generazionalmente coincidenti. Così, quando raccontiamo la Fotografia dovremmo essere capiti da tutti, indipendentemente dalle singole età. Non è facile farlo, soprattutto in questi nostri momenti, nei quali viviamo le consecuzioni di una clamorosa rivoluzione tecnologica, con quanto ne è derivato, che hanno modificato i punti di vista. Nell’incontro di generazioni, c’è chi oggi pensa alla fotografia consapevole delle sue evoluzioni, che prontamente riferisce a un percorso avvenuto, e chi la intende soltanto al presente: ciò che è, punto e basta (il passato è morto e sepolto, semmai è esistito). Oggi, si tratta quindi di ragionare con parole adatte a ciascuno. Probabilmente, non si può parlare di una sola Fotografia assoluta, ma bisogna declinarla in relazione diretta con l’interlocutore al quale ci si rivolge. È improbabile farlo da posizioni generali, come è quella di una rivista, che dunque deve parlare con il proprio linguaggio caratteristico. Ma è doveroso farlo negli incontri interpersonali, come quelli che, personalmente, svolgo incontrando giovani universitari ai quali racconto la Storia della fotografia. Una Storia che deve essere comunque affascinante e avvincente. Perciò, coinvolgente. Maurizio Rebuzzini
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Anche la memoria si misura sul Tempo. Ricordiamo gli ottant’anni dall’ingiusta esecuzione di Nicola Sacco e Bartolomeo Vanzetti (23 agosto 1927), per non dimenticare: da pagina 58. Da una fotografia dei due italiani nel tribunale di Dedham, nei pressi di Boston, Massachusetts, Stati Uniti, dove si è svolto il loro prevenuto processo, il quadro dipinto da Ben Shahn, pittore e fotografo statunitense di origine lituana.
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QUELL’ESECUZIONE
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Su questo numero della rivista, tre interventi redazionali sono sostanzialmente collegati tra loro. Senza alcun riferimento fotografico esplicito, ma in solo e volontario ricordo di una palese ingiustizia, da pagina 58 commemoriamo la memoria di Nicola Sacco e Bartolomeo Vanzetti, nell’ottantesimo dall’esecuzione capitale del 23 agosto 1927. Quindi, rientrando nella materia istituzionale della fotografia, ci allineiamo con i contribuiti al movimento contro la pena di morte nel mondo riproponendo una serie di immagini di Lucinda Devlin, che ha realizzato una inquietante galleria di luoghi della morte statunitensi (da pagina 48), per l’occasione accompagnata con la sottolineatura di una ulteriore presa di posizione a matrice fotografica di Oliviero Toscani. In un certo senso, qui completiamo la nostra sentita partecipazione al pensiero contro la pena di morte e per la sua abolizione con una annotazione storica, che rientra perfet-
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Considerata la più famosa tra le fotografie “rubate”, l’immagine dell’esecuzione di Ruth Snyder sulla sedia elettrica di Sing Sing è stata pubblicata sulla prima pagina del New York Daily News del 13 gennaio 1928. Per realizzarla, il fotocronista Thomas Howard è ricorso a uno stratagemma. Alla pubblicazione, la fotografia ebbe un impatto enorme sull’opinione pubblica.
tamente in quell’ordine fotografico che definisce e identifica la nostra personalità giornalistica ufficialmente indirizzata. A questo proposito, se l’insieme del contenitore nel quale lo consideriamo dovesse risultare sgradito, per la serenità di tutti annotiamo che questo stesso intervento può essere considerato a sé stante, e valutato soltanto per il suo esplicito contenuto storico, di pura e semplice personalità fotografica. Appunto. Pubblicata in prima pagina sul New York Daily News, la mattina di venerdì 13 gennaio 1928, e sormontata dal titolo esplicito Dead! (morta!), la fotografia dell’esecuzione sulla sedia elettrica della trentatreenne Ruth Snyder, accusata e condannata per l’omicidio del marito (assassinato con la complicità del suo amante), è considerata e conteggiata la prima immagine fotogiornalistica “rubata” del Ventesimo secolo. Come è stato rilevato dall’indagine televisiva Les 100 photos du siècle, trasmessa dall’inizio del 1999 dall’emittente francese Arte, della quale abbiamo riferito in cronaca nel giugno 1999, e nella successiva raccolta in volume dello stesso percorso retrospettivo (edizione italiana Le immagini di un secolo; a cura di Marie-Monique Robin; Evergreen/Taschen, 2001), questa stessa immagine è anche la più famosa delle fotografie “rubate” perché è l’unica visualizzazione di una esecuzione capitale (a parte le terribili testimonianze video e fotografiche che ancora arrivano da paesi orientali, Repubblica popolare cinese in testa). Fotocronista nello staff del quotidiano, Thomas Howard, l’autore dell’immagine, la realizzò con un abile sotterfugio. Ricorda la figlia Loretta Wendt, che nel 1928 aveva cinque anni, intervistata per la trasmissione televisiva appena ricordata: «I fotografi non potevano [né ancora possono] assistere alle esecuzioni, così il giornale chiamò mio padre che viveva a Washington, da dove corrispondeva con il New York Daily News, perché né le guardie della prigione né i giornali-
sti di New York lo conoscevano». Il piano era di farlo passare per uno scrittore, e di mandarlo all’interno di Sing Sing, dove avvenne l’esecuzione, con una macchina fotografica di piccole dimensioni legata alla caviglia sinistra. (Attenzione, per alleggerire i toni, ricordiamo che una condizione analoga si incontra nella commedia cinematografica Prima pagina, di Billy Wilder, del 1974, dove il direttore dell’ipotizzato quotidiano Chicago Examiner, interpretato da Walter Matthau, attrezza in questo modo un giovane reporter, appunto inviato ad assistere a una esecuzione). La macchina fotografica di Thomas Howard era caricata con una sola lastra sensibile; l’otturatore era collegato a un cavo flessibile nascosto all’interno dell’abito, con comando per lo scatto nella tasca del cappotto. Per l’occasione, lo stesso otturatore venne modificato, in modo da aprirsi gradualmente senza il proprio rumore caratteristico, che avrebbe rivelato la presenza dell’apparato fotografico. Ovviamente, la messa a fuoco dell’obiettivo fu preregolata su una distanza valutata in base alle informazioni ricevute dall’interno sulla lontananza dei giornalisti dalla sedia elettrica. Per un mese intero, prima della data fatidica, Thomas Howard fece infinite prove pratiche, in modo da essere pronto per ogni possibile evenienza. Al momento di entrare nella stanza dei testimoni, adiacente il locale della sedia elettrica, occupò una postazione centrale in prima fila. Scattò una prima volta, quando il corpo della prigioniera ricevette la prima scossa elettrica. Su questa lastra esposta, scattò ancora sulla seconda scossa elettrica, creando così l’impressione di movimento della fotografia finale. Giornalisticamente, lo scoop, definiamolo in questo modo, portò la tiratura del quotidiano a oltre un milione e mezzo di copie (1.556.000, per l’esattezza), che per lungo tempo ha rappresenta-
RUTH SNYDER accontando della fotografia epocale di Thomas Howard, Rdianopubblicata in una memorabile prima pagina del quotiNew York Daily News, non vogliamo ignorare la storia personale della donna giustiziata sulla sedia elettrica, soggetto della raccapricciante visualizzazione fotografica. Insieme all’amante, accusata dell’omicidio del marito, la trentatreenne Ruth Snyder venne giustiziata il 12 gennaio 1928 nella prigione di Sing Sing, New York. A propria difesa, aveva descritto i tormenti inflitti dal marito di quarantasei anni. Come molti casi giudiziari stato un record mondiale. Rileva ancora Loretta Wendt, figlia del fotografo Thomas Howard: «Dopo questa fotografia, mio padre divenne il fotocronista più famoso del tempo. E oggi la sua fotografia è una pietra miliare nella storia del fotogiornalismo americano». Non solo, ovviamente: questa terribile fotografia, che mostra ciò 28-06-2007 VisibleDust_Fotographia210x145 che nessuno vorrebbe vedere, ha
tunitensi (altro discorso per quelli di matrice politica, come il processo ai coniugi Julius e Ethel Rosenberg, ricordati nel corpo centrale di questo intervento redazionale, a propria volta giustiziati a Sing Sing il 21 giugno 1953), l’evento fu seguìto da un acceso dibattito sulla pena di morte e divenne bandiera per gli abolizionisti e i movimenti femministi. In carcere, Ruth Snyder ricevette oltre duemilacinquecento lettere di donne che si congratulavano con lei per essersi ribellata alle tirannie del marito e centosessantaquattro proposte di matrimonio.
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influenzato anche la storia della pena di morte negli Stati Uniti. Come è intuibile, al momento della pubblicazione, la fotografia ebbe un impatto enorme sull’opinione pubblica, perché, prima di allora, la pena di morte non era mai stata mostrata in modo tanto evidente ed eclatante: con l’esplicita raffigurazione di una immagine senPagina 1 za equivoci. Per questo, la fotogra-
fia di Thomas Howard diede sostanzioso impulso alla causa abolizionista, che però perse il proprio vigore qualche decennio dopo, all’inizio degli anni Cinquanta, in clima di caccia alle streghe, con la condanna a morte dei coniugi Julius e Ethel Rosenberg, simpatizzanti comunisti, accusati di aver ceduto all’Unione Sovietica i piani di costruzione della bomba atomica, al cui progetto avevano collaborato negli anni della Seconda guerra mondiale. Comunque, la fotografia di Thomas Howard riappare ogni qualvolta si parla di pena di morte, ma, in definitiva, la sua forza originaria si è stemperata con il tempo, arrivando ad assumere più i toni della storia remota (e per questo estranea al quotidiano dei nostri giorni) che quelli dell’orrore. È il destino delle icone, anche fotografiche, che troppo spesso perdono per strada i propri contenuti impliciti ed espliciti. M.R.
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RICONOSCIMENTO 3D. Appena introdotti i passaporti con il microchip, sono già allo studio documenti di identità con fotografia tridimensionale, che si propone di essere meglio riconoscibile dai sistemi automatizzati di lettura e meglio controllabile negli spostamenti internazionali. Per tanti versi fantascientifica, come lo sono le fotografie animate sui quotidiani della comunità di maghi che circonda Harry Potter (visualizzate nelle trasposizioni cinematografiche che seguono le edizioni librarie originarie), l’ipotesi è annunciata come futuribile. Definito in codice 3D Face, il progetto della fotografia tridimensionale di identità (non fotografia di identità tridimensionale) è allo studio di una apposita commissione tecnica dell’Unione Europea. Mario Savastano, ricercatore del Cnr che coordina la partecipazione italiana allo studio continentale, rileva che «Le fotografie tradizionali sono troppo sensibili alla variazione di luce ed espressione, per poter essere efficacemente riconosciute da un lettore dedicato. Quindi, è necessario esplorare altre strade, tenendo anche conto dei problemi da risolvere nel campo della protezione dei dati e dei fattori etici e di accessibilità». La meta annunciata passa attraverso l’elaborazione e predisposizione di sensori in grado di mettere convenientemente a frutto la fisionomia completa della testa del soggetto, per ottenere una raffigurazione adeguatamente precisa e pertinente. In questo senso, si dovranno allineare anche le tecnologie nazionali di confezione dei documenti di identità. Per quanto disponiamo di passaporti con microchip, che contiene dati e informazioni (più di quante ci è dato sapere), in Italia abbiamo ancora carte di identità quantomeno antiche. È curioso immaginare un passaggio diretto e repentino dalla fototessera incollata su carta, con annoiata inettitudine degli incaricati, a un
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riconoscimento facciale addirittura tridimensionale. Ovviamente, non si pensa ad alcuna restituzione stereo con appositi strumenti di separazione di due immagini semplicemente accostate, ma a una autentica tridimensionalità sulla falsa riga della restituzione olografica. Quindi, nota finale, si tratterà anche di valutare chi potrà eseguire questi ritratti, assolutamente diversi dalla semplice e remunerativa fototessera conto terzi,
SEMPRE PIÙ FUJI. Come spesso rileviamo, la personalità produttiva di Fujifilm si estende a tutti i campi di applicazione della fotografia, professionale e non, fino ai minilab per trattamento conto terzi. Nel mercato delle compatte digitali, le configurazioni FinePix affermano caratteristiche e prestazioni particolarmente avvincenti. Così, la recente Fujifilm FinePix S5700 è dotata di un efficace zoom ottico 10x (equivalente all’escursione 38-380mm della fotografia 24x36mm, riferimento d’obbligo) e di un consistente sensore da sette Megapixel. In combinazione con la sensibilità, che arriva a 1600 Iso equivalenti, si ottengono fotografie ricche di dettagli, nitide e con basso livello di rumore, anche in condizioni difficili, come scarsa luminosità o soggetti in movimento. Inoltre, grazie alla conveniente selezione di tempi di otturazione estremamente rapidi, la modalità di stabilizzazione di immagine (Anti-Blur) riduce ulteriormente il rischio di effetto mosso. La FinePix S5700 utilizza anche l’esclusiva tecnologia proprietaria Fujifilm Intelligent Flash,
che regola automaticamente l’intensità del lampo e l’esposizione in relazione alla posizione e alle dimensioni del soggetto, riducendo al minimo il rischio di sovraesposizione. Una convincente funzione video estende ulteriormente i campi di impiego e utilizzo di questa particolare compatta digitale. In ripresa video, rimangono attive le funzioni zoom e autofocus, in modo da consentire filmati vitali e intensi, del tutto coincidenti con quelli ripresi con una videocamera. Inoltre, è stata introdotta la nuova tecnologia Electronic Image Stabilization, che riduce l’effetto mosso causato dal movimento involontario dell’apparecchio, particolarmente utile in fase di escursione zoom, soprattutto durante la ripresa video. Ultimo, ma non ultimo, la Fujifilm FinePix S5700 è dotata di una nuova potente funzione macro, che permette di scattare immagini fino a un centimetro dal soggetto. Quindi, il display LCD da 2,5 pollici di nuova generazione è caratterizzato da un particolare rivestimento, utilizzato nei televisori LCD, in grado di aumentare l’angolo di visione. (Fujifilm Italia, via dell’Unione Europea 4, 20097 San Donato Milanese MI).
LUCE IN SPALLA. Adatto e idoneo a una diversificata serie di combinazioni, a ciascuno la propria, il funzionale zaino Multiblitz KitPack è stato progettato e prodotto per il comodo e sicuro trasporto di molteplici configurazioni flash, tutte basate sulla combinazione di una coppia di monotorcia delle famiglie Multiblitz Compactlite, Digilite, Digi X e Pro X. Al proprio interno, il robusto KitPack offre diversi alloggiamenti sagomabili per la corretta disposizione dei flash e dei relativi accessori di uso: nel senso dell’adeguata protezione al trasporto, della distribuzione confortevole ed equilibrata e
della pratica accessibilità al proprio interno. La conformazione anatomica del sistema di spalline agevola la ripartizione del peso, così che il Multiblitz KitPack risulta idoneo per trasporti prolungati e per trasferimenti estesi nel tempo, oltre che nello spazio. È altresì prevista una pratica sacca supplementare, con propria opportuna collocazione privilegiata al centro dello zaino, dall’interno all’esterno, per gli stativi e gli accessori di illuminazione più ingombranti, come i soft box ripiegati. Ovviamente, nel caso di configurazioni di set più ampi, la sacca aggiuntiva può essere trasportata a parte, per lasciare spazi liberi all’interno dello zaino, dove collocare accessori ed elementi del set in trasferimento. Considerate le dotazioni fotografiche dei nostri attuali giorni, che si estendono alla postproduzione e al flusso di lavoro complementare all’acquisizione digitale di immagini, un’altra caratteristica di particolare nota del Multiblitz Kit Pack riguarda il comparto riservato (o da riservare) al computer portatile. Ovviamente, lo zaino è completo di copertura per la protezione e il riparo dalla pioggia o da elementi atmosferici comunque sia avversi. (Unionfotomarket, viale Certosa 36, 20155 Milano - Infoto, via Principe di Granatelli 86, 90139 Palermo).
ALTA CAPACITÀ. Il massimo della capienza unito al massimo della semplicità. Questi sono i punti forti annunciati di TrekStor DataStation Duo w.u, hard disk esterno da un Terabyte (1000Gb) e software Nero BackItUp 2 Essentials. Grazie alla funzione “Push for Backup”, alla semplice pressione di un tasto, Duo w.u consente di archiviare una
mento dati fino a 24,5Mb al secondo in lettura e 16Mb al secondo in scrittura. (Rossi & C, via Ticino 40, 50010 Osmannoro di Sesto Fiorentino FI). consistente quantità di dati. Di dimensioni compatte (21x 6,5x12cm, per 2,2kg di peso), ha un design minimale, di colore nero, e dispone di proprio alimentatore esterno, che ne riduce la rumorosità. TrekStor DataStation Duo w.u si propone per il salvataggio e trasporto di file e cartelle di documenti elettronici; inoltre, è idoneo al backup quotidiano di interi flussi di lavoro, anche di più computer, riducendo lo spazio occupato dai dati con la compressione “on the fly”. Per sicurezza, il contenuto è protetto da accessi indesiderati tramite una password. Appena connesso, il dispositivo è subito utilizzabile: è preformattato e non necessita di driver con Mac OS-X, Linux (da Kernel 2.6.x) e Windows ME, 2000, XP, Vista. Invece, per Windows 98 è previsto un CD con il driver dedicato. La comunicazione con il computer avviene tramite cavo USB 2.0. Il cuore è formato da due dischi singoli da 500Gb, che girano a settemiladuecento giri al minuto, con una cache da 16Mb e una velocità di trasferi-
DIWA GOLD AWARD. È tutto un problema di tempistiche. Mentre la giuria dei selettivi TIPA Awards valuta in termini di stretta attualità, altre selezioni tengono conto di fattori più cadenzati. La più recente Nikon D40x si è affermata nei TIPA Awards come migliore reflex digitale entry level (FOTOgraphia, maggio 2007). Allo stesso tempo, per le sue sostanziose prestazioni e il convincente rapporto qualità/prezzo, la configurazione immediatamente precedente reflex digitale Nikon D40 ha ottenuto il DIWA Gold Award, assegnato dalla prestigiosa associazione mondiale Digital Imaging Websites Association (appunto, DIWA). Mentre la giuria dei TIPA Awards è composta dai redattori di ventisette riviste fotografiche europee riunite nel cartello della Technical Image Press Association, che nel frattempo sono salite e ventotto, DIWA riunisce una serie di siti web indipendenti, specializzati in digital imaging: quindi, si avvale di competenze specialistiche collettive per testare e consiglia-
re prodotti di diverse categorie industriali. Anche la Nikon D40 si è affermata nella categoria entry level, nel cui ipotizzato comparto commerciale offre prestazioni solitamente proprie e caratteristiche di configurazioni di taglio superiore. L’innesto a baionetta Nikon F degli obiettivi intercambiabili, che garantisce la compatibilità meccanica con l’intero sistema Nikkor, le otto modalità Scene, per ottenere il massimo da ogni situazione ambientale, e una serie di innovazioni integrate garantiscono e assicurano la massima qualità dell’immagine acquisita. Tra le prerogative tecniche, va sottolineata la funzione AF con priorità al viso, che rileva la presenza di volti nell’inquadratura e finalizza la messa a fuoco su quello che è considerato il soggetto principale. Ancora, la correzione occhi rossi integrata offre una compensazione automatica in ripresa, dalla quale elimina il fastidioso effetto, garantendo ritratti naturali, anche in condizioni di scarsa luminosità. E poi, ribadiamo l’esclusiva funzione D-Lighting, che migliora le immagini sottoesposte o le fotografie scattate in eccessivo controluce, lasciando inalterate le aree correttamente esposte. Nelle filosofia tecnica Nikon,
la qualità ottimale delle immagini non dipende necessariamente dall’elevata risoluzione dell’acquisizione: lo dimostra il successo dei sei Megapixel della D40. Kai Thon, test manager di DIWA, sostiene: «Il mercato delle reflex digitali si sta espandendo rapidamente e nuovi modelli vengono commercializzati a ritmo continuo. I membri della DIWA sono lieti di confermare che la Nikon D40 è molto più che una reflex digitale qualsiasi. Realizzata sulla base della lunga esperienza e dell’indiscutibile reputazione per la qualità di Nikon, dotata delle più importanti funzioni che caratterizzano le dotazioni Nikon più avanzate, con la priorità sulle prestazioni piuttosto che su altre trovate ed espedienti commerciali, la D40 è una reflex digitale pressoché perfetta, acquistabile a un prezzo assolutamente ragionevole». (Nital, via Tabacchi 33, 10132 Torino).
ADAMS CON HORSEMAN
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Per tanti versi, l’attuale rievocazione di una particolare combinazione tra Apple, marchio che non richiede parole di presentazione né commento, e Ansel Adams, autore che pure non ha bisogno di raccomandazioni, è qui considerata in un contenitore redazionale di traverso. Quel In parallelo nel quale inseriamo annotazioni, appunto parallele, che attraversano trasversalmente il mondo dell’immagine, avendone a che fare, ma non in modo diretto (appunto). Il fatto in se stesso è presto riassunto; i commenti, a seguire. Nel corso del 1998 e dintorni, Apple realizzò una serie di annunci istituzionali basati sulla personalità di Ansel Adams. Un suo conosciuto ritratto, sul quale oggi ci soffermiamo, venne impaginato in modo da essere usato in tempi e modi diversi, comunque sia mirati. Soprattutto in due modi: in una serie di poster per punto vendita (della cui serie possediamo una copia 66,5x27,1cm, con
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soggetto 61,5x22cm contornato da un sostanzioso bordo bianco di cornice) e in forma di pagina pubblicitaria, destinata a periodici statunitensi (personalmente testimoniamo per la quarta di copertina dell’edizione speciale di Life della primavera 1998, nella quale furono riunite le fotografie segnalate alla selezione dei Primi Annual Alfred Eisenstaedt Awards, definito per l’appunto The Eisie Issue, al quale abbiamo accennato lo scorso giugno, rievocando la parabola giornalistica e fotogiornalistica della celebre testata). In entrambi i casi, nessuna sovrapposizione di testi a commento, se non l’headline Think different (alla lettera “pensa diverso”, ma è qualcosa di più: guardare con una nuova visione), che in quei tempi definiva la filosofia Apple, in combinazione con il riconosciuto logotipo aziendale: la celebre mela multicolore, ben evidente nelle composizioni fotografiche rigorosamente bianconero.
Impaginato in poster da vetrina e annunci pubblicitari, nella seconda metà degli anni Novanta, un ritratto di Ansel Adams all’opera ha visualizzato l’headline Think different di Apple. Per quanto ci riguarda, annotiamo la fenomenologia della citazione della fotografia oltre il proprio ambito. E non ignoriamo la personalità del banco ottico Horseman 450.
