Mensile, 5,70 euro, Poste Italiane SpA - Spedizione in abbonamento postale - D.L. 353/2003 (convertito in Legge il 27-02-2004, numero 46), articolo 1, comma 1 - DCB Milano
ANNO XIV - NUMERO 134 - SETTEMBRE 2007
Reportage IDENITITÀ INCERTE
Zoom 18x FUJIFILM FINEPIX S8000fd
GIAN PAOLO BARBIERI CELEBRAZIONE DI UN GRANDE
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VENTICINQUE ANNI. La stagione che sta per cominciare, prendendo avvio con la prima lezione del corso di fotografia (lunedì quindici ottobre), si propone come la venticinquesima del Fotofestival, annualmente allestito dal Fotoclub che si richiama a Foto Corbetta di Albavilla, in provincia di Como (via don Felice Ballabio 11; 031-627337; www.fotootticacorbetta.it). In precedenti occasioni, ci siamo già soffermati su questa particolare personalità commerciale, per segnalarne interpretazioni affascinanti (FOTOgraphia, dicembre 2001 e maggio 2006). L’attività merceologica di questo negozio si accompagna, quindi, con il citato Fotofestival, che dall’autunno si estende a tutta la primavera successiva: istituzionalmente, serate di incontro e proiezione e gite collettive verso situazioni di concentrato interesse fotografico. Per celebrare i venticinque anni di attività è stato realizzato un pieghevole che, su sei facciate, richiama momenti focali e personaggi che li hanno animati. Inesorabilmente, il tempo scorre. Venticinque anni sono passati per tutti («Un quarto di secolo, ti dà da pensare», li conteggia Marilyn Monroe nel cinematografico A qualcuno piace caldo), e alcuni amici di un tempo non sono più tra noi. Così, sfogliando questo autentico album dei ricordi, i nostri personali si accodano a quelli di Foto Corbetta di Albavilla: ritroviamo il compianto Gianni Baumberger, GiBi nel mondo fotografico, accanto a John Phillips, il fotoreporter del Summit di Yalta (!); incontriamo un Maurizio Galimberti agli esordi del proprio luminoso percorso creativo; ci soffermiamo su utensili fotografici ormai abbandonati (ingranditori, lavagne luminose, carta chimica). Soprattutto, ogni fotografia dispensa sorrisi e serenità. Anche questi e questa, ricordiamo. Magìa e incanto della fotografia, che sarebbe capace di unire più di quanto possa dividere. Ma a chi lo facciamo sapere, se anche tra queste fotografie intravediamo più di una ipocrisia? Ancora: magìa e incanto della fotografia, che rappresenta più di quanto si possa credere che soltanto raffiguri. Comunque, congratulazioni e felice anniversario. Come si dice, cento ancora di questi anni. M.R.
Quanto è strano passare la maggior parte del nostro tempo con fantasie di altri. Per tutti ci sono mille modi di evadere dalla realtà: libri, film, televisione, riviste, giochi, concerti. In definitiva, tutti momenti intesi a sostituire la realtà, una parvenza di vita reale. Un mondo di fantasia al posto di uno in carne e ossa.
Copertina Finalmente! Milano celebra Gian Paolo Barbieri in una consistente personale che ne consacra lo straordinario valore fotografico. Da settembre, a Palazzo Reale, in piazza del Duomo. Ne riferiamo da pagina 34 (qui, una fotografia di moda del 1980, per Vogue Italia; modella Apollonia)
3 Fumetto Dalla copertina di Un regalo per Pelucco, album illustrato per la prima infanzia della serie I cuccioli, dell’Editrice Cenisio (numero 1/4, del 1987)
7 Editoriale È proprio il caso. Anzi, il Caso: fondamentale discriminante esistenziale, con proiezioni sull’intera espressività fotografica. E poi, caso e necessità
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8 Giovani a Beirut Se n’è già parlato molto. Un’altra lettura e decifrazione della fotografia di Spencer Platt, World Press Photo of the Year 2006 (FOTOgraphia, aprile e maggio 2007) di Piero Raffaelli
10 Notizie Attrezzature, vicende e altre segnalazioni
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14 Donne dell’Islam Fotoreportage di Alexandra Boulat (Agenzia VII), in mostra alla Galleria Grazia Neri di Milano. Viaggio nel quotidiano femminile di giovani donne che si confrontano ogni giorno con l’Islam, il fondamentalismo, la guerra, la violenza domestica
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17 Il mito del viaggio Attraverso pittura storica e fotografia dalle origini, Anatomia dell’irrequietezza indaga le molteplici personalità del viaggiare (magari, anche alla scoperta di se stessi). A cura di Luca Beatrice, in mostra a Perugia
20 Reportage 46
Appunti e attualità del fotogiornalismo internazionale A cura di Lello Piazza
. SETTEMBRE 2007
RRIFLESSIONI IFLESSIONI,, OSSERVAZIONI OSSERVAZIONI EE COMMENTI COMMENTI SULLA SULLA FFOTOGRAFIA OTOGRAFIA
22 Scene di vita
Anno XIV - numero 134 - 5,70 euro
Agile monografia di Martin Parr, pubblicata da Phaidon: avvicinamento e approfondimento della sua opera
DIRETTORE
RESPONSABILE
Maurizio Rebuzzini
IMPAGINAZIONE
24 Odissea quotidiana In mostra a Modena una personale di Lewis Baltz, la cui documentazione fotografica rivela il rapporto tra i luoghi della vita e il sapere razionale della tecnologia
Gianluca Gigante
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REDAZIONE Angelo Galantini
FOTOGRAFIE Rouge
SEGRETERIA Maddalena Fasoli
27 Piemonte Industria
HANNO
Mostra e volume-catalogo che raccontano Un secolo di lavoro in fotografia. Cento immagini provenienti dagli archivi di aziende della regione di Niccolò Biddau
34 Tracce indelebili Ancora, finalmente! Ed era ora! Le sontuose e autorevoli sale del Palazzo Reale di Milano celebrano la fotografia di Gian Paolo Barbieri, uno dei più significativi autori contemporanei. Tra professione e ricerca di Maurizio Rebuzzini
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Redazione, Amministrazione, Abbonamenti: Graphia srl, via Zuretti 2a, 20125 Milano; 02-66713604, fax 02-66981643; graphia@tin.it.
40 Identità incerte Un recente indirizzo del fotogiornalismo si contorce sulla sistematica proposizione di ritratti totalmente insignificanti: perché non rappresentano, né visualizzano nulla. Diversi sono altri casi storici di Maurizio Rebuzzini Ricerca iconografica di Ciro Rebuzzini
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● FOTOgraphia è venduta in abbonamento. ● FOTOgraphia è una pubblicazione mensile di Graphia srl, via Zuretti 2a, 20125 Milano. Registrazione del Tribunale di Milano numero 174 del Primo aprile 1994. Poste Italiane SpA - Spedizione in abbonamento postale - D.L. 353/2003 (convertito in Legge il 27-02-2004, numero 46), articolo 1, comma 1 - DCB Milano. ● A garanzia degli abbonati, nel caso la pubblicazione sia pervenuta in spedizione gratuita o a pagamento, l’Editore garantisce la massima riservatezza dei dati forniti dagli abbonati e in suo possesso, fatto diritto, in ogni caso, per l’interessato di richiederne gratuitamente la rettifica o la cancellazione ai sensi della legge 675/96.
50 Paesaggi urbani Fiamma Rossa Secchi osserva la città con un occhio educato alla visione di inevitabili (?) contraddizioni esistenziali. Ossessiva e invadente presenza di automobili di Angelo Galantini
55 In Principio (2002-07)
COLLABORATO
Pino Bertelli Niccolò Biddau Antonio Bordoni Maria Teresa Ferrario Loredana Patti Lello Piazza Piero Raffaelli Franco Sergio Rebosio Ciro Rebuzzini Filippo Rebuzzini Fiamma Rossa Secchi Zebra for You
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Sebastião Salgado per Illy: cultura del caffè
58 Zoom 18x!
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Fujifilm FinePix S8000fd: da 27 a 486mm (equivalenti) di Antonio Bordoni
Rivista associata a TIPA
60 Agenda Appuntamenti del mondo della fotografia
64 Ugo Mulas Sguardi su un poeta della luce di Pino Bertelli
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ommentando e presentando la selezione delle Vues n° 0, del francese Jean-Christophe Béchet, lo scorso maggio si siamo allineati con la sua idea del Caso. In particolare, è stato sottolineato il Caso che genera i prefotogrammi della pellicola 35mm, velando ed esponendo in modo accidentale e fortuito la porzione iniziale dello stesso film, al momento del suo caricamento in macchina (fotografica) e avanzamento verso il primo fotogramma utile. Improprio in quella sede, oggi l’approfondimento del Caso merita ulteriori considerazioni fotografiche. Prima, è necessaria una introduzione più ampia. A tutti gli effetti, il Caso è una delle componenti essenziali e discriminanti dell’esistenza individuale: tutto quanto succede nella vita di ognuno, accade per Caso. In leggerezza, citiamo la trama del cinematografico Sliding Doors, film inglese del 1998, del regista Peter Howitt, i cui due binari narrativi si basano su una casualità che cambia radicalmente la vita della protagonista, che riesce o meno a salire su un vagone della metropolitana in partenza. Con profilo assolutamente più alto, ci riferiamo al princìpio di indeterminazione di Werner Heisenberg, formulato nel 1927 e riferito alla fisica quantistica, che sostiene che non è possibile conoscere simultaneamente posizione e quantità di un dato oggetto con precisione arbitraria. Considerato una delle chiavi di volta della meccanica quantistica, oltre a quantificare esattamente l’imprecisione, il princìpio non si applica soltanto alla posizione e alla quantità di moto, ma a qualsiasi coppia di variabili canonicamente coniugate. Addirittura, nella vita quotidiana. Specificamente, possiamo approdare anche alla fotografia, estendendo a tutta la fotografia il princìpio del Caso, al quale Jean-Christophe Béchet attribuisce la paternità assoluta del riconosciuto valore estetico dei propri prefotogrammi (a ciascuno, i propri). Ovvero, trasversalmente alle diverse capacità di comunicazione e visualizzazione, proprie di ciascun autore e identificatorie della sua personalità espressiva, la fotografia è attraversata dal Caso, che appartiene a ciascuna immagine: appunto, realizzata in base e dipendenza a una fortuita combinazione di casi che si sono succeduti e assommati. Per Caso, il fotografo è in un dato luogo in un dato momento; per Caso, ancora, è nello spirito adatto a coglierne il significato; per Caso, sempre, allinea i sentimenti che trasformano il solo guardare nel saper vedere. Ovvero: la fotografia dovrebbe celebrare il Caso, come ispiratore della propria intensità. Il concetto di Caso distrugge ogni altra presunzione: la creatività non è più solo rivelazione, ma addirittura creazione di novità assoluta. In Il caso e la necessità (Mondadori, 1970), Jacques Monod sintetizza due personalità del Caso: nel significato operativo, si considera l’indeterminazione del risultato; in quello essenziale si verificano coincidenze assolute, che «risultano dall’intersezione di due sequenze causali totalmente indipendenti l’una dall’altra». (per caso) Maurizio Rebuzzini
JEAN-CHRISTOPHE BÉCHET:
DA
VUES N° 0
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Per Caso? Per Caso!
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F
GIOVANI A BEIRUT
Forse si è parlato e scritto fin troppo a proposito di quella spider a Beirut, tentando di darne, senza capire, letture contrastanti che si escludevano a vicenda: quei ragazzi sono dei turisti morbosamente curiosi di disgrazie altrui... no, quei ragazzi sono indigeni alla ricerca della loro casa distrutta... Solo di recente, molti mesi dopo la sua pubblicazione, mi è sembrato di capire quella fotografia, grazie a un articolo di Gad Lerner (La Repubblica del ventun luglio), che a Beirut ci è nato e ci è tornato quest’estate. Durante una cena con amici e conoscenti occasionali in un ristorante di lusso del quartiere cristiano, Gad Lerner racconta d’aver appena visitato il quartiere sciita bombardato di recente dagli israeliani: «Ti hanno accompagnato in visita a Ground Zero?», ironizza una giornalista. «Ma come ha potuto?», chiede un’altra commensale, scandalizzata. «Signora -replica Gad Lerner- quello è un quartiere della sua città; non lo conosce forse?». «Mai messo piede in quel posto, sono un’europea, io! Cosa c’entra quella gente incivile col Libano?». Come in altre città-mosaico, Salonicco, Istanbul, Smirne, Aleppo, Haifa, Alessandria, anche a Beirut,
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spiega Gad Lerner, i connotati millenari del Mediterraneo sono ormai stravolti: la ricchezza levantina della città in cui si parlava arabo, ebraico e francese, e si mescolavano in pace popoli di culture e religioni diverse, è stata schiacciata dalla nuova barbarie, che prepara tutti all’intolleranza reciproca. Dove la vera ricchezza era l’identità multipla, ora ci si prepara a semplificarla con la pulizia etnica. A Beirut rimane solo la “ricchezza” (il denaro) di «chi vive nel lusso e non riconosce il volto agonizzante del paese che ama». Gad Lerner non cita la fotografia della spider, ma certo l’ha vista. Quei ragazzi della spider, giovani, belli, eleganti, lavati, stirati, accessoriati come si conviene, sono cittadini d’una capitale del lusso del Mediterraneo, e al tempo stesso sono turisti stranieri, sono eredi della multipla identità levantina, ma si sono già dati una ripulita, probabilmente vogliono apparire diversi dai più sfigati palestinesi, con cui sono forse imparentati. Insomma, quei ragazzi si trovano nella loro città, eppure hanno sconfinato. Questa fotografia ci ha mostrato la complessità di Beirut, ma noi non l’abbiamo compresa, perché la nostra lettura si basa su stereotipi sem-
plificati (cioè su una forma di pulizia etnica applicata all’immagine). La stessa confezione dei giornali si fonda su stereotipi, perché il mondo della cronaca e delle “cattive notizie” non deve disturbare il mondo della pubblicità e dei consumi spensierati. I giornali devono evitare che la propensione a comprare anche le cose più inutili frivole o lussuose venga turbata da vergogna, da sensi di colpa, da eccessiva sim-patia per poveri e sfortunati o da melanconie apocalittiche: i paradisi artificiali della pubblicità devono essere tutelati. La Valle del Mulino Bianco è una valle assoluta, senza valli alternative. Negli Stati Uniti, il giornale o la televisione che ospita un servizio sulla guerra in Iraq deve poi affrontare quello che con bell’eufemismo definiscono un “commercial problem”. Gli stessi file di fotografie relative al lusso o alla morte, alla guerra o alla pace sono stilisticamente connotati da stereotipi diversi: la storia della fotografia li ha codificati. Eppure, nel mondo in cui tutti viviamo tutte le strade si intersecano, basta un giretto in auto per sconfinare; via Triboniano o via Anelli sono vicine. E Pantelleria è anche la nostra spiaggia. Piero Raffaelli
World Press Photo of the Year 2006 (premio assegnato la scorsa primavera; FOTOgraphia, aprile 2007), Giovani libanesi attraversano in auto un quartiere a sud di Beirut devastato dai bombardamenti, il primo giorno di cessate-il-fuoco tra Israele e l’ala politica di Hezbollah (15 agosto), di Spencer Platt (Usa, Getty Images), ha successivamente sollevato polemiche per la diversa identificazione dei soggetti. Ne abbiamo tempestivamente riferito a maggio: secondo la municipalità di Beirut, non “turismo di guerra”, ma apprensione per le sorti delle proprie abitazioni. Ora, Piero Raffaelli ne dà un’ulteriore lettura e decifrazione, sulle quali ci allineiamo.
COLLOCAZIONI ESTREME. Impegnata nella distribuzione di elementi infrastrutturali della fotografia, non solo professionale ma soprattutto professionale, Bogen Imaging Italia ha acquisito la rappresentanza ABC Products, di Monaco di Baviera. Si tratta di una differenziata linea di sostegni e supporti per strumenti cinematografici e video, con particolare riguardo ai sistemi a giraffa con comando remoto, carrelli, teste motorizzate e sistemi di bilanciamento. Leader tecnologico grazie a un costante investimento in ricerca e sviluppo, di nuove soluzioni come di nuovi materiali, ABC Products propone e offre soluzioni operative estremamente pratiche, oltre che sostanzialmente innovative. Ampia, la gamma di supporti progettati a misura di ogni strumento di ripresa cinematografica e video, dai più compatti camcorder alle sofisticate camere per produzione ENG e Studio. (Bogen Imaging Italia, via Livinallongo 3, 20139 Milano).
CANON A EURO 2008. Leader mondiale nella tecnologia dell’immagine, Canon è sponsor ufficiale del Campionato Europeo di Calcio Uefa Euro 2008, che avrà luogo in Austria e Svizzera nel giugno del prossimo anno.
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le partite, e agli Uefa Euro Experience (eventi promozionali itineranti), che viaggeranno attraverso Austria e Svizzera durante il Campionato. (Canon Italia, via Milano 8, 20097 San Donato Milanese MI).
HARRY POTTER: CINEMA DIGITALE. Lo scorso undici luglio, a Foligno e Trieste, due installazioni D-Cinema Nec hanno accompagnato la più recente avventura cinematografica della saga di Harry Potter: Harry Potter e l’Ordine della Fenice. Il Supercinema Clarici di Foligno, in provincia di Perugia, e il Cinema Ambasciatori di Trieste sono entrati nel mondo del cinema digitale con il proiettore digitale Nec NC2500S, accoppiato a un server D-Cinema Kodak JMN3000, sul quale il film è stato caricato per essere poi riprodotto e inviato al videoproiettore per la decodifica finale e la proiezione. Con i suoi 26.000 ANSI lumen, il proiettore Nec NC2500S è il più potente della propria famiglia, predisposta per garantire le massime prestazioni anche nel caso di proiezioni 3D stereoscopiche. Appunto la tecnologia 3D stereoscopica rappresenterà uno dei punti di forza del cinema digitale nel prossimo futuro, ma, a causa dei filtri ottici che devono essere utilizzati, a parità di dimensioni dello schermo, richiede una maggiore luminosità rispetto una tradizionale proiezione standard. In questo
SUPERCINEMA CLARICI (FOLIGNO PG)
L’accordo rafforza la storica collaborazione di Canon con il calcio, che dura ormai da oltre trent’anni e che ha visto la partecipazione dell’azienda in numerosi appuntamenti internazionali. Attualmente, Canon è sponsor ufficiale delle finali di Coppa Uefa, della Supercoppa Uefa, della Mnt Coppa d’Africa, che si è svolta in Ghana, e del Campionato di calcio russo (Russian Premier Football League). David Taylor, segretario generale di Uefa, ha commentato l’accordo: «Canon ha una lunga tradizione di partnership con questo sport, e in particolare con i Campionati Europei di Calcio Uefa. Siamo particolarmente felici che l’azienda sostenga Uefa per le importanti e spettacolari partite che avranno luogo in Austria e Svizzera». Hajime Tsuruoka, Presidente e CEO di Canon Europe, ha aggiunto: «Il campionato europeo Uefa Euro 2008 ci fornisce un’altra meravigliosa opportunità di superare i confini nazionali e culturali per promuovere -attraverso i prodotti Canon- lo sport più popolare del mondo. Il sostegno di Canon a questa entusiasmante competizione sottolinea il nostro costante impegno verso il calcio e verso i milioni di tifosi che in tutto il mondo amano questo sport». Per sostenere l’organizzazione dell’evento, Canon esporrà in alcuni Centri Media le sue più recenti soluzioni per il business. Inoltre, nei Centri Media degli stadi, Canon fornirà ai fotografi professionisti il proprio servizio di assistenza tecnica e noleggio di macchine fotografiche e obiettivi. Quindi, Canon parteciperà anche alle Official Fan Zones (aree dedicate ai tifosi), che verranno realizzate nelle otto città che ospiteranno
senso, il Nec NC2500S rappresenta la migliore soluzione disponibile sul mercato, grazie all’enorme potenza luminosa e al fatto di essere già stato testato con successo con tutti i sistemi 3D stereoscopici in commercio e di prossima introduzione. L’installazione del sistema è stata curata dalla società Prevost di Settimo Milanese, nell’hinterland del capoluogo, distributore dei proiettori D-Cinema Nec in Italia e azienda da sempre impegnata nel mondo del cinema tradizionale e nella produzione di proiettori 35mm, che proprio nel corrente 2007 festeggia i propri cento anni di attività entrando nell’era del cinema digitale (www.nec-display-solutions.it).
