FOTOgraphia 138 febbraio 2008

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Mensile, 5,70 euro, Poste Italiane SpA - Spedizione in abbonamento postale - D.L. 353/2003 (convertito in Legge il 27-02-2004, numero 46), articolo 1, comma 1 - DCB Milano

ANNO XV - NUMERO 138 - FEBBRAIO 2008

Linguaggio VISIONI ANONIME

Confidential COSÌ APPARE (MA NON È)

LETIZIA BATTAGLIA


Penso che ogni immagine cominci a esistere solo quando qualcuno la sta guardando.

Wim Wenders su questo numero, a pagina 45

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Non è venduta in edicola. Per averla hai una sola possibilità: sottoscrivere l’abbonamento annuale. 12 numeri 57,00 euro Solo in abbonamento Compilare questo coupon (anche in fotocopia), e inviarlo a: Graphia srl, via Zuretti 2a, 20125 Milano MI (02-66713604, fax 02-66981643; graphia@tin.it)

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COLLEGAMENTI. Alcuni sono volontari, altri inevitabili, altri curiosamente casuali. Predisponendo la sequenza degli argomenti che compongono, uno dopo l’altro, ogni numero della rivista, si ricercano equilibri che si basano, alternativamente, sul contrasto o l’omogeneità. Per questo, su questo numero di febbraio, maturato nei tranquilli giorni delle festività di fine anno, quando si allentano le tensioni lavorative quotidiane, ci si è potuti concentrare su una serie di libri, che in altri momenti trovano meno tempo per essere osservati con la dovuta concentrazione. Da cui, tre consistenti presenze di libri: dalla presentazione di Full of Grace (da pagina 26) alla passerella di Confidential (da pagina 42), all’analisi della fotografia anonima da monografie a tema (da pagina 48). Quindi, in coincidenza di intenti, segnaliamo combinazioni che si rendono necessarie, per quel sottile piacere della microattenzione ai dettagli: magari, originariamente formali, ma in definitiva significativi. Da cui, la consecuzione tra il ricordo di Henri Cartier-Bresson, evocato da Piergiorgio Branzi (da pagina 14), e quello di René Burri, incontrato da Cristiano Cossu (da pagina 16), cui abbiamo accostato testi e conversazioni degli stessi due fotografi. Oppure, con profilo più basso, segnaliamo che l’illustrazione di partenza si collega in qualche modo e misura con la presentazione di due mostre fotografiche a Roma (da pagina 57). Allo stesso tempo, riprendendo i ricordi di Piergiorgio Branzi e Cristiano Cossu, non possiamo non allinearli al «Mi ricordo», che da Georges Perec sconfina nello specifico della memoria fotografica individuale, in proposta/proposizione collettiva: dall’editoriale, a pagina 6. Invece, altri collegamenti, se così possiamo definirli, sono inevitabili, quando l’argomento affrontato è la riflessione fotografica. Così, oltre che soggetto esplicito dell’incontro di Piergiorgio Branzi (ancora!), Henri Cartier-Bresson viene citato anche da Pino Bertelli, a pagina 66, e Renato A. Beccari, a pagina 60. Poi, Piergiorgio Branzi, autore del testo su HCB, è segnalato come fotografo nell’ambito della relazione da ParisPhoto 2007 (con visualizzazione a pagina 31). Per quanto alcune si queste “insistenze” siano endemiche (soprattutto quando ci si riferisce a personalità quali quella di HCB), altre risultano curiose: il regista Wim Wenders è citato da Pino Bertelli e nell’ambito della presentazione di Confidential, rispettivamente a pagina 65 e 45. Tutto ciò a conferma di quelle intersezioni trasversali, ripetiamo volontarie, inevitabili o casuali, che appartengono alla quotidianità, anche a quella dell’impegno a parlare di fotografia. Anzi, con la maiuscola: Fotografia.

Mi ricordo: – Che differenza c’è tra la Tour Eiffel, te e la mia famiglia? –? – La Tour Eiffel è un colosso e tu coll’osso! – ? E la tua famiglia? – Sta bene grazie. (Georges Perec; da Mi ricordo)

Copertina Trapani, 1989. I misteri. Fotografia di Letizia Battaglia, della quale proponiamo una intensa e commovente intervista da pagina 34

3 Fumetto Dettaglio da una cartolina illustrata del 1950, specificato come Anno Santo: in volontario collegamento con le due mostre fotografiche che a Roma raccontano affascinanti storie della città (ne riferiamo da pagina 57)

6 Editoriale 35

Gioco?! Sì e no. Anzi, meglio: no e sì. No, perché l’esercizio del ricordo, della memoria è oggi più che mai necessario al mondo della fotografia, che sta dimenticando troppo. Sì, perché i «Mi ricordo» personali ne richiamano altri, altrettanto personali. Come diciamo spesso: a ciascuno, i propri (ricordi)

8 Forma e contenuto Improbabilità di una rievocazione fotografica, declinata con consistenti imprecisioni. Siamo alle solite: la fotografia è spesso trattata con colpevole superficialità

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10 Notizie Attrezzature, vicende e altre segnalazioni

14 HCB... ti ricordo 18

Appassionata rievocazione di un incontro lontano nel tempo, replicato in tempi recenti. Con il Mito di Piergiorgio Branzi

16 Con René Burri Altro incontro, con partecipe racconto fotografico Fotografie (e memoria) di Cristiano Cossu

20 E fu subito Hasselblad Anticipazione del sessantesimo anniversario: 1948-2008

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22 Reportage Appunti e attualità del fotogiornalismo internazionale A cura di Lello Piazza


. FEBBRAIO 2008

R , RIFLESSIONI IFLESSIONI, OSSERVAZIONI E COMMENTI OSSERVAZIONI E COMMENTI SULLA FOTOGRAFIA SULLA FOTOGRAFIA

26 Pieni di grazia

Anno XV - numero 138 - 5,70 euro

Consistente monografia, Full of Grace è un coinvolgente viaggio fotografico attraverso la storia dell’infanzia

DIRETTORE

RESPONSABILE

Maurizio Rebuzzini

IMPAGINAZIONE

29 Notazioni di merito ... e demerito dall’edizione 2007 di ParisPhoto. Invitata d’onore, l’Italia ha confermato la fragilità del nostro impianto culturale, estraneo alle regole e intendimenti del mercato internazionale di Giuliana Scimé

Gianluca Gigante

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Rouge

SEGRETERIA Maddalena Fasoli

HANNO

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42 Così appare (ma non è) Convincente azione fotografica di Alison Jackson. Raccolta in monografia, la serie Confidential rivela e sottolinea possibili e potenziali falsità della fotografia, che -per paradosso- danno peso al suo rigore

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48 Visioni anonime

COLLABORATO

Letizia Battaglia Renato A. Beccari Pino Bertelli Antonio Bordoni Piergiorgio Branzi Cristiano Cossu Maria Teresa Ferrario Vito Liverani Loredana Patti Lello Piazza Franco Sergio Rebosio Ciro Rebuzzini Filippo Rebuzzini Giuliana Scimé Zebra for You Redazione, Amministrazione, Abbonamenti: Graphia srl, via Zuretti 2a, 20125 Milano; 02-66713604, fax 02-66981643; graphia@tin.it. ● FOTOgraphia è venduta in abbonamento. ● FOTOgraphia è una pubblicazione mensile di Graphia srl, via Zuretti 2a, 20125 Milano. Registrazione del Tribunale di Milano numero 174 del Primo aprile 1994. Poste Italiane SpA - Spedizione in abbonamento postale - D.L. 353/2003 (convertito in Legge il 2702-2004, numero 46), articolo 1, comma 1 - DCB Milano.

Tre monografie illustrate (più un’altra) sottolineano il merito che dobbiamo riconoscere alla fotografia di autori anonimi. Straordinari momenti di Storia di Maurizio Rebuzzini Ricerca iconografica di Ciro Rebuzzini

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57 Due volte Roma Rispettivamente, due mostre in simultanea raccontano avvincenti vicende della capitale: Trastevere e San Pietro (nel cinquecentenario della fondazione della Basilica) di Angelo Galantini

Angelo Galantini

FOTOGRAFIE

34 Letizia Battaglia Recentemente insignita del prestigioso Dr. Erich Salomon Preis 2007, Letizia Battaglia è una fotogiornalista che ha affrontato stagioni di grande impegno sociale. Soprattutto ha raccontato la mafia nella sua Sicilia. Riflessioni e considerazioni a partire dalla Fotografia Intervista di Lello Piazza

REDAZIONE

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60 Accordarsi nello specchio del tiro Filosofia di Vita e Fotografia, in un edificante incontro di Renato A. Beccari

Fotocomposizione DTP e selezioni litografiche: Rouge, Milano Stampa: Arti Grafiche Salea, Milano

62 Ancora Mark III

Rivista associata a TIPA

Reflex digitale professionale Canon Eos-1Ds Mark III: ventuno Megapixel con sensore CMOS a pieno formato di Antonio Bordoni

64 Joakim Kocjancic Sguardi su un giovane fotografo da marciapiedi di Pino Bertelli

58 www.tipa.com


eorges Perec (1936-1982) è stato uno scrittore di eccezionale originalità, le cui costruzioni linguistiche si sono spesso basate sull’impiego volontario e consapevole di limitazioni formali, ricercate e frequentate con caparbia assiduità. Da cui, la sua partecipazione all’Ouvroir de littérature potentielle (Oulipo), che annoverò tra le proprie fila anche Raymond Queneau e Italo Calvino, a propria volta inventori di semantiche parallele: indispensabili le segnalazioni, rispettivamente, di Esercizi di stile (pubblicato in Italia nella traduzione di Umberto Eco; Einaudi, 1983) e Le città invisibili (negli Oscar Mondadori). In fotografia, Georges Perec è spesso richiamato in saggi critici su autori, correnti e progetti (e lo stesso possiamo affermare per Le città invisibili di Italo Calvino, appena richiamate, ma qui, oggi, non c’entra/no). Soprattutto, ci si riporta a Specie di spazi e Le cose, ma anche a Sono nato e Tentativo di esaurire un luogo parigino: ognuno per sé, e tutti insieme, testi profondi, ricchi di spunti e osservazioni facilmente riconducibili all’azione fotografica. Ovviamente, anch’io ho il mio Perec di fiducia, diciamola così. È quello di Mi ricordo (Bollati Boringhieri, 1988), dichiaratamente ispirato a I remember di Joe Brainard (Angel Hair Books, 1970). Di cosa si tratti, è presto detto: incessante sequenza di quattrocentottanta «Mi ricordo», che si susseguono in forma asciutta e diretta (per esempio, «Mi ricordo l’assassinio di Sharon Tate», «Mi ricordo lo yo-yo», «Mi ricordo Zatopek», «Mi ricordo che Shirley McLaine ha debuttato in La congiura degli innocenti di Hitchcock»). Come ha annotato lo stesso George Perec, tutti potrebbero scrivere Mi ricordo, ma nessuno potrebbe evocare gli stessi suoi ricordi. In definitiva, si tratta di un autentico e dichiarato appello alla memoria individuale, i cui tratti ne possono anche formare una collettiva trasversale: per esperienze analoghe, allineamento generazionale, affinità e altro ancora, molti ricordi sono comuni a più persone. Molti, ma non tutti nel proprio complesso. Ognuno può cimentarsi nel microricordo, che non esige né impone regole precostituite: ricordi liberi, richiami fugaci, riferimenti sollecitati. Ma anche annotazioni mirate. Si può ricordare con la consapevolezza e coscienza di farlo, come si può arrivare al ricordo inconsciamente, stando a tavola, alla tastiera del proprio computer, con l’occhio al mirino della propria macchina fotografica, osservando -ormai raramente- il vetro smerigliato sul quale l’inquadratura si proietta rovescia. La discriminante non è il ricordo in sé, ma la voglia di annotarlo, per non lasciarlo più sfuggire tra le pieghe delle consecuzioni quotidiane, che sostituiscono continuamente ciascun ricordo con un altro nuovo ricordo, in una concatenazione senza fine e finalità. Cosa diamine mi ricordo dei tempi vissuti in fotografia? Ora è più che mai necessario ricordare, perché in troppi vogliono farci dimenticare! Maurizio Rebuzzini

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Mi ricordo il doppio sincronismo flash: X e M. Mi ricordo i calcoli per l’incremento di esposizione. Mi ricordo l’ingranditore Iff Auregon (da Aurelio Reggiani). Mi ricordo la Polaroid Big Shot; la usò anche Andy Warhol. Mi ricordo la consecuzione Leitz Prado e Pradovit. Mi ricordo Timothy H. O’Sullivan con Tex Willer. Mi ricordo il primo Window Light, e Renato Gozzano. Mi ricordo quando presentarono la Nimslo 3D. Mi ricordo i manuali tecnici di Andreas Feininger. Mi ricordo la luna che sorge su Hernandez, New Mexico. Mi ricordo le Kodamatic a sviluppo immediato. Mi ricordo l’FP3 e l’HPS, e anche la Ilford. Mi ricordo i fratelli Alinari: Leopoldo, Giuseppe e Romualdo. Mi ricordo la morbidezza dell’Imagon, di Rodenstock. Mi ricordo la scala dei diaframmi. Mi ricordo i flash di Adriano Todde, e quelli di suo figlio Claudio. Mi ricordo l’ago del galvanometro. Mi ricordo Hermes Artioli, Giorgio Bossi e Rosa Asnaghi. Mi ricordo la Osanon Digital 750, che non era digitale. Mi ricordo una visita all’Agfa, nel 1971, da studente. Mi ricordo gli obiettivi a preselezione (del diaframma). Mi ricordo il Thambar 90mm della Leica. Mi ricordo i tempi di sviluppo del Tri-X, in Rodinal. Mi ricordo i filtri Canon antiretino (tipografico). Mi ricordo gli châssis Fidelity, e anche i Lisco. Mi ricordo gli assi di basculaggio decentrati. Mi ricordo il Lunasix e il Weston Master: che esposimetri! Mi ricordo la presentazione della Polaroid SX-70. Mi ricordo Venezia ’79: la Fotografia, e Emilio Tremolada. Mi ricordo le cambiali per i primi Bowens Monolite. Mi ricordo Vincenzo Silvestri prima della Silvestri. Mi ricordo Giuseppe Turroni. Mi ricordo una Kodak Instamatic e una bicicletta. Mi ricordo la Mamiya C33. Mi ricordo i tappi di cuoio degli obiettivi grande formato. Mi ricordo l’Hologon sulla Leica di Ghester Sartorius. Mi ricordo le tacche in alto a destra (o, in basso a sinistra). Mi ricordo un giorno a Genova con Bruno Palazzi. Mi ricordo le fotografie del Borghese. Mi ricordo di dire “treppiedi” e non “cavalletto”. Mi ricordo Gi.Bi. e tanti aneddoti a lui collegati. Mi ricordo le Leica, prima del loro collezionismo. Mi ricordo che il Super-Angulon era (è?) f/5,6 e f/8. Mi ricordo che il Grandagon era (è) f/4,5 e f/6,8. Mi ricordo il rullo 127 della mia Cocarette. Zeiss Ikon. Mi ricordo l’Agfachrome Speed e il Polavision. Mi ricordo l’Immagine latente di Beaumont Newhall. Mi ricordo il Sicof e lo stile di Roberto Pinna Berchet. Mi ricordo le lastre di vetro e il lato dell’emulsione. Mi ricordo le tank Paterson da otto spirali. Mi ricordo mio padre e mia madre in posa. Mi ricordo di ricordare. M.R.

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FORMA E CONTENUTO

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Ci capita per le mani un numero del Guerin Sportivo, nobile, antico e prestigioso settimanale di argomenti dichiarati in testata. L’articolo Fotocalcio che passione attira la nostra attenzione per la sua combinazione fotografica, che è materia alla quale ci rivolgiamo. Per anagrafe e predisposizione personale, siamo anche interessati dalla visione retrospettiva, che promette di rievocare momenti e situazioni di un passato che tanto ci affascina e coinvolge. Però, l’impatto è terribile, perché -come spesso accade- i richiami e riferimenti fotografici sono a dir poco approssimativi. Confermiamo: capita spesso all’interno degli organi di informazione non specialistici (dalla carta stampata alla televisione), che sono soliti trattare la fotografia con estrema superficialità. Noi riusciamo a capire e decifrare queste colpevoli inesattezze, perché siamo consapevoli e coscienti dell’argomento, ma il pubblico nel proprio insieme no. Quindi, pensiamo a quando gli articoli di altra materia ci paiono accattivanti, ma che -magari- sono altrettanto imprecisi, e non abbiamo strumenti per accorgercene. Ciò anticipato, arriviamo, per rimanerci, all’articolo in questione, appunto Fotocalcio che passione, pubblicato sul Guerin Sportivo dell’undici settembre scorso. Subito in sommario, la celebre biottica, strumento principe della fotocronaca italiana dei decenni scorsi, è identificata come Rolleyflex: sì, proprio con la “y”, che per molti è sinonimo di internazionalità (da cui la semplificazione “Rolley” nell’articolo; da cui altre identificazioni errate, altrove incontrate, di “Leika”, “Konika” e via discorrendo). A partire da questa forma, il contenuto è conseguente: generico, vago e, soprattutto, inesatto. Perché, come sottolineiamo spesso, in Italia la fotografia non è disciplina (arte?, scienza?) da trattare con adeguato rispetto e competenza. Quindi: «“Otto scatti: tre per il primo tempo, quattro per il secondo, uno per gli even-

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tuali disordini”. Così un fotografo d’antan raccontava il suo lavoro allo stadio. Le otto fotografie derivavano dall’uso della Rolleyflex (familiarmente Rolley) [ancora!], il modello un tempo più diffuso fra i fotoreporter, una macchina a ottiche sovrapposte, non reflex [!] e quindi con il rischio di parallasse cioè di allineamento fra l’obiettivo e il mirino, mentre l’inquadratura si controllava su un vetrino smerigliato posto alla sommità e naturalmente appariva rovesciata». In difesa della Rolleiflex. Ovviamente, l’autonomia del rullo 120 per esposizioni 6x6cm si estende/va a dodici pose e non otto: poco male. Tanto più che, per testimonianza diretta e partecipe di chi ha fotografato il calcio nei decenni scorsi, non si esaurivano certo le pose, ma si mandavano a sviluppare subito i primi scatti, in modo da consentire la trasmissione anticipata ai quotidiani. La Rolleiflex è reflex, non è afflitta da alcun errore di parallasse, corretto automaticamente e comunque sostanzialmente assente nell’inquadratura da bordo campo. Al caso, il vetro smerigliato è brillante e l’immagine proiettata è soltanto invertita destra-sinistra, non certo rovesciata alto-basso. Quindi, a proposito di intenzioni fotografiche: i disordini in occasione delle partite sono un concetto assolutamente attuale, estraneo al calcio dei decenni scorsi. Saltiamo alcuni paragrafi, altret-

Pubblicato sul Guerin Sportivo dell’undici settembre scorso, l’articolo Fotocalcio che passione si propone di rievocare le tappe tecniche della fotografia da bordo campo. Impreciso e forviante, a partire dalla grafia Rolleyflex/Rolley (peccato veniale?), è testimonianza di un modo di mal intendere le considerazioni fotografiche da parte del giornalismo non specializzato.

tanto densi di errori, e continuiamo a leggere: «Le pellicole, in formato 6x9 [!], va da sé in bianco e nero, avevano la sensibilità del... legno compensato: il limite erano i 21 din, ovvero al massimo 100 asa». No, niente affatto: i 320 e 400 Asa (oggi Iso) delle confezioni professionali e non professionali del leggendario Kodak Tri-X, il bianconero con il quale è stata scritta la storia fotografica del secondo Novecento, sono del 1954, e si sono subito imposti come emulsione di riferimento del fotogiornalismo e della fotocronaca internazionali, sia in 35mm sia in pellicola a rullo 120 e 220 (i cinquant’anni sono stati ricordati in FOTOgraphia del maggio 2004). Da qui, ci domandiamo come e quanto possano essere attendibili le altre rievocazioni storiche dell’articolo, che raccontano di processi di sviluppo accelerati, di montaggi (il pallone aggiunto nell’inquadratura: sappiamo che si è anche fatto, ma non nei termini che abbiamo letto qui), di avventurosi sistemi di invio dei rullini e di altro ancora. Insomma, qual è la credibilità di un contenuto che si basa su forme narrative assolutamente improbabili e valori tecnici clamorosamente fantasiosi? Comunque, alla fin fine, l’amara considerazione è sempre la stessa, che peraltro abbiamo già anticipato. Quella della scarsa o nulla considerazione con la quale in genere e generale si guarda la fotografia, ripetiamolo ancora materia che viene spesso raccontata senza il rispetto che si deve (dovrebbe) a qualsiasi argomento trattato. Da qui ad altre consecuzioni, alcune delle quali riferite su questo stesso numero, nell’ambito delle notazioni dallo svolgimento di ParisPhoto 2007, da pagina 29, il passo è breve e inevitabile. Con questo, sia chiaro, non ci accodiamo a quella in/cultura del piagnisteo, trasversale al nostro mondo. Soltanto, ci riserviamo il diritto di rilevare le incongruenze e sconvenienze che affliggono la fotografia. In Italia, almeno. A.G.


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STANDARD. L’escursione focale 3x del nuovo Nikkor-Zoom AF-S DX 18-55mm f/3,5-5,6G VR si offre e propone per la combinazione ideale con le reflex digitali Nikon (DX) di ultima generazione: variazione equivalente all’intervallo da 27 a 82,5mm della fotografia 24x 36mm, riferimento d’obbligo (da 76 gradi a 28,50 gradi di angolo di campo). Compatto e leggero (73x79,5mm, 265g di peso), dotato di motore Silent Wave, garanzia di autofocus rapido e silenzioso, è stato specificamente progettato per utenti principianti, ma è in grado di soddisfare anche esigenze più avanzate, proprie e caratteristiche di un approfondito impegno fotografico. Come specifica la sigla identificatoria, lo zoom è dotato del sistema Nikon di Riduzione Vibrazioni (VR), che compensa l’effetto mosso provocato dai movimenti involontari dell’apparecchio e consente di scattare con tempi di otturazione fino a tre stop più lunghi rispetto a quanto sarebbe possibile senza il suo utilizzo. Così che, si possono realizzare riprese a mano libera, ottenendo immagini nitide anche in condizioni di scarsa luminosità. Quindi, in combinazione, un altro considerevole vantaggio offerto dalla Riduzione Vibrazioni è la stabilità dell’immagine visualizzata nel mirino, che semplifica l’inquadratura e composizione: nel concreto, molto più agevoli e accurate. Inoltre, per garantire prestazioni sostanzialmente elevate

(professionali?), nella costruzione del Nikkor-Zoom AF-S DX 18-55mm f/3,5-5,6G VR è stato adottato un diaframma circolare a sette lamelle, che assicura una resa naturale e ammorbidita delle aree fuori fuoco. Oltre a questo, lo zoom vanta una messa a fuoco minima ravvicinata da 28cm per l’intera escursione focale. Ancora: diaframma minimo f/22-36, rapporto massimo di riproduzione 0,31x e diametro filtri 52mm. La sua combinazione ottica è finalizzata all’impiego con reflex digitali Nikon formato DX. Per questo, nella combinazione di undici lenti in otto gruppi, l’obiettivo incorpora una lente asferica ibrida, che riduce al minimo la distorsione, nonché il rivestimento Nikon Super Integrated Coating, che assicura un efficace bilanciamento e una riproduzione dei colori ottimale, con drastica riduzione delle immagini fantasma. (Nital, via Tabacchi 33, 10132 Torino).

FIRMWARE SIGMA. È disponibile una nuova versione del firmware interno per la reflex digitale Sigma SD14 (FOTOgraphia, novembre 2006). L’aggiornamento firmware 1.05 apporta notevoli miglioramenti all’uso dell’apparecchio ed estende le sue possibilità di impiego, rispetto le precedenti release, fino alla più recente 1.04 della scorsa primavera. Come consueto, dalle directory dedicate del sito Sigma, seguendo le consecuzioni www.sigma-sd14.com/ software/firmware/ l’aggiornamento è semplice, guidato da istruzioni consequenziali. (Mamiya Trading, via Cesare Pavese 31, 20090 Opera Zerbo MI).

MALKOVICH CON VAIO. A metà ottobre, Sony ha lanciato un nuovo portale dedicato alla propria linea di computer Vaio, per scoprire il mondo creativo di John Malkovich, avvincente ed eclettico attore, produttore e regista, classe 1953, che il regista Spike Jonze ha celebrato nel suo Essere John Malkovich,

del 1999 (in originale Being John Malkovich). Per addentrarsi nel suo mondo, il portale Sony Vaio www.vaio-john.com ospita una serie di cortometraggi e monologhi, riflesso delle influenze dell’attore, convinto all’operazione dalla possibilità di utilizzare i nuovi notebook Vaio a scopo creativo. Elaborata in collaborazione con Fallon e Dare, l’iniziativa integrata prevede appuntamenti fissi e iniziative estemporanee. Per esempio, da novembre, sul sito è possibile partecipare a un progetto di sceneggiatura completamente interattivo, per dar vita a un copione, che porterà la firma di più autori. John Malkovich presenta la prima scena di un copione e invita gli utenti a ideare la scena successiva. La migliore proposta pervenuta viene utilizzata per proseguire la storia, e per ogni scena successiva John Malkovich esprime il proprio giudizio sui lavori presentati, finché la sceneggiatura non verrà ritenuta completa. Al culmine di aggiornamenti mensili, la sceneggiatura finale sarà pubblicata il prossimo marzo. Questa collaborazione immortala il mondo unico di John Malkovich, gli stimoli e le idee creative che l’attore sperimenta per le vie di Parigi. Avvalendosi della collaborazione degli esperti di fotografia di moda Blinkk, nel corso di quattro giorni, Fallon ha girato una serie di ventisette cortometraggi con protagonista John Malkovich, con l’intento di realizzare un lavoro che apparisse immediato e spontaneo, senza mai seguire un copione vero e proprio e secondo un approccio di tipo organico, che ha permesso di riprendere l’autentica personalità dell’attore.


