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ANNO XIV - NUMERO 135 - OTTOBRE 2007
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Reflex NIKON D3 NIKON D300
Giovanni Umicini PER PADOVA
SANDRO VANNINI
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CHE GUEVARA. Nato a Rosario, in Argentina, il 14 maggio 1928, Ernesto Rafael Guevara de la Serna è noto come Che Guevara. È morto a La Higuere, in Bolivia, ucciso dall’esercito locale, il 9 ottobre 1967. Nel quarantesimo anniversario della scomparsa, riportiamo un testo di Roberto Vecchioni, dall’album Il cantastorie, del 2005, motivo già inserito nella selezione dedicata a Che Guevara nel 2001 (Emi Music Italia). Celia de la Serna Non scrivi più, e non ti sento più, so quel che fai e ho un po’ paura, sai. Son senza sole le strade di Rosario, fa male al cuore avere un figlio straordinario: a saperti là sono orgogliosa e sola, ma dimenticarti... è una parola... Bambino mio, chicco di sale, sei sempre stato un po’ speciale, col tuo pallone, nero di lividi e di botte, e quella tosse, amore, che non passava mai la notte; e scamiciato, davanti al fiume ore e ore, chiudendo gli occhi, appeso al cuore. O madre, madre, che infinito, immenso cielo sarebbe il mondo se assomigliasse a te! Uomini e sogni come le tue parole, la terra e il grano come i capelli tuoi. Tu sei il mio canto, la mia memoria, non c’è nient’altro nella mia storia, a volte sai, mi sembra di sentire la “poderosa” accesa nel cortile: e guardo fuori: “Fuser, Fuser è ritornato!”, e guardo fuori e c’è solo il prato. O madre, madre se sapessi che dolore! Non è quel mondo che mi cantavi tu: tu guarda fuori, tu guarda fuori sempre, e spera sempre di non vedermi mai; sarò quel figlio che ami veramente, soltanto e solo finché non mi vedrai. Roberto Vecchioni
Celia de la Serna è la madre di Che Guevara. Nel testo di Roberto Vecchioni (qui a sinistra) si fa riferimento alla “poderosa”, soprannome della Norton 500 del viaggio in Sudamerica, nel 1951, con l’amico Alberto Granado (da cui la relazione Latinoamericana, edizione Feltrinelli, e il recente film I diari della motocicletta); abbreviazione di Furibondo de la Serna, “Fuser” è il soprannome che il Che si scelse quando giocava a rugby.
Copertina
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Questa magnifica testa, che sorge da un fiore di loto, realizzata in legno, ricoperta di un sottile strato di gesso e dipinta, è la sola rappresentazione realistica del volto del faraone Tutankhamun: il più noto di tutta la storia dell’Antico Egitto, perché la sua tomba è l’unica a essere stata ritrovata intatta (nel 1922, dall’archeologo inglese Howard Carter). La consistente rilevazione fotografica di Sandro Vannini, sulla quale riferiamo da pagina 41, è raccolta in una imponente monografia, in libreria da novembre, che sarà catalogo della mostra di Londra sui tesori del faraone: dal prossimo quindici novembre a tutta l’estate 2008
3 Fumetto Da Autoportrait, di Yves Yacoel (1981), pubblicato in cartolina postale da Imagommage, nel 1983. Nostra colorazione del segno grafico originario in nero
7 Editoriale
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Le recenti configurazioni (a partire dalle attuali Nikon D3 e Nikon D300, sulle quali relazioniamo da pagina 34) rivelano soprattutto che non è più tempo di sterili e inutili dibattiti sulla qualità formale delle riprese. Diamine, si torni quindi a parlare di fotografia
10 Apparire? (in che senso?)
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In esplicito e dichiarato riferimento a recenti fatti di cronaca nera, e di altra tinta aggiunta, riflettiamo sull’odierna voglia di apparire. Non processo alle persone, ma all’idea che sta a monte. E poi, è assolutamente vero che il giornalismo è altro
12 Notizie Attrezzature, vicende e altre segnalazioni
14 Tra pubblico e privato Agile monografia di Albert Watson, pubblicata da Phaidon
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17 Lunghe ombre Diritti d’autore, in controverse leggi statunitensi
. OTTOBRE 2007
RRIFLESSIONI IFLESSIONI,, OSSERVAZIONI OSSERVAZIONI EE COMMENTI COMMENTI SULLA SULLA FFOTOGRAFIA OTOGRAFIA
20 Reportage
Anno XIV - numero 135 - 5,70 euro
Appunti e attualità del fotogiornalismo internazionale A cura di Lello Piazza
DIRETTORE
RESPONSABILE
Maurizio Rebuzzini
IMPAGINAZIONE
Gianluca Gigante
23 Astronave Torino Esposizione fantascientifica (?), che avvia il cammino di avvicinamento al Ventesimo Congresso Mondiale degli Architetti Uia di Torino 2008: visioni di post-città
REDAZIONE
Angelo Galantini
FOTOGRAFIE
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HANNO
In provincia di Varese, le prime due esposizioni del Paesaggio: cento modi di guardare e rappresentare. Saggi fotografici di Beppe Bolchi e Erminio Annunzi
Never Coming Home: già raccolte in una monografia pubblicata da Charta Edizioni, le fotografie di Andrew Lichtenstein sui funerali dei caduti in Iraq sono esposte alla Galleria Grazia Neri di Milano di Angelo Galantini
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34 Tre e Trecento
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Consistente e convincente documentazione del tesoro del faraone, realizzata dall’italiano Sandro Vannini, uno dei più apprezzati e acclamati fotografi mondiali dell’arte. Preziosa monografia, in libreria da novembre di Lello Piazza
48 Per Padova Giovanni Umicini fotografa con il dichiarato scopo di vedere, per far vedere. In mostra nella sua città di Maurizio Rebuzzini
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56 Per ogni stampa HP Photosmart C8180, al vertice dei multifunzione di Antonio Bordoni
COLLABORATO
Erminio Annunzi Pino Bertelli Beppe Bolchi Antonio Bordoni Maria Teresa Ferrario So Okamoto Loredana Patti Lello Piazza Franco Sergio Rebosio Ciro Rebuzzini Filippo Rebuzzini Giovanni Umicini Sandro Vannini Zebra for You Redazione, Amministrazione, Abbonamenti: Graphia srl, via Zuretti 2a, 20125 Milano; 02-66713604, fax 02-66981643; graphia@tin.it.
Terza generazione di reflex digitali Nikon: professionale D3 (con sensore full frame) e prosumer D300. Entrambe con Live View in autofocus e tanto altro ancora di Maurizio Rebuzzini
41 Fantastico Tutankhamun
SEGRETERIA Maddalena Fasoli
27 Guardare e rappresentare
30 Non sono più tornati
Rouge
Fotocomposizione DTP e selezioni litografiche: Rouge, Milano Stampa: Arti Grafiche Salea, Milano
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Rivista associata a TIPA
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www.tipa.com
59 Agenda Appuntamenti del mondo della fotografia
64 Werner Bischof Sguardi su un fotografo (umanista) della dignità di Pino Bertelli
ieci anni fa, soltanto dieci anni fa, agli albori dell’acquisizione digitale di immagini così come oggi l’intendiamo, i livelli qualitativi che nel frattempo abbiamo raggiunto erano impensabili. In relazione alle anagrafi individuali, dieci anni sono una quantità di tempo variabile: pochi, per chi ha più stagioni sulle spalle, la maggior parte delle quali vissute magari in fotografia; molti, per i più giovani, che osservano il passato con riferimenti temporali propri. In assoluto, però, dieci anni sono effettivamente pochi (complice la nostra anagrafe). In origine, diciamo pure circa dieci anni fa, la fotografia digitale altro non fu che la sostituzione della pellicola con un sensore digitale, peraltro di modeste capacità (così conteggiamo oggi, alla luce delle evoluzioni che si sono rapidamente rincorse). Immediatamente a seguire, sia con intendimenti professionali, sia in proiezione non professionale, la fotografia digitale ha espresso proprie esuberanti personalità, agendo simultaneamente sui parametri propriamente fotografici (obiettivi, aperture di diaframma e sistemi di otturazione) e sulle prerogative della configurazione dell’immagine (interpretazione cromatica e tonale, gestione dei file, software e altro ancora). Tanto che, dieci anni dopo, il mercato offre e propone dotazioni appunto sostanziose dal punto di vista fotografico e da quello digitale: per esempio, reflex con zoom fisso di generosa escursione focale, fino a 18x, e compatte con dotazioni ottiche vertiginosamente grandangolari, da 19mm equivalenti; quindi, risoluzioni che hanno abbondantemente superato i dieci Megapixel, acquisizioni in sequenza rapida, a partire da almeno cinque fotogrammi al secondo, raffinate lavorazioni. Rapidamente, con un ritmo che la tecnologia fotografica ha registrato soltanto nei pionieristici decenni della propria origine, quando i processi chimici modificavano radicalmente le opzioni di ripresa e stampa con evoluzioni analogamente esponenziali, si sono trasformati tutti i parametri della ripresa fotografica. Ma! Ma non avrebbero dovuto cambiare i princìpi. Purtroppo, la rapidità ha un poco preso la mano, fino ad elevare l’evoluzione tecnologica a valore assoluto e fine a se stesso. Adesso, raggiunte mete significative, che consentono di non mettere più in discussione la qualità formale delle acquisizioni, possiamo riprendere a parlare dell’immagine, indipendentemente dalla propria confezione. Ecco dunque che la meta Nikon D3, con accompagnamento di Nikon D300 (da pagina 34), è autenticamente tale: meta. A partire dalla quale, la fotografia ha tempo, modo e obbligo di ritornare a essere analizzata per il proprio linguaggio visivo esplicito: quello che si basa sulla consapevole, convinta e cosciente applicazione di stilemi propri: inquadratura, composizione, prospettiva, punto di vista e sfocatura. Una grammatica dei sentimenti ed emozioni, della quale non si può, né deve, fare a meno. Indipendentemente dalle mediazioni tecniche: necessarie, ma non certo sufficienti. Maurizio Rebuzzini
D
La Nikon D3, con accompagnamento di Nikon D300, delle quali riferiamo su questo stesso numero, da pagina 34, dà avvio alla definitiva affermazione formale dell’acquisizione digitale di immagini. Presto, l’allineamento tecnologico a tali e tanti alti valori dovrebbe azzerare ogni contrapposizione che, negli anni più recenti, ha alimentato inutili dibattiti. Si torni all’immagine fotografica, con tutti i propri valori e connotati di linguaggio visivo e di trasmissione di sentimenti ed emozioni.
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APPARIRE? (IN CHE SENSO?)
Q
Queste riflessioni sul fotogiornalismo, o videogiornalismo o, meglio ancora, giornalismo per immagini, riguardano un fatto di cronaca nera: l’omicidio di Chiara Poggi, la giovane misteriosamente (al momento in cui scriviamo) uccisa il tredici agosto scorso nella sua abitazione di Garlasco, in provincia di Pavia [e i risultati delle indagini non influenzano le nostre considerazioni, che si indirizzano altrimenti]. Le riflessioni nascono da una conversazione telefonica con il direttore, la sera del diciotto, dopo che il Corriere della Sera aveva pubblicato, in prima pagina, una fotografia di Chiara e delle sue cugine, le due gemelle Paola e Stefania Cappa, specificando in didascalia «con le cugine, che hanno diffuso la foto[grafia]» (qui sotto). Ci chiediamo: cosa c’entra questa fotografia con la cronaca del delitto? E fin qui niente di strano: la domanda è lecita per chi si occupa di informazione per immagini. Ma poi ci poniamo una seconda domanda impropria, che esula da aspetti professionali: la fotografia l’avranno passata le cugine al quotidiano di via Solferino per un desiderio di essere notate? Poiché sappiamo che
altri si saranno posti la stessa domanda, crediamo sia giusto esporre alcune riflessioni che mostrano l’assurdità della domanda stessa. Prima, un breve riassunto su quanto è accaduto. Non sappiamo come questa fotografia sia arrivata al Corriere [ad altri quotidiani e ai telegiornali]. Se l’avessero spedita le gemelle sarebbe una prima prova contro di loro. Però, nei tg del giorno dopo vediamo la stessa fotografia appesa al cancello di ingresso della casa di Chiara Poggi. Che il Corriere l’abbia presa da lì? Devo chiederlo a Gigi Colin, direttore artistico del quotidiano? Mah? I colpevolisti traggono motivo per una sentenza di condanna anche dalla notizia, che appare sui quotidiani il ventuno agosto: la fotografia è in realtà un fotomontaggio. Non bastasse, Paola Cappa, una delle due ragazze, in un memoriale pubblicato dal settimanale Oggi, aveva dichiarato: «L’immagine con Chiara fu scattata cinque anni fa». Poi: «È un’immagine bella e pura, che difendo come un mio tesoro personale e che mi accompagnerà sempre». E ancora: «È stata Chiara a trascinarci: una notte magica e irripetibile, in cui ne ab-
Dalla prima pagina del Corriere della Sera di sabato diciotto agosto. La fotografia di Chiara Poggi, vittima del delitto di Garlasco, in provincia di Pavia, certifica e ufficializza la composizione con le cugine Paola e Stefania Cappa, «che hanno diffuso la foto[grafia]». Da questa dizione, usata per la prima volta, le nostre attuali considerazioni.
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biamo combinate di tutti i colori» (notte in cui sarebbe stata scatta la fotografia, ndr). Beata ingenuità! Come se fosse così difficile accorgersi che una fotografia è un montaggio. L’arrivo a Garlasco di Fabrizio Corona, la pubblicazione della notizia che le gemelle Cappa avevano fatto dei provini per fare le veline, altri pettegolezzi, portano evidentemente acqua al mulino della colpevolezza, in un vero e proprio processo alle intenzioni. Ma abbiamo noi il diritto di mettere sotto accusa le due cugine per il sospetto che desiderino apparire? Io credo di no. Come giornalisti abbiamo qualcosa di più importante e più grave di cui occuparci. Ecco un po’ di esempi che vengono dalla deprimente quotidianità della informazione. Spettacolarizzazione del crimine. Che senso ha che un tg nazionale dedichi in ogni propria edizione, per giorni e giorni, tre-quattro minuti al fatto di Garlasco? Trascurando tutto quello che succede nel mondo! Che senso ha che i giornalisti inviati aggrediscano per strada i sospettati o i loro amici e parenti, brandendo il microfono come una clava intimidatoria? Desiderio di apparire. Che senso ha che Bruno Vespa costruisca un modellino della casa di Cogne e si procuri un mestolo di rame, picchiandolo poi su un tavolo per verificare, lui e l’avvocato Carlo Taormina, giudici eletti dall’audience, se ha una consistenza sufficiente a spaccare la testa di un bimbo? Che senso ha che si conceda vetrina a un passante, facendogli un’intervista di una sola domanda, alla quale il povero malcapitato, attratto dalla effimera pubblicità che l’istante gli procura, non può che rispondere con la peggiore delle banalità? Immagini che suggeriscono ma non si riferiscono al fatto, come se fosse un film. Da parte della televisione, c’è l’abitudine di commentare i fatti con immagini prive di senso. Se si parla di delitti o proces-
si, gli schermi si riempiono di filmatini dove si vede una persona che cammina con in mano una borsa, ma l’inquadratura mostra solo dal ginocchio in giù. Se si parla del rientro dalle vacanze, le immagini, sicuramente di repertorio, mostrano code che non si sa né dove né quando sono state riprese, e che non si riferiscono al traffico della notizia. Se si parla di catastrofi naturali, come un ciclone, scorrono immagini, sempre di repertorio, che mostrano un disastro standard in un posto qualunque. A questo proposito, qualche anno fa, una breaking news annunciava che uno tsunami aveva colpito la costa settentrionale dell’Australia. Il filmato era terrificante. Coste spazzate dal vento, con onde altissime e palme sradicate accompagnavano la voce del commentatore, che descriveva quanto era avvenuto. Ma in chiusura, paradossale colpo di scena. Il cronista confessa: «non ci sono ancora arrivate immagini, ma sarà nostra cura trasmetterle appena le riceviamo in redazione». E allora, tutto il disastro che avevamo visto, cos’era? Un film? I politici. Che senso ha che a ogni tg ci sia una passerella di uomini di partito che fanno affermazioni generiche, assolutamente non motivate, tipo: questo è il governo delle tasse; oppure: noi siamo il partito della sicurezza pubblica, come in un comizio, senza alcun contraddittorio? Immigrazione clandestina. Che
Dopo il ventun agosto, i quotidiani italiani si sono soffermati sull’evidente fotomontaggio della fotografia delle tre cugine di Garlasco. Questa è la sintesi dell’analisi che La Repubblica ha commentato il ventitré agosto. Non ci occupiamo di questo montaggio, estraneo alle considerazioni che abbiamo compilato.
senso ha, quando parlano di barconi di disperati con a bordo centoventi persone, che ne facciano vedere uno, inquadrato dal ponte di una nave, che trasporta una ventina di persone, chiaramente non quello di cui stanno parlando? Una lezione che viene dai due più grandi quotidiani statunitensi, il Los Angeles Times e il New York Times, dice che se non c’è la fotografia la notizia viene pubblicata col solo testo. Con la nostra tv siamo arrivati invece alla informazione fiction, per suggestionare, per “sentimentalizzare” lo spettatore, non per informarlo o per mostrargli l’accaduto. Ciò non avviene solo con le immagini, ma a volte anche con le parole. Infatti, nel commento del cronista, sentiamo spesso avanzare ipotesi, anche strampalate, in questo modo: e se fosse vero che...? E se non fosse vero, mi chiedo io? Anche la carta stampata non è da meno. Condizionati dal marketing pubblicitario, in molti casi i giornali si rifiutano di pubblicare crude fotografie di cronaca vera: per questo, co-
me ci è già capitato di scrivere, i fotogiornalisti, per sopravvivere, si dedicano alle mostre e al collezionismo. Forse saremo costretti a rimpiangere una rivista americana, una volta di successo (mediamente più di un milione di copie a settimana), che sta per essere chiusa per mancanza di lettori, Weekly World News. Sottotitolo «L’unico giornale affidabile al mondo». Per trent’anni, questo tabloid ha tenuto desto l’interesse degli americani con notizie improbabili, come «Febbraio fa causa per avere più giorni» o «Teen-ager provenienti da Plutone rubano i nostri ghiacciai per farsi i cocktail». Non è più divertente questo genere di informazione di quella comunque taroccata della nostra tv e dei nostri giornali? Il fatto è che siamo ridotti ad andare al cinema, per avere informazioni sulla sanità in Usa, dal film Sicko di Michael Moore. E allora, dobbiamo continuare a essere i censori dell’aria fritta? E continuare a occuparci di due ragazzine che desiderano apparire? Lello Piazza
DAL DIRETTORE
C
hiamato in qualche modo in causa («Queste riflessioni sul fotogiornalismo [...] nascono da una conversazione telefonica con il direttore, la sera del diciotto»), tengo a ribadire la mia opinione. Certamente concordo con Lello Piazza, autore delle odierne riflessioni, in tutte le sue considerazioni sullo stato del giornalismo, soprattutto italiano, soprattutto esportato allo scalpore televisivo. Altrettanto certamente, sono convinto che ci siano ben altri argomenti da trattare, oltre l’allungamento artificioso dei fatti di cronaca, e oltre la loro cattiva relazione giornalistica. Però! Però quella didascalia del Corriere della Sera, in anticipo temporale sulle successive rivelazioni della falsità della fotografia in oggetto, sulle quali neppure ci soffermiamo, ci ha profondamente colpiti. Per quanto sia identificabile nella nostra attuale riproposizione (ribadiamo, sulla pagina accanto), ufficializziamola: «Garlasco (Pavia). Nuovi elementi nel giallo della giovane assassinata (a sinistra, con le cugine, che hanno diffuso la foto[grafia])», eccetera. È proprio la specifica “che hanno diffuso la fotografia” che fa la differenza: perché usata per la prima volta (non ricordiamo precedenti) e per-
ché sottolinea il ruolo delle cugine, elevate a protagoniste. Sicuramente, ci sono tanti argomenti di spessore sociale, politico ed esistenziale da affrontare, ma, dal nostro punto di vista, questo ci è parso significativo. E ci vorremmo soffermare proprio sull’esplicita volontà di apparire, sfruttando l’onda lunga di un’attenzione in cronaca. Non un processo alle intenzioni delle cugine, non sentenze su prove indiziarie, ma la sottolineatura di una certa tristezza dei nostri attuali tempi, nei quali i valori stanno appunto diventando questi: e le cugine ne sono palpitante testimonianza. Come lo è l’avvocato Carlo Taormina, evocato da Lello Piazza, che passa ormai più tempo negli studi televisivi che nelle aule di tribunali. Come lo sono i giornalisti dello sport, ormai assenti dai campi di gara, ma imperiosamente presenti in televisione. Comunque, nessun processo alla voglia individuale di apparire, ma al valore distorto dell’apparenza a tutti i costi. La differenza è sostanziale. Il resto è tragedia. E speriamo che il giornalismo si riaffermi come elemento di analisi, visualizzazione e, perché no, correzione. M.R.
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AZIONE! Zoom ottico 18x, doppio sistema di stabilizzazione, sequenze rapide fino a quindici fotogrammi al secondo! La nuova digitale Olympus SP560 UZ, da otto Megapixel effettivi, concentra una qualificata serie di prestazioni fotografiche di profilo alto, che la collocano al vertice della propria categoria: reflex a zoom fisso. Di fatto, oltre gli utilizzi più consueti e consolidati, offre eccellenti valori nell’ambito della fotografia d’azione, sempre concentrata sul soggetto inquadrato. L’abbondante escursione zoom, un tempo impensabile (ma sognata da tutti), equivalente alla variazione grandangolarelungo tele 27-486mm f/2,8-4,5 della fotografia 24x36mm, consente di affrontare ogni soggetto, con l’efficacia e la sicurezza di ottenere sempre l’inquadratura desiderata: dalla visione ad ampio angolo di campo alla concentrazione su dettagli, piuttosto che al sostanzioso avvicinamento di soggetti lontani. Come non bastasse, ma addirittura avanza, a ciò si aggiunge l’ulteriore ingrandimento 5,6x dello zoom digitale. L’azione rapida è materia dell’avvincente Olympus SP-560 UZ, che, come appena annotato, arriva alla straordinaria rapidità di ripresa di quindici fotogrammi al secondo (in modalità 1,2 Megapixel), che rasenta la sequenza cinematografica! Nell’ambito dello sport, questo significa riprendere passo passo la parabola del pallone durante un calcio di rigore, l’elegante salto di un delfino, o la mossa vincente del ragazzo al suo primo incontro sportivo. Inoltre, impostando la funzione Pre-Capture, la Olympus SP-560 UZ registra anche i cinque fotogrammi che
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precedono lo scatto. In questo modo si ha la certezza di non perdere l’inizio di una azione. Ancora: la Olympus SP-560 UZ ha un doppio sistema di stabilizzazione dell’immagine (il Dual Image Stabilisation, uno meccanico, inserito nel corpo macchina, e uno elettronico), che compensa in modo molto efficiente le vibrazioni negli scatti a mano libera, in condizioni difficoltose. In modalità Super-Macro è possibile fotografare posizionandosi a un solo centimetro di distanza. E poi ventiquattro programmi preimpostati consentono di finalizzare i suoi valori operativi a ogni possibile situazione di uso, per concentrarsi solo sulla ripresa. Non manca la tecnologia Face Detection, che individua automaticamente i volti delle persone inquadrate e valuta la messa a fuoco ottimale per fotografarli al meglio. Quindi, con la funzione Smile Shot, la Olympus SP-560 UZ sincronizza automaticamente lo scatto con il sorriso del soggetto. Ovviamente, sono presenti funzioni di editing tradizionali (conversione in bianconero o seppia, correzione occhi rossi e altro ancora), personalizzate (aggiunta di titoli, cornici, sfondi, calendari a ogni fotogramma) e creative (ritaglio, gestione dei dati grezzi RAW). Il processore d’immagine TruePic III garantisce la qualità delle riprese, a otto Megapixel effettivi. Monitor da 2,5 pollici. (Polyphoto, via Cesare Pavese 11-13, 20090 Opera Zerbo MI).
