Mensile, 5,70 euro, Poste Italiane SpA - Spedizione in abbonamento postale - D.L. 353/2003 (convertito in Legge il 27-02-2004, numero 46), articolo 1, comma 1 - DCB Milano
ANNO XIV - NUMERO 137 - DICEMBRE 2007
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1997) DEL DICEMBRE
LUCA VENTURA (DALLA COPERTINA DI FOTOGRAPHIA
ALTRO NATALE. C’è stato un tempo, del quale ho nostalgia e perfino rimpianto, che il Natale riscaldava il cuore. A Milano, si cominciava a sentirlo dopo le feste della prima settimana di dicembre, con la fortunosa consecuzione dell’otto dicembre (Immacolata Concezione) con il precedente sette (Sant’Ambrogio, patrono della città). Lo stesso sette dicembre dava avvio alla stagione musicale del Teatro alla Scala. Tutto è cambiato, e rimane solo la Prima della Scala, ormai di esagerata mondanità, boriosa passerella di un arido mondo politico. Un tempo, l’imminente inizio delle grandi celebrazioni era anticipato da indizi: oggi, da annunci pubblicitari, che cominciano in clamoroso e odioso anticipo. In campagna, dai nonni, l’agrifoglio era vero agrifoglio selvatico, reciso da siepi grevi di bacche e foglie scure. Lo si sistemava in mazzi grandi, senza alcuna cura, spesso davanti a fotografie sbiadite, e comunque in vasi enormi e panciuti. La gente di città avrebbe dato un occhio per avere dell’agrifoglio simile; le gentildonne appassionate di composizione floreale si sarebbero divertite un mondo; ma la gente di città e le gentildonne non avrebbero fatto altro che svirilizzarlo e trasformarlo, da quella prorompente sfida all’inverno che è, in una slavata fantasia rossa e verde. Anche il vischio era vischio, dei boschi vicini, di un verde vivido, con bacche di un bianco perlaceo grosse come piselli. Veniva appeso a mazzi, ma non perché la gente si baciasse lì sotto. Come nei tempi antichi, serviva da amuleto contro le cose malvagie che strisciano negli angoli bui alla fine dell’anno. A volte, c’era anche l’edera: scie di foglie a forma di stelle di questo sempreverde femminile che si contrappone al virile agrifoglio. L’edera che, a dispetto del canto natalizio che la esalta, non si vede spesso come elemento decorativo tradizionale, tranne che in luoghi come quelli che credo di ricordare (ma forse non è vero niente). Sono cambiati solo i tempi, o è anche un problema di età. I bambini, autentici protagonisti del Natale, sono ancora bambini? E dove e quando, possiamo ritrovare quel bambino che c’è, o dovrebbe esserci, in ognuno di noi? M.R.
Come le parole e i fatti, la fotografia è parte consistente della storia dei popoli. E delle storie individuali.
Copertina Nikon SP (1957) e Nikon F (1959) in celebrazione dei novant’anni Nikon, che scandiamo da pagina 46, con una conseguente sequenza di annotazioni e riflessioni eterogenee (fotografia di Luca Ventura)
3 Fumetto Con nostra colorazione arbitraria, rispetto il tratto nero originario delle tavole, Novak N, palesemente ricavata dalla Nikon F Photomic, da Ciao Valentina!, del 1966, quando ancora Neutron era il protagonista del fumetto che Guido Crepax avrebbe successivamente dedicato a Valentina (Rosselli), di professione fotografa
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7 Editoriale Teatro della Vita. Trasversalità e coincidenze che si rincorrono tra loro, e danno senso e valore alle consecuzioni redazionali. Argomenti e parole
9 Museo a Montelupone 61
È stato allestito un affascinante museo, che racconta la storia della fotografia attraverso le tecniche di stampa e le attrezzature di ripresa. Con efficace guida
12 Notizie Attrezzature, vicende e altre segnalazioni
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15 Estetica della violenza Edizione italiana Il mondo mutato: riflessioni del filosofo tedesco Ernst Jünger a partire da fotografie dei primi decenni del Novecento. Con mostra itinerante
20 Il ritratto in fotografia A cura di Max Kozloff, l’avvincente The Theatre of the Face è una monografia che ripercorre i tratti e significati del moderno ritratto fotografico. Uno studio esemplare
22 Reportage Appunti e attualità del fotogiornalismo internazionale A cura di Lello Piazza
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26 Ritratti d’autore Una consistente mostra antologica celebra Gisèle Freund, straordinaria autrice che ha attraversato il Novecento, realizzando una significativa visione del proprio tempo di Grazia Neri
DICEMBRE 2007
R , RIFLESSIONI IFLESSIONI, OSSERVAZIONI E COMMENTI OSSERVAZIONI E COMMENTI SULLA FOTOGRAFIA SULLA FOTOGRAFIA
32 Bari0607
Anno XIV - numero 137 - 5,70 euro
Intensa campagna fotografica di Gabriele Basilico. Immagini, analisi, considerazioni e la produzione degli impeccabili ingrandimenti esposti in mostra
DIRETTORE
RESPONSABILE
Maurizio Rebuzzini
IMPAGINAZIONE Gianluca Gigante
REDAZIONE
38 Perpignan: una volta ancora La personalità del fotogiornalismo dal palcoscenico qualificato di Visa pour l’Image. Cronaca e commenti di Lello Piazza
Angelo Galantini
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FOTOGRAFIE Rouge
SEGRETERIA Maddalena Fasoli
HANNO
46 Nikon, novant’anni Celebrazione dell’anniversario: 1917-2007
46 Nikon, nel cuore e nell’anima Memorie, ricordi e riflessioni che si allungano sui decenni, durante i quali si è affermato il Mito di Maurizio Rebuzzini Ricerca iconografica di Filippo Rebuzzini
50 Dagli anni Settanta a oggi
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Al bar Casablanca con [...] la nikon, gli occhiali... di Lello Piazza
58 Un passo dopo l’altro Cronologia: in principio fu Nikon a telemetro (1948); quindi, reflex dal 1959 e reflex digitale dal 1995 di Antonio Bordoni Ricerca iconografica di Ciro Rebuzzini
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66 Per grande formato Straordinaria stagione: obiettivi Nikkor per apparecchi fotografici dal 4x5 all’8x10 pollici. E anche oltre di Angelo Galantini Fotografie di Luca Ventura
● FOTOgraphia è una pubblicazione mensile di Graphia srl, via Zuretti 2a, 20125 Milano. Registrazione del Tribunale di Milano numero 174 del Primo aprile 1994. Poste Italiane SpA - Spedizione in abbonamento postale - D.L. 353/2003 (convertito in Legge il 2702-2004, numero 46), articolo 1, comma 1 - DCB Milano. ● A garanzia degli abbonati, nel caso la pubblicazione sia pervenuta in spedizione gratuita o a pagamento, l’Editore garantisce la massima riservatezza dei dati forniti dagli abbonati e in suo possesso, fatto diritto, in ogni caso, per l’interessato di richiederne gratuitamente la rettifica o la cancellazione ai sensi della legge 675/96.
70 Panorama accelerato
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Costruzione artigianale newyorkese basata sul corpo macchina Nikon F, reinventato alla visione 24x72mm Fotografie di Franco Canziani
74 Sul filo di lana Ancora Nikon D3 e Nikon D300: novità tecniche
77 Aggressiva Olympus
COLLABORATO
Antonio Bordoni Franco Canziani Fotolaboratorio De Giglio Maria Teresa Ferrario Grazia Neri So Okamoto Loredana Patti Lello Piazza Franco Sergio Rebosio Ciro Rebuzzini Filippo Rebuzzini Luca Ventura Zebra for You
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La reflex E-3 al vertice del sistema QuattroTerzi di Antonio Bordoni
● Nessuna maggiorazione è applicata per i numeri arretrati. ● È consentita la riproduzione di testi e fotografie, magari citando la fonte (ma non è indispensabile, né obbligatorio farlo). ● Manoscritti e fotografie non richiesti non saranno restituiti; l’Editore non è responsabile di eventuali danneggiamenti o smarrimenti. Fotocomposizione DTP e selezioni litografiche: Rouge, Milano Stampa: Arti Grafiche Salea, Milano
Rivista associata a TIPA
80 Agenda Appuntamenti del mondo della fotografia
84 C’è una Leica che... Rievocazione dal prestigioso The New Yorker Traduzione e commenti di Lello Piazza
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rasversalità e coincidenze. C’è una teoria, che forse è soltanto superstizione, che afferma che quando si sente parlare di qualcosa che si è accantonato per tanto tempo, lo si risente, immediatamente, nel giro di poche ore: pagine e parole, nel caso della confezione di una rivista; e a questo stiamo per riferirci. Trasversalità, anzi tutto: per quanto non sia sempre percepibile, ed è anche giusto che non lo sia, ogni numero di FOTOgraphia esprime una filosofia di fondo che attraversa gli argomenti affrontati e trattati, collegandoli idealmente tra loro. Così che la celebrazione dei novant’anni Nikon, che da pagina quarantasei si allunga e distende in avanti, con una identificata sequenza di punti di vista correlati, è accompagnata da altre osservazioni analogamente retrospettive. È storia della fotografia, consapevolezza della quale pensiamo non si dovrebbe fare a meno, la presentazione del neocostituito Museo di Montelupone, da pagina nove, e la passerella di una fantastica monografia che ripercorre la lunga vicenda del ritratto, da pagina venti. E non è finita. Ognuna per sé, sono velatamente retrospettive anche l’avvincente mostra di Gisèle Freund, della quale anticipiamo i termini da pagina ventisei, e la lunga rievocazione del fascino Leica, che riprendiamo dal qualificato e prestigioso The New Yorker, da pagina ottantaquattro. Ancora. È storia e analisi del linguaggio della fotografia e della propria relativa proiezione sulla società, la segnalazione dell’edizione libraria che avvicina alle riflessioni del filosofo Ernst Jünger, stilate proprio a partire dall’osservazione di fotografie della vita nel proprio svolgimento: da pagina quindici. Trasversalità, in senso di collegamento ideale, spirito di fondo. E poi, come esordito, coincidenze: anche nell’ipotesi, già sottolineata, «che quando si sente parlare di qualcosa che si è accantonato per tanto tempo, lo si risente, immediatamente, nel giro di poche ore». Su questo numero, tra le pieghe di tante analisi, due personaggi della fotografia sono richiamati, ognuno per sé, più volte: tre e quattro. Rispettivamente, Susan Sontag è ricordata in relazione a Ernst Jünger (a pagina sedici), nella corrispondenza da Visa pour l’Image 2007 (a pagina quaranta) e nella presentazione della fotografia e personalità di Gisèle Freund (a firma di Grazia Neri, a pagina ventinove e trenta); quindi, soprattutto a pagina ottantotto, la fotografia di Lee Friedlander è evocata da Anthony Lane nella sua celebrazione della Leica, originariamente pubblicata sul The New Yorker, che proponiamo da pagina ottantaquattro, e lo stesso grande fotografo statunitense è collegato alla fotografia di Ugo Mulas, a pagina ottanta, alla scoperta di Ernest Bellocq, a pagina ventuno, e alla Pannaroma, a pagina settantuno. Ovvero, confermiamo: «quando si sente parlare di qualcosa che si è accantonato per tanto tempo, lo si risente, immediatamente, nel giro di poche ore». Teatro della Vita. Maurizio Rebuzzini
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Susan Sontag, fotografata a New York da Gisèle Freund, nel 1975. Oltre la proposizione di questo ritratto, dalla mostra Ritratti d’autore, alla Galleria Carla Sozzani di Milano, della quale riferiamo da pagina ventisei, su questo numero di FOTOgraphia la celebre scrittrice e sociologa statunitense è richiamata altre due volte: a pagina sedici e a pagina quaranta. E poi, a pagina trenta, Grazia Neri la allinea a Gisèle Freund. Invece, Lee Friedlander è evocato quattro volte: a pagina ventuno, settantuno, ottanta e ottantotto. Ciò a dire: «quando si sente parlare di qualcosa che si è accantonato per tanto tempo, lo si risente, immediatamente, nel giro di poche ore». Teatro della Vita.
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MUSEO A MONTELUPONE
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Definito Il borgo ideale, Montelupone è un comune della provincia di Macerata. Nella verde valle del Potenza, a ridosso del mare Adriatico, la città è adagiata sulle dolci colline marchigiane, immersa nella Terra delle armonie, cantata da Giacomo Leopardi. Oltre l’affascinante ecosistema del fiume Potenza, impreziosito da laghi per la pesca sportiva, nel territorio agricolo è possibile percorrere un itinerario alla scoperta di antiche fonti d’acqua. Altrettanti, sono i suoi riferimenti culturali. Dall’arcano fascino dei Piceni alle testimonianze dei moti Risorgimentali per la libertà si trovano palazzi disegnati dall’armonia e bellezza della storia: sopra tutti, il teatro Nicola Degli Angeli, simbolo di un fascino irresistibile, e poi una rete di misteriose gallerie sotterranee. A Montelupone è nato il Museo Fotografico di Montelupone, il cui progetto è stato raccolto in un volume a cura di Vincenzo Marzocchini, edito dal Comune: appunto, Progetto per il Museo Fotografico di Montelupone, che traccia le linee ispiratrici e indica le strade che verranno seguite. Intenzione dichiarata ed esplicita è quella di percorrere la storia della fotografia attraver-
so le tecniche di stampa e le attrezzature di ripresa, identificazione che fa da sottotitolo ufficiale. In origine, l’idea della creazione di un Museo nel quale riunire le tecniche di stampa della storia della fotografia è stata suggerita, addirittura sollecitata, dalla presenza, nelle sale comunali adibite a esposizione pubblica, di una raccolta di apparecchiature fotografiche d’epoca e moderne, riunite nella Collezione Adriano Andreani. La consecuzione è parsa inevitabile: perché non completare questo patrimonio originario con immagini? Servito a promuovere e pubblicizzare il progetto, il volume curato da Vincenzo Marzocchini è stato concepito e confezionato anche come guida e strumento di base per avvicinarsi al mondo della fotografia e alla conoscenza della sua storia. Adeguatamente illustrato, è soprattutto ricco di testi di presentazione, che introducono i singoli elementi e momenti che hanno scandito i passi evolutivi della fotografia: in pertinente equilibrio tra tecnica e creatività (conseguente?: il dibattito richiederebbe approfondimenti). Come abbiamo annotato in tante altre occasioni, a questa precedenti, e come invitiamo a riflettere gli studenti che si avvicinano alla materia, la storia della fotografia esiste. Però, il suo racconto non è sempre lineare, né efficace. In effetti, bisognerebbe prima di tutto stabilire una linea ideologica discriminante: quella del sottile rapporto che lega e collega i procedimenti tecnici all’espressività creativa e proietta questa verso la società. Ancora, nel territorio del linguaggio, non ci si dovrebbe limitare al solito percorso che privilegia certe geografie (mondo Occidentale) a scapito di altre esperienze (emisfero Orientale). Così come non si dovrebbe contenere il racconto alla sola consecuzione di talune espressioni (paesaggio, fotogiornalismo e ritratto, sopra tutto), ignorandone altre. Ma non è facile, e tale completez-
Particolare della sala Collezione Adriano Andreani, presso la Pinacoteca Civica Corrado Pellini di Montelupone, dalla quale ha preso avvio il progetto del Museo.
Ritratto di attrice. Woodburytipia 8,5x12,4cm (tecnica di stampa a inchiostro), incollata su locandina 30x40cm del Théâtre Belles-Lettres et Beaux-Art di Parigi; Photoglyptie Lemercier; 1877.
za di visione è un’operazione quantomeno titanica, che presuppone consistenti impegni di più e tante persone, con dispiego di mezzi (anche economici) solitamente estranei alla cultura fotografica italiana. Così che, bisogna fare tesoro di ciò che c’è, delle esperienze che riescono a esprimersi (pur nella fatica e con le difficoltà che ci sono note), delle
La costituzione del Museo Fotografico di Montelupone si accompagna con un volume curato da Vincenzo Marzocchini, concepito e confezionato anche come guida e strumento di base per avvicinarsi al mondo della fotografia e alla conoscenza della sua storia (148 pagine 17x24cm).
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Ritratto di giovane uomo. Dagherrotipo parzialmente dipinto a mano dell’Atelier Higgins (Usa); 1/6 di lastra (7x8,3cm); circa 1845.
Carte de visite al collodio e viraggio al cloruro d’oro; stabilimento fotografico Vidau (Ancona), con velina protettiva di confezione, propria degli studi di prestigio, pervenuta intatta; fine Ottocento.
buone volontà che scendono in campo. Non è facile raccontare una Storia, senza i mezzi adeguati per farlo. Per cui, ecco che questi volontariati sono ben accetti, diventano preziosi e raccolgono quei mattoni che, messi assieme, potrebbero contribuire a edificare un racconto esaustivo. Però! Però, e con tutto, lamentiamo soltanto che queste iniziative sono troppo spesso isolate, sempre indipendenti, mai ricondotte a una raccolta comune che le possa arricchire dei collegamenti necessari: ognuno cammina per la propria strada, che non ha mai punti di contatto e scambio. In questo panorama culturale, che personalmente viviamo come desolante, nel quale peraltro si affaccia-
no anche autentiche incompetenze (come l’improbabile Storia che, da queste stesse pagine, lo scorso dicembre 2006, Giuliana Scimé ha consistentemente stroncato), rileviamo comunque il valore e spessore di iniziative di capacità certa. Nello specifico, il Museo Fotografico di Montelupone non si propone come indirizzo assoluto, ma traccia le linee di un sereno e concreto avvicinamento alla materia, dopo il quale ciascuno può rivolgersi ad altri e ulteriori approfondimenti. In questa pertinente ed esperta combinazione di immagini storiche, da una identificata quantità di archivi, testi a commento, che introducono i princìpi originari della fotografia (con attenta analisi dei processi dei primi decenni successivi al fatidico 1839), e stru-
Coppia stereoscopica; albumina dipinta a mano; seconda metà dell’Ottocento.
menti fotografici, distribuiti nel tempo, si riconoscono gli elementi fondamentali e basilari della Storia: e non è certo poco. Strumento propedeutico per chi inizia a interessarsi di storia della fotografia, il Museo di Montelupone fa da ponte verso ulteriori indagini approfondite (il volume di presentazione comprende anche una ben allestita Bibliografia consigliata, che Vincenzo Marzocchini ha sapientemente scomposto per direttive). Per familiarizzare con le problematiche implicite, propone un percorso godibile, proprio perché contenuto e non spaesante, come può succedere quando ci si trova immersi in una superstruttura. Quindi, il progetto prevede l’affiancamento al Museo di un Archivio storico-fotografico sul Comune e sui paesi vicini, in associazione con le relative amministrazioni locali. Ancora, si sta lavorando anche per la creazione di altre due sezioni permanenti: la ritrattistica tra Ottocento e Novecento e la sperimentazione dagli anni Cinquanta agli anni Settanta del Novecento. Oltre il nostro plauso, per quanto serva, i più sinceri complimenti. Questi incontri fanno sempre bene alla salute individuale: anche a quella soltanto fotografica. M.R. Museo Fotografico di Montelupone (la storia della fotografia attraverso le tecniche di stampa e le attrezzature di ripresa). Ufficio Cultura e Turismo del Comune, piazza del Comune 1, 62010 Montelupone MC; 0733-224911, fax 0733-226042; www.comune.montelupone.mc.it; info@comune.montelupone.mc.it.
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ESTETICA DELLA VIOLENZA
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Pubblicata in Germania, nel 1933, Die Veränderte Welt è una delle raccolte fotografiche più significative del Novecento. Non è una monografia d’autore, tra le quali conteggiamo numerosi titoli fondamentali, e neppure una selezione a tema, quantomeno non nel senso che intendiamo dal punto di vista specificamente fotografico dei propri addetti. La fotografia è qui protagonista in modo diverso da quello che le viene solitamente assegnato dal proprio mondo, appunto fotografico. A differenza, le fotografie di Die Veränderte Welt sono individuate, e quindi commentate, da un filosofo, Ernst Jünger, sulla cui personalità stiamo per soffermarci, che finalizza la visione fotografica a una osservazione ampia del proprio tempo: dalla quale, in traduzione, riflette su Il mondo mutato. L’operazione realizzata è presto annotata: Ernst Jünger raccoglie fotografie pubblicate in giornali del proprio tempo, alle quali dà un ordine e una sequenza finalizzati al proprio intendimento dichiarato di occhio sulla società occidentale all’indomani della Guerra mondiale (che oggi conteggiamo come Prima), nella quale si annidano i semi e presupposti di un ritorno alle ar-
Certi valichi e certe mulattiere si scoprono soltanto dopo aver fatto una lunga salita. Si è ormai giunti a una nuova concezione del potere, a brutali condensazioni dagli effetti immediati. Per opporsi a esse è necessaria una nuova concezione della libertà, ben lontana dagli sbiaditi concetti che oggi vengono associati a questa parola. [...] Sarà più facile per noi imparare dai poeti e dai filosofi quale posizione è giusto difendere.
in anni successivi, nel corso della Seconda guerra mondiale, Bertolt Brecht compì un’azione analoga, raccogliendo le fotografie giornalistiche del conflitto, completate con proprie riflessioni poetiche (la più recente edizione libraria italiana di questa raccolta L’Abici della guerra è del 2002: nella collana ET Saggi di Einaudi, 162 pagine 12x 19,5cm; 9,00 euro).
IL MONDO MUTATO Mimesis Edizioni, che agisce soprattutto nel campo della filosofia contemporanea, ha pubblicato un’anastatica (?, non abbiamo mai visto l’originale del 1933) di Die Veränderte Welt, confezionata in cofanetto con la traduzione italiana dei testi (Il mondo perduto), completa altresì di un saggio di Maurizio Guerri, che ha curato l’edizione: La violenza è normale? L’occhio fotografico di Ernst Jünger. Eccezionalmente meritevole, questa raffinata e inestimabile edizione si accompagna con una avvincente mostra fotografica degli ingrandimenti delle doppie pagine della rac-
Ernst Jünger (da Trattato del ribelle, 1951) mi. Le fotografie sono finalizzate a un racconto, scandito da tempi e temi individuati, al quale aggiunge i propri commenti. Così che la Fotografia (maiuscola volontaria e consapevole) svolge qui uno dei propri ruoli istituzionali, che è giusto quello di essere «traccia del mondo, intuizione, folgorazione nel riconoscimento di istanti di vita [...], che la fotografia, vero linguaggio della modernità, ha introdotto in modo rivoluzionario nel panorama culturale dell’uomo contemporaneo» (Ferdinando Scianna). Con l’occasione, ricordiamo che
IGIENE... Consultorio per la cosmetica sociale. Igiene coloniale. DI STATO Radiografia in un penitenziario. Politica e mal di denti. [Con riferimento ai socialdemocratici che hanno creato quindici cliniche; i cristiano-sociali, zero].
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colta, che rafforza il già consistente richiamo visivo della combinazione narrativa delle fotografie. Riprendendo il titolo del saggio del curatore Maurizio Guerri -ricercatore presso il dipartimento di Filosofia dell’Università degli Studi di Milano, cattedra di Estetica, autore di numerosi studi di filosofia politica e filosofia della storia (tra i quali ricordiamo il recente Ernst Jünger. Terrore e libertà; Agenzia X, www.agenziax.it)-, la mostra La violenza è normale? L’occhio fotografico di Ernst Jünger è stata esposta all’Ex chiesa di San Carpoforo di Milano, quartiere di Brera, fino allo scorso trenta settembre. A seguire, verrà presentata in altre sedi italiane, con un programma espositivo completo di eventi collaterali: incontri, dibattiti e proiezioni, che hanno animato le settimane milanesi (per aggiornamenti e informazioni complete www.junger.it). Per la prima volta in Italia, ognuna con la propria personalità e entrambe insieme, l’edizione libraria e la mostra propongono la riflessione su base fotografica di una delle più importanti figure della cultura europea del Ventesimo secolo, il filosofo e scrittore tedesco Ernst Jünger, che ha preso parte
a entrambe le guerre mondiali. È autore di romanzi di letteratura, quali Nelle tempeste d’acciaio (Guanda, 2000), Sulle scogliere di marmo (Guanda, 2002), Eumeswil (Guanda, 2001), conosciuti e tradotti in tutto il mondo, e di testi considerati dei classici della filosofia contemporanea: L’operaio. Dominio e forma (Guanda, 2002), Al muro del tempo (Adelphi, 2000), Trattato del ribelle (Adelphi, 1990), Il contemporaneo solitario (Guanda, 2000), Lo stato mondiale (Guanda, 1998), Avvicinamenti. Droghe ed ebbrezza (Guanda, 2006), Il libro dell’orologio a polvere (Adelphi, 1994). Insignito del Premio Goethe, nel 1982, due anni dopo Ernst Jünger ha celebrato i solenni festeggiamenti per la riconciliazione francotedesca, presieduti dai rispettivi leader politici François Mitterand e Helmut Kohl. Sempre nel 1984, è stato decorato con la Médaille de la Paix della città di Verdun; nel 1996, l’Universidad Complutense di Madrid gli ha assegnato la laurea honoris causa. Ernst Jünger è mancato il 17 febbraio 1998, nella sua casa di Wilflingen, in Svevia, all’età di centotré anni (era nato il
1918... 1932...
Anastatica di Die Veränderte Welt, di Ernst Jünger (a cura di Edmund Schultz); a cura di Maurizio Guerri; in cofanetto con la traduzione italiana Il mondo mutato. Un sillabario per immagini del nostro tempo, comprensivo di saggio di Maurizio Guerri La violenza è normale? L’occhio fotografico di Ernst Jünger; Mimesis Edizioni, 2007 (via Pichi 3, 20143 Milano; 02-89403935, anche fax; www.mimesisedizioni.it, mimesised@tiscali.it); 196 e 80 pagine 17x24cm; 29,00 euro.
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29 marzo 1895, a Heidelberg, sede del più antico ateneo tedesco, culla di filosofia).
ATTRAVERSO LA FOTOGRAFIA La peculiarità di questo evento culturale si fonda sui significati della riflessione a base fotografica di Ernst Jünger, che ha condensato in immagini (e attraverso immagini) i temi principali della propria indagine filosofica e della sua esperienza letteraria. A questo proposito, va sottolineato come tutta la produzione intellettuale del celebrato filosofo sia attraversata dalla riflessione sulla funzione della fotografia nella comprensione del mondo contemporaneo, con annotazioni e osservazioni straordinariamente originali, complementari a quelle di natali dichiaratamente fotografici (da addetti al lavoro, con gli inevitabili compromessi del caso). In anticipo temporale su successive analisi di analogo indirizzo, al vertice delle quali collochiamo l’epocale Davanti al dolore degli altri di Susan Sontag (che non ci stanchiamo di citare e ricordare ogni volta che se ne presenta l’occasione, dopo la sua presentazione in FOTOgraphia dell’ottobre 2004),
Ernst Jünger affronta un tema centrale subito dichiarato e presto riconosciuto: la questione di come la violenza bellica e il lavoro mutino irreversibilmente la vita. Lapidario: che la documentazione fotografica abbia registrato, e dunque visualizzi attraverso la pro-
LA PIANIFICAZIONE DEL LAVORO... RAPPRESENTA IL TENTATIVO PER UNA NUOVA E COSTRUTTIVA STRUTTURAZIONE DELLA VITA.
POVERI NOI!
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uante tante volte annotiamo come la fotografia venga spesso maltrattata dal giornalismo italiano! Clamoroso fu il fraintendimento con il quale il quotidiano La Stampa di Torino confuse la cessazione della produzione di pellicola APS con la fine della pellicola 35mm (FOTOgraphia, marzo 2004), peraltro passato sotto il silenzio delle aziende commerciali chiamate in causa, Kodak avanti tutti, che non intervennero minimamente a tutela del mercato e dei suoi operatori. In tempi lontani, circa trent’anni fa, recensendo una mostra di Ansel Adams, La Repubblica reinquadrò la celeberrima fotografia della Luna che sorge a Hernandez (Nuovo Messico), originariamente a composizione orizzontale, in una striscia verticale stretta e alta, che lambiva appunto la luna in cielo. E potremmo proseguire all’infinito, senza soluzione temporale: magari fino alla recente attribuzione a Milton H. Greene della posa di Marilyn Monroe su drappo rosso, che fece la fortuna del primo numero di Playboy, del dicembre 1953 (in La Repubblica del venticinque luglio, come annotato lo scorso ottobre, tra le pieghe dei commenti alle nuove leggi statunitensi sul diritto d’autore; per la cronaca, lo storico nudo di Marilyn Monroe è di Tom Kelley, fotografo specializzato in pin-up). A margine della presentazione della mostra delle riflessioni a base fotografica di Ernst Jünger, annotiamo che La Repubblica (ancora!) ha titolato una propria segna-
lazione Ernst Junger fotografo e il tema della violenza: a parte la grafia scorretta del cognome, non è proprio una attribuzione esatta. E così nel testo: «Figura chiave della cultura europea del XIX secolo [ma lo è del Ventesimo secolo; ndr], Ernst Junger [ancora Junger], conosciuto come filosofo e scrittore fu anche fotografo. A questa sua attività meno nota al grande pubblico è dedicata la mostra [...]». Certo, Ernst Jünger ha anche scattato fotografie, o le avrà scattate, ma non si è mai ritenuto fotografo. E comunque l’architettura della mostra, che riprende le pagine della sua raccolta fotografica commentata, non si basa su sue fotografie ma, diciamolo ancora una volta, su fotografie recuperate da giornali, e dunque estrapolate dall’insieme di immagini che quotidianamente arrivano al pubblico. La differenza, per quanto apparentemente minima, è di assoluta sostanza sull’opera. Certo, il peccato potrebbe essere anche considerato veniale. Però è indice di un atteggiamento che spesso viene riservato alla fotografia (speriamo soltanto alla fotografia), terra di niente e nessuno, dove ognuno può commettere i propri misfatti. Del resto, come teorizzammo su Photo 13, testata fotografica del passato remoto, che qualcuno eleva a rango di culto (ma non è il caso), al mondo c’è gente che crede di saper fare tre cose: scattare fotografie, scrivere di fotografia e andare a cavallo. Ahinoi, soltanto il cavallo protesta!
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pria pubblicazione in giornali, parate fasciste, manifestazioni di lavoratori sovietici o folla lungo le strade di metropoli statunitensi, si assiste sempre e comunque a un’analoga disciplina delle masse. Fin di primi anni Trenta, in assoluto anticipo temporale su considerazioni cui altri sarebbero giunti decenni dopo (e molti non ci sono ancora arrivati), Ernst Jünger vide e sottolineò il progressivo svanire del confine tra pubblico e privato, tra pace e guerra sotto la spinta mobilitante della tecnica e del progresso. Tra le pieghe degli scontri nazionalistici, riconobbe l’inizio di quell’impero globale del lavoro fondato sulla mobilità e sul rischio che ancora oggi si identifica a fatica. Giusto questi aspetti originali della sua riflessione su base fotografica rendono particolarmente attuale quel Die Veränderte Welt - Il mondo perduto, che il qualificato Maurizio Guerri propone all’attenzione italiana, riprendendo altresì l’illuminante sottotitolo di Un sillabario per immagini del nostro tempo. E qui, concediamolo, non possiamo non soffermarci sul gioco di parole che questa declinazione rivela (volontariamente? paradossalmente? provocatoriamente?): “del
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[In collegamento con la precedente pagina a fronte “RIVOLUZIONI...”] IN TUTTO IL MONDO Rio de Janeiro. La popolazione saluta le truppe di ribelli vittoriose. Truppe austriache durante il putsch della milizia popolare in Stiria.
(a destra) LA CONDANNA A MORTE RAPPRESENTA UNA DELLE SPINE NEL FIANCO DELLA CIVILIZZAZIONE Esecuzione capitale di una uxoricida in America e in Cina. Nel caso di Sacco e Vanzetti trionfano i sostenitori della pena di morte.
nostro tempo” è il sillabario per immagini, o sono le immagini? Rileggiamo insieme: Un sillabario del nostro tempo - per immagini, oppure Un sillabario - per immagini del nostro tempo. Come nella moltiplicazione, cambiando l’ordine dei fattori, il risultato non cambia. E neppure il valore e spessore dell’opera. Favorita dall’architettura dell’Ex chiesa di San Carpoforo di Milano, la prima esposizione della mostra, cui stanno per seguire altri allestimenti (fare sempre capo al sito dedicato e aggiornato www.junger.it), ha rivelato il proprio attento e consequenziale percorso di immagini e per immagini: che si struttura sul tema della normalizzazione e della visione oggettiva della violenza nel Ventesimo secolo, attraverso l’uso di fotografie che Ernst Jünger ha raccolto dal 1918 al 1931, che seguono quelle che lui stesso scattò sul fronte occidentale, durante la Prima guerra mondiale.
I curatori Maurizio Guerri e Silvana Turzio hanno riproposto l’impostazione che Ernst Jünger aveva dato ai propri volumi fotografici, mantenendo le didascalie originali (con traduzione italiana): l’immagine fotografica è in costante tensione simbolica con la parola scritta. Come già annotato, la mostra fotografica è accompagnata da appuntamenti collaterali: incontri con artisti, scrittori, filosofi, registi e fotografi, riuniti nel programma Estetica della violenza (al quale, sabato ventidue settembre, ha portato il proprio contributo Pino Bertelli, autore degli Sguardi su, ospitati in chiusura di ogni edizione di FOTOgraphia). Nel proprio complesso, immagini di terrore quotidiano, il cui indirizzo è quello di interrogarsi su come si esercita e come si comprende la violenza, questione che sembra essere stata rimossa da gran parte della filosofia e delle scienze sociali del nostro tempo. A.G.
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IL RITRATTO IN FOTOGRAFIA
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Quando salta tutto -l’approfondimento in fotografia, il rispetto per la competenza in fotografia, la considerazione per l’espressione fotografica-, quando tutto si riduce all’aridità di una consecuzione solo commerciale (stiamo riferendoci al mondo italiano che ruota attorno la fotografia), succede anche quello che non ti aspetti. Succede che alzando lo sguardo, e andando a spiare oltre confine, arrivino perfino notizie confortanti. Così, accanto monografie e titoli prevedibilmente appetibili da un pubblico, comunque sia, tangibile, Phaidon Press pubblica un approfondito studio che affonda le proprie radici indietro nei decenni, indagati con serena competenza e urgente intelligenza. Come specifica il suo sottotitolo (in una edizione, purtroppo per noi, proposta nella sola lingua inglese), The Theatre of the Face è una concentrata storia del moderno ritratto fotografico: Portrait Photography Since 1900. A cura di Max Kozloff, noto e apprezzato critico di statura internazionale, è una corposa trattazione, ampiamente illustrata, che affronta con coraggio uno dei più frequentati ambiti della fotografia, fin dalla propria nascita (lo ricordiamo?: nel 1839, che in molti vorrebbero farci dimenticare, per abbracciare una quotidianità disegnata da cifre,
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statistiche e intenzioni soltanto commerciali). Tanto frequentato, il ritratto fotografico, da farci appunto declinare l’ipotesi di “coraggio” di coloro i quali ancora vi aggiungono proprie considerazioni originali. Cosa c’è ancora da dire, oltre quanto è stato già scritto, sottolineato, annotato, approfondito e considerato? È semplice, ma allo stesso tempo confortevole: un punto di vista che non si limita alla sola ipotesi ed idea della posa coscientemente tale, ma arriva ad indagare, come ha competentemente fatto Max Kozloff, l’insieme della fotografia di un secolo. Senza soluzione di continuità, il curatore attraversa tutto il Novecento, sottolineando il filo conduttore che collega la rappresentazione dell’individuo: dal ritratto posato, e ci mancherebbe altro, al racconto fotogiornalistico, alla ricerca espressiva finalizzata, fino alla documentazione della vita nel proprio svolgersi. Ampiamente studiato da molteplici prospettive, il ritratto fotografico implica anche la propria combinazione e il proprio allineamento con la complessità psicologica dei corrispondenti aspetti sociali. Ed è giusto in questa direzione che si è avviato il curatore Max Kozloff, che in un certo senso ridisegna una inedita storia della fotografia, appunto
The Theatre of the Face. Portrait Photography Since 1900, a cura di Max Kozloff (in inglese); Phaidon Press Limited, 2007 (www.phaidon.com); 416 pagine 20,5x27cm, cartonato con sovraccoperta; 350 illustrazioni (280 in bianconero 70 a colori); 69,95 euro.