Due ipotesi: omaggio a un protagonista della fotografia, oppure testimonianza finalizzata di un protagonista della fotografia (mancato nel 1984, a ottantadue anni). In ogni caso, dietrologie a parte, noi oggi cataloghiamo questa combinazione, visualizzata in queste pagine, nell’ampio capitolo delle presenze della fotografia esterne al proprio ambito originario. Se si dovesse storicizzare questa fenomenologia, alla quale appartiene il caso al quale ci stiamo riferendo, si dovrebbero approfondire genesi e percorsi. Per il momento, in assenza di tali intenzioni (che competono a istituzioni museali e scientifiche della fotografia), ci limitiamo alla sola registrazione: in parallelo, come abbiamo appena rilevato. Per questo, conteniamo l’analisi alla sola apparenza, a tutti visibile. Il ritratto di Ansel Adams utilizzato dalla comunicazione Apple raffigura il celebrato autore dietro un
apparecchio a banco ottico, stabilmente fissato su treppiedi. Questo è terreno nostro: per quanto il flessibile che Ansel Adams impugna sia sostanzialmente generico (ma avrebbe anche potuto essere altrimenti), l’apparecchio a banco ottico è presto riconosciuto. Si tratta dell’originaria Horseman 450, sul mercato internazionale dalla fine degli anni Settanta: corpi principali, anteriore e posteriore, a “L”, con scorrimento micrometrico sul banco a doppia coda di rondine, con cremagliere indipendenti per i movimenti alternati e finalizzati degli stessi corpi e del morsetto di sostegno. Ricordiamo ancora i movimenti micrometrici di decentramento, verticale come orizzontale, e la rotazione di basculaggio libera nei due sensi: rispettivamente, attorno gli assi orizzontale e verticale. Quindi, va sottolineato che questa costruzione, cui seguirono ulteriori evoluzioni tecniche Horseman a banco ottico, fu la prima non Sinar a proporre la rotazione di basculaggio attorno l’asse orizzontale giacente sul piano focale, in tempi nei quali un brevetto della stessa Sinar tutelava le particolari ed esclusive proprietà
geometriche della casa svizzera, che considerava discriminante proprio la rotazione di basculaggio attorno assi giacenti sul piano focale (sebbene in posizione decentrata). Questa di Ansel Adams è comunque una Horseman 450 un poco particolare. Anzitutto, sul corpo anteriore è stato aggiunto un supporto porta accessori, soprattutto bandiere paraluce, con innesto di consistente diametro. Quindi, l’obiettivo non è montato su una piastra originaria Horseman (compatibile Sinar), bensì su una piastra porta obiettivi di altro sistema, adattata in modo pale-
Ritratto analogo a quello utilizzato da Apple. Ansel Adams in copertina di Time Magazine del tre settembre 1979, quando anche noi fotografavamo con Horseman 450 (per quanto serve, lo ricordiamo bene).
semente artigianale. L’obiettivo di ripresa non è riconoscibile, ma l’otturatore è evidente: Compur numero 1. In tale abbinamento obiettivo-otturatore, sul formato di ripresa 4x5 pollici la focale non dovrebbe essere corta; diciamo, almeno da 180 a 210mm. A questo proposito, non ci si faccia ingannare dal soffietto soffice, probabilmente utilizzato per favorire il decentramento dei piani dell’apparecchio più che per l’originaria affinità con gli obiettivi grandangolari. Anni prima della datazione dei soggetti Apple, un ritratto analogo, questa volta a colori, fu pubblicato sulla copertina del numero del tre settembre 1979 di Time Magazine: richiamo a un articolo sul definito The Master Eye (qui accanto). L’abbigliamento di Ansel Adams è diverso, completato per l’occasione con il caratteristico Stetson bianco, ma la postura è sostanzialmente coincidente. Ancora con banco ottico Horseman 450 (sebbene con piastra adattatrice artigianale porta obiettivo di diversa finitura), ancora flessibile (bianco, questa volta), ancora il gesto della ripresa. L’obiettivo è diverso. Questa volta si tratta di un Super-Angulon 210mm f/5,6 di consistente effetto coreografico. Nota parallela: sulla sua montatura è stata proditoriamente cancellata l’identificazione del costruttore Schneider. Per quanto ci riguarda e interessa direttamente, registriamo due significativi e sostanziosi richiami della fotografia, che apprezziamo in modo particolare alla luce di quell’entusiasmo con il quale, in tempi debiti, abbiamo affrontato la fotografia grande formato a banco ottico. Non ce ne voglia Ansel Adams, che certo non releghiamo in posizione secondaria e subalterna, ma a noi piace anche la visualizzazione di una Horseman 450, alla quale sono legati tanti nostri ricordi personali. Altre stagioni, altri tempi. Nessuna nostalgia, né rimpianto: così va la vita. Con Auggie Wren, del cinematografico Smoke (FOTOgraphia, novembre 2003), che a propria volta parte da una citazione dal Macbeth (di William Shakespeare): «Sai com’è: domani e domani e domani, il tempo scorre a piccoli passi». M.R. Ricerca iconografica di Ciro Rebuzzini
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BUON COMPLEANNO
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Tra le sue tre ricorrenze coincidenti, settant’anni di produzione fotografica (1937-2007), cinquant’anni di filiale europea (1957-2007) e venti di sistema Canon Eos (19872007), Canon celebra soprattutto la scadenza commerciale del proprio arrivo sul nostro continente. Questo, stando a certe ufficialità: è fin scontato che anche gli altri due traguardi, uno assoluto, l’altro sostanzialmente tecnologico, siano nel mirino della comunicazione aziendale di questi tempi. Comunque, la registrazione attuale sottolinea proprio la fastosa celebrazione dei cinquant’anni di Canon in Europa, solennemente festeggiati a Monaco, al prestigioso Grimaldi Forum, alla presenza di cinquemila invitati (conteggio facile: cento per ogni anno). Con l’occasione sono stati sottolineati i risultati, tecnologici prima di altro e commerciali in stretto subordine, raggiunti da Canon nel corso di questo recente mezzo secolo: tante le sfide vinte, cui sono conseguiti grandi successi ottenuti. Quindi, la casa giapponese, impegnata in un ampio spettro dell’attuale mercato della fotografia, dalla ripresa alla stampa in proprio, dall’indirizzo professionale alla fotografia familiare, all’infrastruttura per l’ufficio ha presentato le proprie strategie per il futuro. Sopra tutto, sono stati lanciati due consistenti progetti: la campagna “We Speak Image” e la collaborazione con il Wwf per la protezione dell’orso polare, in difficoltà a causa del riscaldamento globale.
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Alla selettiva valutazione dei recenti TIPA Awards 2007, dei quali abbiamo ampiamente riferito lo scorso maggio, Canon ha ottenuto quattro premi: reflex digitale professionale (Canon Eos-1D Mark III; FOTOgraphia, aprile 2007), obiettivo professionale (Canon EF 16-35mm f/2,8L II USM; FOTOgraphia, aprile 2007), stampante fotografica piccolo formato (Canon Selphy ES1; pagina accanto) e stampante fotografica multifunzione (Canon Pixma MP810).
Ospite d’onore della solenne celebrazione è stato Tsuneji Uchida, nuovo presidente del gruppo Canon, per la prima volta ufficialmente in Europa, che ha illustrato le nuove strategie dell’azienda, sottolineando la volontà di diventare il numero uno nelle principali attività di business e di con-
solidare le aree della radiografia digitale, dei proiettori e degli schermi piatti di prossima generazione. Dal punto di vista commerciale, per sua esplicita dichiarazione, nel 2010, il gruppo Canon intende raggiungere un fatturato superiore ai quaranta miliardi di euro, con un margine operativo del venti per cento, o anche maggiore (nel 2006, Canon ha fatturato ventisei miliardi di euro). Invece, le tappe della storia Canon in Europa, le sfide affrontate vinte e i brillanti risultati raggiunti, sono stati evidenziate da Hajime Tsuruoka, presidente di Canon Europe. Con undicimila collaboratori e un fatturato di nove miliardi di euro, nel 2006, Canon Europe ha rappresentato il trentadue per cento del fatturato dell’intero gruppo, dell’intero colosso è doveroso sottolineare. Quindi, ribadiamo i due momenti clou della manifestazione, cui abbiamo appena accennato: il lancio del consistente progetto Wwf-Canon per la salvaguardia dell’orso polare e la presentazione della nuova intensa campagna
pubblicitaria “We Speak Image”. Il primo progetto, che testimonia il costante impegno di Canon per la protezione della natura, prevede il monitoraggio di un gruppo di orsi polari in difficoltà a causa del riscaldamento globale e la realizzazione -attraverso un avvincente microsito interattivo dedicato ai bambini- della prima campagna educativa paneu-
Ribadiamo: Canon Selphy ES1, miglior stampante fotografica piccolo formato ai TIPA Awards 2007.
ropea del Wwf: www.panda.org/ polarbears. «Con l’aiuto di Canon -ha affermato Paul Steele, Chief Operating Officer del Wwf International- ci auguriamo di raggiungere il cuore e la mente dei giovanissimi, in modo che le future generazioni possano affrontare quel cambiamento di stile di vita necessario a preservare l’ambiente».
COMMERCIALMENTE CANON
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ultinazionale da oltre ventisei miliardi di euro, Canon è tra le aziende leader nel mondo per l’avanzata tecnologia. Fondata a Tokio nel 1937 per la produzione di macchine fotografiche, è entrata ben presto in molteplici settori, che vanno dalle soluzioni per ufficio ai sistemi di comunicazione, dagli strumenti elettromedicali ai semiconduttori. Attualmente presente in più di cinquanta paesi, con oltre centodiciottomila dipendenti, cinquantanove impianti di produzione e unità commerciali in Asia, Europa e nel-
le Americhe, il gruppo Canon basa la propria missione sul Kyosei, un concetto guida che promuove la comprensione e l’armonia tra gli individui, la società e l’ambiente. Canon Europe, l’organizzazione europea che coordina le attività di ventun paesi, impiega nell’area undicimila collaboratori. Presente in Italia come in Europa dal 1957, Canon fornisce alle imprese soluzioni complete e integrate per tutte le esigenze di gestione delle informazioni e delle immagini aziendali e al mercato consumer una serie di prodotti di input e output di alta qualità e tecnologia.
Il secondo progetto, “We Speak Image”, mira a riposizionare il marchio Canon quale scelta naturale per tutti i consumatori che intendono sfruttare il potere dell’immagine. Per sostenere il lancio della campagna pubblicitaria, il celebre futurologo James Bellini ha presentato una ricerca sull’evoluzione dell’immagine quale mezzo di comunicazione globale via Internet. A.Bor.
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Iwo Jima, 23 febbraio 1945. In una fotografia di Bob Campbell, il momento in cui la piccola bandiera originaria viene cambiata, per issarne una più grande.
IWO JIMA. Lo scorso ventisei giugno i giornali italiani hanno riportato la seguente notizia: Morto l’ultimo marine della bandiera di Iwo Jima. Si tratta di Charles Lindberg, il marine che apparteneva alla squadra che per prima alzò la bandiera americana sull’isola del Pacifico. Omonimo del primo trasvolatore dell’Atlantico senza scalo (con The Spirit of Saint Louis, il 20 maggio 1927), Charles Lindberg si è spento a Richfield, in Minnesota, all’età di ottantasei anni. Ne aveva ventiquattro quando alzò quella gloriosa bandiera, mentre il fotografo Lou Lowery scattava. I fatti sono andati così: era il 23 febbraio 1945, Joe Rosenthal, giovane fotografo dell’Associated Press (trentatré anni), si accingeva al suo quotidiano sbarco sull’isola di Iwo Jima, quando gli giunse notizia che era stata innalzata una bandiera americana sulla cima del monte Suribachi, un vulcano nella parte sud dell’isola, a sancire simbolicamente la definitiva sconfitta della guarnigione giapponese che teneva l’isola. La vittoria era costata seimilaottocentoventuno (6821) soldati americani caduti, di cui cinquemilanovecentotrentuno (5931) marine, circa un terzo di tutti i marine morti nella Seconda guerra mondiale. Appena sbarcato, Joe Rosenthal si affrettò verso il Suribachi, armeggiando con la sua Speed Graphic, la macchina fotografica 4x5 pollici standard per il fotogiornalismo dell’epoca. Mentre saliva verso la cima, Joe Rosenthal incrociò Lou Lowery che
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Il primo alzabandiera, dove appare Charles Lindberg, in una fotografia di Lou Lowery. Cima del monte Suribachi, Iwo Jima, 23 febbraio 1945. I presenti sono Hank Hansen (senza elmetto), Boots Thomas (seduto), John Bradley (dietro Boots Thomas), Phil Ward (che tiene in mano l’asta), Jim Michaels (con la carabina) e Charles “Chuck” Lindberg (dietro Jim Michaels).
fotografava per la rivista Leatherneck, mensile dell’US Marine Corps Association. Lou Lowery gli disse che era stata issata una bandiera alle 10,37, che lui aveva già le fotografie e che comunque il posto valeva una visita. Joe Rosenthal, in compagnia di altri due marine, Bob Campbell, che si occupava di riprese fotografiche, e Bill Genaust, che girava film, continuò la salita. Arrivato in cima, Joe Rosenthal scoprì che la prima bandiera era già stata sostituita per ragioni misteriose da una più grande. Joe Rosenthal cercò i marine che avevano realizzato il primo alzabandiera, per far loro ripetere la scena. Non riuscendo a trovarli, riunì un altro gruppo di uomini per un secondo alzabandiera a scopo fotografico. Pur trattandosi di una fotografia “posata” (anche se questo si scoprirà molto più tardi), la fotografia di Joe Rosenthal è considerata una delle più straordinarie icone fotografiche di tutti i tempi (ne abbiamo già scritto in diverse occasioni). Ha vinto il premio Pulitzer ed è stata riprodotta su francobolli, a partire da uno originario celebrativo emesso l’11 luglio 1945 (prodotto in 137.321.000 esemplari); è stata utilizzata per un poster venduto in tre milioni e mezzo di copie, e ha ispirato numerose interpretazioni di avvenimenti sociali e di cronaca (FOTOgraphia, maggio 2000, dicembre 2001 e marzo 2006). È il simbolo dell’associazione dei trasmettitori Navajo, che svolsero ruoli fondamen-
tali nella Seconda guerra mondiale (il Maggiore Howard M. Connor, responsabile delle comunicazioni della Quinta Divisione Marine durante la Seconda guerra mondiale, ha affermato che «senza i Navajo, i marine non avrebbero mai riconquistato Iwo Jima»). È stata pubblicata in copertina da un numero incalcolabile di giornali ed è stata elaborata in bronzo per il monumento ai marine sulla collina di Arlington, a Washington, all’ingresso dell’Arlington National Cemetery, comunemente citato e indicato come “Iwo Jima Memorial”, eterno simbolo del valore e dello spirito di sacrificio dei marine. Ancora, ha ispirato i cinematografici Flags of Our Fathers, di Clint Eastwood (2006), sceneggiato da Paul Haggis sulla base del romanzo omonimo originario di James Bradley (biografia dei sei uomini nella fotografia di Joe Rosenthal, della quale è coautore il figlio di uno di loro), e The Outsider, di Delbert Mann (Il sesto eroe; 1961), storia dell’indiano Ira Hayes (l’attore Tony Curtis), elevato a eroe nazionale per aver issato la bandiera sul monte Suribachi (FOTOgraphia, marzo 2006).
DALLA COREA DEL NORD. Con un intervento a firma Marianne Fulton, Digital Journalist (www.digitaljournalist.org) racconta la brillante soluzione che Yannis Kontos, dell’agenzia statunitense Polaris (rappresentata in Italia dall’Agenzia Grazia Neri), ha trovato per realizzare un reportage in Corea del Nord. Da tre anni, il fotografo greco richiede un permesso per entrare, come fotografo professionista, nella Repubblica voluta da Stalin nel 1948. Tutti i suoi tentativi sono andati però falliti. Allora, ha chiesto un visto turistico e l’ha ottenuto. Ma anche le macchine fotografiche dei turisti sono proibite nella maggior parte dei luoghi e delle occasioni. Quindi, i problemi non erano proprio tutti risolti. «Ho scattato almeno l’ottanta per cento delle fotografie in segreto, senza farmi notare, usando vari trucchi; per esempio, senza guardare nel mirino -rivela Yannis Kontos-, anche se stavo scattando dal finestrino di un treno o di un autobus. Di notte scaricavo (o meglio, nascondevo) le mie fotografie nell’iPod sco-
Dal reportage Red Utopia: Photographs of North Korea, che Yannis Kontos ha realizzato occultando sempre la macchina fotografica.
nosciuto alla maggior parte dei nordcoreani. Le mie macchine fotografiche dovevano stare chiuse dentro la valigia, e potevo usarle solo nei luoghi dove c’era il permesso dal governo. Anche davanti alla statua del padre della nazione, il Grande Leader generale Kim Il-sung, la guida indica come fotografare: solo di fronte, non di lato o da dietro». Con queste fotografie, Yannis Kontos ha recentemente pubblicato un libro in Europa, per l’editore Kastaniotis di Atene: Red Utopia: Photographs of North Korea. Secondo Reporter senza Frontiere, la Corea del Nord è uno dei peggiori paesi al mondo per la libertà di stampa. È incredibile, ma gli apparecchi radio e televisivi domestici possono ricevere soltanto le stazioni governative. Per questo, le fotografie del fotoreporter Yannis Kontos rappresentano quel poco che abbiamo e, quindi, sono molto importanti. Una galleria di immagini è disponibile su Newsweek on line all’indirizzo: www.msnbc.msn.com/id/15265432/ site/newsweek/. Noi le pubblicheremo nei prossimi numeri. Ricordiamo che Yannis Kontos è un fotografo greco, laureato in fotogiornalismo presso l’Università di Westminster in Londra. Negli anni Novanta ha collaborato con Sygma e Gamma, e attualmente è rappresentato da Polaris. Negli ultimi dieci anni ha coperto, tra l’altro, le guerre in Kosovo, Afghanistan e Iraq. Molti i riconoscimenti: l’Alfred
Eisenstaedt Award, il Pictures of the Year, l’NPPA’s “The Best of Photojournalism”, l’European Press Photographer of the Year e, infine, il primo premio nella categoria Contemporary Issues Singles dell’edizione 2006 del World Press Photo (FOTOgraphia, maggio 2006).
POST MORTEM. Parliamo di diritto di proprietà sulle immagini di personaggi defunti (da Seneca: Post mortem nihil est, dopo la morte non c’è nulla). Recentemente proposta nello stato di New York, una legge appositamente redatta cercherà di vietare l’utilizzo, per ragioni commerciali, di immagini di personalità defunte senza il manifesto permesso degli eredi. La legge proposta risponde a una sentenza che ha dato torto agli eredi di Marilyn Monroe, che avevano chiesto il ritiro di un prodotto che utilizzava una immagine della star americana per la propria promozione. In opposizione a questa sentenza, che ha stabilito che gli eredi di Marilyn non hanno alcun diritto sulle sue immagini, i sostenitori della legge hanno chiesto l’appoggio di un gruppo di personalità che vivono nella stato di New York, come Yoko Ono (vedova di John Lennon), Liza Minelli (erede della memoria del padre Vincente e della madre Judy Garland), gli eredi di Jimi Hendrix e del campione di baseball Mickey Mantle. A proporre la legge è stato il senatore Marty Golden, che ha dichiarato: «I parenti dei defunti devono essere protetti da personaggi senza scrupoli, che cercano di realizzare facili profitti con immagini che appartengono di diritto alla famiglia, sfruttando una lacuna della nostra legge. Lo stato di New York dovrebbe proteggere famiglie e istituzioni dalle truffe di questi pirati». La materia è comunque oggetto di controversia. Prima a opporsi è proprio l’agenzia della famiglia del fotografo Sam Shaw, che ha in archivio le immagini di Marilyn Monroe e che ha venduto la fotografia da cui è partito l’iter legislativo. L’avvocato che la rappresenta, Christopher Serbagi, ha affermato: «La legge così com’è ha poche probabilità di passare». L’avvocato sostiene che la legge è troppo vaga e che,
se passasse com’è stata proposta, potrebbe impedire, per esempio, a una galleria di esporre un ritratto di Humphrey Bogart che vuole mettere in vendita. A questo proposito, registriamo che gli eredi Marilyn Monroe sono stati sconfitti anche in un’altra causa intentata, questa volta in California, contro l’agenzia di Milton H. Greene. La California ha una legge che tutela il diritto degli eredi, ma il giudice non ha ritenuto di applicarla nel caso specifico. Ora, Joshua Greene, figlio del fotografo Milton Greene, manifesterà la sua opposizione contro la legge proposta a New York. Si tratta evidentemente di un tema di grande rilevanza, sia commerciale sia giuridico, per quanto riguarda il diritto d’autore. Staremo a vedere come finirà.
VISA 2007. Come tutti gli anni, alla fine dell’estate si svolge a Perpignan, in Francia, ai piedi dei Pirenei orientali, la più importante manifestazione mondiale di fotogiornalismo, Visa pour l’Image. Le mostre fotografiche a contorno rimangono aperte due settimane, dal Primo al 16 settembre; ma il periodo clou della manifestazione si concentra nella prima settimana di settembre, vivacizzata da incontri, dibattiti e avvincenti serate di proiezioni. I temi trattati saranno l’America Latina, l’Afghanistan, l’India, l’Iran, la Cecenia, i cambiamenti climatici e una retrospettiva dedicata agli anni di Pinochet. Tra le mostre allestite, segnaliamo una consistente selezione da Red Utopia: Photographs of North Korea, di Yannis Kontos, di cui riferiamo in questa stessa rubrica. Il tradizionale editoriale con il quale Jean-François Leroy, direttore della manifestazione, presenta Visa pour l’Image 2007 è un atto di denuncia contro quella che apparentemente risulta essere una forte tendenza del fotogiornalismo attuale: il ritratto (argomento sul quale anche noi stiamo ragionando da tempo: a breve riferiremo le nostre osservazioni e conclusioni). Ve lo proponiamo integralmente. «A Visa pour l’Image abbiamo sempre affermato di non amare il soggetto “people”. Spiacenti, ma avevamo torto. Dobbiamo ricono-
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scere il nostro errore o almeno ammettere che i fotografi che realizzano ritratti della gente hanno talento. «Quest’anno, in materia di fotogiornalismo, si è manifestata una forte tendenza: la people-izzazione dell’informazione. I fotografi non sanno più come rappresentare Sdf [vagabondi, ndr], militanti, combattenti, soldati, donne violentate, figli delle vittime, parenti delle vittime, contadini, pugili, prostitute, transessuali, orfani, immigrati, drogati o un qualunque rappresentante di altre categorie sociali, culturali, religiose professionali... E allora cosa fanno? Eseguono ritratti. «Esausti! Siamo esausti di dovere osservare con un’espressione comprensiva o entusiasta tutti questi portfolio improbabili, pieni di fotografie che sembrano essere uscite da una di quelle cabine per le fototessere. Ritratti. Il trucco consiste nel cercare di fare di una mosca un elefante. Fotografie posate o, ancora peggio, imita-
zioni di fotografie per passaporto, che non vogliono dire nulla. Assenza totale di riflessione, di immaginazione. «I fotografi si lamentano spesso della stampa. Ma quando più di centocinquanta fotografi propongono gli stessi ritratti di Sdf a Parigi, che cosa sperano? È vero, i giornali chiedono sempre più ritratti. Ma se i fotografi assecondano questa tendenza finiranno per darci un’immagine conformista e asettica della realtà. E noiosa, talmente noiosa... «Allora a Perpignan cerchiamo di uscire da questo impasse. Per tentare di stimolare una reazione da parte della gente, per mostrare che esistono ancora i fotografi, non soltanto dei ritrattisti. «Aggiungiamo che la giuria internazionale ha già eletto il Jeune Photo Reporter 2007. Si tratta di Mikhael Subotzky, che è stato premiato per il suo lavoro su delinquenza e prigioni in Sudafrica». A cura di Lello Piazza
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IN POSA, PER SCHERZO
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Distribuito in edicola dalla metà del mese precedente, il numero di luglio di Cip & Ciop, periodico della Walt Disney Company Italia, replica iniziative già da tempo conosciute, che ogni estate avvicinano la fotografia alla spensieratezza delle vacanze. In stretti termini temporali, l’allegra Fotosquirt di Cip & Ciop, cellofanata assieme alla rivista, per un prezzo complessivo di 2,90 euro, ricalca analoghe promozioni degli anni scorsi, alcune delle quali abbiamo anche commentato. Per esempio, giusto lo scorso luglio 2006 segnalammo la particolare macchina fotografica abbinata a Barbie Magazine, che con l’occasione diede fiato anche a un coinvolgimento nell’ordine di Fotografa Ufficiale Barbie e Fotografa Ufficiale delle Vacanze (ovviamente, la testata si rivolge a un pubblico di bambine). Nell’attuale caso di Cip & Ciop, la differenza è sostanziale. Infatti non si tratta di una autentica macchina fotografica per esposizioni su pellicola 35mm, come in genere è stato per tante altre promozioni estive precedenti, ma di un semplice gioco da spiaggia: a forma di macchina fotografica, appunto, Fotosquirt di Cip & Ciop è solo uno scherzo. Non scatta fotografie, ma, precaricata con acqua che fuoriesce da un foro (non stenopeico!) sull’obiettivo, colpisce l’ingenuo che si è lasciato ingannare, mettendosi in posa per un improbabile ritratto. Ovviamente, i risultati dello scherzo sono assolutamente modesti, perché lo spruzzo d’acqua non ha alcuna forza, e dunque non arriva poi troppo lontano.