Ogni mese, sul sito vengono caricati nuovi episodi e contenuti, affinché John Malkovich possa condividere con gli utenti i propri pensieri sulla vita e su altri temi insoliti che lo ispirano o sconcertano. Il progetto ha iniziato a prendere forma nel momento in cui l’attore, possessore di un notebook Vaio da molti anni, ha intravisto la possibilità di permettere ad altri di attingere alle sue influenze creative: utilizzare il proprio notebook Vaio per sfruttare al massimo ogni opportunità creativa, proprio come un artista si serve dei propri schizzi. Nel corso del progetto, John Malkovich ha utilizzato i più recenti modelli Vaio FZ e TZ, per fissare momenti di particolare ispirazione, per registrare stralci di interviste e per l’editing dei contenuti del sito. Il notebook Vaio FZ consente di riprodurre e registrare Blu-ray Disc, offrendo la possibilità di rivedere i corti registrati in qualità HD nei luoghi parigini preferiti dall’attore. Per cogliere la spontaneità dei pensieri creativi di John Malkovich, Sony ha ripreso l’attore durante le attività di tutti i giorni. Indispensabile, quindi, che l’attore disponesse di un laptop compatto e leggero, da poter utilizzare a teatro, in hotel e durante gli appuntamenti. La scelta è ricaduta sulla sottile struttura in fibra di carbonio, soluzione ideale per uno stile di vita all’insegna del movimento, grazie a un peso di soli 1,24kg e un’autonomia di sette ore e mezzo. (Sony Italia, via Galileo Galilei 40, 20092 Cinisello Balsamo MI).

ANCHE PER NIKON D40. Dello zoom Tamron AF 18250mm f/3,5-6,3 XR Di II LD Aspherical [IF] Macro abbiamo già riferito lo scorso marzo 2007, in attualità tecnica. Ora, ne registriamo la versione dotata di motore incorporato per la messa a fuoco, che lo rende compatibile con le reflex Nikon D40 e D40x, che sono prive di motore di messa a fuoco integrato al corpo macchina. Inalterate le caratteristiche ori-

ginarie, già riferite alle montature fisse Canon AF, Nikon AF-D, Pentax e Sony (Minolta, KonicaMinolta). In sintesi, consistente escursione focale 13,9x, con visione dall’ampia inquadratura grandangolare al proficuo avvicinamento tele: da 6,23 a 75,33 gradi. Quindi, disegno ottico della qualificata famiglia Di (Digitally Integrated Design), ovverosia progettata e costruita per assolvere le particolari esigenze e necessità dell’acquisizione digitale di immagini. Allo stesso tempo, sono specificate le condizioni ottiche dell’utilizzo di lenti AD, a dispersione anomala, ed elementi asferici, che nella combinazione di sedici lenti in tredici gruppi sono finalizzati alla migliore resa qualitativa. Alla focale massima 250mm, la messa a fuoco da 45cm equivale al rapporto di riproduzione limite di 1:3,5. (Rossi & C, via Ticino 40, 50010 Osmannoro di Sesto Fiorentino FI).

NERO INTENSO. HP ha lanciato una nuova formulazione per l’inchiostro nero, che sarà contenuto in una selezione di cartucce a getto di inchiostro HP Vivera. Il nuovo inchiostro consente di stampare testi in qualità laser ancora più intensi e assicura una maggiore resistenza ai componenti chimici degli evidenziatori. La nuova formulazione risulta ideale per la stampa di relazioni, articoli, corrispondenza e materiale promozionale. Progettato per i modelli di stampanti a getto di inchiostro HP già in commercio, il nuovo inchiostro nero è contenuto nelle cartucce nere HP Vivera 336,

337, 338, 339, 350, 350XL e può essere utilizzato su un vasto assortimento di stampanti. Grazie alla tecnologia di stampa HP, che deposita gocce di inchiostro più dense sulla superficie della carta, il testo non sbava e i colori non stingono, consentendo la realizzazione di documenti perfettamente nitidi e di qualità professionale. Collaudato su trentuno supporti diversi, comprendenti carte HP e di altri produttori, il nuovo inchiostro nero a pigmenti HP Vivera è risultato più scuro del tredici per cento rispetto agli inchiostri HP precedenti. Tali miglioramenti sono risultati ancora più netti sui supporti di stampa HP per ufficio: il nuovo inchiostro nero HP Vivera è risultato più scuro del venticinque per cento nei testi stampati con le carte HP Multipurpose e HP Office. La nuova formulazione offre una maggiore resistenza al passaggio dell’evidenziatore. I clienti possono così richiamare l’attenzione del lettore sulle informazioni importanti e mantenere intatta la leggibilità di lettere e numeri. Inoltre, gli inchiostri a pigmenti si asciugano subito e resistono all’acqua, rendendo estremamente semplice usare e archiviare le carte più importanti. I documenti, gli attestati e le scritture legali resistono per decenni senza sbiadire, permettendo così ai clienti di conformarsi a specifiche imposizioni normative in tema di conservazione dei documenti. Il nuovo inchiostro nero a pigmenti fa parte della linea di inchiostri HP Vivera, appositamente progettati per soddisfare le diverse esigenze e applicazioni di stampa: dalla produzione di documenti per uso quotidiano alla stampa fotografica domestica e professionale, dalle belle arti alla grafica, fino alle applicazioni per ufficio. (HP / Hewlett-Packard Italiana, via Di Vittorio 9, 20063 Cernusco sul Naviglio MI).

SECONDA GENERAZIONE. Ben diciannove innovazioni tecnologiche identificano la nuova versione della compatta digitale Ricoh GR Digital II, evoluzione dell’originaria GR Digital (FOTO graphia, dicembre 2005), TIPA Award 2006. Ancora compatta digitale ad alta risoluzione, di dimensioni contenute e design accattivante: corpo in lega di magnesio di soli venticinque millimetri di spessore e centosessantotto grammi di peso, con visione grandangolare 5,9mm f/2,4, equivalente all’inquadratura 28mm della fotografia 24x36mm, riferimento d’obbligo. Il nuovo sensore CCD da 1/1,75 di pollice ha una risoluzione di 10,01 Megapixel effettivi, che si combina con una velocità di scrittura RAW in 3,8 secondi, grazie a una consistente memoria buffer, che consente di scattare in formato grezzo RAW in modo continuo. Una consistente riduzione del rumore, estremamente migliorata, rende il livello attuale dei possibili disturbi a 400 Iso comparabile con quello dei 100 Iso del modello originario; allo stesso momento, è stata introdotta l’attivazione volontaria della stessa riduzione del rumore. Nel mirino è stato inserito un indicatore visivo di livellamento, abbinato a uno sonoro, per scattare in posizione parallela all’orizzonte (in bolla); quindi, un nuovo mirino esterno di piccole dimensioni (Minifinder) consente di inquadrare senza dipendere dal nuovo monitor LCD posteriore da 2,7 pollici, con angolo di visuale di 160 gradi. Dal punto di vista fotografico, è previsto un convertitore tele opzionale, che combina la focale equivalente 40mm. Ereditata dalla GX100 (FOTO

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graphia, maggio 2007), premio TIPA 2007, è disponibile la selezione del formato quadrato di inquadratura e ripresa, che, come ogni personalizzazione, può essere impostata e memorizzata con il selettore My Setting, di richiamo immediato. (Mamiya Trading, via Cesare Pavese 31, 20090 Opera Zerbo MI).

IN VOLO. L’inasprimento dei controlli negli aeroporti di tutto il mondo, sia sulle persone in transito sia sui bagagli, impone rinnovate attenzioni da parte dei singoli viaggiatori. A parte la preoccupazione di non perdere i propri bagagli, i passeggeri esigono anche che il loro contenuto arrivi sano e salvo a destinazione. Dopo essere stati consegnati al check-in, inevitabile primo passo di ogni trasporto aereo, solitamente i bagagli non vengono trattati molto delicatamente dal personale degli aeroporti. Questo crea problemi, specialmente quando si trasportano oggetti di valore. Al proposito, Peli Products, leader globale nella progettazione e produzione di valigie virtualmente indistruttibili per apparecchiature di valore, propone le valigette stagne Protector, realizzate in più di quaranta modelli di dimensioni diverse: gamma completa per la protezione di ogni tipo di apparecchiatura di valore, come, per quanto ci riguarda direttamente, apparecchi fotografici, attrezzature video e computer. La linea ha ottenuto diverse certificazioni, come la

ATA 300 dell’Air Transportation Association: approvazione specifica per gli imballaggi nel settore dei trasporti aerei, che valuta la resistenza di valige utilizzate per almeno cento viaggi di andata e ritorno. Le valigette Peli Protector dispongono di una struttura perfettamente impilabile, con il marchio depositato Dual Band, che aiuta a proteggere apparecchiature delicate dai traumi del trasporto e da alcune delle condizioni più severe che si possono trovare in viaggio. Dotate di fori per lucchetti in acciaio rinforzato, come protezione antifurto, le valigette hanno un nucleo a cella aperta, una struttura a pareti piene per la resistenza (contro gli urti) e una valvola di compensazione automatica, che evita il blocco dell’apertura per depressione interna e che rende più agevole l’apertura a qualunque altitudine. Per un ulteriore livello di protezione, è prevista anche la scelta di una serratura standard o della esclusiva chiusura TSA, per i viaggi all’interno degli Stati Uniti (approvata dalla US Transportation Security Administration): combinazione a codice di tre cifre e apertura soltanto con una esclusiva chiave master. (Peli Products; 0034-93-4674999, fax 0034-93-4877393; marketing@peli.com).

RINNOVO FLASH. Fino al trenta aprile è attiva una promozione di acquisto per i flash elettronici portatili Quantum, confezionata con la formula della rottamazione, ormai consueta in molti settori commerciali: nello specifico, vecchi flash, radiocomandi anche esauriti e accumulatori esausti. Sono previsti tre contributi di acquisto indipendenti, fino a seicentoventi euro, nel caso di rinnovo completo della configurazione flash (appunto, flash, radiocomando e accumulatore), con agevolazioni nell’ordine di circa il trenta per cento di sconto dal prezzo di listino. Così, da 960,00 euro, aliquota Iva inclusa, il flash Quantum QFlash

T5D-R viene venduto a 680,00 euro, nella formula con rottamazione di precedente unità flash (qualsiasi flash: meno 280,00 euro). Analogamente, con il contributo rottamazione, il potente alimentatore Turbo Battery SC costa 454,00 euro (dal listino di 634,00 euro: meno 180,00 euro), e il kit di controllo a distanza senza cavi Freexwire costa 395,00 euro (dal listino di 555,00 euro: meno 160,00 euro). Tre buone occasioni di acquisto, per il rinnovo della propria attrezzatura fotografica. (Bogen Imaging Italia, via Livinallongo 3, 20139 Milano).

TUTTO TONDO. In rapidità, come è legittimo che debba essere, l’offerta per la fotografia ad acquisizione digitale di immagini, sia con apparecchi compatti sia con reflex diversamente accessoriabili, sta allineandosi con quanto è da tempo proposto nell’ambito della secolare fotografia chimica (nessuna contrapposizione, sia chiaro!). Così che, la giapponese Sigma, che interpreta le dotazioni ottiche con particolare brillantezza e dinamismo progettuale e costruttivo, offre ora due disegni fisheye finalizzati a diverse coperture del sensore digitale di dimensioni inferiori al fotogramma fotografico 24x36mm, che viene spesso riferito al formato APS-C dello sfortunato standard fotografico Advanced Photo System: circa 23,5x15,7mm. Il Sigma 10mm f/2,8 EX DC Fisheye HSM copre l’intero sensore digitale, sulla diagonale. Con reflex Nikon (DX) copre un angolo di campo di 180 gradi, che diventano 167 gradi con reflex Canon Eos (non le professionali con sensore 24x36mm) e 154 gradi con reflex Sigma. La generosa e confortevole apertura relativa f/2,8 e la di-

stanza minima di messa a fuoco da 13,5cm lo rendono adeguato sia alla ripresa in luce ambiente sia nell’inquadratura a distanza ravvicinata. In un disegno di dodici elementi divisi in sette gruppi, le lenti sono dotate del particolare trattamento Sigma multistrato, che riduce al minimo le immagini fantasma e il flare. Il fisheye è dotato di motore ipersonico HSM e può essere convertito alla messa a fuoco manuale (per quanto l’accomodamento sulla distanza di ripresa sia sostanzialmente poco necessario). A seguire, il Sigma 4,5mm f/2,8 EX DC HSM è il primo obiettivo fisheye circolare progettato per il formato digitale APS-C: immagine (appunto) circolare al centro del sensore, con visione di 180 gradi di angolo di campo. Messa a fuoco minima da 13,5cm e motore ipersonico di messa a fuoco HSM, oltre alla possibilità di accomodamento manuale. Lenti in vetro ottico SLD a basso indice di dispersione assicurano un’elevata correzione delle aberrazioni ottiche. (Mamiya Trading, via Cesare Pavese 31, 20090 Opera Zerbo MI).



HCB... TI RICORDO

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Con il cuore in tumulto, salgo due rampe di un palazzo parigino dalla facciata grigia e scortecciata, come lo erano tutti quelli di una città uscita dall’abbandono del periodo bellico da meno di un decennio. Al lato della porta che vado cercando, una targa di metallo con una lapidaria indicazione: Magnum. Dopo aver tirato il fiato, profondamente, un paio di volte, sfioro il pulsante del campanello. Uno squillo breve e secco, nel timore di disturbare comunque. Mi apre una signora, alla quale, con la sfrontatezza dell’età, chiedo di poter incontrare il “mito”: HCB (o meglio, ricordo di aver detto perentoriamente “devo”, non “posso”!).

Attraverso un corto ingresso, dove c’è solo un telefono a muro costellato da una ragnatela di nomi e numeri trascritti direttamente sulla parete, la signora mi introduce direttamente in una vasta stanza quadrata, con al centro un altrettanto ampio tavolo quadrato, una piattaforma piuttosto, disseminata di stampe fotografiche centellinate da cinque o sei personaggi. Alle pareti, senza soluzione di continuità, una scaffalatura carica di scatole di carte da stampa. Una scenografia che sembra predisposta per un set cinematografico sul mondo dei reporter, che avevo fantasticato e sperato di trovare. Non poteva essere altrimenti.

Ma cosa mai cerco? Non so proprio, e ancora oggi non lo so? Un rapporto operativo con l’agenzia? Peggio che mai, anche l’entusiasmo e l’incoscienza hanno dei limiti. Non poteva essere che quello che era, un gesto di trasporto mistico, diretto, con la “divinità”! Fulminea illuminazione avvenuta due anni prima sulla strada che invece che a Damasco conduce a Palazzo Strozzi di Firenze, dove, a cura di Raggianti, è allestita una mostra del nostro “vate”. La prima esposizione fotografica che visito, la prima che approda a Firenze (singolare novità per quei tempi). Le ricordo tutte, quelle immagini, una per una, e sono

quelle del nucleo innovativo, rivoluzionario della sua opera. Tutte quante scattate entro il 1933, quando io ero ancora poco più di un bebè! Ma non mi scoraggio più di tanto. Come tutti, cerco di afferrarne il messaggio: sguardo di benevola critica sui comportamenti della società, temperata da un retrogusto di sottile humour, equilibrata struttura compositiva, rigorosa architettura delle linee portanti e delle masse. Una immagine in particolare mi sconvolge per la sua semplicità formale e nello stesso tempo rivelatrice del luogo e del momento: sulla sinistra un ragazzo con una macchia di luce sulla testa, una strada assolata

ALTRA CONVERSAZIONE

C

on l’occasione di questo ricordo di Piergiorgio Branzi, proponiamo brani da una conversazione di Henri Cartier-Bresson con Byron Dobell, redattore di Popular Photography, della primavera 1957 (da FOTOgraphia del luglio 2000).

DIARIO. Oltre agli aspetti plastici, che sono molto vicini al mio interesse nella pittura, per me la fotografia è sempre stata un modo di tenere un diario. Io tengo un diario fotografico di quello che vedo, quindi scatto fotografie in qualsiasi occasione. Sono semplicemente un testimone di visioni che attirano l’attenzione dei miei occhi. Non sono mai preoccupato dal pensiero che sto lavorando per una determinata rivista illustrata. Se c’è una storia, io ne sono entusiasmato, e non faccio che fotografare quello che vedo. Parecchia gente mi chiede: «Quali delle sue fotografie le piacciono di più?». Ma a me non interessa la fotografia che è già fatta, a me interessa la prossima fotografia, o il prossimo posto dove andrò. E per quanto mi concerne trovo che ogni progetto deve essere considerato come una nuova esperienza. I risultati già ottenuti non contano affatto e tutto deve essere ancora una volta oggetto di interrogativi. Solo così è possibile conservare freschezza nel proprio lavoro. SOGGETTO. Non mi è possibile vedermi al lavoro, così come non mi è possibile sentire veramente la mia voce, ma alcuni miei amici dicono che sono veramente buffo quando sto lavorando: ora scatto, ora sono in punta di piedi, ora mi avvicino quasi strisciando o mi allontano furtivamente dalla gente. A volte la gente non si accorge della mia presenza, altre volte se ne accorge e allora devo aspettare e far finta di guardare altrove e sperare che ritornino alla propria naturalezza. È come gettare un sasso nell’acqua. A volte capita di dover aspettare finché tutte le onde si siano calmate prima che i pesci ritornino. Ma molto spesso la nostra unica opportunità è la prima. Così è accaduto in Cina, poiché non avevamo una seconda occasione, perché ci vedevano per miglia intorno, dato che non si poteva neanche tirare fuori un esposimetro. Se lo avessimo fatto, avremmo rovinato la foto-

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grafia. Bisogna avere un certo intuito psicologico, bisogna conoscere la gente e bisogna lavorare in un modo che sia accettato anche da loro. Bisogna sorridere, mai ridere, perché quello sarebbe prendere in giro. Sorridete, lavorate con calma, e non imponete mai la vostra personalità. Dovete sopprimere la vostra personalità. Naturalmente, potete anche forzare un po’ e ottenere una fotografia più forte, ma sarebbe come suonare la tromba. No, dovete avvicinarvi in punta di piedi. ANONIMITÀ. Io sono molto sospettoso della celebrità e di cose di questo genere. Nel medioevo, quando uno scultore faceva una statua, questa aveva per lui lo stesso valore sia che fosse messa sull’altar maggiore della Cattedrale, sia che fosse messa in una torre lontana dagli sguardi di tutti, dove la poteva vedere solo Dio. Le chiacchiere sulla concorrenza, su chi ha più successo, sono tutte sciocchezze, anzi, sono deleterie. Come si può mantenere una certa freddezza e contemporaneamente imporsi nel mondo? È impossibile. TECNICA. Quando la gente dice, «Henri, qual è la tua apertura di diaframma?» È esattamente come chiedere a una cuoca quanti pizzichi di sale ha messo in una torta. Per esempio, io mi meraviglio sempre quando vedo una dattilografa che scrive a macchina senza guardare la tastiera. Io non so scrivere senza guardare. E uso tutte le dita, il che è già un miglioramento, ma devo assolutamente guardare i tasti. Ebbene, con la macchina fotografica, è la stessa cosa. In genere non si guardano o prendono in considerazione tutti i dettagli tecnici. [Ci sono, e basta; ndr]. CINISMO. Per me il cinismo è la cosa peggiore che ci sia, perché uccide tutto. Non vi è più onestà, non più poesia, non più freschezza. Il cinismo è la cosa peggiore: una specie di individuo impertinente che sa sempre tutto. Questo è la morte. Uccide la creazione. Non c’è più amore, tenerezza, c’è solo il nulla. Non c’è neanche l’odio, non c’è proprio più niente. Ugualmente pericolosa è l’idea distaccata che tutto avviene per divertimento. Henri Cartier-Bresson


al centro, segnata da quinte zigomate di muri mediterranei. «Henri!», scandisce la mia accompagnatrice rivolgendosi alla “divinità”, che dalla parte opposta del tavolo mi viene incontro sorridente (nuova accelerazione cardiaca). Cosa dico, cosa farfuglio, non lo ricordo, rimane affogato nelle nebbie dell’emozione. Mi si rivolge cortese e disponibile, inaspettatamente devo dire, nei confronti di uno sprovveduto giovane dilettante giunto dalla periferia della periferia, qual era allora Firenze per l’ambiente fotografico, costituito di fatto da tre amici che cercavano di orientarsi in un mare incerto e sconosciuto. Tremebondo, cavo da una busta alcune mie stampe, che osserva con attenzione (fibrillazione tachicardiaca parossistica) e le commenta, riprende e commenta di nuovo. Su di una

in particolare, con mia sorpresa, indugia a lungo chiedendo spiegazioni: quella di un muro nero con al centro una cappa vuota di camino somigliante a una bottiglia, con sul fondo, raggomitolato, mio fratello minore in pantaloncini da bagno. Immagine chiaramente surreale, ben lontana dagli intendimenti della sua opera. Più volte, negli anni a seguire, ho avuto però modo di leggere il richiamo che Robert Capa spesso gli rivolgeva di non indulgere ai richiami della sirena dei suoi inizi: «Attenzione! ammoniva-, ti prenderanno per un fotografo surrealista». Mi riserva una cortesia che molto più tardi vengo a sapere essere rara: da una scatola prende un paio di provini a contatto, tutti sullo stesso soggetto, sei o sette segnati con una matita grassa rossa. Mi

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spiega con pazienza il perché delle scelte. Ed io che ero rimasto a Images à la Sauvette, allo scatto unico, definitivo! Ho incontrato di nuovo HCB ultranovantenne, a Firenze (mezzo secolo dopo l’incontro di rue des Grands Augustins, nientemeno), assieme alla moglie Martine Franck, in una cena familiare a casa del presidente dell’Alinari, Claudio de Polo. La testa minuta, da uccellino di nido, ancora agile nonostante qualche difficoltà nella deambulazione. Piove da diluvio universale e per raggiungere la vecchia casa fiesolana occorre salire una ripida scala esterna: si appoggia al bastone, ma rifiuta il braccio dell’ospite. Lo trovo vivissimo nella conversazione, curioso, interessato, con una memoria cristallina. Nel clima di cordialità del momento, rievoco allora quel

primo incontro parigino, con tutti i pignoleschi particolari che ora anche voi conoscete, e del valore che per me aveva avuto. Lo indico come il mio “corruttore”, per aver traviato un possibile “grande giurista” per ottenere in cambio un “mediocre fotografo”. Si diverte molto al racconto, ma di quell’incontro, per me esistenziale, mi assicura di... «non ricordare assolutamente nulla». Vai... vai a fidarti delle “divinità carismatiche”! Cosa mai gli sarebbe costata una consolatoria bugia di cortesia?! Trovandoci seduti a una tavola imbandita, non esito a rendergli pan-per-focaccia: ribadisco che è stato il mio primo amore, ma che in verità mi sono subito dopo coniugato con Paul Strand. Uno a uno. Piergiorgio Branzi


CON RENÉ BURRI

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Soprattutto d’estate, in Italia proliferano appuntamenti fotografici di diverso profilo: a volte anche alto. Alcuni di questi prevedono la presenza di autori di fama internazionale, che si rendono disponibili per prolifici scambi di opinioni ed esperienze con il pubblico. In una di queste occasioni, nell’ambito dei Fotoincontri di metà giugno a San Felice sul Panaro, in provincia di Modena, nel 2005 Cristiano Cossu ha trascorso una giornata con René Burri, una delle figure di spicco della fotografia del secondo Novecento, del quale abbiamo avuto modo di riferire

RENÉ BURRI E HCB

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ubblicata in FOTOgraphia del luglio 2000, la conversazione di René Burri e della giornalista Brigitte Ulmer con Henri Cartier-Bresson, ripresa dallo svizzero Das Magazin del precedente luglio 1998, ricordò il novantaduesimo compleanno del celebrato fotografo francese (traduzione di Annamaria Belloni). Per la nostra attuale consecuzione tra HCB e René Burri, incontrati da Piergiorgio Branzi e Cristiano Cossu, che rispettivamente ne riferiscono con parole e immagini, riprendiamo alcuni passaggi di quello scambio di opinioni.

Un tardo pomeriggio in rue de Rivoli a Parigi, in un appartamento al quinto piano con vista sui giardini delle Tuileries; seduto sulla poltrona inclinata all’indietro assomiglia piuttosto a un banchiere in pensione, che non al cacciatore di immagini che è stato durante tutta la vita, all’esploratore con la macchina fotografica, uno che ha documentato la liberazione della Francia dai nazisti, l’India dopo la caduta del Raj, la Cina prima e dopo il trionfo di Mao, l’Indonesia dopo la ritirata degli olandesi, Cuba dopo la crisi dei missili. Gli occhi azzurri spiccano dai fini lineamenti del volto. Una corona di capelli bianchi circonda la cute rosa del capo. I gesti misurati di un aristocratico. [...] In un attimo, Henri Cartier-Bresson si trasforma in un compagno affettuoso, si alza e ritorna con una bottiglia di vino bianco e sciroppo di Cassis. «Sapete», ci domanda allegro, «cos’hanno in comune i fotografi e i pompieri? Non possono bere il vino bianco. Altrimenti incominciano a tremare. In tali condizioni non si riesce né a domare un incendio, né a scattare una fotografia a un ottavo di secondo». [...] René Burri: «[...] Una volta gli avvenimenti interessavano anche te: sei stato in Cina e hai vissuto la vittoria dell’esercito di Mao, sei stato il primo fotografo occidentale ad avere il permesso di viaggiare in Unione Sovietica durante la guerra fredda». Henri Cartier-Bresson: «Ho composto un diario come uno scrittore. Sei sul posto e annoti ciò che vedi. Non è un lavoro, bensì un’occupazione. Conosco un bellissimo libro da dieci franchi. Si intitola Le droit à la paresse, il diritto di oziare.