Lewis W. Hine: Young US Soldier; New York, 1918 (George Eastman House). Ilse Bing: Self-portrait in Mirrors; Parigi, 1931 (The Estate Ilse Bing / Edwynn Hounk Gallery, New York).
considerata a partire dalla cadenza del ritratto. Trecentocinquanta illustrazioni -da fotografie ampiamente conosciute a immagini sostanzialmente meno conosciute, anche se non necessariamente ineditecompongono un affascinante percorso visivo, il cui unico neo, al quale abbiamo fatto il callo, è il punto di vista americanocentrico. Come abbiamo già annotato in altre occasioni, a questa precedenti, in definitiva potremmo anche af-
Ernest Bellocq: Plate VII; New Orleans, circa 1912 (Lee Friedlander / Fraenkel Gallery, San Francisco).
fermare che non è mai stata scritta una “storia della fotografia” autenticamente tale, completa, esaustiva, che abbia osservato le evoluzioni con occhio e animo oggettivo. Provocatoriamente, possiamo Kata210x145Fotographia 13-01-2005 8:48 Pagina 1 registrare e annotare soprattutto
parzialità geopolitiche, di pensiero e visione, comunque sia rivolte al solo mondo occidentale, con relative colpevoli esclusioni. Per quanto altre realtà siano considerabili ininfluenti sul processo globale dell’evoluzione del linguaggio fotografico (ma sarà poi vero?), si sono comunque manifestate. Ancora e anche The Theatre of the Face guarda la fotografia dando soprattutto spazio e considerazione alle esperienze maturate e svoltesi negli Stati Uniti, cui si aggiunge, quindi, una osservazione internazionale dallo stesso osservatorio americano. Del resto, cosa possiamo sperare di diverso, quando parliamo da un paese che sta facendo bandiera e vessillo dell’ignoranza fotografica. In assenza di incontri e confronti nazionali, dobbiamo saperci accontentare di quanto riceviamo dall’estero: e ringraziamo, perfino. Attenzione, però, perché non vo-
gliamo essere fraintesi: The Theatre of the Face è una raccolta a dir poco straordinaria e di eccezionale valore. I distinguo appena annotati sono altrimenti finalizzati e non intendono sminuire in nessun modo la consistenza di questo lavoro, che arricchisce la nostra conoscenza fotografica, cui si aggiunge una ulteriore analisi competente. Dal punto di vista formale, il volume è anche gratificato da una pertinente redazione, che ha allestito una ottimale consecuzione dei capitoli, organizzati cronologicamente e per tematiche, che scandiscono l’avvincente ritmo di una efficace analisi. Indispensabile, non soltanto utile, agli studenti di fotografia (e ai loro docenti, io tra questi), The Theatre of the Face è anche utile a coloro i quali si muovono con passione e concentrazione nel mondo della fotografia. Alla resa dei conti, un titolo da iscrivere tra i fondamentali della materia. M.R.
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ABITARE CON LA FOTOGRAFIA.
“Lettura” di una fotografia sulla nuova edizione di Abitare, mensile diretto da Stefano Boeri.
A ottobre, è uscito il primo numero del mensile Abitare firmato da Stefano Boeri, uno dei più vivaci, giovani architetti italiani. Oltre a consistenti novità per gli operatori del settore, Stefano Boeri presenta una intelligente doppia pagina dedicata a una fotografia e alla sua “lettura”. La fotografia è di Maryvonne Arnaud, un’artista francese che si occupa di realtà urbane emergenti ed è cofondatrice del Laboratoire sculpture urbaine di Grenoble (www.lelaboratoire.net). Scattata a Varsavia, l’immagine mostra una donna che vende fiori in una piazza (qui sopra). Il testo che accompagna la fotografia, in italiano e inglese come è abitudine della rivista, riassume l’analisi compiuta da diversi ricercatori presenti a un seminario sulla Fragilità, tenutosi lo scorso quattro luglio a Parigi, presso la cattedra in scienze politiche all’École des hautes études en sciences sociales (EHESS).
(a sinistra) L’espresso del 23 novembre 2006: copertina dell’anno al Concorso indetto dalle Cantine Ferrari di Trento.
EUGENE SMITH 2007. Intitolato a una delle figure più significative della storia della fotogiornalismo, l’Eugene Smith Grant in Humanistic Photography è stato assegnato il diciotto ottobre scorso a Stephen Dupont, per il suo reportage Narcostan: The Perils of Freedom, che riguarda le narcovie della droga in Afghanistan (qui sotto). Stephen Dupont, che ha lavorato negli ultimi quindici anni in Afghanistan con progetti autofinanziati, ha incassato un assegno di trentamila dollari. Un premio speciale di cinquemila dollari è stato assegnato al milanese Stefano De Luigi, per un reportage sulla cecità nel mondo, e al londinese Seamus Murphy, per un reportage dal titolo After Kennedy, sul ruolo giocato da religione e superstizione nella vita degli americani. Alla selezione finale sono arrivati l’italiana Giorgia Fiorio, gli statunitensi Ed Kashi, Danny Wilcox Frazier, Andy Levin e Mary Ellen Mark, il brasiliano Anderson Schneider e
EDITOR & PUBLISHER AWARD.
Bill Greene del Boston Globe ha vinto l’E&P’s Award 2007 con un reportage riguardante il problema dei militari reduci dall’Iraq.
BILL GREENE / BOSTON GLOBE
edizione del premio per la Copertina dell’Anno, bandito dalle Cantine Ferrari di Trento, la prima casa italiana di spumante metodo classico, è
Con un reportage riguardante il problema dei militari reduci dall’Iraq, o che rientrano morti, Bill Greene del Boston Globe si è aggiudicato i mille dollari dell’Editor & Publisher’s 8th Annual Photos of the Year Contest, sponsorizzato da Canon, che ha aggiunto una propria reflex di vertice Eos-1D Mark III. Il lavoro di Bill Greene, del quale presentiamo una immagine (qui sotto), è stato scelto tra centinaia di lavori esaminati, divisi in quattro categorie: news, reportage, sport e multiple images/photo essay (galleria di immagini). La grande emozione sollevata nell’opinione pubblica statunitense dai temi riguardanti il disastro ira-
STEPHEN DUPONT
(a destra) Dal reportage Narcostan: The Perils of Freedom, di Stephen Dupont: Eugene Smith Grant in Humanistic Photography 2007.
COPERTINA E TITOLO. La prima
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cheno è testimoniata dai molti lavori fotografici che vengono realizzati sul problema dei morti e dei reduci. Fa parte di questo filone il bel reportage di Andrew Lichtenstein, Never Coming Home, che è stato in mostra presso la Galleria Grazia Neri di Milano fino allo scorso diciassette novembre e raccolto in volume da Edizioni Charta (FOTO graphia, ottobre 2007). Bill Greene, classe 1956, è fotografo dello staff del Boston Globe da ventidue anni. Tra i riconoscimenti professionali, segnaliamo due nomine a Newspaper Photographer of the Year, da parte della National Press Photographers Association (1987 e 1998), e un primo posto di categoria nel World Press Photo 1993, per il suo reportage sull’inondazione del Mississippi.
stata vinta dal settimanale romano L’espresso, diretto da Daniela Hamaui (in basso, a sinistra). La notizia ci fa piacere, soprattutto se pensiamo che, fino a qualche tempo fa, i due principali newsmagazine italiani, Espresso e Panorama, avevano spesso copertine ammiccanti: tanto che il settimanale Cuore le iscriveva costantemente nella classifica di “tette” e “culi” proditoriamente usati come richiamo in edicola. Contestualmente, è stato assegnato anche il Premio per il miglior Titolo dell’Anno. Se lo è aggiudicato il quotidiano La Stampa di Torino, diretto da Giulio Anselmi, con «La guerra è finita ammazzatevi in pace». Alle redazioni di Espresso e Stampa sono andate mille bottiglie di Spumante Ferrari. La seconda edizione del Premio è in corso. I lettori possono segnalare copertine e titoli inviando una e-mail a titoloecopertinadellanno@ferrarispumante.it, oppure attraverso il sito www.titoloecopertinadellanno.com.
il sudafricano Mikhael Subotzky. Nel 2007, il Premio era stato assegnato al nostro Paolo Pellegrin. Tra gli altri vincitori delle passate edizioni, citiamo Pep Bonet, Stanley Greene, Eugene Richards, Sebastião Salgado, Letizia Battaglia, Cristina Rodero, Carl DeKeyzer, Dario Mitidieri, James Nachtwey e Ernesto Bazan.
PEDOFILO CATTURATO. Un maniaco pedofilo ha avuto la beffarda idea di mettere su Internet un proprio ritratto trasformato in modo da renderlo assolutamente irriconoscibile, probabilmente utilizzando il filtro Distorsione / Effetto spirale di Photoshop. Insieme al ritratto, il maniaco ha messo su Internet circa duecento fotografie pornografiche che mostravano i suoi violenti rapporti sessuali con bambini. Gli è andata male: la polizia informatica tedesca è riuscita a “far girare la spirale in senso contrario” e a ricostruire, con software sofisticati, un’immagine riconoscibile (qui sotto). Grazie a questa ricostruzione, è partita una gigantesca caccia all’uomo, che ha portato all’arresto di Christopher Neil, un insegnante di lingua inglese trentaduenne. L’arresto è avvenuto a metà ottobre, a Nakhon Ratchasima, trecento chilometri a nord di Bangkok, in Thailandia.
FOTOGRAFIE
TAROCCATE.
Un’inchiesta del New York Times, a firma Claudia Dreifus, pubblicata nell’inserto di Repubblica del quindici ottobre, rivela che Hany Farid, direttore del Laboratorio di scienza dell’immagine al Dartmouth College, a Hanover, nel New Hampshire (Usa), ha fondato una sottodisciplina informatica che ha chiamato Scienza investigativa digitale. Grazie al software elaborato dalla sua équipe, basta un’azione del mouse per far apparire Elvis Presley nel consiglio di amministrazione del Dartmouth College.
Servizi segreti, mezzi di informazione e riviste scientifiche si rivolgono a Hany Farid quando hanno la necessità di verificare la validità delle immagini. Hany Farid vende un pacchetto software, chiamato Q, che consente ai propri clienti di diventare detective digitali. «Oggi vediamo continuamente immagini adulterate. Se i tabloid non riescono a procurarsi una fotografia di Brad Pitt e Angelina Jolie che camminano insieme su una spiaggia, compongono un collage di due immagini singole. Star [rivista di pettegolezzi] fa esattamente questo. E succede anche nei tribunali, in politica e nelle riviste scientifiche», ha dichiarato Hany Farid. «A mio avviso è molto difficile dare una definizione di manipolazione illegittima. A volte, puoi cambiare il trenta per cento dei pixel di un’immagine, senza modificare alcunché di sostanziale. Altre volte, puoi cambiare il cinque per cento dei pixel e alterare completamente il significato. Non sono un purista. Per me si può scontornare un’immagine, aggiustarla, accentuare il contrasto, però voglio sapere quali interventi sono stati effettuati. I redattori delle riviste dovrebbero poter vedere anche le immagini originarie, non adulterate e non ritoccate». Claudia Dreifus racconta anche che una copia del software è stata venduta a una società canadese che gestisce un concorso per il miglior pesce catturato. I partecipanti spediscono le fotografie dei pesci, e il programma controlla se sono state manipolate. «Così, quando un pescatore afferma Era grande COSÌ! possiamo scoprire se dice la verità», conclude Hany Farid.
FOTOGRAFIA STATISTICA. Il quotidiano La Repubblica del ventitré ottobre propone un convincente articolo che, attraverso un metodo elaborato dalla Digos nel 1973, mette in discussione le cifre riguardanti il numero dei partecipanti dichiarato dagli organizzatori di manifestazioni pubbliche. Il metodo si basa su una fotografia aerea del luogo di raduno e su una sovrapposizione all’immagine di un certo numero di rettangoli di “capienza umana” prefissata. Per esempio, la fotografia aerea
del Circo Massimo, a Roma, è stata ricoperta da dieci rettangoli ciascuno di capienza massima pari a trentamila persone (30.000; qui sopra). Conclusione: il Circo non può ospitare più di trecentomila persone. Con lo stesso metodo, è stata calcolata in centocinquantamila persone (150.000) la capienza di piazza San Giovanni, sempre a Roma. Ecco invece i dati diffusi dagli organizzatori per alcune manifestazioni popolari svolte in questi due luoghi. Circo Massimo: 24 giugno 2001, scudetto della Roma, un milione; 23 marzo 2002, Cgil day, tre milioni; 24 marzo 2004, No alla guerra in Iraq, due milioni; 11 luglio 2006, Italia campione del mondo di calcio, un milione. Piazza San Giovanni: 13 giugno 1984, funerali di Enrico Berlinguer (segretario del Partito comunista), un milione; Primo maggio (ogni anno), Concerto Festa del Lavoro, settecentomila / un milione; 2 dicembre 2006, Cdl contro il governo Prodi, due milioni; 12 maggio 2007, Family Day, un milione e mezzo.
Mappatura per la capienza del Circo Massimo di Roma: dieci rettangoli da trentamila persone ciascuno. (a sinistra) Ricostruzione del ritratto beffardamente pubblicato in Internet da un pedofilo, che è stato identificato dalla polizia tedesca.
PHOTO EDITOR ANONIMO. Nel suo numero di fine ottobre, l’ottimo settimanale Internazionale segnala il sito www.aphotoeditor.com, realizzato da un photo editor di New York che vuole mantenere l’anonimato (qui accanto). Molti consigli professionali, osservazioni pertinenti, curiosità. Da visitare!
SORPRESE DA GOOGLE EARTH. Il fantastico software gratuito di Google (si può scaricare a http: //earth.google.com) permette di esplorare il mondo in modo straordinario. Il programma si basa su una mappatura fotografica satellitare della Terra. Nella maggior parte dei ca-
Sito da visitare.
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si, si riesce ad “atterrare” in qualsiasi luogo del pianeta con una definizione straordinaria (addirittura, si arriva a riconoscere la propria casa) e con visione tridimensionale. Grazie a queste esplorazioni, negli Stati Uniti è recentemente scoppiata una polemica: dopo che si è scoperto che una caserma della Marina Americana nei pressi di San Diego (California) è stata costruita a forma di svastica (qui sopra).
PREMIO. A Letizia Battaglia, un gigante del fotogiornalismo italiano, l’associazione tedesca Deutsche Gesellschaft für Photographie (www.dgph .de) ha assegnato il Dr. Erich Salomon Preis 2007, un premio alla carriera riservato a fotogiornalisti le cui immagini hanno influito sulla Storia. Il premio è intitolato a Erich Salomon (1886-1944), uno dei più grandi fotografi tedeschi. Nel prossimo numero, torneremo sull’argomento con un intero servizio. BIZZARRE RECENSIONI. Ancora a proposito della mostra di Andrew Lichtenstein, Never Coming Home,
Caserma della Marina Americana, nei pressi di San Diego (California), a forma di svastica.
(a destra) Una stampa vintage del Nautilus di Edward Weston è stata aggiudicata a un milione e centocinquemila dollari.
Dicotomia redazionale tra la recensione della mostra Never Coming Home, scritta da Roberto Mutti per La Repubblica del due novembre, e le immagini visualizzate. Aggiudicazione 1 2 3 4 5 6 7 8 9 10
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2.574.197 euro 2.066.920 euro 2.011.860 euro 1.490.890 euro 1.332.770 euro 1.039.110 euro 999.580 euro 780.040 euro 756.520 euro 700.270 euro
ALEXANDRA BOULAT. In occasione della manifestazione Paris Photo (tenutasi a Parigi dal quindici al diciotto novembre scorsi, http://www. parisphoto.fr/), l’Agenzia VII ha ricordato uno dei suoi fotogiornalisti più celebri, Alexandra Boulat, recentemente scomparsa (FOTOgraphia, novembre 2007), con una mostra presso La Pinacothèque de Paris, al 28 di Place Madeleine, nel centrale Ottavo Arrondissement. Riprendendo il titolo della recente selezione presentata alla Galleria Grazia Neri di Milano (FOTOgraphia, settembre 2007), la mostra Modest propone diciotto lavori del grande progetto di Alexandra sulle donne in Medio Oriente. Rimarrà aperta fino al quindici dicembre e può essere visitata anche sul web della VII all’indirizzo: http://www.viiarchive.com/ gpgs.aspx?pgid=11944914&e=0&p=0.
Nella stessa sessione, sono state vendute fotografie per quasi undici milioni di dollari. Il giorno dopo, sempre da Sotheby’s, altre vendite per un milione e settecentocinquantamila dollari. I successivi diciassette e diciotto ottobre, ancora a New York, questa volta da Christie’s, sono state realizzate vendite per due e sei milioni e mezzo di dollari. A conti fatti, a metà ottobre, le due sessioni d’asta delle sedi newyorkesi di Sotheby’s e Christie’s, entrambe diluite su due giorni ciascuna, hanno totalizzato la ragguardevole cifra di ventun milioni e duecentocinquantamila dollari (21.250.000), per un cospicuo numero di fotografie vendute. Tanto che il sito di Flash Artonline ha strillato «Prezzi alle stelle per la fotografia alle aste 2007» (http://www.flashartonline.it/NEWS/2 4_10_ASTE%20arte%20contemporanea.html). E riporta un elenco delle trenta aggiudicazioni più alte raggiunte negli ultimi anni. In estratto, ci limitiamo solo ai primi dieci in classifica (in basso); sul sito, ognuno può consultare l’elenco completo. A cura di Lello Piazza
EDWARD WESTON: NAUTILUS, 1927
presso la Galleria Grazia Neri (presentata in FOTOgraphia dello scorso ottobre), ci preme segnalare che su La Repubblica del due novembre, nelle pagine riservate a Milano, ne appare una approfondita recensione a firma Roberto Mutti (in basso, a sinistra). Peccato che, tra le quattro fotografie che accompagnano l’articolo, non ce ne sia nessuna delle quattro citate nel testo. Non vi pare almeno bizzarra come scelta di impaginazione?
COLLEZIONISMO. Volano i prezzi della fotografia da collezione. Il quindici ottobre, a New York, a un’asta di Sotheby’s, una stampa vintage del Nautilus di Edward Weston (1927; a destra) è stata battuta per l’esorbitante cifra di un milione e centocinquemila dollari, pari a settecentottantamila euro abbondanti. Autore Andreas Gursky Edward Steichen Richard Prince Cindy Sherman Hiroshi Sugimoto Alfred Stieglitz Edward Sheriff Curtis Edward Weston Piotr Uklanski John Baldessari
Opera / Opere 99 Cent II The Pond - Moonlight Cowboy Untitled No. 92 Black Sea, Yellow Sea, Red Sea Georgia O’Keeffe (Hands) The North American Indian portfolios Nautilus The Nazis (set di 164) Kiss/Panic
Dove
Quando
Sotheby’s Londra 7 febbraio 2007 Sotheby’s New York 14 febbraio 2006 Christie’s New York 15 maggio 2007 Christie’s New York 16 maggio 2007 Christie’s New York 16 maggio 2007 Sotheby’s New York 14 febbraio 2006 Christie’s New York 12 ottobre 2005 Sotheby’s New York 15 ottobre 2007 Phillips, de Pury & Co. 14 ottobre 2006 Sotheby’s New York 15 maggio 2007
RITRATTI M
ancata nel Duemila, appena compiuti novantuno anni (Berlino, 19 dicembre 1908 - Parigi, 30 marzo 2000) , quasi a testimoniare come e quanto l’impegno fotografico d’autore sia spesso accompagnato da una confortevole longevità (abbiamo commentato in FOTOgraphia del marzo 2001), Gisèle Freund è una delle più significative personalità della fotografia del Novecento. Profuga a Parigi all’inizio degli anni Trenta, iniziò la propria frequentazione fotografica muovendosi su due piani coesistenti: l’azione fotografica vera e propria, prima di altro coltivata nel clima e ambiente culturale entro il quale viveva, e la riflessione critica e storica sulle implicazioni sociali della stessa fotografia. In questo senso, la tesi di dottorato, con la quale si laureò nel 1936 alla Sorbona di Parigi (sotto la guida di Theodor Adorno, con il quale aveva avviato il proprio percorso universitario all’Institut für Socialforschung di Francoforte) è ancora oggi uno dei testi fondamentali e discriminanti sia della storia della fotografia sia delle sue consecuzioni (appunto) sociali. Originariamente pubblicata da Adrienne Monnier, proprietaria della libreria parigina La Maison des Amis des Livres, La Photographie en France au XIXème siècle
è una lettura e consultazione irrinunciabile per coloro i quali, noi tra questi, approfondiscono le vicende della storia evolutiva del linguaggio fotografico, affrontato non soltanto nelle proprie componenti propriamente interne (al dibattito soltanto fotografico), ma proiettato nel proprio percorso di andata-e-ritorno verso e dalla società: in Italia, edizione Einaudi Fotografia e società ( Riflessione teorica ed esperienza pratica di un’allieva di Adorno; 1976, più recente edizione 2007). Presentata nella qualificata e prestigiosa Galleria Carla Sozzani di Milano, uno degli indirizzi privilegiati della fotografia contemporanea, Ritratti d’autore è una mostra che ripercorre una delle direttive principali della fotografia di Gisèle Freund: come rivela subito il titolo esplicito (ben vengano e ritornino queste identificazioni chiare e dirette), si tratta di una selezione di avvincenti ritratti di scrittori, intellettuali e artisti. Realizzati dagli anni Trenta, questi ritratti sono d’autore su una linea quantomeno doppia: autore fotografo che li ha realizzati e autori scrittori che sono raffigurati; pardon rappresentati, e la differenza è sostanziosa. Editata, prodotta e curata da Elisabeth Perolini e Grazia Neri, la cui Agenzia rappresenta Gisèle Freund in Italia, la mo-
Una consistente mostra antologica celebra Gisèle Freund, straordinaria autrice che ha attraversato il Novecento, consegnando una significativa quantità e qualità di visioni del proprio tempo alla storia del linguaggio fotografico, ma anche alla Storia nel proprio complesso. Nello specifico, una avvincente galleria di coinvolgenti ritratti di scrittori, intellettuali e artisti, realizzati dagli anni Trenta 26
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stra ripercorre la vita professionale della grande fotografa, distribuendosi in un arco di tempo che si estende dagli anni Trenta fino ai Novanta, attraversando così tutto il Novecento. Le immagini esprimono l’incredibile percezione visiva di Gisèle Freund, influenzata da diversi incontri, milieux e culture, e ispirata dalle luci e colori dei paesi nei quali ha viaggiato e vissuto. Il percorso espositivo rivela la raffinatezza di una visione fotografica capace di proporre con intelligenza atmosfere, eventi e personaggi del proprio tempo. In mostra, ritratti di André Malraux, James Joyce, Walter Benjamin, Virginia Woolf, André Gide, Tristan Tzara, T.S. Eliot (Thomas Stearns), Jean Cocteau, Henri Matisse, Simone de Beauvoir, Marguerite Duras. Nei ritratti realizzati da Gisèle Freund, la fotografia esprime la personalità dei soggetti. Con stile inconfondibile, l’autrice utilizza la comunicazione visiva per restituire un momento particolare e rappresentativo di ognuno dei grandi personaggi incontrati. Dal catalogo che accompagna l’esposizione degli originali fotografici di Ritratti d’autore, pubblicato da Silvana Editoriale (144 pagine; 35,00 euro), riprendiamo e proponiamo il testo introduttivo di Grazia Neri, intitolato Un esempio di libertà. A.G.
egli anni Ottanta, Gisèle Freund esprime una definizione estremamente onesta sul lavoro del fotografo e sul ruolo della fotografia, che ritengo utile riportare qui: «Nella propria funzione sociale, la fotografia è oggi un mass-media di importanza capitale, perché niente uguaglia la forza di persuasione dell’immagine, accessibile a tutti. Però, per un esiguo numero di fotografi [aggiungo a quei tempi], e io sono tra quelli, l’immagine è ben più che un mezzo di informazione: attraverso la macchina fotografica, questi autori esprimono se stessi». Ho richiamato questa definizione perché trovo che con poche parole Gisèle Freund abbia dato una valutazione precisa del valore della sua grande produzione fotografica. Produzione che non è ancora stata esaminata nella propria interezza, ma che è stata resa possibile dalla incredibile vita di questa artista. Ho una grande ammirazione per la forza morale, la positività, l’entusiasmo e la grandissima cultura, non solo letteraria, ma anche politica, di questa intellettuale, che ha vissuto una delle vite più autenticamente libere che io conosca (malgrado le grandi difficoltà oggettive, guerra e fuga dal nazismo, malattia e miseria, sra-
GISÈLE FREUND: AUTORITRATTO, 1929
D’AUTORE dicamenti improvvisi): e non sarebbe stato possibile senza la sua grandissima intelligenza e senza la mitica figura paterna. Non c’è giorno che non si legga, da parte di studiosi neurologi-filosofi, una nuova definizione sull’intelligenza; una che mi è cara sostiene che l’intelligenza è la capacità di adeguarsi alle circostanze. Premessa: non una rassegnazione, ma la possibilità data dalla flessibilità della propria mente e del proprio carattere, nutrita da una visione interdisciplinare del mondo, di adeguarsi alle mutevoli situazioni che la vita riserva, sia per nostra scelta sia per destino. Ma perché questa flessibilità è possibile? Secondo me, per un desiderio intimo di libertà. Libertà di esprimere se stessi nel privato, nel pubblico, nel lavoro con quello che noi siamo -malgrado le circostanze-, per uno spirito avventuroso e un carattere positivo, per una educazione che privilegia l’altro rispetto a noi stessi, ricca di stimoli intellettuali, letture precoci, accettazione, fatica e studio, non vissuti come peso, ma come chiave di apertura verso la conoscenza e la mancanza di pregiudizio. Cosa ha fatto di così straordinario Gisèle Freund? Di fronte agli sradicamenti e avversità improvvise, si è immediatamen-
te resa operosa nel continuare la propria opera di documentazione rivolta a due settori specifici: il ritratto di intellettuali e politici e il reportage. Non si è mai scoraggiata, ha trovato in se stessa la forza di adeguarsi a mondi e luoghi sconosciuti. Cosa ha significato come figura mitica per me? Prima ancora di sapere che la fotografia avrebbe svolto una parte importante nella mia vita, da ragazza avevo una voracità di lettura sulla quale costruivo e cercavo di capire il mio desiderio di libertà, e soprattutto una ricerca di sua definizione. Nei libri che leggevo e amavo, notavo che il retro di copertina riproduceva spesso il ritratto dell’autore, sul quale mi soffermavo a lungo, quasi per andare oltre quanto avevo appena letto attraverso l’analisi fisionomica dello scrittore (si è estremamente infantili in questo gioco, per fortuna). A fianco dei ritratti, spesso leggevo una certificazione: “G. Freund”. Nasce lì, la mia profonda passione per il diritto d’autore? Quando, all’età di diciotto anni, la fotografia entrò inaspettatamente nel mio mondo, e mentre la mia curiosità verso la comunicazione visiva diventava una ossessione necessaria alla mia vita, cominciai a considerare questo nome, Gisèle
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ANDRÉ MALRAUX; PARIGI, 1935 JEAN COCTEAU; PARIGI, 1939 JAMES JOYCE; PARIGI, 1939
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Freund, come un mito. Ma come ha potuto accostarsi a tutti gli scrittori contemporanei viventi in paesi e continenti diversi?, mi domandavo. Come ha potuto riempire l’immaginario di migliaia di appassionati lettori di tutto il mondo con i volti di James Joyce, Virginia Woolf, Jean Cocteau, Raymond Queneau, Victoria Ocampo, e altri e altri ancora? Come ha potuto trascorrere così tanto tempo e serate con i più grandi intellettuali e politici di un’epoca tanto significativa, che ha proiettato in avanti la propria lunga ombra e influenza? Ancora: come ha potuto fotografare Walter Benjamin alla Bibliothèque nationale di Parigi? E come ha potuto fotografare per tanti anni André Malraux, comunicando in ogni ritratto una palpabile e palpitante febbre di vita e curiosità intellettuale inestinguibile? E come ha potuto fotografare insieme il presidente Charles De Gaulle e lo scrittore André Malraux, riuniti in una inquadratura storica e avvolti da una luce mitica? Come ha potuto condurre una vita nella quale la sua femminilità, pur non essendo repressa (un matrimonio, un divorzio e dei compagni di lunga durata), è stata spesso in competizione con gli uomini, nonostante sue condizioni di difficoltà? Lei, con le conseguenze di una poliomielite, con la quale, pur zoppicando, nel 1943 attraversò Cile, Argentina e Patagonia, fino a Punta Arenas? Agli inizi degli anni Settanta, un giorno le scrissi esprimendole la mia ammirazione, e le chiesi di rappresentarla. Accettò immediatamente, e scoprii allora altri infiniti tesori della sua
SUSAN SONTAG; NEW YORK, 1975
produzione, ma soprattutto cominciai ad apprezzare la sua biografia, la sua vita, la sua incredibile curiosità, la capacità di critica, la sua conoscenza politica del mondo. E cominciai a leggere i suoi scritti sulla fotografia: a partire dalla sua celebre tesi universitaria Fotografia e società (che Einaudi ha recentemente ripubblicato in una nuova, sofisticata edizione), uno dei testi autenticamente discriminanti per capire la fotografia, l’etica della commercializzazione, la nascita dei magazine. A proposito dell’incredibile consistenza della sua produzione fotografica, sia in termini qualitativi, prima di tutto, sia dal punto di vista quantitativo, in allineamento, Gisèle Freund scrive: «Non ho mai preteso di fare un’opera d’arte né inventare nuovi linguaggi, ma ho voluto rendere visibile quel che mi stava a cuore: l’essere umano, le sue gioie, le sue pene, le sue speranze, le sue angosce [...] con un linguaggio accessibile a tutti». Per me, queste parole attraversano i decenni: si riferiscono alle sue prime fotografie sulla nascita del nazismo, scattate a Francoforte, come al suo primo grande reportage sugli scioperi dei minatori inglesi, come -ancora- alle fotografie dei Palestinesi e degli Ebrei, scattate nel 1981. Gisèle Freund non ha mai smesso di fare soprattutto due cose: fotografare gli intellettuali, espressione visiva che lei prediligeva, e fotografare gli avvenimenti che accadevano dove lei si trovava, o dove si recava per “fare chiarezza”. Non ha mai fotografato cadaveri, e proprio per questo le sue fotografie hanno una forte componente politica. Nel 1950, le fotografie del-
la vita privata di Evita Peron, riprese per Life, crearono un certo imbarazzo diplomatico con il governo argentino. Senza sapere che non l’avrei più rivista, ma temendo che non l’avrei più rivista, l’ho incontrata per l’ultima volta nel mio ufficio, nella primavera 1996, quando Lanfranco Colombo allestì la sua mostra Itinerari alla Galleria Il Diaframma. Aveva ottantasei anni, ed era vispa e positiva come sempre. Scherzando con i suoi piccoli acciacchi, si rallegrava dei soggiorni in Bretagna, che la ristoravano, e del fatto che aveva ripreso a lavorare per Libération. Quella volta, abbiamo parlato di collezionismo e lei, con non celata civetteria, si mostrò felicemente sorpresa della quantità di ritratti di scrittori che gli venivano richiesti. Non sono un’artista, diceva (e lo ha scritto diverse volte); per me, invece, lo è stata: ed è stata una maestra. Da lei ho imparato l’importanza della didascalia corretta, del “credito del fotografo”, dell’integrità di un servizio, del recupero delle immagini preziose. Da lei ho appreso che la positività e il coraggio rendono la vita ricca e senza noia. Da lei, che adorava il suo papà, ho trovato ancora una volta la forza di ricordare mio padre, che per quel poco che ha vissuto mi ha dato così tanto, indirizzandomi allo studio e alla lettura. Tra le fotografie appese nel mio appartamento, c’è un suo ritratto di André Malraux, bellissimo e affascinante, passionale. Sembra un attore dell’epoca. Per realizzare un tale (e tanto) ritratto bisogna avere una eccezionale conoscenza del
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COLETTE; MONTECARLO, 1954
soggetto, coltivata e maturata attraverso l’approfondimento e comprensione delle sue opere. Ho molti rimpianti. Che cosa si sono dette, quando Gisèle ha incontrato la allora bellissima e giovane Susan Sontag? (Per curiosa coincidenza e circostanza, entrambe autrici di opere fondamentali sulla fotografia: rispettivamente, il già ricordato saggio Fotografia e società e Sulla fotografia, pure in edizione italiana Einaudi). Come hanno interagito? Non sapevo di questo incontro, che scopro attraverso una fotografia che trovo per la prima volta in questa mostra: e ora non posso chiederlo a nessuna delle due [Come riportato subito in apertura di questo intervento redazionale, Gisèle Freund è mancata nel 2000, a novantuno anni di età; Susan Sontag è morta nel dicembre 2004, a settantuno anni (commemorazione in FOTOgraphia del febbraio 2005)]. E poi, tra tante altre importanti considerazioni sul mezzo, quanto avrà discusso Paul Valéry con la giovane laureata Gisèle, che proprio in quel periodo gli scattò un meraviglioso ritratto accanto alla sua disordinata scrivania, quando, nel 1939, fu invitato dalla Sorbona di Parigi a celebrare il centenario della nascita della fotografia? (In occasione del quale scrisse un memorabile testo, nel quale segnalò che «La fo-
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tografia abituò gli occhi ad aspettare ciò che questi devono vedere, e dunque a vederlo»). Mi auguro che, in un immediato futuro, la Francia raccolga e ordini l’opera e gli interventi teorici di Gisèle Freund, straordinaria protagonista della fotografia del Novecento, e le dedichi una istituzione pubblica, addirittura un museo. Chiudo con una frase da lei scritta in Memoires de l’œil: «Nei momenti di pericolo, il mio istinto di conservazione si risveglia. Mi ha salvato la vita diverse volte». Così ha attraversato una vita mitica e invidiabile, che ci ha riempito di doni. Ha ragione la storica di fotografia Lydia Oliva nell’affermare «Non si può isolare l’opera di Gisèle Freund dalla sua vita». Grazia Neri Gisèle Freund: Ritratti d’autore. A cura di Elisabeth Perolini e Grazia Neri. Galleria Carla Sozzani, corso Como 10, 20154 Milano; 02-653531, fax 02-29004080; www.galleriacarlasozzani.org, info@galleriacarlasozzani.com. Dal 13 gennaio al 24 febbraio 2008; lunedì 15,30-19,30, martedì-domenica 10,30-19,30, mercoledì e giovedì fino alle 21,00. La mostra si accompagna con una rassegna di libri e monografie, che offrono una visione globale dell’opera di Gisèle Freund e del periodo storico che ha attraversato, tra i più stimolanti e fertili del Ventesimo secolo.