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Quindi, non ci interessa soffermarci sull’utilizzo previsto e preordinato della Fotosquirt di Cip & Ciop, quanto classificarla nel variegato casellario nel quale, da decenni, raccogliamo questo tipo di testimonianze fotografiche parallele: ovverosia, oggetti a forma di macchina fotografica e dintorni. Due anni fa, nel novembre 2005 abbiamo appunto affrontato la materia, vasta ed eterogenea, concentrando l’attenzione sulle macchine fotografiche camuffate: da quelle storiche a quelle spionistiche, fino a quelle giocattolo, a forma di (lattina di bibita, copertone d’auto in miniatura, Topolino e Paperino...). Pur nella propria inattendibilità e improbabilità, comunque sia tutte autentiche macchine fotografiche. A differenza, la Fotosquirt di Cip & Ciop deve essere classificata altrimenti. Nulla di scientifico o museale, sia chiaro, anche se il neocostituito Museo Nazionale Alinari della Fotografia (che abbiamo presentato in cronaca, lo scorso di-
Allegata al numero di luglio del mensile Disney dedicato ai simpatici personaggi dei cartoni animati, Fotosquirt di Cip & Ciop è soltanto un gioco: invece di fotografare, spruzza acqua. Un elemento ancora, uno in più, che ingrossa le già consistenti fila degli oggetti a richiamo fotografico ripresi dalla vita quotidiana. Ce ne sono migliaia: e sappiamo bene di cosa e quanto stiamo parlando.
cembre 2006) comprende una sezione permanente Intorno alla fotografia, a cura di Guido Cecere: capitolo poco comune, ricco di spunti e sollecitazioni; per questo, visione irrinunciabile di un percorso museale moderno e contemporaneo. La sezione presenta una raccolta di carte intestate, documenti, cartoline, pubblicità, ma anche ceramiche, vetri, stoffe, gioielli, mobili, oggetti di vario uso e cornici: elementi di rilievo e spicco per la storia della fotografia. Il tutto per raccontare (anche, ma non soltanto) come i fotografi hanno commercializzato attività e prodotti e l’uso fatto delle proprie immagini. Giusto questo potrebbe essere l’adeguato contenitore per visualizzare anche queste altre citazioni della fotografia, che ora si arricchiscono dell’attuale Fotosquirt di Cip & Ciop. In un profilo consistentemente più basso di quello storico-museale, ma con l’irrinunciabile gusto e valore del convinto coinvolgimento di un pubblico a tutto tondo, non necessariamente fotografico, l’insieme di questi oggetti compone un assortimento tanto vasto ed eterogeneo da essere qualcosa di più, e meglio, di un fenomeno puramente e solamente statistico. Lo diciamo con cognizione di causa, possedendo noi almeno seimila oggetti del tipo, dei quali vorremmo avviarne la classificazione ragionata. Nei fatti, però, questa sognata catalogazione è subordinata a ipotesi che stanno a monte. Prima di tutto, bisogna stabilire se e quanto abbiano ancora senso e possano ancora trovare ospitalità parole complementari al percorso principale della storia evolutiva della fotografia: linguaggio e tecnica, prima di tutto, ma anche costume e socialità. Perché no? M.R.
LEZIONE DI REPORTAGE
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l’Agenzia VII (Seven), che ha tra i suoi (pochi e scelti) membri i fotogiornalisti più prestigiosi del momento, come Alexandra Boulat e Laureen Greenfield, come Ron Haviv e Gary Knight, e poi Antonin Kratochvil, Joachim Ladefoged, Christopher Morris, James Nachtwey, Eugene Richards e John Stanmeyer, elencati in ordine rigorosamente alfabetico [due mostre in Italia, entrambe agli Scavi Scaligeri di Verona: La VII intorno al mondo: settembre 2001aprile 2002 e Inviati di guerra (rispettivamente in FOTOgraphia del settembre 2002 e febbraio 2004)]. Canon Inghilterra ha sostenuto l’iniziativa con un supporto aggiuntivo di Digitalrailroad (il sito web che sta facendo un grande servizio a fotografi e agenzia, fornendo il software per la circolazione delle immagini via Internet) e Lowepro (la nota azienda che costruisce borse fotografiche). Il seminario, che verrà ripetuto con
Organizzato dall’Agenzia VII, il primo VII Photo Seminar si è svolto a Londra dal 13 al 15 aprile. Indirizzato ai giovani fotografi, verrà ripetuto in altre parti del mondo.
FRANK NÜRNBERGER (3)
È
È capitato che un bella sera di fine maggio, eccellente spumante Bellavista, vino rosso e salame dell’Oltrepo pavese sulla tavola, ci si sia trovati a casa di Grazia Neri, riconosciuto guru italiano della fotografia, per raccontare al direttore, Maurizio Rebuzzini, di un seminario che si è tenuto a Londra nel weekend dal tredici al quindici aprile. Intorno alla tavola, oltre a Grazia Neri, Maurizio Rebuzzini e al sottoscritto, Chiara Mariani, photo editor del Magazine del Corriere della Sera, pure presente a Londra. Poi, Loredana Patti, fotoreporter della serata, e Maria Teresa Ferrario, allieva di Maurizio Rebuzzini al corso di Storia della fotografia che tiene presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore di Brescia, venuta per “imparare qualcosa” (gratificante ottimismo di studente scrupoloso). Il seminario di Londra è stato un evento importante, organizzato dal-
lo stesso format in altre parti del mondo (prossima tappa in California, presso l’Art Center College of Design di Pasadena, il tre e quattro novembre prossimi), è dedicato ai giovani fotografi che per due giorni vogliono frequentare l’olimpo del fotogiornalismo: in semplicità, VII Photo Seminar. L’iscrizione è costata cinquanta sterline per gli studenti e cento per
tutti gli altri; mentre, farsi “leggere” il portfolio è costato duecento sterline. Con questo seminario, l’Agenzia VII intende infondere entusiasmo nei giovani, far emergere in loro la passione per un lavoro duro e difficile. A Londra, l’apertura dei lavori del primo VII Photo Seminar è stata affidata a John Morris, vitale ultra novantenne, “former” photo editor di Life, Washington Post, New York Times, e chi più ne ha più ne metta (i cui Sguardi sul ’900, terribile traduzione dell’originario Get the Picture, personale storia del fotogiornalismo, sono stati pubblicati da Le Vespe di Pescara; FOTOgraphia, dicembre 2000). Con un romantico discorso, John Morris ha descritto i momenti più magici della sua lunga carriera. Per l’ennesima volta, ha ricordato la storia delle fotografie dello sbarco in Normandia, martedì sei giugno 1944, il D-Day. Nella sede di Londra di Life, lui testimone oculare, i negativi di Robert Capa mandati quasi arrosto nel tentativo di farli asciugare il più in fretta possibile (si salvarono solo cinque fotogrammi), e poi, anche, le fotografie e il film di Bob
Intervento conclusivo di James Nachtwey: standing ovation di cinque minuti.
Landry malauguratamente finiti sul fondo del Canale della Manica. Per questo, ha concluso John Morris, si è parlato tanto dello sbarco di Omaha Beach, dove c’era Robert Capa, e quasi niente di quello, altrettanto sanguinoso e coraggioso, di Utah Beach, dove c’era Bob Landry. Perché del secondo non ci sono fotografie. Ovazione! Ha chiuso il seminario, la proiezione di James Nachtwey, che, oltre un reportage in bianconero sugli effetti provocati dall’Agent Orange (nickname per i defolianti usati dagli americani durante la guerra in Vietnam), che ancora oggi devastano centinaia di migliaia di persone, ha presentato una serie di immagini scelte tra le più significative della sua carriera. Standing ovation, tutti in piedi, cinque minuti di applausi a lui dedicati dal giovane pubblico in sala. Torniamo però al Bellavista e al salame. Non farò certo la cronaca della serata: ma è importante ricordare rapidamente quanto ha detto Grazia Neri a proposito della Seven (VII), una piccola agenzia in lotta contro Corbis e Getty, un coraggioso (e straordinariamente dotato) Davide contro un Golia cui interessa più il controllo del mercato che l’informazione e la cultura. Secondo la condivisibilissima opinione di Grazia Neri, l’Agenzia VII
si propone come punto di riferimento che garantisce al pubblico la qualità del giornalismo prodotto (o meglio, fotogiornalismo), in contrapposizione anche alla tendenza dei giornali di basarsi su immagini e notizie prodotte attraverso il citizen journalism (fotografie inviate da persone comuni, magari riprese con il telefonino). «Andate sul sito della Seven, www. viiphoto.com, e guardate fotografia per fotografia -ha rilevato Grazia Neri-. Tutte hanno la qualità e lo spessore delle immagini d’autore». Chiara Mariani racconta cosa è stato per lei il seminario. «È rivolto ai giovani, che sono tanti e hanno riempito il salone dove si è svolto. Hanno pagato per esserci, aspirano a diventare reporter e qui hanno avuto la possibilità di respirare l’aria dei propri miti e porre loro domande. Sul palco, si sono alternati i protagonisti, con grande disciplina e ognuno con lo stile che gli è proprio. Certo, ai veterani del mestiere molte cose sono suonate un poco retoriche, un poco scontate. Eppure, novità e colpi di scena sono stati riservati anche a noi: il montaggio drammatico realizzato da Antonin Kratochvil con le fotografie e le testimonianze raccolte durante un agguato in Iraq (Sergeant Iraq) e il filmato di Christopher Morris, che
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FRANK NÜRNBERGER (2)
con la sua nota ironia ha ripreso l’entourage del presidente Bush. «La maggior parte delle fotografie proiettate, ben montate e accuratamente accompagnate da una avvincente colonna sonora, sono ben note a chi maneggia le immagini tutti i giorni. Tuttavia, ci si rende conto
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che le si conosce per averle viste sui libri, o in privato durante pranzi o cene per pochi, raramente sui giornali, se non quelli statunitensi che le hanno commissionate. Una volta di più, ci rendiamo conto delle selezioni (censure?) della stampa, irritata dagli scatti che rimandano ai troppi
Il VII Photo Seminar impegna tutti i fotoreporter della celebre Agenzia: due giorni di intensi approfondimenti delle tematiche del fotogiornalismo.
disagi del pianeta, e capiamo che per i giovani è una situazione unica per abbracciare in pochi giorni il lavoro di molti anni, per giunta decriptato dagli autori. «Non tutti sono oratori, d’altra parte il loro talento si manifesta e cresce nella più cupa solitudine, che a un seminario di fotografia dovrebbe costituire un capitolo a parte. Già, perché un’agenzia come la VII nasce anche per combattere la solitudine del singolo fotografo, che non ha più veri interlocutori nel mondo dei media. La fotografia, per i più, è un fast food impersonale e asettico, che giunge sulle scrivanie attraverso un mezzo freddo come il computer, noncurante degli sforzi dell’autore, e anzi insinuando il dubbio dell’esistenza stessa di un autore. «Tutte queste cose al seminario non sono state dette. E in verità nessuno dei giovani presenti ha avuto l’ardire di porre domande che riguardassero l’aspetto meno romantico del lavoro di fotoreporter. Anche se, con l’umiltà che gli è propria, il fotografo che tra i presenti amiamo di più, Christopher Morris, ha fatto più di un accenno al problema. Lui, che come fotografo di guerra ha danzato con la morte per tanti anni, quando diventa papà non vuol più rischiare la vita, ma si accorge, ahimè, che cambiare strada significa rinunciare a un reddito. Con sollievo, sospetto e stupore accoglie l’offerta di Time di seguire il presidente Bush. Il sollievo è motivato dall’addio alla guerra, il sospetto dalla mancanza di fascino del soggetto che da adesso in poi dovrà seguire (“Come faccio io a diventare l’ombra di un abito”, confessa alla moglie Vesna, una donna croata conosciuta durante la guerra dei Balcani) e lo stupore dalla disponibilità finanziaria di Time di investire su di lui per un soggetto che richiede meno della metà delle doti di Christopher Morris (del quale sentiamo la mancanza nelle zone calde del pianeta). Certo, grazie all’enorme talento, il suo lavoro su Bush, quello che Time non mostra, è una straordinaria critica ai Republicans». Quali conclusioni trarre? Gary Knight dice ai giovani presenti: «La cosa più importante che porterete a casa da questo seminario è che non bisogna costruire le immagini,
Professionista di Berlino, specializzato in fotografie di congressi ed eventi (autore delle immagini che pubblichiamo), Frank Nürnberger ha partecipato al seminario dell’Agenzia VII a Londra con grande entusiasmo. Conosce bene il lavoro dei fotografi VII, perché va spesso sul loro sito a cercare ispirazione (www.viiphoto.com). Per migliorare il suo stile, Frank Nürnberger ha partecipato anche alla sessione di lettura dei portfolio con James Nachtwey, con il quale si è fatto ritrarre.
LA VII (SEVEN)
A
genzia di fotografi nata per rispondere ai drastici cambiamenti che si sono verificati nel mondo editoriale internazionale, la VII è sorta in rispetto alla proprietà, rappresentatività e distribuzione del giornalismo fotografico. In un panorama di fusioni, acquisizioni, consolidazioni tra le agenzie fotografiche, i reporter della VII hanno unanimemente sentito la necessità di un cambiamento. L’Agenzia VII ridefinisce le relazioni tra i fotografi, il proprio lavoro, l’agenzia e il pubblico. L’Agenzia VII difende i diritti di ognuno dei propri fotografi ed è impegnata a elaborare nuove strategie per supportare progetti fotografici, con l’intento di presentarli a un pubblico più ampio e internazionale. Creata nel settembre 2001, l’Agenzia VII prende il nome dal numero dei soci fondatori: Alexandra Boulat, Ron Haviv, Gary Knight, Antonin Kratochvil, Christopher Morris, James Nachtwey e John Stanmeyer, ai quali, successivamente, si sono aggiunti Christopher Anderson (2002, che nel 2005 è poi passato all’Agenzia Magnum Photos), Laureen Greenfield (2002), Joachim Ladefoged (2004) e Eugene Richards (2006). Fondata in pieno riconoscimento dei complessi problemi di gestione che possono insorgere in un progetto tanto ambizioso, la VII ha un approccio aziendale semplificato: limitare il numero dei fotografi membri a non più di quattordici. Questa restrizione impone direttamente un tetto alle spese gestionali e, di conseguenza, massimalizza le entrate dei fotografi. La VII è stata concepita come un modello flessibile di piccola azienda, in grado di adattarsi velocemente, senza aspirare però ad aumentare esponenzialmente e irrazio-
bisogna limitarsi a cogliere ciò che è davanti ai vostri occhi». Lo diceva anche Henri Cartier-Bresson, lo hanno detto in tanti, ma forse non è sempre vero, come mostra la straordinaria forza iconografica di certe fotografie posate. No, a mio parere, non è certo
nalmente la produzione. In questo modo tutti possono beneficiare delle conoscenze e dei talenti che nascono dalla deliberata concentrazione della produzione verso un settore relativamente limitato. L’Agenzia VII programma la produzione e distribuzione delle proprie fotografie. Grazie a un software della e-Motion Media Partner, adattato da Metro Imaging, si sta cimentando nell’integrazione della digitalizzazione del fotogiornalismo. In virtù delle proprie dimensioni limitate e della propria accurata costituzione, l’Agenzia VII è strutturata in modo tale che nessuna priorità possa prevalere sulle altre. Mettendo questi limiti specifici è stato creato qualcosa di esclusivo, in termini di argomenti, qualità e metodo aziendale. Comunque, l’Agenzia VII non si propone come élite, al contrario si basa su una dimensione pratica per il lavoro fotografico e incoraggia la costituzione di agenzie organizzate su sistemi e princìpi analoghi. È convinzione dell’Agenzia che i gruppi di professionisti che lavorano per un interesse comune servono meglio la professione, ma c’è un limite alle dimensioni oltre il quale l’interesse individuale prende il sopravvento. Nel fotogiornalismo, l’utilizzo della digitalizzazione significa che i piccoli gruppi possono equiparare la portata e la velocità delle grandi agenzie. Quando questo si verifica, la concorrenza si concentra più sulla qualità dell’espressione a favore del lavoro fotografico svolto. In Italia, l’Agenzia VII è rappresentata e distribuita dall’Agenzia Grazia Neri di Milano (via Maroncelli 14, 20154 Milano; 02-625271, fax 02-6597839; www.grazianeri.com, photoagency@grazianeri.com).
questo il bottino più grande che ci si è portati a casa dal seminario. Secondo me, si è tornati a casa impregnati dal profumo del mito della fotografia, come in certe chiese ti entra nella pelle l’odore forte di incenso. Si è portato a casa il ricordo di proiezioni di immagini straor-
dinarie, che le scelte dei giornali impediscono di vedere. Ma la conclusione del discorso di Chiara Mariani mi fa venire in mente l’elemento più importante per me, che vivo in un paese nel quale la politica minaccia costantemente la stampa. La risposta di Christopher Morris a una domanda che gli ho posto alla fine della sua presentazione: «Tutta quell’ironia, a volte sarcasmo, nel riportare la giornata di Bush e del suo entourage, non ti ha creato problemi?» «Se il presidente osasse toccare un giornalista -risponde Christopher Morris-, tre giorni dopo sarebbe obbligato a dimettersi». Si unisce Chiara Mariani: «Con nostra grande meraviglia, questo atteggiamento di Christopher Morris, così palesemente ostile al potere, non minaccia il suo accredito alla Casa Bianca: un indubbio merito della democrazia americana. Ma questo meriterebbe un capitolo a parte». È la stampa, bellezza, è la stampa. Che bello se fosse vero anche da noi. Lello Piazza
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al centro
della fotografia
tra attrezzature, immagini e opinioni. nostre e vostre.
Marco Moggio è un fotografo della provincia di Varese, giovane per età ma già ricco di un consistente bagaglio di esperienze professionali, maturate soprattutto in sala di posa. Alternativamente, è assistente di un professionista, che si muove con disinvoltura e abilità in diversi indirizzi di mestiere, e autore in proprio. In questo caso, dallo still life alla figura, applica nella fotografia di ricerca i princìpi appresi e maturati nella professione. Una riflessione su una serie di ritratti sservando i ritratti realizzati da Marco Moggio, una selezione dei quali è presentata in queste pagine, si può riflettere e pensare in tanti modi. Subito, si è indotti ad apprezzare il coraggio di chi si cimenta in un genere, appunto quello del ritratto formale in sala di posa, che è stato abbondantemente frequentato da innumerevoli autori di spicco. Il confronto non è certamente legittimo, perché ciascun fotografo ha il diritto di essere considerato per se stesso, prima ancora di essere incluso in
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VOLTI QUOTIDIANI
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una consecuzione storica. Però i rimandi sono inevitabili. Consapevole di questo possibile e potenziale incontro/scontro, Marco Moggio non si è arreso, né lasciato intimidire da quella concreta e lunga storia del ritratto in fotografia. Con tan-
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ta umiltà, che consideriamo dote magistrale, si è incamminato lungo una strada già tracciata, applicando un segno caratteristico capace di segnare e segnalare la propria personalità. Difficile essere originali in un campo fotografico tanto vasto
e frequentato, ma l’originalità a tutti i costi (reale o presunta che sia) non è certo elemento discriminante, né decisivo, dell’espressione fotografica contemporanea. Anche per questo, la serie di ritratti di Marco Moggio merita e attira attenzione. Sono
inquadrature in bianconero, successivamente interpretate in stampe intonate, realizzate con la consapevole applicazione di concrete lezioni apprese nel lavoro quotidiano in sala di posa: collocazione delle luci, composizione del soggetto, piani selet-
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tivi di messa a fuoco e altro ancora. Ogni ritratto di Marco Moggio, che non ripete una formula o uno schema ossessivo (proprio di altre interpretazioni del ritratto, diverse da questa), è bilanciato nel più concreto e stretto legame con il soggetto. A conti fatti, per quanto il formalismo delle composizioni presenti e offra ripetizioni di stile, presto individuate e appena annotate, ogni inquadratura è autonoma e individuale. Allo stesso momento, grazie all’uniformità del modo fotografico, tutte le inquadrature insieme compongono un discorso comune, ricco di molteplici individualità: le stesse dei volti e delle personalità dei soggetti che hanno posato per Marco Moggio. In definitiva, una volta ancora, questa di Marco Moggio è una ennesima lezione di lessico applicato. Attraverso il ritratto, la fotografia svela e rivela l’essenza di un antico rapporto con l’esistenza di ognuno. Per quanto ciascuno di noi scatti una tanta e tale quantità di fotografie, che alla fine finiscono spesso per confondersi tra loro (come i ricordi, i rimpianti, le nostalgie e gli attimi felici), ogni volta siamo convinti e persuasi di vedere in modo diverso: come vogliamo vedere, oppure come la vita ci consente di vedere. A scelta, come ogni fotografia, anche i ritratti quotidiani di Marco Moggio, autenticamente intensi e partecipi, dicono tanto o poco del soggetto: dipende da come li si vuole osservare. Allo stesso momento, rivelano qualcosa dell’autore. Soprattutto individuano i momenti nei quali si è reso conto di applicare uno stile di coinvolgente personalità. In definitiva, possiamo pensare che sia proprio questo il senso di ogni fotografia. Secondo umori, intenzioni e disposizioni può dire qualcosa del soggetto. Ma non è tutto: se la osserviamo attentamente, arriva a rivelare molto su noi stessi, nel nostro rapporto con il soggetto raffigurato e con la nostra vita. Angelo Galantini
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ino al prossimo due e sedici settembre, gli spazi espositivi della Triennale Bovisa, recente indirizzo milanese, emanazione diretta di quello principale originario (la Triennale, appunto), localizzato nel nuovo polo universitario della città, ospitano due appuntamenti fotografici di sostanza, entrambi coordinati dall’Agenzia Grazia Neri. Uno è dichiaratamente fotografico: La trilogia del Sacro Selvaggio, di Gérard Rancinan (fotografo rappresentato dalla stessa Agenzia Grazia Neri di Milano), già raccolta in monografia da Federico Motta Editore alla fine del 2005 (ne abbiamo riferito in FOTOgraphia del marzo 2006). L’altro illustra il fenomeno dell’icona di Che Guevara con la fotografia, la grafica d’autore e spontanea e l’oggettistica: appunto, Che
Ufficialmente intitolata El guerrillero heróico, l’icona di Che Guevara è una delle più significative dei nostri tempi, una delle più usate e abusate in mille occasioni: come rileva la mostra Che Guevara: rivoluzionario e icona, a cura di Trisha Ziff, alla Triennale Bovisa di Milano, fino al prossimo 16 settembre. L’icona del Che è ricavata dalla porzione centrale di un fotogramma con inquadratura orizzontale, scattato da Alberto Korda il 5 marzo 1960.