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È un testo fantastico! Il lavoro ti ostacola. Chi lavora, si guadagna il pane con il sudore della fronte. La maggior parte degli uomini soffre di questa situazione. Un’occupazione è invece qualcosa di meraviglioso. L’azione di premere con un dito il pulsante di scatto: oplà, solo questo, per una frazione di secondo. Oplà, è una gioia. Non bisogna dimostrare nulla, non si vuole dire nulla, accade e basta». RB: «E a cosa ti ha portato nel corso di questi anni?». HCB: «All’essere presente, allo stare-al-mondo, al comunicare. Ho tastato il polso ai vari paesi. Essere in contatto con il mondo è anche un atto fisico. L’esperienza dell’essere presenti è insostituibile. Stiamo vivendo in un mondo che si perde nel virtuale. Il virtuale è tremendamente stupido. Per creare qualcosa di forte dobbiamo essere in contatto diretto con il mondo! Fotografando tocchiamo la terra, qui e adesso». [...] RB: «Con la fotografia ci sono riusciti dei veri colpi di mano. Ti ricordi di Cuba?». HCB: «Certamente. Correvamo insieme attraverso i campi di canna da zucchero per cercare Che Guevara». RB: «Una domenica ce ne siamo andati per ore lungo le strade. All’improvviso sei scappato via. Ti ho osservato mentre fotografavi una soldatessa che era di guardia alle case. Una mulatta. Mentre stavi scattando lei incominciò ad agitare il fucile. E tu hai fatto un movimento come nel teatro di Kabuki, che ha subito tranquillizzato la donna. Avevo pensato che ti avrebbe ammazzato, con quel fucile. Quando te ne sei andato, lei è rimasta lì soddisfatta, come dopo un atto d’amore, e sorrideva. Ti sono corso dietro e ti ho domandato cosa fosse successo. E tu hai risposto: “Beh, lei voleva che la fotografassi”. Così ti ho chiesto come ci fossi riuscito. E tu: “Le ho detto che era la più bella soldatessa che avessi mai visto”. Allora ho capito in che modo ci si comporta usando la psicologia. Io, il novellino, nella stessa situazione avrei mostrato la tessera da giornalista, avrei perso tre ore a cercare di convincerla e alla fine non avrei combinato niente». HCB: «Bisogna amare la gente. E bisogna stabilire un nuovo contatto». RB: «Ed avere sempre a portata di mano la macchina fotografica. Una volta sei ve-


un appassionato colloquio con Henri Cartier-Bresson, ricordato da Piergiorgio Branzi nelle pagine immediatamente precedenti (magia e fascino delle consecuzioni fotografiche che si inseguono in ogni edizione di FOTOgraphia), pubblicato in occasione del novantaduesimo compleanno del grande autore francese (dallo svizzero Das Magazin, in FOTOgraphia del

RENÉ BURRI E HCB nuto in Svizzera per realizzare un reportage per la rivista du. Io ti sono venuto a prendere alla stazione, era quasi mezzanotte. Ancora prima di salutarmi, mi hai domandato: “René, dov’è la tua Leica?” Anche questo fatto è stato determinante per me». HCB: «Sei stato uno scolaro diligente». RB: «Da quel momento in poi, ho sempre portato la Leica con me. Avevo capito che non esiste un momento specifico per fotografare». HCB: «Già, l’occhio del fotografo osserva ininterrottamente. Esattamente come quello del poliziotto. Si ha bisogno di concentrazione. Per questo motivo non ho disegnato per anni. Non si possono fare due cose in una volta, parlare e cantare». [...] RB: «Come è successo che hai smesso di fotografare?». HCB: «Tériade, il mio editore, mi ha influenzato in questo senso. Mi disse: “Smetti, hai già detto quello che avevi da dire. Torna alla pittura”. La pittura è sempre stata la mia passione. Nutro rispetto per la fotografia, ma si trova a un altro livello rispetto alla pittura. Manet, Degas, Cézanne: di loro mi sono nutrito, non di fotografia. Di recente mi ha telefonato un giornalista e mi ha domandato: “Monsieur, è stata la fotografia a insegnarle a disegnare?” Io ho risposto: “È esattamente il contrario! È il disegno che mi ha insegnato a fotografare!”». RB: «Allora hai optato per il disegno, rinnegando la fotografia». HCB: «Ho sempre disegnato. Prima disegnavo con la macchina fotografica, ora con la matita. Ho utilizzato la macchina fotografica come blocco per gli schizzi. Il problema è che la gente è succube di questo tipo di oggetti. Forse che gli scrittori parlano della propria macchina per scrivere o del computer? La tecnica non ha importanza. Bisogna semplicemente adottarla per poter dire ciò che si vuole. Si può fare con una macchina fotografica e altrettanto bene con una matita e un foglio di carta. La differenza è che il disegno ci porta oltre». RB: «Quindi, hai delle sensazioni diverse con il disegno». HCB: «Oh, certo, è una sorta di meditazione, di analisi. Si ha bisogno di tempo. Si approfondisce e si scava fino ad arrivare al momento in cui bisogna smettere.

Esiste un film-documentario su Picasso. Lì si coglie proprio quell’istante, nel quale Picasso si ferma e poi, però, prosegue. Alla fine esclama: “Merde! Non sono riuscito a smettere”. La stessa cosa accade con una pera matura: non deve diventare farinosa, altrimenti non è più buona. Ma non deve essere nemmeno poco matura. Bisogna cogliere il momento esatto in cui è maturata». RB: «Nella fotografia è proprio così». HCB: «Sì, ma fotografando siamo interessati solo a quel determinato istante. È come quando si va dallo psicanalista: lui non può registrare tutto quello che sento. Ho un amico psicanalista al quale ho domandato: “Ascolti davvero tutto quello che la gente ti racconta?” Lui ha risposto: “Naturalmente, no. Possiedo un orecchio duttile. All’improvviso percepisco qualcosa che sembra interessante”. Con lo sguardo succede la stessa cosa. Aspetto, sulla cresta dell’onda». [...] RB: «Non hai l’impulso di tirare fuori la Leica ogni tanto?». HCB: «Bon, per strada spesso mi dico: questa sarebbe una fotografia... già. Ma non ne scatto più. Ritratti, paesaggi, quelli sì. Ma la strada non mi interessa più. Penso che sia cambiata, e così anche la gente. Oggi si rischia di prendere un pugno sul muso. Una volta era diverso». [...] RB: «Soffri della tua popolarità?». HCB: «Sì, io sono un anarchico e il potere è qualcosa di orribile». RB: «Come mai ti fai fotografare così malvolentieri?». [...] HCB: «Non mi va che si faccia con me quello che io faccio con gli altri. Io sto dall’altra parte dell’apparecchio. La mia faccia non è importante. Quando si è famosi ci si sente come un pesce fuor d’acqua messo su di un palco. È una cosa assurda. Per tutta la vita sono stato attento a restare sconosciuto, in modo da poter osservare meglio. Alcuni anni fa mi si voleva mostrare in televisione. All’inizio volevano riprendermi da dietro. Poi hanno detto che sarebbe sembrato sospetto. Una cosa del genere si fa soltanto con i criminali e le puttane. E noi siamo appunto la terza categoria di mestiere che lavora sul marciapiedi».

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luglio 2000; e, in estratto, su queste stesse pagine). Nell’occasione della giornata ai Fotoincontri, Cristiano Cossu, che frequenta la fotografia con ben riposta concentrazione, ha realizzato un autentico diario visivo, che qui annotiamo. Per quanto la precedente rievocazione di Piergiorgio Branzi, appena ricordata, sia soltanto scritta, questa di Cristiano Cossu è inviolabilmente fotografica. In correlazione e collegamento, i due incontri si compensano in

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un racconto curiosamente omogeneo, che consideriamo addirittura consequenziale. Soprattutto, la testimonianza visiva di Cristiano Cossu si sofferma sulla spontaneità e cordialità di René Burri, a completa disposizione del pubblico, in un

clima di autentica convivialità che parte dal comune interesse fotografico, elemento di congiunzione, per rivelare una straordinaria affabilità, che rappresenta la base ideologica di quegli scambi che arricchiscono ciascuno di noi. È sempre così, è sempre lo

stesso: ognuno di noi non è! Ognuno di noi è quando e per quanto si esprime attraverso storie (e strumenti): con i genitori, con gli amici, negli affetti. Tutti esistiamo attraverso il rapporto con l’esterno. Ed è questo il senso del racconto di Cristiano Cossu, che si è personalmente arricchito di una intensa giornata con René Burri, che ora condivide con noi. A.G. Fotografie (e memoria) di Cristiano Cossu



E FU SUBITO HASSELBLAD

A

Anche limitandosi al solo ambito fotografico, se proprio lo si volesse percorrere sistematicamente, il cammino degli anniversari potrebbe essere infinito. Ogni anno si possono celebrare anniversari tondi di vario spessore e significato. Per esempio, la scorsa stagione si è clamorosamente sorvolato il sessantesimo anniversario dalla fondazione della celeberrima agenzia Magnum Photos, che tanto peso ha avuto e ha nella storia evolutiva del linguaggio fotografico: prima di tutti, hanno taciuto i protagonisti, e noi abbiamo rispettato il loro silenzio. Però, allo stesso momento, lo scorso anno abbiamo iniziato e concluso il nostro personale tragitto redazionale con due celebrazioni: a febbraio, per i sessant’anni dall’annuncio della fotografia a sviluppo immediato (21 febbraio 1947-2007); a dicembre, con i novant’anni Nikon (1917-2007). La stessa Nikon tornerà nel corso dei prossimi mesi, quando celebreremo i sessant’anni dalla Nikon I, originaria, del 1948, appunto. Così come, sarà bene insistere anche sui centoventi anni dalla Box Kodak (1888-2008), che ha clamorosamente modificato il passo della fotografia, da quello commerciale all’applicazione sia professionale sia nell’ambito della fotoricordo.

ANTICHITÀ Indietro nei secoli, il finale “otto” della data sollecita clamorosi richiami, che ri-

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Presentata nell’ottobre 1948, sessant’anni fa, l’Hasselblad 1600F è l’originaria del leggendario sistema reflex monobiettivo 6x6cm a magazzini portapellicola intercambiabili.

solviamo in fretta. Il primo è avvincente: nel 1558, in Magiae Naturalis, straordinaria raccolta di segreti svelati, astuzie fantastiche e osservazioni singolari, Giovanni Battista della Porta (1538-1615) descrive il princìpio della camera obscura con foro stenopeico come ausilio al disegno (l’aggiornamento alla camera obscura dotata di lente è del successivo 1589). Quindi, sullo stesso tema, non va ignorato lo scienziato giapponese Otsuki Gentaku (1757-1827), stabilitosi in Olanda: nel 1788 descrive a propria volta la camera obscura (“donkuru-kaamuru”, in giapponese con pronuncia olandese), che ridefinisce “shashin-kyo”, cioè “specchio del vero”; in giapponese, “Shashin” significa tutt’ora fotografia. E poi, in anticipo sull’annuncio e presentazione del processo dagherrotipico originario (7 gennaio e 19 agosto 1839), nel 1838 Louis Jacques Mandé Daguerre ha fotografato il Boulevard du Temple, di Parigi, realizzando la prima immagine con presenza/figura umana: un gentiluomo fermo dal lustrascarpe (e su questo torneremo a breve, con una riflessione che si proietta avanti nei decenni, attraversando tutta la luminosa epopea della fotografia del/dal vero).

1948! Appena anticipato dal richiamo alla Nikon I, l’originaria telemetro 35mm (ma non ancora 24x36mm, bensì 24x32mm), con la quale prende avvio la produzione fotografica del celebre marchio, il Millenovecentoquarantotto è stato un anno fotograficamente prolifico: e oggi lo ricordiamo nel sessantenario. All’indomani della fine della Seconda guerra mondiale, la ripresa industriale ha coinvolto anche il nostro settore. Sono obbligatorie alcune gustose segnalazioni. La prima riguarda una meteora, che proprio per questo è ambìta nel particolare e discordante mondo

dell’antiquariato e collezionismo. Con doppio mirino, come altri apparecchi del tempo, l’ungherese Duflex è conteggiata come prima reflex dotata di specchio a ritorno istantaneo (per pellicola 35mm e fotogrammi 24x32mm). Fu prodotta da Gamma Works di Budapest, fabbrica presto confiscata dallo stato: ne furono assemblati soltanto mille pezzi. Quindi, sottolineiamo due casi della luminosa stagione dell’industria fotografica italiana, entrambi rigorosamente del 1948. Dopo la presentazione del modello in legno alla precedente Fiera di Milano del 1947, la prima del dopoguerra, allo stesso appuntamento merceologico di primavera Telemaco Corsi espone la Rectaflex, prima reflex 35mm dotata di pentaprisma. Curiosamente, si tratta di un primato storico che per decenni si è inchinato all’autoattribuzione della Contax S dell’anno dopo, realizzata dalla Zeiss Jena: ma in tempi recenti, accreditati ricercatori hanno ristabilito le corrette paternità (in testa a tutti, Marco Antonetto, autore di una avvincente rievocazione Rectaflex, la Reflex Magica; FOTOgraphia, ottobre 2002). Ancora del 1948 è la San Giorgio Janua, ottima 35mm a telemetro con obiettivi intercambiabili dotati di innesto a baionetta. Sul fronte internazionale, registriamo l’adozione da parte della tedesca (dell’Est) Praktica dell’innesto a vite 42x1 degli obiettivi intercambiabili; successivamente utilizzato anche da Asahi Pentax, diventerà l’innesto universale per più di vent’anni. Quindi, nel 1948 Fuji realizza la prima pellicola negativa a colori giapponese. Dal 1947 al 1948: dopo l’annuncio del 21 febbraio 1947 (FOTOgraphia, febbraio 1997 e febbraio 2007), la fotografia a sviluppo immediato arriva al pubblico alla fine del 1948. La vendita della prima Polaroid Model 95 inizia ai grandi magazzini Jordan Marsh di Boston


(Massachusetts), il ventisei novembre. Dopo lo scatto, in sessanta secondi il sistema produce copie fotografiche intonate seppia 7,3x9,6cm su un supporto 8,3x10,8cm dai bordi frastagliati: 89 dollari e 75 centesimi, l’apparecchio; 1,75 dollari, il caricatore di pellicola Type 40 per otto fotografie a sviluppo immediato.

HASSELBLAD Comunque, una data del 1948 che sovrasta tra tante è quella dei sei ottobre, quando Victor Hasselblad presenta a New York la sua reflex monobiettivo formato 6x6cm: l’originaria 1600F. Realizzata sulla scorta di precedenti esperienze nel campo della rilevazione aerea, maturate nel corso degli anni Quaranta, è stata la prima reflex monobiettivo 6x6cm a magazzini portapellicola intercambiabili: una configurazione che ha indelebilmente segnato i decenni a seguire, soprattutto in campo professionale, ma anche in quello della fotografia non professionale. La conferenza stampa newyorkese, per la presentazione sul fertile e remunerativo mercato fotografico statunitense, fu organizzata dalla Willoughby Company, allora una delle più valide società americana di distribuzione e commer-

Il progetto delle reflex monobiettivo 6x6cm Hasselblad deriva da precedenti esperienze nell’ambito della fotografia aerea, nella quale la produzione fu impegnata dall’inizio degli anni Quaranta.

IN MEMORIA

R

BJÖRN RÖHSMAN

ealizzata dallo scultore svedese Ulf Celén, una statua dedicata a Victor Hasselblad lo raffigura con la propria reflex monobiettivo 6x6cm tra le mani. Collocata all’ingresso dell’Erna and Victor Hasselblad Photography Center (Hasselblad Center) di Göteborg, dove la produzione ha avuto sede per decenni, dalle origini, presso il Göteborg Museum of Art, la statua è stata inaugurata l’8 marzo 2006, nel corso del cerimoniale del centenario della nascita.

cializzazione di articoli fotografici, partner di Hasselblad nell’avventurosa impresa. Ricorda lo stesso Victor Hasselblad, nella monografia che gli è stata dedicata nel 1981, pubblicata anche in edizione italiana: «Joseph G. Dombroff, allora direttore della Willoughby, invitò all’incirca una ventina dei più qualificati foto-giornalisti americani a una cena presso l’Athletic Club di New York, il 6 ottobre 1948. La cena avrebbe avuto luogo al decimo piano, sale quattro e cinque, con inizio alle 19,45. Il mio ingegnerecapo e progettista, Einar Cronholm, un genio della tecnica e mio buon amico, era presente quando, dopo cena, presentammo la macchina fotografica. Avevo un prototipo, completato dai suoi accessori, certo non tanti come in seguito, ma comunque tutti quelli che allora eravamo in grado di costruire. [...] Quando conclusi la mia relazione, avevo la netta sensazione di aver presentato qualcosa di veramente utile». I resoconti e gli articoli pubblicati sui giornali e sulla stampa specializzata rivelarono che il progetto aveva avuto fortuna. Il passo successivo avrebbe dovuto necessariamente essere l’avvio della produzione, con pieno soddisfacimento di tutti i requisiti concernenti la precisione e affidabilità. Domanda: come fu che la macchina fotografica venisse chiamata “Hasselblad”? Ancora Victor Hasselblad: «Avevo una lista di proposte, ma ogni

qualvolta cercammo di ottenere la registrazione del marchio a livello mondiale, ci imbattemmo in sempre nuove difficoltà. Un giorno, nel corso di una mia visita alla Kodak Company, a Rochester, feci casualmente cenno ai nostri problemi sul reperimento di un marchio adeguato. Con assoluta spontaneità, i responsabili Kodak mi chiesero “ma perché non la chiama semplicemente Hasselblad?”. E così fu». Aneddoto. Controllando il passaporto di un distinto signore appena sbarcato da un volo dalla Svezia, un doganiere all’aeroporto Kennedy di New York ebbe a esclamare «Ha un cognome ben noto, lei! Si chiama come la famosa macchina fotografica!». Il signore giunto dalla Svezia accenna un sorriso e risponde: «Io sono la macchina fotografica». Non entriamo in alcun dettaglio cronologico, lo faremo a tempo debito. E neppure sottolineiamo i valori tecnici della configurazione originaria, che si sarebbe successivamente evoluta in modelli a seguire. Soltanto, in avvio di 2008, accenniamo questo sessantesimo anniversario da celebrare il prossimo autunno, in allineamento di date del calendario. Tornando alle origini, e con l’occasione, in questa sede ci preme ricordare la figura di Herbert Keppler, straordinario redattore delle riviste specializzate statunitensi Modern Photography (dal 1950 al 1987) e Popular Photography (dal 1987), al quale l’industria fotografica (soprattutto giapponese) deve molto. Qualcuno, addirittura tutto. No, Herbert Keppler, classe 1925, non era presente alla conferenza stampa del 6 ottobre 1948: come appena annotato, avrebbe cominciato a lavorare nel mondo dell’editoria fotografica due anni più tardi. Però, ci piace pensare che lui ci fosse: testimonianza diretta di un collegamento temporale che ci avvicina a quei lontani tempi (sicuramente, nel 1957, presenziò all’analoga conferenza stampa di presentazione dell’Hasselblad 500C). All’inizio dell’anno, Herbert Keppler è mancato. Con la sua scomparsa si allentano anche i legami che sento e so di avere con la storia evolutiva della tecnologia fotografica. M.R.

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PAOLO PELLEGRIN. Uno dei più importanti fotografi contemporanei di guerra, l’italiano Paolo Pellegrin dell’Agenzia Magnum Photos, è stato insignito del German Fotobook Award 2008 per il suo ultimo libro, As I Was Dying. In precedenza, lo stesso progetto si era già affermato al qualificato e selettivo Leica European Publishers Award for Photography 2007, e per questo pubblicato (anche) da Peliti Associati, l’editore italiano che fa parte del pool europeo del Premio (insieme a Actes Sud, Francia, Apeiron Photo, Grecia, Edition Braus, Germania, Project Leader 2007, Dewi Lewis Publishing, Inghilterra, Lunwerg Editores, Spagna, e Mets & Schift, Olanda): 140 pagine 24x30cm, cartonato; 45,00 euro (qui sotto). Scattate in Kosovo, Serbia, Palestina, Afghanistan, Guantanamo (Cuba), Haiti, Indonesia e Albania, le fotografie pubblicate hanno come filo conduttore l’“idea di responsabilità” che l’autore associa al proprio lavoro.

Online contro televisione (utenti da 16 a 24 anni) Ore settimanali Differenza Online Televisione Online - Televisione Inghilterra 14,7 ore 15,7 ore -6,37% Francia 15,3 ore 12,5 ore +22,40% Germania 13,8 ore 13,5 ore +2,22% Italia 14,5 ore 14,4 ore +0,69% Spagna 14,6 ore 12,0 ore +21,67% Olanda 14,2 ore 11,3 ore +25,66% Belgio 15,1 ore 11,3 ore +33,63% Danimarca 14,7 ore 15,7 ore -6,37% Svezia 18,5 ore 15,3 ore +20,92% Norvegia 16,8 ore 13,6 ore +23,53% INTERNET SORPASSA LA TV. Lo

Pubblicato all’affermazione al Leica European Publishers Award for Photography 2007 (in Italia da Peliti Associati), As I Was Dying di Paolo Pellegrin, dell’Agenzia Magnum Photos, è stato insignito del German Fotobook Award 2008.

Con un po’ di ritardo, segnaliamo anche che il venti ottobre scorso, a Francavilla al Mare, in provincia di Chieti, lo stesso Paolo Pellegrin ha ricevuto il Sesto Premio giornalistico nazionale sul reportage di Guerra Antonio Russo, settore fotografia, intitolato al giornalista di Radio Radicale ucciso nell’ottobre 2000 a Tiblisi, in Georgia, mentre seguiva la guerra in Cecenia. Precisiamo che il Premio è stato istituito a difesa dei Diritti umani e per la libertà di informazione. Come noto, nel 2007 Paolo Pellegrin ha vinto anche il Robert Capa Gold Medal Award e il primo premio nella sezione General News del World Press Photo (FOTOgraphia, aprile 2007).

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scorso novembre 2007 sono stati resi pubblici i sorprendenti risultati di una ricerca commissionata dalla Online Publisher Association (Opa), l’associazione degli editori che operano sul web, della quale fanno parte i maggiori gruppi presenti sul mercato, dal Financial Times a Le Monde, da El Pais allo Spiegel, da L’Espresso a Rizzoli. La ricerca riguarda alcuni paesi europei e analizza il consumo di Internet, televisione, radio, giornali e periodici (due delle sintesi in questa pagina). Udite, udite: in prima serata, fascia oraria da sempre dominata dalla televisione, il 67 per cento degli intervistati dichiara di accedere a Internet per leggere l’informazione, e non segue i telegiornali della televisione. Dunque, Internet ha sorpassato l’informazione televisiva. L’84 per cento degli intervistati è online nelle prime ore della giornata lavorativa. Dalle nove alle dodici è il momento di maggior fruizione delle news online, tanto locali quanto in-

ternazionali, mentre dalle sette di sera alle undici della notte le attività principali riguardano il download di musica, gli acquisti, la ricerca di suggerimenti per la sera o il weekend. Questa notizia è confermata da un’altra ricerca congiunta della School of Management del Politecnico di Milano con Nielsen, resa nota agli inizi di gennaio. Il 54 per cento degli intervistati, al piccolo schermo preferisce la Rete, che sta seducendo ogni fascia di età.

PREMIO DAVID ALAN HARVEY. Il famoso fotografo dell’Agenzia Magnum Photos, ben noto ai giovani italiani che seguono i corsi del Toscana Photographic Workshop (TPW; la più recente segnalazione in FOTOgraphia dello scorso giugno 2007), ha consegnato il primo assegno del premio da lui istituito con il supporto, per questa edizione originaria, della Magnum Cultural Foundation: David Alan Harvey Fund for Emerging Photographers. Il premio di cinquemila dollari, riservato a fotogiornalisti emergenti, è stato assegnato a Sean Gallagher, un fotografo inglese ventottenne, attualmente basato in Cina (www.gallagher-photo.com). Tra gli altri, Sean Gallagher ha pubblicato su Die Zeit (Germania), The Globe and Mail (Canada), The British Journal of Photography e The Sunday Herald Magazine (Inghilterra), oltre che sul sito inglese di BBC News. Nel 2005, ha partecipato al workshop Focus on Monferrato, organizzato dal TPW per la Regione Piemonte, dove è risultato tra gli studenti migliori.