MADONELLA QUARTIERE
BARI:
BARI0607 F
ino al prossimo due marzo, accanto la propria esposizione permanente di quadri, la Pinacoteca Provinciale di Bari presenta la recente campagna fotografica realizzata da Gabriele Basilico nel capoluogo pugliese. Inaugurata a metà dello scorso ottobre (FOTOgraphia, ottobre 2007), Basilico.Bari0607 è una rilevazione che stabilisce i connotati di una attenta declinazione fotografica, maturata in un consistente percorso d’autore. Tanto che, in mostra, le opere sono presentate in quanto tali, senza ulteriore indicazione di luogo o appartenenza, a parte il contenitore esplicito nel titolo: corpus di una osservazione che non dipende dai singoli soggetti, ma si richiama a un complesso di immagini in correlazione e conseguenza le une alle altre. Personalmente, lo dobbiamo rilevare, azioni di questo tipo ci mettono in leggera apprensione e allarme, perché siamo ancora convinti che la fotografia da sé non basti, e abbia sempre
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Intensa campagna fotografica di Gabriele Basilico, che una volta ancora esprime la profondità espressiva della sua visione delle città. Esposta nel capoluogo pugliese, soggetto esplicito (e implicito?) dell’osservazione, la mostra degli originali si accompagna con un volume-catalogo arricchito di concentrati saggi critici. E poi, due parole anche per la produzione degli impeccabili ingrandimenti
RAFFINATO BIANCONERO ovanta impeccabili ingrandimenti fotografici. Oltre il valore espressivo delle immagini, nella propria esposizione alla Pinacoteca Provinciale di Bari, Nla campagna Basilico.Bari0607 si rafforza formalmente con una incessante se-
Basilico.Bari0607. Volume-catalogo della mostra, a cura di Clara Gelao; in introduzione, intervista di Clara Gelao a Gabriele Basilico e saggi di Carlo Bertelli ( Narrare Bari, oggi), Giandomenico Amendola ( Strana città, Bari) e Alessandro Piva ( Bari senza titolo); Federico Motta Editore, 2007 (via Branda Castiglioni 7, 20156 Milano; 02-300761, fax 02-38010046; www.mottaeditore.it, editor@mottaeditore.it); 120 illustrazioni in bicromia; 160 pagine 29x25cm, cartonato; 44,00 euro.
bisogno di parole di identificazione filologica, di introduzione al tema, all’azione, alla rilevazione, a ciò che è. Ci preoccupa la proiezione dell’immagine all’esterno del ristretto e colto circuito degli addetti, che conoscono le personalità degli autori e ne intuiscono le maturazioni ed evoluzioni espressive. Nello specifico, non si tratta tanto di identificare una strada o un quartiere (come pure precisiamo nei nostri odierni crediti di accompagnamento), quanto di stabilire il senso, spessore e valore di un’azione fotografica, il più delle volte estranea alle conoscenze del pubblico visitatore (generico, per propria natura). Tanto più che questa selezione Basilico.Bari0607, accompagnata in mostra da interventi sonori di Alessandro Piva, rappresenta una tappa del percorso espressivo di Gabriele Basilico ampiamente comprensibile e condivisibile soltanto dal mondo della fotografia, che sa osservare oltre la sola apparenza delle immagini. Come spesso accade, oltre l’esposizione degli originali (per i quali, a parte, riferiamo sostanziali e sostanziosi dettagli produttivi: riquadro pubblicato qui accanto), è discriminante il volume-catalogo che accompagna la mostra, sopravvivendole ed estendendosi potenzialmente nelle case di ciascuno, arricchito di compendiosi saggi di riflessione: Carlo Bertelli, Narrare Bari, oggi; Giandomenico Amendola, Strana città, Bari; Alessandro Piva, Bari senza titolo; e intervista a Gabriele Basilico di Clara Gelao, direttrice della Pinacoteca Provinciale di Bari, che ha curato la mostra, con la consulenza e coordinamento della parte fotografica di Cosmo Laera. La fotografia di Gabriele Basilico è da tempo nota, oltre che apprezzata. Una volta di più, con un passo di diversa cadenza, le sue visioni non rappresentano ciò che la superficie apparente delle immagini raffigura: non file di fabbricati, inquadrati e composti con il rigore formale che definisce lo stilema dell’autore (e che ha fatto Scuola, maiuscola volontaria e d’obbligo), ma, come sempre, autentici momenti di esistenza fisica, di realtà esistenziale. Città di mare, come molte altre di quelle osservate da Gabrie-
quenza di ottime stampe bianconero. E di questo, è anche necessario parlare. Prodotti dal Fotolaboratorio De Giglio del capoluogo pugliese (via Cagnazzi 34a; 080-5013610; www.degiglio-kolt.it), uno dei più prestigiosi indirizzi italiani per la stampa di mostre fotografiche d’autore e la stampa professionale in generale, gli ingrandimenti sono stati ottenuti con carta fotografica bianconero e processo digitale Lambda. La loro qualità è direttamente proporzionale a una efficace interpretazione della stampa fotografica, per ottenere la quale è stata definitivamente alterata una sviluppatrice in banda originariamente indirizzata al processo a colori. I titolari Michele Fanelli, Mario De Giglio e Michele De Giglio hanno affrontato le problematiche dalla radice. Anzitutto, la sviluppatrice colore, con temperatura di macchina da trentacinque a trentasette gradi, in dipendenza della produttività richiesta, è stata convertita alle esigenze del bianconero abbassando la temperatura operativa (ventuno gradi) e rallentando, a conseguenza, il processo: limitata redditività produttiva a fronte di una risposta ottimale. Non entriamo in dettagli da addetti al lavoro, che magari possono inorridire per queste semplificazioni, necessarie alla comprensione dei non addetti, ma sottolineiamo che la temperatura di trattamento inferiore serve alla carta bianconero per mantenere la propria curva di contrasto ottimale, senza perdere di sensibilità. Dalla teoria alla pratica, per arrivare al risultato finale -universalmente apprezzato-, dopo l’acquisizione digitale dai negativi originari, le fasi di stampa degli ingrandimenti di Gabriele Basilico hanno scandito i tempi di prove successive, relative correzioni e modifiche: tra autore e attento stampatore, con l’immancabile coordinamento operativo di Cosmo Laera. Cosmo Laera e Michele Fanelli con una provinatura dei soggetti della mostra Basilico.Bari0607. Michele Fanelli srotola una delle provinature che hanno preceduto la stampa definitiva degli ingrandimenti della mostra di Gabriele Basilico. Annotazioni di Gabriele Basilico per la correzione in stampa delle sue fotografie di Bari0607, da allestire in mostra alla Pinacoteca Provinciale.
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nata: «In questo racconto fotografico Bari c’è tutta, con il suo permanente e instabile equilibrio sul filo di realtà, allusione e metafore. Quelli che sembrano solo fabbricati messi in bella fila, sono momenti di una città. C’è un filo rosso che li tiene insieme per farne, anche se distanti e intenzionalmente stralciati dal contesto, l’insieme di una città per molti aspetti insolita. La meno meridionale delle città meridionali o la più meridionale di tutte, Bari è stata definita città senza ironia e malinconia da un fine letterato, Mario Sansone, proveniente non casualmente da Napoli che, per i suoi caratteri opposti è, da sempre, insieme il sogno e l’incubo per i baresi». Ribadisce Carlo Bertelli, sempre in introduzione al volumecatalogo, concludendo la sua riflessione Narrare Bari, oggi: «È questa contemplazione seria, meditativa e rigorosa che affascina nelle fotografie di [Gabriele] Basilico, facendo di lui una figura unica di vero ritrattista di città. Le sue sono città senza cronaca -tranne quella testimoniata dai manifesti che sbiadiscono al sole- poiché, qualunque cosa si faccia, nella e alla città, ha comunque una lunga permanenza, è carica di conseguenze, segna un destino. Così la città di [Gabriele] Basilico disegna sempre un futuro mentre registra un presente».
BARI:
QUARTIERE
POGGIOFRANCO
le Basilico all’indomani della sua partecipazione alla straordinaria Mission Photographique de la Datar, a metà degli anni Ottanta, Bari è assolutamente unica, come uniche sono, in definitiva, tutte le città del mondo, disegnate e definite da proprie storie, proprie vicende, propria vita. Straordinario ponte sul vicino medio oriente, tanto da ospitare quella Fiera del Levante nata proprio per lanciare l’economia nazionale verso lidi ricettivi, Bari è una città estremamente moderna e razionale, che al proprio interno conserva e preserva fantastiche vicende storiche e religiose e custodisce la memoria della propria origine: in quella Bari Vecchia, che è stata risanata di recente (e ridotta a «scatola di ricordi storici, residenze signorili ed eventi di cronaca»: dalla presentazione della mostra, sulla cui idea non ci allineiamo completamente, anzi). A chi non la sa decodificare, l’apparenza dell’osservazione fotografica di Gabriele Basilico potrebbe indurre in errore: guai pensare a un suo distacco con i soggetti che compone sul vetro smerigliato del suo apparecchio fotografico, inviolabilmente fissato su treppiedi (l’annotazione tecnica riguarda l’applicazione implicita di un linguaggio). Al contrario, i suoi racconti sono emotivamente partecipati. Annota Giandomenico Amendola nella sua introduzione Strana città, Bari, appena menzio-
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BRIGATA REGINA VIA
BARI: CENTRALE
BARI: STAZIONE
Come abbiamo già annotato, ma la ripetizione si impone, l’azione fotografica di Gabriele Basilico si dispone in una direzione che chiama direttamente in causa etica ed espressione. La comunicazione visiva, ovvero l’intensità espressiva, dipende direttamente dall’applicazione ragionata e coerente delle qualità potenziali del proprio mezzo. È nell’organizzazione e applicazione di una effettiva oggettività (pur nella soggettività del pensiero dell’autore) che entra in campo il punto di vista del fotografo nei confronti della rappresentazione, che non sia soltanto raffigurazione semplificata, che dipende sopra tutto dalla sintonia tra emozioni e intelletto. Prima di scattare, il soggetto è osservato nei termini della propria traduzione fotografica, per essere organizzato a esprimere una personalità esplicita, piuttosto che usato come forma astratta, per creare un’emozione senza legami con l’oggettività raffigurata in quanto tale. E qui usiamo i termini con un consapevole minimo scarto di significato. Tanto che, in conclusione, è indispensabile chiudere con una delle risposte dell’intervista che Gabriele Basilico ha rilasciato a Clara Gelao, che introduce il volume-catalogo Basilico.Bari0607, anticipando i saggi già ricordati. Sottolinea Gabriele Basilico: «La parola “oggettività” non esiste in arte, e tanto meno in fotografia. Il punto di vista è sempre una scelta, anche minima, di soggettività; e questa viene trasferita all’oggetto nel processo visivo-fotografico. È evidente che è sempre esistita, e continua a esistere, una fotografia apparentemente oggettiva, che anche i critici e gli storici chiamano “documentaria”, oppure “descrittiva”, dove cioè l’immagine fotografica coincide esattamente con il soggetto ripreso. È ovvio, però, che bisogna distinguere tra una fotografia descrittiva, che ci trasferisce tutte le informazioni possibili del soggetto senza rilasciare emozioni o porci quesiti, e una fotogra-
fia simile, corrispondente, che libera sentimenti o reazioni speciali. Possiamo aggiungere, forse, la distinzione che spesso viene fatta tra visibile e invisibile, intendendo cioè la capacità che la fotografia ha di farci vedere più cose di quelle che, forse in modo distratto, noi siamo in grado di percepire». Maurizio Rebuzzini Basilico.Bari0607. A cura di Clara Gelao; consulenza e coordinamento parte fotografica di Cosmo Laera. Interventi sonori in mostra di Alessandro Piva. Pinacoteca Provinciale, Palazzo della Provincia di Bari, lungomare Nazario Sauro 27 (piano quarto), 70121 Bari; 080-5412422, fax 080-5588147; www.retepuglia.uniba.it/Pinacoteca. Fino al 2 marzo 2008; martedì-sabato 9,30-13,00 - 16,00-19,00, domenica 9,00-13,00.
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Lizzie Sadin si è imposta al Visa d’Or Magazine 2007 con un eccellente e intenso reportage dedicato alle sofferenze giovanili nel mondo, durato otto anni: più di un milione di bambini vivono in prigioni, senza poter contare sull’aiuto di un avvocato. Le serate di proiezione di Visa pour l’Image si svolgono al Campo Santo, il chiostro a lato della cattedrale dedicata a San Giovanni.
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erpignan, Francia, ai piedi dei Pirenei orientali, venerdì sette settembre. Sono appena passate le dieci di sera. Anche quest’anno, il Campo Santo, il chiostro a lato della cattedrale dedicata a San Giovanni, ospita le serate di proiezione di Visa pour l’Image. Centinaia di persone sono riunite sulle gradinate davanti all’enorme schermo e aspettano che lo spettacolo cominci. Nota di cronaca: questa sera, per entrare, non si è dovuta subire la solita affollatissima coda, come è spesso (sempre) accaduto nelle precedenti edizioni di questo straordinario festival del fotogiornalismo internazionale, molto probabilmente il più importante al mondo. Si mormora che c’è crisi in giro, non ci sono più soldi, i giornali non mandano i propri photo editor e chi deve pagare di tasca sua resta a casa (non è il mio caso). La serata comincia puntuale, con la consegna del
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Premio riservato al Jeune Reporter (riquadro a pagina 40). Poi, con un ritmo via via più incalzante e una colonna sonora molto efficace, si susseguono proiezioni dedicate a temi di grande fotogiornalismo: le notizie del giorno, il riassunto di quelle degli scorsi maggio e giugno, la guerra declinata con le immagini di Magnum Photos, a celebrazione dei suoi sessant’anni [altrove passati sotto silenzio], un bel reportage in bianconero sulla campagna elettorale di Nicolas Sarkozy, eletto all’Eliseo in primavera, stilisticamente molto distante dalla iconologia classica dei giornali people, anche di quelli come Paris Match. Fino allo straordinario lavoro di Ed Kashi sul problema del petrolio in Nigeria, una risorsa da nababbi, che invece ha portato povertà alle popolazioni locali: distruzione del territorio, infime condizioni di vita, fame, morte [www.edkashi.com]. Grazie alla proiezione, si è potuto apprezzare questo lavoro nella sua reale dimensione, cui le ventotto
PERPIGNAN UNA
LELLO PIAZZA
pagine e le tredici fotografie del numero di febbraio 2007 del National Geographic Magazine, suo committente, non hanno reso giustizia. In Italia, il servizio è stato pubblicato dal Magazine del Corriere della Sera, ma, purtroppo, su sole sette pagine: meglio di niente. Un lavoro così imponente merita la raccolta in libro. C’è già un editore americano interessato, e Chiara Mariani, photo editor del Magazine, appena citato, è stata incaricata di scriverne la prefazione. Queste proiezioni di Visa pour l’Image 2007, a completamento del suo intenso programma, non solo contorno, sono molto importanti e significative, perché offrono un’occasione unica a chi non sta in un giornale: qui si possono incontrare e vedere servizi fotografici che, in precedenza e in genere, sono girati soltanto nelle redazioni come proposte per la pubblicazione [www.visapourlimage.com]. Se ti abbandoni alle immagini che si susseguo-
Ogni anno, il fotogiornalismo internazionale analizza la propria personalità in occasione dell’appuntamento di Visa pour l’Image. La diciannovesima edizione dello scorso settembre ha confermato una linea di tendenza, al basso, che da tempo attraversa l’editoria di tutto il mondo. Conforta la nascita di una nuova agenzia, creata con presupposti convincenti, e sono condivisibili i premi assegnati. Cronaca e commenti
VOLTA ANCORA
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PREMI VISA 2007
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rima di tutto, una doverosa precisazione: i premi Visa d’Or non hanno un corrispettivo in denaro. Rappresentano soltanto, ovvero soprattutto, un riconoscimento simbolico al valore del lavoro di un fotogiornalista o di un giornale. In ordine, le assegnazioni attribuite nel corso di Visa pour l’Image 2007, svoltosi a Perpignan, in Francia, ai piedi dei Pirenei orientali, dal Primo al sedici settembre scorsi. ❯ Visa d’Or News. Kadir van Lohuizen (Noor): Ciad. Nel novembre 2006, si è registrata una recrudescenza degli attacchi ai villaggi nel Ciad orientale. Molti feriti, alcune vittime, migliaia di profughi in fuga. La situazione è destinata a peggiorare, perché nella zona, oltre gruppi armati locali, sono presenti ribelli dal Sudan e non meglio identificate milizie arabe. È convinzione comune che il governo sudanese, per indebolire il governo di N’Djamena, ritenuto responsabile di appoggiare gruppi ribelli nel Sudan, voglia esportare nel Ciad il conflitto del Darfur, armando appunto milizie arabe [pagina accanto]. Altri finalisti: Michael Kamber (The New York Times): Iraq; Benoît Schaeffer: Somalia. ❯ Visa d’Or Magazine. Lizzie Sadin: situazione giovanile. Nel mondo, più di un milione di bambini vivono in prigioni, senza poter contare sull’aiuto di un avvocato. In moltissimi paesi non esistono tribunali per i bambini, o giudici speciali, il che è in contrasto con i trattati internazionali. Il reportage di Lizze Sadin prosegue da otto anni, e riguarda paesi come Stati Uniti, Russia, Colombia, Madagascar, Francia, Israele, India, Palestina, Brasile, Cambogia [a pagina 38]. Altri finalisti: Jane Evelyn Atwood (Agence VU / Contact Press Images): Haïti [a pagina 43]; Samuel Bollendorff (Œil Public): China; Diane Grimonet (Fedephoto): I senza diritti in cento fotografie; PerAnders Pettersson (Getty Images): Soweto. La giuria dei due premi era presieduta da Michael Rand, art director del The Sunday Times
(pagina accanto, in alto, a sinistra) Dal reportage Ciad, di Kadir van Lohuizen (Noor), Visa d’Or News 2007, concentrato sulla recrudescenza degli attacchi ai villaggi nel Ciad orientale. Molti feriti, alcune vittime, migliaia di profughi in fuga.
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dal 1964 al 1996. Gli altri componenti erano Barbara Clément (Elle), Per Folkver (Politiken), Romain Lacroix (Paris Match), Christian Pohlert (Frankfurter Allgemeine Zeitung), Scott Thode (Fortune), Zana Woods (Wired). ❯ Visa d’Or Presse Quotidienne Internationale (riservato alla stampa quotidiana internazionale, per la pubblicazione del miglior reportage fotografico): Reforma, quotidiano messicano con centoquarantamila copie di circolazione, per la sua copertura dei disordini nella città di Oxaca del novembre 2006. I reportage sono stati realizzati dai fotogiornalisti Israel Rosas, Luis Castillo, Jorge Luis Plata e Julio Candelaria [pagina accanto]. La vittoria di Reforma mostra che per pubblicare buoni reportage fotogiornalistici non occorrono i budget di chi vende un milione di copie. Altri quotidiani finalisti (in ordine alfabetico, con precisazione dei fotogiornalisti autori del reportage pubblicato): 20 Minutes (Francia; Serge Pouzet); Aftonbladet (Svezia; Magnus Wennman); Boston Globe (Usa; Jean Chung); Corriere della Sera (Italia; Mauro Galligani, Gianni Giansanti, Ziv Koren, Gérard Rancinan); Dagbladet (Norvegia; Jacques Hvistendahl); Dagens Nyheter (Svezia; Paul Hansen); Dallas Morning News (Usa; Michael Ainsworth, Melanie Burford, Tom Fox, Rick Gershon, Brad Loper, Mona Reeder, Irwin Thompson); De Volkskrant (Olanda; Daniel Rosenthal); Detroit Free Press (Usa; Susan Tusa); Ekstra Bladet (Danimarca; Thomas Sjorup); Frankfurter Allgemeine Zeitung (Germania; Wolfgang Eilmes, Helmut Fricke, Daniel Pilar, Frank Röth, Christian Thiel); Gazeta Wyborcza (Polonia; Robert Kowalewski, Krzysztof Miller); Jyllands Posten (Danimarca; Casper Dalhoff);
no, enormi, sullo schermo, ti convinci di essere nello stesso luogo dove sono stati realizzati i reportage, di camminare nella miseria, di accostare e percepire il dolore degli altri [purtroppo, e suo malgrado, ancora e sempre una delle discriminanti del fotogiornalismo dei nostri giorni, come approfondisce Susan Sontag nel suo saggio omonimo; FOTOgraphia, ottobre 2004]. E la paura ti si appiccica addosso, ti senti osservato da sguardi perduti, infuriati, piangenti e senti l’odore della morte e il fragore delle esplosioni, come nelle fotografie di Alvaro Ybarra Zavala (Agence VU) sull’Iraq. Di quasi tutte le immagini, il momento e l’inquadratura sono talmente perfetti, che ti domandi se non siano costruite. Ma no, che diamine! Come possono avere avuto il tempo di mettere in piedi un teatrino in mezzo a tutta quella morte, a tutto quel dolore? Alla fine della serata, insieme a Jean-François
Kommersant (Russia; Dmitry Azarov); L’Indépendant (Francia; Michel Coupeau); L’Orient Le Jour (Libano; Michel Sayegh); La Presse (Canada; Ivanoh Demers, André Pichette, Patrick Sanfacon); La Presse de la Manche (Francia; Jean-Paul Barbier); Los Angeles Times (Usa; Carolyn Cole); New York Newsday (Usa; Moises Saman); Politiken (Danimarca; Jan Grarup); The Globe and Mail (Canada; Louie Palu); The Guardian (Inghilterra; Sean Smith); The New York Times (Usa; Michael Kamber); The Sydney Morning Herald (Australia; Lisa Wiltse); The Washington Post (Usa; Sarah L. Voisin). La giuria era composta da tre fotogiornalisti (Akintunde Akinleye, Reuters; Paul Fusco, Magnum Photos; e Yannis Kontos, Polaris) e tre photo editor (Cyril Drouhet, Figaro Magazine; Dirck Halstead, The Digital Journalist; e Marc Simon; VSD). ❯ Prix du Jeune Reporter (assegnato dalla città di Perpignan; ottomila euro): Mikhael Subotsky (Magnum Photos), per il suo reportage sulla criminalità e le carceri del Sudafrica [a pagina 42]. ❯ Prix Canon de la Femme Photojournaliste (ottomila euro offerti da Canon France in partnership con Afj - Association de Femmes Journalistes, con il supporto di Figaro Magazine): Axelle de Russé (Abaca), per il suo progetto di un reportage sul ritorno della prostituzione nella Repubblica popolare cinese (magari in previsione dei prossimi Giochi Olimpici del 2008). Le precedenti vincitrici sono state Magali Delporte (2001), Sophia Evans (2002), Ami Vitale (2003), Kristen Ashburn (2004), Claudia Guadarrama (2005) e Véronique de Viguerie (2006). ❯ Grand Prix Care International du Reportage Humanitaire (ottomila euro): Jean Chung (World Picture Network), per il suo reportage sulle donne che muoiono di parto in Afghanistan, secondo le stime più accreditate venticinquemila ogni anno [a pagina 42].
Leroy, direttore di Visa pour l’Image, sale sul palco Michael Rand, art director del The Sunday Times dal 1964 al 1996. Come nebbia, scende un silenzio pieno di brusii, in attesa della proclamazione del Visa d’Or Magazine. Jane Evelyn Atwood era data in pole position (a pagina 43). A sorpresa, vince invece Lizzie Sadin, con un eccellente lavoro dedicato alle sofferenze giovanili nel mondo, durato otto anni, che l’ha portata negli Stati Uniti, in Russia, Colombia, Madagascar, Francia, Israele, India, Palestina, Brasile, Cambogia (a pagina 38). «Such an incredible body of work», sottolinea Michael Rand, motivando la scelta della giuria. Such an incredible body of work (Un incredibile corpo di lavoro): quante volte abbiamo già sentito questa formula. Non è una critica al mitico Michael Rand. Anzi, al contrario, intende essere un modo di solidarizzare con lui: non è sempre facile trovare pa-
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role nuove per motivare per l’ennesima volta la consegna di un premio. Anche se i concetti si ripetono, trasformandosi in stereotipi, i lavori ai quali le parole sono dedicate, no: sono sempre nuovi, freschi, coraggiosi, veramente incredibili.
ANNOTAZIONI Quest’anno, per molti, me compreso, l’appuntamento di Perpignan è stato un mordi-e-fuggi. Ma non limito la mia cronaca a una sola serata, per quanto intensa ed emozionante. Intanto, segnalo l’immagine straordinaria, scelta come simbolo di Visa pour l’Image 2007 (che abbiamo visualizzato in FOTOgraphia dello scorso lu-
glio), di Akintunde Akinleye, un fotogiornalista nigeriano dell’agenzia Reuters. Mostra una figura disperata, immersa in un paesaggio da inferno dantesco. In primo piano, rottami e cenere; sullo sfondo, fumi neri, che ancora ristagnano dopo l’esplosione di una tubatura per il trasporto del greggio. Siamo nei pressi di Lagos, la capitale della Nigeria. La didascalia racconta che l’esplosione è avvenuta nella notte del 26 dicembre 2006. Alcuni disperati armati hanno cercato di manomettere l’oleodotto, per rubare un po’ di petrolio. Ne è seguita un’esplosione che ha causato un enorme numero di feriti e, secondo la Croce Rossa, duecentosessantanove morti. Questa immagine ha vinto
Venerdì sette settembre, Palais des Congrès: conferenza stampa di presentazione della nuova agenzia fotogiornalistica Noor. (in alto) Il Visa d’Or Presse Quotidienne Internationale 2007 è stato assegnato al messicano Reforma, per la sua copertura dei disordini nella città di Oxaca del novembre 2006.
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grafie riservate a guerre, malattie, periferie degradate, carceri, delinquenza, spiccavano quelle di Paul Nicklen, realizzate per il National Geographic, dedicate agli animali dei fragili ecosistemi polari [www.paulnicklen.com]. Grazie a Dio, un certo tipo di fotografia comincia a essere considerata fotogiornalismo anche a Perpignan (pagina accanto).
NOOR
Mikhael Subotsky (Magnum Photos), Prix du Jeune Reporter per il suo reportage sulla criminalità e le carceri in Sudafrica. (in alto) Jean Chung (World Picture Network), Grand Prix Care per il suo reportage sulle donne che muoiono di parto in Afghanistan.
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il primo premio dell’edizione 2007 del World Press Photo nella categoria Spot News Singles (FOTO graphia, aprile 2007) [www.akintunde1.com]. Un po’ deludenti, invece, le mostre, con almeno due eccezioni che cito qui. La prima riguarda il bel lavoro di Sergey Maximishin (a pagina 44), che era presente e firmava la sua monografia The Last Empire. Twenty Years After -andata a ruba-, con approfondite prefazioni di Margot Klingsporn (direttrice dell’agenzia Focus Agentur di Amburgo) e Chiara Mariani (ancora lei!) [www.maximishin.com]. La seconda è una piacevole sorpresa: tra tutte le foto-
Infine, devo parlare di quello che si può considerare l’avvenimento della Diciannovesima edizione di Visa pour l’Image: l’annuncio della nascita della Noor (che in arabo significa luce): una nuova, particolare, agenzia fotografica [www.noorimages.com]. I fotogiornalisti che la compongono sono nove, in rappresentanza di otto nazionalità. Ci sono due donne, Samantha Appleton (Usa) e Jodi Bieber (Sudafrica), e sette uomini Philip Blenkinsop (Australia), Pep Bonet (Spagna), Jan Grarup (Danimarca), Stanley Greene (Usa), Kadir van Lohuizen (Olanda), Yuri Kozyrev (Russia) e Francesco Zizola (Italia). Il decimo personaggio coinvolto è Claudia Hinterseer, che ha lavorato per il World Press Photo e che sarà il direttore dell’agenzia. Basata ad Amsterdam (Olanda), Claudia Hinterseer sarà il punto di riferimento “stanziale” per i fotogiornalisti dell’agenzia, sempre in giro per il pianeta, e coordinerà il loro lavoro, tenendo anche i contatti con le redazioni dei giornali e ogni tipo di cliente potenziale. «Se non esistesse Internet -ha osservato Claudia Hinterseer-, un’agenzia così non potrebbe esistere». Il battesimo della Noor è avvenuto durante le proiezioni di giovedì sei settembre, al Campo Santo, con
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un lungo slide show (a pagina 41). Il modello ispiratore sembra quello della VII [per curiosa coincidenza partita a propria volta da Perpignan, nel settembre 2001: coincidenze che rivelano che la vita possa anche avere senso] o della Magnum Photos delle origini: fotografi di altissimo livello, che si aggregano, per disporre di un ufficio comune, e vincere, come il piccolo e abile Davide, nella lotta contro i giganti Corbis e Getty, che oggigiorno coprono l’ottanta per cento del mercato mondiale della fotografia. Forse, l’idea di riunire un gruppo di fotografi è venuta in mente allo statunitense Stanley Greene e all’olandese Kadir van Lohuizen (Visa d’Or News 2007, con Ciad ; a pagina 41) in occasione del successo della mostra e del relativo libro sugli effetti dell’uragano Katrina, realizzato con Thomas Dworzak e Paolo Pellegrin (FOTOgraphia, novembre 2006). Quando, qualche mese dopo la mostra, Christian Caujolle lascia l’Agence VU di Parigi, da lui fondata nel 1986, di cui Stanley Greene, Kadir van Lohuizen e Pep Bonet fanno parte, le cose diventano più urgenti: e si concretizzano nell’annuncio e nella già ricordata proiezione di giovedì sera, anticipatori della conferenza stampa al Palais des Congrès di venerdì mattina, della quale riporto, in sintesi, l’intervento di Stanley Greene. «Con il nostro lavoro, vorremmo riuscire a spingere la gente a riflettere», esordisce Stanley Greene. «Un tempo, nei giornali, un servizio fotografico copriva almeno venti pagine. Oggi, tutte le politiche redazionali sono schiave delle esigenze della gestione amministrativa dell’impresa, che non conosce né la fotografia né l’informazione, e ha a cuore soltanto gli utili a fine anno. Costoro rilevano: ma chi sono Jan Grarup e Pep Bonet?; a noi bastano solo un po’ di figure colorate per riempire gli spazi lasciati liberi dal testo [e dalla pubblicità]. E anche nei casi migliori, ai fotogiornalisti non viene neppure dato il tempo di realizzare servizi approfonditi. Infatti, le parole d’ordine sono: presto, presto, in fretta, non c’è tempo! La CNN ha definito la fotografia di oggi hurry up photo [che esprime l’idea di fotografare di corsa, con superficialità]. «A noi, che in qualche modo e misura ci sentiamo figli di Robert Capa, tutto questo appare come un insulto al suo insegnamento. Alla Noor, i fotogiornalisti avranno tempo per realizzare i propri servizi. Certo, non sarà una vita facile. Neppure noi
pensiamo che con servizi sul Darfur si riesca a sopravvivere. È triste, ma è così. Ma sbaglieremmo se il nostro pensiero guida fosse: quanto guadagnerò con questa fotografia? Ci chiederemo invece: che impatto avranno le nostre fotografie sul mondo? «Per sopravvivere, contiamo soprattutto su giornali come Time. Ma contiamo anche sulle molte persone che lavorano in giornali importanti in Europa e negli Stati Uniti e credono nel nostro progetto. «I lavori commerciali? Mai dire mai. Ma è evidente che un servizio come quello di Kadir van Lohuizen, che ha seguìto il percorso di un diamante dalle miniere del Congo all’anulare di una ricca signora, difficilmente potrà generare soldi dalla pubblicità». Dal pubblico si alza una domanda apparentemente ingenua, ma sottilmente provocatoria: «Fotograferete anche i vivi?». Risponde Samantha Appleton: «Non ci scusiamo se disturbiamo i vostri giorni sereni, costringendovi a pensare. Sappiamo che parte del pubblico ha problemi con notizie di
Esposto a Visa pour l’Image 2007, il reportage Haïti, di Jane Evelyn Atwood (Agence VU / Contact Press Images), è stato tra i finalisti del Visa d’Or Magazine. (in alto) Realizzato per National Geographic, il reportage di Paul Nicklen dedicato agli animali dei fragili ecosistemi polari è stato esposto a Visa pour l’Image 2007: oltre il dolore, un certo altro tipo di fotografia comincia a essere considerata fotogiornalismo anche a Perpignan.
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Ancora due mostre di Visa pour l’Image 2007: The Last Empire. Twenty Years After, di Sergey Maximishin (con monografia), e Red Utopia, realizzato clandestinamente in Corea del Nord da Yannis Kontos (Polaris), come abbiamo raccontato in FOTOgraphia dello scorso luglio.
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questo tipo, ma è proprio questo pubblico che ci sta più a cuore raggiungere». Da tutti è poi venuto un particolare ringraziamento per Jean-François Leroy, direttore di Visa pour l’Image e padrino dell’iniziativa, che nella presentazione di giovedì sera ha ricordato le mostre di otto dei nove fotogiornalisti di Noor, esposte in varie sezioni della corrente edizione del festival.
FRANCESCO ZIZOLA Infine, abbiamo chiesto a Francesco Zizola, l’italiano della Noor, cosa lo ha motivato a entrare nella
nuova affiliazione: «Mi è stato proposto da amici, e ritengo questo progetto particolarmente significativo e importante, soprattutto per la parte che riguarda i princìpi della fondazione -rileva Francesco-; in particolare, mi riferisco alla struttura no profit, che è stata creata per raccogliere fondi per i nostri progetti da vari enti e dalle Ong, le organizzazioni non governative». A proposito di progetti, cosa c’è nel tuo prossimo futuro?, domandiamo ancora: «Ne ho due. Il primo riguarda l’Africa in generale. L’ho intitolato Shadows, ombre, per sottolineare come le notizie che riguardano il continente teatro delle peggiori catastrofi umanitarie finiscano sempre all’ombra del resto ridondante della informazione. Il secondo riguarda i Nuba, un popolo che vive alle soglie della preistoria, che ho già visitato cinque volte, nel 1997, 1998, 2001, 2002 e 2005 e che cerca la propria strada per sopravvivere» [a proposito di Nuba, ricordiamo i reportage etnologici, certamente oleografici, realizzati da Leni Riefenstahl, negli anni Settanta, rievocati da Pino Bertelli in FOTOgraphia dello scorso giugno]. Ancora, e concludo: sei contento di questo ulteriore riconoscimento della tua grande professionalità? «Sì, molto. Come gruppo abbiamo già messo in piedi una serie di iniziative che mi fanno pensare che unirsi abbia un grande valore per il fotoreportage dei nostri giorni. Un gruppo di dieci persone, se lavora in sintonia, vale molto di più di dieci fotografi che lavorano singolarmente». Lello Piazza
NIKON NEL CUORE E NELL’ANIMA novant'anni
trana, la memoria. Strano, il ricordo. Per quanto mi sforzi di pensarci, non riesco proprio a ricordare la prima volta che ho sentito nominare “Nikon”, marchio fotografico e produzione di straordinarie reflex (lascio perdere il resto) che -data la mia professione in fotografia- ha accompagnato la mia vita adulta. Potrei richiamare i mesi passati al banco di un celebre e celebrato indirizzo commerciale di Milano, alla fine degli anni Sessanta, quando la Nikon F era al vertice del mercato: per prezzo di vendita, lo ricordo bene centottantamila lire (io ne guadagnavo trentacinquemila al mese), e per caratteristiche. Ma non penso di aver incontrato allora Nikon per la prima volta, perché sono certo di averne avuta già coscienza e conoscenza. Però, allo stesso momento, ricordo molti aneddoti e altrettante storie che riguardano Nikon, e su queste mi soffermerò
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David Hemmings (Thomas) e Verushka von Lehndorff (Verushka); Blow up, di Michelangelo Antonioni, 1966.
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Tutto è cominciato con la Nikon F. Memorie, ricordi e riflessioni che si allungano sui decenni, durante i quali si sono affermati i connotati del Mito Nikon, produzione fotografica con l’impronta della Leggenda
più avanti; non prima, sia inteso, di una riflessione e considerazione a monte, che inserisce l’epopea Nikon in un contenitore più generale, e per questo vasto. Da una parte, c’è la storia Nikon, segnata e tratteggiata da una identificata serie di consecuzioni ufficiali, stabilite da date certe (riassumiamo da pagina 58). Dall’altra, il concreto e fattivo contributo che Nikon ha dato alla storia espressiva della fotografia, che assegna propri capitoli fondamentali e discriminanti al fotogiornalismo che si è distribuito sui decenni, a partire dai Sessanta (almeno), e che ha vissuto un proprio momento epocale con la guerra del Vietnam: tra l’altro efficacemente rievocata in una identificata serie di film, tra le cui sceneggiature e scenografie fa appunto capolino sempre l’immancabile Nikon F, nella propria versione semplice, come anche nella configurazione dotata di pentaprisma esposimetrico Photomic (ne scriviamo più avanti).