STAMPA ONLINE. Da fine luglio è disponibile la piattaforma italiana del servizio di stampa fotografica online Snapfish by HP. Nato nel 2000, e già attivo in quindici paesi europei, negli Stati Uniti, in Australia e in Nuova Zelanda, Snapfish è da tempo leader in questo mercato, e punta a diventare la prima e unica piattaforma per la stampa online autenticamente globale. Il servizio è dedicato agli appassionati di fotografia digitale, alla ricerca di un modo facile e conveniente per stampare i propri scatti migliori. Registrandosi al sito www.snapfish.it è possibile caricare le proprie fotografie e ordinarne la stampa in diversi formati, a prezzi competitivi. Inoltre, chi desidera condividere le immagini più belle con parenti e amici ha la
possibilità di creare album fotografici personali e usufruire del servizio di archiviazione online in maniera illimitata e gratuita: inviando semplicemente una mail ai propri contatti con un link dedicato e protetto. La diffusione dei social network e l’affermarsi del Web 2.0, basati sulla forte interattività online degli utenti che vivono Internet come un’estensione della propria personalità, hanno sicuramente favorito l’inarrestabile crescita di Snapfish. Basti pensare che, a livello internazionale, il servizio ha superato i quaranta milioni di utenti registrati e che più di cinque milioni di fotografie digitali sono caricate ogni giorno sui siti Snapfish nei vari paesi. Oltre la stampa di copie in molteplici formati (dal più piccolo 9x13cm al poster 50x75cm), su www.snapfish.it è possibile realizzare un’ampia gamma di “foto regali”, creando fotolibri, magliette, tazze, cuscini, grembiuli e puzzle con le proprie immagini preferite. Grande trasparenza è offerta altresì dai costi di spedizione, che sono fissi e non variano con l’aumentare delle copie ordinate, né da un’area geografica all’altra: 2,95 euro per le fotografie e 3,95 euro per i poster o i “foto regali”. (HP / Hewlett-Packard Italiana, via Di Vittorio 9, 20063 Cernusco sul Naviglio MI).
NOKIA ACQUISISCE TWANGO. Per offrire possibilità illimitate di media sharing, condividi fotografie, video e altri contenuti multimediali con qualsiasi dispositivo collegato, Nokia ha acquisito la piena proprietà di Twango (www.twango.com), azienda che offre servizi di social network. Grazie a questa acquisizione, Nokia è in grado di offrire un modo semplice e immediato per condividere i propri file multimediali direttamente dal proprio computer o dispositivo mobile. Oltre ad acquisirne la proprietà, con questo accordo Nokia
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può avvalersi di un team con una grande esperienza nel campo del social network e dei servizi Internet. «L’acquisizione di Twango rappresenta un significativo passo avanti nel nostro modo di concepire i servizi Internet capaci di fornire accesso informazioni e contenuti legati al mondo dell’entertainment e social network: sempre, ovunque, da qualsiasi dispositivo connesso e nel modo desiderato. Possediamo una suite illimitata per l’esperienza multimediale, che già comprende musica, navigazione e giochi, e che, grazie all’acquisizione di Twango, si arricchisce di fotografie, video e una grande varietà di documenti», dichiara Anssi Vanjoki, Executive Vice President e General Manager, Multimedia, Nokia. «Un computer multimediale Nokia Serie N, sempre collegato e sempre a portata di mano, abbinato ai servizi di media sharing offerti da Twango, offrirà nuovi modi entusiasmanti per creare e godere di ricche esperienze multimediali in tempo reale». Azienda fondata da un gruppo di ex dipendenti della “prima” Microsoft, Twango ha sede Redmond, nello Stato di Washington, Stati Uniti. Grazie all’estrema versatilità della piattaforma di Twango, è estremamente facile organizzare, condividere e pubblicare contenuti multimediali personali come fotografie, video e audio clip. Diversamente da molti altri servizi di social networking, Twango supporta media di diverso genere e offre agli utenti una gamma completa di opzioni per gestire, condividere e utilizzare per scopi diversi i propri file multimediali personali. Twango consente l’utilizzo da postazioni fisse e dispositivi mobili, inoltre rappresenta un’ottima piattaforma per le applicazioni aziendali che si possono integrare con altri servizi web e che consentono il col-
legamento da remoto via mobile. (Nokia Italia, via Mozzoni 1.1, 20152, Milano).
Extreme Ducati Edition da 4GB. (Mamiya Trading, via Cesare Pavese 31, 20090 Opera Zerbo MI).
EFFICACE. Nell’ambito del rin-
A TUTTA VELOCITÀ. Con stile, oltre che efficienza (ci mancherebbe altro). La statunitense SanDisk, leader di mercato, ha realizzato una nuova chiavetta USB Extreme Ducati Edition, il cui aspetto ricalca perfettamente la livrea delle moto da corsa Ducati: telaio rosso lucido e cornice nera. Tributo al design italiano, che si allinea con i successi in pista del team, questa realizzazione rientra nell’ambito delle ormai infinite personalizzazioni, che hanno portato le chiavette USB a conformarsi ai gusti estetici e alle passioni del pubblico. È scontato che i “ducatisti”, come sono soliti appellarsi gli appassionati, apprezzeranno l’attenzione ai dettagli di questa nuova chiavetta San Disk USB Extreme Ducati Edition, inclusi il logotipo Ducati Corse sulla parte alta e la luce rossa della coda, che si illumina quando la chiavetta è inserita nella porta USB del computer. Nel concreto, la chiavetta ha una capacità pari a 4GB e una velocità di scrittura e lettura di 20MB per secondo. In altre parole, è velocissimo caricare la memoria della chiavetta con documenti, fotografie, musica e qualsiasi altro file digitale. Inoltre, la nuova chiavetta Extreme Ducati Edition è fornita del software RescuePro Deluxe, che permette di recuperare i dati accidentalmente cancellati. La chiavetta è compatibile con Windows 2000, Windows XP, Windows Vista, e le versioni 10.1.2 o superiori del sistema operativo Apple Mac. Allo stesso momento, sono state realizzate anche card di memoria CompactFlash Extreme Ducati Edition, nelle versioni da 4GB e 8GB, e SD Plus
novamento tecnologico di gamma, cui ci siamo riferiti lo scorso luglio, presentando la NV11, Samsung propone una sostanziosa Digimax L80, con sensore CCD di acquisizione di 1/1,8 di pollice ad alta risoluzione, da 8,1 Megapixel effettivi. Ne consegue una eccellente qualità fotografica, ricca di dettagli e nitidezza, e caratterizzata da una ottimale resa cromatica. In combinazione, lo zoom ottico 3x e l’ulteriore zoom digitale 10x, raggiungono un ingrandimento complessivo 30x, idoneo a stampe in generose dimensioni dell’inquadratura complessiva, piuttosto che di un suo dettaglio. La funzione di autoregolazione della sensibilità consente di impostare valori fino a 800 Iso equivalenti, in relazione e dipendenza delle condizioni luminose ambientali. A 800 Iso equivalenti, si può scattare senza flash anche in luce debole, senza pericolo di mosso. Sull’ampio display LCD da 2,5 pollici sono concentrate le visualizzazioni passive e attive della ripresa. La tecnologia proprietaria wide-view permette una visione adeguata anche da angolazioni estreme (fino a 180 gradi di inclinazione). La funzione di ripresa continua ad alta velocità della Samsung Digimax L80 consente di scattare fino a trenta immagini in sequenza rapida, tutte ad alta risoluzione. La consistente capacità video assicura filmati chiari e nitidi, come se fossero stati girati
con una videocamera. Per ottenere filmati ancor più precisi, la Digimax L80 utilizza il formato di compressione video ad alta risoluzione Mpeg-4, per filmati fino a tre-quattro volte più lunghi rispetto le condizioni standard. (Giliberto Fotoimportex, via Ticino 12, 50010 Osmannoro di Sesto Fiorentino FI).
ALTRA BAIONETTA ZEISS. Dopo la prima famiglia in montatura a baionetta Nikon F, disponibile dallo scorso autunno (FOTOgraphia, settembre 2006), Carl Zeiss propone gli stessi obiettivi in montatura a baionetta K, nata nel 1975 con il passaggio del sistema Pentax, allora Asahi Pentax, dall’innesto a vite 42x1 alla montatura a baionetta dei propri obiettivi intercambiabili. In tempi diversi, ma con medesime modalità, sia l’innesto a vite 42x1, sia la monta-
tura a baionetta Pentax K, poi soltanto K, sono state adottate da altre reflex 35mm, tanto da affermarsi entrambe come standard tecnici, fino a essere conteggiate come “universali”. Utilizzabili con una vasta serie di reflex, sia argentiche/analogiche (per pellicola 35mm ed esposizione 24x36mm), sia ad acquisizione digitale di immagini, gli obiettivi Carl Zeiss ZK conservano e propongono interpretazioni fotografiche classiche: a partire dalla messa a fuoco rigorosamente manuale. Comunque, la funzione “A” sulla ghiera dei diaframmi conserva i sistemi automatici dell’esposizione a priorità dei tempi di otturazione e programmati, oltre, ovviamente, l’automatismo a priorità dei diaframmi, delle reflex così predisposte. Gli obiettivi Carl Zeiss ZK sono sostanzialmente i medesimi
già disponibili nella precedente famiglia ZF (per reflex Nikon), e ripropongono affermate configurazioni ottiche che appartengono alla stessa storia evolutiva della tecnologia fotografica. Subito è disponibile la focale standard Carl Zeiss ZK Planar T* 50mm f/1,4. Entro la fine dell’anno, arriveranno le altre focali: Carl Zeiss ZK Distagon T* 25mm f/2,8, ZK Distagon T* 35mm f/2, ZK Planar T* 85mm f/1,4, ZK Makro-Planar T* 50mm f/2 e ZK Makro-Planar 100mm f/2. Come tutti gli obiettivi Carl Zeiss, un mito della fotografia,
le configurazioni ZK propongono una elevata qualità meccanica, ormai fuori dal comune, elicoidi di messa a fuoco a corsa lunga (per garantire la massima precisione nella messa a fuoco manuale), grande affidabilità e durata. Altrettanto efficaci, le prestazioni ottiche: perfetta omogeneità nella resa dei colori e ottima resa con gli attuali sensori ad acquisizione digitale di immagini. (Fowa, via Tabacchi 29, 10132 Torino).
DONNE DELL’ISLAM
È
È noto e risaputo che Alexandra Boulat, francese, nata a Parigi nel 1962, fotogiornalista dal 1989, è uno dei sette soci fondatori dell’Agenzia VII, creata nel 2001 (alla quale ci siamo riferiti in diverse occasioni, la più recente delle quali, lo scorso luglio). Forse è meno noto che sia figlia del grande fotografo Pierre Boulat, che lavorò per Life negli anni Cinquanta e Sessanta, mancato a Nemours, in Francia,
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nel gennaio 1998, a settantatré anni di età. Così, per stabilire connotati certi che, tra pubblico e privato, diano una chiave di lettura in qualche modo confortevole. La fotografia di Alexandra Boulat, che si muove leggera attraverso i campi minati dei terribili conflitti dei nostri giorni, è stata presente in tutte le collettive allestite dalla VII (Seven), tra le quali ricordiamo i due allestimenti italiani Da New York a
Rifugiata afgana a Quetta, nel distretto della provincia del Baluchistan, in Pakistan; ottobre 2001.
Kabul e Inviati di guerra, entrambi agli Scavi Scaligeri di Verona (FOTOgraphia, settembre 2002 e febbraio 2004). Ora è la volta di una mostra personale: Modest. Donne in Medioriente, alla Galleria Grazia Neri (presso l’Agenzia, che rappresenta Alexandra Boulat e la VII in Italia), da metà settembre: all’inaugurazione del diciassette, alle sei e mezza di sera, è annunciata la presenza dell’autrice.
tivi premi per il giornalismo (FOTO graphia, maggio 2007). La mostra presenta un viaggio nel quotidiano femminile di giovani donne che si confrontano ogni giorno con l’Islam, il fondamentalismo, la guerra, la violenza domestica. L’intenzione del progetto è descrivere lo spirito con il quale le donne dell’Islam affrontano la vita e le relazioni umane e non di lanciare una campagna per i diritti delle donne. L’intero lavoro è ispirato dal desiderio di arricchire la visione che in Occidente abbiamo delle donne musulmane, di mostrare il loro carattere e di condividere un momento del loro destino. Un omaggio alle donne di cultura araba: infatti, il termine Modest, che dà il titolo all’esposizione, identifica la richiesta da parte della società di esprimersi con attitudine pudica e riservata. Queste immagini sono parte integrante dell’intero impegno fotografico di Alexandra Boulat, che da
Si tratta di una intensa selezione dall’ampia serie che la fotografa sta costruendo dal 2003 e che testimonia una tenerezza espressiva unica (tanto che personalmente consideriamo Alexandra Boulat tra i più significativi fotogiornalisti dei nostri giorni): ritratti e storie di donne che vivono in Iran, Iraq, Afghanistan, Giordania, Siria, Gaza, West Bank. Pubblicato lo scorso 2006 dalla qualificata e autorevole Aperture di New York, come Women of the Middle East and Afghanistan, questo commovente reportage è stato appena segnalato dall’American Society of Magazine Editors (Asme), nell’ambito dei propri selet-
tempo registra e testimonia l’attualità internazionale per prestigiose riviste internazionali, tra le quali ricordiamo National Geographic, Time e Paris Match. Con sguardo lucido e commossa partecipazione, nella quale coinvolge l’osservatore, Alexandra Boulat ha documentato guerre e tematiche di ordine sociale e realizzato estesi reportage su paesi e popoli diversi. Tra i molti servizi svolti, ha raccontato la guerra nella ex-Yugoslavia, la caduta dei Talebani in Afghanistan, la guerra in Iraq e attualmente il conflitto israelo-palestinese. M.R. Alexandra Boulat: Modest. Donne in Medioriente. Galleria Grazia Neri, via Maroncelli 14, 20154 Milano; 02-625271, fax 02-6597839; www.grazianeri.com, photoagency@grazianeri.com. Dal 17 settembre al 13 ottobre; lunedì-venerdì 9,00-13,00 - 14,30-18,00, sabato 10,00-12,30 - 15,00-17,00. Con il contributo di Canon.
Rifugiate afgane a Quetta pregano per le vittime dei bombardamenti americani in Afghanistan.
ALEXANDRA BOULAT / VII / GRAZIA NERI (3)
Al tempio di Hazrat a Mazar-i-Sharif, nella giornata della donna.
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IL MITO DEL VIAGGIO
M
Momento culminante della rassegna annuale di attività culturali intitolata Il viaggio, promossa dall’Assessorato alle Politiche Culturali e Giovanili del Comune di Perugia, in collaborazione con la Regione Umbria, la mostra di arti visive Anatomia dell’irrequietezza, a cura di Luca Beatrice, si offre e propone come Il mito del viaggio dal Grand Tour all’era virtuale: a Palazzo della Penna, di Perugia, da fine settembre alla prima settimana di gennaio. L’esposizione, che deve il proprio nome alla celebre raccolta postuma di saggi e articoli dello scrittore inglese Bruce Chatwin, esperto d’arte e instancabile viaggiatore, è appunto dedicata al mito del viaggio attraverso diversi momenti della storia dell’arte, in età moderna e contemporanea. Punto di partenza, il Grand Tour settecentesco, che pittori e scrittori stranieri compivano come percorso di iniziazione e apprendimento, poiché nel
viaggio in Italia riscoprivano la tradizione classica filtrata dallo spirito romantico. Punto di arrivo, il futuro, i viaggi reali e virtuali dell’era globale nel Terzo millennio. A partire dalla mitologia antica, il viaggio altro non è che metafora della vita stessa. Infatti, può essere letto sia come momento concreto, di spostamento fisico nello spazio e nel tempo, ma anche in senso simbolico, come desiderio, tensione di conoscenza e ricerca, o, ancora, abbandono, esilio, perdita, allontanamento, riconquista del proprio io attraverso i luoghi dell’interiorità. Il significato recondito sta spesso nel
Gabriele Basilico: Monaco, 2005 (stampa ai sali d’argento, 100x130cm ciascuna; V.M. 21 Artecontemporanea, Roma).
Francesco Jodice: What We Want, São Paulo, 2006 (stampa fotografica, 100x130cm; V.M. 21 Artecontemporanea, Roma).
percorso e nelle proprie tappe, più che nella meta, l’annullare se stesso nella ricerca dell’infinito. Con il Settecento illuminista, si inaugura il Grand Tour, ovvero il viaggio di istruzione, formazione e svago che i giovani delle classi agiate europee, poi anche americane, intraprendono per l’Europa appena conclusi gli studi. Con il viaggio, le conoscenze apprese nelle università si arricchiscono e completano. Meta privilegiata è l’Italia, culla della civiltà e dell’arte. Viaggiano non solo studenti, ma anche diplomatici, filosofi, collezionisti, amatori d’arte, romanzieri, poeti. A seguire, nasce il fenomeno dell’orientalismo, quell’interesse per culture diverse rispetto all’identità cristiano-occidentale, considerate enigmatiche e affascinanti in virtù
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proprio del proprio esotismo (Asia: un itinerario sulla via della seta; in FOTOgraphia dello scorso luglio). I viaggi del 1772-1775 del Capitano James Cook (1726-1779) in Oceania, il nuovissimo continente, e, soprattutto, la campagna napoleonica d’Egitto, del 1798, contribuiscono a rilanciare il gusto per le mete esotiche, prima tra tutte l’Africa.
Alle tele dei paesaggisti -tra i quali Marco Ricci (1676-1730) e Fabius Brest (1823-1900)- e a quelle degli orientalisti -tra cui Giuseppe Tominz (1790-1866)-, Anatomia dell’irrequietezza. Il mito del viaggio dal Grand Tour all’era virtuale accosta, tra gli altri, lavori di artisti contemporanei con soggetti esotici. Un Minareto di Salvo (1947), un D’après di Luigi Onta-
(pagina precedente) Richard Long: Ring of River Stones, 1998 (Pietre di fiume, diametro 400cm; Galleria Tucci Russo, Torre Pellice, Torino). Jiang Zhi: Rainbow n.2, 2006 (c-print, 120x180cm; Collezione privata, Bologna).
Lou Reed: Topple, 2005 (stampa Archival ai pigmenti; 30x40 pollici, 76,2x101,6cm; Steven Kasher Gallery, New York).
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ni (1943), un Deserto di Mario Schifano (1934-1998), una Turcata di Aldo Mondino (1938-2005), una tela di Miquel Barceló (1957) sono tra i più significativi esempi di come il viaggio, in particolare quello verso l’Oriente, sia rimasto tra i temi dominanti delle poetiche diffuse nell’attuale panorama artistico. Quindi, il viaggio viene letto attraverso la fotografia contemporanea. Le immagini in bianconero di Gabriele Basilico (1944), da Berlino a Beirut passando per Milano, l’America secondo Wim Wenders (1945) e William Eggleston (1939), l’Iran di Abbas Kiarostami (1940), l’Ucraina di Boris Mikhailov (1938), l’Afghanistan devastato di Brian McKee (1977) mostrano il mondo visto con gli occhi di culture diverse. Il viaggio diventa anche quello nostalgico, a ritroso nel tempo, quando a raccontarlo sono le immagini neorealiste in bianconero di Ferdinando Scianna (1943). Una sezione di Anatomia dell’irrequietezza. Il mito del viaggio dal Grand Tour all’era virtuale è poi dedicata al viaggio nell’arte concettuale, presentato come percorso esistenziale, ricerca di sé, con opere di Richard Long (1945; un cerchio di pietre), Alighiero Boetti (1940-1994; una grande mappa), Hamish Fulton (1946; un lavoro che testimonia una camminata in montagna), Anne e Patrick Poirier (entrambi 1942; un video che rende omaggio al figlio recentemente scomparso). Il viaggio significa incontro con persone di razze e culture diverse, nelle fotografie di Beat Streuli (1957) e Massimo Vitali (1944); raccordi autostradali e non luoghi, nella pittura di Luca Pancrazzi (1961); la città globale del Terzo millennio (Città di Messico), secondo Melanie Smith (1965); le metropoli dell’estremo oriente (Jiang Zhi; 1971), il
Congo (Bodys Isek Kingelez; 1948), possibilità di incontri e relazioni (Mario Rizzi; 1962). Infine, il viaggio significa ancora legame con il territorio. Claudio Costa (1953), Renata Boero (1936), Jimmie Durham (1940), David Tremlett (1945), Isola e Norzi (Hilario Isola e Matteo Norzi, entrambi 1976) sono autori che raccontano, in tempi e luoghi diversi, un forte rapporto con l’essenza territoriale. Quindi, viaggio come scoperta di sé e delle proprie radici. Soggiorni in Africa di Claudio Costa, libri piegati e cromogrammi di Renata Boero, sculture con pietre di Jimmie Durham, affreschi realizzati con le mani da David Tremlett e Isola e Norzi, due giovani autori piemontesi che lavorano con il legno. Nell’allestimento, la mostra è attraversata da suggestioni letterarie che esaltano il duplice binario poetico tra visione e scrittura. Tra gli autori legati al tema del viaggio: Omero, Stendhal, Joahnn Wolfgang von Goethe, Madame de Staël, Herman Melville, James Joyce, Giovanni Pascoli, Thomas Mann, Philip Roth, Elias Canetti, Karen Blixen, Cèline, Antoine
Melanie Smith: Serie Tiangius Aerial, 2003 (c-print, 127x153cm; Marco Noire Contemporary Art, Torino). (in alto, a destra) Mario Rizzi: Hanadi, 2007 (film in DVD, dieci minuti). Luigi Ontani: Likat-Likut Su e Giù, 1992 (fotografia emulsionata su tela, 120x186cm; Galleria Astuni, Pietrasanta, Lucca).