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Guevara: rivoluzionario e icona, a cura di Trisha Ziff, che documenta gli infiniti utilizzi della celebre fotografia di Alberto Korda (FOTOgraphia, novembre 1999, marzo 2000 e luglio 2001). Invertiamo l’ordine di presentazione, partendo proprio dalla fenomenologia del Che, del quale il prossimo nove ottobre ricorrerà il quarantesimo dalla morte (al secolo, Ernesto Guevara, detto “Che”, fonema con il quale intercalava ogni suo discorso e conversazione). A seguire, riprendiamo i termini della raccolta fotografica a tema di Gérard Rancinan. Prima di farlo, ricordiamo che Ernesto Che Guevara svolse anche professione di fotografo e, comunque, dedicò particolare attenzione alla fotografia: ne abbiamo ampiamente riferito nell’ottobre 2003, in occasione del passaggio in Italia di una sua mostra fotografica, appunto.
Doppio appuntamento espositivo alla Triennale Bovisa di Milano, che ospita in simultanea una mostra sull’iconografia di Che Guevara (fotografie testimonianza, grafiche e oggetti) e una personale di Gérard Rancinan. In avvincente combinazione, si passa da una icona del nostro tempo, appunto il ritratto del Che, a una concentrata analisi fotografica in tre originali consecuzioni iconiche: Arte, Altro e Fede
A PROPOSITO DI ICONE CHE GUEVARA
Il ritratto che Alberto Korda scattò a Che Guevara è stato conteggiato come l’immagine più riprodotta nella storia della fotografia. Originario simbolo della rivoluzione e ribellione giovanile, nello scorrere dei decenni e attraverso gli abusi di riproduzione, quel volto ha ormai perso il proprio richiamo di partenza, quale che fosse, divenendo una figura soltanto (e non già soprattutto) grafica, riprodotta innumerevoli volte su poster, magliette e oggetti di gusto quantomeno discutibile (testimoniamo personalmente anche per la decorazione di uno slip femminile). La mostra Che Guevara: rivoluzionario e icona. The Legacy of Korda’s Portrait, che si tiene presso la Triennale Bovisa, esamina sia la straordina-
Dai provini a contatto dell’intero rullo scattato da Alberto Korda il 5 marzo 1960 a L’Avana, su due fotogrammi del quale compare Ernesto Che Guevara, si individua la presenza a Cuba di Jean-Paul Sartre e Simone de Beauvoir. Ai tempi furono pubblicate giusto queste fotografie. Attraverso la sua icona, il mito del Che è successivo.
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ria potenza di questa immagine sia la storia della sua diffusione, fino alla definizione certa di fenomenologia planetaria. Dalla copertina dell’album American Life, di Madonna (il meno venduto della cantante, il nono pubblicato; 2003), sulla cui copertina l’interprete fa il verso al Che, a Five Dollar Bill, di Pedro Meyer, sul quale l’originaria figura di Abraham Lincoln è sostituita da quella del Che (a pagina 38), il ritratto di Alberto Korda rivela una natura sia populista sia controculturale. Composta di numerosi prestiti, la selezione è stata organizzata dalla curatrice indipendente Trisha Ziff, in collaborazione con Ucr/California Museum of Photography e University of California di Riverside. Già esposta all’International Center for Photography di New York, al Centro de la Imagen di Città di Messico e al V&A Museum di Londra, dopo le date milanesi verrà presentata all’Institut de Cultura di Barcellona; quindi, l’itinerario internazionale continuerà fino a tutto il 2010. Come annotato, e a tutti ampiamente noto, nell’emisfero occidentale quell’immagine del Che ha svanito i propri valori e significati originari, ed è oggetto di migliaia di visualizzazioni commerciali e non: «è stata riprodotta su tutto ciò che può riportare una fotografia: poster, magliette, posacenere, quaderni, cartoline, gadget, scatole di sigari... ed è l’effigie sui dieci pesos cubani» (Giuliana Scimé). Contemporaneamente è ancora utilizzata come grido di protesta politica da parte di movimenti disparati, che in America Latina, Medio Oriente e Asia si battono per cause politicamente identificate, dalla cancellazione del debito dei paesi in via di sviluppo all’anti-americanismo, per l’identità latino-americana, per i diritti degli omosessuali e delle popolazioni indigene. In mostra, opere di vari artisti e fotografi, tra i quali Vik Muniz (Stati Uniti / Brasile), Pedro Meyer (Messico), Martin Parr (Inghilterra), Marcos Lopez (Argentina), Annie Leibovitz (Stati Uniti); quindi, avvincenti poster originali, concessi in prestito dal Center for the Study of Political Graphics di Los Angeles, e oggetti vari e cimeli con l’effige del Che. Nel proprio insieme, queste visualizzazioni tracciano l’evoluzione della fo-
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(pagina accanto) Da La trilogia del Sacro Selvaggio (di Gérard Rancinan), La Fede: Cardinale Angelo Scola, patriarca di Venezia.
Da La trilogia del Sacro Selvaggio (di Gérard Rancinan), L’Arte: Maurizio Cattelan e Jan Fabre.
tografia originaria di Alberto Korda, dalla sua creazione agli utilizzi che se ne fanno al giorno d’oggi. A questo punto è opportuno fermarsi sulla genesi della fotografia di Alberto Díaz Guttiérez (19282001), conosciuto come Alberto Korda, fotografo di moda a Cuba prima della rivoluzione castrista, che rimase nell’isola, trasformandosi in fotogiornalista per il giornale Revolución. 5 marzo 1960 (altre fonti dicono sei marzo): una marea di persone manifesta per le strade dell’Avana in occasione della sepoltura dei morti del cargo francese La Coubre, carico di rami comprate da Cuba in Belgio, fatto saltare in aria, si ipotizza (!?) dalla Cia: ottanta morti e duecento feriti. «Patria o muerte, venceremos!», tuonò Fidel Castro dal palco vicino al cimitero di Colón, ripetendo una delle evocazioni più usate dai rivoluzionari cubani che nel precedente gennaio 1959 avevano rovesciato la dittatura di Batista. «Questa fotografia [di Che Guevara] non fu pianificata, fu un puro caso!», ha sempre ammesso Alberto Korda. Sul foglio di provini, il Che appare infatti in due soli fotogrammi, da uno dei quali, a inquadratura originariamente orizzontale, è stato ricavato il ritratto-icona. Soprattutto, gli scatti riguardano il discorso di Fidel Castro, accanto al quale,
sul palco, si riconoscono Jean-Paul Sartre e Simone de Beauvoir (a pagina 35). «Non avevo notato il Che, che se ne stava in fondo al palco», continua il racconto di Alberto Korda. «Finché non si fece avanti a osservare i chilometri di folla. Ebbi solo il tempo di scattare una fotografia in orizzontale, poi un’altra in verticale con un obiettivo di novanta millimetri. Poi il Che si riportò indietro. Non dimenticherò mai il
(pagina accanto) Da La trilogia del Sacro Selvaggio (di Gérard Rancinan), L’Altro: Jimmy Vidales Anaya (Colombia; nano e matador) e Anne-Cécile Lequien (Meudon, Francia; giurista e campionessa olimpica di nuoto).
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suo sguardo, un misto di determinazione e pena». Ai tempi, vennero pubblicate soltanto le fotografie con Jean-Paul Sartre e Simone de Beauvoir; quelle del Che passarono del tutto inosservate. Comunque, Alberto Korda fece una stampa del primo dei due scatti. «In realtà, preferivo quella verticale, ma c’era la testa di un uomo che sporgeva dietro la spalla del Che; allora non c’erano i computer per correggere le immagini». Quindi, reinquadrò la composizione orizzontale, eliminando il profilo che entra in campo a sinistra e la palma a destra: «Pensai che fosse il ritratto migliore che si potesse fare del Che, raffigurato in una espressione encabronada y dolente [corrucciata e triste]». Sette anni dopo, all’indomani dell’uccisione di Ernesto Che Guevara da parte di soldati dell’esercito boliviano (sostenuti dai servizi segreti statunitensi), l’editore milanese Giangiacomo Feltrinelli, fervente ammiratore della rivoluzione cubana, individuò questo ritratto nell’appartamento di Alberto Korda. Gliene chiese una copia, che riprodusse in manifesto, dal quale, sollecitato dai movimenti giovanili del Sessantotto, ha preso avvio il fenomeno dilagato in tutto il mondo. Nota parallela: Alberto Korda non ha mai ricevuto alcun compenso per i diritti d’autore dell’immagine. In origine, sarà stato anche felice al pensiero che la sua fotografia contribuisse in qualche misura alla causa rivoluzionaria, nella quale credeva, e per questo si sarà anche sentito gratificato e appagato. Poi, da quando l’effige del Che è finita su oggetti di scarso gusto ed è stata addirittura fatta propria da aziende commerciali (in fotografia da Leica, in una controversa iniziativa promozionale rifiutata da alcuni distributori), fino a diventare “di tendenza”, qualche dubbio dovrebbe averlo fatto riflettere altrimenti.
SACRO SELVAGGIO Riprendiamo i termini con i quali, nel marzo 2006, su queste pagine, Alessandra Alpegiani presentò la monografia La trilogia del Sacro Selvaggio, di Gérard Rancinan, pubblicata da Federico Motta Editore, ora allestita in mostra fotografica. Ripetiamo e ribadiamo che si tratta di una affascinante e insolita combinazione a trittico. Straordinario lavoro sinergico, ricco di energia creativa e carica emozionale: progetto cui si sono dedicati il fotografo francese Gérard Rancinan e la compagna di vita e lavoro Virginie Luc, giornalista e reporter impe-
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gnata con qualificate testate internazionali. Il loro Sacro e Selvaggio è un sentimento che si eleva con la forza dell’anarchia e con la potenza del divino. Sacro e profano, ancora, si confondono, si integrano e si neutralizzano a vicenda; se ne intravedono i confini sfumati (se mai li si volesse vedere), semplicemente perché non esiste l’uno senza l’altro. L’Arte, l’Altro, la Fede è la trilogia che si sussegue in allestimento, dopo essere stata raccolta sulle pagine della fantastica raccolta fotografica cui ci siamo già riferiti: campo di investigazione nel quale si ritrova la pulsione sacra della ribellione, ripulita di tutte le macerie che la modernità, il progresso a tutti i costi e i propri schemi lasciano inevitabilmente con il relativo e conseguente carico di vuoto. Attribuite in successione ai tre capitoli, le immagini si integrano con relativi testi. Tra il prologo (La doppiezza del mondo) e l’epilogo (L’estasi) si incontra la trilogia di riflessioni scritte: Arte a morte (per l’Arte, appunto), Elogio della diversità (l’Altro) e Il Sacro Selvaggio (la Fede). L’esperienza di Gérard Rancinan e Virginie Luc ha inizio con l’approccio al mondo degli artisti contemporanei, intervistati e fotografati nei propri studi piuttosto che nella sala di posa di Gérard Rancinan, sempre nell’atto di compiere una performance artistica, metafora (e fine ultimo dell’Arte) di una via Altra, una via alternativa. Gli artisti individuati sono tutti creatori di opere portatrici di insurrezione come mezzo eletto per affermare la via diversa, la via deviata, il cammino trasversale ma fortemente voluto. In questa visione, si è aperto da sé il passaggio privilegiato e diretto, per accedere al (secondo) tema del “diverso”, appunto dell’Altro, affrontato con e per mezzo di persone affette da deficit fisici, fotografate magistralmente, senza commiserazione di forma (solitamente corretta soltanto nella propria attuale considerazione “politica”, ma troppo spesso lontana dall’esserlo veramente). Attraverso la straordinarietà di corpi e anime, individui consapevoli della propria personalità, carichi del proprio orgoglio e ricchi dell’essere se stessi hanno offerto quello che gli artisti hanno evocato nelle proprie opere. Nell’evidenza della propria “diversità”, sono donne e uomini che hanno colmato le distanze, hanno compiuto il viaggio interiore che ha concesso a ciascuno di riconciliarsi con la parte più profonda del proprio essere. Nell’addentrarsi nella terza sezione di analisi, Gérard Rancinan e Virginie Luc hanno toccato nientemeno che la Fede: come un cerchio che si chiude, sfiorano l’immaterialità del pensiero e dell’anima con la sostanza della fotografia e delle parole scritte. Si avvicendano austeri ri-
tratti di cardinali e alti prelati (i rappresentanti del Potere temporale della Chiesa). Pose formali, impeccabili nella propria composizione e inquadratura, esprimono un’idea, raggiungono la comunicazione ricercata: con intenzioni lontane, molto lontane dalla Chiesa e le proprie istituzioni, gli autori portano in contatto con la dimensione fondamentale dell’esperienza umana, uno spazio individuale dove esiste in libertà la pulsione d’amore del Sacro e del Selvaggio, del semplice e dell’oscuro. Percorso tutt’altro che naturalmente sintonizzato con il mezzo fotografico, l’astrazione dell’argomento non si adatta pienamente a chi non sa dare alla fotografia effettiva capacità di racconto sottile. È straordinario come Gérard Rancinan (con le immagini) e Virginie Luc (con il testo) siano riusciti a trattare i soggetti fotografati, fieri testimoni di una concettualità complessa, così visivamente distanti, con il medesimo linguaggio, con la compassata ma forte presenza che porta la leggerezza dell’eternità. Maurizio Rebuzzini ❯ Che Guevara: rivoluzionario e icona. The Legacy of Korda’s Portrait; a cura di Trisha Ziff; catalogo Electa. Fino al 16 settembre. ❯ Gérard Rancinan: La trilogia del Sacro Selvaggio; monografia Federico Motta Editore ( FOTOgraphia, marzo 2006). Fino al 2 settembre. Triennale Bovisa, via Lambruschini 31, 20158 Milano; 02-72434, fax 02-89010693; www.triennalebovisa.it, www.triennale.it. Martedì-domenica, 11,00-24,00.
American investment in Cuba, serigrafia 112x76cm di Patrick Thomas; 2002 (proprietà dell’autore).
(pagina accanto) “Che” di Warhol; 1968 (riproduzione 2000; Collezione di Trisha Ziff). Comandante en jefe ¡ordene!, Trinidad (Cuba), fotografia di René Burri / Magnum Photos; 1984. Five Dollar Bill, stampa a getto di inchiostro di Pedro Meyer; 1990 (proprietà dell’autore). Maracas comprate a Cuba, nel 1996 (Collezione di David Kunzle).
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orma: le prestigiose sale del complesso dell’Antico Ospedale dei Battuti, a San Vito al Tagliamento, in provincia di Pordenone. Contenuto: mostra fotografica allestita con centottantacinque opere che attraversano sia la storia cronologica della fotografia, fin dalle proprie lontane origini, sia l’evoluzione del linguaggio espressivo, dalla documentazione geografica al fotoreportage, dalla cronaca alla riflessione. Scientificità: attenta selezione da collezioni private e pubbliche, ufficialmente accreditata all’Assessorato ai Beni e alle Attività Culturali del Comune di San Vito al Tagliamento, in collaborazione con il Craf (il qualificato Centro di Ricerca e Archiviazione della Fotografia di Lestans, in provincia di Pordenone), la Galleria Civica di Modena e la Biblioteca di San Giovanni al Natisone, in provincia di Udine. Riconoscimento: come non intravedere, dietro tutto questo, oppure davanti, dipende dai punti di vista, la certosina azione di Walter Liva, responsabile del Craf, alla cui costanza e dedizione dobbiamo gli attenti programmi di Spilimbergo Fotografia, sui quali ci siamo soffermati, anno dopo anno, in cronaca? L’ampia e differenziata mostra fotografica Asia: un itinerario sulla via della seta, appunto allestita a San Vito al Tagliamento, in provincia di Pordenone, fino alla fine di agosto, pare essere addirittura un pretesto per affrontare e visualizzare un intenso percorso della fotografia espressiva dell’Ottocento e Novecento, con sconfinamento volontario all’inizio dell’attuale Duemila. Un pretesto che, si badi bene, accosta gli uni agli altri autori dell’emisfero occidentale, che si sono fotograficamente rivolti all’Oriente, in tempi diversi e con motivazioni autonome, e autori orientali, solitamente esclusi da ogni racconto della storia evolutiva del linguaggio fotografico. Su queste assenze, abbiamo annotato in altri momenti, a questo precedente, e con osservazioni mirate. Quindi, in questa occasione è doveroso sottolineare come e quanto l’attuale selezione di Asia: un itinerario sulla via della seta colmi un colpevole vuoto narrativo e storico. Di fatto, oltre esaurire il proprio scopo prefisso, l’allestimento in mostra e il volume-catalogo che l’accompagna indicano strade da imboccare e tematiche da approfondire, per completare al meglio il racconto complessivo della stessa storia della fotografia, dalla quale è stata spesso emarginata ogni esperienza estranea al punto di vista puramente occidentale.
F
Un’imponente selezione storica allestita a San Vito al Tagliamento, in provincia di Pordenone, assolve simultaneamente due condizioni. Oltre il proprio intendimento originario, cioè la visualizzazione della fotografia che si rivolge a Oriente, Asia: un itinerario sulla via della seta dà visibilità a situazioni e autori solitamente esclusi dal racconto della storia evolutiva del linguaggio fotografico. Dalla fotografia delle origini alle espressioni contemporanee, un benefico e ammirevole vento di competenza
VENTO
DELL’EST
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(pagina precedente) Charles Shepherd: L’elefante del Maraja, Jaipur; 1865 (Collezione Favrod / Archivio Craf).
Raimund von Stillfried: Danza dei sacerdoti durante un rito funebre, Kyoto; 1871 (Collezione Favrod / Archivio Craf).
Monte degli Ulivi e Getsemani, Gerusalemme; 1900 (Autochrome; Collezione privata).
OLTRE LE INTENZIONI
Come rivela subito il suo stesso titolo, esplicito nella propria declinazione, la tematica della mostra è rivolta all’Asia: visualizzata in fotografie realizzate da autori di spessore e valore, non necessariamente di fama internazionale (causa le colpevoli omissioni cui ci siamo appena riferiti), distribuiti lungo quel tempo che dalle origini, a metà dell’Ottocento, approda fino ai nostri attuali giorni. Nel proprio insieme, visioni senza soluzione di continuità in ogni ambito e aspetto verso il quale è stata sempre rivolta l’osservazione fotografica. In allestimento, l’itinerario culturale sulle vie della seta segue la datazione cronologica delle fotografie, a propria volta scomposte in capitoli tematici che, loro pure, sottolineano soprattutto lo scorrere del tempo: è in questo contenitore che i curatori hanno impaginato in maniera superlativa l’incessante sequenza di diversi punti di vista, collegando così in modo inviolabilmente armonioso la fotografia geografica con il fotogiornalismo, il paesaggio con la cronaca, la documentazione di luoghi e situazioni con il ritratto. Ammirevole risultato, che scandisce il percorso della fotografia e dei propri autori, sia europei sia asiatici, offrendo proprio a questi (orientali) una ribalta e un contesto storico che solitamente è stato loro negato. Così che il percorso espositivo di Asia: un itinerario sulla via della seta mette giusto soprattutto in evidenza l’emergere progressivo dei fotografi asiatici sulla scena culturale internaziona-
le. E lo fa, è necessario sottolinearlo, in modo laico, chiaro e manifesto, senza venir peraltro meno alla propria promessa/premessa originaria, appunto espressa nel titolo della mostra: il visitatore incontra gli eventi e le personalità che hanno caratterizzato l’Asia negli ultimi centosessantotto anni, trascorsi dall’invenzione della fotografia. Come già rilevato e conteggiato, l’affascinante mostra fotografica Asia: un itinerario sulla via della seta si compone di centottantacinque fotografie, scomposte (o ricomposte?) in quindici capitoli che si susseguono sinuosamente in delicato equilibrio tra conseguenti riferimenti cronologici e appartenenza a individuati contenitori tematici: dalla tomba di Abramo, Isacco e Giacobbe, a Hebron, fotografata in stereoscopia dai fratelli Underwood & Underwood, che avvia il percorso, alla selezione di au-
John Phillips: Due monelli corrono lungo la via Sharin Gazi, a Deir ez-Zor, in Siria; vanno a fare un bagno nel fiume Eufrate, e i bidoni di benzina da venti litri sono il loro salvagente; 1943 (Fondazione John Phillips, New York).
tori emergenti nell’Asia del terzo millennio, che lo conclude (con scoperte di personalità fotografiche che dovremo tenere d’occhio nei prossimi anni). In combinazione, il percorso espositivo si replica e conferma sull’alternanza delle pagine del ben allestito volume-catalogo, curato da Walter Liva, direttore del Craf, che riunisce una selezione di centotrenta immagini (dalle centottantacinque totali) ed è arricchito da un testo di Gilberto Ganzer, direttore del Museo Civico di Pordenone.
VIA DELLA SETA La felice e fortunata formula Seidenstraßen, appunto via della seta, è stata coniata più di un secolo fa dallo studioso tedesco barone Ferdinand von Richtofen (1833-1905): sintetizza efficacemente gli intensi traffici commerciali e gli scambi culturali intercorsi tra Oriente e Occidente da almeno il Terzo secolo avanti Cristo fino ai giorni nostri. Ancora oggi, oltre a indicare una fitta rete di comunicazioni estesa per migliaia di chilometri su tutta l’Asia Centrale e le regioni limitrofe, questa identificazione è sinonimo di esotismo, avventura, viaggio in terre lontane. Si può addirittura affermare che, nello scorrere del tempo, via della seta sia divenuta identificazione esplicita degli intensi e prolungati rapporti tra Oriente e Oc-
cidente, una identificazione-simbolo, rappresentativa di una mutevole realtà storica non legata soltanto al passato, bensì attuale e viva. Si chiama via della seta, ma sarebbe forse meglio declinarla al plurale: per indicare l’insieme delle rotte carovaniere che, estendendosi dall’Asia Orientale al bacino del Mediterraneo, attraversano le vaste regioni dell’Asia Centrale, mettendo in contatto popoli, nazioni, imperi, religioni e tradizioni diverse, e favorendo così l’interscambio culturale nel senso più ampio del termine. È giocoforza richiamare quanto annotato dallo storico dell’arte Ernest Gombrich (1909-2001), il più importante storico dell’arte del Novecento, che
John Phillips: Questa famiglia che sbarca al porto di Haifa, portando con sé tutti tutti i propri beni, fece parte di una delle ondate di immigranti che arrivarono in Israele nel primo anno dello Stato; 1949 (Collezione privata).
La città proibita, Pechino; circa 1900 (Archivio Storico Diocesano, Pordenone). Ilo Battigelli: Ritratto di un Emiro, Arabia; 1948 (Collezione privata).