DA BLOW UP A VALENTINA Proprio dal cinema, e al cinema, Nikon ha tratto straordinario beneficio, con relativa proiezione nel costume e socialità internazionali. Il riferimento d’obbligo è per Blow up, di Michelangelo Antonioni (Italia e Gran Bretagna, 1966), del quale la Nikon F è in qualche misura coprotagonista, tra le mani del fotografo Thomas (l’attore David Hemmings), a tutti gli effetti il protagonista della vicenda, narrata attorno le sue azioni e a partire da queste [pagina accanto].
Per una generazione, come anche per generazioni successive, è stata una autentica folgorazione. Avvolti dal racconto cinematografico, siamo stati anche ammaliati dalla presenza continua e costante di quella Nikon F, che abbiamo osservato con intrepida commozione e partecipazione. Il resto, sarebbe arrivato dopo. Quindi, se bisogna individuare e sottolineare una data in qualche modo e misura discriminante, dobbiamo giocoforza richiamarci a Blow up, che ha affascinato milioni di spettatori in tutto il mondo. Però, diavolo, alla metà degli anni Sessanta, la Nikon F fluttuava già nell’aria. Tanto è vero che, segnalazione da un punto di vista meno universale di quello cinematografico, possiamo riferirci anche al mondo del fumetto d’autore. Nei panni di Neutron, fantasioso investigatore con poteri sovrannaturali, il critico d’arte Philip Rembrandt utilizza una Novak N, che altro non è che una Nikon F Photomic [qui sotto, a sinistra; e a pagina tre, in apertura di questo numero di FOTO graphia]. Il fumetto è di Guido Crepax, mancato l’estate 2003 (FOTOgraphia, settembre 2003): Ciao Valentina!, apparso per la prima volta in LinusGiallo dell’ottobre 1966 e ripubblicato in numerose antologie. Oltre l’attenzione che qui ri-
Tutte le illustrazioni di questo articolo, da pagina 46 a pagina 57, sono riprese dalla mostra Fotografia & Cinema. Fotogrammi celebri, a cura di Maurizio e Filippo Rebuzzini, realizzata con fotografie dagli archivi Photos 12 (rappresentati in Italia dall’Agenzia Grazia Neri), esposta alla Galleria Grazia Neri di Milano dal 22 gennaio al 28 febbraio scorsi.
Dennis Hopper (fotogiornalista); Apocalypse Now, di Francis Ford Coppola, 1979. Barry Pepper (soldato Joe Galloway); We Were Soldiers, di Randall Wallace, 2002.
In Ciao Valentina!, del 1966, nei panni di Neutron, fantasioso investigatore con poteri sovrannaturali, il critico d’arte Philip Rembrandt utilizza una Novak N, che altro non è che una Nikon F Photomic (proposta anche a pagina tre, in apertura di questo numero). Il fumetto è di Guido Crepax, che avviò la propria serie dedicandola appunto a Neutron, cui subentrò presto Valentina, di professione fotografa (tante rievocazioni in FOTOgraphia).
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dirlo, era fotogenica. Poi mi piaceva anche perché lasciava libero il viso, mentre altre macchine fotografiche si debbono portare all’altezza dell’occhio. La Polly Max era congeniale alle esigenze del disegno».
ANCORA BLOW UP
John Malkovich (Alan “Al” Rockoff); Urla del silenzio, di Roland Joffé, 1984.
chiamiamo su Nikon F / Novak N, va sottolineato che questo fumetto ha uno straordinario collegamento con il cinematografico Blow up, al quale è cronologicamente anteriore: anche qui, dettagli casualmente e involontariamente inclusi nel secondo piano di fotografie di moda rivelano (svelano?) un omicidio. Ancora, estraniandoci per un istante dal percorso principale Nikon, non possiamo non ricordare che in origine l’autore Guido Crepax aveva intenzione di sceneggiare e disegnare proprio le avventure di Neutron, che esordì nel maggio 1965 sul secondo numero di Linus con La curva di Lesmo. La fotografa Valentina Rosselli compare nella terza puntata, a pagina settantatré del numero quattro di Linus, del luglio 1965. Qui comprimaria, diventa presto protagonista, anche se le prime cinque avventure, fino a La discesa (in ProvoLinus del febbraio 1967), continuarono a essere attribuite a Neutron. Lo sappiamo tutti, Valentina è fotografa. Soprattutto usa la biottica Polly Max, oppure la reale Rolleiflex. Perché? In una intervista rilasciatami nell’estate 1989, pubblicata in PRO del settembre 1989 e ripresa in FOTOgraphia del settembre 2003, in commemorazione alla scomparsa, Guido Crepax motivò la scelta della macchina fotografica biottica: «Era la più bella da disegnare, tutto lì. Aveva belle forme e poi era bella da tenere tra le mani; se si potesse
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Tornando a Blow up, occorre sottolineare che si tratta di una sceneggiatura discriminante nel percorso della rappresentazione della fotografia e del fotografo al cinema, argomento che ho particolarmente caro e ho approfondito nei decenni, scrivendone parecchio, riferendone in conferenze a tema e allestendo persino una mostra di riferimento (Fotografia & Cinema. Fotogrammi celebri, a quattro mani con mio figlio Filippo, la cui passione per il cinema è sicuramente più concreta della mia; mostra esposta alla Galleria Grazia Neri di Milano alla fine dello scorso gennaio; FOTOgraphia, dicembre 2006 e maggio 2007). Per quanto fondamentale nella storia Nikon, come già sottolineato, ed è per questo che indugiamo, Blow up rappresenta una linea di confine, uno spartiacque, sia della più generale vicenda cinematografica della fotografia, sia della raffigurazione del proprio mondo e dei propri personaggi: c’è un prima e c’è il dopo. All’indomani del film di Michelangelo Antonioni (regista mancato la scorsa estate), in un tempo di grandi sommovimenti ma di inquietante interregno espressivo, rari furono i fotografi che ap-
parirono sullo schermo in altre vesti che non quelle del sesso. Molte furono le pellicole al di sotto del limite medio di accettabilità, che giocarono la facile carta del fotografo senza scrupoli e privo di morale. In definitiva, Blow up innescò una triviale escalation. All’alba del 1966, per la prima volta il fotografo diventa il protagonista liberatorio di una situazione che gli appartiene, nello stesso modo in cui appartiene anche al pubblico: ovverosia diventa interprete di una angoscia da mass-media. Ispirata al racconto La bava del diavolo di Julio Cortázar (sceneggiato dal regista con Tonino Guerra e Edward Bond, per quanto riguarda i dialoghi in inglese), la vicenda del fotografo di moda londinese che crede di aver visto (e fotografato) un omicidio «è una riflessione sull’impossibilità del cinema di “dire il vero” e sui rapporti complessi tra arte e realtà, tra ciò che si vede e ciò che si capisce» (Paolo Mereghetti, Dizionario dei film; Baldini Castoldi Dalai Editori). Rivista oggi, questa testimonianza sull’angoscia esistenziale contemporanea ha francamente perso un poco della propria sottigliezza originaria e ha smarrito per strada pure la persuasione dei primi giorni di proiezione. Anche se il film è considerato un capolavoro della cinematografia italiana, le schematizzazioni narrative sono precocemente appassite. Però, ai propri tempi, Blow up ottenne un grande successo, soprattutto relativa-
Gian Maria Volonté (capo della Sezione Omicidi) e Florinda Bolkan (Augusta Terzi); Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto, di Elio Petri, 1970.
mente ai contenuti più facili: nel clima della swinging London, il fascino del presunto giovane fotografo di moda con Nikon F, circondato da incantevoli modelle, peraltro disponibili a rapidi rapporti sessuali (una giovanissima Jane Birkin tra i fondali di carta), avvicinato da donne affascinanti e altrettanto disinibite (per motivi propri, Vanessa Redgrave / Jane), in perenne movimento, al volante di una Rolls-Royce scoperta. A conseguenza, Blow up va considerato discriminante anche per la semplificazione scenica, che ha finito per influenzare tanto brutto cinema. Alla rappresentazione di Blow up va dunque addebitata la linea divisoria tra una visione cinematografica della fotografia precedente e una seguente. In particolare, le va oggettivamente imputato di aver stabilito i connotati cinematografici del fotografo porno, o comunque sia sporcaccione, che estende fino alle estreme conseguenze il modo di vivere interpretato sullo schermo da David Hemmings (Thomas), senza però la sua intelligenza e senza i suoi dubbi. Tutto questo tanto dilungarsi su Blow up non è senza scopo. A mio modo di vedere, è sintomatico che i valori e le competenze che gli abbiamo appena assegnato si accompagnino, nella sceneggiatura e scenografia, con la Nikon F. La combinazione non è affatto casuale, e rappresenta uno degli elementi complementari che segnano il Tempo e il proprio scorrere (non scorrere invano). Per quanto Nikon abbia sostanziosi debiti di riconoscenza con il film, dopo il quale si registrarono anche consistenti impennate di vendita (altro discorso, che va tenuto in proprio conto), alla stessa Nikon dobbiamo attribuire il merito di aver visualizzato con efficacia uno spirito e un clima. Come per un attore che interpreta bene il personaggio assegnato, tanto che non riusciamo a immaginarci altri nella stessa parte, Nikon ha rappresentato la Fotografia (maiuscola non casuale) come meglio non si sarebbe potuto fare. Dunque, in Blow up c’è Nikon: non ci sarebbe potuta essere nessuna altra macchina fotografica. Così che, l’annotazione sociale e di costume è presto ribadita. Con fantastica personalità, nei momenti in cui questo era concesso, Nikon ha rappresentato non tanto se stessa, come pure ha fatto, ma la fotografia nel proprio insieme. In precedenza ci sono stati altri esempi -non possiamo ignorare le personalità di Rolleiflex e Leica-, ma nulla e nessuno è stato altrettanto fondamenta-
Faye Dunaway (Laura Mars); Gli occhi di Laura Mars, di Irvin Kershner, 1978.
le e sostanziale, definito dal carisma dell’autentica Leggenda, del Mito.
CON LA NIKON F NEL CUORE Quindi, anche se non rammento il quando, così come ho esordito (e poi concluderò cambiando ritmo e rivelando altro), sono perfettamente consapevole del come e perché. Tanto consapevole, che i ricordi personali della mia vita con Nikon salgono in superficie presto e facilmente. La mia vita con Nikon... ovvero la vita di una generazione (sono nato nel 1951) che si è avvicinata alla fotografia con entusiasmo e l’ha frequentata con concentrata convinzione. Ricordi personali... che senza soluzione di continuità passano dalla più concreta realtà all’eterea materia della quale sono fatti i sogni e le speranze. In momenti relativamente vicini, nella primavera 2001, con l’occasione della riedizione in chiave moderna dell’antica Nikon S3, in versione celebrativa del Millennio, sono tornati d’attualità i fasti delle Nikon a telemetro, precedenti la reflex Nikon F originaria. Si tratta di una epopea di eccezionale valore tecnico e tecnologico, che ha segnato gli anni che dalla seconda metà dei Quaranta si sono estesi a tutti i Cinquanta. Per quanto siamo oggi consapevoli di quell’antica grandezza fotografica, bisogna riconoscere che l’autentico mito Nikon nasce e si consolida appunto dalla reflex Nikon F, la prima a sistema: oltre gli obiettivi, in-
tercambiabili anche i mirini (compreso il pentaprisma esposimetrico Photomic), i vetrini di messa a fuoco e il dorso, con combinazione tra la capacità di cinque metri di pellicola per duecentocinquanta pose e l’efficacia del motore di avanzamento automatico dopo lo scatto. Proprio la definizione e quantificazione di “sistema” sollecitò, ai tempi, la ricerca di informazioni dettagliate. È difficile dirlo a coloro i quali, oggi, navigano in Rete, ma allora ci si doveva affidare al passaparola e a poche documentazioni cartacee. Ricordo perfettamente la copertina del dépliant della Nikon F, ancora gelosamente conservato in libreria, con l’inconfondibile e agognata sagoma del pentaprisma (a punta) che sormonta un cielo al tramonto. Ma, soprattutto, ricordo un volume da autentico culto: Il libro Nikon, pubblicato nel 1970 da ComproCasa Editrice, affiliazione dell’allora distributore Cofas di Roma, identificato per la sua copertina rossa. La redazione è attribuita a Giorgio Bianchi, ma oggi so chi stava dietro le quinte, garantendo dei contenuti. Tra i tanti riconoscimenti che merita, Giulio Forti, attuale editore e direttore del mensile Fotografia Reflex, può vantare di essere stato l’autentico artefice di questa straordinaria opera di consultazione, sulla quale in molti abbiamo passato le ore e i giorni, spiando tra le pieghe del sistema e sognando l’irraggiungibile (per me, almeno). Tra l’altro, in pertinente combi-
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DAGLI ANNI SETTANTA A OGGI
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uesto indimenticabile refrain di una canzone di e risparmi di mesi. La mia meta era Foto Ganio, nel Al bar Casablanca Giorgio Gaber (Al bar Casablanca, appunto, vicino corso Stati Uniti, dove in vetrina, come una con una gauloise 1972), la dice lunga su cosa rappresenta Nikon per sposa tanto virtuosa quanto a lungo attesa, mi aspetla nikon, gli occhiali la fotografia negli anni Sessanta e Settanta. È il mito, tava una Nikkormat FTN con il classico Nikkor 50mm e sopra una sedia f/2. Fu la mia prima Nikon, che è ancora perfettala leggenda, l’archetipo junghiano della macchina foi titoli rossi dei nostri giornali mente in forma. La sua pelle sapeva di buono, non tografica. Leica, che fino a un certo punto della Stoblue jeans scoloriti come le orribili Zorki sovietiche, ingrassate con olio ria è il sinonimo del 35mm, cede lo scettro a Nikon. Dietro questo fatto, non ci sono ragioni di mar- la barba sporcata da un po’ di gelato di balena. I suoi documenti erano in regola, garantiva la Cofas di via Sistina 48, Roma. La coccolavo e keting o comunicazione, più massiccia o più efficaparliamo, parliamo di rivoluzione strapazzavo, era lei sola al centro del mio interesse. ce. Per fortuna, la situazione non è ancora come di proletariato. Avrei atteso mesi per poterle dare dei figli, come il ai giorni nostri, nei quali può capitare che un prodotto si affermi più per la propaganda che per qualità proprie. Ci sono ragioni 28mm f/3,5 e il 105mm f/2,5. Eravamo felici insieme. Poi, un giorno, sfogliando pratiche, che provocano il passaggio di questo prestigioso scettro, c’è un passa- un numero di Popular Photography, vidi altre Nikkormat, simili a lei, ma che si chiaparola. Nonostante la Leica a telemetro sia ancora usata da molti prestigiosi au- mavano Nikomat. Mi sentii tradito. Gli americani, pensai, hanno sempre ragione, quindi la mia amata era, come minimo, frutto di una relazione nascosta o equivotori, finisce per autoconfinarsi in uno splendido isolamento. Non ero digiuno di fotografia, allora. Dall’età di dieci anni avevo cominciato a ca. Passai settimane d’inferno. Poi, un sant’uomo che si chiama Jacopo Ferri, da via prendere in mano una macchina fotografica, una di quelle di mio padre, una Rol- Sistina 48, mi chiarì l’arcano, frutto delle politiche distributive di Nikon nel mondo. leiflex 6x6cm e una Leica IIIg, poi una Contaflex (ovviamente, subito dopo la Guer- Mi sentii in colpa per i miei sospetti, e quello fu l’unico (supposto) tradimento della mia Nikkormat. Che non fece altro che rinsaldare il nostro legame». Proprio così: ra, per chi poteva permetterselo, il riferimento era tedesco). Diventando più grande, caddi innamorato di Nikon. Avevo visto Blow up e la anche Mauro pensa che le macchine fotografiche siano delle specie di fidanzate con Nikon F, agile e maneggevole, nelle mani del fotografo di moda (David Hemmings). le quali intrattenere un rapporto amoroso. Poi vengono gli anni Ottanta, un po’ di crisi negli ideali. C’è la speculazione sulAvevo visto Z - L’orgia del potere, dove un giovane giornalista (Jacques Perrin) scatta con una Nikon F motorizzata le fotografie fondamentali di un’inchiesta. Rimasi l’argento, che porta alle stelle i prezzi delle pellicole e delle pilettine degli esposistregato. Certo, le vecchie macchine erano ancora lì in casa. Ma mi ero sentimen- metri a base di ossido d’argento. Nikon esce con la F3 (disegnata da Giorgetto Giugiaro), che permette di risparmiare energia, alimentando l’esposimetro direttamentalmente nikonizzato. Non solo platonicamente. Consumavo il fidanzamento con due F motorizzate, un 28mm f/2, l’85mm te dalle tradizionali stilo del motore. Grazie Nikon, borbottavano i fotografi. Gli anni Ottanta, si sa, rappresentano un po’ la crisi di tutto. Il digitale è alle f/1,8 e il 180mm f/2,8 (allora chi si fidava degli zoom?). A un certo punto, feci una scappatella: comperai una Leica M2 con un Elmarit 90mm f/2, per il ritratto, porte. È un macello, non solo per l’attrezzatura, ma anche per i modi di lavoraa proposito del quale avevo letto meraviglie. In camera oscura cercavo le diffe- re. Ancora Tiziano Terzani: «In Vietnam avevo anche una ragione per invidiare i fotografi. Tu immagina come coprivamo questa guerra strana. Si partiva alla matrenze tra i ritratti fatti con il Nikkor 85mm e l’Elmarit. Erano i tempi delle linee per millimetro, del cerchio di confusione, del microcon- tina col taxi, si andava al fronte, si stava via sei, sette, otto ore: poi, verso il tratrasto. Erano i tempi nei quali nei circoli fotografici imperversava l’esasperazione monto, si tornava in albergo. Quei puzzoni andavano in camera, facevano la docdella tecnica, così ben sintetizzata dal personaggio Ventundin di Bruno Bozzetto (ahi- cia e poi - via! Al bar a bere e chiacchierare. Il loro lavoro era finito. Il mio invemé, due sole voci su Google dedicate all’introvabile edizione libraria di Le avven- ce cominciava. Avevo ancora da scrivere il pezzo. Tutto quello che avevo visto e ture di Ventun Din, fotoamatore). Memorabile la scena che si svolge in un circolo sentito, se non lo scrivevo era come se non lo avessi vissuto. Invece i fotografi avefotografico, dove un nuovo adepto presenta per la prima volta le sue stampe: uno vano già finito. Prendevano il rotolino, lo mandavano con un “piccione” all’aerodei membri anziani fa notare la presenza di un pelino non spuntinato. Subito il co- porto, lo facevano partire per Singapore o Hong Kong. E ti saluto. «Folco: Non lo sviluppavano nemmeno? Tiziano: No, non lo sviluppavano». ro dei soci alza l’anatema: PELISTA! Un altro socio individua addirittura la presenChissà cosa direbbe Tiziano Terzani a vedere i fotografi oggi, che alla sera si za di un fascio di peli. E immediatamente scatta il nuovo anatema: FASCISTA! Tornando all’Elmarit, forse perché obnubilato dall’amore, per me non c’era lon- siedono davanti al computer a sistemare i file, prima di spedirne via mail la versione giusta alle redazioni. tanamente confronto con la lente giapponese: Nikon, Nikon, Nikon. Il macello non coinvolge solo i fotografi, ma soprattutto le agenzie che distriQuelli furono gli anni d’oro della fotografia. Life vendeva ancora otto milioni e mezzo di copie e coraggiosi fotogiornalisti rischiavano (e a volte perdevano) la vi- buiscono le fotografie. Oggi, Corbis e Getty controllano quasi l’ottanta per cento ta per raccontare il Vietnam. A proposito di Vietnam, nel suo ultimo libro La fine è del mercato e le piccole, le medie ma anche le grandi agenzie fanno fatica. In compenso c’è Internet, dove le cose che ti interessano sono più facili da troil mio inizio, Tiziano Terzani scrive: «Poi quando andai in Vietnam mi attrezzai con le macchine che a quel tempo erano di moda, una Nikon e una Nikkormat con lo vare di un ago in un pagliaio, ma non sono comunque così facili. Siamo nel campo dell’incertezza. I formati dei sensori creano confusione nel pubblico: a proposito di zoom. Pesanti erano ma io avevo una borsa e me le portavo sempre dietro». Quelli furono gli anni nei quali molti giovani sognavano di diventare fotogior- lunghezza focale degli obiettivi, il 28mm è un tele o un medio grandangolo? il pronalista. Gli anni nei quali questi giovani investivano ciò che per loro era una for- filo colore serve, oppure no? meglio scattare in Raw o Jpeg? Comunque, il digitale ha portato anche nuova linfa. Tra gli appassionati scoptuna per comperare una Nikon. E il sogno poteva diventare realtà. Ne ho parlato con Mauro Vallinotto, uno dei grandi fotogiornalisti italiani, ora piano nuovamente timide, ma ostinate discussioni sui Megapixel, che ricordano photo editor al quotidiano La Stampa. Riporto quello che mi ha riferito, perché rap- quelle di Ventun Din. Speriamo che l’onda sia lunga e duri per tanto tempo. Nikon è sempre lì, una sicurezza per gli appassionati. Se devi acquistare una presenta un paradigma dei sentimenti fotografici di allora. Mi ha raccontato che da ragazzo ha abbandonato gli studi di ingegneria per la fotografia; ricorda la sua pri- macchina fotografica, il mercato è diventato un ginepraio; ma se comperi Nikon ma Nikon: «Era il sei giugno del 1967. A Torino faceva un caldo bestia. In Egitto, non sbagli mai. Sai qual è la sensazione, anche se hai al collo una compattina all’alba di quel giorno, i carri israeliani erano entrati nel Sinai, dando inizio alla Guer- tascabile? Che Nikon non faccia niente di amatoriale, anche il modello più amara dei Sei giorni. Ero sceso dal tram numero 13 alla stazione di Porta Nuova, con toriale che c’è ha una fortissima personalità professionale. Lello Piazza molta circospezione. In tasca avevo centoquarantacinquemila lire, frutto di fatiche
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nazione con i testi, le illustrazioni sono ancora oggi avvincenti: lo abbiamo saputo, tutti scatti in negativo bianconero 4x5 pollici con Sinar Norma (altra leggenda della storia tecnica della fotografia). In quegli anni, immediatamente seguenti le origini del Mito, la Nikon F era tanto e talmente un Sogno, che il mensile Photo 13 identificò come “Vorrei avere una Nikon” (circa) una rubrica di considerazioni, osservazioni e analisi redatte dalla parte di un ipotetico appassionato (medio). E nelle compagnie di amici, chi aveva la Nikon F era guardato e considerato con profonda ammirazione, soprattutto dalle ragazze, che davano valore a questo (altri tempi!).
OLTRE LA NIKON F Nikon F, diciamo sempre, ma non tutti potevano permettersela; così, per rimanere accanto al Mito, molti comperavano e usavano la Nikkormat: io tra i tanti. Non era a sistema, non vantava le intercambiabilità della reflex di vertice, ma era una trentacinque millimetri di invidiabile efficacia. Solo che... non era la Nikon F, e dunque spesso la si viveva come un ripiego, privandola così di una propria dignità e personalità. Giustizia le sarebbe stata fatta decenni dopo, in tempi a noi vicini. In Ospite d’inverno (The Winter Guest), film inglese del 1997, diretto da Alan Rickman, la protagonista Frances (Emma Thompson) usa proprio una Nikkormat [a pagina 52], riflettendo sulla quale sottolinea che «Vede quello che dico io. Di volta in volta, scopre l’animo delle persone, vede quello che hanno dentro, se si lasciano andare. [...] Se sono fortunata, mi mostrerà anche i loro segreti, li porterà allo scoperto, uno ad uno». Certo, non solo la Nikkormat è tale, ma la citazione si riconduce a una Nikkormat, e così la registriamo. Allo stesso tempo, alleggerendo i toni, ricordiamo che è ancora Nikkormat per il confusionario neolaureato ingegner Colombo (interpretato da Maurizio Nichetti, qui alla sua prima regia) di Ratataplan, del 1979 [a pagina 54]. Quindi, Nikon F (che poi sarebbe diventata F2, F3... fino alla F6 con la quale si è conclusa la genìa della pellicola fotosensibile) e Nikkormat. Questa scala gerarchica deve aver messo a disagio anche i piani commerciali del produttore, che dalla fine dei Settanta, a partire dalle FM e EL2, entrambe del 1977, ha smesso le distinzioni, identificando come “Nikon” tutte le sue reflex e le compatte a seguire. Così che, il richiamo e riferimento è presto emigrato dal solo ambito specialistico, per abbracciare tutto il pubblico della fotografia.
I professionisti e gli appassionati hanno sempre distinto la reflex di vertice, quella immancabilmente a sistema, dalle altre, per quanto, a onor del vero, le finalità professionali si sono sistematicamente estese a tutte le reflex della gamma. A questo proposito ricordiamo la genìa delle Nikon FE e FM, che dalla realtà del fotogiornalismo internazionale, e di altre specializzazioni del mestiere, sono trasmigrate alla sceneggiatura e scenografia cinematografica (i tanti richiami al cinema non sono rievocati per esercizio di stile -e sapere?-, ma per testimoniare con la correttezza della relativa raffigurazione scenica). Due citazioni, sopra tutte, separate nel tempo, spazio e contenuto. Nikon FE e/o FM di generazione non identificata in Gli occhi di Laura Mars (Eyes of Laura Mars, di Irvin Kershner; Usa, 1978), usata dalla protagonista, interpretata da Faye Dunaway, fotografa di moda che si scopre chiaroveggente (dall’occhio fotografico a quello che penetra l’inconscio) e collabora con la polizia nell’individuazione di un feroce assassino [a pagina 49]. Ancora, lo stesso per l’agente della Cia Tom Bishop (Brad Pitt), che agisce nella guerra civile in Libano nascondendosi dietro la facciata di fotoreporter inviato: Spy Game, di Tony Scott; Usa e Gran Bretagna, 2001 [a pagina 53]. Allo stesso momento, riprendendo il filo della constatazione secondo la quale «il richiamo e riferimento Nikon è presto emigrato dal solo ambito specialistico, per ab-
Nick Nolte (Russell Price); Sotto tiro, di Roger Spottiswoode, 1983. Sharon Stone (Alison King); L’anno del terrore, di John Frankenheimer, 1991.
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bracciare tutto il pubblico della fotografia», non possiamo ignorare, né sottovalutare, il modo nel quale il marchio è universalmente considerato. Tanto che è uno dei collegamenti marchio-prodotto più affermato: Nikon uguale fotografia. Ancora dal cinema: in Toccato! (Gotcha!, di Jeff Kanew; Usa, 1985), al ragazzo che gli chiede in prestito la macchina fotografica, il padre risponde testuale: «Non è una macchina fotografica, è una Nikon!».
NIKON NELL’ANIMA (E DNA?) La storia privata Nikon, soprattutto tecnica, è tanto endemica nel mondo fotografico, che ancora oggi capita di ri-vedere un gesto datato, che data anche chi lo compie. Una volta innestato l’obiettivo alla baionetta Nikon di una reflex dei nostri giorni, sicuramente autofocus, diffusamente ad acquisizione digitale di immagini, c’è ancora chi ruota fulmineamente la scala dei diaframmi (quando c’è ancora) verso le due estremità: dai valori chiusi all’apertura relativa e viceversa. Oggi, questa azione serve a nulla. Invece, era necessaria con la Nikon F, non più con la
F2 e successive, e le Nikkormat coetanee. Nella montatura degli obiettivi di quel tempo (remoto), serviva per assicurare che la forcella di trasmissione del diaframma comunicasse l’apertura relativa dello stesso obiettivo al sistema esposimetrico, che appunto dipendeva da una simulazione di ordine meccanico. Chi oggi continua a compiere quel gesto rivela la propria anagrafe, oltre i propri trascorsi tecnici. Ha più di tot anni, non importa quanti (a ciascuno, i propri), perché fotografa dai tempi della Nikon F e Nikkormat. Lo stesso dicasi, in altro ambito, per chi fa la “doppietta” quando cambia marcia in automobile, rievocando il cambio non sincronizzato del passato remoto. Però, tra fotografia e guida dell’automobile le differenze sono sostanziali. A parità di condizionamento involontario dei gesti, il discorso sulla fotografia stabilisce i connotati e la solidità di una storia, quella Nikon nello specifico, che vanta profonda influenza sulla storia della stessa fotografia, molti capitoli della quale sono stati appunto raccontati con la Nikon all’occhio. Tanto che, nel proprio percorso, il neo-
Emma Thompson (Frances); Ospite d’inverno, di Alan Rickman, 1997.
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costituito Museo Nazionale Alinari della Fotografia (MNAF), inaugurato a Firenze alla fine dello scorso ottobre 2006 (FOTOgraphia, dicembre 2006), ha riservato a Nikon, visualizzando nello specifico una Nikon F, una delle otto tematiche con le quali ha sottolineato i cardini dell’evoluzione tecnologica della fotografia (più nove categorie in miscellanea). Leggiamo dal catalogo che commenta l’esposizione permanente del Museo. «In tempi tecnici e sociali di altra cadenza, soprattutto rispetto i frenetici ritmi evolutivi dei nostri giorni, la successione delle Nikon a sistema, indirizzate soprattutto all’impiego professionale, ha stabilito una sequenza di decadi. Successiva la genìa delle Nikon a telemetro degli anni Quaranta e Cinquanta, la Nikon F originaria, prima reflex a sistema, nasce nel 1959. Alcune storiografie accreditate si sbilanciano addirittura sulla data di inizio produzione: venti marzo. Quindi, la Nikon F è strettamente vincolata agli anni Sessanta, durante i quali ha contribuito a scrivere importanti capitoli della vicenda fotografica, dal reportage alla moda [...]. «A seguire, le evoluzioni successive si alternano al ritmo di dieci anni, una dal-
l’altra: la Nikon F2 arriva nel 1971, e dà forma agli anni Settanta; la Nikon F3 è del 1980, e caratterizza gli anni Ottanta; dal 1988, la Nikon F4 approda agli anni Novanta; la Nikon F5 esordisce nel 1996 (la cadenza si sta già stringendo); e la definitiva Nikon F6 è presentata alla Photokina di Colonia del 2004. Proprio questa Nikon F6, appunto definitiva, è l’ultima delle grandi reflex della storia della fotografia. Non pensiamo che, nell’attualità presente-futuribile dell’acquisizione digitale di immagini, potrà esserci ancora tempo e spazio per una reflex a pellicola di nuova concezione. (A proposito, dalla fine degli anni Settanta, Nikon affida al designer italiano Giorgetto Giugiaro l’abito dei propri apparecchi fotografici, sia di punta sia di fascia media). «In tempi nei quali l’attribuzione “Nikon” era limitata alla reflex di vertice, affiancata dalle Nikkormat (reflex non a sistema), la Nikon F introdusse un concetto innovativo, che ne determinò affermazione e successo. È definita “a sistema” per la possibilità di cambiare una serie di elementi tecnici qualificanti e sostanzialmente discriminanti [...]».
NIKON PERSONALI Quante, le Nikon della propria vita? Personalmente, rivelo che dopo le Nikkormat attive negli anni Sessanta e Settanta, a seguire sono arrivati anche corpi macchina Nikon F e F2. In particolare, sono legato a una Nikon F del 1965, con logotipo originario inciso sulla calotta superiore. È bello da guardarsi e dà una certa sicurezza. Come ho individuato l’anno di produzione? Dal numero di matricola, che per decenni ha utilizzato un codice estremamente semplice: per l’appunto, le prime due cifre indicano l’anno di produzione. In genere, per problemi di vista, occhiali e antichità concettuale, amo fotografare con apparecchi a telemetro, ma quando ho bisogno della visione reflex, (insieme a un altro marchio giapponese) ancora oggi preferisco la Nikon F a tutte. Tanto più che, dopo una revisione di qualche anno fa, la mia favorita vanta una caratteristica unica: consente il sollevamento preventivo dello specchio reflex anche dopo l’avanzamento della pellicola (come hanno sempre fatto le Nikkormat di allora). Così inquadro, se serve sollevo lo specchio, e scatto. Come inquadro? Su tutte le Nikon F e F2 è fisso lo schermo quadrettato (tipo E per la Nikon F), quello che nel Libro Nikon Giorgio Bianchi (ma in realtà Giulio Forti) ha definito «particolarmente indicato per la composizione di fotografie in cui siano richiesti al-
John Wayne (tenente Lon McQ); È una sporca faccenda tenente Parker, di John Struges, 1974.
lineamenti e messe a punto accurate». E poi, per snobismo e antichità di pensiero, non rinuncio al fantastico Nikkor-O 21mm f/4, non retrofocus, ereditato dal sistema ottico delle Nikon a telemetro, che nella combinazione reflex impone il sollevamento preventivo dello specchio e l’inquadratura con mirino esterno, da collocare sulle apposite guide coassiali alla leva di riavvolgimento: infatti, la Nikon F è priva di slitta porta accessori, che altererebbe la linearità del suo design, essenziale quanto unico. Due parole, a questo punto, sul design
e sulle sigle originarie degli obiettivi Nikkor. Design: dal punto di vista della forma, la Nikon F appartiene al ristretto novero delle quattro o cinque macchine fotografiche più belle della storia evolutiva della tecnica e tecnologia fotografica. Per questi quattro o cinque apparecchi, o pochi di più, distribuiti sui diversi formati di ripresa, fino al grande formato con costruzione folding e a banco ottico, è assolutamente il caso di esprimersi con l’estetica della funzionalità. Non scomodiamo studi e riflessioni di profilo alto, presi a prestito dall’eugenetica dei tratti somatici caratte-
Brad Pitt (Tom Bishop) e Robert Redford (Nathan D. Muir); Spy Game, di Tony Scott, 2001.
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ristici e indicativi, ma affermiamo che la Nikon F è bella nella forma, in ordine con la sostanza dei propri contenuti tecnici. Nikkor: dopo aver rivelato che i numeri di matricola del passato remoto contenevano l’indicazione dell’anno di produzione, sveliamo anche un’altra vicenda delle origini. Gli alfabetici che seguono la dicitura Nikkor, alla quale sono collegati con un trattino, indicano il numero delle lenti incluse nel gruppo ottico dell’obiettivo. In relazione alle iniziali di nomi latini o greci, si ha: T/tre, Q/quattro, P/cinque, H/sei, S/sette, O/otto, N/nove, UD/undici. Il citato Nikkor-O 21mm f/4 è composto da otto lenti (sei ne ha il Nikkor-H 85mm f/1,8 e sette lo standard Nikkor-S 50mm f/1,4). A proposito dell’estetica del pentaprisma standard della Nikon F, ricordiamo un passaggio dal romanzo Il dettaglio, di William Bayer, nel quale il protagonista Geoffrey Barnett, ex fotogiornalista dai fronti di guerra, sceglie proprio una Nikon F quando deve andare a minacciare un presunto assassino. Un lungo teleobiettivo come impugnatura... e il pentaprisma spigoloso per vibrare efficaci colpi.