Wim Wenders: Buena Vista Social Club, 1997 (c-print, 38x110cm; Galleria Seno, Milano).
de Saint-Exupéry, Michel Tournier, Ernest Hemingway, Arthur Rimbaud, Alberto Moravia, John Steinbeck, Luis Sepulveda, Bruce Chatwin. Precede l’ingresso in mostra la proiezione in loop di spezzoni tratti da opere cinematografiche: da Il viaggio (El viaje), di Fernando E. Solanas (1992), a Guerre stellari, di George Lucas (1977); da Marrakech Express, di Gabriele Salvatores (1989), a Viaggio a Kandahar, di Mohsen Makhmalbaf (2001); da Thelma & Louise, di Ridley Scott (1991), a Passaggio in India, di David Lean (1984). A.G.
Anatomia dell’irrequietezza. Il mito del viaggio dal Grand Tour all’era virtuale. A cura di Luca Beatrice. Mostra promossa da Assessorato alle Politiche Culturali e Giovanili del Comune di Perugia, in collaborazione con Regione Umbria. Palazzo della Penna, via Podiani 11, 06121 Perugia; www.comune.perugia.it, info.cultura@comune.perugia.it. Dal 30 settembre al 6 gennaio 2008; martedì-domenica 10,00-13,00 15,00-19,00. Catalogo Damiani Editore: testi di Luca Beatrice, Marina Bon, Alberto Campo, Gianni Canova, Andrea Cernicchi, Piersandro Pallavicini e Silvano Rometti; 160 pagine 25x19cm; 18,00 euro, in mostra.
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MI RICORDO. È una sera di fine luglio, al Caffè della Versiliana, nei giardini della villa che ospitò Gabriele D’Annunzio, il vate spiato da decine di ammiratrici, eccitate dall’idea di vederlo “ignudo sulla sabbia” o assorto all’ombra dei pini a inventar poesie: Taci. Sulle soglie / del bosco non odo / parole che dici / umane; ma odo / parole più / nuove / che parlano gocciole e foglie / lontane (da La pioggia nel pineto). Romano Battaglia, giornalista e scrittore, inventore della manifestazione, sta presentando un concorso di fotografia e poesia dedicato all’amore (ne riferiamo su questo stesso numero, a pagina 60). Tutto a un tratto mi rivolge una domanda sorprendente: «Ho letto di esperimenti per fotografare i ricordi. Lei mi sa dire qualcosa? Sarebbe straordinario poter fotografare, per esempio, il ricordo che ho dei miei genitori». La domanda bizzarra mi fa venire in mente una telefonata concitata ricevuta in redazione una quindicina d’anni fa, da un’agenzia fotografica milanese: «Lello vieni! In Tibet sono riusciti a fotografare l’anima!». Accorro: si trattava di fotografe scattate con la tecnica del flash sincronizzato sulla seconda tendina (rear). Questo tipo di tecnica, abbinata a un tempo di posa adeguatamente lungo (allungato), fa apparire dietro i soggetti in movimento una specie di alone-fantasma. Non si trattava dunque dell’anima. [A questo proposito, ricordiamo all’inizio del Novecento, fu molto in voga la fotografia di fantasmi, evidentemente frutto di abili interpretazioni delle condizioni tecniche della ripresa, che diedero vita -è il caso- a una incredibile serie di truffe]. Il motivo della domanda di Romano Battaglia sta evidentemente in una notizia apparsa sui quotidiani: «Foto-souvenir senza precedenti al mondo: con nuovissime tecniche di microscopia è stata infatti fotografata per la prima volta la formazione di un ricordo nel cervello dei topolini». Realizzata presso l’Università di Irvine in California, l’immagine non mostra però il soggetto del ricordo, ma solo come si riorganizzano elettricamente le sinapsi nel cervello al momento in cui il topo impara qualcosa di nuovo. Anni luce di distanza, quindi, dalla
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Yannis Kontos (Polaris Images / Grazia Neri): Bambino aiuta il padre mutilato a vestirsi, Sierra Leone. Primo premio Contemporary Issues Singles al World Press Photo 2006 ( FOTOgraphia, maggio 2006), questa fotografia è stata anche premiata dalla Fondazione triestina intitolata a Marco Luchetta, Alessandro Ota, Dario D’Angelo e Miran Hrovatin, giornalisti e operatori vittime di guerra.
fotografia di un ricordo. Se è vero che c’è un’emergenza “ignoranza abissale” nel campo della matematica, che dire della fotografia?
IN MEMORIA. Da tredici anni, a Trieste opera una Fondazione intitolata a Marco Luchetta, Alessandro Ota e Dario D’Angelo, giornalista, operatore e tecnico di una troupe Rai uccisi da una granata a Mostar, in Bosnia-Erzegovina, mentre realizzavano un servizio per il Tg1 sui bambini vittime della guerra balcanica (28 gennaio 1994), e al cineoperatore Miran Hrovatin, assassinato a Mogadiscio (Somalia) assieme alla giornalista del Tg3 Ilaria Alpi (20 marzo 1994). Dal 2004, la Fondazione ha istituito un premio di giornalismo: i vincitori 2007 sono stati acclamati il ventun luglio scorso. Il premio prevede quattro sezioni: la prima, dedicata a Marco Luchetta, è riservata ai giornalisti professionisti e divisa nelle due sottosezioni televisione e quotidiani e periodici; la seconda, riservata ai telecineoperatori, è dedicata ad Alessandro Ota; la terza, riservata a un quotidiano o a un periodico europeo, non italiano, porta il nome di Dario D’Angelo; mentre l’ultima, riservata ai fotoreporter, quello di Miran Hrovatin. Ciascuna sezione prevede un riconoscimento di seimila euro. Gli intendimenti e le finalità del Premio si coniugano con lo spirito che ha animato questi primi tredici
anni di attività della Fondazione, che ha accolto e curato centinaia di bambini con i propri genitori, provenienti da zone di guerra. Nell’edizione 2007, per il fotogiornalismo è risultato vincitore il greco Yanis Kontos, del quale abbiamo riferito sullo scorso numero di luglio, a proposito di un suo reportage dalla Corea del Nord. La fotografia premiata è stata pubblicata dal mensile giapponese di fotogiornalismo Days Japan, ed ha vinto anche nella categoria Contemporary Issues Singles, nell’edizione 2006 del World Press Photo (FOTOgraphia, maggio 2006). Mostra un padre che ha avuto entrambe le braccia tagliate dai ribelli del Fronte Rivoluzionario Unito in Sierra Leone: il figlio Abu lo aiuta a vestirsi in un rifugio per mutilati di guerra, nei pressi di Freetown (qui sopra).
DEL DOMANI NON V’È CERTEZZA. «Ma questo non è fotografia!». Con questa esclamazione, un caro amico ha commentato l’idea di parlarvi, in questa pagina, di quanto sta avvenendo nel mondo dell’informazione. Ma se è vero che una grandissima parte della fotografia prodotta a livello professionale finisce in questo mondo, dei cambiamenti che lo riguardano bisognerà pure parlarne, o no? La prima fondamentale considerazione (Giuseppe Turani, Affari & Finanza, allegato al quotidiano La Repubblica di lunedì diciotto giugno) riguarda il fatto che l’adozione
della banda larga (e larghissima) sta trasformando Internet in un’immensa tv via cavo. Non solo Internet, il cui utilizzo cresce dell’otto per cento all’anno, ma anche l’informazione veicolata attraverso i telefoni cellulari è previsto che cresca del ventidue per cento ogni anno, da qui al 2020. Sono moltissimi ormai coloro che leggono risultati sportivi, notizie brevi o previsioni del tempo sul monitor del telefonino. «E questa è la prima rivoluzione: la gente sta cominciando a “guardare” altrove, rispetto a quello che ha fatto fino a ieri» (Piero Galli, partner della società di consulenza Bain & Company e uno dei massimi esperti italiani di tecnologia e di media, in un’intervista pubblicata nello stesso numero di Affari & Finanza). «Ma va segnalato che gli investimenti della pubblicità -continua Piero Galli- si stanno spostando con una velocità maggiore rispetto agli spostamenti di attenzione da parte della gente. È come se gli investitori pubblicitari volessero precedere gli spettatori, in modo da farsi trovare sui nuovi media quando gli spettatori arriveranno. I numeri, almeno, dicono questo. Tra il 2005 e il 2015 abbiamo stimato che gli investimenti pubblicitari sui vari media (si tratta sempre di dati americani) passino da centottanta a trecentoventi miliardi di dollari, dall’1,3 all’1,8 per cento del Pil. In particolare, gli investimenti sul mobile (telefonini e altri apparati senza fili) stanno crescendo al ritmo del quindici per cento all’anno. E la stessa cosa sta accadendo per gli investimenti pubblicitari su Internet. Vanno giù, invece, i giornali e la tv analogica. In crescita anche gli altri media, sia pure con minore intensità rispetto al mobile e su Internet». Le ragioni di tutto ciò stanno certamente nel fatto che le nuove tecnologie portano tutto semplicemente a portata di mano. E in tempo reale. Ma secondo Robert Fisk, il grande giornalista del quotidiano inglese The Independent, le ragioni stanno anche nel fatto che i mezzi di informazione tradizionali stanno perdendo la fiducia dei propri lettori e spettatori. In un articolo pubblicato il ventun luglio, dal titolo No wonder the bloggers are winning (Non meravi-
gliatevi se stanno vincendo i blogger), Robert Fisk scrive: «Disprezzo Internet. È irresponsabile e, spesso, è una rete di odio. E per di più non ho tempo per i blog. Ma c’è una storia di due giornali vigliacchi che spiega per quale ragione un numero sempre crescente di persone si affidano a Google, piuttosto che sfogliare le pagine dei giornali». Robert Fisk fa due esempi di censura legati alla cronaca recente. Il primo, riguarda un articolo censurato da Douglas Frantz, direttore del Los Angeles Times (LAT ), riguardante il genocidio di un milione e mezzo di armeni per mano delle autorità turche dell’Impero Ottomano, avvenuto nel 1915. L’articolo era stato scritto da un giornalista di origine armena, Mark Aratz, da vent’anni firma importante del LAT. La censura è stata sulla base di un presunto conflitto di interesse. Dal suo blog (http://www.armeniapedia.org/index.php?title=Los_An geles_Times_Must_Dismiss_Managing_Editor_Douglas_Frantz), la comunità armena negli Stati Uniti ha lanciato una protesta, affermando che quando una compagnia agisce contro un suo dipendente sulla base delle sue origini etniche vìola il Titolo VII del Civil Rights Act (1964), che vieta discriminazioni basate su razza, colore, religione, sesso e nazione di provenienza. In realtà, era Douglas Frantz a essere in conflitto di interesse: arrivato al LAT come corrispondente da Istanbul, aveva legami con il governo turco, che non vede di buon occhio chi scrive del genocidio degli armeni. Conclusione? Dimissioni di Douglas Frantz, che torna a fare l’inviato, indovinate un po’ da dove? da Istanbul, per The Wall Street Journal; e abbandono anche di Mark Aratz, dopo un accordo con il giornale. Il secondo esempio riguarda un altro quotidiano, il canadese Toronto Globe and Mail. Anche in questo caso si tratta di una storia di censura, mancata però, ma rimpianta pubblicamente in un editoriale del direttore Edward Greespon, in cui afferma che alcuni passaggi di un articolo della giornalista Jan Wong sul problema razziale in Canada (che avevano suscitato addirittura le proteste del primo ministro Ste-
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phen Harper) «avrebbero dovuto essere cancellati». «È la stessa storia, non vi pare? Il censore prende le forbici, taglia e fugge. Non c’è da meravigliarsi se stanno vincendo i blogger», conclude Robert Fisk. Ma oltre a Robert Fisk c’è anche un sondaggio, pubblicato sempre a luglio, dal quotidiano inglese The Guardian, riguardante l’atteggiamento degli inglesi nei confronti della Bbc, la televisione nazionale. Secondo il quotidiano britannico, cinquantanove spettatori su cento si fidano della Bbc meno che in passato, e tre inglesi su quattro sono convinti che molte cose che sembrano reali siano drammatizzate dalla televisione. Dall’inchiesta risulta anche che il quarantasei per cento dei giovani sono convinti che l’intrattenimento sia più importante della verità. Tra gli esempi di drammatizzazione citati c’è il servizio sullo scatto d’ira che la regina inglese avrebbe avuto nei confronti di Annie Leibovitz, quando la famosa fotografa americana ha chiesto alla sovrana di posare senza corona. Inventato di sana pianta dal giornalista che ne aveva curato la messa in onda. A cura di Lello Piazza
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Tra i più famosi e acclamati fotografi inglesi contemporanei, Martin Parr è noto per un riconosciuto e apprezzato approccio disincantato nel raccontare la vita e la società moderna. La sua azione supera ogni divisione tra arte e fotografia documentaria; grazie ai suoi studi fotografici sulle idiosincrasie della cultura di massa e sulla società consumistica, al suo linguaggio simbolico e ai suoi prolifici risultati, la sua espressività si colloca all’avanguardia dell’arte visiva contemporanea. Membro dell’agenzia fotografica Magnum Photos, nella quale è entrato nel 1994 dopo un aspro dibattito sul suo stile provocatorio, Martin Parr è un acuto cronista dei nostri tempi. I suoi lavori svelano apertamente la banalità, la noia e una certa e identificata assenza di significato del mondo moderno. L’agile monografia che l’editore Phaidon pubblica ora nella propria collana dedicata agli autori contemporanei si propone e offre come strumento di avvicinamento, ma anche sostanziale approfondimento, della sua opera: in semplicità, Martin Parr, a cura di Sandra S. Phillips. Il volume di centoventotto pagine 24,5x21cm raccoglie cinquantasei immagini, quarantasei a colori e die-
MARTIN PARR / MAGNUM PHOTOS / CONTRASTO
T
SCENE DI VITA
Ocean Dome, Miyazaki, Giappone; 1996 (da Small World).
Martin Parr; a cura di Sandra S. Phillips; Phaidon Press Limited, 2007 (www.phaidon.com); 128 pagine 24,5x21cm, cartonato con sovraccoperta; 46 illustrazioni a colori e 10 in bianconero; 19,95 euro.
ci in bianconero, ognuna commentata in italiano (!). La sequenza è sostanzialmente cronologica, tanto da prendere avvio dalle prime fotografie degli anni Settanta, appunto in bianconero, per approdare ai più recenti lavori a colori. Conoscendo l’opera di Martin Parr, non stentiamo a credere all’«aspro dibattito sul suo stile provocatorio», cui abbiamo appena accennato, che ha sicuramente impegnato l’ala storica della celeberrima Magnum Photos, tanto orientata, proiettata e impegnata verso una fotografia che privilegia il valore di
racconto, di traccia del mondo. Però, a ben guardare, oltre la semplice apparenza delle inquadrature di Martin Parr (semplice, non semplicistica), la sua osservazione fotografica è comunque rivolta al riconoscimento di istanti di vita, che interpreta e rappresenta in composizioni sostanzialmente surreali. Certo, sono fotografie assolutamente diverse dallo stile canonico definito dagli autori Magnum Photos, ma si affermano, comunque, come visioni autenticamente fotografiche, definite da una ammirevole e apprezzata capacità di sintesi. Quella che Martin Parr osserva è la quotidianità, estranea alle tragedie annunciate del nostro tempo. Non guerre o distruzioni, dunque, ma istanti della vita, osservata attraverso i rituali e gli stereotipi della ricerca di (presunta) serenità individuale: dalle vacanze al tempo libero si incontra di tutto. Al primo approccio si può anche sorridere (qualcuno può addirittura deridere); ma poi, la somma delle immagini, nella propria quantità numerica e qualità visiva, stabilisce una linea, definisce dei confini entro i quali leggere lo svolgimento della vita. A.G.
AUTORE E CURATRICE artin Parr è nato a Epsom, Surrey, Inghilterra, nel 1952. Il suo interesse per la fotografia M viene incoraggiato dal nonno, George Parr, acuto fotografo non professionista. Nel 1970, Martin Parr si iscrive al Politecnico di Manchester per studiare fotografia, e dopo soli tre mesi inizia a lavorare al suo progetto in bianconero Home sweet home, anticipatorio di tutta la sua fotografia. Nel 1982, dopo aver visto il colore emergere dai lavori di noti fotografi, come Joel Meyerowitz, William Eggleston e Stephen Shore, Martin Parr si converte a un linguaggio fotografico dai cromatismi saturi e accesi, che caratterizzano le sue opere successive. Nell’agenzia Magnum Photos dal 1994, insegna fotografia all’Università del Galles a Newport; nel 2004 è stato direttore artistico dei Rencontres d’Arles. Collezionista di libri fotografici, con Gerry Badger ha curato l’edizione in due volumi di The Photobook: A History, pubblicata da Phaidon nel 2004 e 2006: casellario dell’editoria fotografica dalle origini, che allunga la già consistente serie di studi a tema. Sandra S. Phillips è Senior Curator of Photography al Museum of Modern Art di San Francisco. È studiosa di storia della fotografia e curatrice della Vassar Art Gallery di Poughkeepsie (New York). Ha organizzato mostre si spessore, come la prima retrospettiva mondiale dedicata al fotografo giapponese del dopoguerra Daido Moriyama (1999) e la prima mostra di fotografie, stampe e scritti di Diane Arbus (2003).
ODISSEA QUOTIDIANA
C
Cosa non vediamo, quando guardiamo? E da chi siamo guardati, quando crediamo di non essere osservati? Come l’inquietante computer HAL 9000 del film 2001: Odissea nello spazio di Stanley Kubrick (2001: A Space Odyssey; 1968, anno fatidico), entrato in funzione nelle Officine Hal di Urbana, Illinois, il dodici gennaio 1992 (!), anche le macchine di intelligenza artificiale fotografate dall’artista americano Lewis Baltz, che opera e agisce con l’immagine fotografica, sono metafore di un sistema di potere imperscrutabile. Oggi, HAL 9000, semplicemente “Hal” in confidenza, potrebbe assumere le sembianze di una lavatrice, un laptop o un telefono. Oggi, chiunque può spiare chiunque, anche utilizzando semplici oggetti di uso quotidiano. Nella prefazione del volume-catalogo che accompagna l’esposizione modenese Lewis Baltz. 8991 Sites of Technology, Angela Vettese annota che «L’artista ci mostra cose che non avremmo mai riconosciuto, se la sua mano non ce le
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avesse indicate: strumenti di controllo nascosti in locali di servizio, locali di servizio che sono centrali di controllo, ambiti in apparenza quotidiani che sono i luoghi dove si dispiega, con apparente domesticità, lo spionaggio pericoloso ma cortese che ci avvolge silente». Il tema dei rapporti -sempre più invisibili- tra i luoghi della vita quotidiana e il sapere razionale della tecnologia e della scienza è al centro della mostra, curata da Antonello Frongia e organizzata e prodotta dalla Galleria Civica di Modena e dalla Fondazione Cassa di Risparmio di Modena, che prende avvio in concomitanza con il festivalfilosofia in programma a Modena dal quattordici al sedici settembre, dedicato al tema del Sapere. L’allestimento presenta stampe fotografiche di grandi dimensioni, tratte dal progetto 89-91 Sites of Technology, che Lewis Baltz ha realizzato in Europa e Giappone a cavallo degli anni Novanta (opere realizzate con il contributo di Galerie Thomas Zander di Colonia, Germania, che rappresenta l’artista). Attraverso frammenti di
(in basso, a sinistra) Linee elettriche, Roma (Galerie Thomas Zander, Colonia).