SIGMA PER NIKON. Due nuove configurazioni ottiche in baionetta Nikon F dispongono, per la prima volta, di motore HSM (Hyper Sonic Motor), che assicura una messa a fuoco rapida e silenziosa con le reflex ad acquisizione digitale di immagini: Sigma 17-70mm f/2,8-4,5 DC Macro HSM e Sigma 18-50mm f/2,8 EX DC Macro HSM. Fotografando da 79,7 a 22,9 gradi di angolo di campo, lo zoom standard Sigma 1770mm f/2,8-4,5 DC Macro
scursione focale e scala dei diaframmi fino a f/22, a fuoco da 20cm, rapporto massimo di ingrandimento 1:3, diametro filtri 72mm. (Mamiya Trading, via Cesare Pavese 31, 20090 Opera Zerbo MI).
HSM propone una convincente apertura massima (con scala fino a f/22). A fuoco da 20cm, raggiunge l’ingrandimento massimo di 1:2,3, proprio della ripresa a distanza convenientemente ravvicinata. Nel disegno di quindici elementi in dodici gruppi, lenti realizzate con vetro SLD (Special Low Dispersion) a basso indice di dispersione e lenti asferiche offrono dimensioni compatte (79x80mm, per 490g di peso) e alte prestazioni, con pertinente correzione di ogni aberrazione ottica. Diametro filtri 72mm. Analogamente standard, lo zoom Sigma 18-50mm f/2,8 EX DC Macro HSM (79x83,2mm, 535g) replica le medesime dotazioni ottiche: lenti in vetro a basso indice di dispersione SLD e ELD (Extraordinary Low Dispersion), trattamento dedicato multi strato su ciascuna lente, che riduce i difetti di flare e immagine fantasma. Disegno ottico di quindici lenti in tredici gruppi, angolo di campo da 76,5 a 31,7 gradi, apertura relativa f/2,8 costante su tutta l’e-
TESTA A POSTO. Perfezione sotto tutti i punti di vista. Nel corso degli ultimi anni, la testa video Manfrotto 503 ha raggiunto un significativo livello di popolarità nel settore video professionale e prosumer. Ora, è disponibile la più recente evoluzione: testa video Manfrotto 503HDV, progettata in funzione delle necessità operative espresse dalle più moderne camere HDV. Si tratta di una testa video completamente nuova dal punto di vista ergonomico, funzionale, tecnico e tecnologico. Alta 11,5cm, per 1,95kg di peso, ha una portata massima di otto chilogrammi e supporta videocamere fissate alla piastra mobile 501PL. In inclinazione continua avanti/indietro, con blocco, consente variazioni dell’inquadratura da più 90 gradi a meno 60 gradi; anche la rotazione panoramica completa di 360 gradi dispone di proprio blocco. Il controbilanciamento della testa è regolabile in quattro posizioni (da 0 a 3,9kg). La leva di comando telescopica standard può essere sostituita con la leva di comando aggiuntiva 519LV (opzionale); la collocazione sulla piastra rapida scorrevole, con viti da 3/8 e 1/4 di pollice, consente accomodamenti nell’intervallo di 5,8cm. Di efficace design, la testa video Manfrotto 503HDV dispone di livella illuminata; le nuove manopole di regolazione e blocco della frizione di inclinazione, collocate sul lato sinistro, la rendono
pratica nell’uso quotidiano. In kit, nelle configurazioni solo testa video, con treppiedi in alluminio 525MVB e sacca di trasporto, con treppiedi in alluminio 351MVB2 e sacca di trasporto, con treppiedi in fibra di carbonio 351MVCF e sacca di trasporto, con treppiedi in alluminio 755XB e sacca di trasporto. (Bogen Imaging Italia, via Livinallongo 3, 20139 Milano).
INVIOLABILMENTE CAPLIO. Dopo aver acceso i riflettori sulla propria produzione con le configurazioni di vertice Caplio GR Digital, con 28mm equivalente fisso (e 21mm opzionale; FOTOgraphia, dicembre 2005) e GX100, con zoom 24-72mm equivalente, riducibile a 19mm (Premio TIPA 2007; FOTOgraphia, maggio 2007), Ricoh conferma la gamma di compatte digitali rivolte e indirizza-
te al più ampio pubblico. Dotata di zoom ottico grandangolare 7,1x (equivalente all’escursione 28-200mm della fotografia 24x36mm) e nuovo motore di elaborazione delle immagini, la Ricoh Caplio R7 offre e propone prestazioni di taglio adeguatamente alto. È confermato il corpo estremamente sottile, di soli 20,6mm di spessore (all’interno del quale, l’adozione di componenti miniaturizzati e dell’originale Double Retracting Lens System consente la collocazione dello zoom ad ampia escursione focale), e sono ribadite le modalità di correzione delle vibrazioni e riconoscimento facciale. Replicando le
più efficaci caratteristiche dei modelli precedenti, l’attuale Caplio R7 accresce ulteriormente la reputazione di qualità della propria gamma con l’introduzione di due elementi: lo Smooth Imaging Engine III, il nuovo motore di elaborazione delle immagini, che abbiamo appena menzionato, capace di elaborare immagini in modo convenientemente sofisticato, e un sensore CCD di acquisizione digitale di immagini da 8,15 Megapixel effettivi. Smooth Imaging Engine III riduce i disturbi che possono presentarsi nella fotografia ad alta sensibilità, senza perdita di risoluzione. In questo modo, anche nella fotografia ad alta sensibilità i dettagli vengono mantenuti nitidi e chiari e le immagini non contengono effetti di grana. Attraverso una sofisticata regolazione della luminosità e del tono colore, vengono riprodotti colori naturali simili
a quelli visibili a occhio nudo. In aggiunta, la Ricoh Caplio R7 registra numerosi e consistenti progressi nel campo della fotografia semplificata, che incrementa la facilità d’uso grazie all’originale funzione ADJ (regolazione), che permette di impostare rapidamente la compensazione dell’esposizione e il bilanciamento del bianco, e all’introduzione delle funzioni di correzione della luminosità e del tono colore, che consentono di regolare i propri parametri direttamente dall’apparecchio, dopo lo scatto. La Ricoh Caplio R7 è dotata di monitor LCD da 2,7 pollici, con 230.000 pixel, e dispone di efficaci modalità macro. È disponibile in livree di tre colori: argento, nero e arancio. Memorizza su schede SecureDigital. (Mamiya Trading, via Cesare Pavese 31, 20090 Opera Zerbo MI).
TRA PUBBLICO E PRIVATO
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ziando dal giornalismo al costume, dalla socialità al divismo. Non solo questo. Al pari di quanto definisce e caratterizza ogni fotografo di spicco del panorama mondiale, la ricerca espressiva personale di Albert Watson è sostanziosa, prolifica e contenutisticamente avvincente. Spazia da still life di particolare composizione a interpretazioni delle contraddizioni dei nostri tempi, come la serie di fotografie di Las Vegas, e approda a energici paesaggi americani. Pubblicata da Phaidon nella pro-
pria collana dedicata agli autori contemporanei, l’agile monografia Albert Watson, a cura di James Crump (personalità di spicco: riquadro alla pagina accanto), richiama l’attenzione sul suo convincente percorso fotografico: appunto in equilibrio tra incarichi professionali ed espressività creativa individuale. Come ogni titolo della serie, e lo scorso settembre abbiamo presentato quello dedicato a Martin Parr, il volume raccoglie sessantacinque immagini, presentate in sequenza sostanzialmente cronologica, sì da ricavarne un percorso in qualche misura filologico della fotografia di Albert Watson: dunque, edizione libraria in pertinente e confortevole equilibrio tra primo contatto da neofita, che ancora non ne conosce la parabola espressiva, e casellario utile a coloro i quali, già a conoscenza, ne vogliano identificare l’evoluzione con lo scorrere del tempo. Per cui, si parte dai primi lavori di Albert Watson, tra i quali qualche
ALBERT WATSON (4)
Albert Watson è uno dei più noti fotografi di moda e pubblicità dei nostri tempi. Tra tante altre, ha realizzato campagne per Levi’s, Gap, Revlon e Chanel. Ha fotografato moltissime celebrità dei nostri tempi, come le famose modelle Kate Moss e Helena Christiansen; star del cinema e della musica, come Alfred Hitchcock, Jack Nicholson e Mick Jagger; campioni dello sport, come Mike Tyson. Sue fotografie hanno illustrato oltre duecentocinquanta copertine di periodici internazionali, da Vogue a Rolling Stone, da Face a Time e Arena, spa-
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(a sinistra) Alfred Hitchcock; Los Angeles, 1973.
(pagina accanto) Tupac Shakur; New York, 1991. Road to Nowhere; Las Vegas, 2001.
Motel Room; Abilene, Texas, 1987.
AUTORE E CURATORE
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ato e cresciuto in Scozia, Albert Watson vive e lavora principalmente a New York. Lasciata la natia Edimburgo, la sua educazione scolastica si è formata a Londra, dove ha studiato cinema e televisione al Royal College of Art. Sebbene cieco a un occhio fin dalla nascita (da cui il titolo della sua più celebre ed esaustiva monografia d’autore, appunto Cyclope, del 1994), Albert Watson si è sempre interessato di fotografia, e nel 1970, dopo essersi trasferito con la moglie negli Stati Uniti, ha iniziato a lavorare con Max Factor a New York City. Da allora vive negli Stati Uniti, spostandosi tra il suo studio di Manhattan e Los Angeles. James Crump, curatore dell’attuale monografia Phaidon su Albert Watson, è stato il fondatore e direttore di Arena Editions, di Santa Fe, New Mexico, Stati Uniti (intervista in FOTOgraphia, del marzo 2002), una delle più prestigiose case editrici di libri fotografici dei nostri tempi. Ha un dottorato in storia dell’arte e ha lavorato come curatore della sezione fotografica del Kinsey Institute for Sex Research della Indiana University. È autore di F. Holland Day: Suffering the Ideal (1996) e George Platt Lynes: Photographs from the Kinsey Institute (1993). Su riviste come Art Review, Print Magazine e Art in America, ha scritto numerosi articoli dedicati alla fotografia.
inedito, per proseguire con le sue più conosciute immagini di moda e commerciali, e approdare, infine, alle ricerche personali: ribadiamo, le accattivanti visioni di Las Vegas, originariamente in stampe di grandi dimensioni, e i meditati still life. Adeguata opera di consultazione, che si avvale di ben redatte schede esplicative, una per ogni
immagine, purtroppo per noi penalizzate dalla sola edizione in lingua inglese. A.G. Albert Watson; a cura di James Crump; Phaidon Press Limited, 2007 (www.phaidon.com); 128 pagine 25x29cm, cartonato con sovraccoperta; quarantasei illustrazioni in bianconero e diciannove a colori; 29,95 euro.
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LUNGHE OMBRE
Ne abbiamo riferito lo scorso giugno: nello stato di New York è stato proposto un disegno di legge per vietare l’utilizzo, per ragioni commerciali, di immagini di personalità defunte senza il manifesto permesso degli eredi. Ne è portavoce il senatore Marty Golden, che ha dichiarato: «I parenti dei defunti devono essere protetti da personaggi senza scrupoli, che cercano di realizzare facili profitti con immagini che appartengono di diritto alla famiglia, sfruttando una lacuna della nostra legge. Lo stato di New York dovrebbe proteggere famiglie e istituzioni dalle truffe di questi pirati». Come abbiamo già rilevato, questa legge risponde, opponendosi, a una sentenza che ha dato torto agli eredi di Marilyn Monroe, che avevano chiesto il ritiro di un prodotto che utilizzava una immagine della star americana per la propria promozione. I sostenitori dell’iniziativa sono appoggiati da personalità che vivono nella stato di New York, come Yoko Ono (vedova di John Lennon), Liza Minelli (erede della memoria del padre Vincente e della madre Judy Garland), gli eredi di Jimi Hendrix e del campione di baseball Mickey Mantle. Sullo stesso argomento, o quasi, si è soffermato il quotidiano nazionale La Repubblica dello scorso venticinque luglio, con l’intera pagina di apertura dello spazio giornalistico dedicato e riservato a Spettacoli & Televisione (qui accanto): sotto l’occhiello «Polemiche per un disegno di legge che limita l’uso delle immagini delle star. Fotografi in rivolta», il quotidiano ha titolato Salvate Marilyn. Riferendosi a una iniziativa californiana analoga a quella newyorkese, l’articolo di Silvia Bizio sintetizza i fatti, senza chiarire però nulla. Testuale. Una legge per salvare Marilyn Monroe dall’abuso della sua immagine. È quanto propone la senatrice democratica dello Stato della California Sheila Kuehl, ex stellina televisiva negli anni Sessanta, in una pro-
posta di legge tesa a garantire i “diritti pubblicitari post-mortem” non solo della Monroe ma anche delle altre celebrità di Hollywood passate a miglior vita, e proteggere così la loro immagine da sfruttamenti impropri e/o illegali. Il progetto (già soprannominato Marilyn Monroe Act) andrebbe a cambiare l’attuale legislazione californiana, che assegna a familiari, eredi o società da loro designate la gestione dell’immagine di celebrità morte dopo il 1985, lasciando libero l’utilizzo dei volti di attori scomparsi prima di quella data. Che è appunto il caso della Monroe, la cui eredità viene gestita, su indicazione della stessa attrice, dalla fondazione a lei intitolata e guidata da Anna Strasberg, vedova di Lee, mitico fondatore dell’Actor’s Studio di New York [ricordiamo che Anna Strasberg ha messo all’asta tutti gli oggetti privati lasciati da Marilyn Monroe: in una sessione di vendita organizzata da Christie’s New York, nell’ottobre 1999 sono stati totalizzati 13.405.785 dollari, più altri 2.380.000 dollari con la vendita del corposo catalogo di 416 pagine 21,5x27cm; FOTO graphia, aprile 2000]. La goccia che ha fatto traboccare il vaso, secondo la Kuehl, è stata la vendita su Internet delle «mutande caldissime di Marilyn Monroe». «Dal mio punto di vista, questa nuova legge non dovrebbe nemmeno essere necessaria», spiega la senatrice. «Questa proposta riconosce un diritto di proprietà all’immagine della persona deceduta, che si estende aldilà della morte e che nel testamento viene segnalata come una forma di proprietà personale. L’immagine di una celebrità non è qualcosa di cui chiunque può usufruire liberamente, a prescindere dalla notorietà della persona in questione». La polemica sull’uso delle immagini di celebrità defunte non è nuova. Alla fine degli anni Novanta fecero scandalo sequenze di film di
La Repubblica di mercoledì venticinque luglio ha relazionato su una controversa proposta di legge californiana: tutela di alcuni diritti fotografici a scapito di altri. Al solito, la verità starebbe nel mezzo.
John Wayne inserite digitalmente in una pubblicità per una birra; e Fred Astaire venne fatto ballare in uno spot con un aspirapolvere. Nel caso di Marilyn Monroe, la leggendaria diva morta di probabile overdose di barbiturici nella sua villa di Brentwood, il 5 agosto 1962, aveva costituito un “trust” gestito da sua madre e dalla sorellastra, indicando nel testamento che il suo maestro di recitazione, Lee Strasberg, disponesse del resto dei suoi averi. La vedova di Strasberg, Anna, fondò in seguito la compagnia Marilyn Monroe Llc, che in società con l’agenzia Cmg Worldwide per oltre vent’anni ha autorizzato l’uso dell’immagine della Monroe. Tale diritto è stato messo in discussione in Corte federale dagli eredi del fotografo Milton H. Gree-
ne, tra le cui tremila fotografie della Monroe spiccano le famose “Red Velvet”, scattate per Playboy [di questo, dubitiamo fortemente; e comunque non si tratta di scatti per Playboy, ma di fotografie preesistenti al primo numero del dicembre 1953, realizzate dal fotografo specializzato in pin-up Tom Kelley; FOTOgraphia, luglio 2003]. La nuova legge priverebbe gli eredi di Greene di ogni diritto sul libero utilizzo di quelle fotografie. E non si tratta di pochi soldi: lo scorso anno, i diritti all’immagine della Monroe hanno generato 5,8 milioni di euro per Llc e Cmg. La proposta di legge californiana ha appena iniziato l’iter istituzionale, ma sta già sollevando polemiche e preoccupazione tra chi sull’eterna diva Marilyn campa da anni. «Se questa proposta dovesse diventare legge, si scatenerebbe di sicuro un pandemonio nei tribunali», afferma Joshua Greene, figlio di Milton «Noi ci consideriamo liberi di mettere in commercio le fotografie della Monroe senza dover negoziare con nessuno. La pretesa della Llc è infondata. Io l’ho provato in Corte spendendo un milione e mezzo di dollari in avvocati. Ho giocato d’azzardo e ho vinto». Ma ora, la sua vittoria è di nuovo in discussione. Per Douglas Kirkland, uno dei più famosi fotografi di Hollywood, anch’egli autore di celebri ritratti della Monroe, la proposta di legge della senatrice Kuehl rappresenta una «minaccia all’utilizzo del copyright di un individuo e di un artista come me, e non farebbe altro che concedere il copyright a grosse società: un virtuale monopolio dell’immagine a scapito del libero commercio. Espongo spesso in gallerie d’arte fotografie dei divi, incluse quelle della Monroe -continua Kirkland-. La nuova legge mi toglierebbe il diritto di venderle. Noi artisti freelance campiamo sulla vendita dei nostri lavori, in quanto di nostra proprietà. Un diritto inalienabile». Kirkland, che a quasi settanta anni è ancora molto attivo, attacca senza mezzi termini Anna Strasberg e la Kuehl: «La Llc è gestita da avvocati poco raccomandabili che si sono uniti ad An-
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na Strasberg e sostengono di avere diritti legali su tutto quello che riguarda Marilyn, anche se questo diritto non è mai stato provato», dice il celebre fotografo. «Sono anni che ci chiedono una sorta di riscatto per ogni immagine usata, e tutti noi abbiamo pagato piccole somme senza protestare. Ma ora vogliono tutto. Io ho pubblicato un calendario con dodici immagini di Marilyn, e ho sempre pagato alla Llc una parte dei profitti. Ora hanno cominciato a dirci quali immagini possiamo usare e quali no, e forse non potremo nemmeno fare un altro calendario. Se continuano così abbiamo chiuso con Marilyn». Secondo Kirkland, che conosceva bene la Monroe [non è vero], «non era di certo quello che Marilyn, così tenera, gentile e generosa, immaginava che succedesse. Se avesse potuto scegliere, avrebbe lasciato tutto ad opere di beneficenza. Ora si starà rivoltando nella tomba». All’oscuro dei dettagli delle due proposte di legge, che comunque non interferiscono con ciò che stiamo per annotare, da parte nostra non ci sentiamo di sposare alcuna causa. Siamo perfettamente consapevoli di quanto ha sottolineato Douglas Kirkland (rappresentato in Italia dall’Agenzia Grazia Neri), del quale conosciamo sia l’abilità fotografica sia il rigore etico: si tratta soprattutto di un aspetto del business, dietro il quale si muovono avvocati di poco scrupolo. Allo stesso momento, vorremmo che così non fosse. Vorremmo cioè che la legge tutelasse effettivamente i diritti di ciascuno, indipendentemente da interessi di parte. Nello specifico, non sposiamo alcuna causa perché desideriamo che vengano rispettate sia la memoria dei personaggi sia le legittime ragioni dei fotografi. Ovvero, pensiamo che le fotografie d’archivio si possano vendere in ambiti che non siano pregiudiziali del personaggio raffigurato: tanto per quantificare, sì al giornalismo e sì al collezionismo fotografico; no agli abusi commerciali. Anche noi, nel nostro privato, ci siamo spesso risentiti per declinazioni pubblicitarie stravolte di materiali fotografici e cinematografici storici. Ancora noi, siamo insofferenti per tanti in-
FOTOGRAFARE A NEW YORK
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ltra nuova legge statunitense, relativa a New York City, dove è stato proposto un regolamento restrittivo per le riprese fotografiche e cinematografiche professionali, il cui permesso sarà subordinato a un’assicurazione per un milione di dollari. Compilate dall’Ufficio del Sindaco per Film, Teatro e Televisione, le nuove disposizioni richiederebbero un permesso per qualunque tipo di ripresa video o fotografia che coinvolga “un’interazione tra due o più persone in un singolo luogo per trenta o più minuti”, nonché “per gruppi di cinque o più persone che utilizzano un treppiedi per più di dieci minuti”. A parte le troupe televisive professionali, già allineate per proprio conto, il nuovo regolamento si allungherebbe su altre categorie professionali: per esempio ai fotografi di cerimonia e di moda, come ai giornalisti indipendenti che effettuano interviste per strada. L’Unione delle Libertà Civili di New York è già intervenuta: «Non si può far richiedere i permessi alle persone che effettuano riprese video sulle strade», ha tuonato Christopher Dunn, uno degli avvocati dall’associazione. La documentarista Jennifer Livingston ha definito la proposta un tradimento della lunga storia della città nel coltivare il talento in erba: «Pensate a un giovane artista, limitato nel proprio lavoro perché dovrà fare in fretta, magari sollecitato da un poliziotto che non avrà altra scelta se non quella di seguire le regole». Dal proprio canto, i funzionari pubblici insistono che le regole non sopprimono la libertà di parola. Chi non potrà permettersi l’assicurazione, che potrebbe costare tra i cinquecento e mille dollari persino per un semplice scatto, potrà far richiesta di esonero. gannevoli e infidi abusi commerciali: pensiamo soltanto all’icona del Che, sulla quale ci siamo soffermati lo scorso luglio, in occasione di una mostra che ne ha appunto raccolto un significativo campionario. La questione non è semplice, e va affrontata senza pregiudizi: le lunghe ombre che oscurano ogni chiarezza di intendimento nascono dall’insolenza e arroganza di coloro i quali possono vantare un potere soprattutto economico. Basti pensare, per fare un esempio italiano, all’odissea giudiziaria nella quale è incappato il bravo Paolo Begotti dopo aver acquisito l’archivio Giornalfoto di Vincenzino Falsaperla. In uno scontro impari, forte di un potere economico sovrastante (ripetiamolo), soprattutto Adriano Celentano ha pesantemente minato le possibilità di gestione, anche solo giornalistica, del materiale fotografico (FOTOgraphia, maggio 2001). Ribadiamo: diritti ai soggetti e diritti ai fotografi, in un civile equilibrio di intendimenti. M.R.
www.sony.it
I loghi “Sony” e “Cybershot” sono marchi registrati di Sony Corporation, Giappone.
emozioni a flusso continuo
fotocamera alta definizione, double anti-blur solution, face detection
mine di presentazione delle fotografie all’Unicef Photo of the Year Award 2007. Come è noto, il tema del Concorso riguarda la situazione dei bambini nel mondo (FOTOgraphia, marzo 2007). La competizione è indirizzata sia ai fotogiornalisti sia ai fotoartisti. I partecipanti devono inviare tra cinque e dieci immagini che illustrino le condizioni di vita dei bambini. Il vincitore sarà proclamato a metà dicembre, a Berlino. Info: http://www.unicef.de/photo.