SUL GRANDE SCHERMO A questo punto, e in classificazione più ragionata rispetto gli analoghi richiami fin qui distribuiti, è giocoforza riferirsi alla presenza di Nikon nel cinema, nel cui ambito ribadiamo il ruolo protagonista in
Blow up, con il quale abbiamo esordito e sul quale ci siamo già soffermati a lungo. In Nicaragua, nel 1979, Russell Price, reporter da prima linea nei giorni più caldi della rivoluzione sandinista (visualizzato da un convincente Nick Nolte), non abbandona mai una fascinosa reflex Nikon F2 nera, completa di motore per l’avanzamento rapido della pellicola dopo lo scatto [a pagina 51]. Siamo in Sotto tiro (Under Fire, di Roger Spottiswoode; Usa, 1983), film di guerriglia che fa gruppo/genere omogeneo con Salvador (di Oliver Stone; Usa, 1986), Urla del silenzio (The Killing Fields, di Roland Joffé; Gran Bretagna, 1984) e Un anno vissuto pericolosamente (The Year of Living Dangerously, di Peter Weir; Australia, 1982), rispettivamente ambientati tra le pieghe della guerra civile centro americana (1980), nella Cambogia dei Khmer rossi (1975) e nell’Indonesia di Sukarno (1965). Il dominio Nikon, incontrastata reflex delle guerre che hanno insanguinato il mondo nei decenni scorsi, e di quelle che ancora perdurano ai nostri giorni (quando è stata marginalmente affiancata anche da altri apparecchi), è cinematograficamente sottolineato in tutti questi film, le cui scenografie sono fedeli alle realtà narrate, quantomeno dal punto di vista fotografico (sul resto non abbiamo competenza per esprimerci). Dunque, reflex Nikon nere per il reporter Alan “Al” Rockoff di Urla del silenzio (l’attore John Mal-
Maurizio Nichetti (ingegner Colombo); Ratataplan, di Maurizio Nichetti, 1979.
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kovich [a pagina 48]), dove si segnalano anche la Nikon F cromata di Sydney Schanberg (l’attore Sam Waterston). Nikon F anche per il fotografo cinese nano Billy Kwan (interpretato da una attrice donna, Linda Hunt), che accompagna il giornalista australiano Guy Hamilton (Mel Gibson) in Un anno vissuto pericolosamente, che, tra l’altro, mette perfettamente in scena la coerente combinazione giornalistica di parola e immagine. Ancora Nikon e Vietnam in altre tre occasioni cinematografiche. Uno: è Nikon F Photomic nera nella cruenta battaglia evocata in We Were Soldiers, del regista Randall Wallace (Usa, 2002), con il soldato-fotografo Joe Galloway (Barry Pepper) frastornato tra il suo compito istituzionale e la sensazione di dover lasciar perdere la macchina fotografica, per imbracciare un’arma [a pagina 47]. Due: è ancora Nikon F nera tra le mani del fotogiornalista che fa capolino in Apocalypse Now (di Francis Ford Coppola; Usa, 1979), interpretato da Dennis Hopper, attore che nel proprio privato vanta una consistente personalità di fotografo creativo di eccellente successo [ancora a pagina 47]. Tre: è inviolabilmente Nikon F in Full Metal Jacket, di Stanley Kubrick (Usa, 1987), nel quale il soldato-fotografo Joker, o fotografo militare (qual è la differenza?), è interpretato dall’attore Matthew Modine, che nella vita reale è a propria volta appassionato di fotografia (alcuni suoi fuori-scena del film sono stati impaginati nella monografia Stanley Kubrick. Una vita per immagini, commentata in FOTOgraphia dell’aprile 2004). A proposito, lo stesso volume (Rizzoli libri illustrati; Milano, 2003) ribadisce l’origine fotografica del regista, che prima di dedicarsi al cinema fu per lungo tempo fotoreporter inviato della rivista Look. Negli anni Quaranta e Cinquanta fotografava con Nikon a telemetro; la Nikon F sarebbe arrivata più tardi: si racconta che durante le riprese dell’apocalittico Il dottor Stranamore, ovvero come imparai a non preoccuparmi e ad amare la bomba (Dr Strangelove, or: How I Learned to Stop Worrying and Love the Bomb), lui e l’attore Peter Sellers, altro appassionato fotografo, si siano allontanati dal set per andare in un negozio a comperare una Nikon F ciascuno. Quindi, rimanendo allo stesso film, va ricordato che Stanley Kubrick ingaggiò come fotografo di scena Weegee, il leggendario fotocronista, che aveva conosciuto nel 1948 sul set di The Naked City, diretto da Jules Dassin e liberamente ispirato alla vita del fotografo (e alla sua prima raccolta di immagini, appunto Naked City,
pubblicata nel 1945), dove era stato inviato da Look. Durante le riprese del Dottor Stranamore, l’accento anglotedesco di Arthur H. Felling (questo il vero nome di Weegee, oriundo austriaco, di Zloczew, oggi in Polonia) fu adottato da Peter Sellers per caratterizzare il personaggio dello scienziato nazista pazzo che ama la bomba. Dopo questa ennesima parentesi, torniamo tra noi, lungo il percorso intrapreso. In onore di date e cronologie, una Nikon F motorizzata scandisce i tempi fotogiornalistici che accompagnano il racconto del golpe militare dei colonnelli greci, culminato nel colpo di stato del 21 aprile 1967: Z - L’orgia del potere (Z, di CostaGavras; Francia e Algeria, 1969). La Nikon è tra le mani del fotoreporter che sostiene e accompagna le indagini del magistrato sull’oscuro assassinio di un deputato: in ordine, gli attori Jacques Perrin, Jean-Louis Trintignant e Yves Montand. Quindi, al pari di Russell Price / Nick Nolte di Sotto tiro, con il quale abbiamo avviato questo concentrato “percorso di guerra”, ricordiamo ancora l’agente della Cia Tom Bishop, che in Libano si nasconde dietro la facciata di fotoreporter inviato armato di Nikon FE o FM: Spy Game, di Tony Scott (Usa e Gran Bretagna, 2001), interpretato dall’attore Brad Pitt, del quale si conosce l’autentica passione fotografica [a pagina 53]. A seguire, molte sono le Nikon F, dotate di potenti teleobiettivi, tra le mani di investigatori privati, in vicende girate o ambientate negli anni Sessanta e primi Settanta. Tre, le menzioni d’obbligo: John Wayne, in originale tenente Lon McQ, di È una sporca faccenda tenente Parker (McQ, di John Struges; Usa, 1974 [a pagina 53]); Bob Hoskins / Gus Klein di Prova schiacciante (Shattered, di Wolfgang Petersen; Usa, 1991); e Owen Wilson / Ken Hutchinson del remake cinematografico Starsky & Hutch (di Todd Phillips; Usa, 2004; con Ben Stiller nei panni di David Starsky [a pagina 56]). Reflex Nikon sono disseminate praticamente in tutti i film nelle cui sceneggiature la fotografia è sostanzialmente comprimaria. A titolo di esempio, ricordiamo tre casi. Anzitutto, il cambio dell’obiettivo Nikkor sull’elicottero in Incontri ravvicinati del terzo tipo (Close Encounters of the Third Kind, di Steven Spielberg; Usa e Gran Bretagna, 1977); quindi, l’esagerazione delle caratteristiche tecniche della Calypso/Nikkor subacquea (Nikonos I) in Agente 007, Tunderball - Operazione tuono (Tunderball, di Terence Young; Gran Bretagna, 1965), che nella fantasia della sceneggiatura ap-
Sigourney Weaver (Dian Fossey); Gorilla nella nebbia, di Michael Apted, 1988.
proda addirittura a improbabili otto fotogrammi al secondo. Ancora, la gag fotografica in cucina, con aragoste in fuga sul pavimento e reflex Nikon tra le mani di Diane Keaton, in Io e Annie (Annie Hall, di Woody Allen; Usa, 1977). Come abbiamo attestato per altri attori, annotiamo che anche Diane Keaton, nel proprio privato, ha una sostanziosa attenzione fotografica, che l’ha portata anche a curare significative monografie illustrate: si allunga l’elenco dei personaggi del cinema che frequentano la fotografia per proprio conto. Altre presenze cinematografiche Ni-
kon sono più sostanziali. Richiamiamone ancora qualcuna. Insieme alle immancabili Speed Graphic dei fotocronisti statunitensi, le Nikon F, Nikkormat e Nikon F Photomic, abbinate a flash elettronici in attenta consecuzione tecnico-storica, segnano lo scorrere del tempo di Ray, biografia cinematografica di Ray Charles (di Taylor Hackford; Usa, 2004); ne abbiamo riferito in FOTOgraphia del settembre 2005: all’arrivo in Georgia (1960), per un concerto che verrà annullato causa la segregazione dei neri, e costerà a Ray Charles l’espulsione
Julia Roberts (Isabel Kelly); Nemiche amiche, di Chris Columbus, 1998.
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Owen Wilson (Ken Hutchinson) e Ben Stiller (David Starsky); Starsky & Hutch, di Todd Phillips, 2004.
dallo Stato; al primo arresto per uso di sostanze stupefacenti (1961); e durante la cerimonia pubblica di solenne riammissione di Ray Charles in Georgia (1979). Nikon F per Sigourney Weaver, nella biografia dell’etologa statunitense Dian Fossey, studiosa dei gorilla, assassinata nella provincia rwandese del Ruhengeri per la sua ostinata protezione dell’ambiente naturale degli stessi gorilla: Gorilla nella nebbia (Gorillas in the Mist: The Story of Dian Fossey, di Michael Apted; Usa, 1988 [a pagina 55]). Nikon F Photomic motorizzata per Ray Sharkey, nei panni di Phil D’Amico nel-
l’apprezzato Io, Willy e Phil (oppure Io, Willie e Phil; Willie and Phil, di Paul Mazursky; Usa, 1980 [qui sotto]). Nikon F5 per Julianne Moore, la dottoressa Sarah Harding della seconda puntata della trilogia del Giurassico: Mondo perduto: Jurassic Park, II (The Lost World: Jurassic Park, di Steven Spielberg; Usa, 1997). Ancora Nikon F5 per Julia Roberts, l’odiata matrigna Isabel Kelly di Nemiche amiche (Stepmom; di Chris Columbus; Usa, 1998 [a pagina 55]). Con l’occasione, ricordiamo che la stessa Julia Roberts interpreta la fotografa Anna Cameron in
Ray Sharkey (Phil D’Amico); Io, Willy e Phil, di Paul Mazursky, 1980.
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Closer (di Mike Nichols; Usa, 2004), nel quale esegue il ritratto dello scrittore Dan, con il volto di Jude Law, il killer-fotografo necrofilo Harlen Maguire di Era mio padre (Road to Perdition, di Sam Mendes; Usa, 2002): straordinari incroci della fotografia al cinema (che abbiamo rispettivamente presentato in FOTOgraphia dell’ottobre 2006 e novembre 2005). Nikon F nera con curioso flash a lampadine per Gian Maria Volonté, capo della Sezione Omicidi in Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto (di Elio Petri; Italia, 1970), che, prima di uccidere la propria amante Augusta Terzi (Florinda Bolkan), si fa coinvolgere da lei in morbosi giochi fotografici, basati sulla sollecitata ricostruzione di scene del delitto [a pagina 48]. Al femminile e professionali, ancora, la già ricordata Nikon FE e/o FM, di generazione non identificata, della fotografa di moda interpretata da Faye Dunaway in Gli occhi di Laura Mars (Eyes of Laura Mars, di Irvin Kershner; Usa, 1978 [a pagina 49]) e la Nikon F2 motorizzata tra le mani di Sharon Stone, nei panni della fotoreporter statunitense Alison King, inviata in Italia negli anni di piombo, culminati con il rapimento e l’assassinio di Aldo Moro: L’anno del terrore (Year of the Gun, di John Frankenheimer; Usa, 1991 [a pagina 51]). Assolutamente affascinanti e avvincenti, le Nikon F nere di Robert Kincaid, interpretato da Clint Eastwood, anche regista, nella trasposizione cinematografica dal romanzo best seller di Robert James Waller, del quale ha conservato il titolo: I ponti di Madison County (The Bridges of Madison County; Usa 1995 [pagina accanto]). Si ipotizza un fotografo del National Geographic Magazine che durante un reportage incontra una donna sposata (Francesca Johnson / Meryl Streep). Si amano intensamente, ma poi non hanno la forza di restare assieme. Ognuno torna alla propria vita, che non sarà più quella di prima, con nel cuore la sequenza di quattro giorni che hanno indelebilmente segnato le rispettive esistenze (FOTOgraphia, novembre 1995). In relazione agli incroci della fotografia al cinema, non possiamo non sottolineare una combinazione che riguarda proprio Clint Eastwood, regista del recente Flags of Our Fathers, del 2006, che richiama una vicenda discriminante del fronte del Pacifico della Seconda guerra mondiale, consegnata alla Storia da una fotografia epocale. Il 23 febbraio 1945, le forze armate statunitensi riconquistano un prezioso territorio: per l’occasione, cinque marine e un medico issano la bandiera stellestrisce sulla sommità del monte Suribachi,
Clint Eastwood (Robert Kincaid); I ponti di Madison County, di Clint Eastwood, 1995.
nell’isola di Iwo Jima. Fotografato da Joe Rosenthal dell’Associated Press, il momento è diventato uno dei simboli della Seconda guerra mondiale e un’icona per l’eroismo americano (FOTOgraphia, marzo 2006), anche se sappiamo che la composizione fu frutto di un’abile messa in scena (FOTOgraphia, luglio 2007). Nel momento in cui riconosciamo che le Nikon F di Robert Kincaid dei Ponti di Madison County sono affascinanti in correlazione con l’interpretazione di Clint Eastwood, ci torna alla mente un altro abbinamento cinematografico altrettanto avvincente. Parliamo del fotografo Alfred Chamberlain, interpretato da Elliott Gould, che aggiunge la propria naturale “mollezza” all’atteggiamento disincantato del personaggio, che all’inizio di Piccoli omicidi (Little Murders, di Alan Arkin, dalla commedia di Jules Feiffer; Usa, 1971), si aggira per New York con una Nikon F al collo, fotografando soltanto escrementi di cane sui marciapiedi: per questo attira l’attenzione di una banda di giovani, che lo aggrediscono, picchiandolo sonoramente. Partiti con Blow up, film italiano, chiu-
diamo il lungo casellario con una citazione finale d’obbligo, appunto italiana. L’episodio finale di Pacco, doppio pacco e contropaccotto (di Nanni Loy; 1993), che dà il titolo al film, racconta una truffa basata sull’acquisto-vendita di un pacco contenente due Nikon F4. Ovviamente, con abilità, i truffatori sostituiscono il pacco originario con uno contenente mattoni di paripeso. Alla fine dell’episodio, quando un amico si offre per comperare effettivamente le due Nikon F4, il proprietario/truffatore rifiuta perché, nel modo appena sintetizzato, le due reflex rappresentano l’unico sostentamento di tre famiglie. Tanto è!
E, ALLORA Non posso immaginare la fotografia senza Nikon. Quindi, a diretta consecuzione, non riesco a ipotizzare la mia stessa vita senza Nikon. In apertura, ho mentito. Ricordo bene la prima Nikon F, che mi ha folgorato nel 1965, quando non potevo neppure supporre che la mia vita sarebbe stata definita e disegnata da un sostanzioso impegno fotografico. È per
questo che sono legato a una Nikon F di quell’anno, che ho già menzionato. Niente di specifico o altisonante, nessuna colonna sonora ha sottolineato quel momento; ma nel quartiere dove sono nato, ho incrociato per strada un fotografo con Nikon F al collo: bella nella sua livrea cromata, che non avevo modo di identificare come tale (Nikon F), e avrei riconosciuta e decodificata tempo dopo. Nel mio ricordo, è stato un attimo assolutamente straordinario, e sicuramente tutto durò davvero solo un attimo, come appare accada in quei sogni che ci sembrano invece lunghissimi. A distanza di anni, posso ancora indicare il luogo preciso in cui è successo, il punto del marciapiedi dove stavano i miei piedi, la porzione di asfalto sulla quale si profilava la mia ombra. Non solo posso ricostruire la scena in ogni minimo dettaglio, ma persino ritrovare l’odore diffuso, le vibrazioni di quell’aria che ha il profumo dei ricordi dell’infanzia. Ora, vengo a sapere che Nikon compie novant’anni. Io la conosco da quarantadue dei miei cinquantasei. Tanti auguri. Maurizio Rebuzzini Ricerca iconografica di Filippo Rebuzzini
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UN PASSO DOPO L’ALTRO novant'anni
Data ufficiale: la Nippon Kogaku Kogyo Kabushiki Kaisha (Ko = luce; gaku = studio), da cui il marchio fotografico Nikon, così come da decenni lo conosciamo, nasce il 25 luglio 1917 dalla fusione di tre piccole precedenti industrie ottiche giapponesi: Tokyo Keiki Seidaku (1881), Iwaki Glass Seisaku Sho e Fuji Lens Seizo Sho. Primo indirizzo originario della Nippon Kogaku K. K. è la progettazione e produzione di strumenti ottici di precisione per la Marina Imperiale Giappone-
unque, 1917 (novant’anni fa): siamo nel pieno della Prima guerra mondiale, allora soltanto Grande guerra (quando non era stato ancora necessario contarle), e il Giappone ha bisogno di un’industria ottica alternativa ai marchi soltanto europei, soprattutto tedeschi, che ai tempi dominavano il mercato in regime di sostanziale monopolio. Ricordiamo che, ironia della storia, prima di altre alleanze, che sarebbero maturate nei decenni successivi, l’Impero giapponese era allora alleato con Inghilterra, Francia, Stati Uniti (entrati in guerra il 6 aprile 1917), Russia zarista (uscita dal conflitto nel 1917) e Italia (intervenuta il 23 maggio 1915), contro gli imperi centrali (Germania, Austria-Ungheria, Turchia e Bulgaria). Appunto per motivi strategici e di sicurezza nazionale, era necessaria una industria ottica indipendente dall’estero, soprattutto dalla Germania. Così, all’indomani della propria costituzione, nel 1918 la Nippon Kogaku avviò una fonderia per la produzione e lavorazione in proprio di vetri ottici, precedentemente importati dalla tedesca Schott, dipendenza della Carl Zeiss di Jena. Nello scorrere del tempo, giusto
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NIKON CORPORATION
D
Appena registrata la definizione “Nikkor”, derivante dalla grande valle giapponese ricca di templi e religiosità (Nikko), combinata con il finale “r” della consuetudine tedesca della identificazione degli obiettivi, la Nippon Kogaku avvia la progettazione ottica per fotografia, fino allora estranea agli intendimenti originari. Dello stesso 1932 è questo Nikkor 10,5cm f/4,5 su otturatore centrale Compur, destinato ad apparecchi a soffietto.
questa specializzazione, alle origini della tecnologia Nikon, alla cui base ci sta anche la consulenza di otto tecnici tedeschi che nel 1921 indirizzarono la ricerca, si rivelerà elemento fondamentale nella sua storia aziendale. Nel 1932, venne registrata la definizione “Nikkor”, derivante dalla grande valle giapponese ricca di templi e religiosità (Nikko), combinata con il finale “r” della consuetudine tedesca della definizione degli obiettivi: Carl Zeiss (Tessar, Planar, Sonnar, Biotar), Voigtländer (Apo-Lanthar, Heliar, Skopar, Collinear, Telomar), Goerz (Dagor, Dogmar, Pantar, Artar, Geodar, Geotar, Telegor), Ernemann (Ernostar), Leitz/Leica (Elmar, Summar, Thambar, Hektor, Summitar). Gli stessi anni Trenta impegnarono la ricerca e sviluppo Nippon Kogaku nella progettazione ottica per fotografia, fino allora estranea agli intendimenti originari: per combinazioni generiche con apparecchi di diversa provenienza, come il Nikkor 10,5cm f/4,5 su otturatore centrale Compur del 1932, visualizzato qui accanto, destinato ad apparecchi a soffietto. Nell’agosto 1937, fu quindi creata la prima serie di tre obiettivi standard finalizzati alla fotografia 24x36mm, rispettivamente 50mm (per la verità 5cm) f/4,5, f/3,5 e f/2, che accompagnarono (udite, udite!) l’originaria Hansa Canon a telemetro, sostanzialmente derivata dalla Leica II, la prima con marchio “Canon” (successiva a precedenti configurazioni Kwanon). Allo scoppio della Seconda guerra mondiale, tutta la produzione ottica venne indirizzata verso apparecchiature di interesse militare; va ricordato che le due corazzate nipponiche Musashi e Yamato (le più grandi mai costruite al mondo), furono dotate di sistemi ottici Nippon Kogaku. Nello stesso tempo, l’alleanza con la Germania consentì di intensificare i rapporti aziendali con la tedesca Carl Zeiss, allora con sede a Jena, la più consolida-
DA NIKON FASZINATION,
DI
PETER BRACZKO (3)
Nikon I (1948)
Nikon S (1951)
ta produzione europea (e mondiale) di lenti e obiettivi. Con lettura storica a posteriori, a questo rapporto privilegiato si deve l’ispirazione/derivazione Contax dei primi apparecchi Nikon a telemetro, che sarebbero stati progettati e prodotti alla fine della guerra, quando altri marchi giapponesi (e orientali e statunitensi ed europei) si ispirarono alla Leica, tanto da poterne conteggiare oltre trecento copie, create in tutto il mondo nei dieci-quindici anni successivi al 1945. Curiosamente, la storia Nikon (comin(in alto e al centro) In accostamento, l’annuncio pubblicitario originario della Nikon I (1948), apparecchio a telemetro per quaranta pose 24x32mm, e quello, successivo, della Nikon S2 (1954), con i nuovi prezzi del 1956. Sul prestigioso e qualificato The New Times del 10 dicembre 1950 viene pubblicato un articolo che elogia la qualità degli obiettivi e apparecchi fotografici Nikon, giudicata tra le più alte dell’intero mercato.
ciamo a identificarla così) ricalca, però, una precedente vicenda Leitz/Leica. Così come la produzione ottica di Wetzlar approdò alla fotografia all’indomani della Prima guerra mondiale, per certi versi a seguito della crisi economica che sconvolse la Germania, dando appunto fiato e fiducia all’indirizzo fotografico (con l’originaria Leica I del 1925), anche il progetto della Nikon a telemetro risponde alla ricerca di nuovi mercati, da affrontare in un momento difficile dell’economia nazionale. Proprio la fotografia risultò allora potenzialmente più remunerativa degli strumenti ottici prodotti in precedenza.
TELEMETRO Nel 1946, fu avviata la produzione sperimentale di venti apparecchi a telemetro, identificati con un riferimento combinato dalle iniziali Nippon Kogaku, al quale fu aggiunta una “n” finale che ne migliorava la pronuncia in tutto il mondo: appunto, Nikon. La configurazione definitiva Nikon I è
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Nikon SP (1957)
Pubblicata da Harper & Brothers nel 1951, la raccolta fotografica di David Douglas Duncan This is War! rappresenta la prima testimonianza fotografica dal (giovane) fronte della guerra di Corea, dove il celebre fotoreporter statunitense fu tra i primi a usare le Nikon a telemetro. Testimonianza dalle origini, o quasi: il celebre cantante e attore Sammy Davis Jr (vicino al clan di Frank Sinatra) fotografa una affascinante e procace Elizabeth Taylor con una raffinata Nikon S2 nera.
DA NIKON FASZINATION,
DI
PETER BRACZKO (2)
Nikon S3 (1958)
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Nikon S3M (1960)
del 1948 [a pagina 59]: apparecchio a telemetro di ispirazione Contax, dalla cui costruzione ereditò anche il dorso estraibile, non incernierato, che verrà conservato fino alla reflex Nikon F del successivo 1959. Curiosamente, il formato di esposizione
della Nikon I non è 24x36mm, ma 24x 32mm [ancora a pagina 59], identificato come “Japan Size” (o “Nippon Size”, in altre rievocazioni storiche), proporzionale ai tagli di carta sensibile e più vicino allo standard statunitense 4:5 (dal 4x5 pollici
all’8x10 pollici) di quanto non lo sia la proporzione 24x36mm. Sul fondello, questa Nikon I porta l’indicazione “Made in Occupied Japan”, che certifica la sua costruzione nel Giappone occupato (dagli Stati Uniti). Non sarà ancora 24x36mm anche per le successive Nikon M (derivazione diretta dell’originaria Nikon I) e Nikon S (che dà una scossa all’insieme delle caratteristiche tecniche e di uso [a pagina 59]), rispettivamente datate 1949 (altrove, 1950) e 1951. Dalla Nikon S2 del 1954, che segue la precedente “S”, tratteggiando i termini di una autentica genìa di quattro modelli in linea diretta, fino alla S3, tutto rientra nella norma del formato fotografico standardizzato 24x36mm [ancora a pagina 59]. Comunque, in questi primi anni Cinquanta prende avvio la fama Nikon, le cui telemetro originarie sono usate dai fotoreporter statunitensi impegnati nella guerra di Corea (1950-1953), che apprezzano la qualità dei suoi obiettivi e la versatilità del corpo macchina: sulla pagina accanto, una testimonianza di David Douglas Duncan; e alla precedente pagina 59, una testimonianza giornalistica dal The New York Times del 10 dicembre 1950. Con mirini dotati di cornici luminose per combinazioni ottiche diverse -a ciascun apparecchio la sua-, è telemetro per l’intero decennio: Nikon SP (1957 [pagina accanto, in alto; e in copertina di questo numero di FOTOgraphia, a richiamo della rievocazione dei novant’anni Nikon]), Nikon S3 (1958 [pagina accanto, al centro]), Nikon S4 (1959) e Nikon S3M (1960; per il mezzo formato 18x24mm su pellicola 35mm [pagina accanto, in basso]). E sarà ritorno al telemetro con le celebrative Nikon S3 del Millennio (appunto Y2k, del 2000; FOTOgraphia, maggio 2001) e Nikon SP Limited Edition del 2005.
Nikon F (1959)
Nikon F Photomic (1962)
REFLEX Nel 1959, nasce la reflex che imprime il proprio valore e prestigio nella Storia: Nikon F a sistema [a destra, in alto; e in copertina], che nel 1962 acquisisce la prima versione del mirino esposimetrico Photomic (perfezionato nel corso degli anni, per tutto il decennio [a destra, al centro e in basso]). A ritmo di decadi, le Nikon reflex a sistema diventano F2 (1971 [a pagina 62]), F3 (1980; FOTOgraphia, marzo 1998 [ancora a pagina 62]), F4 e F4S (1988), F5 (1996; FOTOgraphia, settembre 1996) e definitiva F6 (2004; FOTOgraphia, novembre 2004). Oltre le sistematiche interpretazioni dei mirini esposimetrici Photomic, nella successione annotiamo anche
Nikon F Photomic FTN (1968)
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LOGOTIPI (DI IERI)
A
ltro discorso è quello degli alfabetici che identificano i modelli Nikon, a partire dalla “F” e “D” della genìa reflex originaria e del sistema reflex digitale di stretta attualità: discorso che ci piacerebbe approfondire con concentrazione. In attesa, e con l’occasione della rievocazione dei novant’anni Nikon, fermiamoci sui logotipi che nel corso del tempo hanno identificato la produzione (tra i quali riconosciamo perfettamente quello avviato nel 1950, ancora in uso nel 1965, cui si riferisce il ricordo personale di Maurizio Rebuzzini, che evochiamo da pagina 46). A seguire, quelli più recenti, fino all’attuale quadrato con fondo giallo variegato e scritta nera e alla dicitura “Nikon is Different”, appartengono al nostro quotidiano. Nikon F2 Photomic (1971)
1930
1932
Nikon F3HP (1982)
1950
Anni Settanta
Anni Ottanta
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altre configurazioni particolari e/o speciali: tra le quali ricordiamo Nikon F Photomic TN Nasa (1967), F2 Titan (1979), F2 25th Year Anniversary, F2 Gold, F2 Data e F2 Speed Motor Drive Camera del 1976; ancora, Nikon F3HP (1982 [qui sopra]), F3AF (1983), F3 Limited (1983), F4 Press (1988), F5 del cinquantenario (1998). Dopo qualche Nikkorex a obiettivo fisso, anche zoom, è definitivamente Nikkormat a obiettivi intercambiabili con la prima versione FT, del 1965 [pagina accanto]: reflex Nikon non a sistema, in appoggio alla reflex di vertice (Nikomat in al-
tri mercati, tra i quali quelli statunitense e giapponese, come evoca Mauro Vallinotto, chiamato in causa da Lello Piazza, su questo stesso numero, a pagina 50). Evoluzione dopo evoluzione, in anni nei quali il mercato era sostanzialmente stabile per tempi allungati -FS del 1965, FTN del 1967, FT2 del 1975 e FT3 del 1977, la Nikkormat diventa automatica a priorità dei diaframmi dalla EL del 1972 (ELW nel 1976), e poi ogni reflex sarà definitivamente “Nikon” dalla EM del 1979 (altrove 1980; due anni dopo la prima FM, già “Nikon” nel 1977), la cui linea evolu-
tiva diretta registra le Nikon FG e FG-20, rispettivamente datate 1982 e 1984.
ANCORA REFLEX Con interpretazioni al passo con i rispettivi propri tempi, soprattutto applicate agli automatismi di esposizione antecedenti l’autofocus, la Nikkormat ELW diventa Nikon EL2 nel 1977, in una linea evolutiva dalla quale deriva anche la serie FE, che nasce nel successivo 1978 [a destra, al centro]; poi, FE2 nel 1983 e FE10 nel 1997, con inserimento Nikon FA nel 1983 (FA Gold celebrativa, nel 1984). Ancora nel 1977, sull’onda lunga della definitiva Nikkormat FT3, nasce la serie FM, appena citata; in linea diretta: FM2 nel 1982, FM2 New nel 1984 (con derivazioni FM2/T New, nel 1993, e FM10, nel 1995) e definitiva FM3A nel 2001 [a destra, in basso]. Nel 1992, è reflex Nikonos RS anche la subacquea erede della genìa avviata con la prima Nikonos I a mirino del 1963 (Calypso/Nikkor), cui sono seguite le configurazioni Nikonos II (1968), Nikonos III (1975), Nikonos IV-A (1980) e Nikonos V (1984) [tutte le subacquee a pagina 64]. La Nikon F-301 del 1985 è la prima a incorporare il motore di avanzamento della pellicola dopo lo scatto (2,5 fotogrammi al secondo) e la F-501, del successivo 1986, avvia l’epopea autofocus, che comunque conserva l’originario innesto a baionetta degli obiettivi intercambiabili (ancora oggi proprio e caratteristico delle più recenti dotazioni reflex ad acquisizione digitale di immagini). A seguire, Nikon F-401 (1987), Nikon F-801 (1988), Nikon F-601 e F-601M (1990; la “M” non è autofocus); e poi, ancora, Nikon F90 (1992), F50 (1994), F60 (1998), F100 (1998), F80 (2000) e F55 (2002). Per lo sfortunato standard APS (FOTO graphia, aprile 1996) registriamo le Pronea 600i e Pronea-S (1996 e 1998).
Nikomat FT [Nikkormat FT] (1965)
Nikon FE (1978)
DIGITALE Compatte a parte, che percorrono un tragitto autonomo e prolifico, sia nelle dotazioni argentiche (è semplicemente eccezionale la Nikon 35Ti del 1993: compatta di raffinato lusso) sia in configurazione digitale, la cronaca più recente scandisce i termini della fotografia ad acquisizione digitale di immagini: dopo combinazioni diverse (a partire dalla Kodak DCS 200, del 1992, e dalle reflex Fujifilm FinePix, avviate con la S1 Pro del 2000), registriamo le Nikon E2/E2S del 1995, presto seguite da altre reflex in rapida successione tecnologica (E2N/E2NS
Nikon FM3A (2001)
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Nikonos I [Calypso/Nikkor] (1963)
Nikonos IV-A (1980)
Nikonos V (1984)
Nikonos RS (1992)
S
enza obiettivo!, come abbiamo annotato in occasioni successive: per esempio, nella presentazione del Finney Body Cap, il foro stenopeico (pinhole) per reflex 35mm, tra le quali Nikon (FOTOgraphia, luglio 1998). Ripetiamo: realizzata al di fuori di ogni schema precostituito, la fotografia senza obiettivo rappresenta una delle principali espressioni della trasgressione visiva. Come certificano gli innumerevoli riferimenti Internet e come celebra il trimestrale Pinhole Journal, le manifestazioni di fotografia arbitraria, lontane dai canoni della ripresa fotografica leziosamente perfetta, nascono spesso dall’interpretazione del foro stenopeico, pinhole in inglese. Per certi versi, i fori stenopeici per apparecchi 24x36mm, tra i quali quello in montatura a baionetta Nikon, rappresentano una contraddizione nei termini: perché i negativi vanno necessariamente ingranditi otticamente (con un passaggio fotografico successivo e tradizionale). Oppure, per rimanere nella più pura tradizione della fotografia a foro stenopeico fine a se stessa, si deve scattare in diapositiva. Come abbiamo già accennato ogni volta che abbiamo affrontato la fotografia con foro stenopeico, la qualità formale dell’immagine che si forma nel passaggio attraverso un foro di diametro microscopico dipende dal rapporto tra il diametro dello stesso foro e la distanza focale, ovverosia il tiraggio al piano pellicola (mentre lo spessore estetico dell’immagine è tutt’altra questione). In tutti
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i casi: tanto più corta è la focale, ovverosia tanto più il foro stenopeico è vicino al piano immagine, tanto più piccolo deve essere il diametro del foro. Il diametro del foro stenopeico per Nikon è infinitesimale, in proporzione diretta al tiraggio al piano focale: 0,3mm di diametro (0,011 pollici, per l’esattezza; ovvero 0,2794mm). Sulla “focale” reale di 50mm, che è poi lo spessore dei corpi macchina reflex Nikon dalla battuta del tappo-foro al piano immagine, questo foro stenopeico equivale a una apertura f/180 del diaframma (formula nota: 50:0,2794=178,95490; cioè f/180, appunto). Nel concreto, si tratta di un foro stenopeico fissato su una montatura rigida (tappo del corpo macchina). Nel suo uso si debbono risolvere due problematiche: controllo del campo inquadrato (niente reflex, serve un mirino esterno; con gli apparecchi digitali è utile il controllo immediato sul display, dopo lo scatto) e regolazione dell’esposizione. A ciascuno, la propria soluzione efficace.
LUCA VENTURA
ANCHE STENOPEICO
LUCA VENTURA
Per decenni, la chiusura a molla dei tappi anteriori dell’obiettivo, comandata da due clip esterne, è stata un brevetto Nikon. Nel corso del tempo, è cambiata la configurazione degli stessi tappi, come pure la loro grafica, a partire dalle clip metalliche e dai diametri per gli obiettivi degli apparecchi a telemetro, inferiori allo standard 52mm adottato a partire dalla Nikon F, del 1959.