Attività Online (1) Inghilterra Francia Germania Italia Ricerca 88% 93% 82% 76% E-mail 89% 86% 74% 49% Chat 47% 54% 31% 40% Messaggi 42% 58% 19% 15% Scaricare di musica 40% 26% 16% 32% Ascoltare la radio 43% 38% 20% 13% Guardare la televisione (2) 29% 32% 28% 17% Classifiche e valutazioni 32% 23% 37% 11% Forum 18% 31% 28% 15% Scaricare film (3) 21% 19% 9% 18%

Spagna 89% 92% 47% 65% 58% 36% 43% 20% 37% 52%

(1) Percentuale di quanti hanno svolto ognuna di queste attività almeno una volta al mese. (2) e film e videoclip (3) e programmi televisivi e videoclip


no svolte nei luoghi più infernali della Terra: Afghanistan, Kosovo, Timor Est, Kashmir, Palestina, Sierra Leone e Sudan. Fotogiornalista dal 1994, in precedenza Franco Pagetti ha realizzato servizi di moda per Vogue Italia. Prodotto a proprie spese, il lavoro premiato riguarda la desertificazione della provincia occidentale di Gansu, in Cina (454.000 chilometri quadrati, ventitré milioni di abitanti), ed è stato definito da David Alan Harvey «stilisticamente potente e giornalisticamente rilevante, meritevole di essere sostenuto finanziariamente da qualche istituzione» (qui sopra). Tutti i lavori sottoposti al giudizio di David Alan Harvey sono stati autoprodotti e realizzati lo scorso anno, tra il quindici luglio e il quindici settembre. Alla selezione finale sono arrivati Kevin German, Erica McDonald, Brendan Hoffman, Andrew Sullivan, Katia Roberts, Bob Black, Kyunghee Lee, Eric Espinosa, Kelly Lynn James, Chris Bickford, Lance Rosenfield, Natan Moss, Marcin Luczkowski, Joni Karanka, Aleksander Nowak, Alex Reshaun e una sola italiana, Cristina Faramo. Alcune delle loro fotografie possono esse viste su http://www.davidalanharvey.com.temp.livebooks. com/. Inoltre, è prevista una mostra itinerante.

DUE NUOVI FOTOGRAFI ALLA VII. Dopo la prematura scomparsa di Alexandra Boulat (FOTOgraphia, novembre 2007), Marcus Bleasdale e Franco Pagetti sono stati recentemente cooptati dalla famosa agenzia di fotogiornalismo VII. Gary Knight, il presidente dell’agenzia, si è dichiarato entusiasta dei due nuovi arrivi. Negli ultimi otto anni, Marcus Bleasdale ha lavorato nella Repubblica Democratica del Congo, realizzando un libro straordinario: One Hundred Years of Darkness (Cent’anni di tenebre). Collabora con il Telegraph Saturday Magazine, The New Yorker, Time, Newsweek e il National Geographic. Dal gennaio 2003, il fotografo di guerra Franco Pagetti copre per il Time le vicende irachene. Ricordiamo che le sue molte missioni si so-

COPYRIGHT SUL COLORE. La Repubblica dello scorso quindici novembre ha riportato l’incredibile notizia riguardante il fatto che Deutsche Telekom e Red Bull (bevanda energetica sbarcata in Formula 1) hanno rispettivamente imposto il proprio copyright sul “rosso magenta” e la combinazione “blue/silver”, che nessuno può più usare per fondi di siti Internet e logotipi. La vicenda ricorda un breve racconto di fantascienza pubblicato più di quarant’anni fa da Galaxy, del quale però non ricordo né l’autore né il titolo (ma non importa). Si racconta di uno Stato retto dal solito regime repressivo-dittatoriale, nel quale il governo si prende il copyright sulle espressioni idiomatiche del linguaggio comune. Per esempio, uno esclama: «ma sei fuori di testa?», oppure «da che mondo è mondo», e, tac, un agente dotato di registratore memorizza la sua frase e gli propina una multa salata. Dio non voglia (sto rischiando una multa?) che possa succedere la stessa cosa con i colori: cravatta verde pallido?, dieci euro; giacca marrone?, venticinque euro, calze magenta?, sette euro. Se volete lanciare il vostro grido elettronico Liberate il magenta andate a http://maxxeo.wordpress.com/ 2007/11/14/liberate-il-magenta/. BILAL HUSSEIN. Al momento in cui scriviamo, il fotografo della Associated Press, Bilal Hussein, prigioniero in un carcere iracheno dall’aprile 2006 sotto l’accusa, sostenuta dagli americani, di essere complice degli insorti, è ancora in cella, nonostante le proteste della sua agenzia e di molte organizzazioni umanitarie, che sostengono non esistere alcuna prova a sostegno dell’imputazione. Come capita dall’Undici settembre (2001), il governo statunitense nega agli accusati di terrorismo, o collusione con il terrorismo, persino il diritto di un processo, come testimoniano le tristis-

(a sinistra) Con un reportage che racconta la desertificazione della provincia occidentale di Gansu, in Cina, il fotografo inglese Sean Gallagher si è affermato alla prima edizione del premio David Alan Harvey Fund for Emerging Photographers, riservato a fotogiornalisti emergenti.

È in base a fotografie come questa, che riprende insorti iracheni che a Fallujiah attaccano l’esercito americano (8 novembre 2004), che le autorità statunitensi considerano il fotogiornalista Bilal Hussein (Associated Press) complice dei terroristi. Bilal Hussein (in alto, a destra) è prigioniero in un carcere iracheno dall’aprile 2006.

sime vicende del carcere di Guantanamo, nel quale Amnesty International accusa si commettano sistematicamente delitti contro l’umanità (http://www.amnesty.it/pressroom/ comunicati/CS16-2006.html). Anche a Bilal Hussein (qui sopra), che ha fatto parte dello staff di fotogiornalisti della AP che ha vinto il premio Pulitzer nel 2005, è negata la possibilità di avere un processo. Se volete dare il vostro sostegno: http: //www.freebilal.org/.

HARRY POTTER FA IL FOTOGIORNALISTA. Non è proprio così. Ma quasi. Nel film Journey, produzione statunitense che dovrebbe arrivare nelle sale nei primi mesi del 2009, Daniel Radcliffe, il giovane attore che ha dato volto cinematografico al piccolo mago dei romanzi di Joanne Kathleen Rowling, interpreterà la parte di Dan Eldon, un fotografo inglese di ventidue anni lapidato in Somalia nel 1993. La regia del film è della canadese Bronwen Hughes (oltre l’impegno televisivo, il suo film più recente è Stander, del

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2003, che narra la storia vera di un capitano di polizia sudafricano, divenuto uno dei più inafferrabili svaligiatori di banche del suo paese). La morte di Dan Eldon rimanda a uno dei fatti più tragici della guerra civile somala. Già pronto a lasciare Mogadiscio, accorre invece dove le forze Onu hanno appena bombardato un edificio, convinte che fosse il nascondiglio del generale Mohamed Farah Aideed. Invece del generale, le bombe uccidono settantaquattro civili, tra cui, come sempre, donne e bambini, e feriscono più di cento persone. Quando il fotogiornalista Dan Eldon giunge sul luogo, la folla inferocita assale il suo gruppo e lo trucida insieme ad altri quattro giornalisti. Pubblicato negli Stati Uniti nel 1997, il suo libro The Journey is the Destination (da cui il titolo del film-biografia) ha venduto a oggi duecentomila copie.

ALEXANDRA BOULAT. Il numero di fine anno del settimanale Internazionale ha dedicato un servizio di otto pagine alle fotografie di Alexandra Boulat (qui sotto). Onore alla testata e al suo direttore Giovanni De Mauro, che tratta sempre la fotografia con il dovuto rispetto.

HOUSE & GARDEN. Il numero di dicembre 2007 è stato l’ultimo per il mensile House & Garden, una testata vecchia di centosei anni. Condé Nast la chiude nonostante una media di quasi un milione di copie vendute ogni mese nella prima metà del 2007 (per l’esattezza 976.443, dichiarate ufficialmente). «Non è la vendita delle copie che sostiene la rivista, ma la raccolta pubblicitaria -ha affermato un portavoce della casa editrice-; e questa è in calo». Certo, un piccolo

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problema per i fotografi americani: House & Garden commissionava molti servizi nei settori still life, architettura, viaggio e ritratto.

INTERNAZIONALE. Sempre a teNonostante quasi un milione di copie mensili, la diminuzione di pubblicità ha decretato la chiusura di House & Garden.

(a destra) Stessa fotografia in prima pagina dei quotidiani L’Unità e Corriere della Sera, in entrambi i casi senza credito. La fotografia è di Gerard Herbert (Associated Press), uno dei tanti fotogiornalisti ignoti in Italia.

Sul numero di fine anno di Internazionale otto pagine con fotografie di Alexandra Boulat.

Da gennaio, Christian Caujolle è titolare di una rubrica sul settimanale Internazionale.

stimonianza del buon lavoro di questo settimanale con la fotografia, appena riferito al servizio su Alexandra Boulat, dello scorso dicembre (a sinistra), segnaliamo che dal numero 726, dell’undici gennaio, Christian Caujolle è titolare di una rubrica fissa (qui sotto). Christian Caujolle è una delle personalità più importanti della fotografia, a livello mondiale, e non avrebbe bisogno di presentazioni. Ricordiamo, comunque, alcune delle tappe più qualificanti della sua vita. Nel 1979, comincia a collaborare come giornalista con il quotidiano Libération, del quale diventa photo editor nel 1981. Quindi, nel 1986 fonda l’Agence Vu (FOTOgraphia, giugno 2003), un vera miniera di nuovi talenti: fotografi “creati” da Christian Caujolle, come Antoine D’Agata (oggi Magnum Photos), o altri che hanno beneficiato della sua creatività, come Stanley Greene, tra i fondatori della nuova agenzia Noor ( FOTOgraphia, dicembre 2007). Nel 1998, apre la Galerie Vu, della quale è oggi consulente. Nel 2005, è nominato responsabile della mostra che celebra i cinquant’anni del World Press Photo (FOTOgraphia, febbraio 2006) e cura la pubblicazione di uno dei libri capolavoro dedicati al fotogiornalismo: Things As They Are (del quale abbiamo ampiamente riferito in FOTOgraphia dell’aprile 2006).

CREDITI FOTOGRAFICI. Non ci stanchiamo di segnalare fatti incresciosi di omesso credito alle fotografie pubblicate dai giornali italiani. Con la stessa fotografia, pubblicata nelle rispettive prime pagine, lo scorso ventotto novembre, i quotidiani L’Unità e Corriere della Sera hanno dato notizia dello storico incontro di Annapolis tra il presidente americano George W. Bush, il premier israeliano Ehud Olmert e il

plenipotenziario palestinese Abu Mazen, che ha riaperto le speranze per un concreto negoziato israelo-palestinese. Non che questa fotografia possa essere definita artistica, ma certo da parte del suo autore registriamo un impegno espressivo che va oltre la sola e semplice documentazione banale dei tre leader in posa (qui sopra). Perché allora non fare un’eccezione e mettere il credito accanto all’immagine? No! Come sempre, nessun credito. L’Unità si riscatta un pochino creditando, nelle pagine interne, Ron Edmonds/AP, per una fotografia in bianconero dello stesso incontro. Per quanto facilmente individuabile nelle informazioni che accompagnano l’invio di fotografie di agenzia (Gerard Herbert/AP), l’autore della fotografia delle prime pagine citate rappresenta comunque il fotogiornalista ignoto cui bisognerà, prima o poi, dedicare un monumento... come all’eroico milite. A cura di Lello Piazza



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PIENI DI GRAZIA

Tra i suoi valori indiscutibili, non tutti sufficientemente approfonditi, la fotografia ha quello dell’allineamento individuale con l’osservatore. Di fatto, nessuna immagine, nessuna fotografia si conclude in se stessa, e a se stessa si limita, ma tutte accendono considerazioni e riflessioni individuali. Ognuno di noi, osservando una qualsiasi fotografia, la guarda e vede alla luce delle proprie esperienze, proprie emozioni e proprie evocazioni: che, insieme, danno coscienza e sentimento. Lo stesso è per le raccolte fotografiche, alternativamente proposte in mostra di originali o riprodotte in volume, che vengono assorbite come sequenza e consecuzione di immagini. Da una parte, ci sono le monografie d’autore, che tracciano e sintetizzano percorsi creativi individuali, dall’altra le antologie a tema, che sollecitano e inducono verso l’argomento affrontato e svolto. In ogni caso, ripetiamolo, la lettura individuale si misura e conteggia anche sull’allineamento emotivo dell’osservatore. Ciò detto e precisato, la recente edizione di Full of Grace, che il bolognese Damiani Editore ha pubblicato alla fine dello scorso ottobre, si

Ai nostri giorni; fotografia di Brian Smale, 2000 (proprietà dell’autore).

Nativo americano; fotografia di Edward S. Curtis, 1904 (Library of Congress).

Inghilterra vittoriana; fotografia di Lewis Carroll, 1863 (Library of Congress).

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propone per infiniti e molteplici strati di interpretazione individuale: a ciascuno la propria. La nostra è presto rivelata, e condivisa senza la pretesa di essere né unica né -necessariamente- privilegiata. Inteso come Un viaggio attraverso la storia dell’infanzia, come precisa il suo stesso sottotitolo, il tempo fotografico di Full of Grace (piena di grazia? pieni di grazia?) percorre i decenni e, contestualmente, scorre trasversalmente alle vicende del mondo. A parte ogni altra rilevazione, e oltre i meriti propri della avvincente sequenza di immagini -ne stiamo per parlare-, dall’insieme delle pagine e dal colto allineamento delle fotografie noi abbiamo inteso e percepito il sottile filo del dovere che il mondo degli adulti ha, sempre e comunque, nei confronti dei bambini. Meglio: dovrebbe avere. La nostra partecipazione personale, sollecitata (e condizionata?) da un vissuto che sappiamo riconoscere, ci ha orien-

tati verso l’amara considerazione di un mondo adulto che non ha ancora compreso come comportarsi con i più giovani. Certo, la nostra interpretazione scarta clamorosamente a lato le intenzioni dell’attento e competente curatore Raymond W. Merritt, collaboratore di prestigiose istituzioni museali newyorkesi e vicino all’Unicef, il fondo delle Nazioni Unite per l’infanzia (FOTOgraphia, marzo 2007). Però è quella che dipende dalla nostra particolare maturazione e osservazione dei fatti del mondo, che troppo spesso coinvolgono l’innocenza nelle proprie nefandezze, come peraltro rivelano le immagini di alcuni dei paragrafi di questa compendiosa raccolta, a partire da quelli dell’infanzia distrutta e del bambino violato. Però, allo stesso momento, individualismi a parte, cogliamo il senso e messaggio positivo di Full of Grace. Tanto che, non certo a caso, dopo la copertina, che ripropone una straordinaria istantanea di Martin Munkacsi -autore raramente valorizzato dalla critica internazionale, ma apprezzato da chi sa leggere oltre la superficie dell’immagine (tra l’altro, Henri Cartier-Bresson lo ha sempre considerato come ispiratore principale della sua fotografia)-, la raccolta avvia il proprio viaggio con la celeberrima visione di W. Eugene Smith dei due bambini (i suoi figli) che escono dal buio per incamminarsi verso un mondo luminoso. Attenzione: questa stessa immagine, ampiamente nota, icona del Novecento, ha simbolicamente chiuso anche la sequenza di The Family of Man, la celeberrima mostra che Edward Steichen curò per il Museum of Modern Art di New York, nel 1955. In oltre quattrocento pagine di generose dimensioni, l’efficace sequenza di trecento immagini che compongono questa avvincente raccolta tematica racconta l’infanzia moderna, da metà Ottocento a oggi, osservata attraverso gli esempi fotografici più significativi e le parole della grande letteratura per ragazzi.


Nativo americano; fotografia di Richard Throssel, circa 1900 (Library of Congress).

Full of Grace - Un viaggio attraverso la storia dell’infanzia; a cura di Raymond W. Merritt; Damiani Editore, 2007 (via Zanardi 376, 40131 Bologna; 051-6350805, fax 051-6347188; www.damianieditore.com, info@damianieditore.it); 300 fotografie; 420 pagine 22,5x30,5cm, cartonato con sovraccoperta; 50,00 euro. In copertina: fotografia di Martin Munkacsi, circa 1930 (Howard Greenberg Gallery e Joan Munkacsi).

Maternità classica; dagherrotipo di Southworth & Hawes [Albert Sands Southworth e Josiah Johnson Hawes], 1844 (The J. Paul Getty Museum).

In definitiva, si tratta di una monografia a tema che offre una stimolante interpretazione dell’incessante sviluppo della società. Allo stesso tempo, la successione delle pagine, fotografie e parole in armonia, traccia la storia dell’impatto della fotografia sul genere umano. Suddiviso in cinque capitoli, di più paragrafi ciascuno, Full of Grace è un concentrato viaggio attraverso eventi storico-politici e culturali affrontati e visualizzati con grande varietà di approcci fotografici: dagli intendimenti artistici alle istantanee quotidiane, dalla rigorosa documentazione al fotogiornalismo. Sono denunciati temi come il lavoro minorile e le conseguenze dell’intolleranza, della povertà, dell’analfabetismo, della fame, delle malattie, della guerra e del terrorismo; così come sono celebrati i successi e i passi avanti compiuti per lo sviluppo dell’infanzia. Sono presentate e raccolte fotografie di celebrati autori del secondo

Ottocento e Novecento, che, senza alcuna soluzione di continuità, hanno osservato la vita nel proprio svolgersi, incontrando, giocoforza, l’infanzia. Quella serena e giocosa (Robert Doisneau e Elliott Erwitt, sopra tutti), ma anche quella tragica (Margaret Bourke-White, Dorothea Lange, Lewis W. Hine e Walker Evans quattro nomi d’obbligo), quella osservata con tenerezza (Lewis Carroll) e quella che disegna la socialità del tempo (Edward Sheriff Curtis e August Sander). Alla resa dei conti, riprendendo il personalismo della nostra visione, una domanda è latente: sempre e comunque, domandiamoci cosa debba fare il mondo degli adulti per l’infanzia. Come debbano comportarsi gli adulti nei confronti dei giovani, per incoraggiarli ad affrontare con forza e consapevolezza le vicende della vita. Guardandoci attorno, sia con osservazione vicina sia con sguardo lontano, siamo pessimisti. E speriamo di sbagliarci. M.R.

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NOTAZIONI DI MERITO … e demerito dall’edizione 2007 di ParisPhoto, la fiera di fotografia più prestigiosa a livello mondiale. Invitata d’onore, l’Italia ha confermato la fragilità del nostro impianto culturale, estraneo alle regole e intendimenti del mercato internazionale. Considerazioni di profilo e dati oggettivi che, insieme, sintetizzano il senso e spessore di un appuntamento fondamentale per la fotografia d’autore

T

utti contenti, ce l’abbiamo fatta! A Paris Photo, s’intende, che, all’undicesima edizione nel 2007, l’Italia era l’invitata d’onore, dopo la Scandinavia con l’Islanda, la Spagna, la Svizzera (FOTOgraphia, novembre 2007). Vittoria avvilente, se consideriamo chi ci ha preceduto, e segno inequivocabile della poca stima che godiamo a livello internazionale. Comunque, grazie all’UniCredit, che ha creduto e finanziato, appoggiato, pubblicizzato con generosità la nostra presenza. A ParisPhoto, la fiera di fotografia più prestigio-

sa a livello mondiale (dal quindici al diciotto novembre scorsi), la nazione invitata ha tre punti focali per esprimere i propri talenti: la mostra, le gallerie della sezione Statement, con le proposte emergenti, e la Project Room, per i video. La mostra selezionata dalla collezione UniCredit, ovviamente, a cura di Walter Guadagnini, era incentrata sul tema del paesaggio con: Olivo Barbieri, Gabriele Basilico, Luca Campigotto, Vincenzo Castella, Franco Fontana, Luigi Ghirri, Mario Giacomelli, Mimmo Jodice, Francesco Jodice e Daniele de Lonti. L’insieme era gradevole, i nostri autori d’eccellenza brillavano.

Frequentato da critici, collezionisti e galleristi di fotografia, ParisPhoto è un appuntamento internazionale fondamentale. Lo scorso novembre, l’edizione 2007 ha ospitato l’Italia come invitata d’onore.

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Dalla mostra sul paesaggio selezionata dalla collezione UniCredit, a cura di Walter Guadagnini: (dall’alto, in senso orario) Vincenzo Castella, Napoli, 2006; Gabriele Basilico, Beirut, 1991; Mimmo Jodice, Petra, 1994.

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Lo Statement era rappresentato da otto gallerie, e la scelta lascia perplessi, come -in alcuni casi- le loro proposte: la Bel Vedere Fotografia di Milano «è un’associazione onlus, senza fini di lucro. [...] Da quest’anno è possibile destinare il cinque per mille dell’Irpef alla Galleria Bel Vedere [...]», come si legge nel loro portale. Allora, che ci fa una galleria senza fini di lucro in una fiera mercantile, dove la vendita è lo scopo principe e legittimo? Uno scandalo? Per nulla, la solita affliggente piaga italiana della mancanza di serietà, delle amichevoli connivenze e di tutto quello che volete. Maurizio Montagna era la proposta, con immagini in bianconero di asettico paesaggio urbano. Ha avuto successo e più di un collezionista e/o gal-

lerista si è interessato all’acquisto, appunto. L’altra galleria milanese, Nepente, ha presentato alcune grandissime opere di Luca Andreoni sugli Orridi, immagini a colori d’impatto visuale. Le gallerie Alberto Peola e Guido Cosat Projects di Torino, Oredaria e VM21 di Roma, Trisorio e Umberto di Marino di Napoli non si sono mai dedicate esclusivamente alla fotografia, ma hanno compiuto brevi e rapide incursioni, privilegiando nei loro programmi pittura, scultura e design. Mentre non sono state invitate altre realtà che operano da decenni e, a proprio onore, compiendo miracoli e sacrifici. Altro mistero tutto italiano, in una fiera specialistica che non ha mai accolto gallerie che non fossero assolutamente di fotografia, e la richiesta è sempre in aumento: su trecento candidature, quest’anno ne sono state selezionate soltanto ottantatré. Le Carrousel du Louvre è piccolissimo e, il Cielo non voglia, che gli organizzatori, ingolositi, spostino la manifestazione in un qualche padiglione fieristico: perderebbe fascino e sapore da raffinato bouquet. Naturalmente, gli italiani sono stati privilegiati nella selezione: otto gallerie, oltre a quelle della sezione Statement, e fra queste Admira, «agenzia che realizza mostre ed eventi culturali», come si definiscono nel loro sito, e per quanti meriti ed attività abbia, non ha uno spazio espositivo proprio, ma grazie all’illegittima presenza a ParisPhoto 2007 ha venduto oltre cento fotografie di neorealisti ignoti e famosi, record assoluto nell’intera storia della manifestazione. Un suggerimento: chiudete le gallerie o non apritene di nuove, costano un sacco di soldi, e sgattaiolate sotto mentite spoglie. Appunto, la corrente, cosiddetta impropriamente, del neorealismo ha raccolto i maggiori successi di vendita e interesse. Anche se alcune scorrettezze sono state commesse, per esempio stampare in digi-


tale grande formato la celebre Gli italiani si voltano di Mario De Biasi e venderla al caro prezzo di una stampa tradizionale (Admira). Queste cose non si fanno nel mondo intero, perché nel mondo intero quel tipo di riproduzione ha sostituito la stampa offset per i poster e tanto vale. Non mi credete? Navigate in Internet e troverete magnifiche riproduzioni di altrettanti magnifici autori intorno ai cento euro. È avvilente che noi italiani non si voglia mai seguire le regole, prassi, costumi... internazionali. Dopo tanti anni che, pochissimi, lottano per allinearci, ci ritroviamo puntualmente ad essere diversi. Legittimo chiedersi se ci crediamo i più furbi o semplicemente siamo ignoranti. La seconda ipotesi mi piace di più. Comunque, i fotografi italiani hanno riscosso molto successo economico, con in testa Mario Giacomelli, Luigi Ghirri, Franco Fontana e Maurizio Galimberti, che si confermano i più stuzzicanti per i collezionisti. L’Italia era protagonista e alcune gallerie straniere hanno puntato su di noi; per esempio, Serge Plantureux (Parigi) ha esposto una magnifica ed unica immagine vintage, grandissimo formato, di Tazio Secchiaroli; Anne de Villepoix (Parigi) ha venduto tutti i suoi otto Luigi Ghirri, valutati fra settemila e quindicimila euro; Clairefontaine (Lussemburgo) ha puntato su Giacomo Costa, con delle elaborazioni di avveniristica inquietudine.

DENTRO E FUORI Da quando è nata, ParisPhoto è una manifestazione fieristica bilanciata sulle novità, e si stanno allargando sempre più i confini geografici: quest’anno, è arrivato il Sudafrica; il Giappone sarà l’invitato d’onore nella prossima edizione 2008. A proposito di Giappone, la galleria MEM Inc di Osaka ha raccolto un successo strabiliante, soprattutto con le interpretazioni di Noriko Yamaguchi delle donne del futuro (androgini?), completamente percorse da impianti elettronici. Un lavoro bellissimo, affascinate e che obbliga alla riflessione (a pagina 32). Fra le gallerie che amano la tradizione di gran classe, su tutte si distacca sempre la Howard Greenberg

DIGITAL & VIDEO ART FAIR

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uesta fiera parigina dedicata alla vera fotografia digitale e alla video arte è freschissima. Per la terza edizione 2007 lo spazio era molto particolare: il Louvre des Antiquaries, un intero palazzo proprio di fronte al museo del Louvre e a due passi dal mitico ParisPhoto. Qui gli antiquari hanno le loro botteghe, cadenzate quest’anno da follie ultracontemporanee, a significare che il filo dell’arte e dell’artigianato di classe si scioglie in volute conseguenti al tempo. Protagonista della manifestazione Shigeto Kubota, la moglie di Nam June Paik, con proiezioni e conferenze. Poche, a dire il vero, le gallerie, ma la qualità era spesso eccellente. Fra tutti risaltava il duo ConiglioViola (Fabrice Coniglio e Andrea Raviola) con il racconto fantastico rigorosamente digitale- delle loro esperienze personali e artistiche, rivissute come fossero bambini. Un lavoro talmente travolgente da rimanere lì rapiti a guardare e vivere, appunto, una favola molto più intelligente di quelle che il cinema ci propina con orgogliosa arroganza (qui accanto). La Walsh Gallery di Chicago, che dal 1993 propone gli artisti cinesi contemporanei, ha presentato i video di Song Dong e dello spiritosissimo Zhou Xiaohu (a destra, in basso), mentre Jongbum Choi, il quindici novembre, ha proiettato il proprio lavoro sulla facciata dell’edificio, mescolando ConiglioViola luce, colore e suono, autenZhou Xiaohu tico DJ della visione. Ancora una volta, a Diva, gli artisti dell’estremo oriente, soprattutto cinesi e coreani, inviano un messaggio innovativo, senza alcuna presunzione. Stanno frantumando ogni tenace confine della fotografia e della video arte. Giunti nuovissimi e non contaminati dalla “storia”, si sciolgono liberi nel proprio immaginario, creando un universo che non trova riferimenti con niente e nessuno. Troppo affascinanti. G.S.