JOE O’DONNELL: TRUFFATORE O TESTIMONE DELLA STORIA? Lo scorso quattordici agosto, il New York Times ha pubblicato un breve testo di commemorazione di Joe O’Donnell (a destra, in alto), considerato l’autore di alcune tra le fotografie più celebri del Novecento. L’articolo ha ricordato che l’ottantacinquenne appena scomparso è stato l’autore, tra le altre, dell’immagine di Stalin, Roosevelt e Churchill a Yalta (a destra), e del piccolo John-John Kennedy (John Fitzgerald Junior) che saluta militarmente la bara del padre, il presidente John Fitzgerald, assassinato a Dallas il 22 novembre 1963 (ancora, a destra). Oltre che dei primi scatti di Hiroshima e Nagasaki
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dopo i bombardamenti atomici del sei e nove agosto 1945. Scoppia, però, una polemica. Digital Journalist (www.digitaljournalist.org) riprende infatti una dichiarazione di Gary Haynes, fotografo in pensione della UPI (United Press International), la stessa agenzia per cui lavorava Joe O’Donnell. Gary Haynes afferma che «il quindici agosto ho scritto al New York Times che al 99 per cento la fotografia di JohnJohn è stata scattata da un altro fotografo UPI, Stan Stearns. E poiché è assolutamente impossibile che due fotografie siano sovrapponibili, anche se scattate da fotografi molto vicini; Joe O’Donnell si è limitato a riquadrare la fotografia di Stan Stearns, attribuendosela» (sempre, a destra). Digital Journalist fa inoltre notare che, nel corso degli anni, Joe O’Donnell ha venduto copie di questa fotografia via web, apponendo la propria firma. Ancora, si osserva che un’altra fotografia creditata a Joe O’Donnell, quella dei capi dei governi dell’Unione Sovietica, degli Stati Uniti e del Regno Unito, Stalin, Roosevelt e Churchill, contiene almeno un errore grossolano. Infatti, non è stata scattata a Yalta, in Crimea (incontro dal 4 all’11 febbraio 1945, durante il quale il presidente statunitense Franklin Delano Roosevelt appariva debilitato dal male che l’avrebbe stroncato il successivo dodici aprile, tanto da apparire in pubblico sempre con indosso un caldo mantello protettivo), ma in un precedente incontro a Teheran (dal 28 novembre al Primo dicembre 1943). Però, nella sua autobiografia, lo stesso Joe O’Donnell racconta di essere stato nel Pacifico, mentre era in corso l’incontro di Teheran. Ormai, sembra addirittura improbabile che Joe O’Donnell sia stato per lungo tempo uno dei fotografi ufficiali della Casa Bianca. E, come se non bastasse, è stato fatto notare che alcune delle fotografie che Joe O’Donnell ha venduto attraverso il proprio sito web erano troppo uguali a scatti di Mark Shaw, Elliott Erwitt e altri. Per esempio, un ritratto del presidente Harry S. Truman sembra essere lo stesso di Frank Gatteri, conservato presso l’Harry S. Truman Presidential Library & Museum di Independence, nel Missouri.
Joe O’Donnell è mancato lo scorso tredici agosto. La sua figura professionale è in discussione: si sarebbe indebitamente appropriato di fotografie scattate da altri fotogiornalisti.
Non si tratta certamente dell’incontro di Yalta, Crimea, tra Stalin, Roosevelt e Churchill, del febbraio 1945, ma di quello di Teheran, del precedente fine novembre 1943, quando Joe O’Donnell, che si è attribuito lo scatto, appunto indicandolo come Yalta, si trovava sul fronte del Pacifico.
STAN STEARNS / UPI
FOTOGRAFIA UNICEF DELL’ANNO. Il trentuno ottobre scade il ter-
Joe O’Donnell ha sempre dichiarato suo il ritratto di John-John Kennedy che saluta militarmente la bara del padre, il presidente John Fitzgerald. In realtà, si tratta di un dettaglio ricavato da un campo largo dei funerali, scattato da Stan Stearns, pure fotografo dell’United Press International.
Infine, sono in discussione anche le immagini di Hiroshima e Nagasaki. Il figlio di Joe O’Donnell, Tyge, ammette che suo padre si è appropriato del credito di alcune fotografie, inclusa quella di John-John, a causa di uno stato di demenza senile che ha travagliato gli ultimi anni della sua vita. Però, sempre secondo Tyge O’Donnell, è fuori di dubbio che Joe sia stato uno dei fotografi ufficiali accreditati presso la Casa Bianca e che sia l’autore delle fotografie dei bombardamenti atomici in Giappone. Chi fosse interessato a leggere l’intera dichiarazione di Tyge O’Donnell, la trova all’indirizzo http://www.editorandpublisher.com/eandp/search/ article_display.jsp?vnu_content_id= 1003634662.
LIPOSUZIONE DIGITALE PER SARKOZY. Abbiamo visto mentire
NEAL HAMBERG / REUTERS
con le immagini per ragioni di Stato: per esempio, nella storica fotografia di Evgenii Khaldei (o Yvgeni Khaldi), Stalin fece togliere il secondo orologio dal polso del soldato che, nel 1945, aveva innalzato la bandiera sovietica sul tetto del Reichstag, a Berlino (FOTOgraphia, giugno 2005). La presenza del secondo orologio avrebbe testimoniato che i soldati russi predavano i cadaveri trovati sulla loro strada. [Ancora, i regimi socialisti soprattutto hanno spesso cancellato dalle immagini personaggi via via ritenuti scomodi].
Abbiamo visto mentire con le immagini per ragioni militari: per esempio, nel 1991 i soldati americani inscenarono una falsa conquista della loro ambasciata a Kuwait City, per far fotografare i marine che si calavano dagli elicotteri sul tetto dell’edificio. In realtà, l’edificio era già vuoto da giorni e sarebbe bastato entrare tranquillamente dalla porta principale. Abbiamo visto mentire con le immagini per superficialità: per esempio, Alessandro Boscaro, in una ormai introvabile raccolta di chicche che denunciano pessime abitudini fotogiornalistiche dei media, denuncia che la stessa fotografie è stata pubblicata in tre modi diversi. Il 17 maggio 1994 dal Giornale, con la didascalia «giovani tutsi ammassati in un seminario»; mentre la didascalia dell’Unità, per la stessa immagine, dice semplicemente «civili tutsi». La Repubblica la impagina invece il 5 giugno 1994, commentando: «bambini in un campo profughi alla frontiera con l’Uganda». [Alessandro Boscaro è responsabile del Centro di Documentazione Solidea (www.solidea.org; solidoc@enter.it); il suo saggio Mass Media: il falso nell’informazione è pubblicato sul sito www.fotoinfo.net, dell’Associazione Italiana Giornalisti dell’Immagine). Però, non avevamo ancora visto l’intervento di un giornale per togliere le maniglie dell’amore ai fianchi di un capo di stato. È accaduto a luglio, su Paris Match, settimanale di proprietà di Arnaud Lagardère, amico di Nicolas Sarkozy, neopresidente della Repubblica francese. Il fatto è stato stigmatizzato dal settimanale L’Express, competitor del Match, che ha pubblicato sul suo sito web entrambe le versioni della fotografia (a sinistra, in basso). La fotografia in questione è di Neal Hamberg (Reuters), scattata durante le vacanze estive del presidente francese su lago Winnipesaukee, nel New Hampshire, Stati Uniti. Sullo stesso lago, il capo dell’Eliseo ha avuto un battibecco con altri fotoreporter, che hanno cercato di avvicinarsi per scattargli delle fotografie.
OSPITALITÀ GOOGLE. Cioè: Google.com ospita AP, AFP, UK Press Association e The Canadian Press. Da settembre, se vi collegate a
http://news.google.com non troverete più link che vi rimandano ai siti di Associated Press (AP), della France Press (AFP), della UK Press Association o di The Canadian Press, ma troverete immagini e notizie direttamente sul sito del più noto motore di ricerca di Internet. L’accordo è stato raggiunto all’inizio del mese e la dice lunga sull’immensa importanza che ha ormai raggiunto l’informazione gratuita sul web. Sia per i testi sia per le immagini. Naturalmente, questa non è una buona notizia per i media della carta stampata. Sul sito del quotidiano La Repubblica sono proposte fotografie di Gabriele Basilico e Massimo Vitali, dalla mostra Disco to Disco, esposte alla Jarach Gallery di Venezia fino al ventisette ottobre e raccolte in volume da Charta Edizioni.
Il presidente francese Nicolas Sarkozy in vacanza sul lago Winnipesaukee, nel New Hempshire, Stati Uniti (fotografia di Neal Hamberg / Reuters). Pubblicando l’immagine, il settimanale Paris Match ha ritoccato il fisico del capo dell’Eliseo. Prontamente, il settimanale in competizione giornalistica L’Express ha sottolineato la liposuzione digitale.
BASILICO E VITALI IN RETE. Al momento in cui scriviamo, è possibile vedere alcune fotografie di Gabriele Basilico e Massimo Vitali dedicate al ballo, andando all’indirizzo web http://www.repubblica.it/2006/08/gallerie/spettacoliecultura/basilico-vitali/9.html (qui sopra). Le immagini sono riprese dalla mostra Disco to Disco, alla Jarach Gallery di Venezia, fino al ventisette ottobre; catalogo Edizioni Charta (via della Moscova 27, 20121 Milano; 02-6598098, fax 026598577; www.chartaartbooks.it): 96 pagine 19x29cm; 23,20 euro. Particolarmente sorprendenti quelle di Gabriele Basilico, datate indietro nei decenni, alle origini della sua fotografia. Esprimiamo un grazie al quotidiano, che ci fa conoscere immagini d’autore: speriamo che continui con altri protagonisti della fotografia contemporanea, e non. A cura di Lello Piazza
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ASTRONAVE TORINO
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Accattivante e aggressivo allo stesso tempo, capace di attirare l’attenzione anche dei più distratti, Astronave Torino - Turin Spaceship Company è il titolo della mostra di arti spaziali applicate (naturalmente), che avvia il cammino di avvicinamento al Ventitreesimo Congresso Mondiale degli Architetti Uia di Torino 2008 (dal ventinove giugno al tre luglio prossimi; www.uia2008torino.org). Esposta nelle prestigiose e autorevoli sale del Museo Internazionale delle Arti Applicate Oggi (per comporre l’acronimo Miaao), la rassegna anticipa il programma AfterVille, appunto collegato al Congresso, che si occuperà specificamente di interferenze concettuali e figurative tra il pensiero progettuale e l’immaginario della fantascienza nel Novecento. Ideato per la Fondazione Oat da Undesign (Michele Bortolami e Tommaso Delmastro), con Fabrizio Accatino e Massimo Teghille, AfterVille è un marchio-ombrello sotto il quale si svolgono eventi e mostre, con diversi curatori e partecipanti, a partire da ottobre fino a tutto il 2008. Autentica anteprima del ciclo, dall’inizio di ottobre alla prima settimana di gennaio, in dipendenza di un progetto elaborato da Enzo Biffi Gentili, la mostra Astronave Torino descrive un particolare sviluppo del tema della città futura o post-città, attraverso la
ricostruzione di momenti inediti o rimossi di ricerche e sperimentazioni “spaziali”, nel significato più vasto del termine, nei settori dell’architettura, della pittura, del design e dell’artigianato metropolitano, tutte collegate direttamente o indirettamente a una eccentrica storia culturale di Torino. Per reperti e campioni, sono rico-
German Impache: Astronave Torino; 1997 (fotografia, montaggio e sviluppo fotomeccanico di Giorgio Stella).
struite e documentate quattro tappe del viaggio (immaginario) di una Turin City Ship, che si svolge tra gli anni Sessanta del Novecento e gli inizi del Ventunesimo secolo. Con ordine. Uno. Disegni e testi di architettu-
Marco Patrito: Kathuan Città aerostatica; 2004 (dal romanzo grafico multimediale Sinkha, immagine realizzata in computergrafica tridimensionale).
Enzo Venturelli: Casa-studio per lo scultore Umberto Mastroianni, a Torino; 1953-1955 (fotografia di Pino Dell’Aquila).
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ra nucleare e di urbanistica spaziale degli anni Cinquanta di Enzo Venturelli (Torino, 1910-1996), accattivante e non abbastanza riconosciuto architetto espressionista e fantascientifico, autore della casa-studio dello scultore Umberto Mastroianni sulla collina di Torino (recensita da Bruno Zevi) e di un altro capolavoro, appunto “alieno”, come il Rettilario al Parco Michelotti, che è stato insignito dall’Ordine degli Architetti di Torino del premio Architetture rivelate 2006. Un’opera utopica, di valore straordinario, da riconsiderare anche per le sue anticipatorie riflessioni e soluzioni relative ai problemi del traffico e dell’inquinamento, e da inserire in una specifica tradizione progettuale subalpina di visionari e irregolari, come Alessandro Antonelli, Carlo Mollino e Toni Cordero. Due. Una curiosa iconografia astrale, originata dalla rivista Pianeta: edizione italiana, pubblicata a Torino, del bimestrale francese Planète, di Louis Pauwels, fenomeno culturale europeo degli anni Sessanta (ogni numero, 150 pagine 17x17cm), i cui contenuti hanno ispirato altre successive mitiche riviste, come l’attuale Wired. Nel 1963, Pierre Chapelot, direttore artistico di Planète, ha inserito tra i primi pittori di un nuovo “realismo fantastico” il belga Jean Triffez, le cui opere a suo dire “reinventano il cosmo”. Di Jean Triffez, poi attivo per molti anni in Italia, sono mostrate diverse opere esoteriche, alcune in collezione Miaao, di straordinaria in-
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quietudine espressiva. In combinazione, sono esposte anche prove di realismo fantascientifico dei francesi Pierre Clayette, André Béguin e Philippe Druillet, fino ai bordi dell’illustrazione e del fumetto della bande dessinée. Quindi, completano il tema successivi approfondimenti indipendenti del tema spaziale, più astratti, degli anni Settanta: come quelli del parigino Groupe Space, nomen omen, che ebbe tra i suoi ammiratori Michel Foucault. Tre. Macchine del tempo della Mutoid Waste Company, come il Tempio metalmeccanico da loro eretto alla Cavallerizza Reale nel 2002, in una perturbante performance metalmeccanica in occasione delle Celebrazioni del Centenario dell’Esposizione Internazionale di Arte Decorativa Moderna di Torino del 1902. Alcuni di quei mutanti ritornano a Torino, al Miaao, con inediti e impressionanti ferrigni veicoli spaziali di recupero, alcuni dei quali, giustamente, auto-mobili. Quattro. Disegni e modelli, tra science fiction e grotesque, prodotti da un attivissimo milieu torinese-internazionale di architetti-artisti, quali Marco Patrito, autore del celebre romanzo grafico multimediale Sinkha, e Tullio Rolandi, mago di rendering futuribili. Ancora, artieri: come Michele Guaschino, con i suoi mostri, e German Impache, con le sue astronavi. E poi, eclettici: l’editore e autore Vittorio Pavesio e l’artigiano metropolitano Bruno Petronzi. Tutti
Tullio Rolandi: Il tempio; 2002 (immagine realizzata con programma di modellazione tridimensionale 3D Studio Max, per un fumetto inedito di Marco Patrito). (in alto) Bruno Petronzi: Contaminazione autopubblicitaria; 2007 (immagine di autore anonimo, scaricata da Internet, manipolata e stampata su carta fotografica in serie limitata). (a sinistra) Marco Patrito: Anccown; 2004 (dal romanzo grafico multimediale Sinkha, immagine realizzata in computergrafica tridimensionale).
“artigiani curiosi”, secondo una felice definizione di Orlando Perera, riconosciuti come “eccellenti” dalla Regione Piemonte. L’esposizione si integra con una sezione di opere in vendita, definita Ship e Shop, che diverrà parte integrante della mostra-mercato dei regali di Natale, allestita nella Galleria Sottana del Miaao, dal Primo dicembre, dove è possibile acquistare artefatti alieni. Astronave Torino ha anche una colonna sonora particolarmente curata. Dal pulpito della Galleria Sottana del Miaao, nell’Oratorio e sul Sagrato di San Filippo Neri, in varie forme e modalità vengono diffuse musiche astrali e organizzate esecuzioni ossessive e extraterrestri dal vivo. Serata speciale, il dieci novembre, durante la Saturday Night Art Fever di Artissima. A.G. Astronave Torino - Turin Spaceship Company: anticipazione del ciclo AfterVille. Arti spaziali applicate a cura di Enzo Biffi Gentili, Luisa Perlo e Undesign. Museo Internazionale delle Arti Applicate Oggi (Miaao), via Maria Vittoria 5, 10123 Torino; 011-0702350; www.miaao.org. Dal 6 ottobre al 6 gennaio 2008.
GUARDARE E RAPPRESENTARE
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Per se stesso, il paesaggio, che possiamo anche virgolettare in il “paesaggio”, per sottolinearne la proiezione che stiamo per annotare, è uno dei temi più frequentati da ogni raffigurazione visiva: dalla pittura alla fotografia senza alcuna soluzione di continuità. Sia a causa della sua consistenza quantitativa, sia in dipendenza della sua apparenza di superficie, il “paesaggio” è altresì una delle applicazioni più maltrattate della fotografia, perché in molti (troppi) non danno senso e valore alla relativa interpretazione visiva, concedendo ogni eventuale merito al soggetto: ritenuto bello di suo e non certo per merito della rappresentazione fotografica. Allo stesso tempo, riconosciamo che molte fotografie di “paesaggio” sono tanto brutte da coinvolgere in sé il giudizio complessivo sul genere. Sono brutte quando e per quanto l’autore non sa e non riesce a trasformare la semplice osservazione dal vero con l’autentica visione, che va rivelata con l’adeguata applicazione di un conveniente linguaggio visivo. Da tali premesse, il tema del ritratto fotografico è affrontato e approfondito dai circoli fotografici Bustese e Il Sestante, rispettivamente di Busto Arsizio e Gallarate, nella provincia di Varese: appunto, Il Paesaggio: cento modi di guardare e
rappresentare, che prende avvio il venti ottobre. Con il patrocinio e contributo della Fiaf (Federazione Italiana Associazioni Fotografiche), il programma è inaugurato da due mostre d’autore (Beppe Bolchi e Erminio Annunzi, dal venti ottobre al quattro novembre e dal ventisette
Da Il Po. Un viaggio lungo il Grande Fiume, di Beppe Bolchi: Paesaggio surreale (Pieve del Cairo, Pavia); Tipico “padellone” da pesca (Boretto, Reggio Emilia); Bocca del Po di Gnocca, Gnocchetta (Rovigo).
ottobre all’undici novembre), che si accompagnano con seminari tenuti dagli stessi fotografi (riquadro alla pagina accanto). A seguire, nel corso del tempo, sono previsti altri tanti appuntamenti a tema. Questa combinazione affronta dalla radice la rappresentazione fotografica del paesaggio, allineandola con la pulsione che stimola sensazioni e sollecitazioni, che ogni autore affronta con la propria personalità ed esperienza culturale. Per que-
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DUE MOSTRE (PER COMINCIARE)
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eppe Bolchi ed Erminio Annunzi danno il via al programma fotografico Il Paesaggio: cento modi di guardare e rappresentare, organizzato dai circoli fotografici Bustese e Il Sestante, rispettivamente di Busto Arsizio e Gallarate, in provincia di Varese, con il coordinamento di Beppe Bolchi - Fare Fotografie. ❯ Sabato 20 ottobre: Palazzo Cicogna, piazza Vittorio Emanuele II, 21052 Busto Arsizio VA. • 15,30-17,30: Seminario di Beppe Bolchi sulla Progettualità nella Fotografia di Paesaggio, che tratta l’importanza di definire e perseguire un progetto visuale per poter dare libero sfogo agli estri creativi e interpretativi. • 18,00: Inaugurazione della mostra Il Po. Un viaggio lungo il Grande Fiume, di Beppe Bolchi, con presentazione e commento critico. Reportage sul territorio del Po, dalla sorgente al delta, realizzato per la monografia istituzionale del-
l’Autorità di Bacino del Fiume Po. Fino al 4 novembre; martedì-sabato 16,0019,00, domenica 10,00-12,00 - 16,00-19,00. ❯ Sabato 27 ottobre: Saletta Conferenze del Teatro Condominio, via Sironi 5, 21013 Gallarate VA. • 15,30-17,30: Seminario di Erminio Annunzi su Paesaggio come Interpretazione dei Luoghi, per andare alla scoperta del significato intimistico degli spazi e dei soggetti. • 18,00: Foto Club Il Sestante, via Mazzini 6, 21013 Gallarate VA. Inaugurazione della mostra personale di Erminio Annunzi, con presentazione e commento critico: interpretazione del paesaggio attraverso l’utilizzo di tecniche che tendano a riportarne su carta la visione più intima e personale. Fino all’11 novembre; domenica e giovedì 10,00-12,00 - 17,00-19,00, sabato 17,00-19,00.
Dalla personale di Erminio Annunzi. Il Paesaggio come scoperta del significato intimistico degli spazi e dei soggetti.
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sto, una ulteriore chiarificazione e specificazione del programma potrebbe suonare come “Il Paesaggio è tutto intorno a noi e molto spesso anche dentro di noi”, sottotitolo suggerito dagli organizzatori, che focalizza le implicazioni personali e concettuali implicite nella visione e rappresentazione del paesaggio. Coordinata da Beppe Bolchi - Fare Fotografie, l’iniziativa del Circolo Fotografico Bustese e del Circolo Fotografico Il Sestante di Gallarate affronta in maniera organica tutti gli aspetti del paesaggio in fotografia. Il percorso sarà lungo, ma certamente fruttuoso. A.G.