Matra Transport, Francia (Galerie Thomas Zander, Colonia).
fotografia diretta e immagini riprese da telecamere di sorveglianza, l’autore (artista per intenzioni) restituisce intatta la gelida insensatezza delle strutture anonime, indistinguibili dall’esterno, dove supercomputer ad alta capacità vengono utilizzati per gestire enormi quantità di dati e controllare flussi di lavoro, esperimenti scientifici, persino paesaggi: dal Cern di Ginevra alla centrale di videosorveglianza di Sophia Antipolis (polo tecnologico nei pressi di Nizza); dalla centrale nucleare francese di Gravelines (vicino a Dunkerque) ai laboratori Toshiba di intelligenza artificiale, a Kawasaki City; dal centro di gestione delle prenotazioni di Air France (sulla riviera francese) agli stabilimenti Matra Transport (nei sobborghi di Parigi). Fino a oggi presentata in modo frammentario, e pubblicata solo ora nella proprie interezza, 89-91 Sites of Technology costituisce il punto di snodo tra due fasi distinte della parabola espressiva di Lewis Baltz, collocandosi a metà strada tra l’approccio minimalista e seriale dei progetti di documentazione del pae-
L’AUTORE
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ewis Baltz (Newport Beach, California, 1945) vive e lavora a Parigi e Venezia, dove insegna alla Facoltà di Design e Arti dell’Università Iuav. Attivo dalla fine degli anni Sessanta, nel 1975 ha partecipato alla importante collettiva New Topographics. Photographs of a Man-altered Landscape, che ha catalizzato a livello internazionale l’idea di una fotografia scettica e “senza stile”, all’incrocio tra stile documentario, Land Art, Minimalismo e Arte Concettuale (tra gli autori presenti, Bernd e Hilla Becher, Robert Adams e Stephen Shore). I suoi lavori sono stati presentati in numerose esposizioni in tutto il mondo e sono conservati in istituzioni pubbliche, quali la Tate Modern (Tate Gallery) di Londra, il Musée national d’Art moderne (MNAM) di Parigi, il Museum of Contemporary Art di Helsinki, il Whitney Museum of American Art e il Museum of Modern Art (MoMA) di New York.
saggio degli anni Settanta e Ottanta e i grandi tableaux allegorici sul potere della tecnologia degli anni Novanta. Realizzato negli anni della prima Guerra del Golfo, per l’autore la serie segna il definitivo riconoscimento della opacità del mondo e della sparizione dei luoghi: «Il subtesto del mio lavoro negli anni Ottanta era l’apocalisse. Nel 1990, sembrava che il mondo fosse in un certo senso già finito, ovvero che si fosse reso refrattario a ogni nostra possibilità di comprensione». Retrospettivamente, dalla fine degli anni Sessanta, tutta l’opera espressiva di Lewis Baltz ruota attorno al problema della visibilità dei processi economici e sociali che il
Vasca di refrigerazione, centrale nucleare, Gravelines, Francia (Galerie Thomas Zander, Colonia).
paesaggio nasconde piuttosto che mostrare. Tuttavia, nelle proprie immagini pone anche un problema più ampio, che riguarda non solo la nostra condizione di esseri sociali, ma di esseri umani in senso lato. Secondo il filosofo Gus Blaisdell, le immagini di Lewis Baltz invitano a praticare uno scetticismo radicale nei confronti di ciò che percepiamo e conosciamo: anche correndo il rischio, come rileva David Hume nel Trattato della natura umana, di naufragare nella malinconia di un pensiero impotente, di fronte al dubbio, al falso, all’insensatezza. M.R.
Lewis Baltz. 89-91 Sites of Technology. A cura di Antonello Frongia. Galleria Civica di Modena, Palazzina dei Giardini, corso Canalgrande, 41100 Modena; 059-206911, fax 059-2032932; www.comune.modena.it/galleria, galcivmo@comune.modena.it. Dal 15 settembre al 18 novembre; martedì-venerdì 10,30-13,00 15,00-18,00, sabato, domenica e festivi 10,30-18,00. Volume-catalogo pubblicato da Steidl Verlag, con testi in italiano e inglese di Angela Vettese e Antonello Frongia; 53 tavole a colori; 160 pagine 28x27cm.
urata dal fotografo Niccolò Biddau, la mostra Piemonte Industria. Un secolo di lavoro in fotografia raccoglie e riunisce cento immagini provenienti dagli archivi di aziende della regione, tutte proiettate sul mercato internazionale. Esposte in rigoroso ordine cronologico -dalle pose storiche di fine Ottocento, specchio di un antico mondo del lavoro, ai nostri giorni-, le immagini consentono di oltrepassare i confini stessi del contesto industriale, fino a diffondere conoscenza di luoghi e situazioni sui quali oggi concentriamo il nostro attuale sguardo, ormai estraneo alle intense vicende sociali che potrebbero trasparire tra le pieghe di questo racconto visivo. Palpitante testimonianza dell’evoluzione del concetto stesso di lavoro e relativa produzione industriale, l’allestimento in mostra e la relativa riproposizione nel volume-catalogo che l’accompagna (edito da Photo Publisher) sottolineano non tanto le tensioni politiche che si sono manifestate nei decenni, quanto
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la cultura d’impresa che ha definito un’industria che dalla regione di origine si è estesa alla nazione e, ancora, oltre i confini dell’Italia, raggiungendo i mercati planetari. Convincente e approfondita ricerca d’archivio, all’interno dei consistenti patrimoni fotografici delle industrie, che compone i tratti di un racconto che si presenta unico e corale. Tre i tempi principali della ricerca del bravo Niccolò Biddau, classe 1966: la presenza del lavoratore, il suo rapporto con il proprio lavoro e i luoghi della produzione. In chiusura, una serie di immagini in bianconero dello stesso curatore, qui in veste di fotografo, interpreta i cicli produttivi odierni, per sottolineare una identificata estetica della macchina. La sostanza di questa ricerca iconografica, che legittimamente (?) evita di sottolineare le contraddizioni sociali di cento anni di industria, è stata analizzata dal curatore Niccolò Biddau, del quale riproponiamo il concentrato testo di presentazione. A.G.
PIEMONTE INDUSTRIA Mostra e volume-catalogo che raccontano Un secolo di lavoro in fotografia. In adeguata cronologia, cento immagini provenienti dagli archivi di aziende piemontesi stabiliscono un ritmo visivo che traccia i connotati della evoluzione sociale che, nei decenni scorsi, hanno documentato in cronaca. Ora è Storia: non solo del proprio soggetto esplicito, appunto l’industria, ma dell’intera collettività che a questa si è, giocoforza, riferita. Senza approfondire il tema, latente, delle tensioni politiche che hanno pure caratterizzato gli stessi cento anni, una convincente ricerca e selezione curata da Niccolò Biddau
ome specifica il suo stesso titolo, la mostra Piemonte Industria. Un secolo di lavoro in fotografia ha l’ambizione, non la pretesa, di raccontare uno spaccato di un secolo di industria piemontese attraverso cento fotografie provenienti da aziende storiche e tuttora vitali della regione. Il criterio adottato è quello di una narrazione attraverso una progressione cronologica, grazie alla quale si sono ricostruite tanto le vicende individuali quanto i passaggi che hanno portato la collettività del mondo del lavoro piemontese a svilupparsi, a conquistare migliori condizioni e a innovarsi. Si è così ricostruito un mondo, quello del Piemonte industriale, complesso e articolato, composto di uomini e donne, di lavoratori e imprenditori, di architetture industriali e macchine per produrre e in-
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Magliola A. & Figli. Interno della falegnameria con le maestranze; primi anni del Novecento. Vinavil. Gli elettrodi dell’impianto del Carburo di Calcio; anni Trenta. Fiat. Lingotto: reparto fucine, pressa sbavatrice; 1934.
(pagina precedente) Zegna Baruffa Lane Borgosesia. Lavoratori davanti all’ingresso della manifattura; primi anni del Novecento.
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novare, senza abbandonarsi a una mera contemplazione o alla nostalgica rievocazione del passato. Le aziende protagoniste di questa narrazione possiedono un numero variabile di fotografie, sia per qualità sia per consistenza, e l’unico modo per raccontare le loro storie è stato quello di farle confluire in una grande vicenda collettiva. A una prima visione, la complessità di un ricco archivio complessivo risulta molto affascinante, e il compito del curatore è stato quello di far compenetrare vicende individuali in vicende storiche, condizioni e modi di produrre in passaggi epocali per l’innovazione tecnologica. Cento fotografie testimoniano tutto questo: un inestimabile patrimonio di esperienze, che hanno segnato positivamente l’evoluzione dell’industria. Protagoniste assolute del viaggio sono le immagini; si è così mantenuta alta l’attenzione dell’osservatore attraverso una compenetrazione di quelle emozioni e informazioni che le fotografie sanno trasmettere. Immagini che aiutano a leggere una storia interdisciplinare, nella quale possiamo visualizzare una storia dell’impresa in quanto tale, una storia sociologia e una storia della fotografia industriale. Sono questi i tre criteri che accompagnano il visitatore della mostra. Con il proprio forte impatto, sono le immagini che sostituiscono le parole: è il linguaggio della fotografia che, anche grazie ai dettagli distribuiti nelle inquadrature, aiuta a comprendere e scoprire, ovvero a riflettere e riscoprire mondi tanto lontani quanto a noi così vicini. Quindi, il processo di industrializzazione è andato intrecciandosi, compenetrandosi con il paesag-
gio e gli uomini. Siano i volti e i gesti di uomini e donne, le elaborate architetture delle fabbriche o i particolari dei macchinari: tutto contribuisce a immergere lo spettatore in un paesaggio, che è anche contesto sociale e culturale, a seguire passo dopo passo l’evoluzione, a percepire i valori che l’hanno animato, e che tuttora lo permeano. Attraverso un efficace excursus storico-fotografico siamo rapiti dalle prime immagini di gruppo, nelle quali vediamo gli operai e gli imprenditori in impeccabili pose, “fotografie di famiglia” dove è manifesto il coincidente e consapevole orgoglio dell’inizio di una nuova era; in altre immagini troviamo i lavoratori in posa alla Pellizza da Volpedo (Quarto stato), fieri di far parte di una classe sociale: quella neonata classe operaia che tanto darà allo sviluppo e al benessere del Piemonte. Le immagini successive sono rappresentative di una celebrazione cara agli imprenditori dell’epoca: la fabbrica e gli edifici industriali a suggello della propria
Menabrea. Presenza all’Esposizione Agricola Industriale di Vercelli; 1930. Sutter. Espositore di lucidi da scarpe, con commessa; anni Venti. Bona 1858. Ponte ad archi parabolici sul canale Cavour, Balocco (Vercelli): cassatura in legno; 1929.
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Rai. Trasmissione dei risultati elettorali; aprile 1948. Martini & Rossi. Isotta Fraschini Otto cilindri berlina con personalizzazione della China Martini, in occasione del Ventiquattresimo Giro d’Italia; 1936. Avio. Aeronautica d’Italia. Montaggio del velivolo BR 20 con motore Fiat A.80 RC.41; 1937.
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capacità di costruire un progresso solido; in assoluto, complessi architettonici che man mano trasformano il territorio in modo irreversibile e che, attraverso i loro impianti, sanno assumere anche quella funzione di mito che tanto ispirò i futuristi. Dalle immagini emerge anche la fondamentale presenza e il ruolo della donna nella fabbrica: la trasformazione della società porta la donna a emanciparsi, a integrarsi, ad acquisire sempre maggiore autonomia e un nuovo status. Come non evidenziare il grande contributo che hanno dato al mondo del lavoro durante le guerre. Le vediamo in reparti femminili, non solo del mondo tessile, alimentare, ma anche in quello meccanico, chimico e del controllo della qualità del prodotto. Tra gli anni Venti e Trenta, si evolve la comunicazione aziendale: prodotti, fiere, proiezioni all’e-
sterno non solo vedono l’industria entrare a pieno titolo nella vita della società, ma anche nell’immaginario collettivo con modelli e stili di vita. Al tempo stesso la società ne è attratta: regnanti, politici, militari, prelati varcano la soglia di questo nuovo mondo, di questa comunità. La Seconda guerra mondiale e la fine del Ventennio lasciano in eredità all’Italia repubblicana un paese da ricostruire e, come non mai, gli italiani si incontrano. Sono gli anni delle grandi migrazioni: non solo dal Sud al Nord, ma soprattutto dal mondo rurale e contadino a quello urbano e industriale. Torino e il Piemonte accolgono, assorbono questa “onda d’urto” e integrano nelle fabbriche nuove povertà, che trasformano il capitale-lavoro in nuove ricchezze. C’è una grande voglia di ricominciare e riscattarsi: è un filo rosso che lega ancora una volta gli imprenditori e gli operai. Emblematiche sono le immagini di laboriose officine e industriali chini a “curare” le macchine come dei figli. L’Italia riparte, e il Piemonte gioca un ruolo decisivo. È il boom economico. Oltre alla meccanica, protagonista è la comunicazione, e a Torino nascono la radio e la televisione, prende avvio la telefonia. La capitale subalpina mette in contatto l’Italia. A testimonianza di questi anni sono le immagini della trasmissione sperimentale di uno studio televisivo e le centraliniste nel pieno della propria attività. Ma l’industria sente sempre presente l’innovazione tecnologica e dà vita alle scuole tecniche aziendali: è il primo passaggio verso un lavoro sempre più qualificato. In questo periodo vediamo affermarsi sempre più le carrozzerie, e con loro nasce un’eccellenza di design legata a uno stile inconfondibile
Lavazza. Flotta Lavazza; primi anni Sessanta. Marchesi di Barolo. Cantine di affinamento; 1958. De Agostini. Incisore all’opera su una carta geografica; primi anni Sessanta.
e riconosciuto in tutto il mondo. I nomi più importanti del mondo del “car design” sono proprio qui. Le componentistiche e la progettazione diventano sempre più sofisticate. La tecnologia richiede nuovi investimenti in macchinari, e l’uomo via via esce dal ciclo produttivo divenendone il custode, un operaio specializzato prima, un tecnico poi. Arriva il robot: un’altra svolta epocale che accelera e cambia in modo radicale i modi di produrre. È un passaggio senza ritorno: il lavoro diventa sempre più specializzato. Torino e il Piemonte sono ancora leader: si sviluppano il polo aerospaziale, che diventa un punto di ec-
Pininfarina. Ultimi ritocchi di finitura alla Ferrari 375 MM speciale realizzata per il regista Roberto Rossellini; 1954.
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Pininfarina. Battitura di un particolare in lamiera al Reparto Esperienze dello stabilimento Pininfarina di Grugliasco (Torino); anni Sessanta. Paglieri Profumi. Preparazione di materiale illustrativo pubblicitario; anni Sessanta.
Telecom Italia. Operaio Selenia addetto all’installazione di antenne di ponti radio; anni Settanta. Crespi 1797. Reparto dello stabilimento con macchine di filatura; anni Sessanta. Cerutti. Flange lavorate in attesa di montaggio; 2002 (fotografia di Niccolò Biddau).
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cellenza mondiale, l’automazione e l’ICT. L’uomo adesso controlla il processo, non è più parte del processo. L’attenzione del fotografo industriale si sposta sulla macchina, cogliendone anche aspetti estetici, rivelando una bellezza, un sorprendente fascino che aiuta a comprendere che l’industria è anche ricca di valori. Attraverso un percorso per immagini, la mostra è testimonianza dell’evoluzione del concetto stesso di lavoro e del modo di produrre, entrambi creatori di culture. La tecnica fotografica adottata per oltre un secolo è il linguaggio che è stato utilizzato per testimoniare e raccontare il lavoro e la tecnologia industriale attraverso uno
sguardo che non risulta mai contemplativo, fine a se stesso, ma trasmette le emozioni che emergono da vicende individuali e collettive. Un plauso e un sentito ringraziamento vanno alla Regione Piemonte, che ha sostenuto questa mostra incentrata sul tema del lavoro e della cultura d’impresa, e a Confindustria Piemonte, che ha sensibilizzato le imprese che hanno messo a disposizione i propri patrimoni fotografici. A tutti gli imprenditori, i lavoratori e le lavoratrici un augurio che la loro storia continui ad essere ricca di successi e soddisfazioni. Questa ricerca è dedicata a tutti i fotografi, alle donne, agli uomini che hanno reso grande l’industria piemontese. Niccolò Biddau Piemonte Industria. Un secolo di lavoro in fotografia. A cura di Niccolò Biddau; con il sostegno di Regione Piemonte. Sala Espositiva Bolaffi, via Cavour 17, 10123 Torino. Dal 13 settembre al 6 ottobre; 10,30-19,30. Volume-catalogo edito da Photo Publisher, via Torricelli 16, 10129 Torino; 011-5817508; www.photo-publisher.com.
www.sony.it
I loghi “Sony” e “Cybershot” sono marchi registrati di Sony Corporation, Giappone.
emozioni a flusso continuo
fotocamera alta definizione, double anti-blur solution, face detection
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do un concetto che abbiamo già espresso in altre occasioni, a questa temporalmente precedenti, Gian Paolo Barbieri è certamente uno dei più espressivi autori del nostro tempo: sta a pieno diritto e alla pari in quei selettivi elenchi nei quali si annotano i nomi, facciamone un paio, di Richard Avedon e Irving Penn. Lo abbiamo già scritto, ma la ripetizione si impone: addirittura è imbarazzantemente bravo, tanto da mettere a disagio!
PALAZZO REALE Oltre le affermazioni e gli appassionati apprezzamenti professionali nel mondo della moda, che frequenta dai luminescenti anni dell’alta moda, con tutto il proprio relativo contorno di fascino, mistero, seduzione, esclusività e rappresentazioni fotografiche in sintonia, Gian Paolo Barbieri approda ora a una consacrazione fotografica assoluta e inviolabile. Dopo una consistente serie di esposizioni a tema e monografie d’autore, che si sono susseguite nel tempo, una sua imponente mostra antologica, che ripercorre i decenni dalle origini, è allestita a un indirizzo pubblico di rilievo, in una sede che stabilisce gli inviolabili connotati della Storia: della fotografia, prima di tutto, dell’arte espressiva, per diritto di appartenenza, e, ancora, del costume e della socialità. Senza ulteriori specifiche, che nulla possono aggiungere e che casomai finirebbero per sconfinare in stucchevole retorica (e buonismo), la mostra è esplicitamente intitolata Gian Paolo Barbieri. Tanto basta, per identificare i termini assoluti e in-
AUDREY HEPBURN, 1976; VOGUE ITALIA
APOLLONIA, 1980; VOGUE ITALIA
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enza alcuna ombra di dubbio, Gian Paolo Barbieri, professionista dagli anni Sessanta, è uno dei più significativi autori della fotografia italiana di moda: nel 1978, il tedesco Stern l’ha inserito nel selettivo novero dei Quattordici fotografi che hanno creato la moda. A differenza di altri protagonisti, a propria volta bravi e apprezzati, Gian Paolo Barbieri è però definibile con una nota caratteristica che fa la differenza (per certi versi, al negativo), quantomeno presso il grande pubblico: per gli addetti, la distinzione non si propone affatto. Non è appariscente, non sconfina dal proprio ambito, non si propone per altro, oltre la propria fotografia di moda. Beh, non è proprio vero, perché, in effetti, Gian Paolo Barbieri propone anche un’altra personalità, comunque sia fotografica: in tempi diversi, su queste stesse pagine abbiamo presentato e commentato la serie Madagascar, successiva a precedenti analoghe ricerche fotografiche realizzate alle Seychelles e a Tahiti (FOTOgraphia, luglio 1995), e i soggetti di Innatural, allestiti in mostra alla Triennale di Milano, nell’inverno 2004 (FOTOgraphia, novembre 2004). Soprattutto per la fotografia di moda, ma anche per la colta combinazione con ricerche fotografiche personali di tutt’altro segno espressivo, comunque sia sempre di profilo creativamente alto (molto alto), alle quali ci riferiamo più avanti, il valore di Gian Paolo Barbieri non può essere circoscritto ai nostri confini nazionali, ai quali ci siamo appena riferiti. Così che, riprenden-
Finalmente, ed era ora!, la straordinaria fotografia di Gian Paolo Barbieri viene celebrata e consacrata con una esposizione pubblica dai connotati della Storia. Dalla seconda metà di settembre, per due mesi, le sontuose e autorevoli sale del Palazzo Reale di Milano ospitano la personalità visiva di un grande autore italiano contemporaneo, capace di stare nei più ristretti e selettivi elenchi della storia della fotografia. Convincente antologica: tracce indelebili, dalla fotografia di moda, suo terreno privilegiato d’azione, alla ricerca personale, condotta con scrupolo e inviolata capacità espressiva
TRACCE IN
NDELEBILI
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VERUSKA, 1975; VOGUE ITALIA
violabili di una leggenda fotografica che ha attraversato indenne i decenni, dai Sessanta, come abbiamo già annotato, imponendo riconosciuti tratti specifici di capacità e invenzioni creative che hanno pochi eguali. A cura di Martina Corgnati, critica d’arte con particolari attitudini fotografiche, la personale/antologica di Gian Paolo Barbieri è promossa dal Comune di Milano, Assessorato alla Cultura, referente pubblico per il solito latitante, che raramente avvicina la fotografia (a parte qualche tappa di esposizioni itineranti; speriamo che recenti promesse abbiano seguito), in combinazione con 24ore Motta Cultura, che ha curato la produzione e pubblica il volume-catalogo che accompagna la mostra, e Palazzo Reale, la sede espositiva che offre le proprie prestigiose sale di piazza del Duomo: dal venti settembre all’undici novembre. Deviando per un attimo dal percorso lineare, in un certo sen-
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so l’allestimento a Palazzo Reale è in qualche modo e misura sorprendente. Infatti è raro che le personalità dell’arte (alla cui espressività appartiene la fotografia) siano celebrate nella propria città natale. In genere, le affermazioni pubbliche richiedono distanze fisiche e geografiche, che diano fiato a quel senso di oppressione che le istituzioni sembrano sentire tra le proprie mura. Tanto è vero che, ulteriore digressione, Milano ha sempre clamorosamente ignorato i propri figli (tra parentesi, fuori dalle ufficialità imposte, Gian Paolo Barbieri è ancora uno dei pochi capaci di esprimersi in lingua, sia per quanto riguarda l’uso di termini specifici, sia per quanto riguarda le caratteristiche di un fonema che sa anche essere dolce e ammaliante). Milano pare non sapersene cosa fare delle proprie glorie; tanto è vero che, arrivati al quarto anniversario dalla scomparsa di Guido Crepax, attorno la sua personalità tutto tace.