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Robert Capa: Nel cimitero di Nam-Dinh; 1954 (Collezione privata).
Nobuyoshi Araki: A’s Paradise; senza data (Galleria Civica di Modena).
Erich Lessing: Lago Yamdrog, Tibet; 1963 (Collezione privata).
Ziv Koren: Terrore, Israele; 1994 (Collezione privata).
(al centro) Takumi Fujimoto: Korea; 1994 (Collezione privata).
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ha sostenuto che la stessa storia dell’arte va intesa come un itinerarium -dall’antichità alla contemporaneità-, composto da tratti culturali ognuno dei quali caratterizzato da stili e canoni estetici diversi. Nei propri centosessantotto anni di vita, anche la fotografia si è caratterizzata con una serie di tratti culturali che hanno seguìto la cultura del tempo e le tecniche impiegate: dagli iniziali dagherrotipi e calotipi alle carte all’albumina di ottocentesca memoria, fino alle prime immagini a colori e all’attua-
le acquisizione digitale delle immagini, peraltro visibili immediatamente al momento dello scatto, senza dover attendere la trafila dello sviluppo e della stampa (chimica) in camera oscura. L’invenzione della fotografia ha permesso anche di far vedere al mondo luoghi lontani, nello spazio e nel tempo. Come quelli descritti dalla Bibbia e dai Vangeli, di Gerusalemme e della Galilea, subito evocati, nel marzo 1839, due mesi dopo l’annuncio di Dominique François Jean Arago all’Accademia di Francia (sette gennaio), da Prosper Merimée (1803-1879), vice presidente della Commission des Monuments historiques in Francia, appena creata, nel precedente 1837. Da allora, la fotografia ha seguìto le rotte dei mercanti e degli eserciti delle potenze europee, che hanno anche avuto la necessità di mostrare all’opinione pubblica le immagini delle ricchezze naturali e storiche di quei paesi lontani, ormai diventati proprietà coloniale dell’Occidente. Accanto alla caratterizzazione “geografica” delle vie della seta, oggi interessa maggiormente mettere in evidenza altri aspetti, intendendo allora le vie della seta come itinerari storici e cultu-
rali che percorrono anche simbolicamente l’Asia, dal Mediterraneo fino alla Cina e al Giappone, e che la fotografia -con la propria capacità di rappresentazione della realtà- ha egregiamente evidenziato dalla metà dell’Ottocento.
IN MOSTRA Dei fotografi dell’Ottocento, Asia: un itinerario sulla via della seta presenta splendide immagini originali realizzate da Walter Woodbury, John Thomson, Charles Shepherd, Felice Beato, Félix Bonfils, Raimund von Stillfred, Hikoma Ueno, Per Vilhelm Berggren, Kimbei Kusakabe, Plate & Co, Clifton & Co, Pierre Dieulefils, oltre a una serie di fotografie inedite di Pechino, che fanno parte dell’Archivio del Cardinale Celso Costantini, vescovo in Cina dagli anni Venti del Novecento. Quindi, il Novecento è stato per larga parte il secolo del fotogiornalismo, e le fotografie realizzate in Asia da grandi fotografi, come John Phillips, Dmitri Kessel, Henri Cartier-Bresson, Robert Capa, Werner Bischof, René Burri, Erich Lessing, Paul Almasy, Raymond Depardon, Edouard Boubat, Marc Riboud, Mahmoud Kalari, Abbas, Alain Keler, Alain Mingam hanno segnato l’informazione internazionale. E poi gli italiani Ilo Battigelli (in Arabia tra il 1945 e il 1950), Gabriele Basilico, Fulvio Roiter, Angelo Cozzi, Romano Cagnoni (il cui ritratto di Ho Chi Minh fu pubblicato in copertina di Life, nel 1966), Vittoriano Rastelli, Danilo De Marco, Adriano Perini. Fino ai new topographers del nuovo secolo, Stefano Graziani e Andrea Pertoldeo, assistenti di Guido Guidi allo Iuav, e
ai maestri contemporanei originari dell’Asia, come i cinesi Jang Meng-Jer, Jing Wang e Daniel Lee, il maestro della fotografia di Hong Kong Leong Ka Tai e i giapponesi Ueda Shoji, Kan Azuma, Keiiki Tahara, Ken Ohara, Nobuyoshi Araki, Kenro Izu, Yoshikazu Shirakawa, Takumi Fujimoto. Ancora, nuove giovani stelle della fotografia asiatica che brillano di luce propria: l’israeliano Ziv Koren, alla cui vita è stato dedicato un film che è stato addirittura proiettato in Iran; Newsha Tavakolian, bravissima e coraggiosa reporter iraniana; la “scoperta” Rena Effendi, fotografa dell’Azerbaijan; il fotografo di moda indiano Amit Dey; l’indonesiano Darvis Triadi, che da parte sua introduce nella fotografia canoni estetici del “batik” indonesiano (qui sopra e in copertina); Fauzan Ijazah, a Banda Aceh il giorno dello Tsunami; e il saudita Khaled Khidr con fotografie assolutamente inedite della Mecca e di Medina. La mostra si conclude con una serie di immagini di Chayan Khoi, artista di origine iraniana che da diversi anni vive a Parigi e che nelle sue immagini di grandi dimensioni assembla in digitale particolari di mondi scomparsi o fantasiosi -interpretando anche lui la via della seta- e dando il senso delle nuove strade imboccate dall’arte contempora-
Darvis Triadi: Indonesian Portrait; 2001 (Collezione privata).
(in alto) Jang Meng-Jer: Senza titolo, Taiwan; 1994 (Galleria Civica di Modena).
(al centro) Leong Ka Tai: Stern Great Wall Art; 2005 (Collezione privata).
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Newsha Tavakolian: Le madri dei martiri, Iran; 2006 (Collezione privata).
(al centro) Rena Effendi: Sulle montagne dell’Azerbaijan, villaggio di Xinaliq, duemilaottocento metri di altitudine; 2006 (Collezione privata).
Amit Dey: Indian Fashion; 2006 (Collezione privata).
nea. Cogliendo le opportunità offerte dalla tecnologia digitale, l’autore elabora coloratissime fotografie in combinazione che definisce cyberrealismo, termine derivato da cibernetica e realismo, e per il quale le sue opere numeriche restano figurative nella messa in scena in una stessa raffigurazione della natura e del patrimonio mondiale. Angelo Galantini Asia: un itinerario sulla via della seta. Antico Ospedale dei Battuti, via Bellunello, 33078 San Vito al Tagliamento PN. Dal Primo luglio al 26 agosto; venerdì-domenica 10,00-12,30 - 16,00-19,30 (su prenotazione nelle altre giornate). Ufficio dei Beni e delle Attività Culturali, Comune di San Vito al Tagliamento, via Amalteo 41, 33078 San Vito al Tagliamento PN; 0434-833295; ufficiocultura.sanvito@virgilio.it.
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ontro la pena di morte nel mondo, argomento riportato d’attualità dalla recente iniziativa del governo italiano, che si è fatto portavoce di una proposta di moratoria sottoposta al Consiglio delle Nazioni Unite, vengono solitamente prodotte due posizioni, almeno due posizioni. La prima, che ha sicuramente maggiore presa su tutte le coscienze, sottolinea la possibilità di errore giudiziario, con conseguente esecuzione di un innocente: in questo senso, senza incomodare casi sostanzialmente recenti (a partire da quello di Nicola Sacco e Bartolomeo Vanzetti, che evochiamo su questo stesso numero, da pagina 58), la memoria popolare italiana è solita riferirsi al Fornaretto di Venezia, ingiustamente perseguito e condannato nel 1507, la cui vicenda ha ispirato trasposizioni teatrali e cinematografiche, sulle quali sorvoliamo. Analogamente, non ignoriamo le componenti politiche e sociali nelle quali, nella Francia del 1894, è maturato l’Affaire Dreyfus, culminato nella condanna ai lavori forzati a vita dell’ufficiale di artiglieria, ebreo alsaziano (quindi antisemitismo), Alfred Dreyfus, ingiustamente accusato di alto tradimento (tanto da ispirare il celebre J’accuse!, dello scrittore Émile Zola, pubblicato dalla rivista letteraria Aurore, il tredici gennaio 1898).
Pur senza la pretesa di cambiare il mondo, è necessario esprimersi. Aggiungiamo la nostra, peraltro modesta, alle tante voci che si sono alzate contro la pena di morte, ancora oggi in vigore in molti paesi. Dopo aver richiamato una pertinente sceneggiatura cinematografica, riproponiamo quel commovente contributo fotografico contro la pena di morte realizzato anni fa dalla statunitense Lucinda Devlin, che già commentammo in cronaca. Una volta ancora, il linguaggio della fotografia si esprime con la presunta assenza del soggetto esplicito, che -come spesso accadediventa inquietante presenza. Appunto, uno dei più efficaci stilemi della rappresentazione fotografica si basa e costruisce giusto sull’evocazione e il richiamo. Contro la pena di morte, con il rigore formale dei suoi riti, riproposti in una fotografia apparentemente distante. Ma non è vero: le Omega Suites sollecitano le coscienze più di quanto non possano farlo altre raffigurazioni esplicite di esecuzioni (che pure si conoscono) 48
NON
UCCIDERE! Camera a gas; Central Prison, Raleigh, North Carolina (Usa); 1991.
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Prima di arrivare alla fotografia, con la riproposizione di una selezione di immagini dalla coinvolgente serie Omega Suites della fotografa statunitense Lucinda Devlin, già presentate cinque anni fa, ci soffermiamo proprio su questa idea, segnalando una sceneggiatura cinematografica che calza a pennello.
SACRIFICIO
Stanza dei testimoni; Petosi Correctional Center, Petosi, Missouri (Usa); 1991. (in alto) Iniezione letale; Petosi Correctional Center, Petosi, Missouri (Usa); 1991.
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L’altra opinione contro la pena di morte è più radicale: indipendentemente dal corso della giustizia, afferma che non è legittimo uccidere nessuno. Ripetiamo. Anche se il più sostanzioso contenitore contro la pena di morte risponde soprattutto alla seconda delle due posizioni appena ricordate, tanto da aver coniato il monito “nessuno tocchi caino” (ma neanche abele, aggiungiamo), molte delle sue motivazioni si basano sul pericolo dell’errore giudiziario, che potrebbe costare la vita a chi è innocente.
Uscito in Italia con il titolo originario, The Life of David Gale si è proposto come autentico manifesto contro la pena di morte, per la vita, a partire da un paese, gli Stati Uniti, nel quale vige ancora la pena capitale (regia di Alan Parker, sceneggiatura di Charles Randolph, professore di filosofia a Vienna; 2003). Addirittura, il film è ambientato in Texas, lo Stato americano con il più alto tasso di condannati a morte, nella cittadina di Huntsville, sede di un famigerato carcere, famoso centro di esecuzioni per iniezione letale (a pagina 52). Docente universitario, David Gale (magistralmente interpretato da Kevin Spacey), sposa la propria cattedra universitaria di Filosofia con una ferrea opposizione alla pena di morte; addirittura è a capo di uno dei più determinati movimenti contro la pena di morte. La sua vita ordinata è improvvisamente sconvolta da una ingiusta denuncia per stupro, che lo priva di tutto: espulso dall’Università, abbandonato dalla famiglia, non trova più lavoro. Quindi, sostanza della sceneggiatura, è addirittura accusato dell’assassinio di una attivista del proprio gruppo, Constance Harraway (l’attrice Laura Linney), e condannato a morte sulla base di prove ritenute inoppugnabili. Alla fine si scopre che l’omicidio dell’attivista, complice volontaria (malata terminale), è stato architettato proprio da loro due, il docente contro la pena di morte e la sua assistente, per dimostrare la fatale fallibilità del sistema giudiziario, che può condannare a morte un innocente: in tragica comunione di intenti, insieme i due protagonisti sacrificano le loro rispettive vite alla propria idea progressista. Dalla sceneggiatura, scritta da Charles Randolph, professore di filosofia a Vienna: «Quando uccidi qualcuno, derubi la sua famiglia. Non gli rubi solo una persona amata, ma l’umanità; indurisci i cuori con l’odio, gli togli la capacità di essere obiettivi, li condanni alla sete di sangue. È orribile, crudele. Ma cedere all’odio non serve a niente e a nessuno. Il danno è fatto e dopo che avremmo ottenuto la nostra libbra di carne, saremo ancora affamati, lasceremo la casa della morte protestando che l’iniezione letale è stata una punizione troppo blanda. In conclusione, una società civilizzata deve convivere con una dura verità: chi cerca vendetta scava due tombe».
OMEGA SUITES Nel maggio 2002, presentammo l’avvincente edizione libraria di Omega Suites, della fotografa statunitense Lucinda Devlin, sulla quale stiamo per tornare, titolando Inquietanti assenze. Quel titolo sottolineò la magistrale azione della fotografia che non si attarda sull’apparenza del proprio soggetto, ma lo richiama, diciamo così, di profilo. Ne siamo sempre più
convinti: l’intelligente visione di taglio, di rimbalzo, di margine finisce per essere più diretta della semplicistica raffigurazione diretta degli avvenimenti. Per dire, e sottolineare ancora una volta, questa di Lucinda Devlin è una fotografia alla maniera di quella guerra assente sulla quale abbiamo riflettuto e ci siamo soffermati in FOTOgraphia del luglio 2004: la “guerra assente” (apparentemente assente) dai volti dei profughi, dei disperati, delle vittime innocenti, che finisce per rappresentare l’orrore del conflitto più direttamente e con maggiore forza comunicativa di una spettacolare immagine di combattimento. Nel proprio richiamo, nell’evocazione esplicita e nell’accenno implicito, le rappresentazioni visive di Omega Suites, convincente contributo fotografico al pensiero contro la pena di morte, fanno vibrare l’animo e le coscienze. Si associano idee, sentimenti e si sollecita la Memoria. L’identificazione The Omega Suites, conservata dall’editore Steidl Verlag per la monografia che rispetta e replica la sequenza formale degli originali fotografici (stampe colore circa 49,5x49,5cm, riunite in una mostra esposta in diverse città tedesche, a partire dalla capitale Berlino), allude alla lettera finale dell’alfabeto greco: metafora della fine. Infatti, le Omega Suites sono le camere della morte, della fine appunto, che Lucinda Devlin, classe 1947, ha fotografato negli Stati Uniti nel corso degli anni Novanta: camere a gas, sedie elettriche, morte per iniezione letale, bracci della morte... e qualche residua impalcatura con nodo scorsoio! Lucinda Devlin è contro la pena di morte (dibattito che ci compete, oltre lo specifico fotografico: ciascuno di noi ne riferisca alla propria coscienza ed educazione sociale). Le sue stanze della morte legalizzata sono quindi rappresentate con innegabile orrore. Siccome la fotografia è un linguaggio comunque sia estetico ed estetizzante, che mette addirittura ordine nel disordine, che compone belle e affascinanti inquadrature, Lucinda Devlin ha accelerato il concetto. Ha fotografato con l’armonia formale, la pulizia compositiva e il rigore estetizzante della più concentrata fotografia di... architettura d’interni: addirittura, di arredamento (!). La prima reazione di fronte alle sue immagini è estetica: innegabilmente si è attratti e affascinati, sedotti addirittura, dalla bellezza, perfezione e astrazione dei luoghi. Luci, colori, spazi, volumi e pesi sono distribuiti con ammirevole abilità. Si tratta quasi di fotografie... artistiche. Si tratta proprio di fotografie artistiche. L’emozione arriva presto allo stomaco, dopo aver attraversato cervello e cuore, e un pugno comincia a stringere (con Derek Walcott: «Il pugno stretto intorno al mio cuore / [...] Tieni duro allora, cuore. Così almeno vivi»). Tutta questa bellezza formale è l’anticamera di morti annunciate e sentenziate. Qui si sono concluse esistenze, e nel divenire altre finiranno la propria parabola vitale. Già espresso, il parallelo con il combattimento “assente” di tante efficaci immagini contro la guerra è inevitabile, scontato addirittura. Così come lo è il ri-
chiamo a quell’osservazione di Edward Steichen, espressa in occasione del novantesimo compleanno (nel 1969, quattro anni prima della sua scomparsa), che abbiamo già riportato in altre occasioni: «La missione della fotografia è quella di spiegare l’uomo all’uomo e ogni uomo a se stesso». Poi arriviamo alla legalità ufficiale, quella che giustifica la pena di morte, addirittura motivandola. Ciò che il nostro animo non può reggere non è l’eccesso di orrore. Le linde e asettiche Omega Suites di Lu-
Comandi della sedia elettrica; Greenhaven Correctional Facility, Greenhaven, New York (Usa); 1991. (in alto) Sedia elettrica; Greenhaven Correctional Facility, Greenhaven, New York (Usa); 1991.
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ANCHE OLIVIERO TOSCANI enza entrare nel merito delle consecuzioni sul rapporto professionale tra OliToscani e Benetton, ai tempi riferito all’iniziativa del celebre fotografo Scheviero stiamo per ricordare, sottolineiamo che Oliviero Toscani ha messo il proprio nome e la propria visibilità a servizio del pensiero contro la pena di morte. Ancora uno svolgimento in forma fotografica. Prima presentati in forma pubblicitaria, con affissioni Benetton (clamorosamente rifiutate in alcuni paesi: l’intolleranza non ha confini geografici), quindi riuniti in mostra fotografica, una serie di ritratti dal braccio della morte, appunto realizzati da Oliviero Toscani, hanno promosso la campagna per l’abolizione della pena di morte nel mondo. Allestiti in forma di mostra itinerante, avviata dalla The Boiler House di Londra, nel dicembre 2004, i ritratti di Oliviero Toscani, primi piani di condannati alla pena capitale, internati in bracci della morte statunitensi, rapiscono l’attenzione dell’osservatore con la fissità del proprio sguardo, alternativamente acceso o spento (rassegnato). L’operazione fotografica di Oliviero Toscani è mirabile: non ammette indifferenza, sollecita nausea, induce riflessione. Questa sua è una fotografia che scuote l’a-
nimo e non consente all’osservatore di restare estraneo alla rappresentazione, della quale arriva addirittura a fare parte attiva e partecipe. Alla presentazione della mostra fotografica londinese, cui ci siamo appena riferiti, abbinata a una serie di video sullo stesso tema, Oliviero Toscani ha annotato che «Solo l’economia può fermare questa barbarie. Io non sono contro il profitto. Dico solo che se continuano a fare pubblicità pensando solo al profitto, tra qualche anno si dovranno ricredere, tutti quanti. Ci sono libri, film e canzoni che hanno venduto milioni di copie su scala mondiale parlando della condizione umana». Esplicito il riferimento, in questo contesto, alla resa di Benetton, spaventato dalle perdite di contratti con gli Stati Uniti e dalle polemiche suscitate dai soggetti di Oliviero Toscani («Hanno perso l’occasione di essere alla testa di un grande movimento civile»), che ha aggiunto: «Si pensa ancora di fare pubblicità alimentando mostri come la violenza, l’anoressia, la smania dei consumi e del possesso. Ci trattano come imbecilli, ma non può durare. Io sono ottimista, e penso che prima o poi qualcosa cambierà, magari quando crolleranno le vendite».
Iniezione letale; Texas State Prison, Huntsville, Texas (Usa); 1992.
cinda Devlin fanno tornare in mente anche altre tragedie storiche. La pulizia formale di questi luoghi, affidati certamente alle cure di solerti inservienti, è analoga all’insopportabile tasso di normalità che caratterizzò l’Olocausto. Allora il pericolo per le democrazie, il tentativo di conquistare il mondo, si accompagnava con la normalità di un ordinato paese centroeuropeo, che staccava il biglietto per ogni ebreo spedito verso un campo di concentramento: un tanto a chilometro, tariffa vagone bestiame, che le SS pagavano regolarmente alle Bundesbahn, con periodici versamenti e lettere di sollecito in caso di ritardo. E poi, successivamente, con la normalità dei direttori dei campi che si lamentavano in lettere ufficiali per la scarsità di personale e materie prime, che impediva di sopprimere i prigionieri al ritmo richiesto. Quella normalità europea, familiare, da vicino della porta accanto che si distingue solo perché parla un’altra lingua con parole più lunghe delle altre, è il vero “al di là del bene e del male” che ancora non possiamo reggere. È ciò che la parola non riesce a dire, ma che l’immagine può evocare, ed è il vero segreto di quelle fotografie che colpiscono le coscienze. Come il cinema, anche la fotografia è una comu-
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The Omega Suites, fotografie di Lucinda Devlin; Steidl Verlag, 2000; 80 pagine 25,5x29cm, cartonato con sovraccoperta; 39,00 euro.
nicazione asemantica, che non può raccontare, analizzare, articolare in un discorso compiuto, ma che possiede la maggior forza evocativa, il maggior vigore epifanico: nella fotografia, perché l’operazione della ripresa contiene un tasso di involontarietà (ciò che esiste accanto al soggetto: il contesto, per l’appunto); nel cinema, perché il regista controlla ogni singolo angolo del contesto, e il grande cinema è quello in cui l’ultima comparsa in fondo all’inquadratura ha la faccia giusta e recita nella maniera giusta. Non provano nulla, cinema e fotografia. Neppure, malgrado tutto, spiegano o dicono, anche se raccontano. Ma evocano, fanno vibrare ciò che è stato, mettono in moto associazioni di idee, sentimenti, fanno sentire odori dimenticati: immergono la Memoria nel contesto. Ed è questo che definisce, più che caratterizzare, la sequenza delle Omega Suites di Lucinda Devlin. Contro la pena di morte. Maurizio Rebuzzini
IN ALLUMINIO C
omplementare alla raffinata serie di treppiedi in carbonio 6X e basalto, che si collocano ai vertici tecnologici della specifica costruzione per fotografia e video, la nuova gamma di treppiedi Gitzo in alluminio offre consistenti esclusività. La linea Gitzo ALU13, che deve la propria identificazione al nuovo tubo in alluminio ad alta resistenza da 1,2mm, appunto ALU13 (trenta per cento più leggero), è composta da quattro modelli, tre treppiedi e un monopiede, ognuno dei quali offre e propone alte prestazioni di uso. Subito annotiamo che la nuova finitura satinata delle sezioni in alluminio vanta un
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Nel momento in cui celebra e festeggia il proprio novantesimo anniversario, conteggiato dall’origine della fabbrica, nel 1917, Gitzo ribadisce la combinazione commerciale equamente scomposta in due linee di treppiedi per fotografia e video. Oltre la gamma in carbonio 6X e in basalto, è confermata la linea di treppiedi in alluminio, che offre innovative interpretazioni e soluzioni. La nuova generazione Gitzo ALU13 riduce i pesi e aumenta prestazioni e versatilità di impieg o CENTO MENO DIECI
reata dall’alsaziano Arsene Gitzhoven nel 1917, la produzione di origine francese Gitzo, che da tempo può essere considerata italiana a tutti gli effetti (Gruppo Manfrotto), celebra quest’anno il proprio novantesimo compleanno, che anticipa la prossima clamorosa ricorrenza dei fatidici cento anni: meta da tenere in debito conto e considerare con estremo e profondo rispetto. La linea di treppiedi Gitzo, da decenni al vertice dell’offerta fotografica internazionale, ha preso avvio alla fine degli anni Quaranta, facendo tesoro delle esperienze acquisite durante la Seconda guerra mondiale nella progettazione e costruzione di strutture ad uso bellico. In precedenza, gli indirizzi fotografici originari riguardarono la produzione di châssis, flessibili, sistemi di visione stereo e apparecchi fotografici Gilax. Addirittura, è doveroso sottolineare che alcuni di questi accessori, tra i quali gli scatti flessibili, sono rimasti in catalogo ancora nei decenni a seguire, fino al 1992, quando la fabbrica francese è stata assorbita dal Vitec Group inglese, del quale fa parte pure il Gruppo Manfrotto. Come abbiamo avuto già modo di sottolineare, ma la ripetizione si impone, proprio l’accordo con la finanziaria inglese, concluso nel settembre 1992, contribuì ad affermare il sistematico movimento economico e produttivo all’interno del settore della fotografia-cinematografia-video del Vitec Group, che sul filo di lana surclassò la concorrenza di altri produttori europei, giapponesi e statunitensi, loro pure interessati all’acquisto dello storico marchio francese. Allo stesso tempo, l’accordo mise Manfrotto-Vitec in condizioni di monopolio pressoché assoluto nell’ambito del mercato dei treppiedi fotografici e potenziò la relativa presenza nel mercato dei treppiedi cinematografici e televisivi. In tempi brevi, l’operazione non ha comportato alcun cambiamento di rotta, né ha trasformato il catalogo. A distanza di anni da quei giorni, il pro-
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migliorato bloccaggio. È confermato il sistema antirotazione ALR delle gambe: appunto, Anti Leg Rotation. Con portata fino a nove chilogrammi, i due treppiedi Gitzo Reporter della serie “2”, rispettivamente GT2330 e GT2340L, sono adatti a consistenti dota-
gramma Gitzo è oggi caratterizzato da una forza di intenti allora irrealizzabile, che si manifesta in una offerta fotografica di livello e valore straordinariamente alti. L’attuale offerta Gitzo punta le proprie carte soprattutto sulla crescente linea di treppiedi in carbonio, oltre che sull’alimentazione di un mito che a continua a crescere a livello internazionale (tanto che in Giappone, Gitzo è uno dei richiami-civetta più prestigiosi dei negozi di fotografia). Con la sovrapposizione di sei strati incrociati di fibra di carbonio, la tecnologia esclusiva e proprietaria Gitzo 6X ha consentito di realizzare tubi da un millimetro di spessore, che mantengono la medesima resistenza dei precedenti e originari da 1,5mm. Questi tubi di nuova generazione sono oggi impiegati su tutta la gamma di treppiedi in fibra di carbonio Gitzo. In pratica, il peso dei singoli tubi si riduce del trenta per cento, che porta a un alleggerimento generale del diciassette per cento del treppiedi. Questo, senza modificare la stabilità e robustezza e senza interferire con la praticità degli esclusivi sistemi di allungamento rapido delle sezioni. In particolare, il sistema Anti Leg Rotation (ALR) consente di agire su più bloccaggi simultaneamente per allungare o accorciare l’estensione delle singole gambe o delle tre gambe contemporaneamente. Ricordiamo che i treppiedi Gitzo in fibra di carbonio, la stessa delle più preziose e prestigiose canne da pesca, è sostanzialmente leggero e pratico. A parità di caratteristiche tecniche, rispetto i treppiedi in lega equivalente pesano il trenta per cento in meno. A differenza dei pesi maggiori, la leggerezza si fa apprezzare nei viaggi e nei trasferimenti, durante i quali l’attrezzatura viene trasportata a mano, ovverosia a spalla; allo stesso momento, sono utensili professionali adatti anche all’impiego in sala di posa.