Raccolto in monografia (Edizioni Charta) ed esposto in mostra alla Galleria Grazia Neri di Milano, il reportage Never Coming Home, di Andrew Lichtenstein, è una toccante e coinvolgente testimonianza delle conseguenze e consecuzioni della guerra in Iraq. Una volta ancora, non l’orrore del conflitto in quanto tale, ma una osservazione di traverso, che documenta e testimonia sconvolgimenti davanti ai quali non possiamo restare indifferenti. I funerali delle vittime della guerra in Iraq e il dolore delle famiglie, cui resta soltanto una bandiera accuratamente ripiegata olte volte abbiamo riflettuto sulla rappresentazione fotografica di quella che abbiamo identificato come “guerra assente”: le conseguenze e ripercussioni della guerra, invece dei combattimenti in quanto tali. Nel luglio 2004, abbiamo approfondito l’argomento; e ancora, lo scorso luglio, abbiamo nuovamente declinato le stesse idee e opinioni in relazione alla pena di morte, tragicamente evocata dai lindi e asettici luoghi di esecuzione fotografati dalla statunitense Linda Devlin. Il concetto è presto riassunto: spesso, le visioni di lato, che evitano la rappresentazione diretta degli orrori, sono più tragiche di quelle che vi si soffermano. Così che, nel percorso individuale contro la guerra, contro ogni guerra (perché quelle “giuste” sono solo una invenzione mediatica e propagandistica), rimaniamo profondamente colpiti ogni qualvolta ci colleghiamo con il sito del quotidiano statunitense Washington Post, politicamente insospettabile, una cui directory aggiorna sistematicamente il numero dei caduti nella guerra in Iraq (www.washingtonpost.com/fallen). Di ognuno è proposto il ritratto posato ufficiale, che viene eseguito prima della partenza dagli Stati Uniti, e sono riportati i dati biografici: volti e personalizzazioni, dopo le aride cifre dei telegiornali. Prima riflessione: i luoghi di provenienza della maggior parte dei soldati uccisi in guerra ci sono totalmente sconosciuti. Deduciamo, quindi, che i reclutamenti dell’esercito statunitense sono massicci soprattutto in località povere, con limitate
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opportunità di lavoro, tanto che i giovani si rivolgono all’arruolamento militare. Seconda riflessione (di origine fotografica): questi volti, tanto sereni nella propria posa fotografica, lasciano trasparire il dramma di un destino sovrastante, certo lontano e diverso dalle speranze che possono avere dei giovani. Non siamo convinti che tutti loro si siano arruolati per patriottismo, e la loro morte si aggrava della tragicità dei sogni infranti della vita quotidiana.
PERDITE INACCETTABILI Tutti questi pensieri -sopra tutto, la guerra apparentemente assente e i tragici destini individuali- risaltano di fronte alle fotografie del newyorkese Andrew
NON SONO
Lichtenstein, fotogiornalista freelance, classe 1965, pubblicate da Edizioni Charta (ne riferiamo a pagina 32), e raccolte in una mostra allestita alla Galleria Grazia Neri di Milano, dal ventidue ottobre. Never Coming Home è un intenso fotoreportage che documenta i funerali delle vittime statunitensi della guerra in Iraq, il sacrificio dei militari americani e il dolore delle loro famiglie. Per tre anni, Andrew Lichtenstein ha partecipato a funerali di giovani soldati, mai più ritornati alle proprie case e ai propri familiari, per confermare un’idea sovrastante: la guerra porta con sé un inestimabile sacrificio umano, che non può e non deve essere ignorato. Accanto alle ragioni di Stato, in ogni guerra vivono quelle
personali di chi, con dolore e rimpianto, subisce un’inaccettabile perdita. Questo lavoro fotografico fa riflettere su quanto tutto ciò sia ingiusto, su come la guerra provochi inutili ed inevitabili sofferenze, e mostra l’insensatezza di ogni patriottismo. Commentando le ragioni per le quali espone nella propria Galleria Never Coming Home, di Andrew Lichtenstein, Grazia Neri, personaggio di spicco della fotografia italiana e internazionale, titolare dell’omonima agenzia, rileva che, a cavallo tra il 2007 e il 2008, la sua attività espositiva celebra dieci anni di mostre, che si accodano ai quaranta di agenzia. «È sempre stata una galleria legata al reportage, attenta ai cambiamenti tecnologici e ai nuovi
Bryan Wilson, ventidue anni. Morto nella provincia di Anbar, Iraq, il Primo dicembre 2004. Sua figlia Breanne mette una bandiera sulla sua tomba (Pine Village, Indiana, Primo luglio 2006).
PIÙ TORNATI
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va la presa di coscienza collettiva sull’assurdità di quel conflitto. Così, pur con mio dolore individuale, ancora una volta mi sono orientata verso una riflessione sul dolore, attraverso un lavoro fotografico umile e onesto. «Mi auguro che chiunque visiti la mostra possa esprimere dentro di sé un proprio giudizio sulla guerra. Non si può cambiare la Storia, ma si può richiamare l’attenzione sull’inutile dolore che scaturisce dalle guerre e sulle vite che a loro causa vengono sprecate».
IL DOLORE
Prince Teewia, ventisette anni. Ucciso a Baghdad, Iraq, il 29 dicembre 2005. Funerali (Newark, Delaware, 13 gennaio 2006).
linguaggi della comunicazione fotogiornalistica. Una galleria sperimentale. Ispirata da scelte personali e talvolta coraggiose. Tra tanti fotografi che hanno documentato o stanno documentando la follia della guerra, senza esitazione, ho valutato e apprezzato il lavoro di Andrew Lichtenstein. «Questo suo reportage sui soldati americani morti in Iraq, composto da fotografie minimaliste, ma di un’onestà sorprendente, che ho conosciuto attraverso Jocelyne Benzakin (qualcuno che ha saputo creare fotografi impegnati a documentare la storia), si allinea con il mio impegno. Addirittura, torno alla nascita della mia agenzia, quando la diffusione di immagini legate alla guerra in Vietnam sollecitava, educava e coltiva-
Sulla fotografia del dolore sono stati scritti testi fondamentali e discriminanti: sopra tutti, ricordiamo il coinvolgente Davanti al dolore degli altri, di Susan Sontag, presentato in FOTOgraphia dell’ottobre 2004 (Mondadori, 2003). Perciò, non c’è molto da aggiungere, se non allinearci con quelle considerazioni che antepongono la pietas dei fotografi alla crudele e cinica registrazione visiva. È assolutamente e inderogabilmente il caso di Andrew Lichtenstein, il cui attuale reportage Never Coming Home arriva al cuore di tutti noi senza clamore, senza scomodare raffigurazioni orrifiche. Come lo stesso autore rileva in un proprio commento, che proponiamo integrale alla pagina accanto, si tratta soprattutto di vicende individuali e personali che non devono essere ignorate. Per quanto la fotografia, nel proprio insieme e per propria intenzione originaria, non possa modificare gli avvenimenti che registra e documenta, per darne testimonianza che si afferma in cronaca come in Storia, non possiamo ignorare, né sottovalutare, quanto e come la stessa fotografia influenzi il pensiero, le opinioni e le considerazioni.
PROGETTO CON LIBRO
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ltre la mostra allestita presso la Galleria Grazia Neri di Milano, le fotogra- co Never Coming Home, è promotore, sostenitore e collezionista di fotografia confie di Never Coming Home sono raccolte in un volume omonimo, com- temporanea, e consulente indipendente in questo campo; vive a New York. Ha cuprensivo di approfonditi testi a commento: cinquanta illustrazioni; ottanta pa- rato la pubblicazione di tre collezioni: Light of the Spirit: Portraits of Southern Outgine 24x16cm; 22,00 euro (Edizioni Charta, via della Moscova 27, 20121 Mi- sider Artists (con Karekin Goekjian; University Press of Mississippi, 1999), progetlano; 02-6598098, fax 02-6598577; www.chartaartbooks.it). Never Coming to che esplora l’arte fuori dagli schemi nel Sud degli Stati Uniti; Sleep: Bedtime ReaHome è un progetto realizzato in collaborazione tra Andrew Lichtenstein, au- ding (con Roger Gorman; Universe/Rizzoli, 1998), collezione di opere fotografiche e letterarie basate sui temi del sonno e del sogno; e Paradise Garden: A Trip tore delle fotografie, e Robert Peacock; interviste di Zachary Barr. Through Howard Finster’s Visionary World, (con AnAndrew Lichtenstein è nato a New York, nel 1965; nibel Jenkins; Chronicle Books, 1996), saggio fotoda vent’anni vive a Brooklyn. È fotografo e giornagrafico che tratta la storia dell’artista folk americalista freelance e lavora principalmente su progetti a no Howard Finster e di Paradise Garden, il suo prolungo termine nell’ambito della documentazione sogetto di scultura ambientale (fotografie di Mary Elciale. Ha fotografato i senzatetto in America, l’elelen Mark, David Graham e Karekin Goekjian). zione di Nelson Mandela in Sudafrica, la lotta per l’inZachary Barr, produttore di una radio pubblidipendenza in Palestina. Nel 2000, ha ricevuto un ca, ha intervistato i parenti delle vittime. A premio per avere documentato la crescita dei comBrooklyn, ha precedentemente collaborato con la plessi industriali destinati a prigioni in America. Il suo casa di documentazione radiofonica Sound Porlavoro sulle prigioni e sulla carcerazione negli Stati traits Productions, con il proprio progetto Story Uniti è apparso su libri, quotidiani e periodici, tra i Cory Mracek, ventisei anni. Ucciso a Iskandariyag, Corps, sulla trasmissione orale della Storia. Ha inquali U.S. News & World Report, Time e The New Iraq, il 27 gennaio 2004. segnato in Colombia, al Salt Institute for DocuYork Times, e gli è valso diversi premi. Alcuni scolari guardano passare la processione Robert Peacock, curatore del progetto fotografi- funeraria (Hay Springs, Nebraska, 4 febbraio 2004). mentary Studies. Vive in Colorado.
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DIETRO LE FOTOGRAFIE
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o assistito per la prima volta a un funerale militare nel novembre 2003. Un giornale locale aveva scritto che Jacob Fletcher, un soldato ventottenne di Long Island, sarebbe stato seppellito con gli onori militari nel cimitero nazionale di Pine Lawn. Centinaia di soldati americani erano già morti in Iraq; ero profondamente convinto del fatto che il loro sacrificio fosse importante, che le loro morti non dovessero essere ignorate. In sé, la cerimonia fu breve. Un trombettiere ha intonato il Silenzio, una guardia d’onore di sette soldati ha sparato in aria tre scariche di fucile, ventun colpi di saluto, e la bandiera americana che copriva il feretro è stata ripiegata con cura e consegnata alla famiglia di Jacob. Un funerale militare dà l’impressione di essere stato pensato durante la guerra, sotto il fuoco; al cimitero tutto si svolge in circa otto minuti. Nonostante la tristezza e il dolore attorno a me, ho apprezzato la semplicità e la bellezza della cerimonia. In quel periodo, le morti dei soldati in Iraq non venivano ancora raccontate dai media nazionali. È stato lì, accanto alla terra appena smossa della tomba del soldato Fletcher, che mi sono reso conto che per me non si trattava più solo di una storia. Era un compito che dovevo svolgere, una possibilità di essere testimone. Nella primavera 2004, U.S. News & World Report ha acconsentito a finanziare le mie spese di viaggio per partecipare a dieci funerali in diversi stati. Dato che le cerimonie erano brevi, e in un certo senso anche simili tra loro, sentivo che era importante aggiungere la differenza geografica. Ogni buon fotografo è anche paesaggista: questo viaggio significava per me una riscoperta del mio paese attraverso un percorso determinato dalla sofferenza e dalla morte. Così, una settimana andai nelle grandi pianure del Nebraska, quella dopo nel deserto al sud dell’Arizona, poi tra i terreni lottizzati della Florida centrale. Avevo torto. Non importa quanto standardizzato sia il cerimoniale di ogni funerale militare, non ce ne sono due uguali. Nella contea di Berk, nel Massachusetts occidentale, la polizia locale aveva chiuso tutte le vie al traffico locale tranne che per i partecipanti al funerale. In Arkansas, il padre di un ragazzo che aveva dato via tutti i suoi beni più cari prima di partire per la guerra, sapendo che non sarebbe più tornato, mi invitò dopo il funerale per un barbecue in ricordo del figlio. Non sentendomi a mio agio, non volendo offendere nessuno, né essere un intruso, e ricordandomi sempre che le persone che vengono sepolte sono molto più importanti rispetto a una fotografia in più per un saggio fotografico, ci sono stati funerali durante i quali non ho nemmeno estratto la macchina fotografica dalla borsa. E poi ce ne sono stati altri in cui sono stato una sorta di fotografo ufficiale, spedendo poi le immagini agli amici e ai familiari dei soldati. Il rapporto con la morte è diverso, da persona a persona. Per questo reportage, dall’autunno 2003 alla fine del 2006 ho partecipato a cinquanta o sessanta funerali, non so esattamente, non ho tenuto il conto. Alcuni sostenevano con tutto il loro cuore la guerra e l’amministrazione Bush che l’aveva iniziata. Una minoranza era arrabbiata con il governo. Ma per la maggior parte di loro la morte del proprio caro era un fatto profondamente personale, al di là della politica. È da queste famiglie che ho imparato di più. Mi hanno aiutato a mostrare quello che davvero avevano perso, l’incredibile, inestimabile sacrificio umano della guerra. Andrew Lichtenstein
Il fotografo non è mai estraneo a ciò che osserva e fa vedere. Dunque, la sua predisposizione (il suo preconcetto) si proietta direttamente sull’osservatore, che legge gli avvenimenti attraverso punti di vista già selezionati. Nel caso di Never Coming Home (avvincente la mostra degli ingrandimenti fotografici, coinvolgente il tempo della lettura individuale della monografia), l’indifferenza non è ammessa. Quindi, il punto di osservazione trasversale di Andrew Lichtenstein, che non rileva gli orrori del conflitto, ma le ripercussioni delle sue consecuzioni sugli individui, sollecita un raccoglimento personale, che non si esaurisce nelle grida della guerra, ma si solidifica nel silenzio del dolore. Ogni esistenza ha mille intrecci e coinvolge infiniti affetti. Un solo istante di guerra sconvolge tante di quelle persone, che viene da domandarsi se e quanto ne valga la pena. Pur di non provocare i laceranti dolori che Andrew Lichtenstein ha sottolineato con le sue immagini, così laiche, così educate, così vicine ai propri soggetti, potremmo benissimo rinunciare a quei benefici per avere i quali la propaganda politica giustifica i combattimenti. Un poco di petrolio in meno, qualche pieno di benzina più caro e un paio di rinunce ci farebbero sentire meglio: ammesso, e non concesso, che ancora si possa provare qualcosa per gli altri. Per fortuna, la fotografia è sempre qui, pronta a metterci di fronte alle nostre responsabilità individuali. Straordinario linguaggio visivo che non ammette deroghe e che dalla cronaca si proietta nella Storia. Angelo Galantini
Michael Wendling, venti anni. Ucciso a Shaibah, Iraq, il 26 settembre 2005. Tomba al cimitero (Theresa, Wisconsin, 5 ottobre 2005).
Andrew Lichtenstein: Never Coming Home. Galleria Grazia Neri, via Maroncelli 14, 20154 Milano; 02-625271, fax 02-6597839; www.grazianeri.com, photoagency@grazianeri.com. Dal 22 ottobre al 17 novembre; lunedì-venerdì 9,00-13,00 - 14,00-18,00, sabato 10,00-12,30 - 15,00-17,00. Catalogo pubblicato da Edizioni Charta. Mostra realizzata con il contributo di Epson e Nikon (Nital).
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Con una mossa che era nell’aria, e che nei mesi scorsi ha attivato serrati dibattiti tecnici, Nikon approda alla terza generazione della propria reflex digitale di vertice. Come previsto, la Nikon D3, sigla analogamente già ipotizzata, propone il sensore di acquisizione digitale CMOS a pieno formato, in linea con il fotogramma tradizionale 24x36mm. Allo stesso momento, nasce anche la reflex Nikon D300, di più ampio indirizzo commerciale. Ribadiamo, terza generazione digitale, con efficace Live View in autofocus continuo «Con la nuova D3, Nikon introduce una reflex all’avanguardia, che rappresenta una vera rivoluzione nel mondo della fotografia professionale» (Robert Cristina, Brand Manager, Nikon Professional Products, Europe).
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rima di tutto, la Nikon D3, che si offre e propone come regina delle reflex digitali, è dotata di sensore CMOS di acquisizione digitale in nuovo formato FX (corrispondente al fotogramma tradizionale 24x36mm), con risoluzione di 12,1 Megapixel, eccellente rapidità di scatto fino a nove fotogrammi al secondo ed elevata sensibilità Iso equivalente. È una configurazione professionale, come certifica la sigla a una sola cifra, consueta nel codice Nikon, conseguente la genìa delle reflex analogiche a sistema da F a F6, che dà avvio a una
terza generazione digitale, che nasce con accompagnamento dell’altra nuova reflex D300, della quale riferiamo più avanti. Entrambe, saranno disponibili in Europa dal prossimo novembre, una a un prezzo appena superiore ai quattromilacinquecento euro, l’altra a meno di milleottocento euro. «Con la nuova D3, Nikon introduce una reflex all’avanguardia, che rappresenta una vera rivoluzione nel mondo della fotografia professionale», ha affermato Robert Cristina, Brand Manager, Nikon Professional Products, Europe. «Le eccezionali caratteristiche di velocità, risoluzione e versatilità della Nikon D3 permetteranno ai fotografi di acquisire immagini in condizioni precedentemente ritenute impossibili». Risultato di anni di progetto e feedback di fotografi professionisti di tutto il mondo, l’attuale Nikon D3 combina molte delle innovative tecnologie Nikon: come appena anticipato, sopra tutto si registrano l’esclusivo sensore di immagine nel formato FX da 12,1 Megapixel effettivi (36x23,9mm, corrispondente al fotogramma fotografico 24x36mm), con lettura a dodici canali di read out, un’elevata velocità di scatto a nove fotogrammi al secondo, impostazioni da 200 a 6400 Iso equivalenti, un sistema autofocus a cinquantuno punti completamente nuovo, un monitor LCD VGA da tre pollici, con visione Live View in autofocus, e un sistema di image processing all’avanguardia.
FX E EXPEED Il sensore di immagine CMOS formato FX della Nikon D3 è stato progettato per offrire eccellenti proprietà di trasmissione della luce e consentire ai fotografi di acquisire immagini di alta qualità anche in condizioni di scarsa illuminazione. Grazie a un elevato rapporto segnale-disturbo, a un pixel pitch superiore del quindici per cento rispetto lo standard di reflex dello stesso segmento tecnico-commerciale, e a uno strato addizionale di microlenti “gapless”, che incrementano l’efficienza, è possibile ottenere immagini di qualità elevata anche in condizioni di illuminazione molto scarsa. Il sensore permette un campo di sensibilità da 200 a 6400 Iso equivalenti, espandibile fino all’equivalente di 25.600 Iso (con risultato paragonabile a quello delle pellicole invertibili a trattamento forzato più due stop) o riducibile a un minimo di 100 Iso equivalenti. Allo stesso momento, il sistema di elaborazione delle immagini (Image Processing System) EXPEED permette alla Nikon D3 di acquisire ed elaborare elevati quantitativi di dati ad alta definizione. Il sistema Nikon EXPEED integra soluzioni hardware e anni di knowhow Nikon nell’elaborazione delle immagini: è carat-
TRE E TRECE
TOKYO, VENTITRÉ AGOSTO
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ul mercato europeo da novembre, le novità Nikon sono state presentate in una conferenza stampa internazionale svoltasi a Tokyo lo scorso ventitré agosto, all’una del pomeriggio, ora locale. Le sigle identificative delle due nuove reflex digitali, appunto Nikon D3 e D300, contornate da cinque nuovi obiettivi Nikkor (riquadro a pagina 36), sono state ufficializzate giusto allo scoccare dell’una, nella grande Rose Room, al nono piano del Tokyo Kaikan Hotel, che si affaccia sul giardino del Palazzo imperiale, gremita di oltre duecento giornalisti di tutto il mondo (tre le testate italiane invitate). Alternando considerazioni e dati di mercato a rilevazioni tecniche, hanno svolto proprie relazioni Michio Kariya (Rappresentative Director, President, CEO e COO di Nikon Corporation), Makoto Kimura (Director, Membro del Board e Senior Executive Officier, President of Imaging Company), Tetsuro Goto (Operating Officier, Vice Nikon D3 e Nikon D300 tra le mani di Michio Kariya, Rappresentative Director, President, CEO e COO di Nikon Corporation, e della miss giapponese madrina dell’avvenimento. Davanti a loro, fotogiornalisti internazionali che hanno immediatamente diffuso la notizia. Dietro le quinte della rituale fotoricordo in fabbrica, a Sendai. In posa il gruppo dei giornalisti europei di fotografia, coordinati da Yvonne BillenkampSchaefers, della filiale di Amsterdam (fotografia di So Okamoto, del Communications Department di Nikon Corporation).
terizzato da una conversione analogico-digitale (A/D) a quattordici bit, per una elaborazione delle immagini a sedici bit. Come consuetudine Nikon, sono dunque garantiti colori accurati, tonalità uniformi nella resa dell’incarnato ed estrema precisione nei dettagli.
President of Imaging Corporation) e Yasuyuky Okamoto (Operating Officier, General Manager of Marketing Headquarters of Imaging Company). Insomma, le Nikon D3 e D300 sono state tenute a battesimo dai massimi dirigenti di Nikon Corporation. Ovviamente, dati i tempi, diversi da quando le novità tecniche annunciate potevano restare segrete per mesi, prima della loro divulgazione sulla stampa internazionale (cartacea), le due nuove reflex avrebbero potuto essere presentate in una videoconferenza altrettanto planetaria, oppure si sarebbe potuto ricevere in redazione una semplice comunicazione per posta elettronica. L’imponenza e ufficialità dell’appuntamento di Tokyo sottolinea, quindi, una identificata e apprezzata volontà da parte di Nikon Corporation, che conserva e ripropone stili di comportamento antichi, ma non sorpassati, che presuppongono il valore e senso dell’incontro diretto, dello scambio di opinioni e della conviviale ospitalità (con momenti di autentico relax e visita alla fabbrica Nikon di Sendai, duecentocinquanta chilometri a nord della capitale Tokyo, capoluogo della prefettura di Miyagi). Insomma, uno stile che ridà visibilità all’individualità e professionalità. A seguire, nel corso della attenta conferenza stampa, le nuove reflex digitali e il relativo contorno di nuovi Nikkor zoom e lunghi teleobiettivi sono stati messi a disposizione dei giornalisti convenuti, che hanno potuto verificarne l’efficacia e l’ergonomia. La qualità delle riprese, oltre moderati scatti individuali, non significativi dell’effettiva potenzialità tecnica delle reflex, è stata sottolineata da una galleria di immagini che ha completato l’allestimento scenografico della sala. Sarà per gusto personale, per deformazione ed educazione individuale, ma l’immagine che più ci ha colpiti non riguarda tanto le eccellenti potenzialità nell’ambito dello sport o della ripresa d’azione, testimoniate da composizioni assolutamente impeccabili e plastiche, ma da uno still life della stessa Nikon D3, avvolta da una luce particolarmente avvincente e convincente. Così che una rilevazione ci pare addirittura spontanea, e riguarda l’estensione delle attuali reflex digitali derivate dalla fotografia piccolo formato 24x36mm ad ambiti un tempo ad esclusiva portata delle configurazioni medio e grande formato a corpi mobili. A parte la corretta interpretazione dei piani prospettici, che anche in tempi passati lasciava molto a desiderare, quando era affidata a fotografi di scarsa preparazione, ormai l’alta risoluzione attuale ha infranto antiche condizioni fotografiche, che per decenni sono state inviolabili o si è creduto che lo fossero. Certo, ancora e sempre tutto dipende dalla capacità dell’interprete fotografo. Ma!
sposizione automatica e dell’autofocus. Innovativa anche la rilevazione dell’autofocus ottico. Sia la reflex di vertice Nikon D3, sia la configurazione di più ampio indirizzo commerciale Nikon D300 (che commentiamo più avanti) sono caratterizzate da
Nikon D300: 12,3 Megapixel con sensore DX; monitor LCD da tre pollici; fino a sei fotogrammi al secondo.