(New York), con immagini di Edward Steichen e Edward Weston, rare da vedere, persino nei musei. Come è costume, mostre e mostriciattole si espandevano fuori dagli spazi di ParisPhoto: Carlo Mollino, lavori pregevoli, allestiti in una sorta di camera mortuaria new age, alla Camera di Commercio d’Italia, notevole per sciattezza e disordine; alla Galerie Nicolas Deman Chefs-d’œvres de la photographie italienne dalla collezione Aldo e Maridella Morello, titolo pomposo e pompieristico per alcune immagini che se fossero davvero i nostri capolavori- ci rimarrebbe soltanto il suicidio culturale. Per fortuna, la collezione di Massimo Preiz Oltramenti ad Artcurial ha bilanciato il nostro orgoglio nazionale, con opere e autori di

Piergiorgio Branzi: Ragazzo con l’orologio; Milano, 1955. Ammirato nelle gallerie di ParisPhoto, il bravo autore italiano è stato presentato da una personale alla Bibliotèque Nationale.

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Abelardo Morell: Upright Camera Obscura Image of the Piazzetta San Marco Looking Southeast in Office; 2007 (Bonni Benrubi Gallery, New York).

Noriko Yamaguchi: Keitai Girl no.4; stampa digitale 86,5x120cm (MEM Gallery, Osaka).

tutto rispetto. E da segnalare, una bella esposizione di Piergiorgio Branzi, ammirato anche nelle gallerie di ParisPhoto, alla Bibliotèque Nationale (a pagina 31).

IN CIFRE Lo sciopero nazionale dei trasporti ha penalizzato questa edizione ParisPhoto: circa il venti per cento in meno di visitatori; molti collezionisti europei sono stati costretti ad annullare le loro prenotazioni, oltre agli statunitensi, che già soffrivano del cambio a loro sfavorevole del dollaro sull’euro. Malgrado le forzose assenze, il volume complessivo degli affari è aumentato rispetto all’anno scorso, con alcuni record. Per esempio, la galleria Hans P. Kraus di New York ha venduto, fra i diecimila e

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centottantamila dollari, una decina di vedute del 1853 dei Pirenei del visconte Joseph Vigier, un pioniere allievo di Gustave Le Gray; e, strabiliante, Lumière des Roses di Montreuil, specializzata in fotografi anonimi e amatori dell’Ottocento e Novecento, ha realizzato quarantacinquemila euro, annoverando fra i propri clienti anche il MoMA di New York. La caccia al vintage è sempre più accanita: Dunes, del 1936, di Edward Weston, ha gratificato la Bruce Silverstein di New York con duecentosettantaduemila dollari; e due August Sander sono stati “strappati” alla galleria Priska Pasquer di Colonia per sessantasettemila euro ciascuno. Le gallerie che puntano sugli artisti contemporanei hanno riscosso grande successo, con prezzi in ascesa, ed essere aggiornati sulla contemporaneità è proprio il fine del viaggio a ParisPhoto. La Martin Asbaek (Copenhagen) ha raddoppiato le vendite: quaranta fotografie di Trine Sondergaad, Nicolai Howalt e Ebbe Strup Wittrup; Les Filles du Calvaire (Parigi) sessanta immagini, e un Paul Graham a quarantamila euro; Robert Miller (New York) venti, incluso un Bill Henson a trentacinquemila dollari; un autore da tener d’occhio è Abelardo Morell [FOTOgraphia, luglio 2006; e qui sopra], con quotazioni da quindicimila a ventimila dollari presso la Bonni Benrubi (New York), e va fortissimo il giapponese Izima Kaoru (Kudlek Van Der Grinten di Berlino e Studio La Città di Verona). La prossima edizione ParisPhoto 2008 avrà luogo, sempre al Carrousel du Louvre, dal tredici al sedici novembre. Come annotato, invitato d’onore il Giappone. Giuliana Scimé


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Palermo, 1984. Il deputato democristiano Rosario Nicoletti, suicida.

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S

enza approfondire, in anticipo sull’odierno incontro, nel numero dello scorso dicembre abbiamo segnalato che l’organizzazione culturale tedesca Deutsche Gesellschaft für Fotografie (www.dgph.de) ha assegnato a Letizia Battaglia, un gigante del fotogiornalismo italiano, il Dr. Erich Salomon Preis 2007, un premio alla carriera riservato a fotogiornalisti le cui immagini hanno influito sulla Storia (Maiuscola). In quell’oc-

casione, abbiamo promesso un intero servizio su Letizia Battaglia. Promessa mantenuta: presentiamo questa intervista che le abbiamo fatto, raggiungendola telefonicamente nella sua casa di Palermo. Prima, però, voglio ricordare come sono venuto a conoscenza di questo Premio. Verso la metà dello scorso ottobre, durante i lavori della giuria del Czech Press Photo, una amica di antica data, Cristiane Gehner di Amburgo, per anni photo editor del settimana-

LETIZIA


UNA VITA DI IMPEGNO Femminista e ambientalista, dal 1985 al 1997 è consigliere comunale a Palermo per i Verdi. Ha fondato una casa editrice, Edizioni della Battaglia, e co-fondato il mensile femminista Mezzocielo. Molti i riconoscimenti, tra i quali segnaliamo i prestigiosi W. Eugene Smith Grant in Humanistic Photography (1985) e Mother Jones International for Documentary Photography (1999). Come annunciato lo scorso dicembre, e ribadito nell’odierna introduzione alla sua intervista, in autunno è stata insignita del Dr. Erich Salomon Preis 2007, un premio alla carriera riservato a fotogiornalisti le cui immagini hanno influito sulla Storia. Tra le sue mostre più importanti, le esposizioni al Centre Pompidou e al Centre National de la Photographie di Parigi; quindi, le personali allestite a Montreal, Washington, Perpignan, Milano, Losanna, Amsterdam, Palermo, Venezia e in numerose altre città del mondo.

EMANUELE LO CASCIO

Battaglia è nata a Palermo nel 1935. Le sue immagini raccontano la Sicilia, ma soprattutLTornatoetizialapresto mafia. Nel 1974, è a Milano, dove conosce Franco Zecchin, a lungo suo compagno di vita. a Palermo, e comincia a lavorare per il quotidiano L’Ora, fino alla chiusura, nel 1990.

Intervista alla fotografa siciliana, alla quale è stato attribuito il qualificato e prestigioso Dr. Erich Salomon Preis 2007, un premio alla carriera riservato a fotogiornalisti le cui immagini hanno influito sulla Storia. Si vorrebbe rimanere concentrati sulla fotografia, ma le parole scorrono libere e riflettono sulla società italiana e sulle condizioni attuali dell’informazione. Una volta ancora e una di più, la fotografia non è un contenitore vuoto, ma partecipa alla Vita e a questa si riferisce le tedesco Der Spiegel (per il quale scriveva il nostro Tiziano Terzani, mancato nel luglio 2004, che abbiamo ricordato attraverso i ritratti di Vincenzo Cottinelli, in FOTOgraphia del marzo 2005), mi passa la notizia del riconoscimento a Letizia Battaglia. Mi ha parlato di lei quasi con devozione, pronunciava il suo nome come se si trattasse di un fotogiornalista sacro. Non sto scherzando, è proprio così. Qui da noi ci si è quasi dimenticati di Letizia Battaglia, e i fotogiornalisti con-

tano meno del due di picche, ma in campo internazionale i loro meriti e valori sono inviolabili. L’intervista, ora. Ciao Letizia, hai letto le domande che ti ho mandato? «No, non ho voluto leggere le domande». Ti ho chiesto quali sono state le motivazioni del Dr. Erich Salomon Preis 2007. «Più che altro, si è trattato di motivazioni legate al va-

BATTAGLIA

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Palermo, 1982. Nerina faceva la prostituta. Ma si era messa anche a trafficare con la droga. La mafia l’ha uccisa perché lei non aveva rispettato le sue regole.

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lore fotografico del mio lavoro e al suo significato politico e sociale. Per questo, alla cerimonia di premiazione hanno invitato anche Leoluca Orlando, il sindaco con il quale ho lavorato tanto in un periodo che è stato l’unica luce in Sicilia in cinquant’anni». In precedenza, questo Premio è mai stato assegnato a un fotografo italiano? «Mai; e solo a otto donne in trentacinque edizioni». Senti, parliamo dell’articolo pubblicato da Repubblica il dieci dicembre, che ti ho segnalato. Un servizio sulle donne della ’ndrangheta, illustrato con fotografie (senza crediti) di mafia siciliana, compresa la famosa immagine di Franco Zecchin, con il volto della donna che si specchia in un lago di sangue. Siamo alle solite, vero? I nostri giornali non hanno considerazione del lavoro dei fotogiornalisti (e ormai neppure dei giornalisti di parola, considerato che gli editori non rinnovano il loro contratto da tre anni). «Sì, è così; ancora peggio di come vanno tutte le altre cose. Per quanto riguarda la fotografia, l’Italia è una terra di rapina: non rispettano, non pagano. Per esempio, se la Rai usa delle mie fotografie senza pagare, puoi mettergli un avvocato, due avvocati alle costole, ma si rischia che passino quindici anni per avere i soldi, e dopo aver sostenuto spese legali enormi. I soldi per sostenere queste spese bisogna anche averli. «Una volta, con Giacomino Anfuso [con Vincenzo Carrese fondatore, nel 1976, del Gadef - Gruppo Agenzie Distributori e Fotografi; ndr]...». Me lo ricordo Giacomino, l’ho visto ancora un paio d’anni fa.

«Ah, te lo ricordi? Lui era molto onesto con i suoi fotografi. Una volta ha fatto causa alla Rai, ma poi ha dovuto piantar lì, perché aveva speso un sacco di soldi. In Italia non c’è proprio rispetto neppure in altri campi, ma con i fotografi è ancora peggio. «L’altro giorno, a me che ho settantatré anni, mi telefona la Rai (o Mediaset, non ricordo): “Vorrei le fotografie dell’omicidio Mattarella” [Piersanti Mattarella, presidente della Regione Sicilia, trucidato da due killer rimasti senza nome, la mattina del 6 gennaio 1980 a Palermo; ndr]. Quando chiedo quanto pagano, mi rispondono: “Ma noi, signora, le facciamo pubblicità”. Io concludo: “Guardi, sono già abbastanza famosa: è per questo che mi chiamate, non ho bisogno della vostra pubblicità. Come vi permettete?”». Senti, Letizia, in questi giorni si fa un grande parlare di un articolo sull’Italia pubblicato sul New York Times. Ho letto la traduzione, pubblicata su Internazionale del ventuno dicembre. Non ho capito perché si stiano stracciando le vesti: sono tutte le considerazioni che facciamo anche tra noi. «Spesso si alza un gran polverone. Guarda che casino stanno facendo per l’aborto. Le loro mogli, le loro figlie hanno abortito assistite in lussuosi ospedali, eppure queste vestali si scagliano contro la 194. Siamo diventati un popolo di disonesti fannulloni. Quello che mi fa impazzire è la grande mancanza di professionalità, ovunque. Per esempio, qui fanno una riserva, un parco, e poi contraddicono se stessi perché danno permessi per costruire. «Io credo che articoli come quelli del New York Times ci facciano bene. Ci fanno certamente meglio delle dichiarazioni di quel ministro che, nell’agosto


2001 ha dichiarato che lo Stato deve “abituarsi a convivere con la mafia” [Pietro Lunardi, ministro delle Infrastrutture e dei Trasporti nei governi Berlusconi; ndr]. Pensa al dolore, all’umiliazione, alla rabbia che provano tutti quelli che ci hanno lottato. E che stanno provando ancora a lottarci». La chiusura di un quotidiano come L’Ora di Palermo cosa ha significato? «Quel giornale serviva, eccome. Ormai sono passati troppi anni da quando l’hanno chiuso, e quando penso che i giovani di venticinque anni neppure sanno cosa sia, neppure ne sentono la mancanza, si sono abituati a frivolezze intellettive, alla superficialità. Ci sono ormai pochi spazi di approfondimento e anche quei pochi sono pilotati. Io sono delusa». La cosa scandalosa è che la stampa non fa il proprio mestiere. Quasi tutti i giornali hanno scritto che Andreotti è stato assolto dai suoi processi, e invece fino al 1980 c’è stata la prescrizione. «Non dicono la verità perché c’è un sistema che si regge sulla furfanteria, non so come dire, sull’imbroglio». Ma certo! Come l’ultima che ho scoperto su Giuliano Ferrara, condannato dal Tribunal de grande instance di Parigi a pagare trentaquattromila euro a titolo di risarcimento danni, ammenda, spese legali e accessorie: diecimila di multa allo Stato francese, più tremila per aver fatto appello alla condanna di primo grado e poi averlo perso; dodicimila di danni a Antonio Tabucchi; novemila per rifondere la pubblicazione della sentenza su Le Monde, Figaro e Libération [senza auto-

rizzazione, nell’ottobre 2003, Giuliano Ferrara ha pubblicato su Il Foglio, da lui diretto, un articolo di Antonio Tabucchi, avuto confidenzialmente in visione, che lo scrittore aveva scritto per Le Monde; la pubblicazione sul Foglio ha addirittura preceduto quella sul quotidiano francese; ndr]. «Con la firma di Antonio Tabucchi, che aveva l’esclusiva per Le Monde, naturalmente...». Di questa sentenza i giornali non parlano, come se vigesse una specie di omertà. «Se tu pensi che Giulio Andreotti viene invitato alle feste di bambini, viene invitato per parlare, per esprimere il suo pensiero. Pensa che cinismo: è come portare in mezzo a loro la droga. «Ma senti, parliamo un po’ di fotografia adesso». Che valenza ha avuto la fotografia nella lotta alla mafia? «In Sicilia, quando era sindaco a Palermo, Leoluca Orlando aveva capito che il messaggio fotografico è forte, e mi fece preparare e allestire una mostra grandissima e bellissima, dopodiché più niente. Leoluca Orlando non è stato rieletto e io non faccio più mostre a Palermo da quindici anni. Non vengo neppure interpellata; neanche mi si fa uno squillo di telefono. «Soltanto Rosario Crocetta, il “sindaco antimafia” di Gela [eletto nel maggio 2002, nonostante un broglio elettorale del candidato della Casa delle Libertà; ndr], omosessuale, comunista, cattolico, spregiudicato, una persona stupenda, mi ha fatto fare un’esposizione due anni fa». «I giovani mi telefonano, li incontro a quattr’occhi, vogliono suggerimenti, consigli, mi fanno vedere le loro fotografie; ma tutte le istituzioni, sia cul-

Palermo, 1980. L’arresto del boss corleonese Leoluca Bagarella, braccio destro di Totò Riina. La moglie Ninetta, sorella di un pentito di mafia, si è suicidata.

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Palermo, 1976. Ricevimento per la nobiltà a Palazzo Ganci. Qui, nel 1963, il regista Luchino Visconti ha girato la famosa scena del ballo nel film Il Gattopardo. Il principe proprietario del palazzo è stato successivamente arrestato come uomo d’onore. (al centro) Fotografia di strada scattata a Palermo, nel quartiere Kalsa.

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turali sia politiche, mi ignorano. Anche un giornale come Repubblica, che è quello che leggo, niente. «Potrei anche fotografare temi non impegnati, bambini, fanciulle, giovanotti, feste, queste cretinaggini, niente: il marchio di fotografa antimafia è sgradevole e imbarazzante. Questo, tu capirai, per me è un grande dolore. I fiorellini li so fotografare con tanta dolcezza e tanto rispetto. Potrei lavorare per tanti giornali, per tutti i giornali di questa Terra. Ma nessuno mi chiama, e potrei morire di fame. Evidentemente, la lotta alla mafia è il marchio di una vergogna indelebile». Qual è lo stato dell’arte della fotografia, o meglio del fotogiornalismo, in Sicilia: ci sono giovani bravi? Come te o Ferdinando Scianna? «Ferdinando Scianna non si può definire propriamente siciliano. All’inizio ha fatto un po’ di fotografia antropologica qui in Sicilia, poi se ne è andato e ha lavorato, diciamo, su quello che il mercato gli chiedeva, ha sfruttato le sue fotografie siciliane, ha fatto anche la moda. «I fotografi impegnati, dici, ma come fanno? Spiegami come fanno. C’è un ragazzo bravo, Emanuele Lo Cascio. Se ne va allo Zen, che è un quartiere di Palermo, si prende le botte, lo spaventano perché non fotografi, lui ci va e insiste perché vuole fotografare come vive la gente in un quartiere terribile. Non vuole accusare nessuno, né denunciare traffici di droga o spaccio. Solo mostrare. «Ma chi le vuole le sue fotografie? Nessuno le vuole! Come possono fare un fotografo, una fotografa a essere “impegnati”? Dalla Francia sono arrivate delle giovani fotografe attratte da Palermo. La città dovrebbe onorare queste persone che vengono qui a esprimere il proprio talento, la propria curiosità, il proprio impegno. Niente, qui nessuno le calcola. Al massimo, poi, con le loro fotografie riescono a fare una piccola mostra a Parigi, e poi tutto è finito». Senti, a proposito di Parigi, nel 2005 hai lasciato Palermo per la capitale francese e dopo un anno sei ritornata. «Dopo un anno e un pochino, sì».

Mi puoi dire qualcosa? «Tutto quanto ti ho detto finora mi aveva portato sull’orlo di una tristezza infinita. Non riuscivo più a uscire in questa città. Stavo fisicamente male. Perché sentivo fortissima una solitudine, oltre che culturale, anche sociale. Perché, sai, la borghesia è di bocca buona, ci sta in mezzo agli imbroglietti, agli affarucci, alle raccomandazioni, ai privilegi. Stavo male e dovevo allontanarmi, stavo male da morire. «A Parigi c’era Franco Zecchin, che aveva la sua vita, il suo lavoro, i suoi bambini. Mi ha offerto una stanza nella sua piccola casa, che abbiamo divisa; io pagavo un affitto adeguato a quello che pagava lui. Franco è una persona molto onesta, che io stimo molto. «Sono rimasta a curarmi le ferite, ma senza godermi Parigi, fatte salve le visite a qualche museo, e qualche pomeriggio seduta in uno di quei caffè con i tavolini sui marciapiedi. Non ho voluto organizzare mostre, anche se mi avevano fatto richieste. No, dovevo solo curarmi le ferite, dovevo curare il mio grande dolore. Dovevo capire, dovevo riflettere. «Appena sono stata meglio, sono tornata. Ma ho dovuto andar lontano per capire perché in Sicilia non abbiamo salvezza, perché non ci si aiuta reciprocamente. «Intendiamoci, io sono felice di fare le mostre fuori dalla Sicilia. In quella che ho esposto recentemente a Colonia, in Germania, ho presentato pure il mio filmino, e mi hanno anche fatto parlare. Ma gli interlocutori erano poliziotti, magistrati e giornalisti: un convegno chiuso, perché penso che in Germania abbiano bisogno di capire cosa continua a succedere in una piccola parte dell’Europa, che è questo angolo del sud dell’Italia». Pensi che ci sia qualche speranza? «No, non penso che ci sia speranza. Ho già un’età. Non


penso che riuscirò a vedere questo Sud, questa Sicilia, questa Calabria guarite. Io non vedrò cambiamenti. Non ci sono decisioni forti da parte dei governi. «In Germania sono rimasti stupefatti di quello che ho mostrato. È venuto anche il giudice del processo Andreotti, Roberto Scarpinato. È venuto lì e ha portato i dati di quello che fa la mafia in Germania, i meeting, i convegni, i luoghi dove sono le loro sedi finanziarie. Perché lì non c’è la legge La Torre, in Germania non c’è neppure il reato di mafia. «Tornando alla Sicilia, non penso che ce la potremo fare da soli, abbiamo bisogno dell’aiuto europeo. Se la maggioranza in Sicilia vota per Salvatore (Totò) Cuffaro [eletto per due volte presidente della Regione Sicilia, recentemente condannato in primo grado per favoreggiamento a singoli capimafia; ndr] è chiaro che la maggior parte dei cittadini non vuole cambiare. Perché ha la propria convenienza o perché non ha capito. C’è corruzione ma c’è anche ignoranza». C’è ignoranza perché la stampa non fa il proprio mestiere, non racconta alla gente le cose come stanno. «Appunto. Però questo succede anche all’estero. Non è che negli Stati Uniti la stampa sia più libera. La stampa è diventata sempre più asservita al potere, a qualsiasi potere, sia finanziario sia politico, per cui non ci sono informazioni corrette. Non è così?». Sì, certo, il problema non è soltanto siciliano, o calabro o pugliese, ma nazionale. Sull’Espresso dell’altro giorno c’era un articolo su Buccinasco, un paese dell’hinterland, a pochi chilometri dal centro di Milano, dove la ’ndrangheta fa affari d’oro con la nuova amministrazione comunale, dopo che al sindaco precedente avevano bruciato tre volte l’automobile.

«Sì, c’è corruzione. E quando dico corruzione intendo anche mancanza di valori: è come se non ci fossero più valori, valori di giustizia. Non vorrei essere noiosa, ma l’amministrare con legalità, il vivere in maniera generosa, il solidale non esistono quasi più». Vedi, cerchiamo di parlare di fotografia ma torniamo irrimediabilmente alla questione sociale e politica. Un antico slogan del Sessantotto gridava: non può esistere una università d’oro in una società di merda. Anche la fotografia, il giornalismo, sono inscindibili dalla società. «Assolutamente. Però tu mi hai domandato: esistono fotografi... Ma come fanno? Come possono? Se noi fotografi avessimo i soldi potremmo fare libri, i giornali potremmo farceli da noi. Io vedo tanta energia in questa Sicilia. Non so perché qui c’è talento fotografico. Ma tanti fotografi siciliani se ne sono andati a vivere a New York, magari si sono guadagnati un Guggenheim Fellowship Award [www.gf.org/fellow.html], ma rimangono sconosciuti qui. «Per esempio, Thomas Roma di Partinico, un paesino della Sicilia, che finì in America perché la sua famiglia emigrò. È un grandissimo fotografo “siciliano”, che fotografa solo la nostra terra e Brooklyn, e basta. [Attenzione: Letizia Battaglia cita Thomas Roma, al quale dobbiamo la configurazione Pannaroma 1x3 (24x72mm), derivata dal corpo macchina Nikon F, che abbiamo presentato in FOTOgraphia dello scorso dicembre 2007, nell’ambito della celebrazione dei novant’anni Nikon; ndr]. «Noi, quelli della mia epoca, siamo stati fortunati, perché c’era un giornale per il quale lavorare e che ci pubblicava. Ci pagavano una miseria, nessuno di noi era in regola, non avevamo nessun diritto sindacale, però quel giornale esisteva, e se non ci fosse stato, nessuno oggi ci conoscerebbe e noi non esisteremmo. Ma oggi non ci sono più giornali che ti pubblicano; quei fotografi che vanno al quartiere Zen e che vogliono raccontare ciò che vedono, dove pubblicano le loro fotografie?».

Palermo, 1969. Giulio Andreotti e Nino Salvo (all’estrema sinistra dell’inquadratura, leggermente tagliato). Questa fotografia famosa certifica un incontro tra il senatore e i Salvo, sempre negato da Andreotti. L’incontro avvenne all’Hotel Zagarella in Santa Flavia, vicino a Palermo. Come è noto, il 2 maggio 2003 Giulio Andreotti è stato dichiarato colpevole di associazione mafiosa fino al 1980. Il reato si era comunque prescritto un anno prima. Per lo stesso reato, che l’accusa sosteneva avesse commesso anche dopo il 1980, fu invece assolto. Nino Salvo e suo cugino Ignazio ebbero stretti rapporti con la Democrazia Cristiana e, in particolare, con il sindaco di Palermo Salvo Lima.

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Palermo, 2008. MariaChiara.