SUSAN MONCUR
PER
VERSACE, 1979
LAURA ALVAREZ, VENEZUELA, 1976; VOGUE ITALIA
Pubblicato da Federico Motta Editore, il volume-catalogo che accompagna la mostra Gian Paolo Barbieri è arricchito da una qualificata serie di saggi a commento, che analizzano sia l’opera sia la personalità dell’autore. In particolare, va considerato il compendioso testo della curatrice Martina Corgnati che, dopo una squisita introduzione (Intorno al vestito tutto) ripercorre i termini della fotografia di Gian Paolo Barbieri, soffermandosi su dettagli del lungo percorso, richiamando riferimenti dalla storia dell’arte, raccontando le atmosfere del mondo di riferimento. Da questo nostro spazio, istituzionalmente diverso e altrimenti indirizzato, sarebbe presuntuoso allinearsi con tanto approfondimento: a disposizione sul volume-catalogo. Inoltre, nutriamo la ferma convinzione che la fotografia di Gian Paolo
VIVIENNE WESTWOOD, 1997
VALENTINO, 1983; VOGUE ITALIA
OLTRE LA PROFESSIONE
Barbieri appartenga tanto alla storia evolutiva del linguaggio specifico, che poco si può ancora aggiungere, senza rischiare la ripetizione scolastica, oppure l’ovvietà. Però, c’è qualcosa che ancora ci preme rilevare e sottolineare, andando ad allineare la fotografia professionale di Gian Paolo Barbieri, assolta per incarichi di prestigio (testate internazionali e stilisti di primo piano) con le sue ricerche espressive, che parrebbero diametralmente opposte. In questo percorso scartiamo a lato l’avvincente edizione libraria di Artificial (FotoSelex, 1982), nella quale venne riunito un significativo campionario di fotografia di alta moda (a proposito, nelle scene iniziali di Innamorarsi / Falling in Love, film di Uru Grosbard, del 1984, i due protagonisti Meryl Streep/Molly Gilmore e Robert De Niro/Frank Raftis si incrociano, senza peraltro avvicinarsi l’uno all’altro, come invece faranno successivamente, al-
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TAHITI, 1989
SEYCHELLES, 1998
la Rizzoli Bookstore di New York City, in una vetrina della quale fa bella mostra di sé questa monografia, perfettamente riconoscibile e riconosciuta nelle inquadrature cinematografiche). I riferimenti bibliografici espliciti delle ricerche espressive di Gian Paolo Barbieri si allungano negli anni: Silent Portraits (Massimo Baldini Editore, 1984), Tahiti Tattoos (Fabbri Editore, 1989; Benedikt Taschen Verlag, 1998), Madagascar (Allemandi Editore, 1994; Assouline, Francia, 1994; Benedikt Taschen Verlag, 1997) e Equator (Benedikt Taschen Verlag, 1999). In ognuno di questi volumi, Gian Paolo Barbieri ha raccolto la propria particolare visione dell’arte ed esistenza primitiva. Questo sconfinamento da un genere fotografico professionale a un altro è insolito, soprattutto se si considerano le distanze abissali che separano l’eleganza formale della moda dalla ricerca e ricostruzione antropologica. Ma questa capacità di passare da un mondo tanto frusciante a una realtà addirittura contraria, e non soltanto opposta, non stupisce coloro i quali sanno collegare tra loro le immagini di Gian Paolo Barbieri: che sono sempre caratterizzate da una capacità compositiva unica e inimitabile e da una eccezionale sintesi narrativa. Sia la moda, fotografata da Gian Paolo Barbieri nel lungo periodo di tempo che parte dagli anni Sessanta, sia la sua ricerca antropologica sono definite da una sottile sensibilità espressiva che le unisce, nel momento stesso in cui le definisce e separa, e che, alla fine dei conti, fa la differenza tra la semplice fotografia e l’immagine d’autore. In un’epoca nella quale la leggerezza dell’immagine televisiva ha intaccato il pensiero collettivo, fino a elevare incondizionatamente la più puerile delle visioni, Gian Paolo Barbieri propone un ritmo visivo cadenzato e di alta personalità individuale, che non si ferma alla superficie delle apparenze, ma affronta l’essenza degli elementi. Lui ama il Sud, l’emisfero a noi opposto, nel quale le stagioni sono capovolte rispetto le nostre, e nel quale le origini della vita pulsano anche nel ritmo quotidiano dei nostri stessi giorni. Il primo omaggio al mondo dei tropici, Gian Paolo Barbieri l’ha celebrato con le eccezionali polaroid raccolte nel prestigioso volume Silent Portraits (seicento copie numerate; 1984). Quella fu una dichiarazione di amore, mentre il successivo Tahiti Tattoos (1989) ha rappresentato il suo avvicinarsi a una mediazione visiva meditata e riflessiva: da au-
tentico studioso della materia, ricomposta nello spazio proprio e caratteristico della fotografia. Per Madagascar, originariamente pubblicato nel 1994, l’autore ha compiuto una scelta di fondo. La cultura personale e la sensibilità fotografica che gli sono universalmente riconosciute gli hanno fatto declinare una visione poetica dei luoghi, volontariamente lontana dalla cruda realtà sociale del paese. Attratto dall’arte primitiva, che è la base della cultura del nostro mondo, Gian Paolo Barbieri ha tracciato un quadro dalle tinte sfumate, ma dai contorni precisi. Abile interprete degli artifici allestiti in sala di posa, anche nel vivo del mondo malgascio ha dato un taglio grafico di grande efficacia a immagini che finiscono per essere più concrete e vere di quanto non lo sarebbe stato un reportage dalle tinte forti e forzate. Del resto, la fotografia è giusto questo: capacità di rappresentare, oltre la oggettiva necessità di raffigurare qualcosa che si manifesta davanti all’obiettivo. Queste ricerche espressive di Gian Paolo Barbieri, che si aggiungono alla sua fantastica fotografia di moda, sollecitano una riflessione. Il pensiero va agli uomini che adoravano la pietra, ed eressero l’inquietante Stonehenge, nel sud dell’attuale Gran Bretagna. Tutti coloro che la eressero sono periti e sconosciuti, mentre Stonehenge rimane. Eppure quegli uomini, i nostri antenati, volti anonimi, sono vivi in tutti noi, nei loro discendenti; mentre Stonehenge, e quello che rappresentava, è morta. Oltre il suo professionismo nella moda, con le proprie fotografie antropometriche Gian Paolo Barbieri afferma che è l’uomo a continuare in eterno. Maurizio Rebuzzini Gian Paolo Barbieri, mostra antologica; a cura di Martina Corgnati. Esposizione promossa da Palazzo Reale, Assessorato alla Cultura del Comune di Milano, 24ore Motta Cultura. Palazzo Reale, piazzetta Reale (piazza del Duomo), 20122 Milano; 02-54917; www.comune.milano.it/palazzoreale. Dal 20 settembre all’11 novembre; lunedì 14,30-19,30, martedì-domenica 9,30-19,30; giovedì 9,30-22,30. Catalogo pubblicato da Federico Motta Editore (02-30076253).
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IDENTITÀ INCERTE Negli ultimi tempi, nell’ambito del fotoreportage si è affermata una linea di condotta che declina una inconsueta forma di comunicazione visiva. Senza necessariamente cambiare l’ordine dei fattori, viene proposto un fotogiornalismo formato e composto da ritratti: che dovrebbero essere espressivi di condizioni (e condizionamenti) sociali e di costume, ma che finiscono soltanto per essere superflui e noiosi, tanto da risultare totalmente insignificanti. In assoluto, non consideriamo il ritratto estraneo al percorso fotogiornalistico (tanti esempi, non necessariamente storici, confermano questa opinione), però ci allineiamo con le perplessità di chi solleva consistenti dubbi sull’efficacia e legittimità lessicale di questo attuale indirizzo
iusto sullo scorso numero di luglio, presentando l’edizione 2007 di Visa pour l’Image, il più importante appuntamento internazionale del fotogiornalismo, che si tiene a Perpignan, in Francia, ai piedi dei Pirenei orientali, la prima settimana di settembre (e poi le mostre a contorno rimangono aperte fino a metà mese), abbiamo riportato l’editoriale del direttore Jean-François Leroy, che indica la tematica principale degli incontri e dibattiti, che vivacizzano l’intero programma. Le sue annotazioni si propongono come atto di denuncia contro quella che apparentemente risulta essere una forte tendenza del fotogiornalismo attuale: il ritratto. Curiosamente, ancora prima di leggere queste considerazioni, che arrivano da un pulpito alto, che osserva e analizza il fotogiornalismo da una pro-
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spettiva estremamente qualificata, nel nostro (piccolo) anche noi avevamo cominciato a riflettere sulla stessa vicenda: per esempio, confrontandoci, a metà giugno, con Piero Raffaelli, che oltre a essere un attento fotogiornalista sa rilevare e approfondire le tematiche che attraversano o definiscono lo stesso mondo del fotogiornalismo. Proprio di abuso di ritratto abbiamo parlato, riscontrandone una certa inconsistenza giornalistica, peraltro subordinata all’insieme dei nostri attuali tempi. Più avanti, entrando nello specifico, approfondiamo e chiariamo; per intanto, riprendiamo le considerazioni di Jean-François Leroy, che introducono Visa pour l’Image 2007 (sul cui svolgimento riferiremo sul numero di novembre di FOTOgraphia). Annota Jean-François Leroy: «Quest’anno, in materia di fotogiornalismo, si è manifestata una
Realizzato nel Westerwald, nel 1914, e originariamente indicato come Giovani contadini, in semplicità, questo è uno dei primi ritratti eseguiti da August Sander per la sua ipotizzata galleria Uomini del XX secolo, ovverosia archetipi della società del tempo. A differenza delle scorciatoie di certo fotogiornalismo dei nostri giorni, la rappresentatività e identità di questa consistente serie di ritratti è innegabile. Tra l’altro, questo stesso ritratto è al centro della narrazione del romanzo Tre contadini che vanno a ballare..., di Richard Powers (Bollati Boringhieri).
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Autentica fototessera in utilizzo giornalistico, stravolto rispetto le intenzioni originarie. Due casi della metà degli anni Novanta, che danno luminescente risalto proprio alla vituperata fototessera, qui elevata di rango. A un anno dalla scomparsa, nell’agosto 1995 Life ha richiamato la celebrazione di Jacqueline Kennedy, moglie di John F. Kennedy, il presidente ucciso a Dallas nel novembre 1963 ( FOTOgraphia, novembre 2003), con una serie di tre giocose fototessere da cabina automatica. Un anno dopo, nell’estate 1996, un’edizione speciale dello stesso Life ha visualizzato in copertina ventiquattro fototessere adolescenziali di autorevoli personaggi statunitensi, appartenenti alla generazione dei boomers, tutti influenti sulla storia contemporanea degli Stati Uniti.
forte tendenza: la people-izzazione dell’informazione. I fotografi non sanno più come rappresentare vagabondi, militanti, combattenti, soldati, donne violentate, figli delle vittime, parenti delle vittime, contadini, pugili, prostitute, transessuali, orfani, immigrati, drogati o un qualunque rappresentante di altre categorie sociali, culturali, religiose, professionali... E allora cosa fanno? Eseguono ritratti. «Esausti! Siamo esausti di dovere osservare con un’espressione comprensiva o entusiasta tutti questi portfolio improbabili, pieni di fotografie che sembrano essere uscite da una di quelle cabine per le fototessere. Ritratti. Il trucco consiste nel cercare di fare di una mosca un elefante. Fotografie posate o, ancora peggio, imitazioni di fotografie per passaporto, che non vogliono dire nulla. Assenza totale di riflessione, di immaginazione».
NON TANTO FOTOTESSERA Quindi, Jean-François Leroy conclude rilevando che, tra l’altro, si tratta perfino di «una immagine conformista e asettica della realtà. E noiosa, talmente noiosa». Concordiamo e condividiamo, per quanto sia-
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mo personalmente affascinati dal fenomeno originario della fototessera (alla quale si è riferito in negativo Jean-François Leroy), cui riserviamo sempre una concentrata attenzione. Tanto è vero che un paio di anni fa, nell’ottobre 2005, abbiamo analizzato la specifica e peculiare manifestazione della fotografia di identità, apprezzandone anche gli slittamenti consapevoli e motivati nel fotogiornalismo. Sopra tutto, allora sottolineammo casi nei quali l’autentica ed esplicita fototessera (tale in origine) è salita agli onori di qualificati reportage e richiami giornalistici primari, che per necessità proprie, e diverse, ne hanno messo a frutto l’inconfondibile estetica: ripetiamo quelle segnalazioni.
Prima di altro, citammo e visualizzammo due copertine dell’edizione mensile di Life, che ancora oggi riproponiamo (pagina accanto). Nell’agosto 1995, a un anno dalla scomparsa, Life dedicò la propria copertina a Jacqueline Kennedy, moglie del presidente ucciso a Dallas nel novembre 1963. Il collegamento a John F. Kennedy fu stabilito da una serie di tre giocose fototessere da cabina. A seguire, l’estate successiva, Life realizzò un numero speciale sulla generazione dei boomers -i nati nell’epoca del “baby boom”, dal 1946 al 1964-, andando ad analizzare cinquanta personaggi influenti sulla storia contemporanea degli Stati Uniti. A parte altre considerazioni, peraltro già approfondite in un tempestivo intervento redazionale (FOTOgraphia, settembre 1996), nel contesto della fototessera nel giornalismo sottolineammo -e oggi ribadiamo- la copertina costruita con ventiquattro fototessere semi-adolescenziali dei personaggi, sulle cui identità ora sorvoliamo. Obbligatoriamente, oggi osserviamo e rileviamo che quanto è accaduto successivamente, arrivando addirittura a definire tanto (troppo) fotogiornalismo degli ultimi anni, è qualcosa di assolutamente diverso: conformista e noioso, oltre che privo di contenuti e significato. Infatti, scartando a lato dalla riprovazione di Jean-François Leroy, che comunque non ha questo scopo, confermiamo e sottolineiamo il valore straordinario e inviolabile della fototessera: sia come certificazione di identità (certa?), sia nelle proprie fenomenologie parallele e conseguenti, sulle quali ci siamo allungati nella riflessione giornalistica e storica appena ricordata (ripetiamolo, nell’ottobre 2005). Per questo, rileviamo come non si tratti tanto di additare un tipo di fotografia, quanto di contestarne lo
slittamento di destinazione. A tutti gli effetti, molti dei ritratti del fotogiornalismo d’oggi sono assolutamente fuoriluogo (e fuorigioco), oltre che superflui, se non addirittura inutili: appunto, scorciatoie di comodo, in assenza di autentiche idee espressive. In mancanza di idee raffigurative, capaci di sintetizzare una situazione, piuttosto che un avvenimento, ecco che l’incessante sequenza di volti protagonisti (o presunti tali) viene investita di un ruolo di comunicazione. Può essere, ed è anche stato, ma non è questo il caso.
ALLE ORIGINI Se proprio dobbiamo identificarne una sorta di origine, possiamo anche ricordare i ritratti posati della classe politica statunitense del tempo, realizzati da Richard Avedon alla sua nota maniera, che nell’ottobre 1976 Rolling Stone finalizzò alla commemorazione del Bicentenario della nazione (qui sotto). Quindi, a seguire, emotivamente coinvolgenti, fino ad essere addirittura devastanti, sono state le fotografie di identificazione delle vittime della dittatura cambogiana del feroce Pol Pot (Saloth Sar), che attraverso i suoi Khmer Rossi, terribile polizia di regime (in origine guerriglieri), dal 1976 al 1979 ha sterminato almeno due milioni di cittadini inermi, che prima dell’esecuzione venivano appunto fotografati alla maniera della fototessera di identificazione, davanti a un improvvisato fondo bianco. Una volta ritrovati, questi archivi hanno espresso il cinismo e la crudeltà di una barbara e spietata dittatura, che si è affermata sul sangue versato dal proprio popolo (alle pagine 44 e 45 la pubblicazione su Reportage dell’aprile 1995, che ha anticipato successivi interventi giornalistici sull’efferata vicenda).
Per celebrare il Bicentenario degli Stati Uniti, che peraltro è caduto in un controverso periodo storico della nazione, sconcertata dallo scandalo Watergate, che costò la presidenza a Richard Nixon, e afflitta dalla guerra in Vietnam, Rolling Stone assegnò a Richard Avedon una intensa serie di ritratti del mondo politico del tempo. Pubblicata il 21 ottobre 1976, e distribuita su ventotto pagine, questa galleria, in equilibrio tra espressività artistica e giornalismo, venne identificata come The Family (della politica statunitense). Ritratti in puro stile Avedon: fondo bianco, impietose inquadrature frontali, composizione sul vetro smerigliato 8x10 pollici (con conservazione, in stampa, del bordo caratteristico dello châssis).
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Nell’aprile 1995, il mensile francese specializzato Reportage ha anticipato un argomento successivamente ripreso da molti altri giornali di tutto il mondo. Dagli archivi dello spietato regime dittatoriale del cambogiano Pol Pot sono stati recuperati i cinici ritratti che i Khmer Rossi realizzavano prima dei propri efferati massacri (dal 1976 al 1979, si ipotizzano e conteggiano almeno due milioni di vittime). Ancora, ritratto che approda al giornalismo in virtù della propria intensa forza comunicativa. Non si può restare indifferenti di fronte a questi sguardi, che esprimono un terrore rassegnato, e per questo ancora più crudele.
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Analogamente significativi dei fatti raccontati (o da raccontare) sono stati i fotoritratti di guerriglieri talebani, recuperati dal reporter Thomas Dworzak dell’agenzia Magnum Photos in uno studio fotografico abbandonato di Kandahar, Afghanistan, quartier generale del teorico dell’integralismo Mullah Omar. Si tratta di una fantastica serie di fotoritratti trovata entrando in città assieme alle truppe vittoriose, che ha seguìto per conto del mensile The New Yorker (che li ha pubblicati nel proprio numero del 28 gennaio 2002). L’insieme dei ritratti rivela l’immagine che i guerriglieri avevano di sé e avrebbero voluto esternare, indipendentemente dalle oscurantiste imposizioni religiose dei propri capi. I contesti sono sconcertanti; a parte l’immancabile presenza di armi, so-
prattutto il famigerato Kalashnikov, vistose colorazioni artificiose danno risalto ai fondi di alpi svizzere, con tanto di immancabili chalet, e alle tinte grigie e marroni ufficialmente proibite (qui sotto). Soli o in gruppo, sono assassini fuggiti di fronte all’avanzata del nemico, che hanno lasciato una irragionevole annotazione della propria presenza. Che, appunto, diventa consistente materia di reportage, raccolta anche nel volume Taliban (Trolley Books, 2003; 65 fotografie; 128 pagine 15x20cm, cartonato; 25,00 eu-
SENZA IDENTITÀ ro; FOTOgraphia, ottobre 2005). Per concludere la retrovisione sullo sconfinamento del ritratto nel fotogiornalismo, le cui attuali interpretazioni visive non convincono molti osservatori, noi tra questi, ricordiamo anche i posati con i quali, nel novembre 2001, lo statunitense Vanity Fair ha commentato lo sconvolgimento provocato dagli attentati terroristici dell’Undici settembre, appunto affidato ai volti e sguardi di una identificata serie di cittadini newyorkesi (fotografie di Jonas Karlsson; a pagina 46).
Nel fotogiornalismo dei nostri giorni recenti, l’attuale abuso di ritratti sostanzialmente inconsistenti è di altra natura; non ha alcun punto in comune con i casi che abbiamo appena ricordato, che hanno mirabilmente declinato nel giornalismo un genere fotografico originariamente estraneo agli stilemi propri e caratteristici del fotoreportage. Ancora ripetiamo le annotazioni di Jean-François Leroy, direttore di Visa pour l’Image, che parla esplicitamente di «people-izzazione dell’informazione», applicata soprattutto da fotografi che «non sanno più come rappresentare un qualunque rappresentante di categorie sociali, culturali, religiose, professionali» Quindi, «in assenza totale di riflessione e immaginazione», banalizzazione del ritratto come scorciatoia di maniera. Ma non è ancora questo il punto, sebbene sia motivo di profonda riflessione sullo stato e le prospettive di certo fotogiornalismo. Nello scambio di opinioni cui abbiamo accennato in apertura, Piero Raffaelli ha colto un altro aspetto, che è effettivamente discriminante, e sul quale ci fermiamo. A parte la noiosità e banalità di questi ritratti (posati di rappresentanti di categorie sociali, culturali, religiose, professionali che guardano fissi in macchina, solitamente inquadrati in ambienti anonimi), Piero Raffaelli rileva la loro sostanziale improbabilità giornalistica. Infatti, al giorno d’oggi è impossibile definire una qualsiasi categoria sociale attraverso i ritratti dei propri componenti. Oggigiorno, non ci sono più appartenenze certe e identità inconfondibili. Per esempio, nessun gruppo di studenti universitari rappresenta la propria identità geografica: dal Nord al Sud della penisola scorre una trasversalità che omogeneizza tutti e tutto. Già negli anni Sessanta, in uno dei propri Scritti corsari ospitato dal Corriere della Sera, successivamente raccolti in volume da Garzanti, Pier Paolo Pasolini osservava che la televisione aveva livellato gusti e sogni dei ragazzi italiani, tanto da
Successiva al primo utilizzo giornalistico in The New Yorker del 28 gennaio 2002, la monografia Taliban raccoglie i fotoritratti di guerriglieri talebani recuperati dal reporter Thomas Dworzak dell’agenzia Magnum Photos in uno studio fotografico abbandonato di Kandahar, Afghanistan, quartier generale del teorico dell’integralismo Mullah Omar (Trolley Books, 2003; 65 fotografie; 128 pagine 15x20cm, cartonato; 25,00 euro). I contesti delle pose, che rivelano l’immagine che i guerriglieri avevano di sé, sono sconcertanti: immancabile presenza di armi, vistose colorazioni, fondi di alpi svizzere. Soli o in gruppo, sono assassini che hanno lasciato una irragionevole annotazione della propria presenza.