SCENA, AF E ALTRO La Nikon D3 è caratterizzata da un nuovo metodo di analisi e calcolo delle esposizioni e del bilanciamento del bianco, con impiego intelligente esteso anche alla messa a fuoco automatica a inseguimento. Alla base del sistema di riconoscimento scena c’è il noto sensore di misurazione Nikon RGB da 1005-pixel, che è stato modificato nell’impiego per permettere di distinguere la forma e la posizione dei soggetti, ai fini di una maggiore precisione dell’e-
ENTO
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Le Nikon D3 e D300 si integrano nel Total Imaging System Nikon, composto dalla gamma di obiettivi Nikkor e da una vasta serie di accessori e software per ogni applicazione fotografica.
un sistema autofocus a cinquantuno punti completamente nuovo, studiato per acquisire e inseguire in modo più accurato il movimento dei soggetti. Risultato di studi intensivi sull’utilizzo dell’autofocus da parte di fotoreporter e fotografi di eventi sportivi di livello professionale, il modulo AF MultiCAM3500 è caratterizzato dal maggior numero di
CINQUE ALTRI NIKKOR
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ontemporaneamente alle reflex Nikon D3 e Nikon D300 sono annunciati anche cinque nuovi obiettivi Nikkor, altrettanto disponibili dal prossimo novembre: zoom grandangolare AF-S 14-24mm f/2,8G ED, zoom standard compatto AF-S 24-70mm f/2,8G ED e tre super teleobiettivi dotati della funzione di stabilizzazione VR II (Riduzione Vibrazioni) AF-S 400mm f/2,8G ED VR, AF-S 500mm f/4G ED VR e AF-S 600mm f/4G ED VR. Con ordine. I due zoom 14-24mm e 24-70mm segnalano l’apertura f/2,8 costante per le rispettive escursioni focali, così definite da una luminosità ottimale. Zoom grandangolari, rispondono adeguatamente alle complesse esigenze ottiche dell’acquisizione digitale di immagini sia con reflex Nikon dotate di sensore DX sia con la nuova D3 con sensore FX pieno formato. Sono i primi zoom grandangolari che integrano l’esclusivo rivestimento Nano Crystal di Nikon, in grado di eliminare immagini fantasma e bagliori spesso provocati dalle superfici riflettenti dei sensori digitali. La combinazione esclusivamente grandangolare e l’elevata luminosità d’apertura, rende l’AF-S Nikkor 14-24mm f/2,8G ED adatto anche a situazioni particolari, come la ripresa fotografica in spazi ristretti. L’alta qualità ottica, unita a efficaci livelli di dettaglio, consente di ottenere risultati nitidi e brillanti. Allo stesso momento, l’AF-S Nikkor 24-70mm f/2,8G ED si presenta sostanzialmente più compatto ed ergonomico del predecessore (zoom AF-S Nikkor 28-70mm f/2,8), disponendo al contempo di eccezionali caratteristiche per le impostazioni grandangolari, nelle quali la risoluzione da centro a bordi è una priorità. Ancora, rivestimento Nano Crystal e impiego di lenti in vetro ED, che garantiscono livelli significativi di risoluzione e contrasto. Il motore di precisione Nikon Silent Wave assicura prestazioni rapide e silenziose dell’autofocus, con possibilità di passare istantaneamente alla modalità Manuale. Anche i tre nuovi lunghi fuochi, tutti provvisti di stabilizzazione ottica VR II, sono definiti dal rivestimento antiriflesso Nano Crystal e dall’impiego di lenti ED, a conferma di una qualità fotografica di altro prestigio. Concepiti per fotografi di sport, di natura e per fotoreporter, i Nikkor AF-S 400mm f/2,8G ED VR, AF-S 500mm f/4G ED VR e AF-S 600mm f/4G ED VR completano la gamma di super teleobiettivi del proprio sistema ottico, che già comprende le focali AF-S VR 200mm f/2G e AF-S VR 200-400mm f/4G, oltre al diffuso AF-S 300mm f/2,8G. Grazie alla nuova tecnologia Nikon VR II, i nuovi super teleobiettivi offrono l’equivalente di un tempo di otturazione accelerato di quattro stop. Consentono di stare sempre al centro dell’azione, anche da centinaia di metri di distanza. Nell’uso, si registra una resa ottica di contrasto adeguato, con ottimale restituzione dello sfocato di fondo (bokeh), anche in condizioni di scarsa luminosità. Il sistema di stabilizzazione ottica Nikon VR II presenta una nuova modalità appositamente progettata per compensare i movimenti della reflex quando si utilizza la funzione di riduzione delle vibrazioni con tempi di otturazione lunghi e treppiedi. I nuovi obiettivi dispongono di una funzione di autofocus rapido particolarmente silenziosa, grazie al motore Nikon Silent Wave. Inoltre, sono dotati di un nuovo selettore di regolazione del sistema di messa a fuoco manuale per mantenere la modalità autofocus in caso di selezione accidentale. Si apprezza anche l’agevole rotazione dell’anello di fissaggio al treppiedi, che consente di cambiare l’orientamento orizzontale/verticale della reflex con la massima rapidità. Tutti offrono l’intuitivo sistema preimpostato di messa a fuoco.
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punti AF mai realizzato per una reflex. La combinazione del modulo AF con il pulsante multiselettore Nikon a otto direzioni rende facile e veloce la selezione dei singoli punti AF istantanei. Come auspicato, il sistema AF può essere completamente personalizzato, in base a ogni possibile condizione di ripresa. La qualità d’immagine della Nikon D3 è abbinata ad eccezionali opzioni di velocità di scatto. A nove fotogrammi al secondo, la D3 è attualmente la reflex digitale più veloce del mondo nel proprio segmento (agosto 2007); con la messa a fuoco automatica a inseguimento disattivata, consente di effettuare scatti consecutivi a undici fotogrammi al secondo in modalità di ritaglio in formato DX (selezionato automaticamente quando si utilizzano obiettivi DX, oppure impostato volontariamente con ogni obiettivo Nikkor). Allo stesso momento, la Nikon D3 è la prima reflex digitale che presenta una seconda modalità di ritaglio, con rapporto 5:4 (30x24mm). Il ritardo allo scatto di quarantuno millisecondi è impercettibile, mentre l’elevata velocità di read out integrata nel sensore di immagine contribuisce sia ad aumentare la velocità di buffer sia a migliorare le prestazioni della visione diretta Live View. La Nikon D3 è subito pronta all’uso: il tempo di avvio è di soli 0,12 secondi, mentre l’oscuramento dello specchio, di appena settantaquattro millisecondi, la rende una configurazione leader nella categoria.
OTTURATORE E IMMAGINE La reflex di vertice Nikon D3 incorpora un’unità otturatore completamente nuova, di fabbricazione Nikon, testata su oltre trecentomila cicli. Le lamelle dell’otturatore sono in materiale resistente, composito di Kevlar e fibra di carbonio, per durevolezza e precisione consistenti anche nelle condizioni ambientali più difficili. Il nuovo sistema di controllo immagine assicura una migliore produttività per chi effettua scatti in formato compresso Jpeg. Il controllo immagine consente agli utenti di tutti i livelli di gestire e personalizzare l’aspetto delle proprie immagini nella reflex. Questo sistema integrato assicura una notevole riduzione dei tempi di post-elaborazione. Oltre l’ampia gamma
di impostazioni predefinite, i fotografi possono anche personalizzare e condividere le impostazioni. La funzione D-lighting attivo della Nikon D3 contribuisce ad accrescere la gamma di funzionalità Jpeg della reflex. Prima della ripresa in condizioni di alto contrasto, è possibile applicare una curva preimpostata, che elabora le immagini con dettagli migliori nelle aree più illuminate e in ombra, senza compromettere il contrasto globale. Alta la definizione. Dalla porta Hdmi (High Definition Multimedia Interface), per il collegamento ai più recenti display HD fino al monitor LCD VGA da tre pollici, con angolo di visualizzazione di 170 gradi, le immagini possono essere riprodotte con livelli di dettaglio molto elevati. Il nuovo monitor VGA raggiunge il massimo delle proprie potenzialità con l’u-
tilizzo della nuova funzione Visione Live View, introdotta nelle due attuali reflex Nikon D3 e D300, che offre la rilevazione autofocus completa (sui cui dettagli non ci soffermiamo; la nostra personalità giornalistica è estranea a questi approfondimenti, materia e motivo di esistere di altre testate).
MEMORIZZAZIONE E DINTORNI La Nikon D3 è la prima reflex digitale a offrire due alloggiamenti card CompactFlash, per una conveniente versatilità di memorizzazione. Si possono effettuare scatti su ciascuna scheda, uno dopo l’altro, o simultaneamente (backup). In caso di acquisizioni combinate di file grezzi NEF più Jpeg compressi, l’immagine NEF può essere memorizzata su una scheda, mentre la versione Jpeg può essere inviata sull’altra. Inoltre, i file immagine possono essere selezionati e copiati da una scheda all’altra dopo la ripresa. Indirizzata a impieghi professionali, estesi alle più difficili e avverse condizioni ambientali, la Nikon D3 è adeguatamente configurata. Il corpo macchina (159,5x157x87mm; 1390g con le batterie), i rivestimenti esterni e il box dello specchio reflex sono realizzati in lega di magnesio, mentre le giunzioni e i pulsanti sono a tenuta di polvere e umidità. Come noto, Nikon ha precorso i tempi nella trasmissione di immagini senza cavi. Ora, grazie al nuovo trasmettitore senza cavi Nikon WT-4, è iniziata l’era delle reti
Tra gli elementi distintivi della reflex digitale di vertice Nikon D3, dotata di sensore di acquisizione CMOS in formato FX (full frame 36x23,9mm), si segnala il monitor LCD da tre pollici, sul quale si proietta la visione Live View con autofocus. L’ergonometria e l’architettura dei comandi operativi, sia attivi sia passivi, riprendono e ripropongono le tradizionali funzioni Nikon, in modo da facilitare il passaggio dalle precedenti configurazioni professionali.
Tokyo, sabato venticinque agosto. Immediatamente dopo la presentazione ufficiale, all’una del pomeriggio del precedente giovedì ventitré, l’informazione delle nuove Nikon D3 e D300 è già nei negozi di fotografia (per quanto ci è dato supporre, magari dalla sera dello stesso giovedì). È specificata la disponibilità da novembre e sono sintetizzati i valori tecnici qualificanti.
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Anche la Nikon D300, rivolta e indirizzata a un pubblico potenzialmente più ampio della nuova D3 di vertice, propone il versatile monitor da tre pollici, con Live View in autofocus.
Ancora, sia la Nikon D300 sia la reflex digitale dichiaratamente professionale Nikon D3 sono state disegnate da Giugiaro Design, il celebre studio torinese fondato e diretto da Giorgetto Giugiaro. Nel corso della conferenza stampa internazionale di Tokyo del ventitré agosto, cui ci riferiamo nel riquadro pubblicato a pagina 35, è stato proiettato un suo intervento sul senso del design industriale e sull’onore di progettare per un marchio di prestigio quale è Nikon.
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a più apparecchi. Non solo è possibile trasmettere (inviare) le immagini ai server e controllare in modalità remota la reflex, ma con il trasmettitore WT-4 si possono scorrere in modalità remota anche le miniature delle immagini sulla Nikon D3. In un ambiente senza cavi, è possibile creare reti fino a cinque reflex Nikon D3 e D300. Durante un evento professionale, gli addetti alla post-produzione possono visionare simultaneamente le miniature su ciascuna reflex, selezionando (estraendo) le immagini utili, mentre i fotografi continuano le riprese.
autofocus. Ovviamente, il corpo macchina è oggettivamente e sostanzialmente più compatto, rispetto la professionale Nikon D3, della quale abbiamo appena riferito: 147,2x112,8x74mm (per 795g di peso), analogamente disponibile da novembre, a un prezzo inferiore ai milleottocento euro. Ancora Robert Cristina, Brand Manager, Nikon Professional Products, Europe: «Grazie all’utilizzo delle più recenti tecnologie e alle rinomate caratteristiche ergonomiche di Nikon, la versatile D300 fissa un nuovo standard per i professionisti alla ricerca di una soluzione economicamente conveniente. La D300 è una reflex digitale “adatta a tutte le situazioni”, grazie alla rapidità di risposta, alle elevate prestazioni e alla facilità di utilizzo, caratteristiche accattivanti per chiunque pratichi la fotografia in modo professionale o con un concentrato impegno non professionale». Il sensore CMOS formato DX, da 12,3 Megapixel ad alta risoluzione, genera file adatti a molteplici impieghi ed è combinato con un’elevata velocità standard di cadenza di raffica buffer, pari a sei fotogrammi al secondo (fino a otto fotogrammi al secondo con il Multi Power Battery Pack MB-D10 opzionale). La Nikon D300 è caratterizzata da una rapida accensione, una risposta veloce e un’eccellente versatilità di impiego, per soddisfare le esigenze di una vasta gamma di applicazioni fotografiche. Si accende in soli 0,13 secondi, con un ritardo allo scatto quasi impercettibile, pari a quarantacinque millisecondi.
E POI, NIKON D300
PRECISIONE
Capostipite di una nuova generazione di reflex digitali, tra le altre caratteristiche, la Nikon D300 offre una risoluzione di 12,3 Megapixel effettivi del sensore in formato DX, una velocità di scatto pari a sei fotogrammi al secondo, la funzione self-cleaning del sensore, il monitor LCD VGA ad alta definizione da tre pollici e la visione Live View in
La Nikon D300 è dotata di un’unità self-cleaning del sensore, che oscilla ad alta frequenza, per rimuovere eventuali tracce di polvere presenti sulla superficie del filtro ottico low-pass dello stesso sensore. La reflex offre un’ampia estensione di sen-
come il pannello LCD superiore, che permette una comoda visione dei dati, e il monitor LCD posteriore, che cambia tonalità di fondo in base alle condizioni di illuminazione dell’ambiente. L’intuitivo selettore multi-area a otto direzioni semplifica la selezione di qualsiasi impostazione dell’autofocus a cinquantuno punti.
DUREVOLE E AFFIDABILE
sibilità: da 200 a 3200 Iso equivalenti, oltre le estensioni a LO-1 (100 Iso equivalenti) e HI-1 (6400 Iso equivalenti, con risultato analogo a quello della diapositiva con trattamento forzato più uno stop). La precisione delle immagini è eccellente, grazie al nuovo sistema di riconoscimento scena Nikon, che utilizza l’apprezzato sensore colore RGB da 1005-pixel, tecnologia proprietaria, modificato nell’impiego in modo da riconoscere la forma e posizione dei soggetti prima dell’acquisizione dell’immagine. Inoltre, questa caratteristica consente al nuovo sistema autofocus a cinquantuno punti di inseguire i soggetti anche in base al colore, migliorando al tempo stesso la precisione di misurazione esposimetrica e del bilanciamento del bianco. La Nikon D300 è dotata della visione Live View, con autofocus, che presenta un’immagine live sul monitor LCD da tre pollici, con due modalità per lo scatto, a mano libera o su treppiedi. L’autofocus è disponibile in entrambi i modi di visione Live View.
ANCORA EXPEED Il sistema di image processing EXPEED della Nikon D300, presente anche nella D3 di vertice, consente di acquisire ed elaborare rapidamente dati di immagini ad alta definizione. Il sistema EXPEED integra soluzioni hardware e anni di know-how Nikon nell’elaborazione delle immagini. Il sistema EXPEED della nuova Nikon D300 è caratterizzato da una conversione analogico-digitale (A/D) a quattordici bit, con elaborazione delle immagini a sedici bit: come consuetudine Nikon, sono dunque garantiti colori accurati, tonalità uniformi nella resa dell’incarnato ed estrema precisione nei dettagli. La Nikon D300 è sinonimo di alta definizione. Dal monitor LCD VGA da tre pollici, con esteso angolo di visione di 170 gradi, fino all’interfaccia Hdmi per display HD, la reflex è adatta a tutti gli ambienti di elaborazione delle immagini, da quelli attuali a quelli ipotizzabili del futuro. I pulsanti di controllo sono stati studiati per semplificarne l’utilizzo, così
La D300 continua la lunga tradizione Nikon in fatto di robustezza e longevità. Il corpo macchina è costruito in lega di magnesio, mentre l’otturatore è stato testato per cicli di centocinquantamila scatti. Inoltre, la D300 è progettata per un elevato livello di resistenza alla polvere e di impermeabilità. Come la D3, anche la D300 si inserisce nel versatile sistema Nikon, che offre accessori ed elementi complementari per affrontare ogni tipo di impiego, anche particolare, anche specifico. La D300 è parte integrante del Total Imaging System Nikon, che va dagli obiettivi Nikkor a una gamma completa di flash elettronici, accessori e software per qualsiasi applicazione fotografica. Il Multi Power Battery Pack MB-D10 è un accessorio opzionale in grado di aumentare l’autonomia della reflex e permette di aggiungere la possibilità di ripresa verticale ergonomica e di incrementare la velocità di scatto/acquisizione fino a otto fotogrammi al secondo. Compatto ed ergonomico, viene fissato alla base della reflex; a differenza di altre impugnature, non occupa lo spazio della batteria, pertanto è possibile effettuare riprese con due batterie EN-EL3e oppure aggiungere una potente batteria EN-EL4a. La Nikon D300 e l’MB-D10 possono essere alimentati anche da batterie stilo di tipo AA. Ancora e in conclusione, ribadiamo l’efficacia e efficienza del nuovo trasmettitore senza cavi Nikon WT-4. Non solo è possibile trasmettere (inviare) le immagini ai server e controllare in modalità remota la reflex, ma con il trasmettitore WT-4 è possibile anche scorrere in modalità remota le miniature delle immagini sul monitor. In ambienti senza cavi, è possibile connettere fino a cinque reflex Nikon D300 e D3, scorrere simultaneamente le miniature delle immagini da tutti gli apparecchi connessi ed estrarre i relativi file immagine, mentre i fotografi continuano le riprese. Maurizio Rebuzzini
Accessorio opzionale, fissato alla base della reflex digitale, il Multi Power Battery Pack MB-D10 aumenta l’autonomia operativa della Nikon D300: soprattutto, incrementa la velocità di scatto fino a otto fotogrammi al secondo.
Con collegamento diretto dedicato, disponibile dal pannello di prese delle Nikon D3 e Nikon D300, il nuovo trasmettitore senza cavi Nikon WT-4 invia immagini ai server e controlla in modalità remota le reflex. È possibile connettere fino a cinque Nikon D300 e D3, con visualizzazione e gestione a distanza dei file immagine.
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FANTASTICO Con un impegno allungatosi nel tempo, l’italiano Sandro Vannini, uno dei più apprezzati e acclamati fotografi mondiali dell’arte (soprattutto egizia), ha realizzato una consistente e convincente documentazione del tesoro di Tutankhamun, il più conosciuto tra i faraoni dell’Antico Egitto. Considerazioni di fondo e rilevazioni tecniche attorno una campagna fotografica, raccolta in una preziosa monografia pubblicata dal prestigioso editore inglese Thames & Hudson, che accompagna l’esposizione Tutankhamun & Golden Age of Pharaohs, a Londra dal quindici novembre
ealizzato con le più moderne tecnologie digitali, il consistente lavoro di Sandro Vannini sul tesoro di Tutankhamun rientra nella grande tradizione delle missioni fotografiche destinate alla documentazione delle opere artistiche e culturali. Storia lunga, che affonda le proprie radici indietro nel tempo. La prima di queste fu la Mission héliographique, affidata a cinque fotografi: Édouard Baldus, Hippolyte Bayard, Gustave Le Gray, Henri Le Secq e Auguste Mestral. Correva l’anno 1851, un secolo e mezzo fa: erano passati solo dodici anni dall’invenzione della fotografia! Ideata dalla Commission des Monuments historiques, un’agenzia del Governo francese, creata nel 1837, allora guidata dal lungimirante Prosper Merimée, la missione aveva lo scopo di fare il punto sul patrimonio artistico francese, valutarne lo stato di salute e prevedere eventuali interventi di restauro. Un secondo proposito, non meno importante, era quello di far conoscere
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al mondo, attraverso la fotografia, capolavori artistici che solo pochissime persone, all’epoca, avrebbero avuto il privilegio di poter ammirare de visu. Se la Mission héliographique va ricordata perché fu la prima, non si può certo dimenticare che in Italia, soltanto un anno dopo, nel 1852, veniva aperto a Firenze lo studio dei Fratelli Alinari, che, nel corso di più di un secolo, ha realizzato, tra l’altro, un ineguagliabile catalogo del patrimonio artistico italiano. Per esempio, per decenni, nel mondo il David di Michelangelo è stato il David degli Alinari, conosciuto solo attraverso lo sguardo e secondo il punto di vi-
Questa magnifica testa, che sorge da un fiore di loto, realizzata in legno, ricoperta da un sottile strato di gesso e dipinta, costituisce l’unica rappresentazione realistica del volto di Tutankhamun. È stato il primo oggetto ritrovato dall’archeologo Howard Carter, entrando nella tomba, nel 1922.
TUTANKHAMUN
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Il corsetto reale trovato nell’Anticamera della tomba è un lavoro di fine gioielleria, in oro, pasta di vetro, avorio e smalti preziosi. Qui lo vediamo nel suo insieme e in un particolare che dà risalto alle scagliette smaltate del pettorale.
sta di uno degli anonimi fotografi che lavoravano nella bottega fiorentina. E ciò vale anche per moltissimi altri capolavori dell’arte classica italiana.