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Questo è un problema drammatico per l’Italia, ma anche per l’estero. La fotografia del dolore, la fotografia impegnata, la concerned photography, come l’ha definì Cornell Capa dedicando una fondazione a suo fratello Robert (International Fund for Concerned Photography), è in crisi. Se parli con i fotogiornalisti che incontri a Perpignan, a Visa pour l’Image, o ad Amsterdam, al World Press Photo, tutti si lamentano perché i giornali non pubblicano più le loro storie. La realtà è che i manager del marketing delle case editrici vogliono storie allegre, magari false ma allegre, altrimenti i lettori si intristiscono e passa loro la voglia di comprare i giornali. E se pubblichi troppo dolore, la pubblicità non ti dà più pagine e i giornali che, pare, non vivono più grazie all’interesse del pubblico ma solo delle inserzioni, chiudono [come è appena capitato al mensile House & Garden, del quale riferiamo su questo stesso numero, a pagina 24]. «Ma chi me lo ha detto l’altra volta? Troppo triste! Capisci, i giornali vogliono fare divertire la gente. Bene, e allora siamo a questo punto. Però c’è sempre qualche giornale che pubblica ancora il dolore, ma qui, in Sicilia non c’è più niente. «Tornando alla tua domanda... se ce la faremo... «Ancora tre anni fa, non la pensavo così, ma oggi, dopo la riconferma di certi politici che ci governano, di certi processi che finiranno come finiranno, di certi articoli che diranno “ma no, non è stato condannato”, tipo il caso Andreotti, io credo che non ce la faremo e purtroppo io dovrò

chiudere questa mia vita sapendo questo. «Cosa ci sarà per questi ragazzi che vivono oggi, come sarà il loro futuro? Che insegnamenti ricevono? Che scuola di pensiero c’è? Non ce n’è. C’è molto cinismo. Io ho avuto soddisfazioni nella mia vita, come fotografa e come persona. Questo mi serve per riconoscere che ho avuto una vita onorata; però, allo stesso tempo, non mi serve a nulla: perché non sono riuscita a cambiare niente, perché oggi è come se non fossi esistita. Ma io volevo che le cose cambiassero». Mi fai venire in mente un’ultima domanda: hai rimorsi, rimpianti? [Letizia riflette a lungo]. «È difficile, ascolta. Io mi volto a guardare indietro e ricordo con rispetto chi mi ha vissuto accanto. Non tendo a dire ahi, ahi! La vita l’ho vissuta, ho fatto quello che ho potuto; potevo fare di più, ma non mi sembra di avere rimpianti. Potevo fare meglio, ma questo forse ce lo dovremmo dire tutti... «Ho commesso errori, mi sono sposata a sedici anni, ma questo mi ha portato poi delle figlie e va bene così. L’unico rimpianto potrebbe essere quello di non essere riuscita a contribuire a togliere questa vergogna che abbiamo qui da noi. Ma non potevamo farcela, il popolo da solo non ce la può fare, senza un governo e leggi che ci aiutino. «No, rimpianti sicuramente no; dico grazie: ho ricevuto tanto, potevo forse fare meglio. Oggi ho ripreso a fotografare con molta lena: ma fotografo creature un paesaggio, una ragazzina. Non c’entra più con la mafia, o forse sì». Grazie infinite: è stato commovente. «Ehi, ciao. Un abbraccio». Intervista di Lello Piazza



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C

ompletata da approfonditi saggi degli scrittori Will Self e Charles Glass e di William Ewing, direttore del prestigioso Musée de l’Eysée di Losanna, uno degli indirizzi privilegiati della fotografia internazionale, e professore presso l’Università di Ginevra, la raccolta Confidential di Alison Jackson sovverte quasi i princìpi consolidati della fotografia di cronaca rosa. In effetti, dobbiamo rilevare come la stessa Fotografia, in questo caso con maiuscola volontaria, sia spesso infrastruttura di altri ambiti (non nel senso passivo ipotizzato, ascoltate bene, da Dominique François Jean Arago nel suo annuncio del processo dagherrotipico, il fatidico 7 gennaio 1839, da cui conteggiamo la nascita ufficiale della fotografia): per esempio, la moda esiste ed ha memoria di sé giusto attraverso la fotografia di moda. Per esempio, entrando nello specifico, l’onnipresenza delle Star, avvolte in un alone di fascino, non potrebbe essere possibile senza l’aiuto della fotografia, come rileva appunto il citato William Ewing. Ecco, quindi, che l’azione/operazione della brava Alison Jackson, inglese, classe 1970, sottolinea il sottile rapporto tra divismo e fotografia che lo alimenta e sostiene. Per quanto realizzate in tutto comodo e con l’attenzione della fotografia posata e allestita con cura (ne stiamo per parlare), tutte le immagini riunite in Confidential hanno il carisma formale e visivo della intrigante cronaca rosa. Sono fotografie che appaiono come “rubate” alle intimità dei personaggi raffigurati, avvicinati in momenti estremamenTutte le immagini pubblicate in queste pagine sono tratte da Confidential, di Alison Jackson: «I personaggi famosi ritratti nel libro non sono “reali. Le fotografie sono state realizzate utilizzando dei sosia. I personaggi famosi non sono stati in alcun modo coinvolti nella creazione delle fotografie e non le hanno approvate, né è stata richiesta la loro approvazione per la pubblicazione di tali fotografie». Dunque, nessuna altra nostra indicazione. Ciascuno decodifichi i soggetti (evocati) come vuole o è in grado di fare.

COSÌ APPARE

(MA NON È) Straordinaria azione fotografica dell’inglese Alison Jackson, raccolta in monografia da Taschen, per il quale si annota sempre una particolare attenzione editoriale, rivolta anche alla segnalazione della fotografia contemporanea di profilo alto. La raccolta Confidential rivela e svela possibili e potenziali falsità della fotografia, che danno così peso e valore alla sua rigorosa realtà. Alla maniera del fotogiornalismo di cronaca rosa, situazioni intriganti che si allineano con la percezione dell’osservatore 43


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Confidential, di Alison Jackson; saggi di Will Self, Charles Glass e William Ewing (in italiano, spagnolo e portoghese); Taschen, 2007 (distribuzione: Inter Logos, strada Curtatona 5/2, 41100 Modena; 059-412648; www.books.it); 264 pagine 23,1x28,9cm, cartonato con sovraccoperta; 29,90 euro.

te privati delle rispettive esistenze quotidiane, a volte imbarazzantemente privati; un caso clamoroso sopra tutti: la regina d’Inghilterra sul water, mutande a mezza coscia, giornale tra le mani (a pagina 42). Fotografie soprattutto sgranate, sia in bianconero sia a colori, che appaiono riprese con lunghi teleobiettivi, da distanze di sicurezza, o fortemente ingrandite da inquadrature più ampie. Insomma, autentica cronaca rosa all’insaputa del soggetto: tutti personaggi di spicco dello Star System internazionale, dallo spettacolo alla politica, allo sport. Vedere per credere, nell’autentico spirito della grande rivoluzione della fotografia: che è stata quella di mostrare la realtà senza apparenti mediazioni, da cui è nata la sua diffusione e popolarità come documento. Noi che di fotografia viviamo, approfondendone anche le peculiarità e contraddizioni, sappiamo che la fotografia è, o quantomeno può essere, mistificazione. Ma il pubblico della cronaca rosa, la cui fame è alimentata e pacata dai settimanali popolari, assimila tutto senza alcuno spirito critico. Così che l’operazione di Alison Jackson, se pubblicata in rotocalco, invece che presentata sulla preziosa carta patinata di una raffinata monografia d’autore, sarebbe nuda e cruda cronaca rosa, capace di attirare l’attenzione del proprio pubblico. Invece! Invece, finalmente lo riveliamo, le fotografie di Alison Jackson non sono “vere”, nel senso generico del termine. Lo sono soltanto in quello filologico: i soggetti non sono quelli che appaiono... ma sosia! Così facendo, l’autrice sottolinea che «vedere per credere» è un’operazione/azione che va presa con discernimento. Di fronte alle sue immagini, ribadiamo realizzate e presentate con una perfetta interpretazione dello stilema della fotografia di cronaca rosa, lo spettatore è sospeso in un limbo di incredulità: vorrebbe credere a ciò che vede, ma è troppo. Il bisogno di guardare è ampiamente soddisfatto, ma ciò che viene mostrato supera il confine di ciò che si è disposti ad accettare (come vero). In questo ci si può allineare con quanto ha affermato il regista Wim Wenders, che, a proposito del rapporto che intercorre tra immagine e osservatore, ha annotato: «Penso che ogni immagine cominci a esistere solo quando qualcuno la sta guardando». Il rapporto psicologico tra ciò che vediamo e quanto pos-

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siamo immaginare è estremamente complesso, ma non riesce a superare ciò che potremmo vedere, intrufolandoci oltre le porte chiuse che tutelano la vita privata. Per quanto, negli anni scolastici, per superare e smitizzare l’impatto gerarchico con i propri insegnanti, molti di noi abbiano provato a immaginarne le abluzioni quotidiane, la fotografia non dovrebbe violare gli spazi dichiaratamente individuali e con-

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fidenziali (da cui il titolo della magistrale monografia, appunto Confidential ). E allora? Allora applaudiamo questa sottolineatura del “falso”, che dà maggiore peso e valore al “vero”. Soprattutto, ci complimentiamo con questa analisi della fotografia che ne riscontra e rivela le potenzialità espressive distorte. Il discorso sulla falsità fotografica volontariamente ricercata è ampio, e chiama in causa anche azioni originariamente e dichiaratamente artistiche (in particolare, gli autoritratti di Cindy Sherman e Yasumasa Morimura). E le riflessioni verso le quali Alison Jackson indirizza l’osservatore danno fiato a molteplici considerazioni che arricchiscono il dibattito sulle potenzialità dell’immagine fotografica, rivolgendolo appunto verso quel territorio nel quale siamo obbligati a considerare i confini del documento inoppugnabile e lo spazio che autori/interpreti e veicoli di trasmissione (giornali) si riservano nei confronti dei propri fruitori. Con questo, non gettiamo fango sulla fotografia del reale, contenitore complessivo del fotoreportage e della fotocronaca, che Alison Jackson ha abilmente declinato, scartandolo a lato e dando risalto a controversie implicite; non mettiamo in dubbio la fotografia «che privilegia il valore di racconto, di traccia del mondo, di intuizione, di folgorazione nel riconoscimento di istanti di vita, reali, surreali, che la fotografia, vero linguaggio della modernità, ha introdotto in modo rivoluzionario nel panorama culturale dell’uomo contemporaneo» (Ferdinando Scianna). No, affatto: però, rileviamo come queste immagini “inventate”, costruite come gioco di significati apparenti, smascherino l’equivoco e diano straordinaria dignità alla fotografia, aumentandone addirittura il suo valore di documentazione. Non è un paradosso, ma una realtà. Se la fotografia può essere così efficacemente falsa e falsificabile, cresce in proporzione diretta il suo stesso tasso di credibilità e veridicità, che non dipende tanto dalla sua superficie apparente -l’illustrazione a ciascuno visibile-, ma dal proprio racconto chiaro e limpido. Come ogni altra forma di comunicazione visiva (e non soltanto visiva), la fotografia non è un assoluto, ma è relativa. Si impari ad ascoltare chi comunica, come lo fa, da che ambito parla e con che tono di voce (immagine) si esprime. Ribadiamo, non la forma apparente, ma il contenuto implicito (ed esplicito). Dopo aver rivelato la combinazione con sosia di personaggi conosciuti, si impone una precisazione: a parte i saggi di complemento, ricordati in apertura, la raccolta Confidential di Alison Jackson non contiene altri testi, né didascalie. Quindi, non certifica l’identità dei propri soggetti (presunti tali). Soltanto, a margine, prima della galleria di immagini, è dichiarato che «i personaggi famosi ritratti in questo libro non sono “reali”»; appunto, «le fotografie sono state realizzate utilizzando dei sosia. I personaggi famosi non sono stati in alcun modo coinvolti nella creazione delle fotografie e non le hanno approvate, né è stata richiesta la loro approvazione per la pubblicazione di tali fotografie». A conseguenza, pagina dopo pagina, la raccolta è assolutamente realistica. Non mente con proposito di mentire: ma presenta una incessante sequenza di situazioni di cronaca presunta, e per questo anche probabile. Sono i lettori che casomai aggiungono elementi propri, andando a individuare somiglianze con personaggi veri: e il cerchio si chiude. L’immagine comunica anche per quanto l’osservatore partecipa al processo di identificazione. Maurizio Rebuzzini



Anonymous Enigmatic Images from Unknown Photographers; a cura di Robert Flynn Johnson; in inglese; Thames & Hudson, New York, 2004; 220 fotografie; 208 pagine 25x25cm, cartonato con sovraccoperta; 33,20 euro.

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gnuno ha la propria Storia. Come abbiamo avuto già modo di annotare, siamo personalmente convinti che per quanto la storia della fotografia esista e si sia manifestata nello scorrere dei decenni, solitamente il suo racconto è (almeno) parziale. Senza richiamare in causa storie della fotografia assolutamente improbabili, dalle quali prendere inderogabilmente le distanze, e ce ne sono tante, anche le opere più accreditate sono sempre contaminate da peccati originari, che ne influenzano il resoconto. Anzitutto, nel proprio complesso, tutte le storie della fotografia sono comunque geograficamente occidentali: cioè ignorano le esperienze visive orien-

tali e dei paesi dell’Est. Soltanto la fotografia contemporanea, alla luce della creatività dei nostri giorni, sta prendendo in esame l’espressività giapponese e cinese, sopra tutto; invece, il resoconto storico sorvola, oppure si limita a brevi e rapidi accenni. Così come, altro peccato originario, ogni testo è legato a filo doppio con i gusti e pregiudizi del narratore, che spesso ignora volontariamente esperienze e manifestazioni che poco lo aggradano. Comunque sia, e in assoluto, la Storia è raccontata da un identificato susseguirsi di avvenimenti e pensieri, scanditi dall’incessante ritmo di fotografie a tutti note (o, almeno, così dovrebbe essere). Si tratta sempre di fotografie di autori riconosciuti, che ciascuno storico collega assieme e fa scorrere le une sulle altre: c’è chi lo fa seguendo un rigoroso ordine cronologico temporale, dalle origini, dalla data ufficiale del 1839, fino ai giorni nostri; così come, con tempo trasversale, scandito diversamente, altri storici percorrono un tragitto tematico. Alla fine, qualsiasi sia l’ordine seguìto, le fotografie prese in considerazione sono sempre le stesse, o quasi. Ribadiamo e ripetiamo: fotografie di autori riconosciuti e considerati per le rispettive attitudini, capacità ed efficienze espressive. Insomma, per una identificata e segnalata bravura. Autentiche icone oltre il Tempo.

ANONIMI Allo stesso momento, se non estraiamo la Fotografia dal percorso sociale e culturale entro il quale ha agito, dando e attingendo in un coerente tragitto di andata e ritorno, ovvero se ne sottolineiamo l’appartenenza alla società tutta, il suo racconto storico non può limitarsi alla sola sequenza degli autori accreditati, ma deve includere anche quell’insieme di fotografie anonime che appartengono alla Vita nel proprio svolgersi. In un certo senso, abbiamo già avuto modo di prendere in esame il peso sociale e narrativo di fo-

VISIONI ANONIME


tografie anonime, verso le quali stiamo incamminandoci. Lo abbiamo fatto nel luglio 2004, analizzando quella che definimmo “guerra assente” (apparentemente assente: ma palpitante nei volti dei profughi, dei disperati, delle vittime innocenti), che finisce per rappresentare l’orrore del conflitto più direttamente e con maggiore forza comunicativa di spettacolari immagini di combattimento. In curiosa coincidenza, tre recenti monografie illustrate affrontano giusto la fenomenologia della fotografia anonima, rilevandone, ciascuna a proprio modo (e non sempre con adeguata consistenza: i dettagli più avanti), l’indelebile traccia che l’insieme delle fotografie quotidiane, private o meno che siano, lascia dietro di sé. Per quanto anche queste raccolte siano geograficamente limitate, diciamo soprattutto americanocentriche (ma che dire?!),

due su tre almeno, la loro analisi visiva va oltre le immagini presentate, tanto che ognuno può/potrebbe partire da qui per ulteriori censimenti e casellari basati sull’esperienza personale. Oppure, e sarebbe veramente bello, qualche istituzione nazionale potrebbe promuovere lo studio e approfondimento di questo fenomeno: se soltanto le istituzioni esistessero; ma non è vero, perché tutti gli indirizzi italiani potenzialmente preposti (Musei, Accademie e contorni) non sono indirizzati alla ricerca, tantomeno storica, ma limitati alla registrazione di quanto già c’è. Con ordine, le tre monografie cui ci riferiamo, collegate dal filo comune della fotografia anonima, sono Anonymous (per l’appunto), la fondamentale del trittico, che sottotitola Enigmatic Images from Unknown Photographers (Anonimo - Immagini enigma-

Nell’ambito degli addetti, si riconosce come e quanto una identificata serie di immagini di autori noti, riconosciuti e celebrati tracci le linee identificatorie dell’evoluzione del linguaggio fotografico. A volte, queste stesse immagini, icone oltre il Tempo, appartengono a pieno diritto anche alla storia del mondo. Quindi, in consecuzione diretta e lineare, un’altra serie di fotografie del/dal vero racconta la vita nel proprio svolgersi. Sono le fotografie di autori anonimi, che hanno sintetizzato attimi di straordinario significato. Indipendenti una dall’altra, tre monografie illustrate (più un’altra) sottolineano i meriti che dobbiamo riconoscere alla fotografia di autori anonimi

Picture Machine The Rise of American Newspictures; a cura di William Hannigan e Ken Johnston; Harry N. Abrams, New York, 2004; oltre 300 fotografie; 298 pagine 27,5x24,6cm, cartonato con sovraccoperta; 50,50 euro. Photo trouvée; a cura di Michel Frizot e Cédric de Veigy; in francese e inglese; Phaidon Francia, 2006; 285 fotografie; 320 pagine 16,6x21,8cm, cartonato con sovraccoperta; 39,95 euro.

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Ragazza che vuole essere come i ragazzi; Stati Uniti, circa 1900. (al centro) Bambini in posa da matrimonio; Stati Uniti, circa 1910. (pagina accanto) Il generale Dwight David Eisenhower attende i visitatori alla sua casa natale [dal 1953, per due mandati consecutivi, sarà il trentaquattresimo presidente]; Stati Uniti, circa 1945.

Carretto trainato da maialini; Stati Uniti, circa 1925.

New York World’s Fair; 1939.

tiche di autori sconosciuti; a cura di Robert Flynn Johnson; Thames & Hudson, New York, 2004), Photo trouvée (Fotografie ritrovate; a cura di Michel Frizot e Cédric de Veigy; Phaidon Francia, 2006) e Picture Machine, ovvero The Rise of American Newspictures (che prende in esame la fotocronaca statunitense; a cura di William Hannigan e Ken Johnston; Harry N. Abrams, New York, 2004). Ovviamente, si tratta di tre titoli singoli e autonomi, qui e oggi accostati soltanto dal nostro punto di vista mirato, esplicitamente e volontariamente propositivo di una riflessione sulla fotografia anonima.

RACCONTO DI VITA Trasversalmente, e senza alcun effettivo punto originario di contatto, le tre monografie sottolineano una prospettiva omogenea e comune. È un particolare e affascinante modo di guardare la Fotografia, la sua storia e la sua influenza sulla e dalla società. In definitiva, è una avvincente visione esterna al proprio privato, considerata dalla consecuzione di fotografie che appartengono a un casellario latente di arte accidentale (che negli Stati Uniti è anche sostanziosa materia di collezionismo: e Anonymous è appunto la catalogazione per tematiche di una collezione privata). Il casellario proposto da Anonymous, titolo di spicco del terzetto, è assolutamente seducente. Introdotto da approfonditi testi e saggi a commento, in inglese, il consistente insieme di oltre duecento fotografie, peraltro stampate con cura e messe bene in pagina (forma, oltre il contenuto), è suddiviso in dieci capitoli tematici, a fronte di una manifesta metodologia di archiviazione e conservazione: paesaggio, alle origini, animali, l’età matura, erotismo, viaggio, scritte e messaggi, situazioni curiose (tra cui ritratti di freak; FOTOgraphia, novembre 2006), still

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life e architettura e, infine, omicidi e infamie. Come annotato, queste fotografie anonime, identificate e attribuite per anno e luogo (oltre che dimensioni delle relative copie su carta), non fanno parte della linea evolutiva del linguaggio fotografico, ma a questo si riconducono, essendo state inquadrate, composte e scattate con le attenzioni di chi ne conosce la grammatica espressiva (in que-

sta doppia pagina). Quindi, non appartengono alla storia della fotografia, quanto, piÚ ampiamente, alla storia del mondo, raccontato da visioni private, guidate da emozioni personali e non condizionate da preconcetti di ordine professionale o culturale. Per quanto a questo sia doveroso riferirsi e richiamarsi, il risultato è a dir poco entusiasmante: dischiude le porte di un universo che rivela quanto la Fo-

Posa erotica; Inghilterra, circa 1920. (in alto) Parata del Partito nazista; Germania, circa 1935.

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Fotoricordo familiari da Photo trouvée, dove sono pubblicate senza alcuna indicazione di luogo e tempo.

ALTRA SELEZIONE

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sposizione di originali fotografici itinerante nell’Europa di lingua tedesca, dal maggio 2004, Snapshots - The Eye of the Century (Istantanee - L’occhio del Secolo) si accompagna con un corposo volume-catalogo, pubblicato da Hatje Cantz Verlag di Ostfildern, Germania. A tutti gli effetti, si tratta di una ulteriore classificazione che allunga l’elenco delle raccolte di fotografie di autori anonimi, dalle quali siamo partiti per le nostre considerazioni odierne. Tra l’altro, queste altre fotografie, rigorosamente europee, provenienti dalla Christian Skrein Photo Collection, rappresentata dall’agenzia Imagno di Vienna, fanno anche da contraltare alla visione americanocentrica che impera nella storiografia internazionale. Però, all’interno del nostro odierno percorso si sarebbe trattato di una sostanziale ripetizione. Comunque, anche questa raccolta di fotoricordo ribadisce e conferma il valore e senso della fotografia anonima. Snapshots; a cura di Christian Skrein; in tedesco e inglese; Hatje Cantz Verlag, 2004 (Zeppelinstraße 32, D-73760 Ostfildern, Germania; 0049-711-4405200; www.hatjecantz.de); 527 fotografie; 560 pagine 17,5x23,5cm, cartonato; 35,00 euro.

tografia sia effettivamente l’autentico linguaggio della modernità, entrato a forza e diritto nel panorama culturale dell’uomo contemporaneo. È fotografia da ogni luogo e in ogni situazione, che mette sapientemente a frutto il princìpio originario del suo stesso cri-

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terio: quello di superare tempo e spazio per mostrare senza alcuna barriera ciò che c’è e avviene. Che racconti straordinari si alzano da queste immagini! Pagina dopo pagina, siamo come presi per mano e accompagnati a comprendere situazioni e


Sui vagoni merci; California, 23 ottobre 1934.

realtà precedentemente ignorate: magia e fascino della fotografia anonima (e privata), che compensa il racconto professionale di avvenimenti annunciati e previsti, solo sui quali solitamente si accendono i riflettori dell’attenzione pubblica e globale. Nel proprio insieme, si tratta di fotografie scattate con e per la curiosità di osservare oltre la propria sfera personale. Non sono mai semplici fotoricordo, altro fantastico capitolo possibile e potenziale di una avvincente storia sociale, ma autentici racconti da situazioni e luoghi interpretati con partecipazione convinta: quindi, fotografie intenzionalmente destinate ad essere mostrate ad altri, per condividere insieme esperienze ed emozioni.

ANNOTAZIONI PRIVATE Diversamente, Photo trouvée segna un passo completamente opposto, sia nel contenuto, sia nella forma editoriale (annotazione complementare obbligatoria). L’edizione libraria, prima di tutto: le fotografie presentate e proposte sono stampate in piccole dimensioni, raramente superiori al 6x9cm, spesso molto meno, in un’estetica del tanto bianco attorno, sulla pagina 16,6x21,8cm. A seguire, il contenuto (nella sostanza della narrazione): si tratta soprattutto fotografie familiari, scattate più con intenzione di fotoricordo che con il proposito di condividere a più ampio respiro. Pochi e limitati i testi di presentazione e commento, in francese e inglese, e totalmente assenti le identificazioni e/o attribuzioni delle duecentottantacinque fotografie presentate, diciannove delle quali a colori. (Tra parentesi, l’affascinante edizione libraria di queste fotografie originariamente private, spesso prive di

qualsiasi intenzione estetizzante ed estetica, ovvero comunicativa oltre il proprio solo privato, sottolinea una volta ancora e una di più come e quanto la forma sia determinante alla fotografia: può fare la differenza, nobilitando anche opere di esplicita povertà di intenti. Altro discorso). Considerando il capitolo della fotoricordo, e riallacciandoci a un’idea espressa qualche riga fa, que-

In fila per un pasto gratuito; New York, 26 novembre 1936.

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Logotipi di agenzie statunitensi di fotocronaca, che hanno fornito le immagini per l’affascinante monografia Picture Machine:

Acme Newspictures (circa 1940), International News Photos (circa 1945) e United Press International Newspictures (circa 1965).

Sfilata del Ku Klux Klan; Long Branch, New Jersey, 4 luglio 1924.

Nei giorni dello sciopero di cinquemila lavoratori; Elizabethton, Tennessee, 12 aprile 1905.

ste fotografie ritrovate, recuperate da album familiari, oppure individuate in quelle scatole (spesso da scarpe) nelle quali si accumulano i ricordi personali, sollecitano proprio la riflessione sul pregio e merito della fotografia privata, nel cui ambito si possono individuare straordinari racconti sociali. Per esempio, il capitolo italiano sarebbe potenzialmente ricco di propri capitoli avvincenti: le ricordiamo le fotografie che si scattavano al disinvolto tiro a segno, tra le giostre, attrazioni e giochi dei Luna Park degli anni dai Cinquanta ai Settanta, e poco oltre? Ancora, non dovremmo sottovalutare, né escludere, la fenomenologia delle cabine automatiche per fototessera. Oltre identificate escursioni artistiche (sopra tutte, quelle avviate da Franco Vaccari alla Biennale di Venezia del 1972) e a parte l’approfondimento culturale ed espressivo, che abbiamo consistentemente affrontato in FOTOgraphia dell’ottobre 2005, dalla complice intimità delle cabine automatiche prende avvio un autentico fenomeno di costume e sociale che scarta clamorosamente a lato

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l’indirizzo originario, utilitaristico e necessario, della fototessera di identificazione. E poi, perché non censire (chi, perché e per cosa?) quella componente della fotoricordo che si esprime nel gioco delle buffe combinazioni prospettiche? Avanti a tutte, le pose in piazza dei Miracoli di Pisa (piazza del Duomo), con i turisti che simulano il sostegno della Torre.