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Nel novembre 2001, lo statunitense Vanity Fair ha titolato One Week in September la propria commemorazione dell’Undici settembre. Una serie di ritratti posati, realizzati dallo svedese Jonas Karlsson, ha visualizzato personaggi di New York, in qualche modo toccati dagli attentati terroristici. Ribadendo un buon uso giornalistico del ritratto, diverso da quello dal quale stiamo prendendo le distanze, ci permettiamo di sottolineare anche l’attenzione formale della riproduzione in pagina comprensiva dei bordi del fotogramma originario.
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non poter più riconoscere un giovane altoatesino da uno siciliano. Oggi, che è sopraggiunta anche una conformazione di negozi e abbigliamento (passeggiando sul Corso di Taormina si incontrano esattamente gli stessi negozi di una strada centrale di Torino, Roma, Milano, Firenze o Padova) e si sono affermati valori globali (dal telefonino all’automobile, dai fast food alle librerie supermercato), l’omogeneizzazione è addirittura devastante. Così che tutte le serie di ritratti posati sono assolutamente intercambiabili tra loro. La didascalia o il testo di presentazione possono certificare che si stanno vedendo, per esempio, universitari di Brescia, ma le stesse facce e i medesimi abbigliamenti consentirebbero di presentarli altrimenti: collettività di immigrati, soci di un circolo sportivo, dipendenti di un’industria e altro ancora. Per ogni gruppo fotografato, in incessante sequenza di ritratti che si susseguono a ritmo cadenzato, qualsiasi didascalia e indicazione è credibile e plausibile: ovvero non è discriminante, né identificatoria. Se servissero conferme, potremmo richiederne una a un quiz ripreso da un format statunitense, che va in onda su Rai Uno dall’undici giugno. Condotto da Fabrizio Frizzi, Soliti ignoti - Identità nascoste impegna i concorrenti nella combinazione di dieci identità proposte con dieci sconosciuti, fisicamente presenti in studio. Per intuito, sera dopo sera, i concorrenti debbono individuare categorie professionali o altro basandosi sul solo aspetto fisico. Ma cosa definisce un allevatore di api?, un addestra-
tore di cani?, una commessa di grande magazzino?, un sindaco?, un avvocato?, un acrobata? Ovviamente, molte soluzioni si sono basate sul gioco dei contrasti (l’attrice porno in un castigato tailleur, il bracciante in completo grigio), altre sulla curiosità: nessuna sull’identificazione certa dal solo aspetto fisico, sostanzialmente intercambiabile tra le singole identità proposte.
AUGUST SANDER Fotografo a Colonia, in Germania, dall’inizio del Novecento, dal 1911 August Sander (1876-1964) ha lavorato alla compilazione di un’opera fotografica epocale ed enciclopedica: Uomini del XX secolo fu un progetto intrapreso con puntiglio e concentrazione, che avrebbe dovuto visualizzare la società europea del tempo. «Ho incominciato i primi lavori della mia opera Uomini del XX secolo nel 1911, a Colonia, mia città d’adozione -ha annotato lo stesso August Sander-. Ma è nel mio paesetto del Westerwald che sono nati i personaggi della prima serie. Anche per il loro legame con la natura, queste persone, delle quali io conoscevo le abitudini fin dall’infanzia, mi sembravano designati apposta per incarnare la mia idea di archetipo. La prima pietra era così posta, e il tipo originale servì da referente per tutti quelli che ho trovato in seguito per illustrare nella propria molteplicità le qualità dell’universale umano». Opera incompiuta (è scontato) -presentata in estratto in molte edizioni librarie, compresa in tutte le monografie di August Sander e riunita in sette volumi in
cofanetto da Schirmer/Mosel, nel 2002 (Menschen des 20. Jahrhunderts; 1486 pagine totali 21x 28,5cm; 228,00 euro)-, Uomini del XX secolo raccoglie un campionario di diversi gruppi sociali -dai contadini agli artigiani, dagli operai agli studenti, a professionisti, artisti e uomini politici-, chiamati a svolgere il delicato ruolo di testimoni e archetipi della propria epoca. Ciò che sorprende in queste fotografie è l’atteggiamento dei personaggi, così apparentemente distaccato dall’istante dello scatto, come se l’espressione delle persone così fotografate sia conforme all’idea che ognuno aveva di sé, di ciò che in loro è più tipico, anziché l’adozione di una posa per loro più vantaggiosa, ma al tempo stesso più artefatta. È come se le qualità narrative dei soggetti siano già presenti e che il compito del fotografo fosse solamente quello di rispettare la loro più autentica natura: in tutti i casi, a differenza dell’omogeneità di molti ritratti fotogiornalistici dei nostri giorni, ogni ritratto di August Sander identifica professioni e personalità certe. A parte l’aiuto degli abiti da lavoro (non sempre), non ci sono dubbi: ognuno è esattamente ciò che è e, soprattutto, è esattamente come si prevede che debba essere. Antropologia fotografica in manifestazione espressiva esplicita (quattro esempi, a pagina 48). Tanto che, ricordiamo anche questo, il ritratto dei tre giovani contadini vestiti a festa, fotografati nel Westerwald nel 1914, ha ispirato uno straordinario romanzo di Richard Powers, considerato tra i maggiori scrittori statunitensi contemporanei. Pubblicato in Italia da Bollati Boringhieri di Torino, nel 1991, Tre
contadini che vanno a ballare... si basa proprio sulla celebre fotografia di August Sander (Three Farmers on Their Way to a Dance, 1985; traduzione italiana di Luigi Schenoni; 374 pagine 13,8x21,7cm). La fotografia è al centro della narrazione: ritratto di uomini comuni, consegnati al futuro e immortalati in un proprio ultimo momento di innocenza, alle soglie della Grande guerra (a pagina 40). Alle loro vicende (ipotizzate), narrate attraverso le calamità del secolo, si affiancano e alternano due storie dell’America di oggi. Nella prima, vista la fotografia in un museo, il giovane narratore è ossessionato dal desiderio di scoprire il mistero delle sue origini. Nella seconda, il redattore di una rivista trova una copia della fotografia tra i ricordi di famiglia ed è indotto a scavare nel proprio passato. In una dimensione mitologica, i tre contadini di August Sander tornano a vivere di vita propria, all’interno della storia del Ventesimo secolo. Nell’insieme, le azioni e intenzioni fotografiche di August Sander hanno risposto a un clima del proprio tempo, sociale oltre che culturale, e a un ruolo dell’immagine che stava definendo proprie peculiari identità espressive. A differenza e al contrario, nell’identità incerta e improbabile dei possibili soggetti odierni, l’abuso di cattivo ritratto nell’ambito del fotogiornalismo di oggi risponde a niente e nessuno. Qualità formali a parte, che rappresentano una variabile della quale non teniamo alcun conto, come già rilevato si tratta di palliativi e scorciatoie di comodo. Indipendentemente dai tanti condizionamenti che ne minano il cammino, la foto-
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FABBRO, KÖLN - LINDENTHAL, 1924 (CIRCA) KÖLN, 1931 GIUDIZIARIO,
NOTAIO, KÖLN, 1924
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ALBERGATORE, KÖLN - LINDENTHAL, 1931 (CIRCA)
Opera incompiuta, Uomini del XX secolo di August Sander raccoglie un ampio campionario di diversi gruppi sociali, chiamati a svolgere il delicato ruolo di testimoni e archetipi della propria epoca. Ciò che sorprende in queste fotografie è l’atteggiamento dei personaggi, apparentemente distaccato dall’istante dello scatto, come se l’espressione delle persone così fotografate sia conforme all’idea che ognuno aveva di sé, anziché l’adozione di una posa per loro più vantaggiosa, ma al tempo stesso più artefatta.
grafia dei nostri giorni e il fotogiornalismo contemporaneo hanno bisogno di altro. Soprattutto di autori che sappiano riferirsi al proprio linguaggio espressivo. Soprattutto di autori che conoscano il suo lessico esplicito e implicito, e lo sappiano declinare, per raggiungere il cuore e la mente dell’osservatore (le sue capacità irrazionali e razionali di commuoversi, indignarsi, riflettere) con un percorso che sia onesto e schietto, prima ancora di essere diretto. Maurizio Rebuzzini Ricerca iconografica di Ciro Rebuzzini
C
onvinti come siamo che la vita di ciascuno di noi sia un continuo intreccio di esperienze e influenze, e che ogni attività sia determinante non soltanto per se stessa, ma per le proprie consecuzioni, non possiamo ignorare che Fiamma Rossa Secchi, della quale presentiamo una concentrata rilevazione fotografica, sia architetto. Per generazione, cultura e scelte esistenziali è un architetto definito da un intenso spirito sociale, che la porta a finalizzare la propria specifica competenza verso tematiche del miglioramento della vita: non la propria, ma quella collettiva, di tutti. Così che, questi sono giusto anche i valori espliciti e impliciti delle sue fotografie della serie dei Paesaggi urbani con automobili, attraverso le quali Fiamma Rossa Secchi sottolinea un diffuso disagio che da tempo definisce la vita delle grandi metropoli occidentali. La conoscenza e l’esperienza di Fiamma Rossa Secchi, che dipendono anche dalle sue attività produttive materiali, emergono nelle fotografie che consentono anche a noi osservatori di avvicinare la materia rappresentata, in modo che anche noi ne possiamo presto comprendere grado a grado i fenomeni, le proprietà e le leggi, come pure i nostri rapporti con la realtà: così come l’autrice li ha già intuiti e sintetizzati.
Architetto di professione, fotografa per scelta espressiva aggiunta, Fiamma Rossa Secchi osserva la città con un occhio educato alla visione e sottolineatura di inevitabili (?) contraddizioni esistenziali. In particolare, una sua indagine sull’invadenza delle automobili nel paesaggio urbano è riunita in una concentrata serie fotografica allestita in esposizione itinerante, veicolata in un identificato circuito di indirizzi sociali. Così che le sue riflessioni visive non sono acquisite e considerate dal puro punto di vista fotografico, che ne definisce l’inevitabile forma, ma da quello della meditazione, che ne identifica il contenuto
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PAESAGGI
Werner Bischof
URBANI
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Nell’osservatore, ogni fotografia di Fiamma Rossa Secchi suscita percezioni e impressioni proprie. Forte anche di ripetizioni e sottolineature, la somma delle singole riflessioni produce quel confortevole salto in avanti nel processo della conoscenza che fa nascere il concetto: che non riflette più l’aspetto singolo e i nessi esterni dei soggetti, ma coglie l’essenza della realtà, il suo insieme e il suo nesso interno. La differenza non è soltanto quantitativa ma anche qualitativa. Riflettiamone, ricavando osservazioni mirate dal testo con il quale l’autrice Fiamma Rossa Secchi accompagna le proprie immagini. Automobili: individuate come rappresentanti esemplari della vita quotidiana dei nostri tempi. Inevitabili e ingombranti elementi del paesaggio urbano, che finiamo per non vedere più, pur subendone la presenza. Là dove la città si infittisce, si infoltiscono anche i veicoli, si serrano i branchi e la pedonalità diventa via via più difficoltosa, addirittura difficile. Tuttavia, la sensazione di “avvicinarsi al centro della vita”, di starne nel mezzo, finisce per attutire il senso originario di soffocamento, fino a rendere paradossalmente tollerabile il veleno che ne consegue, come si trattasse di una penitenza, per ottenere con un sortilegio chissà quale tesoro. Automobili dappertutto. Mandrie di animali meccanici invadono il territorio, si muovono in branchi, più o meno ser-
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rati, o sostano, come mucche sazie, con i propri dorsi lucidi, allineati. Nonostante il proprio carattere “antiumano”, si moltiplicano in quantità esponenziale, rispondendo all’originaria crescita demografica delle città. La loro presenza costante, che è considerata sostanzialmente inevitabile, le ha annesse a pieno titolo all’insieme dei manufatti ed elementi che compongono il controverso paesaggio urbano della nostra attualità esistenziale. La personalità delle città odierne è l’esatto rovescio della città-cartolina. Questa personalità, che ci circonda, sommerge e coinvolge, introduce un’altra forma di retorica, successiva e antagonista a quella idilliaca della “cartolina illustrata”: di fatto costruisce un’idea mitica della vita, e del proprio scorrere a ritmo sempre più accelerato, fino a definire i connotati di un nuovo mondo, nel quale convivono elementi che dovrebbero essere antitetici e che, nelle quantità ormai incontrollabili di automobili attorno a noi, relegano la presenza dell’uomo in secondo piano. A questo proposito ricordiamo ancora le polemiche che accompagnarono la rilevazione urbana del centro storico di Bologna, che alla fine degli anni Sessanta il fotografo Paolo Monti concordò con la municipalità, facendo togliere le automobili dalle strade che via via fotografava. Svuotata dalle automobili, la città apparve come irreale. Ai tempi, si contestò che non si può proditoriamente escludere, né eliminare il divenire della realtà. Però: un conto è la registrazione e documentazione del Tempo, nelle proprie connotazioni caratteristiche. Un altro è la sovrapposizione alla vita: ed è su questa che ha
agito Fiamma Rossa Secchi, le cui automobili sono soggetto invadente, non plausibile elemento complementare. Tanto che, dal punto di vista rappresentativo (non soltanto raffigurativo dell’apparenza), la sua ricostruzione fotografica in colori al negativo non è certo casuale o soltanto estetica. Nel concreto, questa rappresentazione in forma fotografica nega l’aspetto ideologico e mondano che viene solitamente offerto all’automobile in base a pre-giudizi opportunamente confezionati e finalizzati. Nella propria evidenza, appunto sottolineata da una rappresentazione fotografica di forte personalità, l’autrice Fiamma Rossa Secchi porta in primo piano il disagio dell’ambiente urbano attuale. La sua è una autentica e apprezzata messa in valore di elementi sui quali indirizzare la riflessione e orientare interventi correttivi, sicuramente necessari e urgenti. Sfalsate dalla banalità del vero, queste coloriture riprendono toni che accompagnano le singole esistenze individuali: blu patinato dello schermo televisivo, bagliori delle cucine, accesi cromatismi di insegne incombenti. La condizione della vita. Quindi, forma fotografica nuda. Pura immagine, compromessa con la realtà, con il visibile delle relazioni. Quindi, ancora, ipotesi teorica del vivere, del sopravvivere in un altro mo(n)do. L’ostensione delle automobili, così abilmente evocata dalla fotografia di Fiamma Rossi Secchi, esorcizza e scongiura. Imperiosamente, sollecita ad agire verso un cambiamento ancora possibile. Da esigere a gran voce. Angelo Galantini
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Viaggio fotografico attraverso la terra del caffè sostenibile, In Principio è un progetto pensato da Illycaffè come omaggio alla storia, alle tradizioni e agli splendidi panorami dei paesi nei quali lavorano i coltivatori da cui Illy acquista il proprio caffè. È un viaggio fotografico in venticinque immagini, realizzato da Sebastião Salgado attraverso Brasile, India, Etiopia e Guatemala, cominciato nel luglio 2002. Le immagini descrivono la cultura del caffè che esiste in questi paesi; sono state selezionate per illustrare le varie tappe del processo di lavorazione: dalla raccolta all’essiccazione, fino al momento in cui i chicchi, chiusi nei propri sacchi di juta, iniziano il viaggio verso l’Italia per la tostatura. Come è ampiamente noto, Sebastião Salgado è considerato uno tra i più grandi fotografi umanitari e sociali al mondo. Di grande rilevanza per Illy è stato il fatto che, in qualche modo, la sua vita sia sempre stata collegata al caffè. È nato nel 1944 in una famiglia numerosa dello stato interno di Minas Geiras, in Brasile, da dove suo padre trasportava il caffè verso i porti lungo la costa. Prima di iniziare la sua carriera di fotogiornalista, Sebastião Salgado ha lavorato per l’International Coffee Organisation di Londra (FOTOgraphia, novembre 1994). Proprio il Brasile è stata la tappa iniziale del viaggio In Principio, nel 2002. Il paese è leader mondiale nella produzione di caffè, e proprio in Brasile si è tenuto il primo Premio Qualità di Illy. Dalla Zona da Mata e Patrocínio, nello stato di Minas Gerais, alla Nova Zona Venda do Imigrante, nello stato di Espírito Santo, le immagini di Sebastião Salgado documentano la raccolta del caffè verde e catturano la bellezza impressionante della terra e la dignità dei coltivatori che la lavorano. Una volta, queste zone montuose non erano considerate adatte alla coltivazione del
SEBASTIÃO SALGADO / AMAZONAS IMAGES / CONTRASTO (2)
IN PRINCIPIO (2002-07)
Donne che mescolano il caffè per asciugarlo, Aricha, Etiopia; 2004. Raccoglitrice di caffè, Cooperativa Todo Santerita, Todos Santos Cuchumatanes, Guatemala; 2006.
(pagina successiva) Stato Minas Gerais, città Manhuaçu, proprietà Famiglia Dutra, Brasile; 2002. Allana Coffee Curing Works, Stato di Karnataka, India del Sud; 2003.
caffè, ma, attraverso i miglioramenti messi in atto da Illy e dai coltivatori negli ultimi dieci anni, ora sono rigogliose e ricche di piante di caffè. Questo primo reportage di Sebastião Salgado è stato presentato in anteprima mondiale all’Auditorium di Roma, nel 2003. A seguire, nel 2003, l’India è stato il secondo paese coinvolto nel progetto. Illy e Sebastião Salgado hanno visitato lo stato di Karnataka, nell’India meridionale, le cui piantagioni di caffè Arabica conferiscono alla miscela Illy un corpo pieno e un leggero ma piacevole tocco amaro. Le fotografie realizzate tra le piantagioni di caffè (all’ombra di alte piante di frutta tropicale, noce moscata, pepe e cardamomo) e nelle grandi aree al coperto, dove i chicchi vengono conservati, ricordano il ritmo e lo scorrere della vita quotidiana nelle piantagioni. Le forti immagini in bianconero che compongono il reportage sono state presentate in anteprima alla Chapelle de l’Hu-
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colto e la lavorazione dei chicchi di Arabica con uno sfondo assolutamente magnifico. Il Guatemala gode di paesaggi caratterizzati da forti differenze, che si riflettono anche nelle caratteristiche del caffè prodotto in queste regioni, fortemente caratterizzato da note al cioccolato. Il reportage finale è stato presentato in anteprima presso Galleria Illy a Milano, nel 2006. A.G. Sebastião Salgado: In Principio. Venticinque immagini descrivono la cultura del caffè. Mostra realizzata da Illycaffè (Trieste), in collaborazione con Amazonas Images (Contrasto) e NBpictures e con il supporto della International Coffee Organisation e dell’Ambasciata Brasiliana a Londra. Gallery 32, 32 Green Street, London W1K 7AT, Gran Bretagna; 0044-20-73999282; www.brazil.org.uk/gallery32, gallery32@brazil.org.uk. Dall’11 settembre al 6 ottobre; lunedì-sabato 10,30-17,00.
SEBASTIÃO SALGADO / AMAZONAS IMAGES / CONTRASTO (2)
manitè, a Parigi, nel 2004. Visitata nel 2004 e 2005, l’Etiopia, patria del caffè, è stata la terza tappa del viaggio In Principio. Pur essendo uno dei paesi più poveri al mondo, è uno dei più grandi produttori di Arabica. I coltivatori di caffè etiopi lavorano solitamente quantità piuttosto ridotte, e l’appoggio di Illy contribuisce al miglioramento della qualità dei raccolti, come delle condizioni sociali, educative e di salute, attraverso iniziative a livello locale. In Etiopia, Sebastião Salgado ha fotografato a Yrga Ch’effe, la regione in cui è prodotto uno tra i migliori caffè Arabica del mondo. Le straordinarie immagini realizzate sono state presentate in anteprima mondiale al Lingotto di Torino, nel 2005. Lo scorso 2006, il Guatemala è stato l’ultimo paese del reportage In Principio. Qui, Sebastião Salgado ha visitato le regioni di Antigua e Atitlan, fotografando la crescita, il rac-
al centro
della fotografia
tra attrezzature, immagini e opinioni. nostre e vostre.