FOTOGRAFIA DELL’ARTE Nonostante sia ormai facile viaggiare, la fotografia rimane ancora oggi lo strumento più potente per avvicinare un vastissimo pubblico alle opere d’arte. A livello mondiale, Sandro Vannini, classe 1959, che fa base a Viterbo, è uno dei protagonisti in questo ambito di lavoro. Pubblicata da Thames & Hudson, l’attuale King Tutankhamun: The Treasures of the Tomb è una monografia che allunga la sua consistente bibliografia a tema (in libreria da novembre; in inglese; testi di Zahi A. Hawass; 296 pagine 24,5x 34cm, cartonato con sovraccoperta; 65,90 euro). Il libro fa da catalogo all’esposizione Tutankhamun & Golden Age of Pharaohs, al The 02 - Millennium Dome di Londra (Drawdock Road): dal 15 novembre al 30 agosto 2008 (biglietti in prevendita: www.ticketmaster.co.uk e www.kingtut.org/plan_your_visit/london). Prima di entrare nel dettaglio e descrivere le sue
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tecniche, aggiungiamo una parola sul fatto che questo genere di fotografia è un poco la cenerentola dell’arte fotografica. Infatti, e a torto, l’attenzione dei critici è riservata soltanto (non solo soprattutto) al fotogiornalismo e alla ricerca artistica, e trascura il fatto che queste immagini di documentazione dell’arte richiedono una grande creatività, una profonda cultura e una ben indirizzata etica. Si tratta di un lavoro enorme, che -come appena rilevato- rimanda a una preparazione culturale di spessore e a una altrettanto colta sensibilità nell’interpretazione dell’oggetto fotografato. In qualche modo, il fotografo dell’arte deve sapere mettersi da parte per lasciare che l’oggetto stesso esprima da solo tutta la propria bellezza, senza apparente aiuto aggiunto. Molti degli oggetti del tesoro di Tutankhamun sono stati fotografati da esperti professionisti decine di volte; le loro immagini sono state pubblicate in moltissimi libri. In tutti i casi, però, per raggiungere il risultato finale, ci sono stati consistenti interventi a livello di selezione fotolitografica (la procedura che precede la fase di stampa litografica o tipografica vera
STUPEFACENTI TESORI
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utankhamun, King Tut nello slang degli appassionati di archeologia, è il faraone più noto di tutta la storia dell’Antico Egitto. Non è conosciuto e riconosciuto per imprese militari o civili, ma probabilmente a causa del fatto che la sua tomba, unica a essere stata ritrovata intatta (un’ottantina di anni fa, nel 1922, dall’archeologo inglese Howard Carter), rivelò straordinari tesori che stupirono il mondo. Tutte le tombe scoperte prima di questa sono state violate e razziate nel corso dei secoli. Tutankhamun (King Tut) è un faraone della Diciottesima Dinastia. Regnò dieci anni, dal 1333 avanti Cristo al 1324, durante il Nuovo Regno. Fu eletto re all’età di nove anni e morì, per cause non chiarite, all’età di diciannove.
e propria), per indebolire contrasti e ritoccare difetti che il tempo ha lasciato sugli oggetti. In assoluto, interventi correttivi che non hanno risolto l’efficace rappresentazione dei preziosi e affascinanti soggetti. A differenza, Sandro Vannini ha percorso una strada fotografica nuova, e per questo innovativa, scomposta tra accurate sessioni di ripresa e post-produzione adeguatamente finalizzata. Prima di tutto, l’illuminazione è organizzata e predisposta per far risaltare gli oggetti come sono in realtà. Così che, la sua fotografia mette in risalto tutti i piccoli particolari che ne rivelano le tecniche artigianali costruttive, esaltando eventualmente i difetti invece di nasconderli.
Lampada di alabastro fotografata con due diverse illuminazioni, una interna e l’altra esterna. Le immagini originarie sono state poi sovrapposte e fuse in post-produzione, mantenendo di ogni dettaglio l’esposizione fotografica che lo restituisce al meglio.
Collana in oro raffigurante tre scarabei, ritrovata al collo di Tutankhamun: i dettagli fortemente ingranditi (qui sotto) mostrano gli scarabei in lapislazzuli, sia fronte sia retro. La lavorazione denota una fine capacità orafa.
Il luogo della tomba di Tutankhamun (KV 62, acronimo di King’s Valley 62, cioè tomba numero sessantadue della Valle dei Re). KV 62 è stata l’ultima tomba scoperta nella famosissima area archeologica nei pressi di Luxor, in Egitto. Un altro spazio ipogeo, ritrovato poco più di un anno fa da parte della squadra di Otto Shaden, un archeologo statunitense, e catalogato KV 63, è stato giustamente celebrato come un avvenimento archeologico importantissimo: non sembra rappresenti una tomba, ma un luogo per l’imbalsamazione dei re.
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DIETRO LE QUINTE
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andro Vannini ha fotografato il tesoro di Tutankhamun con una Silvestri Bicam II, a volte dotata di soffietto flessibile aggiuntivo, indispensabile per gli oggetti di più piccole dimensioni. Alternando le focali secondo necessità, sono stati usati obiettivi Rodenstock Apo-Sironar HR 35, 60 e 105mm, tutti di apertura relativa f/4, studiati appositamente per la fotografia digitale, con otturatore elettronico gestito da una centralina collegata con il computer, da dove è stato guidato lo scatto, sia per la propria componente meccanica (apertura e chiusura programmate dell’otturatore) sia per quella digitale (coordinamento dell’acquisizione in corrispondenza del tempo di otturazione). I tre quarti delle riprese fotografiche sono state realizzate con la focale più lunga 105mm. Per l’acquisizione e memorizzazione delle immagini è stato usato il dorso digitale Imacon Ixpress da ventidue Megapixel, dotato di funzione multiscatto (quattro e sedici), che è anche la sua caratteristica discriminante e qualificante. Le luci sono state realizzate appositamente da Gamma Progetti di Viterbo. Il sistema consiste in quattro tipi di fari di caratteristiche differenti, utilizzati alternativamente in relazione al soggetto da fotografare.
Con la tecnica fotografica adottata da Sandro Vannini, ribadiamo uno dei più quotati e apprezzati fotografi dell’arte (soprattutto egizia) del mondo, si ottengono e raggiungono risultati significativi. Anzitutto, va registrata la perfetta esposizione del soggetto inquadrato, con equilibrio luminoso tra porzioni di campo che, all’interno della composizione, possono essere divisi e distinti da quattro-cinque stop di differenza (è il caso della maschera del faraone, uno degli oggetti più straordinari del suo tesoro, che proponiamo a pagina 47). Quindi, registriamo la possibilità di arrivare a ingrandimenti di generose dimensioni, che esaltano particolari minimi del soggetto, consentendo di coglierne pregi e (eventuali) difetti di lavorazione. Infine, sottolineiamo che si approda sempre a riproduzioni cromaticamente perfette. Questo, per quanto riguarda l’aspetto propriamente e puramente fotografico. Progetti di tanta portata, tale è la documentazione del tesoro di Tutankhamun, richiedono poi altre doti: contatti, competenza archeologico-scientifica, rapporti con le autorità che governano e gestiscono il luogo. Tutta materia che fa parte del bagaglio professionale di Sandro Vannini.
Sandro Vannini al lavoro all’interno del Museo del Cairo, dove ha fotografato sistematicamente i preziosi oggetti che compongono il tesoro di Tutankhamun (con Silvestri Bicam II, dorso digitale Imacon Ixpress e luci Gamma Progetti). I set fotografici sono stati allestiti all’interno delle sale del Museo,
visitato ogni anno da più di un milione di persone, diverse migliaia ogni giorno. Ogni oggetto è stato recuperato dalla propria teca, trasferito sul set, tra la meraviglia e curiosità dei visitatori, e riportato al proprio posto dopo lo scatto. L’operazione è stata quindi annotata su un enorme registro dall’aspetto antico.
L’ARTE DI SANDRO VANNINI
King Tutankhamun: The Treasures of the Tomb, fotografie di Sandro Vannini; testi di Zahi A. Hawass (in inglese); Thames & Hudson, novembre 2007; 296 pagine 24,5x34cm (incluse ventisei pagine multiple ripiegate), cartonato con sovraccoperta; 65,90 euro.
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A volte, una fotografia di Sandro Vannini è il risultato di più scatti, ripresi a diverse esposizioni, fino a sessantaquattro (!), che vengono poi sovrapposti in post-produzione con Photoshop: in modo opportuno, per recuperare contrasti (per esempio tra l’oro e il blu delle pietre preziose di certi gioielli), altrimenti non decifrabili, perché ineliminabili. Ciò ha permesso di realizzare immagini con una riproduzione cromatica perfetta. Sandro Vannini lavora con una efficace Silvestri Bicam II, a un tempo evoluzione dell’originaria Silvestri SLV a obiettivo grandangolare decentrabile [molte le relazioni in FOTOgraphia, a partire dal primo numero del maggio 1994] ed evoluzione del banco ottico di antica tradizione, cioè di quel tipo di macchina fotografica, molto semplice, composta da un robusto soffietto che unisce due corpi principali, uno anteriore che porta l’obiettivo, uno posteriore dove è allocato il dorso porta pellicola (singola e piana, non in rullo). Le macchine fotografiche di questo tipo sono rimaste sostanzialmente uguali a se stesse nel corso di più di un secolo. Nella Silvestri Bicam II, il soffietto è sostituito da una serie di parallelepipedi rigidi, di varie lunghezze, per estensioni calibrate al piano focale. Ciò consente una maggiore flessibilità del sistema, che ri-
sulta così adatto anche a un agile utilizzo fuori dallo studio e lo protegge meglio dalla polvere. Con questa configurazione, la distanza minima di messa a fuoco è di un metro. Per la fotografia degli oggetti piccoli, che vengono collocati a una distanza inferiore al metro dal punto di vista, Sandro Vannini ricorre a un soffietto dedicato, montato tra il piano anteriore e l’obiettivo, altresì dotato di movimenti micrometrici di basculaggio. Gli obiettivi usati sono i Rodenstock Apo-Sironar Digital HR, progettati e prodotti appositamente per l’acquisizione digitale di immagini con sensore CCD (per la fotografia digitale). Rispetto i banchi ottici tradizionali, la pellicola piana è sostituita dal dorso digitale Imacon Ixpress da ventidue Megapixel, comandato direttamente dal computer (TIPA Award 2003; FOTOgraphia, settembre 2003). La tecnologia dell’Imacon e il software che lo gestisce (in particolare la funzione multiscatto) permettono di realizzare immagini ad altissima risoluzione, da cui si possono ricavare notevoli ingrandimenti, sostanzialmente impensabili con la pellicola. Questi ingrandimenti consentono al pubblico di approfondire la conoscenza degli oggetti fotografati, da una parte rivelando particolari essenziali per apprezzare le straordinarie capacità artigianali dei propri artefici, dall’altra svelando raffinate qualità estetiche custodite, quasi nascoste, nei dettagli più minuti.
Fasce ornamentali in oro, che decoravano il corpo della mummia. Per far risaltare i preziosi oggetti, e allo stesso momento escludere il tappeto su cui le fasce ornamentali sono riposte all’interno della teca del Museo del Cairo, dove sono esposte (documentato nella fotografia originaria, qui sopra), è stato eseguito un accurato lavoro di scontorno in post-produzione .
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LOGISTICA
Un’altra reale difficoltà nella realizzazione delle fotografie riunite nella monografia King Tutankhamun: The Treasures of the Tomb è dipesa dalle condizioni in cui sono state scattate. Il set era composto da uno stativo particolare per le riprese, costruito allo scopo, e da diversi fondali, necessari per isolare gli oggetti su fondo neutro. Il tutto è stato illuminato da lampade appositamente realizzate per il Progetto Egitto da Gamma Progetti di Viterbo, la cui luce è stata riflessa o filtrata da schermi di diffusione. Questo set è stato approntato in diverse sale del Museo del Cairo, ma soprattutto in quella del tesoro di Tutankhamun, una sala blindata e controllata da guardie agguerrite, sempre affollatissima di visitatori. Ogni anno, accedono al Museo più di un milione di persone, diverse migliaia ogni giorno. Immaginatevi, perciò, che cosa può significare, per ogni oggetto, attendere che gli inservienti aprano la te-
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La maschera del faraone è uno degli oggetti più straordinari del suo tesoro. D’oro massiccio, dal peso di undici chili, con decorazioni in lapislazzuli, amazzonite, quarzo, ossidiana, turchesi e cornalina. Sandro Vannini è il primo ad avere avuto l’idea di fotografarla facendola ruotare e riunendo poi in un’unica composizione le singole visioni. Operativamente, è stata posta un’attenzione particolare nella riproduzione delle tonalità dell’oro e degli altri materiali preziosi. Per ogni inquadratura sono stati realizzati più scatti, con esposizioni e illuminazioni variate: successivamente sovrapposti, per equilibrare le diversità tonali e cromatiche delle varie parti.
ca che lo ospita, lo trasferiscano sul set, passando in mezzo a una folla incuriosita, lo riportino poi al proprio posto, dopo aver annotato l’operazione su un enorme registro dall’aspetto antico. Perciò, oltre all’arte fotografica e alle capacità tecniche di Sandro Vannini, il Progetto ha avuto successo anche grazie a una completa e aperta collaborazione del Supreme Council of Antiquities egiziano, diramazione del Ministero della Cultu-
ra, e, in particolare, del suo direttore, dottor Zahi A. Hawass, che ha permesso di risolvere tutti i problemi di ripresa interni al Museo (e che è autore dei testi della monografia King Tutankhamun: The Treasures of the Tomb). Dunque, questo lavoro sul tesoro del faraone rappresenta qualcosa di assolutamente unico e forse irripetibile. Lello Piazza
(pagina accanto) Un altro dei pettorali in oro e pasta di vetro che fanno parte del tesoro di Tutankhamun, fotografato fronte e retro per mostrare la ricchezza e finezza della lavorazione. Lo scarabeo alato è protetto dalle due dee Iside e Nefti.
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ersonalmente diffidiamo dalle visioni oleografiche della fotografia, che celebrano le città e la vita sottolineandone presunte meraviglie. Analogamente, siamo distanti dall’iconografia forzata di miseria, solitudine ed emarginazione, che pure fanno parte della vita. Al contrario, ci sintonizziamo con la partecipe osservazione del quotidiano esistenziale che appartiene alle nostre città moderne. Così pensandola, apprezziamo quegli autori fotografi che sanno evitare gli stereotipi, per osservare con l’esplicita capacità di vedere per far vedere. Giovanni
Umicini, sul quale ci siamo già soffermati nel febbraio 2002, in occasione della sua personale Street Photography (al Museo Civico di Piazza del Santo di Padova), con relativo volume-catalogo pubblicato da Federico Motta Editore, è appunto un fotografo così e tanto capace. Dopo la selezione geograficamente complessiva e globale, cui ci siamo appena riferiti, Giovanni Umicini, classe 1931, torna al padovano Museo Civico di Piazza del Santo con una personale dedicata alla città, nella quale da tempo risiede: appunto, Per Padova, dal sette ot-
tobre al tredici gennaio. Curata da Enrico Gusella, la mostra è promossa dall’Assessorato alle Politiche Culturali e Spettacolo e dal Centro Nazionale di Fotografia: centosessanta immagini in bianconero, tra le quali molti inediti, datate dai primi anni Cinquanta ai giorni nostri. Dal volume-catalogo che accompagna la mostra, pubblicato da Biblos Edizioni, riprendiamo il testo critico In ogni caso, verso la Vita, di Maurizio Rebuzzini, uno dei quattro introduttivi: gli altri, a firma di Giovanni Chiaramonte, Alessandra De Lucia e Enrico Gusella. A.G.
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anti sono i generi nei quali si è soliti identificare la fotografia. Come se, per tranquillità e sicurezza personali ci fosse bisogno di etichette certe, alle quali riferirsi. Ma, per propria natura ed esigenza espressiva esplicita, la fotografia in sé non avrebbe bisogno di riconoscimenti in contenitori assoluti e inderogabili. La fotografia è come la parola che vola nell’aria, dove è raccolta da chi sa riconoscerne i tratti distintivi, con i quali mettersi in immediata simpatia: empatia, addirittura. Ovvero, comprensione e condivisione delle emozioni e dei pensieri espressi dall’autore, con il quale ci si allinea. Giovanni Umicini fotografa da qualche decade, non importa quantificare esattamente da quante, ma sono sufficienti a tracciare un percorso confortevolmente distribuito nel tempo. Per quel bisogno di chiarimenti cui ci siamo appena riferiti, la sua fotografia è solitamente iscritta nell’ambito di quella che viene definita “street photography”, la cui identificazione è bene rimanga in lingua anglosassone (al pari di tanti altri termini della nostra vita quotidiana). Tradurre in “fotografia di strada”, alla lettera, oppure “fotografia sulla strada”, se si volesse specificare diversamente, oppure ancora “fotografia dalla o della strada”, continuando nei sottili distinguo, non sarebbe esatto, e neppure corretto. Intenzione fotografica nata negli Stati Uniti, nel cui territorio espressivo e culturale si celebrano i natali di tanta fotografia contemporanea, la “street photography” non ha debiti di riconoscenza soltanto con le sue due identificazioni esplicite, appunto la “street”/strada e la “photography”/fotografia. È qualcosa di più, che appunto appartiene all’anima che traspira dalle fotografie di Giovanni Umicini, autore che, giocoforza, è solito presentare la propria opera e produzione identificandola come ci si attende che venga annunciata: confermiamo, “street photography”. Questo (inevitabile?) riconoscimento, che scarta immediatamente a lato molte altre manifestazioni della fotografia, abbracciandone altrettante, richiede una precisazione, che nel caso delle fotografie di Giovanni Umicini è addirittura d’obbligo, cioè inevitabile. Infatti, la sua fotografia è inviolabilmente fedele a princìpi stabiliti da una identificata e consolidata consecuzione di applicazioni della fotografia. Non generica fotografia per la strada, ma appassionata e partecipe “street photography”, che prosegue idealmente la fotografia sociale e uma-
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Personale di Giovanni Umicini nella sua città di residenza. Selezione di fotografie sulla stessa città, emblema e simbolo di esistenze che non si esauriscono nella sola connotazione geografica locale, ma nel proprio insieme si propongono in una proiezione senza spazio e oltre il tempo. Giocoforza riferirsi alla definita street photography, genere che personalmente amiamo abbinare all’idea del fotografo flâneur che si muove quasi senza meta, ma con il solo e dichiarato scopo di vedere. Per far vedere a tutti noi
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nista, che a cavallo del Novecento è fantasticamente esplosa in un mondo -appunto quello fotografico- che, in precedenza, si contorceva sulle proprie presunte appartenenze all’arte espressiva. Tra i tanti meriti, che la Storia non sempre riconosce loro, preferendo occuparsi di teorie piuttosto che di fatti, con il proprio impegno sociale, Jacob A. Riis e Lewis W. Hine, i due fotografi umanisti di riferimento, hanno proiettato la fotografia all’esterno dello sterile dibattito degli addetti, impegnati tra loro a discutere sulla forma. Così facendo, hanno arricchito la visione fotografica di contenuti consistenti. Ecco quindi che la fotografia di Giovanni Umicini non dipende tanto dal fotoreportage più consolidato, a propria volta sfaccettato in mille e mille personalità diverse e non sempre complementari, con il quale peraltro condivide alcuni tratti caratteristici apparenti, ma, proprio, dalla fotografia umanista. Certo, non sono più tempi di scoperte sconvolgenti e intuizioni sociali folgoranti e discriminanti. Dunque, oggi la fotografia non ha tempo e modo per essere dirompente, così come lo furono le immagini che rivelarono le terribili condizioni di vita degli immigrati a New York (How the Other Half Lives, di Jacob A. Riis; 1890) e come quelle del lavoro minorile di Lewis W. Hine della prima decade del Novecento (che, va detto, contribuirono a modificare le leggi sul lavoro negli Stati Uniti). Oggigiorno, è la fotografia di guerra (mostruosamente, genere
fotografico che non tramonta mai) che assorbe tutto il brivido visivo del quale dispongono i mezzi di comunicazione. Quando è mal declinata, è questa una fotografia che colpisce come un pugno nello stomaco, sconvolgendo le sensibilità individuali, alle quali propone una indiscriminata sequenza di orrori espliciti. Al contrario, la fotografia umanista, alle cui intenzioni si iscrive Giovanni Umicini, è declinata in tutt’altro modo. Non ignora
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le contraddizioni esistenziali dei nostri giorni, ma non le rivela colpendo l’osservatore a tradimento. Al contrario, Giovanni Umicini è tanto e talmente partecipe della propria azione, che lui prima di tutto si allinea con il proprio osservatore. Lo prende per mano, e l’accompagna lungo un tragitto costellato di osservazioni, riflessioni e annotazioni: mai soluzioni! Queste, non competono alla fotografia o al fotografo, che deve svolgere un altro compi-
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to, il suo: quello di far vedere ciò che, distrattamente, avremmo potuto soltanto guardare. E la distinzione non è da poco. Così che, eccoci!, non contano più le identificazioni geografiche e temporali delle fotografie di Giovanni Umicini, che sono significative per altri riconoscimenti formali. Nonostante siano state riprese a distanza di anni e in luoghi diversi, le sue fotografie sono sostanzialmente omogenee nel contenuto. Oltre l’apparenza della forma, inevitabile, l’osservatore è indotto ad andare in altra profondità, a considerare non tanto lo spazio/tempo fotografico, quanto la sua proiezione nella vita collettiva. Da ciò, la “street photography” arriva ad esprimere quell’anima alla quale finora abbiamo solo accennato. È una fotografia d’amore (per la vita e l’uomo), è una fotografia di riflessione (che dall’autore si allunga sull’osservatore), è una fotografia di rilevazione (che può sottolineare condizioni esistenziali che esigono raccoglimento individuale), è una fotografia sussurrata (che evita gli strilli che oggi sembrano essere tanto di moda, non soltanto in fotografia). Ogni luogo, ogni situazione non sono rappresentativi di se stessi, quanto significativi di un’esistenza complessiva, sulla quale autori come Giovanni Umicini sanno attirare l’attenzione. Non lo fanno, e non lo fa, con la tossicità delle luci della ribalta, ma con la delicatezza di quella tenue lampadina che basta per la lettura concentrata di un buon libro. Giovanni Umicini è straordinariamente consapevole delle capacità esplicite ed implicite della fotografia. Ha una tale padronanza della mediazione tecnica, inevitabile strumento del linguaggio espressivo, che potrebbe benissimo confezionare immagini di inaudita violenza visiva. Non lo fa, perché sa che ciò