GITZO GT2340L CON TESTA G2180
Le crociere dei treppiedi Gitzo, sia in alluminio, sia in tecnopolimero Soulid 238, sono predisposte per la diversa apertura angolare delle tre gambe, cui conseguono possibili collocazioni differenziate su piani sfalsati piuttosto che sistemazioni adeguatamente abbassate, secondo necessità.
zioni fotografiche reflex, sia tradizionali a pellicola sia ad acquisizione digitale di immagini, con teleobiettivi fino a 300mm di focale. Allo stesso momento, nel campo della videoripresa, supportano videocamere leggere, e nel mondo dell’osservazione a distanza sono allineati con le esigenze e necessità di cannocchiali e binocoli a forte ingrandimento. Come appena annotato, entrambi impiegano il nuovo tubo ad alta resistenza
ALU13 da 1,2mm, combinato con crociera in tecnopolimero Soulid 238 e la colonna centrale in basalto. Quindi, nel concreto, i due
GITZO G1320
GITZO GT2340L
GITZO GM2340
modelli si distinguono per il numero delle sezioni di allungamento delle singole gambe e, a conseguenza, per l’altezza massima raggiungibile. Il treppiedi Gitzo GT2330, a tre sezioni, arriva all’altezza di 164cm (da 63cm, chiuso); mentre, il treppiedi Gitzo GT 2340L, a quattro sezioni, passa da 58 a 182cm, nelle medesime condizioni. Da questi parametri, ciascuno per sé, consideri le relative e rispettive condizioni di impiego. A seguire, la nuova linea tecnica Gitzo propone il monopiede GM2340, sempre in tubo ad alta resistenza ALU13 da 1,2mm: quattro sezioni di allungamento, regolazione in altezza da 49 a 156cm, peso di 600g, portata fino a nove chilogrammi. Ovviamente, il monopiede è definito e caratterizzato da condizioni di impiego diverse da quelle della
posizione stabile del treppiedi, e si offre come solido e robusto punto di appoggio per strumenti fotografici, video e di osservazione ottica di particolare impegno. Può essere usato senza o con teste a movimenti indipendenti o a sfera: a ciascuno la propria scelta. Allo stesso tempo, l’efficace famiglia Gitzo di treppiedi in alluminio conferma il modello G1320, da tempo conosciuto: gambe a tre sezioni di allungamento, crociera in alluminio e costruzione in tubi d’alluminio da 1,6mm di spessore. Con l’occasione, ricordiamo che le crociere dei treppiedi Gitzo, sia in alluminio (del confermato G1320), sia in tecnopolimero Soulid 238 (dei nuovi GT2330 e GT2340L), sono predisposte per la diversa apertura angolare delle tre gambe (in alto, a sinistra), cui conseguono possibili collocazioni differenziate su piani sfalsati piuttosto che sistemazioni adeguatamente abbassate, secondo necessità. Ancora, i treppiedi dispongono di impugnature morbide delle gambe in materiale espanso ultraleggero (pagina accanto), che danno ulteriore comodità di uso. (Bogen Imaging Italia, via Livinallongo 3, 20139 Milano). Antonio Bordoni
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A
cronimo di New Vision, che in italiano conserva la stessa sequenza alfabetica (Nuova Visione), la sigla NV certifica la funzionalità operativa di una innovativa linea di compatte digitali Samsung, ufficialmente esordita lo scorso anno con la serie NV3, NV7 OPS e NV10 (FOTOgraphia, luglio 2006). Giocoforza ripeterne le prerogative, ribadendo quelli che sono i princìpi sui quali si è basato il progetto, e si basano le configurazioni tecniche che, a partire dai tre
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primi modelli, seguono il passo delle sistematiche evoluzioni operative. Per dichiarazione esplicita, la linea Samsung NV propone una propria vantata efficacia, sia in termini tecnologici attuali, sia in proiezione conseguentemente futuribile. In assoluto, un avvincente design, caratterizzato anche dalla personalità dell’anello blu attorno l’obiettivo di ripresa, che accompagna la livrea esteriore, si combina con prestazioni di profilo alto. Così è stato, confermiamolo, per le tre compatte digitali di partenza Samsung NV3, NV7 OPS e NV10. Così è, proseguiamo, per l’attuale nuo-
va configurazione NV11, che risponde a pieno all’originaria ipotesi di allineamento in tempo reale con la sistematica evoluzione tecnologica. Il sensore solido CCD ad acquisizione digitale di immagini dell’attuale Samsung NV11, di sostanziose dimensioni fisiche (1/1,8 di pollice), esprime una risoluzione convenientemente alta: 10,1 Megapixel effettivi (3648x2736 pixel), che si traducono in riprese con restituzione ottimale dei dettagli e nitidezza in abbondanza. In combinazione, si registrano le eccellenti prestazioni dello zoom ottico Schneider 5x, erede di una tradizione che affonda le proprie radici indietro nei
decenni, sempre caratterizzata dalla più severa interpretazione fotografica (neanche tanto tempo fa, tra sala di posa e camera oscura, Schneider è stata sinonimo stesso di ripresa in grande formato e ingrandimento di massima qualità di stampa, colore come bianconero). Sia in ripresa fotografica sia in modalità video, sul sensore CCD la variazione nominale 7,8-39mm dello zoom Schneider della compatta digitale Samsung NV11 equivale all’escursione focale grandangolare-tele 38-190mm della fotografia 24x36mm, riferimento d’obbligo. Su scheda di memoria SecureDigital, al momento in capacità fino a 4Gb, si registrano file fotografici in
SEMPRE PIÙ
E POI, S (I E L)
O
ltre la gamma NV, l’offerta commerciale Samsung presenta un’ampia serie di compatte digitali: famiglie Samsung i (nel cui ambito la Samsung i7 si è imposta ai prestigiosi TIPA Awards 2007 come migliore Best Multimedia Camera; FOTOgraphia, maggio 2007), Samsung L e Samsung S. Particolarmente differenziata, la famiglia Samsung S propone quattro compatte digitali di efficace design e prestazioni sistematicamente crescenti. In sintesi: sei
formato Jpeg a tre livelli di compressione. La ripresa video è in formato VGA 640x480 pixel, a trenta fotogrammi al secondo. In entrambe le condizioni, bilanciamento del bianco automatico o manuale. In linea con il design della propria gamma, la Samsung NV11 dispone di un ampio monitor posteriore LCD TFT da 2,7 pollici, con restituzione chiara in ripresa (funzione attiva della compatta) e in riproduzione (funzione passiva): sia in fotografia sia in video. Un interfaccia smart touch garantisce altresì una navigazione semplice e intuitiva, attraverso la quale si accede a tutte le modalità di impiego e regolazioni preventive. La sensibilità può essere impostata fino a 1600 Iso equivalenti (a partire da 80 Iso equivalenti, per progressioni standardizzate), che si combinano, anche, con la funzione ASR (Advanced Shake Reduction), che elimina le vibrazioni involontarie, per
NV
Megapixel di risoluzione per la S630, 7,2 Megapixel per la S730, 8,1 Megapixel per la S850 e 10,1 Megapixel per la S1050. Le prime due arrivano alla sensibilità di 1000 Iso equivalenti, le altre due a 1600 Iso equivalenti. Diversi anche i sensori di acquisizione, ancora due a due: rispettivamente, da 1/2,5 e 1/1,8 di pollice. Sempre due a due le dotazioni ottiche: zoom 5,8-17,4mm equivalente alla variazione 35-105mm della fotografia 24x36mm e zoom 7,8-39mm equi-
avere sempre il massimo della qualità, anche con soggetti in movimento o in sfavorevoli condizioni di luce. Analogamente, l’allineamento tra l’autofocus, l’esposizione automatica (con misurazione Multi, Spot o Centrata) e la modalità per il riconoscimento dei volti all’interno dell’inquadratura (fino a nove soggetti diversi) è altrettanto finalizzato alla migliore restituzione fotografica. Oltre alla capacità di mettere a fuoco e regolare l’esposizione, questa consecuzione preventiva riconosce ed elimina, direttamente in ripresa, anche il fastidio-
valente alla variazione 38-190mm. In comune, l’insieme delle altre caratteristiche tecniche, in ordine con l’attualità tecnologica dei nostri giorni: funzione ASR (Advanced Shake Reduction), registrazione Jpeg a tre livelli di compressione, bilanciamento del bianco automatico e manuale, funzioni avanzate di editing, modalità Scene multiple. Infine, monitor LCD da 2,5 pollici per le tre Samsung S630, S730 e S850 e da tre pollici per la Samsung S1050 di vertice.
so effetto degli “occhi rossi” nell’illuminazione flash diretta. In condizioni standard, l’autofocus accomoda da ottanta centimetri, che si riducono a dieci selezionando l’Auto-Macro. Ancora, l’opzione Super-Macro mette a fuoco da uno a dieci centimetri. Dodici modalità Scene semplificano l’interpretazione fotografica (formale, non di contenuto) di ogni situazione di ripresa. Le preimpostazioni automatiche sono finalizzate alla più adeguata combinazione tra tempo di otturazione, apertura di diaframma e sensibilità Iso equivalente delle condi-
Esordita lo scorso anno con le tre configurazioni originarie NV3, NV7 OPS e NV10, l’avvincente famiglia di compatte digitali Samsung offre ora la nuova interpretazione NV11, tecnologicamente incrementata. Allo stesso momento, sono confermati i princìpi base dell’accattivante sistema, ed è conservata e riproposta la particolare finitura estetica dell’anello blu, decisamente personalizzante, che in ogni modello circonda l’obiettivo di ripresa
zioni di Notte, Ritratto, Bambini, Paesaggio, Testo, Tramonto, Alba, Controluce, Fuochi d’artificio, Primopiano e Spiaggia&Neve. Oltre a questa dotazione, già presente in ogni compatta digitale della gamma NV, l’attuale Samsung NV11 dispone anche della nuova modalità “Biglietto da visita”, dodicesima del menu, che estende il suo potenziale utilizzo: fotografando un biglietto da visita, il trasferimento al computer identifica i caratteri trattandoli come testo. A seguire, nell’ambito della postproduzione si segnala anche la rinnovata funzione “Photo Gallery”, che deriva dalle precedenti versioni di album fotografico, solitamente vincolate a opzioni Playback. A differenza, Photo Gallery visualizza direttamente l’album prescelto; quindi, le fotografie vengono raggruppate e archiviare in base alla data. Sullo stesso princìpio di postproduzione semplificata, evolute funzioni video incorporate consentono di editare le fotografie in modo semplice e pratico, senza bisogno di ricorrere a software specifici. Ovviamente, e in conclusione, PictBridge compatibile. (Giliberto Fotoimportex, via Ticino 12, 50010 Osmannoro di Sesto Fiorentino FI). A.Bor.
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VI RENDIAMO OMAGGIO
Here’s to you Nicola and Bart. Vi rendo omaggio Nicola e Bart. A parte qualche immagine di accompagnamento, questo intervento redazionale non ha alcun altro richiamo diretto e dichiarato alla materia specifica della fotografia: la nostra istituzionale. Volendolo fare, si potrebbe raccontare dell’impegno di Ben Shahn, una delle grandi stature espressive della fotografia statunitense di quegli anni, che nella propria personalità di pittore ha realizzato appassionati dipinti ispirati alla storia di Nicola Sacco e Bartolomeo Vanzetti, alcuni dei quali ripresi da fotografie.
Ma non si tratta di imboccare scorciatoie. L’intenzione di questo intervento non deve celarsi dietro facciate di comodo. Esplicitamente, nell’ottantesimo anniversario, ricordiamo l’assassinio (legalizzato) di Nicola Sacco e Bartolomeo Vanzetti sia per la manifesta ingiustizia di quella lontana sentenza, che continua a scuotere animi e coscienze, sia per aggiungere un ulteriore nostro contributo alla lotta contro la pena di morte, ancora oggi in vigore in numerosi paesi. Ne scriviamo in altra parte della rivista, su questo stesso numero, da pagina 48: nessuno tocchi caino, ma neanche abele.
O
Ottanta anni fa, martedì 23 agosto 1927, nella prigione di stato di Charlestown, in Massachusetts, nei pressi di Boston, ebbe epilogo una vicenda oscura della giustizia statunitense e del pregiudizio nei confronti dell’immigrazione italiana, che con l’occasione fu altresì condito con il disprezzo e l’odio per la fede anarchica. Alle 0,19 della notte venne giustiziato sulla sedia elettrica Nicola Sacco; qualche minuto dopo, alle 0,26, fu la volta di Bartolomeo Vanzetti. Il caso Sacco e Vanzetti, del quale ricorre l’ottantesimo anniversario, che ricordiamo tra la data di conferma della condanna (nove aprile) e l’esecuzione, fu tale -appunto, caso- fin dalle prime battute di un processo che apparve subito prevenuto e artificioso, definito da prove prefabbricate e privato dell’acquisizione di prove a discarico, che avrebbero scagionato i due imputati. Nonostante le prese di posizione in tutto il mondo, con manifestazioni pubbliche che oggi usiamo definire oceaniche, a conteggio di partecipazioni numericamente consistenti, e gli accorati appelli di intellettuali e scrittori, l’apparato inquisitore statunitense arrivò fino in fondo, approdando alla conclusione che si era prefissata. A onor del vero, bisogna riconoscere che, per quanto serva (alla Storia, quantomeno), Nicola Sacco e Bartolomeo Vanzetti sono stati riabilitati il 23
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Bartolomeo Vanzetti e Nicola Sacco nell’aula del tribunale di Dedham, nei pressi di Boston, Massachusetts, Stati Uniti, in una fotografia nota del 1923, che ha anche ispirato un quadro a tema di Ben Shahn (a pagina 63).
agosto 1977, nel cinquantenario della morte, con un proclama ufficiale del governatore del Massachusetts Michael S. Dukakis, che li ha assolti dal crimine per il quale vennero giustiziati: «Io dichiaro che ogni stigma e ogni onta vengano per sempre cancellati dai nomi di Nicola Sacco e Bartolomeo Vanzetti». La stessa data è oggi celebrata nel Massachusetts come il Sacco and Vanzetti Memorial Day, giornata alla memoria di Sacco e Vanzetti. E poi, non possiamo ignora-
re un episodio toccante, che ha preceduto questa data. Si racconta che Luigia Vanzetti, in visita negli Stati Uniti, abbia voluto vedere l’aula di tribunale nel quale si consumò la tragedia esistenziale del fratello Bartolomeo (e di Nicola Sacco). Avvertito della presenza della donna, il giudice allora titolare la invitò a occupare il proprio posto, a parziale risarcimento di un grave torto subìto dalla sua famiglia. Il giudice le chiese scusa per i fatti di tanti anni prima, che, disse, macchia-
vano l’onorabilità dell’intero sistema giudiziario statunitense. Con l’occasione, ricordiamo anche che soprattutto a Luigia (Luigina) Vanzetti il fratello Bartolomeo inviò una lunga serie di lettere, scritte dal carcere. Documento toccante e sincero della statura di una personalità di insolito spessore e nobiltà, definita altresì dalla riaffermazione irrevocabile di un ateismo e una fede nei princìpi libertari che non ammettono compromessi, queste lettere sono state raccolte in volume
dagli Editori Riuniti nell’aprile 1962 e rieditate dieci anni dopo: Non piangete la mia morte, lettere di Bartolomeo Vanzetti ai familiari, a cura di Cesare Pillon e Vincenzina Vanzetti, altra sorella di Bartolomeo.
INGIUSTIZIA FU FATTA Storia di ordinaria ingiustizia, che ingrossa le fila di quelle considerazioni contro la pena di morte alle quali ci riferiamo su questo stesso numero, da pagina 48. Comunque, considerati tutti i condimenti, storia che non si è esaurita con l’esecuzione capitale dei due emigrati italiani, ingiustamente accusati di aver preso parte a una rapina, durante la quale vennero uccisi un cassiere e una guardia. Storia di emblematica intolleranza, come ricaviamo dal suo stesso svolgimento. Storia simbolica, come il piemontese Bartolomeo Vanzetti, spesso identificato come il più politicizzato dei due (ma forse, dalla sua, ha fatto la differenza la padronanza della lingua inglese), sottolinea in un passo della sua lunga dichiarazione finale, per prassi sollecitata dal tribunale prima della sentenza definitiva (9 aprile 1927; in riquadro, il testo completo da questa pagina): «Non augurerei a un cane o a un serpente, alla più miserevole e sfortunata creatura della Terra, ciò che ho avuto a soffrire per colpe che non ho commesso. Ma la mia convinzione è un’altra: che ho sofferto per colpe che ho effettivamente commesso. Sto soffrendo perché sono un anarchico, e in effetti io sono un anarchico; ho sofferto perché sono un italiano, e in effetti io sono un italiano; ho sofferto di più per la mia famiglia e per i miei cari che per me stesso; ma sono tanto convinto di essere nel giusto che se voi aveste il potere di ammazzarmi due volte, e per due volte io potessi rinascere, vivrei di nuovo per fare esattamente ciò che ho fatto finora». Nicola Sacco e Bartolomeo Vanzetti sono stati giustiziati a
trentasei e trentanove anni, gli ultimi sette dei quali passati in carcere, mentre negli Stati Uniti si delineava la leggenda sportiva di Babe Ruth, icona del baseball, che proprio in quel 1927 stabilì il proprio consistente record di sessanta fuoricampo, e Charles Lindberg compiva la prima trasvolata atlantica senza scalo con il suo The Spirt of Saint Louis (20 maggio 1927). A Bartolomeo Vanzetti si è soliti attribuire un’altra dichiarazione alla giuria che l’aveva condannato alla pena di morte: «Mai vivendo l’intera esistenza avremmo potuto sperare di fare così tanto per la tolleranza, la giustizia, la mutua comprensione fra gli uomini» (inclusa nella sceneggiatura di Sacco e Vanzetti, di Giuliano Montaldo, del 1971), che è sintesi della sua lunga requisitoria finale, alla quale ci siamo appena riferiti e richiamati.
SACCO E VANZETTI Pugliese di nascita, Nicola Sacco (nel Terzo Vico del Codacchio di Torremaggiore, in provincia di Foggia, 22 aprile 1891) conobbe il piemontese Bartolomeo Vanzetti (nato a Villafalletto, in provincia di Cuneo, l’11 giugno 1888) negli Stati Uniti, dove entrambi erano emigrati: anche se molti annotano la coincidenza dell’arrivo nello stesso anno, il 1908, alle rispettive età di diciassette e venti anni, documenti ufficiali attestano che Nicola Sacco arrivò in America il 2 maggio 1913, sbarcando dalla Principe di Piemonte, salpata dal porto di Napoli, mentre Bartolomeo Vanzetti arrivò effettivamente il 19 giugno 1908, a bordo della francese La Provence, partita da Le Havre. Al momento del loro arresto, nel 1920, uno lavorava come ciabattino, e l’altro, chiamato Trumlin dagli amici (soprannome piemontese a indicare una sostanziale bontà e semplicità d’animo), gestiva una rivendita di pesce. A margine del loro caso, è opportuno rilevarlo, furono realizzate numerose opere d’ar-
Primavera 1927, ultime battute della lunga vicenda, che si è conclusa con la condanna a morte di Nicola Sacco (a destra) e Bartolomeo Vanzetti (con i baffi, a sinistra). Trasferimento dei due imputati, ammanettati, dall’aula del tribunale alla prigione di stato di Charlestown (Boston).
te, tra le quali spiccano i dipinti e le grafiche del pittore e fotografo Ben Shahn (alle pagine 63 e 64), una delle grandi stature espressive del tempo, avviato alla fotografia nel 1929 da Walker Evans, con il quale divideva
un appartamento al Greenwich Village di New York, che dal 1935 al 1938 fece parte dello staff fotografico della Farm Security Administration (Sguardo su, di Pino Bertelli, in FOTOgraphia del maggio 2006). Nume-
BARTOLOMEO VANZETTI IN TRIBUNALE aprile 1927: Winfield Wilbar, District Attonery della Norfolk County, riNdiceunìoveWebster la Corte Superiore di Dedham, Massachusetts (Usa), presieduta dal giuThayer, per notificare la sentenza di morte a Nicola Sacco e Bartolomeo Vanzetti. Prima che la sentenza fosse ufficialmente emessa, i due imputati ricevettero il tradizionale invito a pronunciare una dichiarazione conclusiva. A causa della sua scarsa padronanza della lingua inglese, Nicola Sacco parlò brevemente. Invece, Bartolomeo Vanzetti pronunciò una appassionata arringa, e non esitò a mettere sotto accusa i propri persecutori. Dopo aver ricordato che nel film Sacco e Vanzetti, di Giuliano Montaldo, del 1971, l’interpretazione di Gian Maria Volonté ha dato particolare valore a queste ultime parole pubbliche di Bartolomeo Vanzetti (in estratto), riportiamo l’intera traduzione, riprendendola da Non piangete la mia morte, lettere di Bartolomeo Vanzetti ai familiari, a cura di Cesare Pillon e Vincenzina Vanzetti, pubblicato dagli Editori Riuniti nel 1962 (e 1972). Alla domanda di rito «Bartolomeo Vanzetti, avete qualcosa da dire perché la sentenza di morte non sia pronunciata contro di voi?», l’italiano si alzò in piedi e declamò la sua visione dei fatti. (Attenzione: in modo improprio, la traduzione recita “radicale” per l’originale statunitense “radical”, che, più esattamente significa altro, nei contesti nei quali viene declinato: attivista, militante, anarchico, estremista o sovversivo).