FOTOCRONACA Per quanto, concludendo, Picture Machine sia un’antologia di fotografie americane di cronaca, oppure, ed è lo stesso, di fotografie di cronaca americana (appunto, The Rise of American Newspictures: l’ascesa della fotocronaca americana, dall’inizio del Novecento agli anni Sessanta), ovvero di fotografie professionali, la raccolta rientra a pieno diritto nella nostra consecuzione, perché si tratta di oltre trecento fotografie di autori sconosciuti: anonimi operatori di agenzie giornalistiche, che hanno raccontato gli avvenimenti della vita. C’è di tutto, e forse c’è qualcosa di più. C’è di tutto, perché la cronaca non conosce confini: avvenimenti sereni (per esempio, il bacio che suggella il matrimonio del poliedrico regista Orson Welles con la seducente Rita Hayworth, consegnata alla storia del cinema e del costume dalle conturbanti sequenze di Gilda, del 1946; qui sopra, a destra) e momenti tragici, sport e vita quotidiana, scene stradali e follie collettive. Insomma dalla cronaca rosa alla nera, le sfumature di tono sono molteplici. C’è qualcosa di più, perché, con la propria clinica documentazione (e non entriamo nel vortice della sua veridicità o meno) la Fotografia è comunque te-

stimone del proprio tempo: che supera e/o rafforza la memoria individuale e collettiva. Che dire, infatti, della bambina con inquietante maschera respiratoria con bambola in mano, altrettanto mascherata, durante una manifestazione anti-inquinamento, a Pasadena, in California, il ventuno ottobre del 1954? Momento che sarebbe stato dimenticato e corso via, lungo i pendii dell’oblio, senza la pertinente sintesi di un anonimo fotocronista (qui sopra, a sinistra). Ancora, e poi basta, che complemento alle composte inquadrature e visioni dei celebrati autori della Farm Security Administration sono le crude testimonianze della Depressione degli anni Trenta, che certificano l’uso di vagoni merce da parte di poveri emigranti interni e la fila per il pasto gratuito offerto dalla municipalità di New York (entrambe a pagina 53)? Alla resa dei conti, ancora fotografi anonimi, questa volta professionisti, che hanno raccontato un quotidiano che dalla propria cronaca originaria è presto maturato e si è proiettato in Storia. Per quanto ci preme annotare, una storia che è tale e tangibile proprio grazie alla inequivocabile certificazione della fotografia. Una volta ancora: tutto questo rivela come e quanto la fotografia del/dal vero «sia effettivamente l’autentico linguaggio della modernità, entrato a forza e diritto nel panorama culturale dell’uomo contemporaneo». Maurizio Rebuzzini Ricerca iconografica di Ciro Rebuzzini

Bacio di matrimonio tra Rita Hayworth e Orson Welles; Santa Monica, California, 9 settembre 1943. (al centro) Bambina e bambola con maschere respiratorie durante una manifestazione anti-inquinamento; Pasadena, California, 21 ottobre 1954.

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al centro

della fotografia

tra attrezzature, immagini e opinioni. nostre e vostre.


I

DUE VOLTE ROMA

In curiosa o ricercata coincidenza di date, due retrospettive fotografiche raccontano altrettante storie di Roma: rispettivamente in mostra fino al ventiquattro e trenta marzo. Con il fascino e coinvolgimento emotivo che sempre accompagna e caratterizza la cadenza della fotografia, le cui visualizzazioni superano tempo e spazio, Trastevere. Società e trasformazioni urbane dall’Ottocento ad oggi (al Museo di Roma in Trastevere, è scontato) e San Pietro. Fotografie dal 1850 ad oggi (al Museo di Roma, Palazzo Braschi) percorrono tragitti paralleli e comuni, specificati nei titoli espliciti e diretti, peraltro declinati in comunione di intenti programmatici: appunto, “dal passato a oggi”. Come conteggiato e dichiarato, entrambe le osservazioni si basano su fotografie che attraversano i decenni, e dalle origini arrivano fino ai nostri giorni attuali.

Gioacchino Altobelli: Inaugurazione del ponte di Ferro ai Fiorentini, con personaggi in posa; 1863 (Archivio Fotografico Comunale).

TRASTEVERE Un consistente corpus di oltre quattrocento fotografie, distribuite su un secolo e mezzo di storia urbana, registra -rivelandola- la più recente personalità di un rione millenario di Roma, dalla forte personalità urbana, sociale, culturale e produttiva. Un rione radicato nelle figure di Bartolomeo Pinelli (er pittore de Trastevere) e dei poeti Giuseppe Gioachino Belli e Trilussa (al secolo, Carlo Alberto Salustri), che ha recentemente assunto una connotazione prevalentemente turistica, divenendo una delle aree più cosmopolite della capitale. Curata da Carlo Maria Travaglini, Keti Lelo, Carla Mazzarelli e Giuseppe Stemperini, la mostra Trastevere. Società e trasformazioni urbane dall’Ottocento ad oggi è stata promossa dall’Assessorato alle Politiche Culturali del Comune di Roma e dall’Università degli studi Roma Tre (Croma: Centro di Ateneo per lo studio di Roma). L’allestimento espositivo visualizza un viaggio a ritroso nel tempo, tra i vicoli e gli edifici che hanno scandi-

Giuseppe Primoli: Viavai su Ponte Sisto; circa 1890 (Fondazione Primoli).

to l’evoluzione morfologica del rione Trastevere. Frutto di ricerche iconografiche, archivistiche e sui periodici d’epoca, compiute con la fattiva collaborazione di numerose istituzioni, la mostra si articola in sei sezioni, che in successione approfondiscono: Eventi e modificazioni del tessuto urbano; Patrimonio storico; Tevere ponti e porti; Luoghi e forme dell’assistenza, della formazione, della reclusione e della produzione; Società e cultura; Il Gianicolo (quest’ultima sezio-

ne è esposta all’American Academy in Rome). Con ordine. Si comincia con Eventi e modificazioni del tessuto urbano, che parte dagli interventi fatti realizzare da papa Pio IX (dagli anni Sessanta dell’Ottocento), in risposta all’esigenza di risanamento del rione; subito a seguire, in consecuzione cronologica, la prima sezione prosegue con l’attuazione del Piano Regolatore del 1883, che determinò la demolizione di interi complessi per consentire la costruzione del nuovo viale del Re

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(l’attuale viale Trastevere). Anche l’edificazione dei muraglioni del Tevere comportò la ristrutturazione o, più spesso, demolizione di molti degli edifici che sorgevano lungo il fiume, tra i quali lo splendido Teatro Politeama (documentato in mostra da due convincenti fotografie), la Torre degli Alberteschi e la chiesa di San Salvatore, tra le più antiche del rione (visualizzata nel suo aspetto ottocentesco da un acquerello di Roesler Franz). Altri importanti cambiamenti seguirono con il nuovo Piano Regolatore dei primi del Novecento, che corrisponde all’ascesa in Campidoglio di Ernesto Nathan (sindaco dal 1907 al 1913), e a quello del 1931. Quest’ultimo portò alla costruzione dell’Opera Nazionale Maternità e Infanzia, del Cinema Reale, della Casa della Gioventù Italiana del Littorio e del Dopolavoro dei Monopoli di Stato. L’intervento di maggiore impatto fu, però, l’apertura della galleria sotterranea al colle Gianicolo, necessaria per collegare le nuove zone di espansione lungo via Aurelia con il centro della città. Dopo la guerra, che regista il massiccio bombardamento del 15 febbraio 1944, che oltre i lutti provocati distrusse capannoni industriali e

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case, la costruzione di nuove abitazioni è proseguita a ritmi elevatissimi, e ancora oggi, nella disarmonica successione degli edifici che popolano il nucleo antico, Trastevere conserva il fascino di quella storia millenaria che i Piani Regolatori dell’era repubblicana (1962 e 2003) si sono impegnati a tutelare. La seconda sezione dell’avvincente mostra raccoglie l’iconografia del Patrimonio storico trasteverino. Fotografie che documentano i palazzi che si affacciavano sul fiume prima della realizzazione dei muraglioni di contenimento, le mura gianicolensi fatte realizzare da papa Urbano VIII e, soprattutto, i radicali interventi attuati nel secondo Ottocento sulle chiese di Santa Cecilia, di Santa Maria in Trastevere e sulle aree circostanti. Il rapporto tra Trastevere e il suo fiume è, quindi, raccontato dalla terza sezione Tevere ponti e porti, che sottolinea il cambiamento urbano e sociale derivato dalla costruzione dei muraglioni di contenimento del fiume, a partire dagli anni Ottanta dell’Ottocento. Prima di questa data, il rione era disseminato di testimonianze delle diverse attività economiche legate alla presenza del fiume: porti commerciali, attracchi per le barche e mulini galleggianti erano allora parte del paesaggio urbano. Ma Trastevere è stato anche un rione dalla forte vocazione assistenziale. Per questo, la quarta sezione Luoghi e forme dell’assistenza, della formazione, della reclusione e della produzione ripercorre fotograficamente la storia delle istituzioni di Trastevere, nate allo scopo di fornire istruzione, formazione e cure sanitarie. Spesso, conservatori, ospizi, scuole, case di cura, istituti penitenziari sono stati anche luoghi di lavoro: infatti, vi si svolgevano attività che erano parte integrante dell’economia del rione, vero pilastro del sistema produttivo della città. Con emozionante successione di immagini, la quinta sezione Società e cultura documenta alcune vicissitudini della tormentata storia sociale e politica trasteverina, da sempre contraddistinta da una forte identità e dal saldo radicamento al territorio. In particolare, si registra il sostanzio-

Antonio e Paolo Francesco D’Alessandri: Piazza San Pietro gremita di carrozze in occasione della benedizione papale; circa 1865; albumina.

so cambiamento vissuto da Trastevere negli anni Sessanta (del Novecento), quando un rione ancora molto chiuso in se stesso e fondamentalmente statico venne ridestato da tendenze giovanili innovative e da nuovi fermenti culturali. Basti ricordare i “figli dei fiori” che popolavano piazza Santa Maria in Trastevere e il laboratorio musicale del Folkstudio di via Garibaldi, dove nacquero alcuni tra i più noti cantautori italiani, tra i quali Francesco De Gregori, Antonello Venditti e Rino Gaetano. Infine, la sesta sezione Il Gianicolo -ripetiamo, all’American Academy in Rome- visualizza una delle zone più affascinanti di Roma. Un percorso ricco di suggestioni artistiche e storico-letterarie che si fondono con i ricordi della sua cronaca temporalmente più vicina.

SAN PIETRO

Gianni Berengo Gardin: Particolare del colonnato di San Pietro; 1986; stampa alla gelatina bromuro d’argento (Archivio Fotografico del Museo di Roma).

Nell’autorevole cornice di Palazzo Braschi, San Pietro. Fotografie dal 1850 ad oggi è un’esposizione realizzata e allestita in occasione della ricorrenza dei cinquecento anni dalla fondazione della Basilica di San Pietro, che ne ripercorre la storia più recente attraverso la documentazione fotografica. A cura di Anita Margiotta, Maria Elisa Tittoni e Patrizia Masini, con il patrocinio dell’Assessorato alle Politiche Culturali del Comune di Roma (ancora) e il Comitato Nazionale per le celebrazioni del Quinto centenario della fondazione della Basilica di San Pietro, la mostra si compone di una consecuzione di novanta immagini (non sappiamo se originarie o ripro-


poste in ingrandimenti attuali). Le fotografie sono state selezionate dalle ampie collezioni dell’Archivio Fotografico Comunale, custodito presso il Museo di Roma (ulteriore commento nell’apposito riquadro, pubblicato qui a destra). Al consistente materiale storico si aggiunge un ulteriore lotto di una dozzina di fotografie contemporanee di autori della celebre Agenzia Magnum Photos. Così che, dal pionierismo fotografico di metà dell’Ottocento, tanto caratterizzato dall’imitazione degli stilemi pittorici, si approda al convinto e intenso reportage giornalistico. Danno spessore e valore all’esposizione, vedute di noti fotografi ottocenteschi attivi a Roma: Giacomo Caneva, Eugène Costant, Alfred-Nicolas Normand, Tommaso Cuccioni, Robert Eaton, Robert D. MacPherson, Gustavo Eugenio Chauffourier, James Anderson e i fratelli Antonio e Paolo Francesco D’Alessandri. La bellezza e solennità della Basilica, luogo di culto per eccellenza della cristianità, emerge sia nelle vedute delle cerimonie storiche del Novecento sia nelle composizioni nelle quali protagonista assoluto è il grandioso complesso architettonico di San Pietro in Vaticano. L’armonioso e sinuoso profilo della cupola michelangiolesca investe da cinquecento anni lo sguardo dei pellegrini che giungono a Roma e rassicura con la propria bellezza e maestosità i cittadini romani, che lo amano e lo hanno reso parte integrante della propria cultura visiva. Monumento-simbolo, scrigno che

ARCHIVIO ROMANO

C

ome precisato nel corpo centrale dell’attuale intervento redazionale, ad eccezione dell’integrazione Magnum Photos, le fotografie esposte nella mostra San Pietro. Fotografie dal 1850 ad oggi provengono dai fondi del Museo di Roma - Archivio Fotografico Comunale. Qui è conservata la più consistente raccolta fotografica romana dal 1845 alla fine del secolo, cui si aggiunge una particolare sezione moderna dedicata all’assetto urbanistico della città nel corso del Ventesimo secolo. Il Museo possiede circa venticinquemila positivi e cinquantamila negativi su lastre in vetro e pellicole piane. È attivo un progetto di incremento delle collezioni, al fine di unificare e conservare importanti testimonianze sulla storia della fotografia. Nello stesso Museo sono archiviati i fondi storici del Diciannovesimo e Ventesimo secolo, unitamente a quelli dei collezionisti e studiosi Silvio Negro, Valerio Cianfarani e del fotografo Gustavo Eugenio Chauffourier.

James Anderson: Pescatori sul Tevere a Castel Sant’Angelo; circa 1870; albumina.

racchiude ogni preziosità e collocato in uno spazio geografico eccellente, dominante, San Pietro è stato fotografato da straordinari autori e, ogni giorno, è sistematicamente fotografato da milioni di turisti. Lungo la linea dell’orizzonte caratterizzata dalla cupola della Basilica, ciò che colpisce è l’infinita variabile di interpretazioni che, nel corso dei secoli, hanno arricchito la cultura visiva. Dal proprio canto, rigorosa e severa sotto gli aspetti storico-artistici, la selezione allestita per l’esposizione San Pietro. Fotografie dal 1850 ad oggi sottolinea la particolarità dell’osservazione fotografica. Alcune inquadrature, vere e proprie scene di genere, racchiudono il lirismo che caratterizzò anche la pittura del Diciannovesimo secolo (alla quale molti fotografi si ispiravano, per acquisire il diritto di appartenenza al mondo artistico): vedute del Tevere tra Castel Sant’Angelo e il Vaticano, i “barcaroli” e i pescatori che animavano la vita fluviale e la vita di Borgo, l’antico rione tra Castel Sant’Angelo e piazza San Pietro, un tempo attraversato per tutta la sua lunghezza da un insieme molto compatto di edifici. Quindi, registriamo la presenza di fotografie che presentano piazza San Pietro nelle occasioni storiche e festive: anni santi, insediamenti di pontefici, cerimonie religiose, visite di personaggi illustri, fino ad arrivare alle recenti immagini della veglia funebre e del funerale di papa Giovanni Paolo II. Il percorso espositivo scandisce anche i tempi evolutivi della tecni-

ca fotografica, dai processi originari alle stampe all’albumina, dal bromuro d’argento di grandi e medie dimensioni alle tecniche d’avanguardia (ripetiamo: copie originali o ristampe?). Non mancano, accattivanti vedute stereoscopiche, da osservare con appositi visori per la restituzione tridimensionale. Angelo Galantini ❯ Trastevere. Società e trasformazioni urbane dall’Ottocento ad oggi; a cura di Carlo Maria Travaglini, Keti Lelo, Carla Mazzarelli e Giuseppe Stemperini. Museo di Roma in Trastevere, piazza Sant’Egidio 1b, 00153 Roma; 06-0608; www.museodiromaintrastevere.it. Fino al 24 marzo; martedì-domenica 10,00-20,00. • Sezione Il Gianicolo. American Academy in Rome, via Masina 5, 00153 Roma; 06-5846459; www.aarome.org. Fino al 15 marzo; martedì, giovedì e sabato 16,00-19,00. Catalogo Edizioni Croma Università Roma Tre (htttp://host.uniroma3.it/centri/croma/, croma@uniroma3.it): 384 pagine; 25,00 euro. ❯ San Pietro. Fotografie dal 1850 ad oggi; a cura di Anita Margiotta, Maria Elisa Tittoni e Patrizia Masini. Museo di Roma, Palazzo Braschi, via di San Pantaleo (piazza Navona), 00186 Roma; piano primo, sale 6, 7 e 8. 06-82077304, fax 06-67108303; www.museodiroma.comune.roma.it, museodiroma@comune.roma.it. Fino al 30 marzo; martedì-domenica 9,00-19,00. Catalogo Gangemi Editore (www.gangemi.com): 128 pagine 30x24cm; 20,00 euro.

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ACCORDARSI

NELLO SPECCHIO DEL TIRO

N

Nel leggere l’adorato prologo, che conosceva a memoria, per lui stesso decisamente privo di una vera spiegazione, l’allenatore sperava ancora che a qualcuno dei presenti, tiratori consumati da anni di pedana come lo stesso narratore e neofiti, sarebbe servito quanto quel giorno stava per proporre loro. Molte volte, dopo tanto pensarci, l’allenatore era approdato alla decisione di crederci, e disse così: «Eccetto per quei pochi che per loro fortuna sono stati forniti da mamma natura del dono della diuturna presenza alle proprie azioni, perché per costoro non significa proprio niente, l’adagio che così si legge “Tutto ciò che si vede accadere è ormai nel passato” detiene il merito, credo da millenni, di essere per così dire illuminante». Non era certo l’unico ad esserne stato attratto: infatti, anche altri frequentatori dell’area del tempo istantaneo, tra i quali un grande fotografo, che nel citare le parole del Cardinale di Retz, nato dalla famiglia fiorentina de Gondi (Jean-François Paul de Gondi, 1613-1679), ha scritto «Non vi è alcunché a questo mondo che non abbia un momento decisivo» (Il n’y a rien au monde qui n’ait un moment decisif; Henri Cartier-Bresson). E circa il proprio lavoro asseriva che «per me la fotografia è il riconoscimento istantaneo di un accadimento, così come la precisa organizzazione delle forme conferisce all’accadimento il proprio significato». A chi ha scelto d’essere tiratore, potrà piacere far propria la citazione, perché calza, e non dico altro. Ma sarà meglio se nessun intuitore dormirà sul quanto ha intuito; si sa, infatti, che le in-

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tuizioni necessitano di una lunga gestazione e credo in coscienza che invariabilmente ci si prefigurerà la dolorosa prospettiva del “limite”, quella linea che è sotto il conscio (sublimen), tra ciò che sappiamo fare e l’ignoto che ci aspetta. Facciamoci coraggio e andiamo avanti. Il fatto è che allorquando si entra e si frequenta la casa del “tempo istantaneo” si entra anche nell’area dell’intuizione, e pertanto anche in quella della sperimentazione per ripetizioni. Ci si accorge allora che non è facile neppure imparare dagli errori, perché la mente umana vuole il proprio tempo per adeguarsi, e il tempo, si sa, varia a secondo del praticante. Una delle spiegazioni possibili, disse, potrebbe fornircela la legge del contrasto, che in breve afferma che per produrre qualcosa di giusto, anche nel contrasto ci deve essere armonia. Dunque, nel corso della nostra ricerca del centro, anche nel tiro, come in ogni altra disciplina, dobbiamo trovare l’armonia nel respiro e in ogni gesto. L’allenatore ci credeva, perché, al fine di poter utilmente appagare il desiderio degli atleti di far centro, si era convinto del fatto che se in pedana, nei tempi che si scandiscono prima di produrre la partenza del colpo, in armonia con il tiratore fosse stato capace di rappresentare un che di giusto, magari un’immagine, lui l’avrebbe subìta. Ed era giusto che lo facesse nel momento in cui l’atleta era indaffarato al tiro, piuttosto che negli incontri d’allenamento, che da tempo si facevano sempre più intensi per quanto ne scaturiva, e che dovevano continuare. La ragione gli sembrò chiara.

Il modo in cui ognuno degli atleti rappresentava la personale impressione sui processi individuali nel tiro gli serviva per sentire come ciascuno stesse vivendo la propria frequentazione dell’area del tiro agonistico. A parte, naturalmente, i limiti di ogni tiratore, che lui conosceva, era certo che qualcuno di loro avrebbe potuto produrre tanti centri quanti ne avesse voluti. La soluzione che cercava doveva essere altrettanto semplice e ragionevole, a ognuno la propria, diversa come tra loro le lettere dell’alfabeto. Nel parlare, gli venne da citare la prospettiva. Era sempre vissuta con gli uomini, davanti ai loro occhi. Quindi, il bisogno di rappresentare il mondo con la prospettiva, anche rappresentarvisi, gli sembrava che la assimilasse alla ricerca del centro che da sempre conviveva sul bersaglio con i tiratori, e nei loro occhi; mai a loro celata. Per secoli, lo studio della rappresentazione prospettica era stato un cimento, ma per tanto tempo era sfuggita all’umano. La soluzione era dunque nei suoi occhi. C’era quasi da ridere; anche lui aveva trovato il proprio sublime problema da risolvere. Come avrebbe potuto concludere per la sparata finale?

USCIRE DALLA BAMBAGIA Non era stata necessaria la magìa, per scoprire la prospettiva, ma l’applicazione dell’architetto. L’allenatore disilluse gli ascoltatori, forse qualcuno di loro; a quel punto, avrebbe potuto credere che li stesse per convincere del fatto che potesse celarsi lungo la linea, dall’occhio al centro, qualcosa che

però poteva essere simile al magico, e l’ascolto si fece ancor più attento. Ma l’allenatore non stava raccontando favole. La magìa sarebbe sembrata tale a quelli che, dopo essersi seriamente allenati (e non nominò l’aggettivo duramente, per non impressionare e non allontanare i neofiti), si accorgevano che i giavellotti lanciati andavano ad attingere il centro. La fatica trascorsa sarebbe stata dimenticata nel riscontrare la facilità con la quale adesso stavano tirando. Uno chiese: «Ma chi sono e cosa fanno coloro i quali sono forniti della diuturna presenza alle proprie azioni?». La risposta fu: «Spesso questi non sono tiratori, a molti di loro il tiro non interessa, alcuni hanno dei limiti fisici che la disciplina del tiro non sopporta; però, quando guardano la propria immagine nello specchio, incontrano se stessi e non possono rimproverarsi di essere usciti dal comodo del proprio letto». Qui non si chiede la perfezione, ma credo che perseguire il giusto percorso fuori dal la bambagia dell’inutile costituirà il successo commisurato alle vostre possibilità.

SPUNTI DI RIFLESSIONE Davanti allo specchio, a volte la mattina si canta. Tra un colpo e l’altro provate a dare ai vostri polmoni abbastanza fiato per pronunciare in voi le parole del canto che vi piace, di certo servirà a distendere la tensione che spesso è celata nel diaframma. Questo è un altro lavoro che conviene fare: in quest’altra ricerca, il risultato positivo è garantito. E verrà. Renato A. Beccari (l’8 luglio 2006)



C

ronologia indispensabile. Prima di tutto, è opportuno ripercorrere le tappe evolutive della genìa di reflex digitali Canon di vertice, dichiaratamente indirizzate a impieghi professionali, esordita con l’originaria Eos-1D, capostipite: ne abbiamo riferito in FOTO graphia dell’aprile 2002, riprendendo il settembre immediatamente successivo, in occasione dell’assegnazione del prestigioso e ambìto TIPA Award di categoria. A seguire, registriamo i passi delle evoluzioni, che, sulla stessa identificazione di base, appunto Eos-1D, hanno sottolineato il sistematico miglioramento delle prestazioni operative, senza intaccare la base del progetto. Quindi, in successione: Eos-1D Mark II, presentata in FOTOgraphia del giugno 2004, con simultanea segnalazione del TIPA Award (ancora!), peraltro ripreso poi il successivo novembre, in occasione della cerimonia di consegna dei premi; e poi Eos-1D Mark III, della quale abbiamo riferito nell’aprile 2007, per richiamare subito il mese dopo l’immancabile TIPA Award di categoria (una volta ancora!). Parallelamente, la configurazione Canon Eos-1Ds nasce all’inizio del 2003, con nostra passerella sul numero di febbraio, e si aggiudica l’ennesimo TIPA Award, del quale abbiamo informato nel settembre dello stesso anno. L’evoluzione Eos-1Ds Mark II è stata commentata nel maggio 2005, in coincidenza temporale con l’assegnazione del qualificato TIPA Award

(con il quale le reflex digitali professionali Canon hanno appuntamento fisso).