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che si costruisce soltanto sulla forza è effimero, e presto cede il passo alla violenza immediatamente successiva. Invece, e al contrario, la fotografia d’amore di Giovanni Umicini non ha stagioni, non dipende da umori, non si basa su velleità. Agisce istante dopo istante, si solidifica senza sbavature e allunga nel tempo la propria influenza. Certe fotografie sono un pugno nella pancia, abbiamo appena annotato. A volte serve, il più delle volte è un esercizio inutile: lo sanno bene coloro i quali frequentano la fotografia anche dal proprio interno, non soltanto come osservatori. La fotografia di Giovanni Umicini è completamente diversa: agisce sulle emozioni irrazionali e sulle considerazioni razionali applicando un linguaggio visivo incoraggiante. Le sue fotografie raggiungono la mente (rigorosamente coerente e logica) passando direttamente dal cuore (istintivo ed emotivo), oppure, con un coincidente percorso inverso, arrivano al cuore passando dalla mente. Nella vita odierna, ricca di contraddizioni e povera di emozioni autentiche, c’è tanto bisogno di fotografi come Giovanni Umicini. Abbiamo soprattutto bisogno della sua capacità di discernere dall’insieme quell’istante significativo, dal quale ognuno di noi può decollare per pensieri propri, per osservazioni individuali. È il momento decisivo che Henri Cartier-Bresson ha fatto suo, riprendendo un pensiero del Cardinale de Retz: «Non c’è niente a questo mondo che non abbia un momento decisivo». È il momento decisivo che Henri Cartier-Bresson ha addirittura teorizzato in forma fotografica, introducendo l’originaria raccolta di sue immagini: quell’Images à la sauvette (simultanea edizione statunitense The decisive moment, appunto), straordinaria monografia, fondamentale per un certo uso della fotografia, che è poi quella che a Giovanni Umicini interessa di più. Rimandiamo gli approfondimenti al testo completo, disponibile in traduzione italiana presso Agorà Editrice di Torino (in Fotografi sulla fotografia; seconda edizione 2004). Ma qui si impone un passag-
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gio di Henri Cartier-Bresson: «A volte c’è un’unica immagine la cui struttura compositiva ha un tale vigore e una tale ricchezza, ed il cui contenuto irradia a tal punto al di fuori di essa, che questa singola immagine è in sé un’intera narrazione». Questo è giusto il carisma che definisce, non solo accompagna, le fotografie di Giovanni Umicini, straordinarie sintesi di racconti che ciascuno può proseguire da solo. Da cosa dipende tanta abilità espressiva, che distinguiamo dalla capacità creativa di altre applicazioni della fotografia? In semplicità, ma non banalità, dall’amore per il prossimo e dal rispetto per la vita propria e altrui: valori che passano trasversali lungo l’intera storia evolutiva del linguaggio fotografico. C’è chi l’ha, e chi ne è privo. Giovanni Umicini ne diffonde in abbondanza, tanto da arricchire ciascuno di noi. La consecuzione è presto individuata: il fotografo attento, che si pone al servizio della propria narrazione, non pensa al momento dello scatto, ma riflette prima e dopo. Così facendo, fa riflettere l’osservatore. Il senso della fotografia di Giovanni Umicini dipende dall’ampiezza della sua cultura, dall’insieme dei valori esistenziali che lo definiscono e dalla vivacità con la quale li esprime. Nulla è artificiale nelle sue inquadrature, che pulsano di una vita congelata nel tempo fotografico. Ci pare di vederlo, mentre si aggira per le strade con la sua macchina fotografica. In punta di piedi, mai invasivo del soggetto, pronto a cogliere l’istante. Scattare fotografie può essere una contraddizione, perché se la macchina fotografica da un lato facilita il contatto con il soggetto, dall’altro ne stabilisce anche una certa distanza. Quando la macchina fotografica è tra Giovanni Umicini e il soggetto diventa lo strumento per avvicinare e vedere (non soltanto guardare) mondi altrimenti impenetrabili. In questa azione, l’autore esercita la più autentica delle azioni della fotografia, quella che distingue la sua espressione (visiva) da ogni altra (non necessariamente visiva). Giovanni Umi-
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cini fissa indelebilmente e per sempre l’attimo preciso e transitorio che ha osservato. Percepisce la realtà e, immediatamente, la registra per congelare tempo e spazio in una dimensione che li proietta in avanti «e per sempre». Soprattutto in questo sta la peculiare importanza della fotografia all’interno della vicenda culturale del Ventesimo secolo. Come ha annotato Ferdinando Scianna, fotografo e attento osservatore del suo linguaggio, questa è «la fotografia che privilegia il valore di racconto, di traccia del mondo, di intuizione, di folgorazione nel riconoscimento di istanti di vita, reali, surreali, che la fotografia, vero linguaggio della modernità, ha introdotto in modo rivoluzionario nel panorama culturale dell’uomo contemporaneo». Qui, e per questo, si affaccia una responsabilità etica ben chiara a coloro i quali fotografano dal vero, e della quale è sicuramente consapevole Giovanni Umicini, la cui etica è al di sopra di ogni sospetto. Nella propria espressività sollecitata e for-
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nita all’osservatore, il problema del fotografo è di vedere chiaramente i limiti e, allo stesso momento, le qualità potenziali del proprio mezzo, perché è precisamente qui che l’onestà, non meno dell’intensità, della visione è un requisito indispensabile per un’espressione corretta. Come appena annotato, ma la ripetizione si impone, questo significa avere un rispetto reale per il soggetto che sta di fronte, visivamente espresso in termini di chiaroscuro (poco o nulla hanno in comune il colore e questa fotografia). Come evidenziano le immagini di Giovanni Umicini, abile nella gestione della camera oscura, oltre che in quella della ripresa dal vivo, la realizzazione più completa di tutto questo si ottiene senza trucchi di metodo o manipolazioni, attraverso l’applicazione di tecniche fotografiche dirette. È nell’organizzazione di questa effettiva oggettività (pur nella soggettività del pensiero dell’autore) che entra in campo il punto di vista del fotografo nei confronti della Vita (maiuscola volontaria e consapevole). Ancora, è in questo processo che per lui è assolutamente necessario un concetto formale generato dalle emozioni o dall’intelletto, o da entrambi. Ancora prima di scattare, il soggetto è osservato nei termini della sua traduzione fotografica, per essere organizzato a esprimere la propria personalità esplicita, piuttosto che usato come forma astratta, per creare un’emozione senza legami con l’oggettività raffigurata in quanto tale. La lezione che ricaviamo dal consistente insieme delle fotografie di Giovanni Umicini è evidente, e a questo punto inevitabile. Riconosciamo la sua proposizione fotografica rispetto i soggetti che inquadra, ricavandone punti di vista originari oppure registrando il loro effettivo ordinamento. In tutti i casi, l’espressione rappresentata è la misura concreta e tangibile di una visione, superficiale o profonda a seconda dei casi. Tra le mani di Giovanni Umicini la fotografia del vero e dal vero ribadisce il proprio ruolo di strada nuova che proviene da una diversa direzione, ma che muove verso lo stesso traguardo, cioè la Vita. Maurizio Rebuzzini Giovanni Umicini. Per Padova. A cura di Enrico Gusella; direzione della mostra di Alessandra De Lucia. Museo Civico di piazza del Santo, piazza del Santo 12, 35123 Padova. Dal 7 ottobre al 13 gennaio 2008; martedì-domenica 10,00-13,00 - 15,00-18,00 (chiusura 25 dicembre e Primo gennaio). Catalogo Biblos Edizioni (via delle Pezze 23, 35013 Cittadella PD; 049-5975236; www.biblos.it, info@biblos.it); testi critici introduttivi di Giovanni Chiaramonte, Alessandra De Lucia, Enrico Gusella e Maurizio Rebuzzini; 204 pagine 28x28cm; 34,00 euro.
al centro
della fotografia
tra attrezzature, immagini e opinioni. nostre e vostre.
PER OGNI STAMPA A
ll-in-One. Tutto in uno. È una identificazione che nella propria efficace sintesi sottintende una sostanziale molteplicità di impieghi e utilizzi. In fotografia, negli anni scorsi, è stata riferita a configurazioni reflex a zoom fisso, capaci di svolgere funzioni proprie e caratteristiche di più sofisticati apparecchi a obiettivi intercambiabili. Nello specifico della stampa, alla quale stiamo per riferirci, certifica le stampanti multifunzione, nella cui offerta tecnico-commerciale approda la nuova famiglia HP Photosmart, distribuita su quattro modelli: C4380, C6280, C7280 e C8180. Giusto sulla stampante multifunzione HP Photosmart C8180 All-in-One, appunto, ci soffermiamo: stampante, copiatrice e scanner. È una configurazione che offre la possibilità di predisporre la stampa di copie fotografiche direttamente dal display touchscreen da 8,9cm, per l’editing fotografico, e consente la scrittura diretta su CD/Dvd, oltre alla loro stessa personalizzazione grazie alla tecnologia proprietaria HP LightScribe, sen-
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Impegnata su tutti i fronti della stampa, dai documenti prodotti con il computer alle copie in qualità fotografica (sia in proprio, sia con unità conto terzi per ingrandimenti di generose dimensioni, su molteplici supporti), HP / Hewlett-Packard ha radicalmente rinnovato la propria gamma di stampanti: nuove famiglie Photosmart per la stampa fotografica in proprio e per la stampa multifunzione collegata e combinata a diversi strumenti. La nuova HP Photosmart C8180 si colloca giusto al vertice dei multifunzione: stampa, scansione, copiatura
za bisogno di ricorrere al PC. HP Photosmart C8180 stampa e copia documenti con rapidità ed efficienza, fino alla velocità di trentaquattro pagine per minuto in nero e a colori e in soli dieci secondi per le fotografie. Inoltre, è altresì prevista una funzione di stampa fotografica opzionale a sei inchiostri HP Vivera, per copie fotografiche di contrasto ottimale, dai colori intensi e naturali, che resistono senza sbiadire per lungo-lunghissimo tempo (ormai si parla di resistenza oltre cento anni!). La modalità HP Smart Web Printing garantisce una stampa corretta, senza tagli, delle pagine Web. Quindi, operativamente, la possibilità di utilizzare cartucce a getto d’inchiostro HP ad alta capacità assicura una maggiore efficienza di stampa, con sostituzione delle cartucce meno frequente. Ovviamente, la multifunzione dell’HP Photosmart C8180 è estesa alla condivisione e stampa da notebook e desktop abilitati in rete, grazie alla connettività wireless e Ethernet, e alla stampa da telefoni cellulari con la tecnologia Bluetooth. Come scanner, HP Photosmart C8180 è dotata dell’esclusiva funzione di scansione HP a 96 bit e sei colori, grazie alla quale si ottiene un elevato grado di accuratezza e fedeltà cromatica. Durante l’acquisizione digitale di stampe fotografiche o pellicole (o diapositive) vengono automaticamente rimossi polvere e graffi eventualmente depositatisi sugli originali. Si ottiene così un completo ripristino delle stampe, delle diapositive e dei negativi danneggiati. (HP / Hewlett-Packard Italiana, via Di Vittorio 9, 20063 Cernusco sul Naviglio MI; www.hp.com/go/ printpermanence). Antonio Bordoni
Fotografia contemporanea
007: vent’anni dall’inizio e dieci anni dalla conclusione delle rilevazioni di Archivio dello spazio (1987-1997), serie di campagne fotografiche sul territorio della provincia di Milano svoltosi nell’ambito del Progetto Beni Architettonici e Ambientali della Provincia di Milano. A queste campagne fotografiche hanno fatto seguito altri progetti di committenza: Milano senza confini (19992000) e Idea di metropoli
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(2001-2002). Le fotografie derivate da questi progetti sono confluite nelle collezioni del Museo di Fotografia Contemporanea di Cinisello Balsamo, alle porte del capoluogo, che prosegue il lavoro in questa direzione, cercando nuovi significati e nuove funzioni alla committenza, il cui senso, nel volgere di questi anni, è molto mutato: dalla documentazione di alto livello culturale dei luoghi alla interpretazione, alla ri-
Arrivederci a Lucca Tre settimane di mostre con contorno erza edizione di LuccaDigitalPhotoFest, giovane appuntamento fotografico che si è già imposto per l’autorevolezza delle proprie scelte e lo spessore delle visioni fotografiche proposte: in equilibrio tra mostre e appuntamenti collaterali. Ancora, dal ventiquattro novembre al sedici dicembre l’affascinante città toscana si trasforma in vivace atelier fotografico, con momenti focali concentrati nel fine settimana di mezzo. Promossa dal Comune di Lucca e dall’Associazione Toscana Arti Fotografiche, con il contributo della Fondazione Cassa di Risparmio di Lucca,
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Polyphoto (Leica e Olympus), Ducato, Fondazione Banca del Monte e Cbs Outdoor, la manifestazione propone quindici mostre, tra le quali l’ormai tradizionale tappa delle fotografie del World Press Photo 2007 (FOTOgraphia, aprile 2007), PhotoCaffè, workshop e lettura portfolio. Novità della terza edizione è il LuccaDigitalPhoto Contest, concorso internazionale sponsorizzato da Olympus: in mostra, il progetto fotografico segnalato dalla selettiva giuria. Come anticipato lo scorso settembre, Elliott Erwitt è l’ospite d’onore del LuccaDigitalPhotoFest 2007. La sera di
cerca sempre più libera. L’affidamento di incarichi a fotografi contemporanei, per la realizzazione di ricerche su temi di attualità, rimane uno dei compiti istituzionali del Museo di Fotografia Contemporanea. In questo contesto, il Museo ha affidato a otto fotografi italiani ed europei l’incarico di realizzare una serie di ricerche fotografiche in luoghi della Lombardia, in collaborazione con Cariplo e Navigli Lombardi e il coordinamento di Massimiliano Foscati. A cura di Roberta Valtorta, la mostra Storie immaginate in luoghi reali raccoglie e presenta il materiale visivo prodotto: settanta fotografie e un’installazione video. Si tratta di luoghi storici e naturalistici, sui quali i fotografi hanno elaborato i propri relativi progetti in completa libertà. Il titolo della rassegna sottolinea un modo molto aperto di intendere la sabato Primo dicembre riceve l’ambìto LuccaDigitalPhoto Award. Nella stessa occasione viene assegnato il primo Premio Taf per la fotografia italiana. Quindi, segnaliamo la lettura portfolio sabato Primo dicembre (LiveArea, 10,00-13,00: Paola Brivio, photo editori di Geo, Elena Ceratti, dell’Agenzia Grazia Neri, e Ivo Saglietti, fotografo) e domenica due dicembre (LiveArea, 10,00-12,00: MariaTeresa Cerretelli, photo editor di Class, Alessandra Mauro, dell’Agenzia Contrasto, Roberto Mutti, critico fotografico, e Maurizio Rebuzzini, direttore di FOTOgraphia). LuccaDigitalPhotoFest 2007. Dal 24 novembre al 16 dicembre. Associazione Toscana Arti Fotografiche, via Guidiccioni
committenza oggi: gli artisti sono chiamati a lavorare a partire da alcuni luoghi indicati, ma attraverso la loro ricerca hanno la possibilità di trasformarli in scenari che ospitano storie di qualunque natura, secondo i loro diversi progetti. Storie immaginate in luoghi reali. Progetto fotografico coordinato da Massimiliano Foscati. Mostra a cura di Roberta Valtorta. Fotografie di Andrea Abati, Olivo Barbieri, Paola De Pietri, Gilbert Fastenaekens, Vittore Fossati, Jean-Louis Garnell, Jitka Hanzlovà e Alessandra Spranzi. Museo di Fotografia Contemporanea, Villa Ghirlanda, via Frova 10, 20092 Cinisello Balsamo MI; 02-6605661; www.museofotografiacontemporanea.org; Dal 21 ottobre al 27 aprile 2008; martedìdomenica 10,00-19,00, giovedì 10,00-23,00. 188, 55100 Lucca; www.toscanaartifotografiche.it. NEW YORK; 1974 (FOTOGRAFIA DI ELLIOTT ERWITT / MAGNUM PHOTOS / CONTRASTO)
ALESSANDRA SPRANZI
Storie immaginate in luoghi reali
A seguire 60 Altra città di mare 60 Visione critica 60 Doppio paesaggio 61 Storia di dentro 61 Non visibile 61 Dalle vacanze (?) 62 Fotofestival 2007-2008 62 Lusso sfrenato 62 Appuntamenti siciliani
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CHRIS STEELE-PERKINS IN VIA SAN FAUSTINO,
Bari fotografata da Gabriele Basilico romossa dalla Provincia di Bari, la mostra Basilico. Bari 06_07 raccoglie le immagini della intensa campagna fotografica realizzata dal celebre e celebrato autore. Novanta fotografie, rigorosamente in bianconero, raccontano il capoluogo pugliese nella propria complessità e fisicità. Da par suo, Gabriele Basilico ha indagato a fondo. All’apparenza, solo schiere di fabbricati in bella vista; in realtà, veri e propri momenti della città, con le persone che, anche se fisicamente assenti dalle inquadrature, traspaiono perché abitano, usano, hanno voluto o costruito quel tale edificio o quella tale strada. Gli elementi che compongono la città parlano attraverso le immagini fotografiche; le architetture si impongono all’atten-
itolo esplicito, così come è altrettanto esplicita l’immagine rappresentativa della mostra: Paesaggio nel paesaggio sottintende l’intenzione dell’autore Antonio Zimbone di andare al di là dell’apparenza e oltre la consueta rappresentazione fotografica, per accostare la visione cartolinesca a una interpretazione di altro taglio. Raffigurazioni analoghe si sono già viste, eccome!, ma l’attuale combinazione dell’autore catanese, che
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BARI: TEATRO PETRUZZELLI (FOTOGRAFIA DI GABRIELE BASILICO)
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zione dell’osservatore e raccontano le due realtà di Bari: da una parte quella grande, moderna, razionale, murattiana, e dall’altra, separata solo da una strada ma lontana per altri versi, la Bari Vecchia, ridotta a scatola di ricordi storici, residenze signorili ed eventi di cronaca. Due città, due mondi contrapposti ma uniti, perché l’uno, negando l’altro, ne necessita per costruire la propria individualità. Tra queste c’è la Bari di Gabriele Basilico, splendidamente rappresentata: la città invisibile, ma presente e funzionale, il ritratto di una sola realtà che -per usare un’espressione di Carlo Bertellidisegna sempre un futuro mentre registra un presente. Basilico. Bari 06_07. Pinacoteca Provinciale, Palazzo della Provincia di Bari, lungomare Nazario Sauro 27 (quarto piano), 70121 Bari; 0805412422, fax 080-5588147; www.retepuglia.uniba.it/Pinacoteca. Dal 13 ottobre al 2 marzo 2008; martedì-sabato 9,30-13,00 - 16,00-19,00, domenica 9,00-13,00. Accompagna la mostra il volume Basilico. Bari 06_07, curato da Clara Gelao, edito da Federico Motta Editore.
Visione critica Antologica di Chris Steele-Perkins otoreporter membro della prestigiosa agenzia Magnum Photos dal 1979, Chris Steele-Perkins, classe 1947, ha attraversato i conflitti e i cambiamenti sociali dei nostri tempi. In un certo senso, concreto e tangibile, la selezione esposta alla Stanza delle Biciclette di Brescia celebra i sessant’anni di Magnum (19472007), che stanno passando sotto colpevole silenzio (anche nostro, per quanto motivato -non certo giustificatoda limitazioni oggettive). A Critical Vision è composta da sessanta fotografie, per la maggior parte stampate su carta baritata ai sali d’argento (annotazione filologica): venti relative a reportage realizzati in Afghanistan; quindici sui teddy boys della provincia inglese,
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Doppio paesaggio Nelle ricostruzioni di Antonio Zimbone
imitatori di Elvis Presley; dodici delle tensioni in Irlanda. Quindi, sette stampe digitali a colori del Giappone (monte Fuji e Tokyo) e dell’Inghilterra. Annotazione parallela, relativa al collezionismo fotografico: a richiesta, l’autore può fornire stampe vintage dei reportage più datati (Afghanistan, Teds e Irlanda) e stampe attuali di ogni suo lavoro. Chris Steele-Perkins: A Critical Vision. A cura dell’Associazione il biancoenero. Galleria La Stanza delle Biciclette, via delle Battaglie 16, 25122 Brescia; 030-3773269; www. vincenzocottinelli.it, v.cottinelli@alice.it. Dal 18 ottobre al 18 novembre; martedì-domenica 18,00-20,00 (altri orari su prenotazione). espone nella propria Terra, ha in sé qualcosa di emozionale, di più coinvolgente, tanto da meritare un’attenzione particolare. È un consiglio. Antonio Zimbone: Paesaggio nel paesaggio. Galleria Fiaf Le Gru, corso Vittorio Emanuele 214, 95025 Valverde CT; 095-524187, fax 095-7210294; www.fotoclublegru.it, segreteria@fotoclublegru.it. Dal 26 ottobre al 12 novembre.
A BRESCIA; 2003 (FOTOGRAFIA DI VINCENZO COTTINELLI)
Altra città di mare
acconto fotografico dell’esperimento che ha visto coinvolti un gruppo di ragazzi dell’Istituto penale minorile Malaspina di Palermo, e di Mela e Simone, che li hanno guidati e stimolati a progettare e costruire uno spazio teatrale all’interno dello stesso Istituto. A proposito di questo suo reportage Ouragan, il bravo Riccardo Scibetta, classe 1971, lombardo di nascita, ma siciliano di storia e tradizione, annota: «Forse è l’esperienza più forte del mio lavoro fotografico. In precedenza, l’approccio con la mia Terra e la mia gente era sempre stato casuale, oltre che molto intimo, legato alla mia vita. Ouragan è il primo tentativo di raccontare una storia, di immaginarmi e strutturare un progetto. Inizialmente pensavo ci fosse molto distacco nel raccontare qualcosa che non mi appartiene,
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Storia di dentro Partecipe reportage di Riccardo Scibetta
ma mi sono dovuto ricredere. Tutto il distacco e la diffidenza iniziale si sono trasformate in complicità e forza, e i ragazzi si sono sentiti per una volta i veri protagonisti di una vicenda. «Abbiamo attrezzato un’officina in quella che, prima e in un’altra vita, era una stalla. Una stalla speciale, di lusso, dove ancora su un cancello c’è una targa con un nome, appunto “Ouragan”. Un cavallo vincente, senza dubbio. È questo il nome che i ragazzi hanno da-
to al laboratorio: Officina Ouragan rappresenta bene l’entusiasmo, la prospettiva di trasformazione e anche la consapevolezza che, con il proprio potere dirompente, il teatro possa farci guardare la vita da un altro punto di vista. «È stato un viaggio coinvolgente e a tratti totalizzante, dove esperienze di vita diverse si sono mescolate e arricchite reciprocamente. Dove ci si è incontrati, ascoltati, qualche volta scontrati; ci si è scambiati racconti, ricordi, canzoni, con ironia e allegria, cercando di costruire -a volte con fatica e spesso con tanto, troppo entusiasmo- uno spazio di libertà e creatività. Un luogo di relazione, tra coloro che fanno e
coloro che sono spettatori. Una terra franca: né dentro, né fuori. Per assottigliare lo spessore del confine che divide le vite “dentro” da quelle “fuori”» (www.riccardoscibetta.it). Ouragan è un reportage nel quale Riccardo Scibetta si è concentrato a partire dal 2003. Primo premio al concorso di fotogiornalismo Yann Geffroy 2005, organizzato dall’Agenzia Grazia Neri, nel 2004 è stato esposto in due sedi palermitane: all’interno dell’Istituto penale Malaspina, dove è stato realizzato, e al Teatro Garibaldi. Riccardo Scibetta: Ouragan. Museo Nazionale della Fotografia Cavalier Alberto Sorlini, Contrada del Carmine 2f, 25122 Brescia; 03049137, anche fax; museo@ virgilio.it. Dal 6 al 28 ottobre; sabato e domenica 16,0019,00, lunedì-venerdì 10,0012,00 su prenotazione.