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Segnaletiche di Nicola Sacco e Bartolomeo Vanzetti, scattate al momento del loro arresto, il 5 maggio 1920. Immediatamente dopo, furono accusati di rapina con omicidio.
rose e consistenti, quindi, le prese di posizione a favore di Sacco e Vanzetti di scrittori, intellettuali e giornalisti. Tra tante testimonianze, omaggi e appelli, ricordiamo sopra tutto la poesia Justice denied in Massachusetts (1927), ovvero la giustizia è stata rinnegata in Massachusetts, della poetessa Edna St. Vincent Millay e la rievocazione, oltre gli articoli in cronaca, che l’Atlantic Monthly ospitò nel feb-
braio 1928, pubblicando il ricordo dell’avvocato William Prince Thompson, che stette accanto a Bartolomeo Vanzetti la notte precedente l’esecuzione. Sull’immigrazione negli Stati Uniti, che tanta revisione storica sta oggi dipingendo con le fresche e allegre tinte della gita fuoriporta, Bartolomeo Vanzetti ha espresso una propria consistente rilevazione: «Al centro immigrazione, ebbi la prima sorpresa. Gli emigranti venivano smistati come tanti animali. Non una parola di gentilezza, di incoraggiamento, per alleggerire il fardello di dolori che pesa così tanto su chi è appena arrivato in America. [...] Dove potevo andare? Cosa potevo fare? Quella era la Terra promessa. Il treno della sopraelevata passava sferragliando. Le automobili e i tram passavano oltre senza badare a me». Calzolaio in Italia, Nicola Sacco trovò lavoro in una fabbrica di calzature a Milford, nel Massachusetts. Si sposò e andò ad abitare in una casa con giardino. Ebbe un figlio, Dante (al quale inviò una commovente lettera immediatamente pri-
Nei sette anni di inquisizione, dall’arresto nel maggio 1920 alla condanna confermata nell’aprile 1927, in tutto il mondo si svolsero manifestazioni pubbliche a favore della liberazione di Nicola Sacco e Bartolomeo Vanzetti, peraltro richiesta anche da intellettuali e scrittori internazionali. Nei documentari che citiamo nel testo sono comprese documentazioni filmate del loro svolgimento, evocato anche nel film Sacco e Vanzetti, di Giuliano Montaldo (1971). Qui, visualizziamo un picchetto davanti al carcere dove i due italiani sono stati detenuti.
ma dell’esecuzione; a pagina 62), e una figlia, Ines. Lavorava sei giorni la settimana, dieci ore al giorno. Nonostante ciò, partecipava attivamente alle manifestazioni operaie dell’epoca, attraverso le quali i lavoratori chiedevano salari più alti e migliori condizioni di lavoro. In tali
occasioni, teneva spesso dei discorsi. A causa di queste attività venne arrestato nel 1916. Bartolomeo Vanzetti fece molti lavori, prendeva tutto ciò che gli capitava. Lavorò in diverse trattorie, in una cava, in un’acciaieria e in una fabbrica di cordami, la Plymouth Cordage
BARTOLOMEO VANZETTI IN TRIBUNALE Sì. Quel che ho da dire è che sono innocente, non soltanto del delitto di Braintree, ma anche di quello di Bridgewater. Che non soltanto sono innocente di questi due delitti, ma che in tutta la mia vita non ho mai rubato né ucciso né versato una goccia di sangue. Questo è ciò che voglio dire. E non è tutto. Non soltanto sono innocente di questi due delitti, non soltanto in tutta la mia vita non ho rubato né ucciso né versato una goccia di sangue, ma ho combattuto anzi tutta la vita, da quando ho avuto l’età della ragione, per eliminare il delitto dalla Terra. Queste due braccia sanno molto bene che non avevo bisogno di andare in mezzo alla strada a uccidere un uomo, per avere del denaro. Sono in grado di vivere, con le mie due braccia, e di vivere bene. Anzi, potrei vivere anche senza lavorare, senza mettere il mio braccio al servizio degli altri. Ho avuto molte possibilità di rendermi indipendente e di vivere una vita che di solito si pensa sia migliore che non guadagnarsi il pane col sudore della fronte. Mio padre in Italia è in buone condizioni economiche. Potevo tornare in Italia ed egli mi avrebbe sempre accolto con gioia, a braccia aperte. Anche se fossi tornato senza un centesimo in tasca, mio padre avrebbe potuto occuparmi nella sua proprietà, non a faticare ma a commerciare, o a sovrintendere alla terra che possiede. Egli mi ha scritto molte lettere in questo senso, ed altre me ne hanno scritte i parenti, lettere che sono in grado di produrre. Certo, potrebbe essere una vanteria. Mio padre e i miei parenti potrebbero vantarsi e dire cose che possono anche non essere credute. Si può anche pensare che
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essi sono poveri in canna, quando io affermo che avevano i mezzi per darmi una posizione qualora mi fossi deciso a fermarmi, a farmi una famiglia, a cominciare una esistenza tranquilla. Certo. Ma c’è gente che in questo stesso tribunale poteva testimoniare che ciò che io ho detto e ciò che mio padre e i miei parenti mi hanno scritto non è una menzogna, che realmente essi hanno la possibilità di darmi una posizione quando io lo desideri. Vorrei giungere perciò ad un’altra conclusione, ed è questa: non soltanto non è stata provata la mia partecipazione alla rapina di Bridgewater, non soltanto non è stata provata la mia partecipazione alla rapina ed agli omicidi di Braintree né è stato provato che io abbia mai rubato né ucciso né versato una goccia di sangue in tutta la mia vita; non soltanto ho lottato strenuamente contro ogni delitto, ma ho rifiutato io stesso i beni e le glorie della vita, i vantaggi di una buona posizione, perché considero ingiusto lo sfruttamento dell’uomo. Ho rifiutato di mettermi negli affari perché comprendo che essi sono una speculazione ai danni degli altri: non credo che questo sia giusto e perciò mi rifiuto di farlo. Vorrei dire, dunque, che non soltanto sono innocente di tutte le accuse che mi sono state mosse, non soltanto non ho mai commesso un delitto nella mia vita degli errori forse, ma non dei delitti- non soltanto ho combattuto tutta la vita per eliminare i delitti, i crimini che la legge ufficiale e la morale ufficiale condannano, ma anche il delitto che la morale ufficiale e la legge ufficiale ammettono e santificano: lo sfruttamento dell’uomo da parte dell’uomo. E se c’è una ragione per
Tra i tanti, tre documenti dei gruppi per la liberazione di Nicola Sacco e Bartolomeo Vanzetti, ingiustamente perseguiti dalla giustizia (?) statunitense: dichiarazione del 1921 del comitato di difesa (dall’Archivio della Chicago Federation of Labor Rights), invito per una riunione di protesta del 25 gennaio 1925 e volantino francese (che richiama anche la precedente oscura vicenda di Andrea Salsedo, l’anarchico precipitato da una finestra di una stazione di polizia, il 3 maggio 1920).
Company. Leggeva molto: Karl Marx, Charles Darwin, Victor Hugo, Maksim Gorkij, Lev Tolstoj, Émile Zola e Dante Alighieri furono tra i suoi autori preferiti. Nel 1916 guidò uno sciopero contro la Plymouth, e per questo motivo nessuno volle più dargli
un lavoro. Si mise quindi in proprio, facendo il pescivendolo. Fu proprio nel 1916 che i due si conobbero ed entrarono a far parte di un gruppo anarchico italoamericano. Tutto il collettivo fuggì in Messico, per evitare la chiamata alle armi (e questo
venne rimproverato loro al processo, ma Bartolomeo Vanzetti commenta con lucidità, nella propria requisitoria, alla quale ci siamo già riferiti): perché per un anarchico non c’è niente di peggio che uccidere o morire per uno Stato. Nicola Sacco e Bartolomeo Vanzetti tornarono nel Massachusetts dopo la guerra, non sapendo di essere inclusi in una lista di sovversivi compilata dal ministero di Giustizia, né di essere pedinati dagli agenti segreti statunitensi. Nella stessa lista era incluso anche un amico di Bartolomeo Vanzetti, il tipografo Andrea Salsedo, che venne assassinato dalla polizia il 3 maggio 1920, scaraventato dal quattordicesimo piano di un edificio appartenente al ministero di Giustizia
BARTOLOMEO VANZETTI IN TRIBUNALE cui io sono qui imputato, se c’è una ragione per cui potete condannarmi in pochi minuti, ebbene, la ragione è questa e nessun’altra. Chiedo scusa. I giornali hanno riferito le parole di un galantuomo, il migliore che i miei occhi abbiano visto da quando sono nato: un uomo la cui memoria durerà e si estenderà, sempre più vicina e più cara al popolo, nel cuore stesso del popolo, almeno fino a quando durerà l’ammirazione per la bontà e per lo spirito di sacrificio. Parlo di Eugenio Debs. Nemmeno un cane -egli ha detto- nemmeno un cane che ammazza i polli avrebbe trovato una giuria americana disposta a condannarlo sulla base delle prove che sono state prodotte contro di noi. Quell’uomo non era con me a Plymouth né con Sacco a Boston, il giorno del delitto. Voi potete sostenere che è arbitrario ciò che noi stiamo affermando, che egli era onesto e riversava sugli altri la sua onestà, che egli era incapace di fare il male e riteneva ogni uomo incapace di fare il male. Certo, può essere verosimile ma non lo è, poteva essere verosimile ma non lo era: quell’uomo aveva una effettiva esperienza di tribunali, di carceri e di giurie. Proprio perché rivendicava al mondo un po’ di progresso, egli fu perseguitato e diffamato dall’infanzia alla vecchiaia, e in effetti è morto non lontano dal carcere. Egli sapeva che siamo innocenti, come lo sanno tutti gli uomini di coscienza, non soltanto in questo ma in tutti i paesi del mondo: gli uomini che hanno messo a nostra disposizione una notevole somma di denaro a tempo di record sono tuttora al nostro fianco, il fiore degli uomini d’Europa, i migliori scrittori, i più grandi pensatori d’Europa hanno manifestato in nostro favore. I popoli delle nazioni stranie-
re hanno manifestato in nostro favore. È possibile che soltanto alcuni membri della giuria, soltanto due o tre uomini che condannerebbero la loro madre, se facesse comodo ai loro egoistici interessi o alla fortuna del loro mondo; è possibile che abbiano il diritto di emettere una condanna che il mondo, tutto il mondo, giudica una ingiustizia, una condanna che io so essere una ingiustizia? Se c’è qualcuno che può sapere se essa è giusta o ingiusta, siamo io e Nicola Sacco. Lei ci vede, giudice Thayer: sono sette anni che siamo chiusi in carcere. Ciò che abbiamo sofferto, in questi sette anni, nessuna lingua umana può dirlo, eppure -lei lo vede- davanti a lei non tremo -lei lo vede- la guardo dritto negli occhi, non arrossisco, non cambio colore, non mi vergogno e non ho paura. Eugenio Debs diceva che nemmeno un cane -qualcosa di paragonabile a noinemmeno un cane che ammazza i polli poteva essere giudicato colpevole da una giuria americana con le prove che sono state prodotte contro di noi. Io dico che nemmeno a un cane rognoso la Corte Suprema del Massachusetts avrebbe respinto due volte l’appello; nemmeno a un cane rognoso. Si è concesso un nuovo processo a Madeiros perché il giudice o aveva dimenticato o aveva omesso di ricordare alla giuria che l’imputato deve essere considerato innocente fino al momento in cui la sua colpevolezza non è provata in tribunale, o qualcosa del genere. Eppure, quell’uomo ha confessato. Quell’uomo era processato e ha confessato, ma la Corte gli concede un altro processo [ricordiamo che il portoricano Celestino Madeiros confessò di essere anche l’autore della rapi-
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NICOLA SACCO AL FIGLIO DANTE
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ome la requisitoria di Bartolomeo Vanzetti, integrale da pagina 59, prende vita nell’interpretazione (in estratto) di Gian Maria Volonté, nello stesso film Sacco e Vanzetti, di Giuliano Montaldo (1971), è la voce fuori campo di Riccardo Cucciolla che sottolinea i passaggi della lettera che Nicola Sacco scrisse al figlio Dante prima di essere avviato alla sedia elettrica. Come annotato nel testo, questa lettera ha ispirato la terza parte della Ballata, colonna sonora del film, scritta da Joan Baez e musicata da Ennio Morricone. Analogamente, è stata utilizzata anche da Pete Seeger per la sua Sacco’s Letter to His Son, inclusa nella raccolta Ballads of Sacco & Vanzetti di Woody Guthrie, ed elaborata dal gruppo italiano Le Tormenta, appunto La lettera.
(attenzione, il film Sacco e Vanzetti, di Giuliano Montaldo, del 1971, che commentiamo più avanti, esordisce proprio con la rievocazione di questa altra oscura vicenda). Nicola Sacco e Bartolomeo Vanzetti organizzarono un comizio per far luce su questo omicidio, che avrebbe dovuto avere luogo a Brockton, il nove maggio. Però, i due italiani vennero arrestati prima dell’evento, il cinque maggio, rei d’aver appresso volantini anar-
Tra le tante versioni, riproponiamo quella del film di Giuliano Montaldo, ripetiamo recitata da Riccardo Cucciolla. Mio caro figlio, ho sognato di voi giorno e notte; non sapevo più se la mia era vita o morte. Volevo tornare a riabbracciarti, te e la tua mamma. Perdonami, bambino mio, per questa morte ingiusta, che ti toglie il padre quando sei ancora in così tenera età. Possono bruciare i nostri corpi, oggi; non possono distruggere le nostre idee, esse rimangono per i giovani del futuro, per i giovani come te. Ricorda, figlio mio, la felicità dei giochi non tenerla tutta per te. Cerca di comprendere con umiltà il prossimo, aiuta il debole, aiuta quelli che piangono, aiuta il perseguitato, l’oppresso. Loro sono i tuoi migliori amici.
chici e avere indosso armi. Pochi giorni dopo, vennero accusati anche di una rapina avvenuta a South Baintree, un sobborgo di Boston, poche settimane prima del loro arresto, durante la quale, a colpi di pistola, erano stati uccisi due uomini, il cassiere della ditta -il calzaturificio Slater and Morrill- e una guardia giurata. L’abbiamo già detto, ma la ripetizione è d’obbligo. Già dall’epoca dei fatti, e via via negli anni a seguire, a pa-
rere di molti, non soltanto italiani, non soltanto anarchici, ma personaggi della cultura internazionale, da parte di polizia, procuratore distrettuale, giudice e giuria, alla base del verdetto di condanna vi furono pregiudizi e una forte volontà di perseguire la politica del terrore suggerita dal ministro della Giustizia, il democratico Alexander Mitchell Palmer, e culminata nella vicenda delle deportazioni coatte di immigrati (sotto la seconda presi-
La notizia dell’esecuzione di Nicola Sacco e Bartolomeo Vanzetti sulla prima pagina dello statunitense The Onion, quotidiano a visione nazionale, e sulle colonne del milanese Corriere della Sera.
BARTOLOMEO VANZETTI IN TRIBUNALE na con omicidi della quale erano accusati Nicola Sacco e Bartolomeo Vanzetti, di fatto scagionati da ogni accusa, ma la sua dichiarazione non venne tenuta in alcuna considerazione]. Noi abbiamo dimostrato che non poteva esistere un altro giudice sulla faccia della Terra più ingiusto e crudele di quanto lei, giudice Thayer, sia stato con noi. Lo abbiamo dimostrato. Eppure ci si rifiuta ancora un nuovo processo. Noi sappiamo che lei nel profondo del suo cuore riconosce di esserci stato contro fin dall’inizio, prima ancora di vederci. Prima ancora di vederci lei sapeva che eravamo dei radicali, dei cani rognosi. Sappiamo che lei si è rivelato ostile e ha parlato di noi esprimendo il suo disprezzo con tutti i suoi amici, in treno, al Club dell’Università di Boston, al Club del Golf di Worcester, nel Massachusetts. Sono sicuro che se coloro che sanno tutto ciò che lei ha detto contro di noi avessero il coraggio civile di venire a testimoniare, forse Vostro Onore -e mi dispiace dirlo perché lei è un vecchio e anche mio padre è un vecchio come lei- forse Vostro Onore siederebbe accanto a noi, e questa volta con piena giustizia. Quando ha emesso la sentenza contro di me al processo di Plymouth, lei ha detto -per quanto mi è dato ricordare in buona fede- che i delitti sono in accordo con le mie convinzioni -o qualcosa del genere- ma ha tolto un capo d’imputazione, se ricordo esattamente, alla giuria. La giuria era così prevenuta contro di me che mi avrebbe giudicato colpevole di tutte e due le imputazioni, per il solo fatto che erano soltanto due. Ma mi avrebbe giudicato colpevole di una dozzina di capi d’accusa anche contro le istruzioni di Vostro Onore. Naturalmente, io ricordo che lei
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disse che non c’era alcuna ragione di ritenere che io avessi avuto l’intenzione di uccidere qualcuno, anche se ero un bandito, facendo cadere cosi l’imputazione di tentato omicidio. Bene, sarei stato giudicato colpevole anche di questo? Se sono onesto debbo riconoscere che fu lei a togliere di mezzo quell’accusa, giudicandomi soltanto per tentato furto con armi, o qualcosa di simile. Ma lei, giudice Thayer, mi ha dato per quel tentato furto una pena maggiore di quella comminata a tutti i quattrocentoquarantotto carcerati di Charlestown che hanno attentato alla proprietà, che hanno rubato; eppure nessuno di loro aveva una sentenza di solo tentato furto come quella che lei mi aveva dato. Se fosse possibile formare una commissione che si recasse sul posto, si potrebbe controllare se è vero o no. A Charlestown ci sono ladri di professione che sono stati in metà delle galere degli Stati Uniti, gente che ha rubato o che ha ferito un uomo sparandogli. E solo per caso costui si è salvato, non è morto. Bene, la maggior parte di costoro, colpevoli senza discussione, per autoconfessione o per chiamata di correo dei complici, ha ottenuto da otto a dieci, da otto a dodici, da dieci a quindici [anni]. Nessuno di loro è stato condannato da dodici a quindici anni come lo sono stato io da lei, per tentato furto. E per di più lei sapeva che non ero colpevole. Lei sa che la mia vita, la mia vita pubblica e privata in Plymouth, dove ho vissuto a lungo, era così esemplare che uno dei più grandi timori del pubblico ministero Katzmann era proprio questo: che giungessero in tribunale le prove della nostra vita e della nostra condotta. Egli le ha tenute fuori con tutte le sue forze, e c’è riuscito.
denza del democratico Thomas Woodrow Wilson). Clima sociale sul quale si espresse il vescovo di New York, voce insospettabile: «Il paese è minato dall’isterismo e dal panico; è la pagina più infame della storia d’America». In quell’oscuro 1920, gli fece eco The Chicago Chronicle, certamente non di parte, titolando a piena pagina «La campagna isterica di Palmer, seria minaccia per la democrazia». Sotto questo aspetto, Nicola Sacco e Bartolomeo Vanzetti vennero considerati due agnelli sacrificali, utili per testare la nuova linea di condotta contro gli avversari del governo. Erano infatti immigrati italiani con una comprensione imperfetta della lingua inglese (migliore in Bartolomeo Vanzetti, che ha svolto una lucida requisitoria; sempre da pagina 59); erano inoltre note le loro idee politiche anarchiche. Il giudice Webster Thayer li definì senza mezze parole anarchici bastardi. Senza successo, molti famosi intellettuali, compresi Dorothy Parker, Edna St. Vincent Millay, Bertrand Russell, George Ber-
Il quadro che Ben Shahn, pittore e fotografo statunitense di origine lituana, ha ricavato da una celebre fotografia che ritrae Bartolomeo Vanzetti e Nicola Sacco in tribunale (a pagina 58) è uno dei dipinti più famosi sia della sua produzione artistica sia della vasta serie di omaggi ai due italiani giustiziati ingiustamente nell’agosto 1927. Sullo stesso tema, Ben Shahn ha realizzato numerose altre opere, tra le quali ricordiamo The Passion of Sacco and Vanzetti, del 1931-32 (tempera su tela, 2,15x1,22m, Whitney Museum of American Art, New York, Usa), nel quale si riconosce soprattutto la fisionomia del giudice inquisitore Webster Thayer, il feroce persecutore dei due italiani (nel ritratto sullo sfondo).
nard Shaw, John Dos Passos, Upton Sinclair e H. G. Wells, sostennero una campagna per giungere a un nuovo processo. A nulla valsero neppure la mobilitazione della stampa statunitense e di quella internazionale, né l’attività di numerosi comitati per la liberazione degli in-
nocenti, né gli appelli lanciati da tutto il mondo. Martedì 23 agosto 1927, dopo sette anni di carcere, Nicola Sacco e Bartolomeo Vanzetti vennero uccisi sulla sedia elettrica: la loro esecuzione innescò rivolte popolari a Londra, Parigi e in diverse città della Germania (ovviamen-
te, nulla venne fatto dal governo fascista italiano).