Nikon E3 (1998)
Nikon D1 (1999)
del 1996, E3/E3S del 1998 [in alto]) e dalle compatte Coolpix. Nomi, sigle e caratteristiche tecniche dei nostri giorni, che nell’interpretazione più concreta hanno preso avvio dalla Nikon D1 del 1999 [qui sopra]; poi, Nikon D1X (2001), Nikon D1H (2001), Nikon D100 (2002; la prima prosumer), Nikon D2H (2003), Nikon D70 (2004), Nikon D2X (2005), Ni-
kon D2HS (2005), Nikon D70S (2005), Nikon D50 (2005), Nikon D200 (2005), Nikon D2XS (2006), Nikon D80 (2006). Fino alle più recenti Nikon D3 e D300, che abbiamo presentato lo scorso ottobre, sulle quali torniamo da pagina 74. Cosa manca ancora, da questa stringata sintesi, limitata agli aspetti macroscopici della storia tecnica Nikon? Prima di
tutto, gli obiettivi del sistema F (e per apparecchi medio formato Zenza Bronica), tra i quali si registrano molte interpretazioni ottiche ardite (compresa una Nikon Fisheye Camera, con 16,3mm f/8 per proiezione tonda su pellicola a rullo 120, del 1960, dalla quale è poi partita la gamma di obiettivi Fisheye per le reflex); immediatamente a seguire, la collaborazione con la Nasa; poi, le cineprese, i binocoli, gli obiettivi da ingrandimento (i mitici EL-Nikkor) e per arti grafiche e le dotazioni digitali complementari (dagli scanner ai software); ancora, i prototipi. E anche le dotazioni speciali e specialistiche realizzate per Nikon da altri produttori (tra le quali gli ingombranti dorsi Speed-Magny per pellicola Polaroid). A parte, dalla seguente pagina 66, ci soffermiamo sulla straordinaria linea di obiettivi per grande formato, che hanno vivacizzano una stagione alla quale siamo particolarmente legati (tanta la nostalgia e altrettanti i rimpianti). Quindi, segnaliamo una costruzione fotografica artigianale, ideata a Brooklyn, New York, modificando corpi macchina Nikon F (da pagina 70). Per il resto, non mancano opportunità di approfondimento storico e tecnologico; sopra tutti, per saperne di più segnaliamo due titoli pubblicati da Editrice Reflex di Roma: Nikon Story, di Pierpaolo Cancarini Ghisetti (FOTOgraphia, maggio 2001), e Nikon Pocket Book, di Peter Braczko. Un per l’altro e i due insieme, autentici luminari della materia. Antonio Bordoni Ricerca iconografica di Ciro Rebuzzini
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PER GRANDE FORMATO
novant'anni
La stagione della fotografia grande formato, con apparecchi a corpi mobili per esposizioni dal 4x5 pollici all’8x10 pollici (dal 10,2x 12,7cm al 20,4x25,4cm), a banco ottico piuttosto che folding, è stata animata da famiglie di obiettivi Nikkor, che hanno imposto sia l’alta qualità delle proprie discriminanti tecniche sia la lunga ombra di una produzione leader nel mondo della fotografia professionale. La leggenda delle interpretazioni per la fotografia 24x36mm si è allungata nelle applicazioni del grande formato
inque famiglie ottiche Nikkor hanno offerto ben ventisei disegni finalizzati alla fotografia grande formato, con apparecchi a corpi mobili per esposizioni dal 4x5 pollici all’8x10 pollici, a banco ottico oppure folding. Senza soluzione di continuità, e con particolare consapevolezza fotografica, coltivata e maturata a stretto contatto con le esigenze dell’impegno professionale, Nikon ha affrontato e risolto in maniera magistrale ogni applicazione e ogni necessità esplicita del grande formato fotografico: territorio di grande valore tecnico. Soprattutto a causa della discrezione dei propri termini identificatori, c’è sta-
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to un tempo nel quale la merceologia del grande formato fotografico è potuta anche apparire tecnologicamente immobile. Se ciò è avvenuto, si è trattato di una impressione sbagliata, determinata dal fatto che la sua effettiva tecnologia applicata si è manifestata con connotati misurati, esteriormente assai diversi rispetto all’evidenza propria delle molteplici funzioni di uso. In realtà, nel riferimento alla ripresa fotografica in grande formato, con apparecchi a corpi mobili, il concetto stesso di tecnologia è semplicemente scartato a lato rispetto relazioni e rapporti altrove consolidati. Cioè, non si è trattato tanto di ragionare nei termini dell’integrazione fotografica con funzioni controllate e dirette elettronicamente, quanto, più semplicemente, di valutare l’efficienza delle prestazioni ottiche collegate all’adeguato movimento dei piani principali dell’apparecchio, rispettivamente utilizzati per il controllo prospettico
del soggetto inquadrato e l’estensione ottimale della sua nitidezza. Per cui è sempre stato fondamentale riferirsi esattamente all’elemento effettivamente discriminante, che condiziona ogni altra funzione operativa d’uso: la tecnologia ottica della progettazione e costruzione degli obiettivi per fotografia grande formato.
TECNOLOGIA OTTICA ESCLUSIVA Ciò precisato, va sottolineato come la gamma di obiettivi Nikkor per grande formato abbia sempre potuto vantare una caratteristica di fondo assolutamente unica, che ha distinto e qualificato le sue interpretazioni e soluzioni all’interno di una merceologia altrimenti contrassegnata da progetti ottici antichi. A differenza dei quali, le famiglie Nikkor per fotografia grande formato sono state concepite con calcoli ottici di grande attualità; inoltre, la struttura degli stessi obiettivi Nikkor per grande formato è dipesa anche dalla vasta esperienza Nikon maturata nella progettazione e costruzione degli obiettivi intercambiabili per le sue reflex 24x36mm. In assoluto, l’efficacia del progetto ottico Nikkor per grande formato si manifesta attraverso risultati fotografici decisamente rinnovati. Anzitutto, questi obiettivi Nikkor sono caratterizzati da
Le sei famiglie ottiche Nikkor per grande formato, qui rappresentate da una focale ciascuna: Nikkor-SW, grandangolari da 105-106 gradi di angolo di campo nominale (sei focali); Nikkor-W, standard da 69-73 gradi di angolo di campo nominale (otto focali); Nikkor-M, standard semplificati da 52-57 gradi di angolo di campo nominale (tre focali); Nikkor-AM ED, macro per fotografia 1:1, al naturale (due focali); Nikkor-T ED, teleobiettivi da 15-33 gradi di angolo di campo nominale (sette focali). In tutto, ventisei obiettivi.
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Disegni ottici moderni, i grandangolari Nikkor-SW, con apertura relativa f/4 e 4,5 o f/8, raggiungono la visione di 105-106 gradi di angolo di campo nominale con distribuzione ottimale della luminosità su tutta la proiezione (immagine) anche senza il filtro grigio a densità concentrica variabile, altrove indispensabile.
prestazioni ottimali a tutte le aperture del diaframma, fin dalla propria massima apertura relativa; e poi, gli stessi obiettivi sono anche qualificati da ampi cerchi immagine ai medesimi più alti valori di diaframma (senza dipendere dalla regolazione al fatidico valore di f/22, necessario alle altre produzioni). In secondo luogo, nessun obiettivo Nikkor per grande formato, qualsiasi sia il proprio angolo di campo, segnala perdite di luminosità tra centro e bordi dell’intera proiezione sul piano focale. Ciò a dire che i grandangolari estremi Nikkor-SW, da 105-106 gradi di angolo di campo nominale, non necessitano dei consueti filtri a densità concentrica variabile, che altre costruzioni grandangolari L’angolo di campo reale della ripresa dipende dalla lunghezza focale dell’obiettivo (che condiziona il tiraggio al piano focale) e dal formato di ripresa. All’infinito -tiraggio pari alla lunghezza focale-, il formato 4x5 pollici utilizza ogni obiettivo 150mm per 53 gradi di angolo di campo reale. L’abbondanza all’interno del cerchio immagine serve per la disposizione dei piani dell’apparecchio. La gamma Nikkor-M è caratterizzata da un angolo di campo nominale ristretto: 55, 57 e 52 gradi.
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debbono utilizzare per compensare l’adeguata luminosità tra il centro e i bordi del cerchio immagine, altrimenti penalizzata da uno scarto di oltre uno stop di luce. I disegni ottici simmetrici dei Nikkor-W garantiscono il pertinente comportamento fotografico in ogni condizione di utilizzo e poi, prerogativa unica, la famiglia dei teleobiettivi Nikkor-T ED non ha corrispondenti in nessuna altra gamma ottica. Si tratta di teleobiettivi dal disegno combinabile, che facilita la creazione di lunghezze focali differenti, stabilite dal gruppo ottico posteriore (e ne parliamo dettagliatamente più avanti). Discretamente latente dietro la fredda facciata ufficiale dei termini numerici che stabiliscono i valori assoluti dei singoli obiettivi, la tecnologia ottica Nikkor grande formato è stata una delle autentiche discriminanti della ripresa fotografica con i corpi mobili. Oltre l’elevata qualità delle prestazioni delle singole focali e delle singole famiglie, si è soprattutto segnalato il più pertinente adeguamento alle condizioni di uso degli apparecchi grande formato a corpi mobili: sia in sala di posa, dove sono indispensabili cerchi di copertura convenienti, sia in esterno, dove è fondamentale poter disporre di lunghezze focali anche estreme, e soprattutto con costruzione tele.
GRANDANGOLARI E STANDARD Sei le focali grandangolari Nikkor-SW, da 105-106 gradi di angolo di campo: 65mm f/4 (in assoluto, il più luminoso del mercato) e 75mm f/4,5, con copertura fino al 4x5 pollici (10,2x12,7cm); 90mm f/4,5 e 90mm f/8, con copertura fino al 13x18cm; 120mm f/8 e 150mm f/8, con copertura fino all’8x10 pollici (20,4x25,4cm). Da 69 a 73 gradi di angolo di campo nominale, al cui interno, al solito, ogni formato di ripresa può applicare estensioni dei propri movimenti di accomodamento (lineari di decentramento e rotatori di basculaggio), gli standard Nikkor-W hanno scandito i tempi di otto focali in progressione cadenzata. I più corti 105mm f/5,6 e 135mm f/5,6 sono indirizzati alla confortevole copertura fino al 4x5 pollici
Riferendosi alla fotografia grande formato si deve tenere conto dell’ipotesi di base secondo la quale, per meglio sfruttare la potenziale collocazione differenziata dei piani dell’apparecchio, sono necessari obiettivi con cerchio immagine più ampio dello stretto necessario. Per cui, i 69-73 gradi di angolo di campo degli standard Nikkor-W sono soprattutto finalizzati al controllo prospettico del soggetto e alla sua resa nitida. La sequenza delle otto lunghezze focali, da 105 a 360mm, è dunque adeguata sia alla copertura di formati di ripresa diversi, sia alla sistematica composizione di prospettive differenti.
(con legittima abbondanza), risolvendo in maniera superlativa la ripresa di dimensioni inferiori: 6x7 o 6x9cm, nella proporzione standard del fotogramma; 6x12cm, nell’interpretazione panorama dell’inquadratura e composizione. A seguire, il formato di esposizione 13x18cm è adeguatamente risolto dalle focali 150mm f/5,6, 180mm f/5,6 e 210mm f/5,6; così come i più lunghi 240mm f/5,6, 300mm f/5,6 e 360mm f/6,5 approdano all’8x10 pollici. Altrettanto standard, da 52 a 57 gradi di angolo di campo nominale, il disegno ottico Nikkor-M ha offerto una soluzione semplificata alla fotografia grande formato con focali sostanzialmente generose: 200mm f/8, per la copertura fino al 13x18cm; e 300mm f/9 e 450mm f/9, per la copertura fino all’estremo 8x10 pollici. Ma anche e addirittura oltre, in relazione alle applicazioni particolari, con pellicola piana di dimensioni ancora superiori: fino all’11x14 pollici e al 12x20 pollici (rispettivamente, circa 28x35cm e 30x50cm!) di una identificata fotografia di paesaggio di scuola californiana.
DISEGNI SPECIALI Quindi, Nikon ha realizzato altre due famiglie a disegno ottico finalizzato, entrambe impreziosite dalla combinazione di lenti in cristallo ottico ED a basso indice di dispersione (Extra-low Dispersion): Nikkor-AM ED per la macrofotografia e Nikkor-T ED con
LINEA D’ORO NIKKOR ED
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arola d’ordine inviolabile: massima qualità della ripresa fotografica grande formato, anche in condizioni estreme. Da cui, per la migliore correzione delle aberrazioni cromatiche proprie degli schemi di focali molto lunghe o di obiettivi utilizzati in condizioni particolari, Nikon ha ideato la combinazione ottica con lenti realizzate in cristallo ottico
ED a basso indice di dispersione (Extra-low Dispersion). Ai tempi ampiamente adottata nella progettazione e costruzione dei teleobiettivi Nikkor luminosi per fotografia 24x36mm, per quanto riguarda la fotografia grande formato questa soluzione è stata applicata ai teleobiettivi Nikkor-T ED e macro Nikkor-AM ED. Assieme al trattamento inte-
disegno tele. In entrambi i casi, si tratta di disegni ottici assolutamente esclusivi, che hanno affrontato e risolto particolari condizioni della ripresa fotografica. I Nikkor-AM ED sono obiettivi macro, ribadiamo, dedicati all’uso privilegiato nella ripresa al rapporto di riproduzione 1:1, al naturale, con un conseguente tiraggio al piano focale doppio rispetto la lunghezza focale nominale: 120mm f/5,6, per la copertura di campo fino al 13x18cm, e 210mm f/5,6, per l’8x10 pollici. Discorso lungo per i teleobiettivi Nikkor-T ED. I concetti che definiscono le loProgettati per la fotografia a distanza estremamente ravvicinata, i Nikkor-AM ED 120mm f/5,6 e 210mm f/5,6 sono obiettivi adatti ai rapporti di riproduzione prossimi all’inquadratura 1:1; cioè inquadratura al naturale: l’immagine sul piano focale è grande quanto il soggetto. Siccome nella fotografia con apparecchi grande formato non esistono problemi di messa a fuoco, regolata con continuità mediante l’allontanamento e avvicinamento dei piani (obiettivo e piano focale), ogni esplicito riferimento alla fotografia macro non intende dunque la possibilità di accomodamento del fuoco, quanto si riferisce alla correzione ottica adeguata alla fotografia a brevi distanze. Le focali significativamente contenute dei due obiettivi macro, da utilizzare per l’inquadratura al naturale, consentono sistemazioni comode e sicure dell’apparecchio fotografico. Il limitato tiraggio al piano focale, anche al rapporto di riproduzione ravvicinato, favorisce il pratico allestimento del set.
grale antiriflessi Nikon NIC, le lenti in vetro a basso indice di dispersione garantiscono immagini di eccezionale nitidezza, esenti da aloni o riflessi. Sulla montatura degli obiettivi, la tecnologia ottica ED è certificata da una bordatura dorata in prossimità dell’incisione dei valori identificatori dello stesso obiettivo Nikkor.
ro prestazioni si scostano da quelli propri di ogni altra famiglia di obiettivi Nikkor grande formato. Più che dipendenti dalle tante considerazioni implicite nella distinzione tra i vari e diversi angoli di campo nominale, ai quali corrispondono conseguenti diametri del cerchio immagine, i teleobiettivi segnalano soprattutto il valore assoluto della propria lunghezza focale, via via elaborata per la coerente copertura del formato fotografico al quale sono destinati. Come ogni obiettivo Nikkor grande formato, anche i teleobiettivi Nikkor-T ED sono utilizzabili dalle dimensioni inferiori di fotogramma, ma non è questo il punto: ciò che effettivamente conta è la lunghezza focale sistematicamente lunga. I teleobiettivi Nikkor-T ED si distinguono in due linee, rispettivamente dedicate al grande formato 13x18cm e al grande formato 8x10 pollici: cerchio immagine di diametro adeguato. Ai due gruppi, ciascuno di tre lunghezze focali, si aggiunge quindi il teleobiettivo Nikkor-T ED 270mm f/6,3, singolo, per il grande formato 4x5 pollici. In famiglia ottica per le due dimensioni superiori della ripresa in grande formato, i teleobiettivi Nikkor-T ED hanno una costruzione ottica caratterizzata da un disegno componi-
A parte il più corto Nikkor-T ED 270mm f/6,3, indirizzato alla sola combinazione con il formato 4x5 pollici (e formati inferiori), le altre sei lunghezze focali dei teleobiettivi Nikkor-T ED per grande formato sono divise in due serie dalla costruzione ottica rispettivamente componibile: una è destinata alla copertura del grande formato 13x18cm e l’altra del grande formato 8x10 pollici. Il gruppo ottico anteriore è comune a tre lunghezze focali, effettivamente definite dalla combinazione con la sezione posteriore: in sequenza 360mm f/8, 500mm f/11 e 720mm f/16, per la copertura del formato 13x18cm, e 600mm f/9, 800mm f/12 e 1200mm f/18, per la copertura del formato 8x10 pollici.
bile: il gruppo ottico anteriore è in comune a tre teleobiettivi, mentre la lunghezza focale è determinata dalla combinazione con il gruppo posteriore. A parte la disponibilità degli obiettivi completi, si possono formare le diverse lunghezze focali utilizzando un unico gruppo ottico anteriore e l’otturatore centrale Copal, comuni ai tre teleobiettivi, con i singoli gruppi ottici posteriori, che determinano appunto la lunghezza focale. Le combinazioni prevedono la divisione nelle due famiglie dei teleobiettivi Nikkor-T ED 360mm f/8, 500mm f/11 e 720mm f/16, per la copertura del formato di ripresa 13x18cm, e dei teleobiettivi Nikkor-T ED 600mm f/9, 800mm f/12 e 1200mm f/18, per la copertura del formato di ripresa 8x10 pollici. Angelo Galantini Fotografie di Luca Ventura
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PANORAMA ACCELERATO novant'anni
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oche notizie certe, tante supposizioni. L’artigianato fotografico di Siciliano Camera Works di Brooklyn, New York, è avvolto nel mistero. Si fa il nome di Tom Germano, che negli anni Settanta avrebbe costruito apparecchi grandangolari per esposizioni 6x9cm su pelli-
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cola a rullo 120 e 220 con visione grandangolare dell’obiettivo Mamiya-Sekor 75mm f/5,6, ripreso e recuperato dal sistema ottico della Press Universal / Super 23: ne riferisce esplicitamente il fotografo Cliff Goldthwaite, a margine del suo portfolio di immagini giapponesi presentato sul sito della galleria statunitense Ku-
mo, di Valatie, stato di New York (www.kumodesign.com), dove precisa altresì una produzione di cinquanta esemplari. Analogamente, anche Duncan McCosker, fotografo e docente alla University di San Diego, in California, si riferisce alla configurazione artigianale Siciliano Camera Works presentando la propria serie Bathers
Databile ai primi anni Novanta, in sostanziale anticipo su configurazioni a inquadratura panorama che sono arrivate sul mercato più tardi (sopra tutte, l’Hasselblad XPan, in Giappone Fujifilm TX-1), la Pannaroma 1x3 è una delle straordinarie costruzioni artigianali che hanno vivacizzato quel percorso tecnico indipendente che attraversa tutte le stagioni della fotografia. A partire da un corpo macchina reflex Nikon F, Siciliano Camera Works di Brooklyn ha realizzato una configurazione per esposizioni/visioni panorama 24x72mm, appunto con rapporto uno-a-tre: scomparso lo specchio reflex (e il relativo mirino pentaprismatico), è stato eliminato l’otturatore, allargato il piano fotogramma, modificato l’avanzamento e montato un obiettivo 50mm f/6,3 capace di coprire il formato panorama (http://.home.sandiego.edu/-mccosker/). Mantenendo la certificazione Siciliano Camera Works, all’inizio degli anni Ottanta, Tom Germano ha cambiato il nome anagrafico in Thomas Roma, senza altresì alterare le propria personalità: fotografo, insegnante e progettista e costruttore di apparecchiature fotografiche.
Così che, le tracce di Thomas Roma indicano sue docenze in accreditati indirizzi della fotografia, tra i quali la celebre School of Visual Arts di New York City, nella seconda metà degli anni Ottanta, e l’attuale cattedra alla Columbia University. Nel maggio 2002, commentando la sua serie fotografica Found in Brooklyn (raccolta anche in monografia: introduzione di Robert Coles; W.W. Norton & Company, 1996; 90 pagine 25x20cm; 35,00 dollari), nel proprio sito www.artnew.com il periodico ART news si sposta anche sul suo artigianato fotografico, certificando che qualificati autori hanno acquistato le sue realizzazioni, da Gilles Peress a Lee Friedlander, a Josef
Koudelka (che sicuramente ha una Pannaroma 1x3 identica a quella che presentiamo in queste pagine: ne siamo certi).
PANNAROMA 1x3 Finalizzata a inquadrature panorama con rapporto accelerato tra i lati, appunto uno-a-tre, la Pannaroma 1x3 si basa sul corpo macchina Nikon F, originariamente reflex. È per questo, che la inseriamo nella celebrazione dei novant’anni della Nikon, conteggiati dall’origine del 1917. L’adozione della Nikon F come base di modifica non è certamente casuale. Da una parte si tenga conto della sua robusta costruzione fotografica, dall’altra non
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si sottovalutino le concrete possibilità di intervento. Infatti, all’interno del corpo macchina, sul piano pellicola c’è tanto spazio meccanico per profilare una cornice-immagine 24x72mm (appunto uno-atre). Eliminato tutto l’otturatore e lo specchio reflex, lo spazio immagine può essere allargato. Quindi, la Pannaroma 1x3 oscura il riquadro del mirino, cui in origine si aggancia il pentaprisma semplice oppure quello esposimetrico Photomic, con la montatura sulla quale viene collocato l’obiettivo di ripresa capace di coprire il fotogramma panorama 24x72mm. Ancora, come nel caso delle 6x9cm grandangolari richiamate in apertura, Thomas Roma utilizza un obiettivo proveniente dal sistema Mamiya Press Universal / Super 23. Originariamente indirizzato alla copertura completa del fotogramma medio formato 6x9cm, il grandangolare MamiyaSekor 50mm f/6,3 è perfettamente adatto alla visione panorama su pellicola 35mm: circa 74 gradi di angolo di campo sul lato lungo 72mm. Sulla sua montatura sono regolati il diaframma e il tempo di otturazione: scala fino a f/32 e otturatore centrale con tempi da un secondo a 1/500 di secondo, più posa B; sincroflash X e M per il flash elettronico e quello a lampadine. Ovviamente, la messa a fuoco è manuale: con accomodamento da un metro (al caso, per sessioni tranquille, un telemetro esterno aggiuntivo può fornire indicazioni utili, da riportare sulla scala di messa a fuoco). L’inquadratura è controllata con mirino ottico esterno, collocato sull’apposita slitta porta accessori solidale alla montatura dell’obiettivo che avvolge l’originario corpo macchina Nikon F. All’interno del mirino, adeguatamente luminoso e brillante, a livello di quelli più rinomati (a partire dai leggendari Leica), sono riportate le cornici luminose che delimitano il formato di ripresa, all’interno di un campo visivo adeguatamente più ampio. Una indicazione tratteggiata precisa il campo inquadrato a distanza ravvicinata: correzione del parallasse. Come già annotato, l’avanzamento della pellicola 35mm è stato alterato rispetto l’originaria cadenza (24x)36mm. È libera, con pertinente combinazione a indicazioni esatte sul contafotogrammi, che scandiscono il ritmo delle quindicisedici pose (24x)72mm su pellicola da trentasei pose 24x36mm: dipende dall’avarizia di caricamento (Vues n° 0, di Jean-Christophe Béchet, in FOTOgraphia dello scorso maggio). I rilievi tecnici si concludono qui, non prima di aver ricordato che le altre precau-
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ALTRO ARTIGIANATO STATUNITENSE
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uello dell’artigianato fotografico è un capitolo affascinante: sia nella dimensione che è rimasta tale, nobile artigianato, sia in quella convertita in produzione industriale (l’italiana Silvestri, sopra tutte). Agevolati e confortati dalla geografia, proprio in Italia potremmo dilungarci in lungo e largo, magari proprio a partire dall’appena citato Vincenzo Silvestri, approdato a una produzione industriale evolutasi da una costruzione grandangolare individuale. A Firenze, da dove agisce Vincenzo Silvestri, potremmo registrare anche l’esperienza del non dimenticato Luciano Nustrini, mancato in un incidente aereo a Auckland, dove nel frattempo si era trasferito, nel 1999: ancora configurazione grandangolare assemblata con elementi provenienti da diversi sistemi fotografici originari. Però, è qui il caso di soffermarsi soltanto sul fronte statunitense, ricordando prima di altri i Globus Brothers (Rick, Ron e Steve), che dalla fine dei Settanta si sono impegnati anche verso la fotografia panoramica a obiettivo rotante. In questo senso, registriamo la GlobuScope dell’inizio degli anni Ottanta, per fotografie orbicolari a 360 gradi su pellicola 35mm. E poi, annotiamo anche l’applicazione della rotazione programmata orizzontale ad apparecchi a banco ottico 4x5 pollici, con pellicola a rullo di altezza cinque pollici: ancora per fotografie orbicolari a 360 gradi. La fotografia grandangolare, alla cui genìa appartiene anche la Pannaroma 1x3, impreziosita altresì dall’inquadratura panorama, ci porta invece alla Brooks-Veriwide, ancora localizzata a New York City. All’inizio fu una costruzione fotografica autentica: dal 1959 al 1965, Veriwide 100, con Schneider Super-Angulon 47mm f/8 su
elicoide e otturatore centrale Synchro-Compur (stile Hasselblad), per esposizioni 6x9cm (56x92mm) su pellicola a rullo 120. La cifra “100” identifica l’angolo di campo approssimativo sulla diagonale, equivalente alla visione della focale 18mm sul formato 24x36mm; mirino ottico esterno Leica 21mm, oppure, in alternativa sostanzialmente economica e conveniente, sovietico Mir-20 (dal sistema di accessori degli apparecchi a telemetro Fed e Zorki). Quindi, dal 1965 al 1975, per dieci anni venne realizzato un assemblaggio di elementi di diversa provenienza (come fece anche il citato Luciano Nustrini): riquadri di collegamento e magazzino portapellicola 6x9cm Mamiya (dal sistema Press Universal), obiettivo Schneider Super-Angulon 47mm f/5,6 o f/8 su elicoide e con otturatore centrale, mirino ottico esterno del Mamiya-Sekor 50mm f/6,3 (obiettivo montato sulla Pannaroma 1x3), la cui inquadratura è analoga a quella del 47mm. Ovviamente, riprese 6x9cm (55x79mm) su pellicola a rullo 120 o 220. Prodotta in un contenuto numero di esemplari, tutti artigianali, tutti su misura dell’acquirente (piccole personalizzazioni), la Brooks-Veriwide ha avuto un effimero momento di gloria cinematografica. È tra le mani del dottor Peter Venkman (Bill Murray) in Ghostbusters II - Acchiappafantasmi II (Ghostbusters II, di Ivan Reitman; Usa, 1989 [qui sotto]).
zioni individuali di uso si basano sulla consueta pratica della fotografia 24x36mm, con controllo di sicurezza alla rotazione della leva di riavvolgimento, solidale al corretto avanzamento della pellicola dopo lo scatto (e nel caso di Nikon F anche del pulsante originario di scatto, con proprio puntino rosso di richiamo e riferimento). Soltanto, annotiamo che Siciliano Camera Works (Thomas Roma) ha opportunamente eliminato gli anelli porta cinghia sul corpo della Nikon F di base, per indurre a sistemare la cinghia di sostegno agli appositi agganci sulla montatura dell’obiettivo, dai quali si ottiene un adeguato equilibrio dell’insieme.
Quindi, per la certificazione “Pannaroma” riprendiamo quanto affermato da Jeff Ladd, allievo di Thomas Roma alla School of Visual Art di New York City alla fine degli anni Ottanta, che fa notare che la moglie dell’ideatore si chiama Anna Roma, da cui P-anna-roma? Contestualmente, pur con una declinazione composita, l’identificazione richiama immediatamente l’inquadratura panorama: e il gioco, se anche di questo si tratta, continua. Per completezza di informazione, riferiamo infine che per la Pannaroma 1x3 si
parla spesso/sempre di due cicli produttivi di trenta pezzi ciascuno, dunque sessanta in totale. Il numero di matricola sull’esemplare in nostro possesso dichiara “13023” e non offre alcuna chiave reale di identificazione (ventitreesimo esemplare?). Negli anni scorsi abbiamo incontrato soltanto altre tre Pannaroma 1x3: una è quella di Josef Koudelka, che abbiamo già menzionato; un’altra era in vendita da Ken Hansen a New York City, nella sede originaria al 920 della Broadway, angolo 21st street; una terza veniva noleggiata da K&M Camera di New York (385 Broadway, tra la Walker street e la White street, nell’area di TriBeCa), ma quest’ultima informazione è vecchia di almeno tre anni, e dunque potrebbe essersi esaurita. Soltanto, possiamo giusto ricostruire il percorso di questa particolare Pannaroma 1x3: in origine l’aveva acquistata il fotografo Gilles Peress, che l’ha venduta a Jeff Ladd, al quale dobbiamo la segnalazione di Anna Roma, moglie di Thomas, che dopo sei anni di uso l’ha riportata a Siciliano Camera Works, che, ancora, l’ha girata a K&M Camera. Tanto per continuare sull’incerto filo del passaparola. Certo è invece il prezzo originario dell’inizio degli anni Novanta, quando la Pannaroma 1x3 veniva venduta negli Stati Uniti a tremila dollari. Maurizio Rebuzzini Fotografie di Franco Canziani
PANNAROMA? Esaurita la presentazione tecnica, ribadiamo allineata sulla celebrazione dei novant’anni Nikon, esprimiamo qualche ipotesi sulla definizione della Pannaroma 1x3, che aggiunge sapore alla lunga storia del marchio giapponese: potere e valore di un affascinante artigianato fotografico che si allinea all’industria più consolidata. Anzitutto, la componente “Camera Works” dell’attribuzione ufficiale Siciliano Camera Works è declinata sul doppio filo della concretezza e del richiamo. Concretezza della identificazione di una produzione (Works) di apparecchi fotografici (Camera). Richiamo al periodico Camera Work, che all’inizio del Novecento è stato l’organo ufficiale del gruppo statunitense Photo-Secession, edito e diretto da Alfred Stieglitz, fotografo lui stesso e organizzatore d’eccezione, visto che gli si deve anche l’apertura della galleria 291 sulla Fifth Avenue di New York (FOTOgraphia, febbraio 1998).
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SUL FILO DI LANA
novant'anni Avviata con l’originaria D1, del 1999, la genìa delle reflex digitali Nikon a indirizzo professionale è approdata alla più recente terza generazione D3. Analoga terza generazione Nikon D300 di appoggio, diciamola così, per le reflex digitali prosumer, evoluzione in linea diretta della prima D100, del 2002. Ne abbiamo ampiamente riferito lo scorso ottobre, in anteprima giornalistica. Qui ribadiamo, sottolineando l’attualità tecnico-commerciale Nikon a conclusione della particolare celebrazione dei novant’anni della sua storia (1917-2007)
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iente di diverso da quanto già relazionato lo scorso ottobre, quando anticipammo i valori delle nuove Nikon D3 e D300 all’indomani della loro presentazione ufficiale del precedente fine agosto. Soltanto un riassunto, utile per certificare l’attualità tecnica di Nikon, dopo le rievocazioni e le curiosità declinate in onore e celebrazione di novant’anni di storia, riportate sulle pagine precedenti: dal sentimento personale alla cronologia, dalla
produzione per fotografia grande formato a un particolare artigianato. Quindi, a conseguenza, riprendiamo i termini principali di quanto già riferito.
NIKON D3 La reflex Nikon D3 è dotata di sensore CMOS di acquisizione digitale in nuovo formato FX (corrispondente al fotogramma tradizionale 24x36mm, per la precisione 36x23,9mm), con risoluzione di 12,1 Megapixel e lettura a dodici canali di read out. Offre un’eccellente rapidità di scatto, fino a nove fotogrammi al secondo, ed elevata sensibilità, per impostazioni da 200 a 6400 Iso equivalenti. Ancora, si segnala un sistema autofocus a cinquantuno punti completamente nuovo, un monitor LCD VGA da tre pollici, con visione live view in autofocus, e un sistema di image processing all’avanguardia. Grazie a un elevato rapporto segnaledisturbo, a un pixel pitch superiore del quindici per cento rispetto lo standard di reflex dello stesso segmento tecnicocommerciale e a uno strato addizionale di microlenti “gapless”, che incrementa-
no l’efficienza, è possibile ottenere immagini di qualità elevata anche in condizioni di illuminazione molto scarsa. Oltre i valori appena annotati, il sensore permette un campo di sensibilità ancora espandibile, fino all’equivalente di 25.600 Iso (con risultato paragonabile a quello delle pellicole invertibili a trattamento forzato più due stop) o riducibile a un minimo di 100 Iso equivalenti. Allo stesso momento, il sistema di elaborazione delle immagini (Image Processing System) EXPEED permette alla Nikon D3 di acquisire ed elaborare elevati quan-
maticamente quando si utilizzano obiettivi DX, oppure impostato volontariamente con ogni tipo di obiettivo Nikkor). La Nikon D3 è la prima reflex digitale a offrire due alloggiamenti card Compact Flash, per una conveniente versatilità di memorizzazione. Si possono effettuare scatti su ciascuna scheda, uno dopo l’altro, o simultaneamente, come backup. In caso di acquisizioni combinate di file grezzi NEF più Jpeg compressi, l’immagine NEF può essere memorizzata su una scheda, mentre la versione Jpeg può essere inviata sull’altra. Inoltre, i file imma-
titativi di dati ad alta definizione. Il sistema Nikon EXPEED integra soluzioni hardware e anni di know-how Nikon nell’elaborazione delle immagini: è caratterizzato da una conversione analogico-digitale (A/D) a quattordici bit, per una elaborazione delle immagini a sedici bit. La Nikon D3 è caratterizzata da un nuovo metodo di analisi e calcolo delle esposizioni e del bilanciamento del bianco, con impiego intelligente esteso anche alla messa a fuoco automatica a inseguimento. Alla base del sistema di riconoscimento scena c’è il noto sensore di misurazione RGB da 1005-pixel di Nikon, che è stato modificato per permettere di distinguere forma e posizione dei soggetti, ai fini di una maggiore precisione dell’esposizione automatica e dell’autofocus. La qualità d’immagine della Nikon D3 è abbinata ad eccezionali opzioni di velocità di scatto: confermiamo, fino a nove fotogrammi al secondo. Con la messa a fuoco automatica a inseguimento disattivata, consente di effettuare scatti consecutivi a undici fotogrammi al secondo in modalità di ritaglio in formato DX (selezionato auto-
gine possono essere selezionati e copiati da una scheda all’altra dopo la ripresa.
NIKON D300 Risoluzione di 12,3 Megapixel effettivi del sensore in formato DX, velocità di scatto pari a sei fotogrammi al secondo, funzione self-cleaning del sensore, monitor LCD VGA ad alta definizione da
tre pollici e visione live view in autofocus: sono queste le discriminanti tecniche principali della Nikon D300, il cui corpo macchina è, ovviamente, più compatto rispetto la professionale Nikon D3. La Nikon D300 è caratterizzata da una rapida accensione, una risposta veloce e un’eccellente versatilità di impiego, per soddisfare le esigenze di una vasta gamma di applicazioni fotografiche. Si accende in soli 0,13 secondi, con un ritardo allo scatto quasi impercettibile, pari a quarantacinque millisecondi. La reflex offre un’ampia estensione di sensibilità: da 200 a 3200 Iso equivalenti, oltre le estensioni a LO-1 (100 Iso equivalenti) e HI-1 (6400 Iso equivalenti, con risultato analogo a quello della diapositiva con trattamento forzato più uno stop). La precisione delle immagini è eccellente, grazie al nuovo sistema di riconoscimento scena Nikon, che utilizza l’apprezzato sensore colore RGB da 1005-pixel, tecnologia proprietaria, modificato nell’impiego in modo da riconoscere forma e posizione dei soggetti prima dell’acquisizione dell’immagine. Inoltre, questa caratteristica consente al nuovo sistema autofocus a cinquantuno punti di inseguire i soggetti anche in base al colore, migliorando al tempo stesso la precisione di misurazione esposimetrica e del bilanciamento del bianco. La Nikon D300, che conferma il sistema di image processing EXPEED, è dotata della visione live view, con autofocus, che presenta un’immagine live sul monitor LCD da tre pollici, con due modalità per lo scatto, a mano libera o su treppiedi. L’autofocus è disponibile in entrambi i modi di visione live view. Antonio Bordoni
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AGGRESSIVA O LY M P U S onferma e ulteriore sottolineatura. Lo standard digitale QuattroTerzi, che implica una consecuzione logica e mirata di interpretazioni e soluzioni fotografiche dedicate, si arricchisce di una configurazione dichiaratamen-
C
te professionale. La nuova Olympus E-3 si offre e propone come strumento di lavoro con prestazioni operative di più alto livello, adeguate alla efficace risoluzione di qualsiasi applicazione. Soluzione d’avanguardia per il fotografo professionista, garantisce elevati livelli di rapidità, qualità di immagine, funzioni Live View e massima affidabilità. Operativamente, la Olympus
E-3 incorpora il più veloce autofocus del mondo (con i nuovi obiettivi Olympus Zuiko Digital SWD: Supersonic Wave Drive), che si avvale di un avanzato sistema AF. Ancora: tempi di otturazione fino a 1/8000 di secondo (con sincro flash a 1/250
di secondo); acquisizioni in sequenza rapida, fino a cinque fotogrammi al secondo (con un buffer per diciannove immagini in formato grezzo RAW, in modalità burst); sensibilità da 100 a 3200 Iso equivalenti; efficace sistema di stabilizzazione dell’immagine, in grado di compensare gli effetti del movimento involontario fino all’equivalente di cinque Valori Luce; sal-
Con la configurazione di vertice E-3, Olympus ribadisce l’efficacia operativa dello standard digitale QuattroTerzi, sempre più proiettato verso l’adeguato assolvimento delle esigenze e necessità della fotografia professionale. Ammiraglia di sistema, la nuova reflex sottolinea una efficiente consecuzione di prerogative tecniche
vataggio dei dati ad alta velocità e compressione RAW, senza perdita di informazioni (lossless), per un’elaborazione rapida; scrittura simultanea di file grezzi RAW e compressi Jpeg; doppio alloggiamento per schede di memoria CompactFlash e xD-Picture Card (incluso il supporto
per schede CF High-Speed UDMA e Microdrive). A tutto questo si aggiunge il sensore Live MOS High Speed da dieci Megapixel effettivi e il processore di immagine Olympus TruePic III, tecnologia proprietaria. Utilizzando gli obiettivi Zuiko Digital, progettati esclusivamente per le esigenze della fotografia reflex digitale, si può sempre contare su risultati di livello professionale. Inoltre, le funzioni Live View della Olympus E-3 si traducono in libertà di scattare con grande versatilità. Grazie alla possibilità di orientare il monitor
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HyperCrystal LCD da 2,5 pollici, che mostra in tempo reale anche gli effetti delle impostazioni adottate per lo scatto, che mantengono il contatto visivo con il soggetto, le applicazioni Live View facilitano le riprese dall’alto o rasoterra e permettono di comporre le immagini con grande facilità. Oltre al Live View, c’è anche la possibilità di inquadrare tramite il mirino luminoso e brillante, che garantisce la copertura totale dell’area immagine (cento per cento). Come tutte le reflex digitali E-System, la Olympus E-3 alloggia il più efficace sistema Supersonic Wave Filter di rimozione della polvere. La sua affidabilità si conferma in qualsiasi condizione di ripresa, anche grazie alla progettazione a tenuta stagna del corpo macchina e della maggior parte degli obiettivi E-System. Inoltre, l’otturatore è testato per centocinquantamila cicli e, quindi, garantisce la sua efficienza anche in situazioni di flusso di lavoro incessante.