Non visibile otografie e una installazione site specific compongono la personale D102D di Raffaella Della Olga, la cui azione creativa riporta la fotografia alla propria natura di procedimento apparentemente oggettivo, capace di produrre immagine a partire da una realtà che ne contiene altre. Dalla presentazione di Franco Raggi: «Operando sulla presenza debole della luce, Raffaella Della Olga rifugge il movimento e ricerca l’immobilità di archetipi ai quali la luce notturna in movimento darà
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volti diversi e imprevisti. Costretta a cancellare le stelle, trasformate dal lungo tempo di posa in incongrui tratti bianchi, l’autrice lavora su una luce non istantanea ma temporale e additiva; una luce che non si vede, o meglio che noi non vediamo con quella intensità, ma che forse invece vedono i rapaci notturni. Spostare la percezione nel campo del non visibile, ma non per questo del non reale, è l’operazione concettuale che Raffaella Della Olga costruisce realizzando una propria estetica, personale, attonita ir-realtà». Raffaella Della Olga: D102D. N.O.Gallery, via Matteo Bandello 14, 20123 Milano; www.nogallery.it. Fino al 22 ottobre; lunedì-venerdì 15,0019,00, sabato e mattina su appuntamento.
SIMONE DURANTE
Concettualità di Raffaella Della Olga
Dalle vacanze (?) Appunti collettivi di viaggio fficina Fotografica gratifica chi ha frequentato i corsi di apprendimento con una mostra collettiva di “appunti di viaggio”: non semplificate fotografie delle vacanze, che pure hanno valore e significato (altrove), ma di sentimenti, aspettative, visioni del mondo. Cahier de Voyage attraversa trasversalmente il pianeta, esaltando punti di vista insoliti e personali. Rilevazioni fotografi-
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che che rivelano stati d’animo, aspettative e curiosità. Cahier de Voyage (Appunti di Viaggio). Mostra collettiva. Officina Fotografica, via San Vincenzo 5/7, 20123 Milano; 02-45506188, fax 0245108726; www.officinafotografica.com, info@officinafotografica.com. Dal 5 al 18 ottobre; lunedì-giovedì 15,0019,30, o su appuntamento.
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ome già rilevato sullo scorso numero di settembre, il Fotofestival di Foto Corbetta di Albavilla, in provincia di Como, è arrivato alla propria venticinquesima edizione. Le date, che si allungano fino alla prossima primavera, comprendono il consueto fitto programma di incontri e serate a tema. C’è ancora chi promuove la fotografia! ❯ Corso di fotografia: nove appuntamenti, il lunedì sera, alle 20,00: 15, 22 e 29 ottobre, 5, 12, 19 e 26 novembre, 3 e 10 dicembre.
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Corbetta Fotofestival 2007-2008 Venticinquesima edizione, in provincia di Como ❯ Proiezioni con mostra fotografica: il venerdì sera, alle 21,00: 23 e 30 novembre, 7, 14 e 21 dicembre, 25 gennaio, Primo, 8, 15 e 29 febbraio 2008 (anno bisestile). ❯ Serate in studio: saltuariamente, martedì 11 dicembre (20,30) e venerdì 22 febbraio. ❯ Corso avanzato di fotografia: sei appuntamenti, il
Lusso sfrenato Alla corte dei Maharajah indiani toria. In un articolo apparso sul Sunday Express nel 1928, il Maharajah Bhupinder Singh di Patiala chiamava in causa l’opinione pubblica britannica, che sosteneva che i principi indiani «non hanno altro da fare che vivere nel lusso e spendere soldi a palate». Effettivamente, agli occhi degli occidentali i principi indiani sono sempre apparsi smisuratamente ricchi. Fin dai primi
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❯ Finalissima: con estrazione di premi e consegna di un terribile quadro, che per un anno rimarrà con il vincitore delle proiezioni della stagione, venerdì 14 marzo, alle 21,00.
contatti, gli europei presso le corti indiane rimasero esterrefatti dallo splendore dei reali, i cui atteggiamenti assolutisti e stravaganti parevano non avere precedenti in patria. Nell’immaginario collettivo, i principi indiani sono sempre stati considerati come personaggi di un mondo fiabesco, immersi nel lusso più sfrenato. La parola stessa “Maharajah” evoca immagini fantastiche. A cura di Amin Jaffer, appena nominato Direttore Internazionale di Arte Orientale di Christie’s International, la mostra Stile Maharajah si propone e offre come imponen-
te rassegna fotografica dei meravigliosi pezzi commissionati dai principi indiani alle più importanti case di produzione europee, da Van Cleef & Arpels a Cartier a Boucheron, da Ferragamo a Louis Vuitton, da Jaeger-LeCoultre a Baccarat a Christofle a Lalique, da Rolls-Royce a Bentley.
Foto Corbetta, via don Felice Ballabio 11, 22031 Albavilla CO; 031-627337; www.fotootticacorbetta.it.
Stile Maharajah. White Star Adventure, piazza Meda angolo piazza Belgioioso, 20121 Milano; 02-89051500; www.wsadventure.com, info@wsadventure.com. Mostra in esterno. Dal 20 ottobre al 22 novembre.
Appuntamenti siciliani Programma fotografico a Palermo ZAIRA LA RAGIONE: LUCE DEI MIEI OCCHI
rosegue l’attività espositiva promossa e curata dall’Associazione Culturale PhotoArea2006, che organizza mostre fotografiche presso la caffetteria palermitana Gli Amanti, nella centrale piazza Colonna (angolo via Cavour). ❯ Zaira La Ragione: Luce dei miei occhi. Dal 5 al 20 ottobre. «Ogni persona sa
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dare il meglio di sé, sta a noi, alla nostra sensibilità captare l’amore che viene sprigionato». ❯ Giuseppe Bonali: Sguardi astratti. Dal 26 ottobre al 10 novembre. Opere a colori nelle quali l’astrazione sapientemente “manipolata” mostra una personale reinterpretazione della realtà. ❯ Luigi Briselli: Ultime dimore: Stephany. Dal 16 novembre al Primo dicembre. Nudo ambientato in un antico palazzo cremonese, in decadimento. Noto soprattutto per le sue immagini della “bassa” (padana), l’autore contrappone gli antichi e perduti fasti nobiliari con l’essenzialità e la bellezza di Stephany.
LUIGI BRISELLI: ULTIME DIMORE: STEPHANY
GIUSEPPE BONALI: SGUARDI ASTRATTI
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lunedì sera, alle 20,00: 14, 21 e 28 gennaio, 4, 11 e 18 febbraio. ❯ Mostre fotografiche: in tre scaglioni: dal 23 novembre al 14 dicembre, dal 25 gennaio al 15 febbraio, dal 19 febbraio al 15 marzo. ❯ Viaggio fotovacanza: in località e situazione da stabilire, dal 2 al 9 marzo.
Caffetteria Gli Amanti, piazza Colonna (angolo via Cavour), 90133 Palermo. Associazione Culturale PhotoArea2006; photoarea2006 @yahoo.it.
WERNER BISCHOF
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Alla fotografia non appartiene solo la curiosità dello sguardo o il movimento delle idee, ma anche il mercimonio dell’immaginario. Sotto il cielo libero della fotografia, ci sono stati autori che hanno fatto della dolente esistenza il riscatto degli oppressi e nella creazione del vero ci hanno fatto “leggere” storie dimenticate o mai “scritte”. Ogni fotografia è tutta la fotografia, e dentro ogni immagine si cela l’inconscio di chi cattura quell’immagine. Il peccato più profondo della fotografia è l’atto di nascita della fotografia degli ultimi. I soli che hanno diritto alla parola autentica e all’insubordinazione contro l’origine del male.
LA FOTOGRAFIA DEGLI ULTIMI La fotografia degli ultimi, dei poveri, degli emarginati è un linguaggio teso alla trasformazione della vita quotidiana e nel vuoto dello spettacolo lavora per distruggere la coscienza dell’umiliazione. Fotografare è partire dagli altri e cogliersi nell’altro. Disertare i simulacri del mondano significa mostrare che la sofferenza non è ereditaria. Ha un nome e dei mandanti. Qualcuno la chiama dominio, altri servitù volontaria. I padroni dell’immaginale sono anche i produttori della falsa felicità. L’ordine delle apparenze regna e i sudditi sono i maggiori responsabili del consenso sul quale si poggiano leggi, ordinamenti e genocidi fatti passare sotto il nome di “progresso”. Intanto, la parte più numerosa e più povera dell’umanità giace in catene, è violentata dalle guerre, dai terrorismi religiosi e di Stato o muore per fame. La fotografia dei senza diritti contiene le parole di don Lorenzo Milani: «Avere il coraggio di dire ai giovani che son tutti sovrani, per cui l’obbedienza
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«Ne ho avuto abbastanza: questa caccia alla storia è diventata difficile da reggere; non fisicamente, ma mentalmente. Ormai il lavoro qui non mi dà più la gioia della scoperta; qui quello che conta più di qualunque cosa è il valore materiale, il fare soldi, fabbricare storie per rendere le cose interessanti. Detesto questo genere di commercio di sensazioni [...]. È stato come prostituirsi, ma ora basta. Dentro di me io sono ancora -e sarò sempreun artista»
Werner Bischof, 1952 non è ormai più una virtù [...]. La cultura vera, quella che ancora non ha posseduto nessun uomo, è fatta di due cose: appartenere alla massa e possedere la parola». Di più. La fotografia della sofferenza è un taglio contro il mondo ingiusto, che non merita essere difeso. La bellezza ritrovata della fotografia in forma di poesia è per le strade, a un tiro di sputo. La fotografia mercantile, di contro, figura il guinzaglio della sottomissione. Per i profeti di
ogni cultura il comandamento è unico: “L’arte rende liberi”. È la stessa cosa che si leggeva sui cancelli del Campo di Auschwitz: “Il lavoro rende liberi”. E sulle camere a gas: “Dio è con noi”; i padroni dell’immaginario, anche. L’artista muore sorridendo; come le prostitute tisiche dell’Ottocento, sa bene che dopo la sua scomparsa, la bruttezza valoriale della sua merce cambia di mano, perché la schiavitù, come la genuflessione, è senza fine.
DELLA FOTOGRAFIA UMANISTA
Uno dei maestri della fotografia del margine è Werner Bischof. La sua opera, come sappiamo, è multiforme, passa dalla fotografia informale a quella d’impegno civile; tuttavia, non sono molti gli autori che con le proprie fotografie sono riusciti a dare dignità a persone alle quali era stata calpestata. Con affabulazioni tecniche differenti, s’intende, il fotografo svizzero riprende l’idealità o l’utopia che animava la fotografia sociale di Jacob A. Riis (o Lewis W. Hine). Le distanze formali sono evidenti, ma la centralità del soggetto, come metafora della vita offesa, è la medesima. Leggendo una sgangherata storia della fotografia -tanto stupida quanto inutile-, siamo rimasti sconcertati dalla classificazione di Jacob A. Riis come “razzista”. E poi, il testo continua sul medesimo tono: «Le sue immagini sono forti, volutamente provocatorie, ai limiti del cattivo gusto, teso a provocare del sensazionalismo gratuito» (Angela Madesani). La signora non conosce l’opera del fotografo e, in ogni caso, non sa quello che dice. Farebbe bene a passare oltre; non ci accompagna alcuno spirito antifemminista, ci mancherebbe!, ma la questione è di sostanza: invece di dissertare di storia e critica dell’arte, materia che le è ostica, le consigliamo di scrivere di uncinetto o raccogliere mughetti [ricordiamo che, da queste stesse pagine, Giuliana Scimé si è ampiamente espressa su questa ipotetica storia della fotografia, in FOTOgraphia dello scorso dicembre 2006]. La scrittura fotografica di Jacob A. Riis, cara signora, è una delle più alte espressioni della storia della fotografia. Jacob A. Riis ha fatto della fotografia di strada un grimaldello politico e
contribuito (insieme a Lewis W. Hine) a impedire lo sfruttamento dei bambini nelle fabbriche americane. Non era spinto da un “credo politico socialisteggiante”, come lei afferma, ma da una forma di etica della politica nella quale vedeva che ogni essere umano porta con sé anche la possibilità di un nuovo inizio. Comportarsi in maniera politica significa compiere scelte, formulare giudizi. Sporcarsi le mani. Non è la ragione degli oppressori che sta all’inizio della politica, dell’arte o della vita quotidiana, bensì l’eguaglianza della libertà e il diritto a sognare un’esistenza più giusta e più umana. L’arte (delle ostriche) con la quale spalma l’intero volume, signora Angela Madesani, è soltanto una koinè cattedratica di basso profilo, deposta nelle mani dell’impudore dominante che continua a ri/produrre merci al posto di sogni. Commiato da lei: la decomposizione dello spettacolo è un colpo di mano contro la scuola dello sguardo abbassato. O si affoga nell’universo della sopravvivenza o si dirotta il corso del tempo: «Il fallito svolge il proprio compito mediocremente, il disadattato lo rifiuta» (Raoul Vaneigem). La mancanza del favoloso mortifica la bellezza dell’intelligenza e, senza la poesia che la sostiene, la grande fotografia di Jacob A. Riis (e di Werner Bischof) sarebbe dimenticata. Le fotoscritture di Werner Bischof non mirano al sensazionale. Non cercano l’effetto mercantile. Spesso ricostruiscono l’attimo o lo attendono al varco. L’evento non c’entra. C’entra l’accadere. Il raccontare. Fabbricare la fotografia fuori dai corsivi delle ideologie e dalle dittature dei media (che lo rese inviso a molti esperti in tagli editoriali). «Il mio interesse è scoprire quanta bellezza umana si può trovare anche nella più profonda sofferenza. La ricerca della bellezza è il mio principale motore» (Werner Bi-
schof). La visione epica che inseguiva, lo ha portato verso quelle spiagge dell’utopia, dove i messaggeri delle stelle sotterrano i propri tesori eversivi, in attesa di giorni migliori. È l’amore dell’uomo per l’uomo che li spinge a “chiamarsi fuori” dagli interessi di solo profitto della menzogna-capitale e farsi padroni di loro stessi in cerca del meraviglioso.
LA FOTOGRAFIA DELLA DIGNITÀ Werner Bischof è uno dei fotografi, in vero pochi, che meglio ha riconosciuto dignità, fierezza e amore nella povera gente. Non bisogna dimenticare quanto ha affermato Brassaï: «Noi fotografi siamo una genìa di bricconi, guardoni e ladri. Ci troviamo ovunque non siamo desiderati; tradiamo segreti che nessuno ci confida; spiamo senza vergogna ciò che non ci riguarda e ci appropriamo di cose che non ci appartengono. E, a lungo andare, ci ritroviamo possessori delle ricchezze di un mondo che abbiamo depredato». Straordinario. Proprio per tutto questo, e Brassaï lo ha descritto bene, l’opera fotografica di Werner Bischof assume grande valore, non solo ai nostri occhi, ma anche a quelli delle giovani generazioni, che intendono la fotografia non solo come un mezzo d’immediato successo ma la considerano strumento di crescita personale e sociale. Werner Bischof, sistemiamo le note biografiche, nasce a Zurigo il 26 aprile 1916. Lui era incline a fare il pittore, il padre lo vedeva praticare studi più materici. Si iscrive alla Scuola di Arti Applicate a Zurigo. Studia fotografia e grafica pubblicitaria. Nel 1942 elabora i suoi “esperimenti di luce” (conchiglie, disegni, linee, cerchi). Si accosta anche alla fotografia di moda e inizia a pubblicare su Du. Sono immagini informali. Ben fatte, ma fredde, almeno per noi, al pari di tanta avanguardia fotografica italiana degli anni immediatamente se-
guenti. Oggetti fotografati con alta tecnica, tuttavia relegati a discussioni teoriche e, nella sostanza, finiscono per essere niente altro che esercitazioni mondane buone per tutte le stagioni dell’ordine costituito. Sotto il fascismo, le espressioni più tollerate o non ritenute invise al regime, erano la fotografia astratta, Topolino e i giornali sportivi. A guerra finita, Werner Bischof inizia a fotografare le popolazioni disastrate dal conflitto. Viaggia in Germania, Francia, Olanda, Italia, Grecia, Ungheria, Romania, Polonia, Finlandia, Inghilterra. In Italia, conosce Rosellina Mandel (Rosa Helene Mandel) e la sposa nel 1949. Nel 1950 nasce il primogenito, Marco. Nello stesso periodo lavora per Picture Post, Illustrated, Epoca, The Observer; quindi, diventa membro dell’agenzia Magnum Photos. Poi va in India, Giappone, Indocina, collabora con Paris Match. Il suo sogno è fotografare le popolazioni dell’America Latina. Nel 1953 è a New York per cercare fondi e organizzare un viaggio in Perú. Il 16 maggio 1954, Werner Bischof precipita, insieme a due accompagnatori, in un burrone sulle Ande. Nove giorni dopo nasce il suo secondo figlio, Daniel (lo stesso giorno, Robert Capa salta in aria su una mina in Indocina [FOTOgraphia, maggio 1994 e aprile 2007]). I reportage di Werner Bischof sono di ottima fattura estetica e il coinvolgimento di fraternità sociale non è meno importante. La figurazione dei disoccupati francesi a una stazione ferroviaria (1945), l’uomo in nero che osserva le rovine di Francoforte (1946), la contadina fotografata davanti alle macerie di Montecassino (1946) enunciano la grazia, la genialità compositiva di Werner Bischof. Troviamo qui la stessa bellezza formale espressa nelle fotografie di Heinrich Zille (meno in quelle di Albert Ranger-Patzsh), un progenitore di quella corrente culturale irriverente tedesca (pittorica,
fotografica, cinematografica) degli anni Venti e Trenta, definita “Nuova oggettività” (che qualcuno ha tradotto, forse più propriamente, in “Nuova cosalità”). In tutta l’opera di Werner Bischof sono evidenti i princìpi etici ed estetici della “Nuova oggettività”, che il suo mentore, Hans Finsler, gli aveva dispensato. Si trattava di fantasticare un uso diverso del linguaggio ottico e della macchina fotografica, confrontarsi col presente. «La Referenza, che è l’ordine fondatore della Fotografia» (Roland Barthes), esprime l’intenzionalità del fotografo e ratifica ciò che il suo sguardo ha percepito. La creatività della fotografia si coglie nell’imparare che il problema degli altri è uguale al mio. Sortirne insieme è un atto etico e politico. Sortirne nella superficialità dell’esibito è la messa a morte d’ogni forma di comunicazione. L’iconografia di Werner Bischof ha rovesciato molto dell’abituale racconto fotografico. Sovente ha isolato il ritratto dall’ambiente e gli sfondi hanno segnato una seconda memoria dell’immagine. Una “diversa visuale” descrittiva, nella quale il racconto primario è il soggetto del ritratto, quello secondario il frammentario o l’incorniciato, che sta alle spalle o di fronte, come una quinta teatrale. Le sue foto-interpretazioni dell’esistente si fanno carico del futuro martoriato dell’umanità. Il valore profondo di una fotografia è appunto la pregevolezza della propria fabbricazione e del rispetto dell’identità come superamento dell’arte per l’arte. Il fotogiornalismo di Werner Bischof è singolare. Esprime una tecnica squisita. Padronanza delle luci e delle ombre. Inquadrature forti, quasi ricercate. Mai spontaneiste o occasionali. Inoltre, quello che emerge dalle sue fotografie è un atteggiamento spirituale e un sentimento umanitario che fanno di un fotografo un uomo grande e di un grande uomo un passa-
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tore della fotografia randagia. A leggere con attenzione le immagini del bambino ungherese che piange (1947), la donna che tende la mano con un bimbetto in braccio (India, 1951), il ragazzino sordomuto che ascolta la musica di un tamburello (Svizzera, 1944), l’uomo che tira un grosso peso con una catena (Ungheria, 1948), il bambino che gioca col filo (Olanda, 1944), fino al piccolo suonatore di flauto sulle Ande (Perú, 1954) possiamo cogliere corpi, gesti, volti carichi di destino e la risorgenza di una pietas laica che mette l’inesaudito in relazione col perduto. Tra i suoi grafici affascinanti, cartine dei paesi che si affacciano sul Mediterraneo e un cartone affisso a una porta sul quale era scritto “I Care” (il motto intraducibile dei giovani americani migliori, che lui stes-
so aveva interpretato in “Me ne importa, mi sta a cuore”), alle pareti della scuola di Barbiana, don Lorenzo Milani teneva attaccata al muro (e c’è ancora) una fotografia un po’ strappata di Werner Bischof, ritagliata da un giornale francese. Quella del bambino orfano in lacrime, scattata nel 1947 in Ungheria. Quell’icona dell’infanzia ferita sembra uscire dalle parole del suo libro, Esperienze pastorali, censurato dalle gerarchie ecclesiali del tempo: «Il mondo ingiusto l’hanno da raddrizzare i poveri e lo raddrizzeranno solo quando l’avranno giudicato con mente aperta e sveglia come la può avere solo un povero che è stato a scuola» e levato dalla strada. Ciò che ci ha fatto male esige di essere ricordato, e quando si tratta di un’opera d’arte resta indimenticabile.
Il piccolo suonatore di flauto sulle Ande, una delle ultime fotografie di Werner Bischof, è un capolavoro di tenerezza e malinconia per i poveri più poveri della Terra. È una specie di angelo necessario, che suona ai bordi della vita maltrattata e fa comprendere il tempo incanaglito della società spettacolarizzata che avanza e sopprime il ricordo e la speranza di un’infanzia troppo presto sciupata. Il taglio dell’inquadratura è sublime. Quasi in controluce. Il movimento del ragazzo, il flauto alla bocca, i sandali di corda, il sacco sulle spalle sono segnali, tracce, percorsi di lettura che rimandano alla fatica infinita degli oppressi, e il dolce flautista sembra portare addosso il senso amaro di tutta un’esistenza. La fotografia sociale è ovunque e in nessun posto. La bellezza della fotografia,
tutta, di Werner Bischof ha il carattere di relazione che rende visibile il tramonto degli oracoli e la sua verità è pratica, del tutto avviluppata alla decisione etica del fotografo. Come l’angelo della storia di Walter Benjamin, il volo utopistico di Werner Bischof evita toni accusatori e lamenti dottrinari. Il solo messaggio che reca alle anime sensibili e agli spiriti liberi è l’idea di felicità degli ultimi come passaggio a un’epoca dell’amore, nella quale anche l’insufficiente si trascolora in epifania di uomini buoni. La fotografia apparterrà a coloro che avranno saputo disobbedire alle mitologie sul “buon governo” e fatto dell’eternità del dolore la fine del sempre uguale. Che la fotografia sia con noi! Pino Bertelli (5 volte luglio 2007)
BIANCO E NERO laboratorio fotografico fine - art solo bianco & nero
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