MEMORIA CINEMATOGRAFICA Sepolti nei cimiteri dei rispettivi paesi di origine, Torremaggiore (all’inizio del viale centrale), in provincia di Foggia, e Vil-
BARTOLOMEO VANZETTI IN TRIBUNALE Lei sa che se al primo processo, a Plymouth, avessi avuto a difendermi l’avvocato Thompson, la giuria non mi avrebbe giudicato colpevole. Il mio primo avvocato era un complice di mister Katzmann, e lo è ancora. Il mio primo avvocato difensore, mister Vahey, non mi ha difeso: mi ha venduto per trenta monete d’oro come Giuda vendette Gesù Cristo. Se quell’uomo non è arrivato a dire a lei o a mister Katzmann che mi sapeva colpevole, ciò è avvenuto soltanto perché sapeva che ero innocente. Quell’uomo ha fatto tutto ciò che indirettamente poteva danneggiarmi. Ha fatto alla giuria un lungo discorso intorno a ciò che non aveva alcuna importanza, e sui nodi essenziali del processo è passato sopra con poche parole o in assoluto silenzio. Tutto questo era premeditato, per dare alla giuria la sensazione che il mio difensore non aveva niente di valido da dire, non aveva niente di valido da addurre a mia difesa, e perciò si aggirava nelle parole di vacui discorsi che non significavano nulla e lasciava passare i punti essenziali o in silenzio o con una assai debole resistenza. Siamo stati processati in un periodo che è già passato alla storia. Intendo, con questo, un tempo dominato dall’isterismo, dal risentimento e dall’odio contro il popolo delle nostre origini, contro gli stranieri, contro i radicali, e mi sembra -anzi, sono sicuro- che tanto lei che mister Katzmann abbiate fatto tutto ciò che era in vostro potere per eccitare le passioni dei giurati, i pregiudizi dei giurati contro di noi. Io ricordo che mister Katzmann ha presentato un teste d’accusa, un certo Ricci. Io ho ascoltato quel testimone. Sembrava che non avesse niente da dire. Sembrava sciocco produrre un testimone che non aveva niente da dire. Sembrava sciocco, se era sta-
to chiamato solo per dire alla giuria che era il capo di quell’operaio che era presente sul luogo del delitto e che chiedeva di testimoniare a nostro favore, sostenendo che noi non eravamo tra i banditi. Quell’uomo, il testimone Ricci, ha dichiarato di aver trattenuto l’operaio al lavoro, invece di mandarlo a vedere che cosa era accaduto, dando così l’impressione che l’altro non avesse potuto vedere ciò che accadeva nella strada. Ma questo non era molto importante. Davvero importante è che quell’uomo ha sostenuto che era falsa la testimonianza del ragazzo che riforniva d’acqua la sua squadra d’operai. Il ragazzo aveva dichiarato d’aver preso un secchio e di essersi recato ad una certa fontana ad attingere acqua per la squadra. Non era vero -ha sostenuto il testimone Ricci- e perciò il ragazzo non poteva aver visto i banditi e non era in grado quindi di provare che né io né Sacco fossimo tra gli assassini. Secondo lui, non poteva essere vero che il ragazzo fosse andato a quella fontana perché si sapeva che i tedeschi ne avevano avvelenato l’acqua. Ora, nella cronaca del mondo di quel tempo non è mai stato riferito un episodio del genere. Niente di simile è avvenuto in America: abbiamo letto di numerose atrocità compiute in Europa dai tedeschi durante la guerra, ma nessuno può provare né sostenere che i tedeschi erano tanto feroci da avvelenare una fontana in questa regione, durante la guerra. Tutto questo sembrerebbe non aver nulla a che fare con noi, direttamente. Sembra essere un elemento casuale capitato tra gli altri che rappresentano invece la sostanza del caso. Ma la giuria ci aveva odiati fin dal primo momento perché eravamo contro la guerra. La giuria non si rendeva conto che c’è della differenza tra un uomo
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lafalletto, in provincia di Cuneo, Nicola Sacco e Bartolomeo Vanzetti sono un simbolo universale contro l’ingiustizia, il pregiudizio, l’intolleranza, la prevaricazione e, perché no, la pena di morte. Ripetiamo quanto affermato da Bartolomeo Vanzetti dopo la condanna: «Mai vivendo l’intera esistenza avremmo potuto sperare di fare così tanto per la tolleranza, la giustizia, la mutua comprensione fra gli uomini». Alla rievocazione del loro caso e alla loro memoria sono state dedicate numerose opere, cinematografiche e pittoriche, e sono stati compilati approfonditi studi e saggi (tra i quali ricordiamo l’attento L’eredità di Sacco e di Vanzetti, di Russell Aiuto, tradotto sul sito www.torremaggiore.com/saccoevanzetti/storia.html, il recente La tragedia di Sacco e Vanzetti, di Francis Russell, Oscar Mondadori, 2005, e Davanti alla sedia elettrica - Come Sacco e Vanzetti furono americanizzati, di John Dos Passos, del 1927, pubblicato dalle Edizioni Spartaco nel 2005); quindi, so-
no state scritte e cantate toccanti canzoni. Il film universalmente più conosciuto, al quale si è soliti riferirsi, è Sacco e Vanzetti, di Giuliano Montaldo, realizzato nel 1971. Straordinarie le caratterizzazioni dei corregionali Riccardo Cucciolla e Gian Maria Volonté, e commovente la requisitoria finale recitata proprio da Gian Maria Volonté (Bartolomeo Vanzetti) con forte inflessione piemontese e coinvolgente trasporto: tra tanto altro, fantastica lezione di cinema-verità. In precedenza, il caso fu affrontato da altre sceneggiature, e ancora in tempi recenti il cinema e la televisione internazionali sono tornati sull’argomento. Con ordine cronologico. Sacco und Vanzetti è una pellicola austriaca-ungherese arrivata nelle sale europee il 7 ottobre 1927, una manciata di settimane dopo l’esecuzione del ventitré agosto. Non ne sappiamo molto, così come ignoriamo l’essenza di altri titoli che stiamo per ricordare, e dunque ci limitiamo all’essenza dei dati ufficiali: regia di Alfréd Deésy;
A partire dal proprio dipinto (a pagina 63), già ricavato da una fotografia (a pagina 58), Ben Shahn ha elaborato anche un poster celebrativo di Nicola Sacco e Bartolomeo Vanzetti, realizzato in due versioni (Library of Congress, Washington DC, Usa). La più diffusa è quella in verticale, con il testo in maiuscolo. Le parole che accompagnano i ritratti dei due italiani sono riprese dall’arringa finale di Bartolomeo Vanzetti, richiamata anche nell’incessante sequenza di Here’s to you di Joan Baez e Ennio Morricone, dalla colonna sonora del film Sacco e Vanzetti, di Giuliano Montaldo, del 1971.
Louis V. Arco e Hans Peppler nelle parti dei due italiani. Der Fall Sacco und Vanzetti è un film televisivo tedesco, diretto da Edward Rothe, su sceneggiatura di Reginald Rose,
mandato in onda per la prima volta la sera del 22 agosto 1963, in coincidenza con l’anniversario dell’esecuzione: Robert Freitag e Günther Neutze, i due attori di riferimento. Con la stessa sceneggiatura, le enciclopedie del cinema registrano anche una produzione belga e olandese del successivo 1966: De Zaak Sacco en Vanzetti, che osiamo ipotizzare sostanzialmente coincidente con l’originario filmato tedesco. Ancora,
BARTOLOMEO VANZETTI IN TRIBUNALE che è contro la guerra perché ritiene che la guerra sia ingiusta, perché non odia alcun popolo, perché è un cosmopolita, e un uomo invece che è contro la guerra perché è in favore dei nemici, e che perciò si comporta da spia, e commette dei reati nel paese in cui vive allo scopo di favorire i paesi nemici. Noi non siamo uomini di questo genere. Katzmann lo sa molto bene. Katzmann sa che siamo contro la guerra perché non crediamo negli scopi per cui si proclama che la guerra va fatta. Noi crediamo che la guerra sia ingiusta e ne siamo sempre più convinti dopo dieci anni che scontiamo -giorno per giorno- le conseguenze e i risultati dell’ultimo conflitto. Noi siamo più convinti di prima che la guerra sia ingiusta, e siamo contro di essa ancor più di prima. Io sarei contento di essere condannato al patibolo, se potessi dire all’umanità: «State in guardia. Tutto ciò che vi hanno detto, tutto ciò che vi hanno promesso era una menzogna, era un’illusione, era un inganno, era una frode, era un delitto. Vi hanno promesso la libertà. Dov’è la libertà? Vi hanno promesso la prosperità. Dov’è la prosperità? Dal giorno in cui sono entrato a Charlestown, sfortunatamente la popolazione del carcere è raddoppiata di numero. Dov’è l’elevazione morale che la guerra avrebbe dato al mondo? Dov’è il progresso spirituale che avremmo raggiunto in seguito alla guerra? Dov’è la sicurezza di vita, la sicurezza delle cose che possediamo per le nostre necessità? Dov’è il rispetto per la vita umana? Dove sono il rispetto e l’ammirazione per la dignità e la bontà della natura umana? Mai come oggi, prima della guerra, si sono avuti tanti delitti, tanta corruzione, tanta degenerazione. Se ricordo bene, durante il processo, Katzmann ha affermato davanti alla giu-
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ria che un certo Coacci ha portato in Italia il denaro che, secondo la teoria della pubblica accusa, io e Sacco avremmo rubato a Braintree. Non abbiamo mai rubato quel denaro. Ma Katzmann, quando ha fatto questa affermazione davanti alla giuria, sapeva bene che non era vero. Sappiamo già che quell’uomo è stato deportato in Italia, dopo il nostro arresto, dalla polizia federale. Io ricordo bene che il poliziotto federale che lo accompagnava aveva preso i suoi bauli, prima della traduzione, e li aveva esaminati a fondo senza trovarvi una sola moneta. Ora, io dico che è un assassinio sostenere davanti alla giuria che un amico o un compagno o un congiunto o un conoscente dell’imputato o dell’indiziato ha portato il denaro in Italia, quando si sa che non è vero. Io non posso definire questo gesto altro che un assassinio, un assassinio a sangue freddo. Ma Katzmann ha detto anche qualcos’altro contro di noi che non è vero. Se io comprendo bene, c’è stato un accordo, durante il processo, con il quale la difesa si era impegnata a non presentare prove della mia buona condotta in Plymouth, e l’accusa non avrebbe informato la giuria che io ero già stato processato e condannato in precedenza, a Plymouth. A me pare che questo fosse un accordo unilaterale. Infatti, al tempo del processo di Dedham, anche i pali telegrafici sapevano che io ero stato processato e condannato a Plymouth: i giurati lo sapevano anche quando dormivano. Per contro, la giuria non aveva mai veduto né Sacco né me, e io penso che sia giusto dubitare che nessun membro della giuria avesse mai avvicinato prima del processo qualcuno che fosse in grado di dargli una descrizione sufficientemente pre-
Free Sacco Vanzetti è una serie grafica realizzata dal polacco Mieczyslaw Berman alla fine degli anni Venti, in equilibrio tra i suoi originari fotomontaggi costruttivisti e i successivi fotomontaggi satirici degli anni Trenta (Archivio Fabio Santin).
interrompendo per un attimo la sequenza cronologica, registriamo anche una miniserie televisiva italiana del 1977, a propria volta basata sulla medesima storia di Reginald Rose, trasmessa il dieci marzo: Sacco e Vanzetti, con la regia di Giacomo Colli e la recitazione di Achille Millo e Franco Graziosi.
Quindi, il regista Paul Roland ha firmato la produzione belga (in lingua francese) L’affaire Sacco et Vanzetti, del 1967, che si avvale della voce recitante di Henri Marteau e delle interpretazioni, nei panni dei due anarchici, di Richard Müller e Maurice Travail. Prima di segnalare tre documentari realizzati in tempi successivi, ai quali stiamo per approdare, torniamo ancora in Italia, dove le due puntate del film televisivo Sacco & Vanzetti sono andate in onda domenica tredici e lunedì quattordici novembre 2005 su Canale 5: pro-
duzione Mediaset, produttore Guido Lombardo, regia di Fabrizio Costa, interpreti Sergio Rubini e Ennio Fantastichini. Il documentario televisivo statunitense In Search of History: The True Story of Sacco and Vanzetti è del 2000; ancora statunitense, quello realizzato dal regista e sceneggiatore David Rothauser, The Diary of Sacco and Vanzetti, del 2004, è veicolato nelle sale cinematografiche. Altrettanto dicasi per il più recente Sacco and Vanzetti, del regista Peter Miller, dello scorso 2006, che si avvale di concentrati materiali d’archivio, visivi e documenti, tra i quali un intervento di Henry Fonda e un’intervista al folksinger Arlo Guthrie, figlio di Woody Guthrie, che ha dedicato anche una raccolta di ballate per Sacco e Vanzetti. Segnaliamo anche una intervista a Giuliano Montaldo, regista del film del 1971 che abbiamo appena ricordato, e annotiamo che le voci di Nicola Sacco e Bartolomeo Vanzetti sono, rispettivamente, di Tony Shalhoub e John Turturro.
A margine, annotiamo che nel film italiano Santa Maradona, di Marco Ponti (2001), il personaggio interpretato da Libero De Rienzo (Bart) si presenta come “Bartolomeo Vanzetti”.
IN MUSICA Musiche e parole di canzoni intitolate alla memoria di Nicola Sacco e Bartolomeo Vanzetti fanno parte del repertorio internazionale della canzone d’autore e confortano le coscienze su una vicenda che non va assolutamente dimenticata. Anzitutto segnaliamo la raccolta di Woody Guthrie, uno dei più acclamati folksinger americani, cui abbiamo accennato poche righe fa, scritta tra il 1946 e 1947 (ma i brani sono datati 1945-46) e pubblicata in album nel 1964, con un inserimento addizionale di Pete Seeger, altro folksinger di straordinaria statura. Sull’onda lunga dell’Antologia di Spoon River di Edgar Lee Masters, e in declinazione indirizzata alla storia dei due italiani vittime di una clamorosa e riconosciuta ingiustizia, Ballads of Sacco &
BARTOLOMEO VANZETTI IN TRIBUNALE cisa della nostra condotta. La giuria non sapeva niente, dunque, di noi due. Non ci aveva mai veduto. Ciò che sapeva erano le cattiverie pubblicate dai giornali quando fummo arrestati e il resoconto del processo di Plymouth. Io non so per quale ragione la difesa avesse concluso un simile accordo, ma so molto bene perché lo aveva concluso Katzmann: perché sapeva che metà della popolazione di Plymouth sarebbe stata disposta a venire in tribunale per dire che in sette anni vissuti in quella città non ero mai stato visto ubriaco, che ero conosciuto come il più forte e costante lavoratore della comunità. Mi definivano “il mulo”, e coloro che conoscevano meglio le condizioni di mio padre e la mia situazione di scapolo si meravigliavano e mi dicevano: «Ma perché lei lavora come un pazzo, se non ha né figli né moglie di cui preoccuparsi?». Katzmann poteva dunque dirsi soddisfatto di quell’accordo. Poteva ringraziare il suo Dio e stimarsi un uomo fortunato. Eppure, egli non era soddisfatto. Infranse la parola data e disse alla giuria che io ero già stato processato in tribunale. Io non so se ne è rimasta traccia nel verbale, se è stato omesso oppure no, ma io l’ho udito con le mie orecchie. Quando due o tre donne di Plymouth vennero a testimoniare, appena la prima di esse raggiunse il posto ove è seduto oggi quel gentiluomo -la giuria era già al suo posto- Katzmann chiese loro se non avesse già testimoniato in precedenza per Vanzetti. E alla loro risposta affermativa replicò: «Voi non potete testimoniare». Esse lasciarono l’aula. Dopo di che testimoniarono ugualmente. Ma nel frattempo egli disse alla giuria che io ero già stato processato in precedenza. È con que-
sti metodi scorretti che egli ha distrutto la mia vita e mi ha rovinato. Si è anche detto che la difesa avrebbe frapposto ogni ostacolo pur di ritardare la prosecuzione del caso. Non è vero, e sostenerlo è oltraggioso. Se pensiamo che l’accusa, lo Stato, hanno impiegato un anno intero per l’istruttoria, ciò significa che uno dei cinque anni di durata del caso è stato preso dall’accusa solo per iniziare il processo, il nostro primo processo. Allora la difesa fece ricorso a lei, giudice Thayer, e lei aspettò a rispondere; eppure io sono convinto che aveva già deciso: fin dal momento in cui il processo era finito, lei aveva già in cuore la risoluzione di respingere tutti gli appelli che le avremmo rivolti. Lei aspettò un mese o un mese e mezzo, giusto per render nota la sua decisione alla vigilia di Natale, proprio la sera di Natale. Noi non crediamo nella favola della notte di Natale, né dal punto di vista storico né da quello religioso. Lei sa bene che parecchie persone del nostro popolo ci credono ancora, ma se noi non ci crediamo ciò non significa che non siamo umani. Noi siamo uomini, e il Natale è dolce al cuore di ogni uomo. Io penso che lei abbia reso nota la sua decisione la sera di Natale per avvelenare il cuore delle nostre famiglie e dei nostri cari. Mi dispiace dir questo, ma ogni cosa detta da parte sua ha confermato il mio sospetto fino a che il sospetto è diventato certezza. Per presentare un nuovo appello, in quel periodo, la difesa non prese più tempo di quanto ne avesse preso lei per rispondere. Ora non ricordo se fu in occasione del secondo o del terzo ricorso, lei aspettò undici mesi o un anno prima di risponderci; e io sono sicuro che aveva già deciso di rifiutarci un nuovo processo
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Vanzetti si compone di dodici motivi, undici originari di Woody Guthrie più quello addizionale di Pete Seeger (i testi si possono facilmente rintracciare in Rete): The Flood and the Storm, I Just Want to Sign Your Name, Old Judge Thayer, Red Wine, Root Hog and Die, Suasson Lane, Two Good Men, Vanzetti Letter, Vanzetti’s Rock, We Welcolme to Heaven, You Sould of Boston e, infine, Sacco’s Letter to His Son (appunto, lettera di Nicola Sacco al figlio Dante, della quale riferiamo in un riquadro pubblicato a pagina 62, musicata da Pete Seeger; in tempi recenti, la stessa lettera è stata elaborata dal gruppo italiano Le Tormenta, che canta La lettera; ancora, anticipiamo che la terza parte della Ballata che fa da colonna sonora al film di Giuliano Montaldo, del 1971, prende a propria volta spunto da questa lettera). Dal 2001, un Sacco & Vanzetti è nel repertorio del gruppo ska statunitense (da Miami, Florida) Against All Authority. E intensa, emozionante e coin-
volgente è Sacco e Vanzetti nell’album Il fischio del vapore (2002), con il quale Francesco De Gregori e Giovanna Marini sono tornati alle proprie origini (nell’album, motivi espliciti come L’attentato a Togliatti, Il feroce monarchico Bava, Lamento per la morte di Pasolini, Saluteremo il signor padrone e Bella ciao). Il testo: Il ventidue di agosto a Boston in America Sacco e Vanzetti van sulla sedia elettrica. E con un colpo di elettricità All’altro mondo li voller mandà. Circa le undici e mezzo giudici e gran corte Entran poi tutti quanti nella cella della morte: «Sacco e Vanzetti state a sentir Dite se avete qualcosa da dir». Entra poi nella cella il bravo confessore Domanda a tutti e due la santa religione. Sacco e Vanzetti con grande espression
«Noi moriremo senza religion». E tutto il mondo intero reclama la loro innocenza Ma il presidente Fuller non ebbe più clemenza «Siano essi di qualunque nazion Noi li uccidiamo con grande ragion», E tutto il mondo intero reclama la loro innocenza Ma il presidente Fuller non ebbe più clemenza. Addio amici in cor la fé Viva l’Italia e abbasso il Re. In assoluto, sono però universalmente noti i motivi che hanno accompagnato la colonna sonora del film di Giuliano Montaldo, del 1971, composti da Ennio Morricone. Prima di tutto, Here’s to you, cantata dalla folksinger Joan Baez (successivamente, sulle stesse note, Gianni Morandi ha cantato Ho visto un film). In crescendo vocale, è ripetuto più volte lo stesso periodo, che si richiama all’arringa finale di Bartolomeo Vanzetti, pure inserita in un poster disegnato da Ben Shahn,
che visualizziamo a pagina 64 (Vi rendo omaggio Nicola e Bart / Per sempre riposate qui nei nostri cuori / Il momento estremo e finale è vostro / Quell’agonia è il vostro trionfo!): Here’s to you Nicola and Bart Rest forever here in our hearts The last and final moment is yours That agony is your triumph! La colonna sonora del film di Giuliano Montaldo, interpretato dai corregionali Riccardo Cucciolla e Gian Maria Volonté, presenta quindi La ballata di Sacco e Vanzetti (in inglese, The Ballad of Sacco and Vanzetti), scomposta in tre parti, musicate da Ennio Morricone con testi di Joan Baez: la seconda parte è ispirata dalle lettere dal carcere di Bartolomeo Vanzetti al padre, la terza dalla già ricordata lettera di Nicola Sacco al figlio Dante. Per non dimenticare. Mai. Maurizio Rebuzzini Ricerca d’archivio di Ciro Rebuzzini
BARTOLOMEO VANZETTI IN TRIBUNALE prima ancora di consultare l’inizio dell’appello. Lei prese un anno, per darci questa risposta, o undici mesi. Cosicché appare chiaro che, alla fine, dei cinque anni, due se li prese lo Stato: uno trascorse dal nostro arresto al processo, l’altro in attesa di una risposta al secondo o al terzo appello. Posso anzi dire che, se vi sono stati ritardi, essi sono stati provocati dall’accusa e non dalla difesa. Sono sicuro che se qualcuno prendesse una penna in mano e calcolasse il tempo preso dall’accusa per istruire il processo e il tempo preso dalla difesa per tutelare gli interessi di noi due, scoprirebbe che l’accusa ha preso più tempo della difesa. C’è qualcosa che bisogna prendere in considerazione a questo punto, ed è il fatto che il mio primo avvocato ci tradì. Tutto il popolo americano era contro di noi. E noi abbiamo avuto la sfortuna di prendere un secondo legale in California: venuto qui, gli è stato dato l’ostracismo da voi e da tutte le autorità, perfino dalla giuria. Nessun luogo del Massachusetts era rimasto immune da ciò che io chiamo il pregiudizio, il che significa credere che il proprio popolo sia il migliore del mondo e che non ve ne sia un altro degno di stargli alla pari. Di conseguenza, l’uomo venuto dalla California nel Massachusetts a difendere noi due doveva essere divorato, se era possibile. E lo fu. E noi abbiamo avuto la nostra parte. Ciò che desidero dire è questo: il compito della difesa è stato terribile. Il mio primo avvocato non aveva voluto difenderci. Non aveva raccolto testimonianze né prove a nostro favore. I verbali del tribunale di Plymouth erano una pietà. Mi è stato detto che più di metà erano stati smarriti. Cosicché la difesa aveva un tre-
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mendo lavoro da fare, per raccogliere prove e testimonianze, per apprendere quel che i testimoni dello Stato avevano sostenuto e controbatterli. E considerando tutto questo, si può affermare che se anche la difesa avesse preso doppio tempo dello Stato, ritardando così il caso, ciò sarebbe stato più che ragionevole. Invece, purtroppo, la difesa ha preso meno tempo dello Stato. Ho già detto che non soltanto non sono colpevole di questi due delitti, ma non ho mai commesso un delitto in vita mia: non ho mai rubato, non ho mai ucciso, non ho mai versato una goccia di sangue, e ho lottato contro il delitto, ho lottato sacrificando anche me stesso per eliminare i delitti che la legge e la chiesa ammettono e santificano. Questo è ciò che volevo dire. Non augurerei a un cane o a un serpente, alla più miserevole e sfortunata creatura della Terra, ciò che ho avuto a soffrire per colpe che non ho commesso. Ma la mia convinzione è un’altra: che ho sofferto per colpe che ho effettivamente commesso. Sto soffrendo perché sono un radicale, e in effetti io sono un radicale; ho sofferto perché sono un italiano, e in effetti io sono un italiano; ho sofferto di più per la mia famiglia e per i miei cari che per me stesso; ma sono tanto convinto di essere nel giusto che se voi aveste il potere di ammazzarmi due volte, e per due volte io potessi rinascere, vivrei di nuovo per fare esattamente ciò che ho fatto finora. Ho finito. Grazie. Bartolomeo Vanzetti (Dedham, Massachusetts, Usa; 9 aprile 1927)