VELOCITÀ Come già rilevato, la reflex digitale Olympus E-3, standard QuattroTerzi in dichiarata proiezione professionale, dispone di un sistema autofocus estremamente veloce: nelle condizioni già ricordate, il più veloce del mondo (a ottobre). La rilevazione a undici punti è biassiale, cioè dotata di sensori lineari sia orizzontali sia verticali, per un totale di quarantaquattro differenti valutazioni sulle quali basare la precisa regolazione della corretta messa a fuoco sul soggetto inquadrato. Inoltre, vengono impiegate tecnologie di ricampionamento dei pixel per migliorare le prestazioni con luce scarsa (meno due Valori Luce a 100 Iso). In combinazione, la possibilità di arrivare al tempo di otturazione limite di 1/8000 di secondo assicura la capacità di congelare l’azione nel pro-
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prio svolgimento, per quanto rapida possa essere. Nelle situazioni più dinamiche, in svolgimento fulmineo, si può selezionare l’acquisizione in sequenza fino a cinque fotogrammi al secondo, alla massima risoluzione (già l’abbiamo detto, ma ricordiamolo ancora: buffer per diciannove immagini in formato grezzo RAW, in modalità burst a raffica). In ogni condizione, l’innovativo sistema di stabilizzazione di immagine Supersonic Wave Drive (SWD), tecnologia proprietaria, è estremamente efficace. Esteso a ogni obiettivo del consistente sistema ottico, opera in due modalità: una compensa i movimenti sui due assi (X e Y), mentre l’altra stabilizza soltanto l’asse Y, e nelle riprese d’azione è ideale per seguire i soggetti in movimento. Alla resa dei conti, si ottiene una compensazione equivalente all’escursione di cinque stop.
Il sensore Live MOS High Speed da dieci Megapixel effettivi si allinea all’evoluto processore di immagine TruePic III, che svolge un ruolo essenziale grazie alle sue capacità superiori di riduzione dei disturbi (rumore), con una riproduzione dei colori ulteriormente affinata e con una maggiore velocità di elaborazione.
LIVE VIEW
La reflex digitale Olympus E3 è dotata della versatile funzione Live View continua sul monitor orientabile HyperCrystal LCD da due pollici e mezzo, alternativa all’inquadratura dall’oculare del mirino. L’opzione di ingrandimento di 5x, 7x e 10x sullo stesso monitor LCD facilita anche la messa a fuoco accurata nelle riprese a distanza ravvicinata e in condizioni par-
ZUIKO DIGITAL SWD
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ssieme alla reflex digitale Olympus E-3, in proiezione esplicitamente professionale, prende avvio anche la particolare gamma di obiettivi Zuiko Digital SWD (Supersonic Wave Drive), che estende le possibilità ottiche e di impiego, aggiungendo prima di altro l’efficacia di un sistema autofocus estremamente rapido, che a far data allo scorso ottobre si segnala come il più veloce al mondo. Tre focali d’esordio: Zuiko Digital ED 12-60mm f/2,8-4 SWD, Zuiko Digital ED 14-35mm f/2 SWD e Zuiko Digital ED 50-200mm f/2,8-3,5 SWD, le cui escursioni focali sono rispettivamente equivalenti alle variazioni 24-120mm, 28-70mm e 100-400mm della fotografia 24x36mm, riferimento sempre d’obbligo. L’Olympus Zuiko Digital ED 12-60mm f/2,8-4 SWD è uno zoom 5x che esordisce all’inquadratura adeguatamente grandangolare, per approdare a un consistente avvicinamento tele. A fuoco da 25mm, dispone anche di ac-
ticolarmente disagevoli. Inoltre, sul monitor si possono visualizzare direttamente in tempo reale gli effetti della Shadow Adjustment Technology (SAT), del bilanciamento del bianco e della compensazione dell’esposizione; così che, quello che si vede è veramente quello che viene effettivamente ripreso. Sostanziose anche le prestazioni del mirino. La piena copertura professionale del cento per cento, un traguardo brillante e luminoso e un ingrandimento di 1,15x facilitano l’inquadratura.
PULIZIA E SICUREZZA A partire dal primo sistema di protezione antipolvere in dotazione a una reflex digitale a obiettivi intercambiabili, proposto dal 2003, Olympus ha costantemente migliorato questa tecnologia proprietaria al punto da sottolinearne ancora oggi le prerogative esclusive. L’apprezzato Supersonic Wave Filter protegge il sensore Live MOS High Speed dalla polvere e da altre particelle estranee, che altrimenti potrebbero compromettere la qualità dell’immagine; così che Olympus conferma il proprio specifico impegno progettuale e produttivo rivolto all’eccellenza dell’immagine.
comodamento manuale della distanza di ripresa. A seguire, lo zoom Zuiko Digital ED 14-35mm f/2 SWD, grandangolare-medio tele disponibile dall’inizio del 2008, segnala l’efficacia della propria generosa apertura relativa f/2, costante su tutta l’escursione. Quindi, lo zoom Zuiko Digital ED 50-200mm f/2,8-3,5 SWD propone una visione totalmente tele, fino all’inquadratura del 400mm (corrispondente): messa a fuoco da 1,2 metri e (ancora) possibilità di accomodamento manuale. Infine, il sistema ottico QuattroTerzi, che prevede l’intercambiabilità degli obiettivi tra le reflex del sistema, anche di diversa produzione, si arricchisce di un altro potente zoom Zuiko Digital ED 70-300mm f/4-5,6 (equivalente all’escursione 140-600mm della fotografia 24x36mm) e del duplicatore Zuiko Digital EC-20, che raddoppia le focali di tutti gli obiettivi della gamma.
La costruzione in lega di magnesio e il corpo a tenuta stagna consentono alla nuova E-3 di andare impunemente ovunque si svolga l’azione: da un evento di sport in condizioni ambientali avverse alle più difficili situazioni del fotogiornalismo. Anche l’impugnatura portabatteria e l’ampia scelta di obiettivi sono altrettanto efficacemente protetti dall’inclemenza degli agenti atmosferici, riducendo così considerevolmente il rischio di dover interrompere le riprese. Naturalmente, persino la scarsità di luce non compromette le opportunità di ripresa. In aggiunta al flash incorporato (Numero Guida 13), la Olympus E-3 dispone di controllo wireless dei flash elettronici esterni, per i nuovi lampeggiatori Olympus FL-36R e FL-50R (fino a tre gruppi), con i quali si estendono le opzioni di illuminazione. Inoltre, la E-3 vanta un valido sistema di bilanciamento automatico del bianco, che sfrutta un rilevamento ibrido, costituito da un sensore dedicato al bilanciamento del bianco abbinato al sensore immagine. La combinazione dei dati relativi al colore, ricavati dalle due diverse sorgenti, assicura una
dard QuattroTerzi consente una costruzione ottica più compatta e leggera, che si traduce in vantaggi pratici tangibili. In aggiunta al sistema ottico, che include i recenti disegni Zuiko Digital SWD, in grado si assicurare alta velocità di messa a fuoco (riquadro accanto), si registra un’ampia gamma di accessori dell’ESystem, che consentono di personalizzare le capacità di ripresa con la Olympus E-3. Per il controllo di più flash senza cavi, sono disponibili i nuovi elettronici wireless FL-50R e FL-36R. Per le riprese pro-
riproduzione dei colori straordinariamente fedele.
QUATTROTERZI Aderendo allo standard QuattroTerzi (FOTOgraphia, luglio 2003), la Olympus E-3 è allineata alle specifiche esigenze dell’acquisizione digitale di immagini. La compatibilità con altri fabbricanti assicura investimenti sicuri nel tempo. Al momento si può accedere a una offerta ottica di trentadue disegni originari per la fotografia reflex digitale e tre convertitori di focale, all’interno della quale la gamma degli obiettivi Olympus Zuiko Digital si distingue per qualità e vastità di proposte. Con l’occasione, ricordiamo ancora una volta che lo stan-
lungate, l’impugnatura Power Grip HLD-4 offre un’autonomia estesa e un pratico pulsante di scatto aggiuntivo, per rendere le inquadrature verticali semplici e rapide quanto quelle orizzontali. Sono disponibili anche due nuove conchiglie oculari (DE-P3 e DE-N3), che ampliano la correzione diottrica consentita dalla reflex. Quindi, lo schermo di messa a fuoco opzionale FS-3 fornisce una visione con griglia di suddivisione in quattro-per-sei sezioni, per aiutare nella composizione dell’immagine. (Polyphoto, via Cesare Pavese 1113, 20090 Opera Zerbo MI). Antonio Bordoni
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traordinario! Ma anche disorientante, quantomeno nella prima fase, scomposta tra due sedi geograficamente distanti. Tre città, tre musei realizzano per la prima volta in Italia una vasta mostra dedicata all’opera fotografica di Ugo Mulas, dagli esordi alle opere estreme. In sostanziale simultanea, congiuntamente il Museo delle Arti del XX secolo di Roma e il Padiglione d’Arte Contemporanea di Milano compongono il più ampio spaccato che mai sia stato offerto al pubblico della fotografia che Ugo Mulas, mancato all’inizio del 1973: i reportage delle origini, sull’onda lunga di un pensiero milanese degli anni Cinquanta, nel quale fu introdotto da Mario Dondero, e la convinta partecipazione al mondo dell’arte contemporanea, fulcro della
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MILANO, 1953-1954 (© ESTATE UGO MULAS)
Attraverso la visione di Ugo Mulas sua ispirazione d’autore. A seguire, la mostra nel proprio complesso viene allestita in un’unica rassegna alla Galleria d’Arte moderna di Torino. La retrospettiva presenta circa seicento opere totali, in un primo tempo suddivise in due sezioni parallele e contemporanee, a Roma e Milano. E successivamente, a giugno, confluenti in un allestimento complessivo a Torino. Dal quattro dicembre al due marzo, il Museo delle Arti del XX secolo di Roma presenta una selezione di circa trecento fotografie di Ugo Mulas, che illustrano l’arte in Italia tra gli anni Cinquanta e Settanta: ricerche espressive visualizzate attraverso i ritratti dei protagonisti e i reportage sui principali eventi artistici del periodo. Questa serie sottolinea anche l’influenza dell’arte contemporanea sulla fotografia di Ugo Mulas, ricostruendo l’evoluzione che lo ha portato dal reportage alla realizzazione delle Verifiche, riflessione fondamentale nella vicenda della fotografia contemporanea. In date coincidenti, dal sei dicembre al dieci febbraio, il Padiglione d’Arte Contempora-
Un altro West (italiano) Fotografie di scena di Angelo Novi cquisito l’archivio fotografico di Angelo Novi, straordinario fotografo di scena del cinema italiano, sempre presente sui set di Sergio Leone (oltre che di altri celebrati registi), la Cineteca del Comune di Bologna ha raccolto in mostra una selezione relativa ai film western di una irripetibile stagione del cinema italiano. Da cui, appunto, l’av-
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vincente allestimento di Un altro West, a cura di Franco La Polla, con la collaborazione di Annamaria Materazzini e Margherita Cecchini, da un’idea di Angela Tromellini. Nato a Lanzo d’Intelvi, in provincia di Como, nell’entroterra del lago, nel 1930, Angelo Novi è mancato nel paese natale nel 1997. Cominciando con Pier Paolo Pasoli-
nea di Milano illustra l’evoluzione della ricerca fotografica di Ugo Mulas tra gli anni Sessanta e Settanta e il suo passaggio dal reportage alla fotografia analitica. Il percorso della mostra si apre con le fotografie di New York: arte e persone, il suo reportage più celebre, realizzato a metà degli anni Sessanta. Da una parte, queste immagini svelarono il fermento che stava trasformando radicalmente l’espressione artistica, sul cui palcoscenico stavano per affacciarsi gli artisti della cultura Pop; dall’alta, rivelano l’evoluzione della fotografia di Ugo Mulas, all’indomani del suo incontro con la fotografia americana di Robert Frank e Lee Friedlander. Dopo questo primo ciclo, scomposto in due sedi espositive, l’insieme della antologica sull’opera di Ugo Mulas si riunisce alla Galleria d’Arte moderna di Torino: dal ventiquattro giugno al diciannove ottobre. Percorso complessivo, dalle origini fino alle definitive Verifiche. Ugo Mulas. Con il concorso dell’Archivio Ugo Mulas. Catalogo Electa. ni, ha vissuto momenti fantastici del nostro cinema. Curiosità: Sergio Leone gli ha fatto interpretare due piccole parti. In Il buono, il brutto, il cattivo (1966) è il frate Monk; in Il mio nome è Nessuno, firmato da Tonino Valerii (1973), è apparso accanto Henry Fonda. Angelo Novi: Un altro West. A cura di Franco La Polla. Cineteca del Comune di Bologna, via Riva di Reno 72, 40122 Bologna; 0512195305; www.cinetecadibologna.it. Fino al Primo marzo 2008; lunedì-venerdì
JOHN CAGE, NEW YORK, 1964 (© ESTATE UGO MULAS)
La scena dell’arte (e altro)
❯ Selezione di trecento fotografie relative all’arte. Museo delle Arti del XX secolo (MAXXI), via Guido Reni 2f, 00196 Roma. Dal 4 dicembre al 2 marzo 2008; martedì-domenica 11,00-19,00. ❯ Selezione di trecento fotografie dai reportage alle Verifiche. Padiglione d’Arte Contemporanea (PAC), via Palestro 14, 20121 Milano, 02-783330. Dal 6 dicembre al 10 febbraio; martedì-domenica 9,3019,30, giovedì fino alle 22,00. ❯ Mostra completa (seicento fotografie precedentemente scomposte tra Roma e Milano). Galleria d’Arte moderna (GAM), via Magenta 31, 10128 Torino; 011-4429610; www.gamtorino.it. Dal 24 giugno al 19 ottobre; martedì-domenica 10,00-18,00. 9,00-17,00, sabato e domenica 10,00-18,00. ❯ Selezione della mostra alle Librerie Feltrinelli di piazza Ravegnana e piazza Galvani di Bologna; fino al 27 gennaio.
Con raffinato humour Erwin Olaf a Seravezza Fotografia 2008 uinta edizione di Seravezza Fotografia, che dal Palazzo Mediceo della città toscana, in provincia di Lucca, si dirama in sedi espositive pubbliche. Promossa dall’Assessorato Associazioni alla Cultura del Comune, in collaborazione con il Circolo Fotografico L’Altissimo e Fiaf (Federazione Italiana Associazioni Fotografiche), la rassegna prosegue il proprio cammino attraverso una visione fotografica sostanzialmente forte. La scorsa edizione fu presentata
vanni Umicini, Adolfo Favilla e Antonio Manta), incontri di cultura fotografica (a cura di Carlo Ciappi, del Dipartimento delle Attività Culturali della Fiaf), lettura di portfolio (Carlo Ciappi, Giorgio Rigoni e Giorgio Tani), mostre di fotografi non professionisti (nella Cappellina Medicea e nei locali della Misericordia di Seravezza), proiezione di audiovisivi e bookshop.
ERWIN OLAF: LADY DIANA
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Ufficio Cultura e Turismo, Palazzo Mediceo, via del Palazzo, 55047 Seravezza LU; 0584-757443; uturismo@comune.seravezza.lucca.it.
ERWIN OLAF: PEARLSA
una consistente retrospettiva di Joel-Peter Witkin, quest’anno è di scena l’olandese Erwin Olaf, classe 1959, noto e riconosciuto per le sue aggressive interpretazioni digitali. Ricche di humour, quanto visivamente folgoranti, le sue immagini fanno il verso ai processi comunicativi dei mondi della pubblicità, della moda, dei tabloid scandalistici, della fotografia pornografica, prendendo anche spunto da immagini della storia dell’arte, per riflettere sulle maschere variamente imposte dall’interazione quotidiana e sulla separazione tra persona pubblica e realtà emozionale e corporea. A contorno, oltre una qualificata serie di altre mostre di autore, che indichiamo qui di seguito, Seravezza Fotografia 2008 propone workshop (Gio-
Seravezza Fotografia 2008. Direzione artistica di Libero Musetti. Dal 19 gennaio al 6 aprile 2008. ❯ Erwin Olaf: Mostra personale. Palazzo Mediceo; dal 19 gennaio al 30 marzo; martedì-domenica 15,00-19,30. ❯ Janice Mehlman: Mostra personale. Ex Scuderie Granducali; dal 19 gennaio al 24 febbraio. ❯ Francesco Cito: Matrimoni napoletani. Ex Scuderie Granducali; dal Primo al 7 marzo. ❯ Gabriele Rigon: Visioni di Donna. Ex Scuderie Granducali; dall’8 al 14 marzo. ❯ Roberto Rognoni: Immagini di immagini. Ex Scuderie Granducali; dal 15 al 26 marzo. ❯ Pepi Merisio: Per le antiche strade. Ex Scuderie Granducali; dal 29 marzo al 6 aprile.
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Sogni di altra vita Nei bordelli indiani di Randi Khana alcutta, sono in taxi, quei traballanti veicoli tenuti assieme da spago e saldature continue. Con me, un uomo grasso e sudato più del necessario. È lui il padrone del bordello dove stiamo andando, in quel quartiere -Randi Khana- gioia dei single e dei malati di sesso, perlopiù indiani. Un luogo dove a bordello segue altro bordello e altro ancora, case di piacere, come vengono chiamate. Poche volte nome fu più clamorosamente sbagliato e poco calzante. Prigioni, case di destini segnati, luoghi dove la speranza
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di un po’ di luce è sempre sottile e fragile, come il filo di una tela di ragno. A una richiesta dell’uomo grasso, l’auto rallenta. Dobbiamo definire il nostro accordo economico. Soldi in cambio di dieci minuti per ogni prostituta da fotografare. Niente sesso, dico. Lui non ci vuole credere, e mi chiede un prezzo doppio: sesso più fotografie. Concordiamo una cifra per le sole fotografie, lui scuote la testa. Non ci può credere, secondo lui sono soldi in cambio di niente. Entriamo, la casa è piccola, un piano terra e uno so-
Motivazioni di giuria Del Memorial Mario Giacomelli 2007 lla propria settima edizione, il premio fotografico internazionale Memorial Mario Giacomelli, indetto dal Circolo Fotografico Sannita di Benevento per ricordare la figura del grande fotografo, scomparso il 25 novembre 2000, è stato assegnato alla serie Madame di Antonella Monzoni (della quale abbiamo già presentato il reportage Lalibela, che si aggiudicò la settima edizione -ancora settima!- del
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Portfolio in Villa di Solighetto, in provincia di Treviso; FOTOgraphia, aprile 2005). «Per l’originalità della ricerca, realizzata all’interno della casa di Henriette Niépce. Personaggio più noto in Francia che in Italia (nonostante sia stata la moglie del regista Gillo Pontecorvo), la novantaduenne ex pittrice vive isolata, non esce di casa e molto raramente incontra estranei. Per ricostruire l’atmosfera, Antonella Monzoni ha
praelevato. Stretta, un corridoio a cuneo con una scala in fondo. Le donne aspettano i clienti su una panca di pietra all’ingresso e altre, al piano sopra, sporgono dal balcone, curiose. L’aria è pesante, e le ragazze capiscono che c’è qualche cosa di insolito. Devo sceglierne cinque, questi i patti. L’offerta varia dai quindici ai sessanta anni. Decido per ragazze in età crescente, a partire dai venti anni. Entro nella prima camera, un metro e ottanta per un metro e cinquanta, come tutte quelle che seguiranno; praticamente, oltre al letto, c’è a malapena il solo spazio per stare in piedi. Una mensola con la valigia, quella con cui si arriva dal paese con una promessa di matrimonio o un posto di lavoro. Stanza dopo stanza, spiego alle ragazze lo scopo del mio lavoro, alcune fotografie a ognuna di loro, mentre immaginano, sognano di avere una vita diversa. Chiedo loro di immaginarla davvero. Alla prima, una donna sui trentacinque anni non basta chiudere gli occhi, deve aiutarsi con le dita a schiacciare le palpebre per provare a cancellare quel poco che la circonda e permettere ai pensieri di uscire.
Ognuna un sogno diverso. Chi vorrebbe un uomo a portarla via, chi un amante appassionato, che la desiderasse con tutta l’anima. Chi un uomo ricco, che la aiutasse a mantenere le due figlie piccole, prima che, come quasi sempre accade, imparino il mestiere. Sogni solo sogni, sogni faticosi, difficili da accendere perché la quotidianità li uccide subito i sogni, e col tempo ti dimentichi anche come si fa, a sognare. Le fotografie sono a colori come è a colori la vita sognata, quella che è nascosta nello scrigno dei desideri, nell’angolo più nascosto dei nostri pensieri, proprio vicino a quello dei peccati che non confesseremo mai a nessuno, vicino a quello dei rimpianti e delle occasioni perdute. Per pochi, a colori sono sia la vita sia i sogni. Per molti, è solo la vita a essere in bianconero. Per tanti, tutto è solo grigio-antracite e nero. Stefano Zardini
realizzato un lavoro a colori dai toni delicati, soffermandosi spesso sugli angoli della casa, per trasformarli in simboli, e sugli oggetti, per rievocare la storia: quella di una bellezza che si ritrova in un vecchio ritratto realizzato dalla sorella Janine, quella di un manifesto che rievoca il bisnonno Nicéphore, uno degli inventori della fotografia. In Madame, la fotografa ha saputo creare un percorso asciutto, privo di retorica, fortemente comunicativo». Quindi, riconoscendo il valore di molte delle proposte pervenute, la giuria ha inoltre segnalato con menzione i lavori di altri due fotografi, volendo così
anche incoraggiarli nel proseguire le loro ricerche: Roberto Boccaccino, con O.P.G. (per il piglio e l’attenzione compositiva dimostrata in una ricerca sull’ex Ospedale Psichiatrico Giudiziario di Reggio Emilia, tutta giocata sul senso anche metaforico dello spazio), e Andrea Franzetta, con ilMarediMezzo (per il rigore dimostrato in una ricerca in fieri, incentrata sull’identità del Mediterraneo inteso come luogo di incontro tra civiltà diverse, eppure incredibilmente simili).
Stefano Zardini: Dreaming in Randi Khana. Ikonos Art Gallery, via del Mercato 1, 32043 Cortina d’Ampezzo BL; 0436-3565; ikonosartgallery@hotmail.it. Dal 18 dicembre al 5 febbraio 2008.
Circolo Fotografico Sannita, Casella Postale 37, 82026 Morcone BN; www.cfsannita.com.
al centro
della fotografia
tra attrezzature, immagini e opinioni. nostre e vostre.
C’È UNA LEICA CHE...
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Quando Grazia Neri ci ha segnalato un lungo articolo dedicato alla Leica, apparso sul raffinato settimanale The New Yorker del ventiquattro settembre, ci siamo subito precipitati a comperarlo. Naturalmente, il direttore -appassionato Leica come molti di noi, e profondo conoscitore della sua storia e del suo costume- non ha resistito alla tentazione di pubblicarlo, e mi ha invitato a tradurlo. In principio, pensavo fosse un compito facile, ma l’inglese del colto, raffinato e ricercato New Yorker può essere più difficile di quello di Shakespeare: come testimoniano le annotazioni sulle sue pagine, che pubblichiamo a certificazione. A volte, per capire il significato delle frasi idiomatiche del suo autore, Anthony Lane, autorevole critico cinematografico del settimanale newyorkese dal 1993, mi ci sono volute ore (in realtà, il prestigioso e qualificato The New Yorker esce quarantasette volte nell’arco dell’anno e non cinquantadue: questo non modifica la sua definizione di “settimanale”). Per fortuna, ho potuto chiarirmi molti commenti sulle fotografie degli autori citati, andando a rivedere il loro lavoro su libri che, in alcuni casi, come è per Aleksandr Rodchenko e Garry Winogrand, non aprivo da vent’anni. Questa che vi propongo è una sintesi quasi completa dell’articolo, originariamente intitolato Candid Camera. The cult of Leica, di Anthony Lane, distribuito su ben dieci pagine del The New Yorker dello scorso ventiquattro settembre, identificato come The Style Issue: e dieci pagine di questo straordinario settimanale, sempre selettivo nei propri interessi giornalistici, sono già unità di misura di un autentico evento. In alcune parti l’ho riportato
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integralmente, in altre l’ho riassunto. Le parti integrali, che a volte mi sono permesso di tradurre un po’ liberamente, senza alterare il senso dello scritto dell’autore, sono evidenziate; a volte, al loro interno, tra parentesi quadra, sono state aggiunte annotazioni di complemento. Ancora, brevi citazioni dal testo originario sono riportate tra virgolette (in gergo “caporali”), all’interno delle mie annotazioni di collegamento. In tutti i casi, si tratta di una relazione/riflessione molto interessante. Una sola pecca, che sottolineiamo dal nostro particolare punto di vista: le fotografie a corredo sono troppo poche. Tre in tutto, tra le diverse citate da Anthony Lane: quella del bacio di Elliott Erwitt, il mendicante sulla sedia a rotelle di Garry Winogrand e la ragazza con Leica di Aleksandr Rodchenko. Un po’ poco, per seguire le ardite descrizioni dell’autore. Di contro, e in contraltare, bisogna comunque rilevare che The New Yorker ha aperto alla fotografia da una quindicina d’anni, dopo decenni di sole illustrazioni grafiche. A questo proposito, vanno ricordate le straordinarie copertine di Saul Steinberg (1914-1999), tra le quali spicca la celeberrima visione di New York, che dalle sue 9th e 10th Avenue si proietta verso il mondo (The New Yorker del 29 marzo 1976), riprodotta in poster d’arte e proposta in infinite reinterpretazioni. Ancora Saul Steinberg: laureatosi architetto a Milano, negli anni Quaranta, conservò amicizie italiane. In particolare, è straordinario il suo carteggio con l’architetto Aldo Buzzi, classe 1910, raccolto anche in volume da Adelphi, nel 2002 (Lettere a Aldo Buzzi 1945-1999; 331 pagine; 22,00 euro): affascinante lettura, come sono al-
trettanto affascinanti e divertenti tutti gli scritti di Saul Steinberg. In ogni caso, rimandiamo al sito www.saulsteinbergfoundation.org. Ancora fotografia sul The New Yorker, che ha aperto alla fotografia (appunto) nel 1992, affidandosi alla capace lettura di Richard Avedon, primo fotografo dello staff e primo photo editor. L’attuale visual editor Elisabeth Biondi è tra le più brave e apprezzate del panorama giornalistico statunitense (presidente della giuria del World Press Photo nel 2004). Tra tanto altro, e oltre i premi e gli attestati professionali di alto livello, segnaliamo un piccolo, ma significativo dettaglio. Sullo stesso numero del ventiquattro settembre del The New Yorker, dal quale stiamo per riprendere le considerazioni di Anthony Lane sulla Leica, è pubblicata la recensione di un programma televisivo rievocativo della Seconda guerra mondiale. Ebbene, la fotografia che lo illustra, che richiama i giorni di Iwo Jima, del febbraio 1945, propone una fotografia mai vista: efficace più di quanto non lo sarebbe stata l’ennesima riproposizione della bandiera di Joe Rosenthal, sulla quale ci siamo soffermati in tante occasioni, il ritratto di un soldato affaticato dai combattimenti aggiunge un capitolo nuovo alla raffigurazione della guerra. Arriviamo al dunque. L’articolo sul quale ci concentriamo inizia proponendo le emozioni di Anthony Lane in visita allo stabilimento Leica di Solms, come sappiamo cittadina tedesca ottanta chilometri a nord di Francoforte. Non c’è nulla di particolarmente appetibile a Solms, da nessun punto di vista; ma lì bisogna andare, se e quando si vuole vedere dove costruiscono il più bel oggetto
meccanico del mondo. Molte persone potrebbero non essere d’accordo. Per gli appassionati della Bugatti, l’oggetto meccanico più bello è sicuramente la Type 57 Atlantic, l’unica automobile che sembra disegnata da una massaggiatrice. Io stesso considererei un privilegio il fatto di morire al volante di una Lamborghini Miura; accadimento non difficile, dal momento che si possono facilmente raggiungere i duecentocinquanta chilometri orari mentre si salutano i passanti con la mano. Ma le automobili, per funzionare, hanno bisogno di benzina, mentre gli oggetti veramente meccanici non devono aver bisogno di niente. Se poi l’oggetto meccanico serve per osservare il mondo, Anthony Lane è categorico: «non c’è dubbio: ci vuole una Leica». Da qui, continua. Esistono macchine fotografiche Leica dal 1925, quando la Leica I fu presentata alla Fiera di primavera di Lipsia. Da allora, mentre la macchina fotografica è rimasta sostanzialmente immutata nel corso
di otto decadi, generazioni di autori sono ricorsi a lei nei propri millisecondi di ispirazione. Aleksandr Rodchenko, André Kertész, Walker Evans, Henri Cartier-Bresson, Robert Capa, Robert Frank, William Klein, Garry Winogrand, Lee Friedlander e Sebastião Salgado: questi sono soltanto alcuni dei grandi fotografi della storia che sono associati al marchio Leica o, nel caso di Henri Cartier-Bresson, le sono addirittura attaccati con una colla potentissima. Anche chi non segue la fotografia, ha sicuramente la testa piena di fotografie Leica. Il famoso ritratto di Che Guevara, riprodotto sulle T-shirt di milioni di giovani ribelli o appeso sopra il loro letto, è stato ripreso nel 1960 da Alberto Díaz Gutiérrez, meglio conosciuto come Alberto Korda, con una Leica dotata di obiettivo da ritratto Elmarit 90mm. E che dire di quella fotografia grigio perla sorrisocon-bacio riflessa nello specchietto laterale di un’automobile, scattata da Elliott Erwitt nel 1955? Ancora Leica. Come nel caso di un’altra celeberrima immagine, ripresa in Times Square, durante i festeggiamenti della vittoria per la Seconda guerra mondiale: un marinaio piegato sopra una crocerossina, con un braccio intorno alla sua vita, e
la mano di lei contro il suo petto, quasi a protestare con dolcezza per il bacio. Fu Alfred Eisenstaedt, di Life, a scattare quella fotografia. Alfred Eisenstaedt racconta: «Stavo correndo con la mia Leica in mano, guardandomi continuamente dietro le spalle. Ma nessuna delle situazione che vedevo mi piaceva. Poi, improvvisamente, in un lampo, ho visto qualcosa di bianco. Mi girai e scattai». Quel giorno, Alfred Eisenstaedt scattò quattro fotografie [in avvicinamento al soggetto] niente altro. «Tutto si concluse in pochi secondi», annotò successivamente. Quello che hai bisogno di sapere sulla Leica sta in quei pochi secondi. In un attimo, «veloce come Sundance Kid» [Harry Alonzo Longabaugh: noto pistolero fuorilegge del Far West, membro della banda conosciuta come Wild Bunch, Mucchio selvaggio, capeggiata da Butch Cassidy], Alfred Eisenstaedt riuscì a catturare ogni particolare di quel breve istante: la folla intorno, il bianco brillante del vestito e il cappello del marinaio. I lettori di Life gli furono grati. E gli siamo grati anche noi. Anthony Lane prosegue con le sue considerazioni. Perché un oggetto di metallo e vetro dovrebbe essere migliore di un altro? Alfred Ei-
senstaedt avrebbe lavorato peggio, o addirittura non sarebbe riuscito a scattare la fotografia con un altro tipo di macchina fotografica? Oggi, Leica costruisce apparecchi digitali compatti e la impegnativa reflex R9; ma per più di cinquant’anni, l’orgoglio dell’azienda è stata la serie M a telemetro: durevoli, costose, di buona compagnia e sostanzialmente immutabili come spose. Tra i modelli attualmente prodotti c’è la MP, che costa circa quattromila dollari. Avendo visitato i laboratori a tenuta di polvere di Solms, e avendo visto le donne in camice bianco con retina protettiva per i capelli applicare una speciale verniciatura nera con un pennello sottile al bordo di ogni obiettivo, posso spiegarvi esattamente perché ci vuole tutto quel denaro. Attenzione, con quei quattromila dollari non è che danno anche l’obiettivo. Per quello, ci vogliono almeno altri mille dollari. Ma se volete il Noctilux-M 50mm f/1,0, l’obiettivo più luminoso sul mercato, potremmo dire progettato per il lume di candela, di dollari dovrete spenderne oltre cinquemilacinquecento. A questo punto, Anthony Lane si chiede: perché spendere così tanto, invece di acquistare semplicemente una Canon PowerShot SD1000, per esempio, che costa duecento dollari e ha lo zoom, il flash, l’autofocus e l’esposizione automatica? Inoltre, la SD1000 è digitale, effervescente, con molti Megapixel, mentre la Leica registra ancora le fotografie su un fragile e infiammabile supporto di plastica, noto come pellicola. Per molti non fotografi, più di ogni altro prodotto, Leica è una leggenda in odore di truffa: tanti stupidotti disposti a pagare una fortuna per un marchio, nel patetico tentativo di dare credibilità alle proprio fotografie. Come fanno i
giocatori di golf della domenica, che acquistano un ferro Callaway Big Bertha nell’illusione che con questo riusciranno a tirare lontano come Tiger Woods. Il talento si imporrà, qualunque strumento tu hai tra le mani, affermano gli scettici, e in un certo senso hanno ragione: su un campo da golf, Tiger Woods ci farà a pezzi anche se gioca con un ferro malandato, trovato in un ripostiglio; così come Henri Cartier-Bresson, con una Box Brownie e un solo rullo di pellicola: grazie alle sue doti miracolose, riuscirà a scattare delle fotografie che per noi comuni mortali rimangono irraggiungibili, anche se passassimo tutta la vita con una Leica tra le mani. Anthony Lane prosegue ricordando che su questo tema Henri Cartier-Bresson aveva le idee molto chiare: «Non ho mai abbandonato la mia Leica. Le altre macchine fotografiche che ho provato mi hanno sempre convinto a ritornare alla Leica. Non sto dicendo che questo debba andar bene per tutti. Ma finché farò questo lavoro, questa è la mia macchina fotografica. Rappresenta il prolungamento ottico del mio occhio». Perché? «Per me la Leica è come un caldo bacio appassionato, un colpo di rivoltella, il lettino dell’analista», risponde Henri Cartier-Bresson. «Di fronte a tutto questo -ironizza con garbo Anthony Lane- cinquemila dollari sembrano davvero una bazzecola». Dopo aver illustrato ipotesi standard (giornali affamati di fotografie, classe media che si avvicina alla fotografia e altro), che rivelano perché un’industria possa essere arrivata a progettare una piccola macchina fotografica, Anthony Lane ricorda l’aneddoto che riguarda l’asma di cui soffriva Oskar Barnack, l’inventore della Leica, che nel 1905 è alla Leitz di Wetzlar dopo aver lasciato la concorrente Carl Zeiss di Jena. A questo proposito, ecco le
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parole di Oskar Barnack [cui è intitolata la via dove ha attualmente sede Leica Camera AG, di Solms]: «Ai tempi, per scattare fotografie si usavano ingombranti apparecchi di grande formato tredici-per-diciotto centimetri, con châssis che contenevano due lastre di vetro e una borsa di cuoio per il trasporto, che sembrava la valigia di un venditore ambulante. Era molto pesante. Per diletto, mi recavo ogni domenica nella Foresta di Turingia. A causa dell’asma, facevo fatica a vagabondare per le colline con quell’enorme peso. Mi domandai: ma non si può costruire una macchina fotografica più leggera?». Negli anni 1913-1914, Oskar Barnack realizzò quella che in seguito fu identificata e definita UR-Leica [dal tedesco “urbild”, che significa “vecchio, antico, primitivo...”; letteralmente Leica originaria]: un contenitore di pellicola di metallo rettangolare, robusto, non più grande di una custodia per gli occhiali, con gli angoli arrotondati e un obiettivo estraibile di ottone. La si poteva infilare in una tasca della giacca e passeggiare per la Foresta di Turingia tutti i finesettimana senza rimanere senza fiato. Se si paragona quella UR-Leica con le attuali MP e M7 [ma anche M8], i particolari rimasti identici sono molti di più di quelli che sono cambiati: non è straordinario pensare che un giovanotto di oggi, con in mano il nuovo modello, e il suo bisnonno con in mano il vecchio farebbero lo stesso effetto? La prima fotografia che Oskar Barnack scattò il 2 agosto 1914 usando il nuovo strumento è riprodotta nel libro di Alessandro Pasi Leica: testimone di un Secolo (2003). La fotografia mostra un soldato dell’esercito tedesco che ha appena appeso a una colonna l’ordine di mobilitazione generale dell’imperatore Guglielmo II di Prussia.