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opra tutto, la nuova digitale Fujifilm FinePix S8000fd presenta le fantastiche credenziali del proprio zoom ad elevata escursione focale: variazione 18x (!), dalla visione grandangolare 27mm all’avvicinamento supertele 486mm (nell’equivalenza con il fotogramma 24x36mm). Considerata sia la potente variazione focale, sia le prerogative proprie e caratteristiche della fotografia tele, lo zoom è provvisto di Dual Image Stabilization: come precisa la definizione, un sistema a doppia stabilizzazione d’immagine (CCD Shift Image Stabilization e High Sensibility). L’esclusivo zoom stabilizzato, che vanta la più elevata escursione oggi disponibile sul mercato, si combina con l’alta risoluzione di otto Megapixel (8,3 Megapixel effettivi): il tutto in un corpo macchina di dimensioni sostanzialmente contenute, che of-
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fre la praticità operativa della visione reflex. In particolare, l’orientamento verso le focali tele è congeniale alle applicazioni più consuete della fotografia, che spaziano dal paesaggio alle azioni rapide dello sport, al ritratto. Inoltre, l’ulteriore possibile moltiplicazione 5,1x dello zoom digitale consente di arrivare all’ingrandimento complessivo 91,8!
BEN PROTETTA A dispetto (quasi) delle proprie sostanziose prerogative tecniche, la Fujifilm FinePix S8000fd è sostanzialmente compatta, molto più piccola di quello che si potrebbe (erroneamente) immaginare: tutto è racchiuso in un corpo macchina di 111,3mm di larghezza, per 78,9mm di profondità e 78,2mm di altezza, di soli 412 grammi di peso.
La nuova digitale Fujifilm FinePix S8000fd propone un potente zoom 18x, che esordisce all’ampia visione grandangolare 27mm per approdare a un consistente avvicinamento tele 486mm (nell’equivalenza con il fotogramma 24x36mm). Oltre la tecnologia proprietaria Face Detection, anche la confortevole Dual Image Stabilization, per riprese di efficace nitidezza L’innovativo zoom (a confortevole apertura relativa f/2,84,5) rientra perfettamente all’interno, proteggendo i preziosi elementi ottici dal rischio di colpi e consentendo di riporre rapidamente l’apparecchio nella propria custodia. Come annotato, la FinePix S8000fd è dotata dell’innovativo sistema Fujifilm CCD Shift Image Stabilization, tecnologia proprietaria, che rileva e corregge automaticamente eventuali vibrazioni involontarie al momento dello scatto. Inoltre, presenta la conosciuta e apprezzata modalità Picture Stabilization, ancora tecnologia proprietaria Fujifilm, che finalizza l’alta sensibilità in due direzioni: per “congelare” ogni movimento del soggetto, anche rapido, o per produrre fotografie adeguatamente nitide anche in condizioni di luce scarsa. A differenza, poi, delle configurazioni digitali che non consentono di usare il proprio teleobiettivo quando il sensore non viene colpito da una ade-
guata quantità di luce, il sistema Dual Image Stabilization della Fujifilm FinePix S8000fd risolve molto efficacemente questa condizione, garantendo altresì scatti nitidi, perfettamente a fuoco e senza effetto mosso. Inoltre, l’impugnatura in gomma è stata progettata per garantire una solida presa, che previene ulteriormente il rischio di vibrazione dell’apparecchio e la conseguente perdita di nitidezza dell’immagine.
VOLTI A DISTANZA La certezza dell’immagine formalmente perfetta (i contenuti dipendono da altro) viene ulteriormente garantita dall’adozione della tecnologia Face Detection, ideata da Fujifilm. Il sistema Face Detection funziona mediante la triangolazione tra occhi e bocca, attraverso un algoritmo, per finalizzare e perfezionare la messa a fuoco, il bilanciamento del bianco e l’esposizione di ben dieci volti all’interno di uno stesso fotogramma. Un riquadro verde circonda il volto del soggetto principale sullo monitor LCD della dell’apparecchio, mentre diversi ulteriori riquadri bianchi identi-
ZOOM 18x!
ficano fino a nove altri soggetti. Un sistema di rilevamento del movimento allinea ai soggetti i valori tecnici impostati automaticamente, fino a quando rimangono all’interno dell’inquadratura. Usando la funzione Face Detection con uno zoom 18x in proiezione tele, si possono mettere perfettamente a fuoco i volti dei soggetti da grande distanza e concentrarsi sull’inquadratura perfetta. Inoltre, la stessa funzione Face Detection della FinePix S8000fd è in grado di rilevare ed eliminare gli occhi rossi durante lo scatto (selezionando la modalità occhi rossi).
ALTA SENSIBILITÀ La Fujifilm FinePix S8000fd offre sensibilità pari a 1600 Iso equivalenti, con otto Megapixel a piena risoluzione; oppure pari a 6400 e 3200 Iso equivalenti a una risoluzione dimezzata di quattro Megapixel: nel proprio insie-
me, condizioni essenziali e discriminanti per ottenere fotografie di ottima qualità con luce scarsa o per riprendere soggetti in rapido movimento. Ancora, la FinePix S8000fd presenta il sistema Intelligent Flash di Fujifilm, che controlla la potenza del flash elettronico incorporato, per ottenere un’illuminazione naturale del primo piano combinata con un’esposizione bilanciata dello sfondo. La modalità Natural Light & Flash (luce naturale più flash) scatta due fotografie in rapida successione, una con il flash e una senza. Entrambe le acquisizioni vengono poi visualizzate, una a fianco all’altra, per un rapido confronto, in modo da evitare difficili impostazioni del flash con la possibilità di perdere il momento magico per lo scatto. Il flash elettronico incorporato ha una copertura da 0,5 a 8,8m all’estremo grandangolare dell’escursione zoom, e da 0,50 a 1,6m in posizione
tele; in modalità macro assicura una illuminazione ottimale da 30cm a tre metri. In assoluto, dispone di modalità funzionamento automatica, riduzione occhi rossi, inserimento forzato, flash volontariamente disattivato, sincronizzazione sui tempi lunghi, riduzione occhi rossi più sincronizzazione sui tempi lunghi.
ANCORA Tra le caratteristiche tecniche della nuova digitale Fujifilm FinePix S8000fd si devono ancora annotare diverse fantastiche prerogative di uso. Anzitutto, annotiamo che oltre le condizioni standard di messa a fuoco (da 70cm, in posizione grandangolare, e da 1,5m, all’estremo tele), è selezionabile un aggiustamento Macro (da 10 a 80cm alla focale grandangolare e da 1,2 a 3,2m, in quella tele) ed è presente una eccellente funzione Super Macro, con accomodamento da un
solo centimetro di distanza. Quindi, il monitor LCD TFT esterno da 2,5 pollici è dotato di rivestimento Wide View, che estende l’angolo di visualizzazione, anche in condizioni di illuminazione diretta. In alternativa, il mirino reflex EFV offre una alta risoluzione da 230.000 pixel, con cadenza a sessanta fotogrammi al secondo, per una visione nitida e fluida in tempo reale. Registrazione video a 320x 240 pixel o 640x480 pixel a trenta fotogrammi al secondo, con audio mono e Electronic Image Stabilization. Bilanciamento del bianco automatico, manuale (sereno, ombra, luce fluorescente / diurna, luce fluorescente / calda, luce fluorescente / fredda, luce a incandescenza) o personalizzato. Slot per schede di memoria xD-Picture Card e Secure Digital. (Fujifilm Italia, via dell’Unione Europea 4, 20097 San Donato Milanese MI). Antonio Bordoni
Amore & Psiche I volti dell’amore: immagini e parole gorie: Poesia e Fotografia, per ognuna delle quali sono previste due sezioni (una aperta a tutti, sul tema Amore & Psiche; l’altra riservata ai farmacisti, iscritti all’ordine professionale di categoria, sul tema Amore & Psiche come Benessere & Salute). Nella categoria Poesia, ogni partecipante può trasmettere fino a tre poesie, al più di trentasei versi ognuna; le poesie devono essere inedite e non aver partecipato ad altri concorsi di poesia. Nella categoria Fotografia, ogni partecipante può inviare fino a tre
opere fotografiche inedite, che non abbiano partecipato ad altri concorsi fotografici (in formato compreso tra 15x21 e 21x29,7cm). La giuria è composta da Mara Accettura (giornalista), Enrico Finzi (sociologo), Simona Izzo (attrice, regista, scrittrice), Raffaella Longhi (segretario, senza diritto di voto), Giancarlo Majorino (poeta, critico letterario), Maurizio Micheli (attore), Vincenzo Mirone (uro-andrologo), Alberto Moioli (esperto di fotografia), Lello Piazza (esperto di foto-
grafia), Annarosa Racca (farmacista). Termine di partecipazione 31 ottobre. Amore & Psiche, Over Media Consult, via Manini 31, 26100 Cremona; www.amoreepsicheconcorso.it. MARILYN MONROE, NEW YORK; 1956 (FOTOGRAFIA ELLIOTT ERWITT / MAGNUM PHOTOS / CONTRASTO)
rimo Concorso di poesia e fotografia, promosso e organizzato da Editoriale Giornalidea, con il patrocinio di Bayer (divisione Bayer Schering Pharma e Progetto Sapere & Salute). L’iniziativa ha due scopi: uno, sollecitare “giovani autori” (dai diciotto anni fino alla terza età e oltre) a cimentarsi nella scrittura poetica e nell’arte fotografica; due, divulgare le opere più meritorie, ponendo l’accento sull’importanza dell’amore per il benessere psicofisico in qualsiasi età, e dando risalto a espressioni di creatività che aggiungono valore alla qualità della vita. Amore & Psiche. I volti dell’amore: immagini e parole è suddiviso in due cate-
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We Speak Image e Speak Image è una collezione di moda e immagini creata dall’estro di Elio Fiorucci e dal talento dei vincitori del concorso fotografico sullo spirito dell’italianità, organizzato da Canon per raccogliere fondi a favore del Programma Giovani della Croce Rossa. Mostra/sfilata alla Galleria San Carlo di via Manzoni 46, a Milano, il 20 settembre. A seguire, la collezione, realizzata con il supporto degli innovativi prodotti Canon per il trattamento dell’immagine, sarà esposta in Fiera durante la Settimana della Moda Donna e, quindi, nello showroom di Fiorucci, il Love Therapy, di corso Europa, a Milano. Nato per celebrare il secondo anno consecutivo di Canon quale sponsor principale
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delle Settimane della Moda di Milano, Parigi e Londra e il cinquantesimo anniversario della sua presenza in Europa (FOTOgraphia, luglio 2007), oltre a Elio Fiorucci per l’Italia, il progetto We Speak Image ha visto coinvolto altri sedici stilisti europei, che hanno creato collezioni moda rappresentative dell’essenza della propria nazione, ispirandosi alle decine di migliaia di fotografie inserite dai connazionali nello sito dedicato www. canon-europe.com/wespeakimage. Inoltre, lo stesso progetto fa parte delle iniziative a sostegno della Croce Rossa, con le quali da tempo Canon presenta immagini scattate da personaggi del mondo della moda, cultura, spettacolo e sport.
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Alla Galleria San Carlo di Milano
Elliott Erwitt Al LuccaDigitalPhotoFest 2007 erzo LuccaDigitalPhoto Award, premio avviato con Douglas Kirkland (FOTO graphia, febbraio 2006), Elliott Erwitt sarà ospite d’onore del qualificato festival, in programma dal ventiquattro novembre al sedici dicembre prossimi nell’affascinante città toscana. Quindi, palpitante attesa per il fine settimana a cavallo tra novembre e dicembre: a Lucca, Elliott Erwitt presenta il suo book-signing nel pomeriggio di venerdì trenta novembre, prima
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della cerimonia serale di assegnazione dell’Award. Nello stesso fine settimana, sarà anche a disposizione del pubblico presso la Live-Area del LuccaDigitalPhotoFest. Negli stessi giorni, critici fotografici, giornalisti ed esperti italiani e internazionali (alcuni, italiani-e-internazionali) attiveranno la rituale lettura dei portfolio. Associazione Toscana Arti Fotografiche, via Guidiccioni 188, 55100 Lucca; www.toscanaartifotografiche.it.
creatività, Le icone rivisitate, Fotografia e video e Collezioni.
JIANG ZHI: RAINBOW N.5, 2006
ArtVerona07. VeronaFiere, viale del Lavoro 8, 37135 Verona. Dal 18 al 22 ottobre. ArtVerona07, via Augusto Verità 3, 37121 Verona; 0458013546, fax 045-8019820.
Mercato dell’arte Appuntamento autunnale a ArtVerona07 Excursus di circa duecento opere sul collezionismo fotografico, a cura di Fabio Castelli, che parte dalla grafica antica, continua con i cliché-verre dell’Ottocento, passa alla fotografia d’arte, quando ancora non ne esisteva il mercato, e qui raccoglie a piene mani, allargandosi alle nuove tecniche, video compreso. Mostra dal taglio didattico, che mira a fare luce sulla fotografia d’arte, che sempre più incontra un collezionismo attento e appassionato. La selezione è distribuita in dieci stanze: Introduzione (Dalla grafica alla fotografia), La fotografia d’arte (Tecniche e pratiche produttive), Il procedimento polaroid, Tirature e vintage, Ubi maior... (La “notifica” della fotografia d’arte), Arte e impresa, Fotografia e
VANESSA BEECROFT: VB.725.DR, 2001
tagione autunnale del mercato dell’arte: terza edizione di ArtVerona (ventimila visitatori, lo scorso 2006), passerella commerciale delle gallerie italiane di arte moderna e contemporanea, tra le quali spicca la fotografia. La manifestazione poggia su valori generali e propri: città di forte attrazione turistica, padiglioni fieristici ampi e facilmente raggiungibili (Verona Fiere), efficace selezione degli espositori, consistente panorama di artisti e movimenti che rappresentano l’arte moderna e contemporanea, manifestazioni ed eventi collaterali. Tra queste, si segnala Le stanze della fotografia, mostra promossa da ArtVerona in collaborazione con la rivista Arte, che ne pubblica il catalogo.
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A seguire 62 Cinefestival In & Out 62 Tornando a casa? 62 Allegorie visive 63 Dietro le quinte 63 Attorno la Natura 63 Spazi teatrali
Nuove prospettive Una certa New York di Olivo Barbieri tto opere fotografiche inedite di New York, realizzate da Olivo Barbieri per l’occasione. Alla Galleria Paggeriarte di Sassuolo, in provincia di Modena, viene altresì proiettato in anteprima nazionale il film Seascape#1 Night, China Shenzhen 05, presentato in prestigiosi festival cinematografici internazionali. New York è la città dove sono contenuti simbolicamente tutti i saperi della contemporaneità. Curata da Betta Frigieri e Luca Panaro, site specific_NEW YORK 07 si relaziona contemporaneamente al tema del festivalfilosofia 2007, in programma a Modena dal quattordici al sedici settembre, dedicato al tema del Sapere, e alla manifestazione Una città da sfogliare, che festeggia i centocinquanta anni della vicina biblioteca. La serie fotografica rientra in un vasto progetto, che comprende opere fotografiche e film realizzati in alcune metropoli. Il ciclo site specific_ è cominciato nel 2004, ed è stato esposto in tutto il mondo. Olivo Barbieri ha fotografato dall’elicottero diverse aree del pianeta (Roma, Montreal, Amman, Las Vegas, Los Angeles, Torino, Shanghai, Siviglia, Petra, Pompei), trasformandole in un plastico sovradimensionato, in città mai viste prima. L’importanza della storia, la vita dei cittadini, le strutture urbane e architettoniche sbiadiscono e perdono d’im-
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portanza, lasciando il posto a una sorta d’installazione con forti componenti concettuali. Cambiare il punto di vista apre nuove prospettive anche su metropoli iperfotografate come New York. Olivo Barbieri: site specific_NEW YORK 07. Paggeriarte, piazzale della Rosa, 41049 Sassuolo MO; 05361844718; www.associazioneculturalebettafrigieri.it. Dal 14 settembre al 28 ottobre; giovedì e venerdì 16,0019,00, sabato e domenica 10,00-12,30 - 16,00-19,00; in occasione del festivalfilosofia di Modena, venerdì 14, sabato 15, domenica 16 settembre 9,00-23,00.
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Cinefestival In & Out Ottava edizione del Concorso rticolata in due temi, Cinefestival In & Out, che dà titolo al concorso, e Urban Landscape, indirizzato alla fotografia di architettura, l’ottava edizione di Cinefestival In & Out conferma la propria vocazione di racconto per immagini. In particolare, il tema permanente sollecita l’attenzione per quanto avviene durante le rassegne cinematografiche (recenti o passate, italiane o straniere). In questo modo, si mette in primo piano il pubblico, che diventa protagonista attraverso la propria esperienza, le proprie sensazioni e i propri stati d’animo. In premio, la pubblicazione delle dodici fotografie vincitrici sul calendario 2008 dedicato all’iniziativa.
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Il concorso fotografico è realizzato con la collaborazione di enti patrocinatori e finanziatori, tra i quali si segnalano EsuCultura Venezia e l’Istituto Universitario Iuav Venezia. Dal 2005, è attivo un accordo di media partnership con Non SoloCinema (www.nonsolocinema.com), rivista online di informazione cinematografica e culturale. Termine di partecipazione 2 novembre. Associazione Culturale Architettura-Cinema-Fotografia, Calle Larga Foscari 3861, 30123 Venezia; www.archcinefoto.it (http://archcinefoto.blogspot. com/2007/05/0-edizione-concorso-fotografico.html), info@ archcinefoto.it.
Tornando a casa? Funerali di guerra, contro la guerra ttraverso i funerali delle vittime statunitensi della guerra in Iraq, Andrew Lichtenstein ha documentato il sacrificio dei militari americani e il dolore delle loro famiglie. Per tre anni, ha partecipato a funerali di giovani soldati, mai più ritornati alle loro case e ai propri familiari, per confermare un’idea sovrastante: la guerra porta con sé un inestimabile sacrificio umano, che non può e non deve essere ignorato. Ac-
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canto alle ragioni di Stato, in ogni guerra vivono quelle personali di chi, con dolore e rimpianto, subisce un’inaccettabile perdita. Le fotografie di Never Coming Home fanno riflettere su quanto tutto ciò sia ingiusto, su come la guerra provochi inutili ed inevitabili sofferenze, e mostra l’insensatezza di ogni patriottismo. Andrew Lichtenstein: Never Coming Home. Galleria Grazia Neri, via Maroncelli 14, 20154 Milano; 02-625271; www.grazianeri.com, photoagency@grazianeri.com. Dal 22 ottobre al 17 novembre; lunedì-venerdì 9,00-13,00 14,00-18,00, sabato 10,0012,30 - 15,00-17,00. Catalogo pubblicato da Edizioni Charta. Mostra realizzata con il contributo di Epson e Nikon (Nital).
Allegorie visive Ritratti interpretati da Andrzej Dragan affinato indirizzo espositivo, che si muove in aree diverse dalle solite della critica fotografica (evviva!), lo Spazio Luigi Salvioli sta componendo i tratti di una visione fotografica che individua personalità che dalla professione sconfinano nell’espressività creativa. È il caso della mostra Allegories & Macabresques, del fotografo polacco (e fisico quantistico; classe 1978) Andrzej Dragan, curata da Paola Bonini e promossa e prodotta dall’Associazione Oltre la moda. Venti immagini, riprese a partire dal 2004: ritratti di personaggi noti, come David Lynch, Mads Mikkelsen e Jerzy Urban, e sconosciuti incontrati per strada, in degenze ospedaliere, presso amici realizzati con processi di elaborazione digitale personali e particolari, che ne accentuano i dettagli e enfatizzano i cromatismi o i toni. Annota l’autore: «Qualcuno dice che un buon ritratto rivela sempre una verità sul soggetto. Purtroppo, sono costretto a precisare che chi la pensa in questo modo non trova alcunché di interessante nella mia fotografia, che non ha affatto questo scopo». Infatti, la gestione informatica gli consente di reinventare il ritratto, che non appare più come semplice riproposizione
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della realtà, ma diviene interpretazione credibile, spesso metaforica. Questo non significa stravolgimento. L’autore non aggiunge elementi nuovi ed estranei, ma esaspera alcuni aspetti già presenti nelle riprese originarie: il volto di un soggetto viene composto utilizzando i particolari di diversi scatti; una cicatrice reale si moltiplica virtualmente su un corpo che si trasforma in quello martoriato di Cristo; le rugosità si accentuano per esaltare la profondità dello sguardo. Nella serata di inaugurazione, giovedì venti settembre, dalle 18,00 alle 24,00, viene presentato il volume-catalogo che accompagna l’esposizione, primo titolo di una collana con la quale l’Associazione Oltre la moda consolida l’esperienza maturata in ambito culturale e nella fotografia: saggi critici di Paola Bonini, Elisabetta Longari, Roberto Battaglia e un’intervista a Andrzej Dragan (96 pagine 13x29cm). Andrzej Dragan: Allegories & Macabresques. A cura di Paola Bonini. Spazio Luigi Salvioli, via Eustachi 2, 20129 Milano; 02-29537298; segreteria@associazioneoltrelamoda.com. Dal 21 settembre al 21 dicembre; lunedì-venerdì 15,00-19,00.