EOS-1Ds MARK III Quindi, tornando in cronaca, è ora la volta della nuova dotazione Canon Eos-1Ds Mark III, sul mercato internazionale dallo scorso autunno (per ulteriori indirizzi redazionali, ne riferiamo in moderata differita temporale). La nuova reflex digitale professionale Canon, che si colloca al vertice dell’offerta tecnica, definisce un nuovo traguardo di risoluzione e nitidezza delle immagini. La prestigiosa Eos-1Ds Mark III, da ventuno Megapixel, produce file che possono essere convertiti in immagini TIFF a 16 bit, non compresse, da oltre 100MB, ed è in grado di garantire una risoluzione con una profondità colore di 14 bit, frutto del nuovo sensore CMOS a pieno formato (24x36mm). Oltre ad assicurare una efficace resa dei colori, i due processori Digic III, tecnologia proprietaria, consentono scatti in sequenza rapida fino a cinque fotogrammi al secondo e acquisizioni continue fino a cinquantasei immagini in formato Jpeg alla massima risoluzione (dodici in formato grezzo RAW): valori straordinari, per la risoluzione offerta. È doveroso rilevare e sottolineare che la capacità di acquisire ininterrottamente immagini di elevata risoluzione di grandi dimensioni è sostanziale in molte applicazioni della fotografia professionale, dallo sport alla moda, al giornalismo.

nologica introdotta all’inizio dello scorso anno con la configurazione Eos-1D Mark III (FOTO graphia, aprile 2007), che prevede la misurazione dell’esposizione a sessantatré aree, il sistema di messa a fuoco automatica con diciannove punti a croce, il monitor LCD da tre pollici con modalità Live View e il sistema integrato di pulizia del sensore Eos. La funzione Highlight Tone Priority estende la gamma dinamica per dettagli e profondità maggiori nelle aree chiare: nel caso di scatti con una sensibilità superiore a 200 Iso equivalenti, offre la possibilità di ampliare la gamma dinamica nelle aree chiare (appunto), riproducendo maggiori dettagli. La reflex digitale professionale Canon Eos-1Ds Mark III crea file che vanno oltre la risoluzione standard richiesta dalle applicazioni pratiche. Il sensore CMOS di terza generazione incorpora nuovi pixel con circuiti di riduzione del rumore collocati sul chip, per garantire un’elevata qualità delle immagini anche all’alta sensibilità di 1600 Iso equiva-

lenti. I convertitori A/D da 14 bit garantiscono una profondità totale del colore pari a 16.384 toni per pixel, per ottenere gradazioni cromatiche omogenee e una accurata riproduzione dei colori. La possibilità di aumentare la sensibilità fino a 3200 Iso equivalenti è agevole per quei professionisti che agiscono in situazioni nelle quali non è permesso l’utilizzo del flash, quando la discrezione è fondamentale, oppure quando è essenziale conservare l’atmosfera della (pur scarsa) luce ambiente. In combinazione, una modalità di funzionamento silenzioso -disinseribile- ritarda il riarmo dell’otturatore per tutto il tempo durante il quale il pulsante di scatto rimane premuto.

PRECISIONE Il sistema di messa a fuoco automatica include diciannove punti a croce, posizionati all’interno dell’area AF per una gestione efficace dei soggetti decentrati, con

TECNOLOGIA La Canon Eos-1Ds Mark III utilizza la nuova piattaforma tec-

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ANCORA


AMPIA VISIONE

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ontemporaneamente alla reflex digitale professionale Eos-1Ds Mark III è stato presentato un nuovo ultragrandangolare Canon serie L, progettato e realizzato per offrire una prospettiva fotografica di ampio angolo di campo. Come tutti gli obiettivi della serie L e il flash elettronico dedicato Speedlite 580EX II, il nuovo Canon EF 14mm f/2,8L II USM, che abbiamo anticipato in FOTOgraphia dello scorso novembre, incorpora le guarnizioni protettive presenti anche nei corpi macchina, per creare un unico prodotto impermeabile. Gli elementi asferici e UD dell’obiettivo garantiscono una qualità eccellente delle immagini, con una maggiore nitidezza. Il motore ad anello a ultrasuoni assicura una messa a fuoco automatica rapida e silenziosa, e permette l’intervento manuale della messa a fuoco. Il diaframma circolare produce piacevoli sfocature dello sfondo alle massime aperture, mentre i rivestimenti Super Spectra eliminano i bagliori e l’effetto fantasma, annullando i riflessi interni dalle superfici dell’obiettivo e dal sensore.

una sensibilità massima pari a f/2,8. Ventisei ulteriori punti di assistenza AF migliorano la precisione del tracking AF. Le funzioni di controllo includono un pulsante dedicato AF-ON, collocato nella parte posteriore della reflex, che permette di passare velocemente alla messa a fuoco automatica durante la composizione. Il mirino è brillante e luminoso e vanta un angolo di campo maggiore; mentre il sistema di misurazione a sessantatré zone offre un migliore controllo della sovraesposizione. Il luminoso monitor LCD da tre pollici, con una risoluzione di 230.000 pixel, garantisce

una precisa inquadratura e visione del soggetto. La modalità Live View permette di visualizzare in tempo reale le immagini sullo stesso monitor, con la possibilità di selezionare una griglia di riferimento e un istogramma che simula l’esposizione delle immagini. Il pulsante AF-ON può essere configurato per azionare temporaneamente lo specchio della reflex e attivare la messa a fuoco automatica durante le riprese con la modalità Live View. Utilizzando il software Eos Utility in dotazione, si realizza una applicazione pratica della modalità Live View nelle riprese fotografiche in sala di posa,

durante le quali si può comporre, regolare le impostazioni e acquisire le immagini agendo da un computer collegato. Il rinnovato menu operativo della Eos-1Ds Mark III incorpora una struttura a icone, di leggibilità migliorata e una maggiore facilità di uso. A differenza delle reflex precedenti, si conteggiano cinquantasette impostazioni personali e funzioni personalizzabili, suddivise in quattro categorie. Si possono vedere subito le modifiche delle impostazioni di base. Quindi, per un più rapido accesso, l’opzione My Menu consente di archiviare le impostazioni utilizzate frequentemente in un menu separato. Le impostazioni dei nuovi accessori, come per esempio il flash elettronico dedicato Speedlite 580EX II e il trasmettitore wireless di file WFT-E2, possono essere controllate direttamente dal monitor LCD. È presente un nuovo pulsante Iso dedicato, e la relativa impostazione è sempre visualizzata nel brillante pannello LCD superiore.

AFFIDABILITÀ La durata dell’otturatore, aumentata del cinquanta per cento, è di trecentomila cicli. La struttura in lega di magnesio e le guarnizioni resistenti alla polvere e all’umidità proteggono il corpo macchina della Canon Eos-1Ds Mark III. Il sistema integrato di pulizia Eos riduce, re-

Canon potenzia la gamma di reflex digitali professionali con la configurazione Eos-1Ds Mark III da ventuno Megapixel. Sensore CMOS a pieno formato (24x36mm), con profondità colore di 14 bit, e una velocità di scatto continuo fino a cinque fotogrammi al secondo, grazie al processore Digic III: tecnologia proprietaria

MARK III

spinge e rimuove la polvere dal sensore, per limitare il ricorso alla pulizia manuale. Per evitare la perdita delle immagini, se i file sono ancora in scrittura, è previsto un allarme sonoro che si attiva quando viene aperto lo sportello del vano nel quale è collocata la scheda di memoria. Le interfacce includono l’uscita video per la visualizzazione nei formati NTSC e PAL (la modalità Live View è ideale per visualizzare in tempo reale l’inquadratura della scena) e la porta USB 2.0. Per evitare che il cavo USB venga staccato accidentalmente durante gli scatti, una speciale connessione lo assicura al corpo della reflex. Oltre la piena compatibilità con gli obiettivi del sistema ottico EF, i flash elettronici dedicati Speedlite EX e gli accessori preordinati, la Canon Eos-1Ds Mark III vanta un abbinamento ideale al nuovo trasmettitore wireless di file WFT-E2, che tra l’altro permette il caricamento diretto su server FTP e l’accesso remoto tramite i protocolli HTTP e PTP. L’unità si collega in modalità wireless a memorie esterne e supporta le rilevazioni di dati effettuate con un dispositivo portatile GPS. Per i lavori fotografici nei quali la protezione e l’autenticità delle immagini sono fondamentali, la reflex è compatibile con il software Original Data Security Kit OSK-E3. (Canon Italia, via Milano 8, 20097 San Donato Milanese MI). Antonio Bordoni

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JOAKIM KOCJANCIC

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Quasi un manifesto. Sulla filosofia della fotografia di strada ed elogio dell’imperfezione. L’immagine fotografica è addomesticata, offesa, violata nei sentimenti etici ed estetici più profondi; tutto è merce, e la fotografia più consumata è una scrittura del potere, e ovunque la vita quotidiana si misura in funzione delle immagini che diventano “pensiero comune”. A ogni livello di produzione e ricezione, la fotografia ha perso la magia dell’evento e ha acquistato il significato di concetto. Le scritture analogiche o digitali non c’entrano, o c’entrano poco. Conta invece l’accostamento alla fabbricazione delle immagini argentate e l’elaborazione delle immagini numeriche. Le immagini argentate si sostituiscono materialmente all’immaginario della vita quotidiana. La critica radicale della fotografia di strada coincide con la critica della violenza ed è la filosofia della sua storia. Le immagini numeriche sono superfici concettuali sulle quali riversare la caterva di segnali fotografici (televisivi, telefonici, videoclip) che non contengono l’epifania del momento, non ne hanno bisogno, ma celebrano la tecnica dell’istante, che è un credo o un dogma dell’industria di materiali fotografici. La scatola nera non c’è più, e con lei sono sparite anche le favole della fotografia. Il gesto fotografico è cambiato. Il tempo di otturazione è un’altra cosa con le macchine digitali. C’è, ma è falso. Il tempo/suono di otturazione meccanico mette in relazione il fotografo in uno spaziotempo del tutto accidentale e la fotografia presa nasce nel buio dell’immaginazione. Le immagini salgono alla nostra coscienza proprio mentre la commuovono o sono un’altra cosa. Per gli antichi, rifuggire la vol-

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garità e l’ignoranza significava non imitare gli dèi. Le opere si avvalevano di un’etica e un’estetica del bello, che non aveva codici definiti, tuttavia esisteva una filosofia generale che legava intimamente la virtù e l’eccellenza e faceva del senso di giustizia e libertà percorsi di conoscenza della propria ombra o del proprio valore.

società è autorizzata dalla conoscenza dei programmi-video. La canalizzazione è planetaria. L’informazione straordinaria. La qualità non ha più importanza. Ogni immagine è indicativa. I significati politici, artistici, comunicazionali sono intrecciati e tutto comunque si trascolora in merce. Il fotografo è parte di questa codificazione e la sim-

«Le foto[grafie] creano così un cerchio magico che ci circonda sotto forma di universo fotografico. Bisogna rompere questo cerchio» Vilém Flusser In altre parole, la «giustizia non è separabile dalla bellezza» (Luigi Zoja) e la fotografia non è nulla, se non porta Pace alle capanne e non fa guerra ai Palazzi (a ricordo di Georg Büchner). La fotografia si fa con i piedi. L’umanità in tempi bui ha però la sua fotografia. I metaprogrammi dell’industria fotografica sono perfetti. Le immagini che ri/producono sono inimitabili. L’adulazione della scienza della fotografia seriale è totale. L’arte della fotografia è al servizio di tutti. I popoli ora sono veramente uguali davanti all’universo concettuale della fotografia numerica, davanti a Dio e davanti ad Auschwitz. La menzogna passa dal computer, anche. La bellezza è simbolica. Il programma dell’apparecchio è il simulacro o lo “schiavo” che conosce il linguaggio cifrato delle immagini programmate dall’apparecchio. I modelli sono tutti spettacolari. La memoria immortale del potere è riprodotta in stati di allucinamento generale. La programmazione elaborata della

biosi tra apparecchio, programma ed autore si riflette nel canale di scelta (Internet, carta stampata o mostra fa lo stesso) per comunicare lo “straordinario” della sua variazione tecnologica. Il tema è sempre lo stesso: merda!

SULLA FILOSOFIA DELLA FOTOGRAFIA DI STRADA La critica della fotografia è latitante. Funziona solo in rapporto con i canali di smercio della fotografia. L’impero dei media codifica tutto; e anche le immagini di bambini che muoiono per fame, ovunque nel mondo, sono colorate secondo le ultime tendenze “scritturali” della fotografia numerica. La democratizzazione della fotografia è rimandata. L’ultimo modello di immagini fotografiche è quello disseminato nell’eterna ripetizione dell’uguale. Tutti fotografi e tutti pazzi per la fotografia alla portata dell’ultimo imbecille o del guru dell’informatica presa a rate. Non è importante decodificare la fotografia, studiarla, entrare nella

memoria della sua sofferta bellezza: tutti credono di sapere come vengono fatte e cosa significhino, a partire dal numero di pixel della macchina fotografica e non dalla stratificazione storica di dolore o dall’esplosione della gioia generazionale che può contenere la coscienza e conoscenza di una persona. Nell’età dell’immagine tecnologica e dell’impero dei media, la fotografia è un dispositivo del potere. Dietro le immagini si annidano forze, disegni e programmi che offendono la coscienza dell’autentico e incensano un’universo fotografico che sopprime ogni facoltà critica. Ce lo ricorda Vílém Flusser: «La fotografia è un’immagine generata e distribuita automaticamente e necessariamente nel corso di un gioco basato sul caso da apparecchi programmati, un’immagine di uno stato di cose magico, i cui simboli informano i destinatari, affinché assumano un comportamento improbabile». La fotografia, tutta la fotografia, o attende alla libertà dell’uomo o è il boia che lo uccide. Della fotografia dell’imperfezione. Le immagini dell’imperfezione esprimono un fare-fotografia che smaschera le contraddizioni insegnate della fotografia come apologia del bello e toglie i veli all’avvenimento, alla maschera, al ruolo; risveglia l’estraniamento brechtiano della presenza, che lo obbliga a prendere decisioni e comunicare conoscenze e argomentazioni. La fotografia dell’imperfezione è l’immagine rovesciata della realtà prostituita alle codificazioni del mercato dell’arte e della politica. «La pretesa di fare arte è sempre stata la prerogativa dei mercanti di fotografie» (Gisèle Freund). Ora tocca ai fotografi dell’imperfezione fare dell’arte della fotografia mer-


cantile la cloaca di tutte le stupidità fantasmate come successo artistico. La fotografia non pensa quello che sa. Può pensare soltanto quello che ignora. L’ignoranza del sapere è immensa! Il divenire degli spiriti liberi è nella poesia. Da qualche parte abbiamo scritto: «La Bellezza non può entrare nell’arte se lo spirito dell’individuo non è ancorato alla propria opera e non riflette la decostruzione del sacro. La Bellezza ha a che fare con la nuda anarchia dell’immaginazione; la via alla bellezza comincia nell’incontro d’amore tra le genti. Camminare insieme alla Bellezza significa opporsi a tutto quanto si mostra come negazione del piacere o rituale del puritanesimo mercantile delle idee». La bellezza iconologica dell’imperfezione si schiude alla veridicità del suo dolore e fa dell’etica della giustizia il luogo di pubblico passaggio. La fotografia dell’imperfezione sboccia nel mondo con il bene dei giusti e combatte -con tutti i mezzi necessari- l’origine del male. L’immagine (straordinaria) di Oliviero Toscani contro l’anoressia, che è stata vista nelle piazze italiane ed europee [FOTOgraphia, novembre 2007], è forse la fotografia/icona tra le più grandi o tra le più compiute che la storia della fotografia moderna abbia mai espresso. Non importa essere randagi, maledetti o incompresi per fare dell’arte. Basta essere poeti. Si tratta di una ragazza morsa dalla malattia, ma non ha nulla a che fare con ciò che circola come simbologia della fame, del dolore o della violenza asservite alla museificazione della merce; questa fotografia è di una bellezza tragica, quasi sacrale (ricorda la pietà laica che suscitano le immagini dell’offesa dei campi di sterminio nazisti), e proprio per questo desacralizza non solo la malattia contro la quale si fa testimone diretta, ma significa anche che la bellezza estrema o l’imperfezione elevata a poesia

può portare attimi di serenità e sostegno nell’immaginale indifeso dei cuori in amore, forse. La scrittura fotografica dell’imperfezione è propria ai ricercatori di segni e di sogni. È una fotografia del margine, ma non marginale. Una sorta di cancellazione di piste battute dal fotoreportage d’agenzia o dalla celebrazione autoriale del mercimonio. La “persona” è il soggetto della lingua fotografica dell’imperfezione. La verità non può fuggire, né essere taciuta. La fotografia così fatta non partecipa alla vittoria dei dominatori, che sono gli eredi di tutti quelli che hanno vinto. Sta dalla parte di quelli che giacciono per terra. Non è mai immagine dell’indifferenza, ma documento di cultura per una teologia di liberazione. Chi detiene il potere dei media ha nelle mani le sorti della democrazia. Non ne vogliamo mangiare di quel pane. La fotografia dell’imperfezione sorge sulle ceneri dello spavento e fa tramontare anni di progressi -male intesi- nel profumo di verità che ricorda. La conoscenza della storiografia fotografica, come della storia del crimine politico, mostra il pericolo delle apologie. Rievoca ciò che di noi stessi è sconosciuto. A memoria di ubriaco, non si è mai immaginato e visto tanta ebbrezza e disincanto, quando i poeti di ogni arte hanno cessato di strisciare e si sono lasciati andare nel grande banditismo. Questi “passatori di confine” hanno fatto della loro vita anche la loro opera migliore; la loro fame e la politica della bellezza che hanno espresso ovunque sono stati anche il princìpio di tutte le disobbedienze o le invettive (anche colpi di mano) per mettere fine all’impostura e alla falsificazione della società dello spettacolo.

UN FOTOGRAFO DA MARCIAPIEDI Un’annotazione fuori margine su Joakim Kocjancic, un fotografo da marciapiedi. Seppure ancora molto giovane e agro,

è un’anima inquieta. Un consumatore di “fogne metropolitane” a cielo aperto, anche. A leggere a fondo il suo fare-fotografia non è difficile scorgere i filamenti, le tracce, i sedimenti estetici dei maestri (William Klein, Robert Frank, Josef Koudelka), che lo proteggono e assistono sulla via impervia della fotografia di strada. Diciamolo subito, non si tratta di un fotografo d’avanguardia, anche perché le avanguardie di tutte le arti sono sempre state le retroguardie di tutti i poteri. È un raccoglitore di silenzi e di cadaveri ambulanti. Un attraversatore di reliquie secolarizzate e di allegorie che immobilizzano i sogni. Il canto irrequieto della sua giovinezza è la traccia di una fotografia in formazione, e dall’inferno quotidiano che incontra non si attende nulla che non sia già accaduto nello splendore falso della civiltà dello spettacolo. Joakim Kocjancic nasce a Milano nel 1975; la madre è svedese, il padre di origine friulana, nato ad Alessandria d’Egitto e trasferitosi a Milano (1954). La famiglia medio-borghese non gli fa mancare nulla, lo protegge da tutto, ma non dalla fame di libertà e sete d’arte. Joakim Kocjancic vive a Milano fino a venti anni. Per non fare il servizio militare, e senza aver dato alcun esame all’università di architettura, si trasferisce a Stoccolma. Tra il 1995 e il 1998, inizia a coltivare interessi per la pittura, la fotografia, la letteratura e scopre la beat generation, Albert Camus, Jean-Paul Sartre, Louis-Ferdinand Céline e il cinema di Michelangelo Antonioni, Federico Fellini e Wim Wenders: in vero, non proprio maestri del “realismo magico”, che interessa ai profanatori della fotografia patinata. Nel 1996, frequenta una scuola d’arte a Stoccolma e si affranca alle proiezioni commentate di Anders Petersen sulla sua serie Cafè Lehmitz [FOTOgraphia, dicembre 1999]. La fotografia che lo morde alla gola non è ancora lì.

In Svezia, sopravvive con piccoli lavori e continua a frequentare corsi d’arte. Presto si accorge che l’arte non s’insegna e nessuno educa nessuno, ognuno si educa da sé. Torna in Italia, questa volta a Firenze. Pensa di apprendere le basi della pittura attraverso i grandi maestri del Rinascimento. L’incontro con un artista svizzero gli fa apprezzare la pittura astratta, informale, fatta di macchie, gesti, segni: una pittura fisica, che riprende la corrente espressionista tedesca dei anni Ottanta e mescola le tele di Emilio Vedova ai disegni di Günter Brus. È un buon inizio... per buttare tutto alle ortiche e cominciare a pensare con la propria testa. Un corso sulla storia dello spettacolo gli fa conoscere il lavoro di René Guénon (Simboli della scienza sacra) e Joseph Campbell (Il potere del mito e Riflessioni sull’arte di vivere). Ancora una volta cerca qualcosa che non è scritta sulle stelle, ma dentro il suo cuore. Inizia a fotografare con un obiettivo macro: le muffe e i muri scrostati delle vecchie strade di Firenze (che poi servono come sfondi nei quadri che elabora). Si trasferisce a Carrara, e si fa fotografo seguendo i corsi di fotografia complementare del professor Fabio Amerio. Fotografa la gente del paesino di Torano, le fabbriche abbandonate di Genova, Carrara e Marina di Pisa. Sono fotografie/astrazioni in bianconero, lavorate sulle luci e le ombre. Continua a usare questo linguaggio simbolico nelle immagini che scatta in Marocco, Puglia e nell’entroterra spagnolo. In questi anni si innamora dei libri e dei film di Alejandro Jodorowski (Psicomagia e Quando Teresa si arrabbiò con Dio; quindi Santa Sangre, El Topo e La montagna sacra). Con una borsa di studio Erasmus, si trasferisce in Spagna. Un fotografo di Santa Cruz (A. Delgado) gli dà la possibilità di lavorare nella sua camera oscura. Joa-

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kim Kocjancic gli fa da assistente per i suoi lavori editoriali. Nel 2001, lascia stare i pennelli e si dedica a tempo pieno alla fotografia. La pittura non ha perso niente. La fotografia ha trovato un poeta, forse. Joakim Kocjancic scopre le fotografie di William Klein su New York, che lo fulminano sulla strada della fotografia diretta. Finita l’Accademia a Carrara, inizia a lavorare come assistente per un fotografo commerciale di Stoccolma. Nel tempo libero fotografa le strade della città, corse di cavalli, gare di speedway, il gay prade. Nel biennio 2002-2003 compila la tesi per l’Accademia su un reportage in Svezia compiuto nel 1956 da Henri Cartier-Bresson, che non lo affascina. Poi approfondisce l’opera del grande autore francese ed è rapito soprattutto dalle sue fotografie in Messico, Spagna e Italia. La raccolta Early Works, curata da Peter Galassi per il Museum of Modern Art di New York, lo rende consapevole della fotografia di strada in forma d’arte. Quindi, Joakim Kocjancic compra la prima macchina fotografica a telemetro, una Voigtländer Bessa-R: piccola e leggera, ideale per la serena osservazione dal vero. L’approc-

cio alla quotidianità è veloce e le fotografie diventano più spontanee, dirette e più vicine a quello che vuole esprimere. Lascia Stoccolma e si trasferisce a Dublino (2003), con la sua ragazza, alla quale è stata assegnata una borsa di studio. Lavora in un ristorante e il tempo che gli resta lo impiega a fotografare la gente nelle strade e stampare i negativi in un club amatoriale. Visita spesso una galleria di fotografia, dove scopre i lavori di Daido Moriyama e si sofferma sulle sue monografie ’71-NY e Remix. Nel 2005, viene accettato in una scuola di fotogiornalismo a Londra (la LCC). Affronta un progetto sulle Alpi Apuane, terra nella quale ha lasciato parte del suo cuore, dice. Riesce a fare un reportage più fisico che mentale (una storia visuale di sensazioni, simboli e atmosfere), che racconta la vita della gente di quei luoghi così particolari, un inno alla loro dura esistenza. Oltre a William Klein, i suoi riferimenti fotografici sono ora i reportage di Robert Frank, a partire dai classici The Americans e London/Wales, fino a quell’opera di poesia fotografica che è Black and White Things. Per un po’ vive a Torano (da dove completa il progetto sul-

le Alpi Apuane) e in seguito si sposta in Liguria e inizia una serie sulla gente in spiaggia, che titola Riviera. Nel 2006, è di nuovo a Stoccolma. Lavora prima come tassista, poi in uno studio fotografico bianconero. La sua più recente ricerca, che ha chiamato Paradise, esprime una visione non proprio “paradisiaca” della società svedese, pubblicizzata dai politici del paese, e mostra la schizofrenia maligna di ogni potere nelle democrazie magnificate dello spettacolo. La fotografia diretta di Joakim Kocjancic è avida di conoscenza, condivisione e fraternità. A leggere le sue immagini -scattate sulle Alpi Apuane, a Dublino, Siviglia, Milano, Londra o Stoccolma- si scorge la forza visiva dell’autore, lo sguardo da rapinatore, il “colpo di mano” che decide una vita intera o una morte infelice. La rappresentazione grandangolare è un linguaggio difficile, ma lui lo maneggia bene. C’è vicinanza, nelle sue immagini, mai mostrificazione, anche quando -evidentemente- non condivide l’oggetto della sua attenzione. La casualità è catturata per mezzo di inquadrature informali, forti, sovente sghembe. Le persone sembra-

no entrare o uscire dalla cornice fotografica come in un film poliziesco americano degli anni Quaranta. Strano per uno che dice di amare il cinema di Gus Van Sant (Gerry e Elephant). Si nota una certa selvatichezza o abrasione, ancora legata alla passionalità generazionale, e sovente il rapporto del fotografo con i ritrattati è “bruciato”, un po’ troppo istintivo. Tuttavia, le atmosfere, le luci, le ombre, l’estraneità dei soggetti sembrano sfilare in margine a una quotidianità impoverita e si chiamano fuori dall’ordine costituito e dalle rovine della storia. La scrittura fotografica disadorna di Joakim Kocjancic esprime attenzione per gli emarginati, i perseguitati, gli esclusi; e i suoi “scippi” iconografici sono buttati addosso alla sopravvivenza, alla casta dominante, all’anomia dell’uomo schiacciato nelle discriminazioni, privilegi, violenze. La “secchezza” delle sue scelte fotografiche si richiama alle tematiche sociali dell’ascolto, del dialogo e dell’incontro, che disvelano gli acclamati valori sui quali si fonda la barbarie della civiltà occidentale: ragione, verità, umanità. Pino Bertelli (5 volte dicembre 2007)


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