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Questa fotografia lascia presagire il ruolo che la Leica avrebbe avuto nel futuro: essere sempre presente nei luoghi dove si fa la Storia. Senza aspettare la fine delle ostilità, Oskar Barnack riprese a lavorare sulla Leica, come in seguito fu chiamata (il nome che lui aveva scelto era Lilliput, ma prevalse una scelta forse più saggia [Leica, da Leitz Camera]). Ogni volta che usiamo una macchina fotografica 35mm, dovremmo rivolgere un pensiero a Oskar Barnack. Fu la sua invenzione che rese popolare il formato 24x36mm. In accordo con lo stile pratico della sua azienda, Oskar Barnack utilizzò uno spezzone di pellicola cinematografica 35mm, lungo come l’apertura delle sue braccia. In questa lunghezza, ci stavano esattamente trentasei fotogrammi, da allora lo standard per tutti i rullini fotografici 35mm. «Viene da chiedersi -aggiunge con ironia Anthony Lane-, se Oskar Barnack avesse avuto braccia lunghe come quelle di un orango, oggi avremo forse rullini da quaranta fotogrammi?». [Dopo una preserie Leica 0, del 1923, in trentun esemplari numerati da 100 a 130] Il modello che fece il suo debutto nel 1925 venne identificato Leica I, con obiettivo fisso Elmar 50mm f/3,5. Citando dalla storiografia di Alessandro Pasi: «A molti fotografi parve che la Leica fosse un giocattolo disegnato per la borsetta di una signora». Nei successivi sette anni furono comunque venduti quasi sessantamila esemplari. Un po’ troppo per un giocattolo. Il tempo di esposizione più breve per la nuova macchina fotografica era di 1/500 di secondo, e l’apertura massima dell’obiettivo in dotazione era f/3,5. [Dopo le Compur (Dial) con otturatore centrale, del 1926, e Compur (Ring), del 1929, la versione dorata Luxus, del 1929, sia a obiettivo fisso, sia
a obiettivi intercambiabili, la Leica I a obiettivi intercambiabili, del 1930, e la Standard, del 1932] Alla fine del 1932, arrivò la Leica II, dotata di telemetro accoppiato, per una messa a fuoco accurata. Ho provato recentemente questo modello, prodotto fino al 1948. Tutto funzionava ancora perfettamente, compresa la manopola con la quale si trascina la pellicola dopo lo scatto e si carica l’otturatore. Devo dire che si familiarizza immediatamente con il design amichevole della Leica. La sua semplicità non è confrontabile con quella dei mostri digitali Nikon e Canon di oggi. Questi necessitano di un manuale di istruzioni che ricorda il Vecchio Testamento, mentre la Leica II è stata nelle mie mani come un giocattolo, implorando di uscir fuori per le strade a fotografare. Da qui inizia la parte forse più interessante dell’articolo di Anthony Lane, che presenta una galleria di fotografi celebrati che, usando Leica, hanno contribuito al suo successo tecnico e commerciale. Il tedesco Paul Wolff acquistò una Leica nel 1926, e fu il primo messia per il marchio, facendo proseliti con la sua monografia Meine Erfahrungen mit der Leica (La mia esperienza con la Leica), pubblicato nel 1939. Una sua compatriota, Ilse Bing, nata da una famiglia ebrea di Francoforte, fu nominata “Queen of the Leica” (regina della Leica) dopo una sua mostra nel 1931 [e così è ancora oggi presentata dal sito della collezione fotografica del Victoria and Albert Museum di Londra; autoritratto con Leica su questo stesso numero, a pagina 20]. Aveva acquistato una Leica nel 1929. L’abitudine a usare Leica si diffuse rapidamente come un’epidemia. Ogni volta che apro un libro di fotografie controllo, nelle ultime pagine, la cronologia che riguarda l’autore. Due esempi?
Da una monografia di André Kertész, il fotografo ungherese delicato e pieno di tatto, leggo: «nel 1928, acquista la sua prima Leica». Dal catalogo che nel 1998 il MoMA ha dedicato a Aleksandr Rodchenko, leggo: «25 novembre 1928, il diario di Stepanova [l’artista moglie di Aleksandr Rodchenko] riporta che Aleksandr ha acquistato una Leica per trecentocinquanta rubli». I russi furono tra i primi e più accaniti sacerdoti della Leica, e chi vede in questo strumento un puro emblema di vizio capitalistico -che Karl Marx avrebbe definito feticismo consumistico- dovrebbe riflettere sul fatto che Aleksandr Rodchenko lo utilizzò come arma di lotta rivoluzionaria. Aleksandr Rodchenko, che fu anche pittore, scultore e maestro di collage, pensava che la Leica fosse «l’unica macchina fotografica in grado di riprendere il mondo contemporaneo», mondo del quale andò all’assalto con le sue composizioni e visioni che si arrampicano sugli edifici, o scivolano giù dai tetti, suonando la sua Leica lungo le scalinate e le quinte delle strade e ribaltando il modo di inquadrare il mondo. Spazzò via i vecchi stilemi con l’energia con cui si scuote la polvere da uno straccio. In una sua straordinaria fotografia del 1934, Ragazza con Leica, il soggetto sta seduto educatamente su una panchina che sfreccia maleducatamente dall’angolo inferiore sinistro a quello superiore destro dell’inquadratura. Il berretto e il morbido vestito bianco, indossati dalla ragazza, e il suo sguardo vuoto e lontano suggeriscono un momento di grande calma; ma l’ombra, a forma di griglia, che si distende sopra la scena, forma geometrica super moderna che fa a cazzotti con gli stilemi decorativi e reazionari dell’epoca, spariglia il tempo e scatena drammatici-
tà. Attenzione: l’oggetto che la ragazza tiene in grembo, appeso a una cinghia che le circonda la spalla, è lo stesso che sta nelle mani del fotografo, una Leica. Richiamando inquadrature sorprendenti, un altro russo, Ilya Ehrenburg, fece di più. «La macchina fotografica è goffa e volgare. Si intromette in modo impertinente negli affari delle persone. Viviamo in tempi perfidi. Seguendo l’esempio dell’uomo, anche gli oggetti hanno imparato a mentire. Per molti mesi ho girato Parigi con una piccola macchina fotografica. Vedendomi, la gente si chiedeva perché stessi fotografando una siepe o una strada. Non sapevano che stavo fotografando loro», scrisse nel 1932. Ilya Ehrenburg risolse l’imbarazzo di doversi intromettere con lo svolgimento della vita, comprando un accessorio per la sua Leica, un mirino angolare che assomiglia a un periscopio: «Così, potevo fotografare a novanta gradi». La Parigi che esce da queste fotografie appare povera, sudicia, non in posa, una visione radicalmente diversa da quella del mito del bohémien elegante. Il mirino angolare, che può essere acquistato ancora oggi, funziona anche con le nuove Leica, e può essere utile ai timidi che non hanno il coraggio di affrontare i propri soggetti frontalmente. C’è però la convinzione che con la Leica non occorrano questi sotterfugi: la Leica si nasconde da sola. Se volessi andare all’origine di questa convinzione, dovrei probabilmente pensare a un giorno del 1932, a Marsiglia. Fu quel giorno che Henri Cartier-Bresson, giovane francese senza arte né parte che proveniva da una benestante famiglia borghese, comprò la sua prima Leica. La sua carriera lo portò a essere il fotografo più conosciuto del Ventesimo secolo, nonostante (o forse pro-
prio per quello) la sua abilità di camminare per le strade senza farsi riconoscere e neppure notare. Henri Cartier-Bresson cominciò come pittore, e continuò a dipingere per tutta la sua vita, ma la sua mano si sentiva più a proprio agio con una macchina fotografica che con un pennello. Sua moglie, Martine Franck, presidente della fondazione Henri Cartier-Bresson, che ha sede a Parigi, a propria volta fotografa di fama, mi ha descritto suo marito al lavoro con la Leica come “un danzatore”. La sua invisibilità felina lo portò in giro per il mondo, facendolo sentire a proprio agio dovunque arrivasse. Da un viaggio in Asia, durato tre anni e terminato nel 1950, portò a casa ottocentocinquanta rullini. Le fotografie mozzafiato di quel viaggio furono raccolte due anni più tardi nella raccolta The decisive moment [titolo dell’edizione statunitense di Simon & Schuster, di New York, pubblicata contemporaneamente all’originaria Images à la sauvette, delle parigine Éditions Verve, della quale mantenne la copertina appositamente disegnata da Henri Matisse], nel quale aveva illustrato le infinite analogie che gli venivano in mente mentre scattava le fotografie. L’analogia più frequente era la caccia: «Il fotografo deve stare in attesa della sua preda, ma deve anche essere in grado di prevedere quello che sta per accadere». Questo potrebbe essere uno dei motti della Leica: osservare e aspettare il momento decisivo. Non solo per Henri Cartier-Bresson, ma per tutti i fotografi il momento divenne più decisivo nel 1954, quando Leitz lanciò la Leica M3. Fu come un colpo di fulmine. La “Clairvoyance”, la parola che definisce una specie di percezione extra sensoriale, sembrò alla portata di tutti. Ancora oggi, quando guardi attraverso il mirino di una M3, il mondo davanti
a te sembra più luminoso, più croccante, hai la sensazione che i tuoi sensi diventino più acuti, che potresti perfino sentire il lamento delle foglie autunnali sotto i tuoi piedi. Il mirino di una Leica permette di vedere di più di ciò che viene catturato dallo scatto: il di più è quella porzione dell’inquadratura che sta intorno alle sottili delimitazioni bianche che indicano i confini della inquadratura dell’obiettivo. È una questione di millimetri, ma per i fan della Leica sono millimetri sacri, che permettono di controllare cosa sta per accadere intorno alla fotografia, grazie ai quali lo scatto sembra davvero un istante ritagliato dal film continuo della vita che scorre. Se vuoi una fetta di vita, perché non vedere tutta la pagnotta? La Leica M3 aveva tutto, sebbene per gli standard di oggi sembra che non avesse praticamente nulla. La messa a fuoco è manuale, naturalmente, guidata dal riferimento del telemetro accoppiato, e non c’è niente che aiuti a calcolare l’esposizione; per quello o ti porti un esposimetro, eventualmente il suo dedicato, da sistemare sulla slitta porta accessori, oppure devi essere abbastanza bravo da intuirla a occhio. Henri Cartier-Bresson era bravo. Martine Franck è ancora brava: «Sono sicura di conoscere sempre l’esposizione giusta», mi ha detto. Continua a usare la sua M3: «Non ho mai impugnato una macchina fotografica tanto bella. Si adatta così bene alle mani!». Anche per la gente che non sa chi sia Henri Cartier-Bresson e il 1954 è tanto lontano, come lo è l’eruzione del Vesuvio a Pompei, la Leica M3 deve pur rappresentare qualcosa: l’anno scorso, quando eBay e la rivista inglese Stuff si misero insieme per nominare il gadget di tutti i tempi, il Game Boy arrivò quinto, il Walkman della Sony terzo,
l’iPod secondo. Il primo posto è andato a una vecchia macchina fotografica che non ha neppure bisogno di batterie. Se la regina d’Inghilterra leggesse Stuff, non potrebbe che confermare questo risultato. Infatti, dal 1958 possiede una Leica M3, alla quale è così legata da essere stata ritratta in un francobollo con questa macchina fotografica in mano. A questo proposito, si impongono nostre precisazioni. Un corredo Leica M3 (terzo tipo) è stato regalato da Leitz/Leica alla regina Elizabeth II d’Inghilterra nel 1958: senza numero di matricola ufficiale, ma con l’incisione delle iniziali della regina; numerazione interna 919.000. In alcuni testi viene segnalata anche una ulteriore Leica con numero di matricola 925.000, che ufficialmente apparterrebbe a un lotto produttivo di Leica Ig. A seguire, nel 1965, durante una visita di stato del primo ministro assiano Georg August Zinn, la regina d’Inghilterra ebbe in dono anche un ulteriore corredo Leicaflex, ancora senza numero di matricola ufficiale, ancora con l’incisione delle iniziali della regina; numerazione interna 1.084.900. Quindi, il francobollo cui si riferisce Anthony Lane è del 1986, emesso dalle Royal Mail il ventuno aprile, in occasione dei sessant’anni della regina (altrettanto è stato fatto nel 2006, per gli ottant’anni). Due francobolli 41x30mm, ognuno in doppia emissione, da diciassette e trentaquattro pence, uno in tonalità fredde ciano e verde, l’altro in tonalità calde rosa e seppia, tre ciascuno riuniscono sei ritratti della regina a diverse età: il penultimo dei sei soggetti illustra appunto la regina con la Leica M3 tra le mani (FOTOgraphia, aprile 2006). Non è un insulto definire la Leica M3 gadget. La sua bellezza viene dal disprezzo per le cose superflue; come ogni designer del Bauhaus potrebbe spiegare, la forma è
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motivata dalla funzione. La gamma M a telemetro rappresenta la spina dorsale del sistema Leica; oggi siamo arrivati alla Leica M8 ad acquisizione digitale di immagini, che a una prima occhiata è indistinguibile dalla M3 originaria [FOTOgraphia, ottobre 2006]. Fatte salve un paio di eccezioni, ogni modello intermedio è stato un classico. Richard Kalvar, presidente dell’agenzia fotografica Magnum Photos negli anni Novanta, ricorda le parole di un fan della Leica: «So che sto usando il meglio del meglio. Non devo preoccuparmi più». Richard Kalvar comprò una Leica M4 e non si pentì mai: «è diventata parte di me», afferma. Ralph Gibson, le cui fotografie rivelano emozioni invisibili nascoste in ciò che ci circonda, dalla pelle alla pietra, comprò la sua prima Leica nel 1961, una M2, che, sbagliandosi, definì in seguito M3. Gli costò trecento dollari. Considerando che a quel tempo guadagnava cento dollari la settimana, non fu una spesa leggera. Ma non fu mai tradito. «Le più grandi fotografie della storia sono sta-
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te scattate più con una Leica con obiettivo standard da 50mm che con ogni altra combinazione fotografica», afferma. E a chi comincia a usare la Leica suggerisce di scattare per due o tre anni solo con l’obiettivo standard, per capire bene come riprendere la realtà: «Quello che si impara con questo obiettivo si può poi applicare agli obiettivi di altre lunghezze focali». [Attenzione: da più parti, si teorizza che la combinazione fotografica ideale sia Leica M con un medio grandangolare 35mm; e noi, come tanti altri, amiamo particolarmente il Summicron-M 35mm f/2]. Si potrebbe affermare che negli anni Cinquanta e Sessanta, la natura profonda dell’Europa sia stata raccontata con la Leica. Ne è un esempio la Parigi di André Kertész e Henri Cartier-Bresson. Ciò ha aumentato l’interesse degli americani per questa macchina fotografica. L’amore dei russi per il mirino angolare ha suggerito nuovi campi di utilizzo (se ci riuscite, provate a fotografare oltre il bordo di una finestra con un apparecchio a lastre). Ma il francese ha esaltato l’arte del reportage, dandogli ali con la sua esperienza e capacità di osservazione. Così la Leica ha conquistato l’America. I fotografi si gettarono sulla M3, la M4 e, più tardi, la M6 con esposimetro incorporato e logotipo Leica rosso sul frontale, e rivelarono un appetito fresco per il mondo, addentandolo con entusiasmo e ricavando incredibili bocconi di realtà. Per esempio, Lee Friedlander, fotografando un ragazzino a New York, nel 1963, abbassò il punto di vista all’altezza degli occhi del ragazzo, finendo così per decapitare gli adulti che stavano intorno a lui (ciò che i ragazzi ogni tanto sognano). Lee Friedlander scoprì le immagini del mondo riflesso nelle vetrine dei negozi, o parzialmente celato da
un segnale stradale; molte delle sue fotografie sembrano al limite dell’errore. «Con una macchina fotografica come questa -annotò Lee Friedlander a proposito della sua Leica- non pensi che stai realizzando un capolavoro. Ti accontenti di cogliere il mondo al volo». Una delle sue fotografie del 1969 riunisce un paesaggio di sentimenti: il cielo americano senza fine, vivacizzato da nubi alte, e con il sorriso smagliante di Maria, sua moglie, dietro il finestrino di un furgone; così componendo e inquadrando, dall’interno verso l’esterno, ha creato una immagine a due livelli: quello che vediamo oltre il finestrino e quello che si riflette nel vetro del finestrino. Ho letto lunghi romanzi che raccontano molto meno di questa fotografia. Prima di Lee Friedlander ci fu Robert Frank, nato in Svizzera; forse solo chi è nato in un paese di montagne può venire da noi e guardare agli Stati Uniti come una pianura piatta e tragica. Diario dei suoi viaggi con una Leica, le fotografie di The Americans (1958) sono piene di foschie, ombre, sgranate, e punteggiate di esseri umani rassegnati al proprio destino. E nessun artista, prima di lui, aveva studiato le stanze dove gli uomini vivono con altrettanta attenzione, con tutto, dalle scope agli asciugamani, immortalati dall’ampio abbraccio dell’obiettivo. Jack Kerouac, che scrisse l’introduzione al libro, celebrò la fotografia ripresa a Memphis, Tennessee, «come la fotografia più desolata mai scattata, gli orinatoi che le donne non avevano mai avuto occasione di vedere, il lustrascarpe che tira a campare nella sua triste eternità». Poi c’è stato l’inesauribile Garry Winogrand. Le ottantatré immagini di Robert Frank possono essere state scelte da circa cinquecento rullini di
pellicola, ma quando Garry Winogrand morì nel 1984, all’età di cinquantacinque anni, lasciò dietro di sé più di duemilacinquecento rullini mai sviluppati. Garry Winogrand si allontanò dal modo di guardare triste e riflessivo di Robert Frank: il suo stile era documentaristico, diretto è sfrontato, permeato di sorridente arguzia. Cambiava incessantemente l’angolo di inquadratura della sua Leica, per bilanciare la scena e riprodurla con una nuova dinamica. Una sua fotografia del 1969, raffigurante un uomo disabile a Los Angeles, avrebbe potuto essere alimentata solo da commozione o rabbia politica contro una società indifferente, ma Garry Winogrand non può fare a meno di cogliere con sarcasmo gli aspetti più stridenti della società; questa è la ragione per cui non ha inquadrato soltanto la sedia a rotelle e il piattino per la questua, ma anche un trio di ragazze con la minigonna riunite insieme come un gruppo di pronto intervento, che sta avanzando tra strane “V” create da raggi di luce riflessa e ombre, e una corpulenta matrona piantata sul lato destro dell’inquadratura come una insulsa figura da un’altra epoca. Recentemente, ho visto una fotografia della Leica M4 di Garry Winogrand. Il metallo non appare soltanto usurato, ma addirittura visibilmente corroso attorno la leva di carica; bisogna proprio scattare a lungo, e con esasperazione, prima che ciò possa accadere a una Leica. Ma la sua M4 sembra addirittura nuova, se la paragoniamo alla M2 di Bruce Davidson, il fotografo americano il cui lavoro costituisce, tra l’altro, una inestimabile testimonianza delle lotte per i diritti civili. La sua Leica M2 è ridotta come un albero al quale sia stata strappata la corteccia, ed è paragonabile alla Leica I esposta
nello stabilimento di Solms, che finì nell’incendio del dirigibile Hindenburg, avvenuto nel 1937, nel New Jersey. Il calore fu così intenso che la parte frontale dell’obiettivo si sciolse. Così adesso so cosa significano i test ai quali gli ingegneri Leica sottopongono i propri prodotti. Se vuoi veramente distruggerne una ti basta a mala pena un disastro aereo. Se si prende in mano una Leica M, due valori appaiono immediatamente evidenti. Il primo riguarda la sua compattezza. Sta nelle mani in modo stabile, ma non è certo leggera, e un’intera giornata di riprese lascia un vago, ma ben individuabile, senso di torpore ai polsi. Il secondo implica l’assenza del pentaprisma. Da tempo, le macchine fotografiche più performanti e versatili sono le reflex, dotate di pentaprisma. A seguire, Anthony Lane descrive come funziona il pentaprisma e rivela il fatto che, a ogni scatto, c’è un momento, infinitesimale ma sostanzioso, durante il quale lo specchio sollevato impedisce di osservare la scena inquadrata e «l’occhio rimane al buio». Anche se per la maggior parte dei fotografi non costituisce un problema, «per alcuni questo fatto rappresenta un’agonia: quella di perdere, anche per un solo istante, la possibilità di guardare il soggetto». “Visualus interruptus”, lo definisce Ralph Gibson. Ed è qui che le Leica M calano il proprio asso. La Leica non ha il pentaprisma: è un apparecchio non reflex, con telemetro accoppiato; l’inquadratura avviene attraverso il mirino e non attraverso l’obiettivo. Non ha uno specchio all’interno, e quindi non si sente il rumore quando si alza e si abbassa. Se si scatta con una reflex si sente un rumore, qualcosa tra un frullo e un colpo. Io adoro la mia Nikon FE malconcia, ma non posso negare che ogni volta che scat-
to mi ricorda lo zoccolo di una mucca che colpisce il secchio del latte della mungitura. Con una Leica tutto quello che si sente è il delicato scorrere delle tendine dell’otturatore. Non c’è niente di più silenzioso sul mercato. La fotografia fa il suono di un bacio. E questo può essere un altro dei motivi del fascino Leica. Sottigliezze, però, che possono rappresentare anche un limite. Il mirino delle Leica M sembra disegnato solo per una fotografia raffinata e formale, in bianconero. Ma allora consideriamo il lavoro di William Eggleston, il cui disinvolto uso del colore, declinato attraverso obiettivi Leica, è il mezzo perfetto per rivelare il surrealismo insito della vita quotidiana americana, che, come nei film di David Lynch, sboccia in modo dolorosamente evidente. E ancora, dotata dei suoi obiettivi luminosi, la Leica è la macchina fotografica fatta per la luce naturale, nemica del flash elettronico. Ciò nonostante, negli anni Settanta, Lee Friedlander ha realizzato una serie di nudi sfacciatamente illuminati con il flash, che esprimono tenerezza e dignità proprio nell’eccesso di illuminazione [nota parallela: appartengono a questa serie anche nudi di Louise Veronica Ciccone, non ancora Madonna]. Infine, più di altro, Leica è una macchina fotografica 35mm. Oskar Barnack aveva disegnato la UR-Leica intorno a uno spezzone di pellicola di origine cinematografica, e da allora la missione essenziale della produzione è stata quella di garantire che un particolare evento chimico -l’azione della luce su una superficie fotosensibile- si realizzasse nella maniera più semplice possibile. Attenzione, allora, a quello che è successo a Colonia, nell’autunno 2006. Alla Photokina, appuntamento biennale del mercato fotografico
mondiale, Leica ha annunciato che è ormai tempo per la M8 [FOTOgraphia, ottobre e novembre 2006]. La serie M diventa digitale. È stato un poco come se Bob Dylan ci avesse detto che avrebbe buttato la sua chitarra tradizionale per una elettrica. In un certo senso questo avrebbe dovuto accadere, ed è accaduto. La nostra vita va in direzione digitale. Tutta la mia infanzia si può distillare in un paio di album fotografici, con i momenti più importanti, sia di gioia sia di dolore, sintetizzati in non più di una dozzina di scatti, che conservo come talismani, un po’ invecchiati e rovinati ai bordi. Oggi, in una sola gita scolastica, i nostri figli realizzano un centinaio di immagini, che salvano su una memory card. Questa abbondanza faciliterà il ricordo del tempo passato? La nostra esperienza sarà più ricca, per il solo fatto di essere più ripetibile? O la nostra storia individuale rischia di essere spazzata via con la stessa facilità con cui si cancella una di queste memory card? Anche se per lui il fatto di scattare una fotografia significava molto di più della conservazione dei risultati, Garry Winogrand si sarebbe sentito più rassicurato se avesse potuto salvare le immagini su un hard disk, piuttosto che su una fragile pellicola? Impossibile dirlo, ma un fatto è sicuro: l’uso della pellicola sarà sempre più una scelta minoritaria, riservata a ostinati e nostalgici perfezionisti. [Una volta ancora, tra tante altre considerazioni e altrettanti punti di vista, rimandiamo alle Vues n° 0 di JeanChristophe Béchet, presentate e commentate in FOTOgraphia dello scorso maggio]. Dopo aver ricordato che la sola Nikon offre sul mercato ventidue macchine fotografiche digitali, tra le quali solo due reflex, Anthony Lane prosegue annotando che anche una produzione come Leica, nonostan-
te i suoi fan, non avrebbe potuto non risentire della situazione. Ovviamente, l’autore si riferisce al mercato statunitense, commercialmente diverso da quello italiano, e comunque pensiamo che si sia un poco confuso con le cifre; ma, in ogni caso, non è questo che modifica il senso delle sue considerazioni. Nell’anno fiscale 2004-2005, l’azienda ha dichiarato perdite per quasi venti milioni di euro, e nel 2005 le banche hanno parzialmente chiuso le loro linee di credito. Da allora, Steven K. Lee, geniale nuovo amministratore delegato arrivato dalla California, ha pianificato cambiamenti radicali. L’anno scorso, la compagnia è tornata in attivo, e molto di questo miglioramento è dovuto alla M8 digitale, anche se l’avvio di questa macchina fotografica avrebbe presentato qualche problema. Per esempio, a causa di un piccolo guasto nel sensore, nelle immagini digitali il nero appariva come rosso scuro. E anche l’accoppiamento di messa a fuoco ha creato disagi. Anthony Lane si sofferma su questi disagi. Un fotografo molto noto la definì inutilizzabile, e disse che più di una volta gli venne la tentazione di buttarla contro il muro. Ma l’azienda si assunse le proprie responsabilità: le Leica M8 difettose tornarono in fabbrica. Steven K. Lee firmò quattromila lettere di scuse, e la crisi fu superata, anche se la M8 ha ancora bisogno di un filtro costantemente fissato su ogni obiettivo per correggere la visione imperfetta. Ovviamente, Leica promette di fare meglio in futuro. Quando ho domandato a Steven K. Lee se fosse prossima una M9 digitale, miglioramento della M8 originaria, con tutti i difetti eliminati, mi ha sorriso, senza rispondere. Essendo un Leica lover da lungo tempo, Steven K. Lee sa perfettamente cosa c’è in ballo. Alla mia domanda che ha sollecitato la differenza tra
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usare una Leica e un’altra macchina fotografica, ha risposto: «con una, è come guidare una Morgan su una strada di campagna; con le altre, è come correre con una Mercedes station wagon lanciata a centocinquanta chilometri orari». Ha ragione. Sia per i fotografi, sia per gli automobilisti il criterio più importante dei nostri giorni è la velocità. E poi c’è la convinzione che qualcosa di più lento dell’ultimo modello Mercedes, che non sia accessoriato con tutti gli extra in dotazione, debba obbligatoriamente appartenere al passato. C’è anche un altro problema: il mercato florido delle Leica usate, con club e forum che discutono all’infinito anche su particolari insignificanti, come una tracolla introdotta nel 1933. Ci sono collezionisti che comprano una o più Leica [in genere tante Leica, in modelli distribuiti sugli anni] e non scattano mai una fotografia; altri che collezionano solo i modelli speciali, come, per esempio, quelli costruiti per la Luftwaffe negli anni della Seconda guerra mondiale. Una volta, Ralph Gibson si recò a un meeting della Leica Historical Society of America, e racconta di aver ascoltato un generale in pensione del corpo dei marine mentre teneva una lezione su alcune discrepanze nei numeri di serie dei tappi degli obiettivi Leica. Questo genere di persone, che con sarcasmo e ironia Ralph Gibson definisce “Leicadipendenti”, contribuiscono a rendere immortale il fascinoso, indistruttibile incantesimo, che garantisce longevità a questa macchina fotografica, tratteggiandone i connotati della Leggenda. Comunque, anche qui sta il problema. La inossidabilità delle Leica usate, che funzionano come quelle appena sfornate da Solms, rallenta la vendita delle nuove: perché
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acquistare una M8, quando si può comprare una M3, che permette di fare più o meno le stesse cose, a un quarto del prezzo del nuovo modello? [Crediamo che qui Anthony Lane sia inciampato in un errore involontario: la M8 è una Leica digitale, mentre la M3 sta alle origini della costruzione a telemetro con mirino accoppiato e innesto a baionetta degli obiettivi intercambiabili. Casomai, quindi, la comparazione tra la Leica M3, e poi anche M2 e M4, dovrebbe limitarsi alle più recenti M6, M7 e MP, le ultime due ancora in catalogo. Ripetiamo, tutt’altro discorso riguarda la tecnologia dell’acquisizione digitale di immagini]. «Credo che per ogni euro che noi fatturiamo, il mercato dell’usato ne muova almeno quattro», conclude amaramente Steven K. Lee. Personalmente, io desidero una Leica da quando ho visto una fotografia di Henry Fonda scattata da Edward Weston. Il nobile profilo dell’attore si staglia contro il cielo, una sigaretta tra le dita, e una Leica che risalta sul velluto della sua giacca. Ho usato diverse macchine fotografiche di culto, tutte comprate di seconda mano, e tutte basate su un negativo più grande del 35mm: una Bronica, una Mamiya 7 e perfino la celebrata Rolleiflex biottica, che va indossata e usata all’altezza della cintola. «Se il buon Dio avesse voluto che noi si fotografasse con questi apparecchi sei-per-sei, con mirino da osservare dall’alto, avrebbe piazzato i nostri occhi all’altezza della pancia», disse una volta un irriverente Henri Cartier-Bresson. Ma non avevo mai usato una Leica. Oggi, posseggo una piccola e compatta Leica digitale, la D-Lux 3. Ha un ottimo obiettivo e una custodia di pelle un po’ retrò, che non mi fa sentire Henry Fonda ma un escursionista di nome Helmut, che
va in giro per la Foresta Nera con i calzoni alla zuava e un cappello di loden in testa, con tanto di piuma di ghiandaia. Ma la D-Lux 3 non è la Leica M8. Innanzitutto, non ha il suo mirino, in secondo luogo costa circa seicento dollari, che rappresentano il limite superiore del mio budget, ma che sono ridicolmente pochi per una qualsiasi Leica M. Così, per scoprire quello che stavo perdendo, a New York City ho affittato una Leica M8 con il suo 50mm, e per quattro ore sono andato un po’ a zonzo. Se riuscite a superare la sottile inquietudine che assilla andando in giro per la strada con appesa al collo una macchina fotografica che costa circa settemila dollari, allora un pomeriggio con la Leica M8 rappresenta una esperienza pericolosamente piacevole. Posso capire che per un fotografo di sport, che lavora distante dal luogo dove si svolge l’azione, o per un paparazzo, che sta cercando di realizzare una sequenza di venti immagini di Britney Spears che cade per terra fuori da un night club, la M8 non sia lo strumento di lavoro ideale. Qui non si tratta di una questione ergonomica o di un obiettivo inciso come un diamante. Si tratta piuttosto del vecchio trucco Leica: quello di illuderti che il mondo esterno richieda di essere osservato attraverso il suo mirino e il suo obiettivo, di essere catturato e consumato mentre è fresco come una trota da una macchina pura, poco inquinata dalle esuberanze della tecnologia. Fin da quando ero giovane, da quando cercavo, una copia dopo l’altra, di realizzare buone stampe armeggiando con le vaschette dello sviluppo sotto la luce attenuata della camera oscura, ho sempre provato un po’ di vergognosa soggezione nei confronti della fotografia. Ora,
con una Leica M8 nelle mie mani, la vergogna ha lasciato spazio all’ebbrezza. A un certo punto mi sono fermato fuori da una libreria, per testare l’esposizione. Ho messo a fuoco un paio di espositori dietro la vetrina, sistemati alla fine di un lungo scaffale sotto una scritta “Antiquariato”. Improvvisamente, un pallido fantasma è entrato nell’inquadratura. Colto dal panico ho schiacciato il pulsante di scatto: bacio. Sul monitor della M8 ho potuto controllare cosa avevo ripreso. Il fantasma era una signora anziana, una autentica antiquaria, con capelli bianchi e luminosi che portava gli occhiali. Non è una gran fotografia, ricorda più un fotogramma dal film Ghostbusters, ma è più divertente e gratificante di ogni altra fotografia che avevo scattato in precedenza, e ho catturato il soggetto solo grazie alla Leica. E solo con una Leica della serie M, perché nel tempo che avrebbe impiegato la mia D-Lux 3 a mettere a fuoco e scattare, la signora dai capelli bianchi chissà dove sarebbe finita. Così ho scoperto che quello che si diceva è vero. Usa la Leica e le occasioni ti capiteranno. Mi sono subito ricordato di quello che Henri Cartier-Bresson disse una volta, riguardo al fatto che aveva quasi abbandonato la pittura per la fotografia: «L’avventuriero che c’è in me mi spinge a raccogliere le mie testimonianze sulle cicatrici del mondo con uno strumento più rapido di un pennello». Questo è ciò che lo ha legato ai Leicadipendenti, e Oskar Barnack alla M8, e i russi rivoluzionari al voler mettere a nudo l’America: il semplice, perenne desiderio di guardare alle cicatrici del mondo. Fine. Lunga e appassionante cavalcata. Ne è valsa la pena. Traduzione e commenti di collegamento di Lello Piazza