Dietro le quinte Dello star system hollywoodiano oincidenza con i fotogrammi del rullo 35mm, per trentasei esposizioni 24x36mm? Comunque, trentasei immagini di David Strick, noto fotografo statunitense, assiduo osservatore dello show business americano, esplorano con ironia l’industria del cinema hollywoodiano: appunto, Hollywood Uncelebrated. L’autore racconta una Hollywood nascosta, senza orpelli,
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lontana dalle grandi star del cinema. I soggetti delle sue immagini sono comparse, tecnici, scenografi, maschere, mostri, stunt, tutti i protagonisti “non celebrati” del processo di produzione cinematografica, immortalati in situazioni inedite e ironiche. Non ci sono attori, se non quelli appesi in aria in costumi da supereroi, o che tentano di fare surf su un materassino di gomma gonfiabile. Le fotografie esposte alla
Galleria Cedro26 di Roma sono stampate con HP Designjet Z3100 Photo su carta fotografica HP Premium Instantdry Satin. Dopo la collaborazione con le esposizioni Cinema Moments di Douglas Kirkland, pure alla Galleria Cedro26 (FOTOgraphia, ottobre 2006) e Fotografia & Cinema. Fotogrammi celebri, a cura di Maurizio e Filippo Rebuzzini, alla Galleria Grazia Neri (FOTOgraphia, dicembre 2006 e maggio 2007), una volta an-
cora HP mette a disposizione le proprie competenze e tecnologie professionali per promuovere il legame tra cinema e fotografia d’autore. David Strick: Hollywood Uncelebrated. Galleria Cedro26, vicolo del Cedro 26, 00153 Roma (Trastevere); 0658335299; www.cedro26.it, info@cedro26.it. Dal 20 ottobre al 17 novembre; lunedìgiovedì 14,00-20,00, venerdì e sabato 14,00-22,00.
Attorno la Natura Installazioni fotografiche di Simo Neri rtista di origini italiane, Simo Neri lavora tra gli Stati Uniti e Parigi. Sue opere sono esposte in importanti istituzioni, come il Ministero delle Finanze francese e la prestigiosa e qualificata Kunsthaus di Graz (Austria). In un percorso pensato appositamente per gli spazi della MyOwnGallery, Bhu si compone di una serie di installazioni fotografiche, principale mezzo espressivo e cifra caratteristica dell’arte di Simo Neri. Il titolo, la radice indoeuropea della parola physis (natura), illustra metaforicamen-
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te il procedimento creativo dell’autrice: una sorta di etimologia visuale della realtà. Coniugando elementi pittorici (i supporti di tela) ed elementi scultorei (la tridimensionalità delle opere), l’artista arricchisce il classico linguaggio fotografico, infondendo movimento alle proprie creazioni, sia nell’immagine sia nella forma. La Natura, al maiuscolo, è il tema centrale della sua ricerca. Il procedimento creativo è “circolare”, parte dal tutto per farvi ritorno attraverso un processo di frammentazione, e quindi di riunione dei dettagli. Le sue opere appaiono come un mosaico di tessere fotografiche, che a volte cade dall’alto, altre si appoggia alla parete e altre ancora ricopre il pavimento. Simo Neri: Bhu. A cura di Mastermind. MyOwnGallery, Superstudio Più, via Tortona 27, 20144 Milano; 02-4225012; www.myowngallery.it, info@myowngallery.it. Dal 4 al 30 ottobre.
Spazi teatrali Immaginati da Carlo Gavazzeni rima personale romana del fotografo Carlo Gavazzeni, intitolata Teatri d’invenzione. Dieci stampe digitali su carta Kodak montata su pvc light, che includono un corpo di lavoro ispirato allo spazio teatrale dell’immaginazione. Queste fotografie rivelano un virtuosismo scenografico soggettivo e irreale, che, rispetto ai primi lavori dell’autore -ritratti di una Forma Urbis Romae estetica, delineati dalla visione oggettiva propria del viaggiatore illuminato- segna una interiorizzazione di visione di certi scenari della capitale, spontaneamente ispirati dai “capricci d’invenzione” piranesiani. Carlo Gavazzeni è già stato presentato dalla Galleria Va-
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lentina Moncada nella collettiva Site Specific, del giugno 2006, dedicata al paesaggio nella fotografia contemporanea, insieme a Nan Goldin, Elger Esser e Symrin Gill. In quell’occasione propose un corpo di lavoro influenzato dal vedutismo del Grand Tour, ritraendo soggetti “vanvitelliani”: Castel Sant’Angelo, il Tevere di Ponte Sisto e Villa Medici. Carlo Gavazzeni: Teatri d’invenzione. Galleria Valentina Moncada, via Margutta 54, 00187 Roma; 063207956, fax 06-3208209; www.valentinamoncada.com, infogalleria@ valentinamoncada.com. Dal 5 al 20 ottobre; lunedì-venerdì 12,00-18,00.
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La fotografia della speranza documentarista, o l’arte e il senso della storia che alcuni fotografi italiani (in vero pochi) hanno trattato nel dopoguerra, è attraversata da una ventata umanistica (mutuata più o meno consapevolmente dallo sguardo tragico di Lewis W. Hine, Henri Cartier-Bresson e Paul Strand), che fa della “soggettività fotografica” il tentativo di definire, o scoprire, che “scrivere con la luce” significa uscire fuori dai compitini accademici quanto dall’“amatorialismo evoluto”, che giocano con le astrazioni e le simbologie tanto care ai persuasori occulti del nulla. Nell’immaginario sociale della “fotografia della miseria”, praticata nelle “città aperte” dopo la liberazione, sovente non c’è dolore, solo cronaca o illustrazione del “miserabilismo” sinistrorso, o poco più. E sul fiorire della fotografia concettuale (bicchieri, muri, bottiglie, nudi, soggetti in controluce...) i fotografi italiani si trovano uniti nell’onda lunga dell’arte incompresa, ma già predisposta al mercimonio delle gallerie, delle mostre, degli appuntamenti mondani con il martini e le olive. Non si può amare il popolo della fotografia truccata come arte, ma solo i pochi amici che le hanno dato fuoco. La fotografia dell’utopia o del dissidio non compare in nessun luogo delle fotoscritture italiane prima del 1968, che non sia l’attivazione di passioni fortemente orientate verso la realtà, come la collera, la gioia o l’insorgenza degli sfruttati contro gli sfruttatori. Il resto non è che fotografia da bere, nell’impietosità del boom economico. In questa fotografia della compiacenza e dell’astrazione salottiera dell’italietta catto-comunista, i fotografi stanno al gioco, come sempre. Il bello fotografico
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UGO MULAS «La fotografia, quest’invenzione mirabile, alla quale hanno collaborato i cervelli più straordinari, che affascina le menti più fantasiose, e la cui realizzazione è alla portata dell’ultimo degli imbecilli»
Nadar si mescola alla miseria della fotografia, e tutto viene smerciato come “espressione artistica”. Vero niente. In fotografia e da nessuna parte “l’arte si fa per caso”. E non è nemmeno vero che tutte le fotografie brutte sono poi testimonianze documentarie. Il mondo non si classifica, si celebra o si disvela.
DELLA FOTOGRAFIA MESSA A FUOCO
Sotto un certo taglio, Ugo Mulas si è fatto precursore di una visione forte della fotografia che interpreta l’arte; e la sua bella stagione produttiva, dal 1954 al 1972, resta lì a testimoniare che il silenzio della fotografia grida ai confini della vita pubblica corpi, turbolenze, ingiustizie e si oppone a fedi e credenze. La fotografia è lo specchio rovesciato delle contraddizioni di un’epoca o non è niente. Ogni fotografia è un autoritratto, ed è per questo che la fotografia più consumata è una puttana che non sorride. A vedere d’infilata le immagini che Ugo Mulas ha preso della Milano degli anni Cinquanta non è difficile scorgere il superamento della visione concettuale o astratta, e cogliere l’importanza della fotografia come testimo-
nianza storica e prolungamento di una «disperata vitalità» (Pier Paolo Pasolini), che riferisce della propria infanzia. Le immagini del Bar Giamaica, l’uomo col carretto di notte, la donna che dorme alla Stazione Centrale, gli operai che vanno a lavoro nella strada ghiacciata... non raccontano soltanto l’accadere, ci calano nella vita dell’autore e restituiscono un’umanità differente, ma eguale nella speranza di far saltare i pubblici orologi sotto il cielo libero della storia. Il carattere iconico della fotografia (Charles Morris), il suo valore di segno che ha in sé, lascia negli occhi del referente non solo la sapienza del fotografo, ma anche il risultato della sua attività artistica. In un certo senso, Ugo Mulas aveva compreso che «la fotografia [non solo quella pornografica] non educa, ma corrompe, incita al peccato, alla violenza, al delitto [...]; la fotografia è talmente vera, da togliere ogni illusione. E quale più triste mondo di una realtà senza illusioni?» (Leo Longanesi). Infatti, l’iconografia di Ugo Mulas è andata oltre l’obiettività del possibile, le sue fotodocumentazioni raggelano la figura nell’azione, e una sola immagine può
contenere un accadere in maniera complessa ed esaustiva. Della fotografia di Ugo Mulas amiamo molto, non tutto. Non ci entusiasmano le immagini delle città di Pesaro, Spoleto, Mosca e nemmeno molte cose che riguardano la moda o il teatro (Totò e Eduardo De Filippo compresi). Invece, siamo attratti dai ritratti di artisti (Luciano Bianciardi, Piero Manzoni, Marcel Duchamp, Andy Warhol, Dick Bellamy, Lucio Fontana, Karen Blixen) e ci commuove la bellezza intima di alcune fotografie di siciliani del 1963. Il fotoracconto del “taglio” di Lucio Fontana è di una forza descrittiva che ha pochi eguali nella comunicazione figurativa. La ritrattistica delle Biennali di Venezia del 1954, 1958, 1960, 1962 e 1964 è bella e partecipata, ma anche un po’ divertita. Lo sguardo del fotografo resta in superficie, a parte alcune immagini rubate nei caffè, la sera. La gioia esplosa del 1968 è in un’immagine mossa, straordinaria, di un pittore portato via dalla polizia. I ritratti di Ugo Mulas sono destituiti dalla “regalità” più o meno pubblica e insegnano che ogni fotografia (come ogni scrittura) è tutta la lingua, e dentro vi si nasconde l’inconscio di chi “scrive”. La “messa a fuoco” della fotografia è il luogo/momento fissato nella storia, è spazio dell’incontro, del dialogo, dell’ascolto e non può essere padroneggiata da nessuna obbligazione o servaggio alle idee o codici dominanti, altrimenti cancella il dolore, la morte, l’amore, la verità magica della propria esistenza. La sovrana libertà della “fotografia soggettiva” si sostituisce all’autorità ideologica o mercantile con lo scambio e la relazione (ma anche con la denuncia e il dissenso) tra fotografo e soggetti, e mette in campo valori
sublimi come la bellezza e la verità. La differenza e unicità degli esseri umani suggerisce la messa in “forma” della contraddizione e non l’apologia del vuoto. L’universalizzazione dell’umano è nell’Amore che l’uomo porta all’uomo. L’esclusione del sogno più impossibile o della crudeltà dei potenti dalle fotoscritture è sempre una fuga dalla realtà. La bellezza è data a conoscere solo ai bambini, ai pazzi e ai poeti.
UGO MULAS O IL POETA DELLA LUCE Ugo Mulas nasce a Pozzolengo, Desenzano del Garda, in provincia di Brescia, nel 1928. È (non è stato) un poeta della luce. Un nomade della fotografia, forse un apolide. La scuola non fa per lui, abbandona l’università prima della laurea, gli piace frequentare gli intellettuali e gli artisti del Bar Giamaica. Inizia a fotografare da autodidatta. Qualcuno [Mario Dondero] gli presta una vecchia macchina fotografica e gli insegna le sole regole che contano per fare la fotografia: un centesimo e undici al sole, un venticinquesimo cinque-e-sei all’ombra. Il resto è quello che vedi negli occhi e quello che cade sulla pellicola. Va con Mario Dondero alla Biennale di Venezia del 1954 e lì nasce uno dei fotografi più trasversali della fotografia italiana. In principio, Ugo Mulas si appassiona al laboratorio, dove si accorge che soltanto da un buon negativo nasce una buona fotografia. (Anche se c’è sempre l’eccezione: come le immagini dello sbarco in Normandia di Robert Capa, sciupate da un processo di sviluppo sbagliato, o i fotogrammi Zero di Jean-Christophe Béchet [FOTOgraphia, maggio 2007], che sono parte di una filosofia della “fotografia casuale” di notevole bellezza estetica, oltre che materia di un dibattito etico sulla Fotografia argentica / analogica o digitale / numerica). «Sono i pesci
morti che seguono le correnti» (Christer Strömholm). Nell’abisso dell’estetismo affogano frotte d’inutili coglioni, che ancora non hanno compreso che «le idee [non solo della fotografia] stanno alle cose come le costellazioni alle stelle», Walter Benjamin diceva. Ugo Mulas è interessato, quanto basta, ai lavori di Man Ray e Laszlo Moholy-Nagy, vede nella camera nera un mezzo per arrivare a un’immagine pura, la più diretta possibile, dice. Verso il 1958 conosce il libro di Robert Frank, The Americans (Gli americani): è un’illuminazione sulla via della fotografia importante. Comprende che la macchina fotografica lavora direttamente «sulla vita, usando la pelle della gente» (Ugo Mulas). In questo senso dissente dalla visione ingerente di William Klein, e trova il suo libro su New York una profanazione, o quasi, della tragicità metropolitana americana. L’abitudine a mangiare non ha mai significato la prostituzione dell’arte. Ugo Mulas lavora per il Piccolo Teatro di Giorgio Strehler, per L’Illustrazione Italiana, Settimo Giorno, la Rivista Pirelli, Novità, Domus, Du; ancora, per la pubblicità Pirelli e Olivetti. La bellezza della fotografia c’è, ma a toccare il cuore dei randagi della poesia sono le immagini della scena artistica newyorkese, che Ugo Mulas coglie tra il 1964 e il 1967. Nello studio di Jim Dine è colpito da una fotografia di Lee Friedlander: si domanda qual è la fotografia che vorrebbe davvero fare. Pensa a un’iconologia “impersonale”. Approfondire il rapporto tra “soggettività” e fotografia. Incontra Robert Frank e gli dice che «occorre essere partecipi, prendersi le proprie responsabilità, correre il rischio non solo di sbagliare, ma di intervenire e giudicare»; e a proposito del fotogiornalismo, che sembra essere diventato una moda insegnata, Robert Frank fu ancora più esplicito: «L’aria è divenuta infetta per la puzza di fotografia». Ugo Mulas comprende che
una fotografia della coscienza è per sempre. Nel 1970 si ammala gravemente. Bloccato in casa, inizia a lavorare sulla serie delle Verifiche. Come JeanChristophe Béchet (e altri, s’intende), non getta via le code finali della pellicola o il pezzo che resta fuori dal caricatore. Sa che in qualche modo quel pezzo di pellicola graffiata, esposta alla luce o inutilizzabile per metà... è già fotografia. Tutto questo non è “immagine concettuale”, ma “fotografia materica”. Sappiamo che un fotografo, quando rifiuta i canali di consumo più abusati, oppure sono i padroni di questi canali che rifiutano il fotografo, gioca su piani altri da quelli della “fotografia astratta”, che da sempre (non solo oggi, con la rivoluzione commerciale dell’era digitale) mettono in mostra solo gli aspetti effimeri di un’immagine e mai la bellezza compositiva (che non c’è, né conoscono) di un’etica della non obbedienza alle regole del mercato. Ugo Mulas s’interroga sul linguaggio fotografico. Analizza la superficie sensibile della pellicola, l’uso degli obiettivi, il legame che corre tra la didascalia e l’immagine, la composizione, il momento della ripresa: con altro piglio e diverse intenzioni, linguistiche e di contenuto le sue, i temi che ogni manuale di fotografia snocciola senza un filo di conoscenza reale dell’intimità fotografica dell’autore e del soggetto trattato. Le Verifiche di Ugo Mulas sono altro da ciò che è comunemente dibattuto sulle riviste specializzate. Nadar, Daguerre non c’entrano, o c’entrano troppo, su quanto afferma Ugo Mulas: «Oggi, la fotografia, con i suoi derivati, televisione e cinema, è dappertutto in ogni momento. Gli occhi, questo magico punto di incontro fra noi e il mondo, non si trovano più a fare i conti con questo mondo, con la realtà, con la natura: vediamo sempre più con gli occhi degli altri». Gli uomini finiscono per rinunciare alla propria visione, e
la volgarità è ormai un linguaggio accettato ovunque la fotografia è merce soltanto. Ugo Mulas rifiuta la teoria dell’“attimo fuggente” di Henri Cartier-Bresson, e afferma che basta girovagare a piedi tra Porta Ticinese e Porta Romana a Milano (ma in qualsiasi luogo della Terra è lo stesso), per trovare un pezzo di realtà degna di essere raccontata per immagini. La “banalità” che interessa Ugo Mulas non è che quella teorizzata dal Surrealismo, cioè “il punto di partenza di una serie di sviluppi complessi”, che, messi uno accanto all’altro, in/formano la storia di un uomo, come di un popolo. Le Verifiche di Ugo Mulas fanno riflettere. L’Omaggio a Niépce, L’operazione fotografica (Autoritratto per Lee Friedlander) e L’ingrandimento (Il cielo per Nini) sono singolari opere di poesia. I contatti in nero di un rullino fotografico esprimono una ragione materica dell’essere fotografo e nel contempo figurano la sacralità della pellicola come epifania dell’anima artistica. L’autoritratto allo specchio, con il sole che batte sulla finestra, proietta l’ombra del fotografo al di là del presente e annuncia la tenerezza di un vedere oltre il riflesso di sé. Il cielo per Nini, in bianconero, ingrandito fino a tre metri è un canto d’amore tra i più alti dell’immaginario fotografico. Ugo Mulas cancella l’origine dell’immagine, e attraverso i coaguli dei sali d’argento e l’emersione della grana, fa capire che la fotografia può essere reinventata a ogni colpo di fantasia. In Autoritratto con Nini, Ugo Mulas mostra che la macchina fotografica non è solo un utensile con il quale cogliere la realtà sul fatto; la “scatola delle meraviglie” può essere attraversata come uno specchio e quello che deborda dall’immagine non è tanto un doppio ritratto ma il desiderio di fotografare la donna (che è a fuoco mentre Ugo Mulas è sfocato) come il fotografo la vede. La lu-
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ce pubblica oscura tutto e solo l’amore esce dal buio di quotidianità dove chi è emarginato, perseguitato, escluso o più semplicemente è un fuori gioco, riesce a resistere umanamente tra le rovine della storia. Nel 1972, Ugo Mulas considera finita l’esperienza delle Verifiche (la malattia c’entra, forse, ma comunque il suo pensiero era già in volo verso terre sconosciute della fotografia materica). Fine delle verifiche (Per Marcel Duchamp) è un autentico capolavoro, e rappresenta il suo commiato da ieri. Si tratta di strisce di pellicola (un rullino) su sfondo nero e il vetro del contatto infranto da un colpo. Ugo Mulas chiude la serie là dove aveva avuto inizio (con l’Omaggio a Niépce, appunto il provino a contatto di una pellicola sviluppata ma non esposta), e lascia questa specie di testamen-
«Ciò che veramente importa, non è tanto l’attimo privilegiato, quanto individuare una propria realtà; dopo di che, tutti gli attimi più o meno si equivalgono. Circoscritto al proprio territorio, ancora una volta potremo assistere al miracolo delle “immagini che creano se stesse”» Ugo Mulas to sulla fotografia in forma di poesia: «Ho fatto, in un certo senso, come un incisore che biffa la lastra a tiratura limitata: il vetro, che ha una importanza decisiva per la mia composizione, dà infatti precise caratteristiche fisiche e visive al pezzo, e,
una volta spezzato, è la stessa operazione a non poter essere ripetibile. Il risultato del mio gesto è stata un’immagine nuova, diversa rispetto a quella di partenza. E questa rottura radicale con ciò che precede mi ha portato a riflettere sul significato in-
trinseco dell’Omaggio a Niépce, mi ha portato a pensare a Duchamp; e non solo per la circostanza estrinseca che nella produzione di Duchamp c’è un’opera che è un grande vetro spezzato. Mi sono reso conto, cioè, dell’influenza, inconscia forse, di un atteggiamento di Duchamp, del suo non fare, che ha tanto significato nell’arte più recente, e senza del quale questa parte del mio lavoro non sarebbe nata. Perciò la fotografia è dedicata alla sua presenza». Ugo Mulas muore a Milano il 2 marzo 1973. Resta l’arte radicale della sua opera a illuminare le rovine della civiltà dello spettacolo e mostrare che la critica della fotografia e la filosofia della storia sono al fondo dei percorsi ininterrotti d’ogni cacciatore di sogni. Pino Bertelli (21 volte giugno 2007)
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