Mensile, 5,70 euro, Poste Italiane SpA - Spedizione in abbonamento postale - D.L. 353/2003 (convertito in Legge il 27-02-2004, numero 46), articolo 1, comma 1 - DCB Milano
ANNO XV - NUMERO 139 - MARZO 2008
“
Ogni arte ha la sua tecnica. Anche la fotografia. Ma il rapporto fra la fotografia e la sua tecnica è particolare: c’è più uguaglianza di diritti fra le due che tra le altre arti e le relative tecniche. Lucia Moholy su questo numero, a pagina 26
Non è venduta in edicola. Per averla hai una sola possibilità: sottoscrivere l’abbonamento annuale. 12 numeri 57,00 euro Solo in abbonamento Compilare questo coupon (anche in fotocopia), e inviarlo a: Graphia srl, via Zuretti 2a, 20125 Milano MI (02-66713604, fax 02-66981643; graphia@tin.it)
Abbonamento a 12 numeri (57,00 euro) ❑ Desidero sottoscrivere un abbonamento a FOTOgraphia, a partire dal primo numero raggiungibile ❑ Rinnovo il mio abbonamento a FOTOgraphia, a partire dal mese di scadenza nome
cognome
indirizzo CAP
città
telefono MODALITÀ DI PAGAMENTO
fax
❑ ❑ ❑
Allego assegno bancario non trasferibile intestato a GRAPHIA srl, Milano Ho effettuato il versamento sul CCP 28219202, intestato a GRAPHIA srl, via Zuretti 2a, 20125 Milano Addebito su carta di credito ❑ CartaSì ❑ Visa ❑ MasterCard
numero data
provincia
firma
scadenza
codice di sicurezza
ANCORA RENÉ BURRI (CON POLAROID). È d’obbligo. La continuazione del racconto fotografico di Cristiano Cossu di una giornata con René Burri, in occasione dei Fotoincontri 2005, a San Felice sul Panaro, in provincia di Modena, che abbiamo riportato sullo scorso numero di FOTOgraphia, non può che essere declinata in polaroid. Ribadiamo così una volontà esplicita di testimoniare a favore di un mondo e una consecuzione di emozioni a sviluppo immediato che sono ormai in bilico e in forse. Come commentiamo nell’Editoriale, che segue immediatamente questa pagina, richiamando le notizie che riferiamo da pagina diciotto, sul mondo della fotografia grava l’annuncio che Polaroid sta(rebbe) per dismettere la produzione di pellicole integrali a sviluppo immediato, la cui genìa è stata avviata dall’originaria SX-70 del 1972 La polaroid riportata qui sotto ci è stata inviata da Alcide Boaretto di Padova, anche lui presente ai citati Fotoincontri 2005. La sceneggiata è presto rivelata, e comunque si svela da sé: Alcide Boaretto finge di scippare la Leica di René Burri, che prontamente la difende. Il momento è fotografato in polaroid da Carla Ponti, che -come lo stesso Alcide Boaretto- fa parte dell’attento Gruppo Polaser (del quale abbiamo riportato il Pola-Manifesto, nel nostro numero di giugno 2006, oltre altre segnalazioni redazionali). Attenzione d’autore, che nel proprio dettaglio stabilisce anche una scala di valori e contenuti: accanto la dedica, René Burri ha certificato il copyright dell’autrice, appunto “© Carla!!”. Quindi, sottolineiamo ancora una volta che la Fotografia non è mai un punto di arrivo, ma di partenza: sia per riflessioni e considerazioni in proiezione, sia per il piacere di stare assieme e condividere. In entrambi i casi, la lunga e avvincente epopea polaroid, che portiamo nel nostro cuore, senza clamori o esibizioni soltanto apparenti, è (stata) discriminante. Come minimo, la fotografia pronta e stampata una manciata di secondi dopo lo scatto è amicizia e familiarità. E so bene di cosa sto parlando. M.R.
Il fatto di essere una determinata persona è del tutto fortuito e casuale. Ognuno ha bisogno di credere in qualcosa che lo preservi dalla precarietà e dal caso. Ci si crea una scala di valori e ci si attiene a questa.
Copertina Con un articolo di Randy Kennedy, introdotto da un ottimo still life di Tony Cenicola, domenica ventisette gennaio, il prestigioso The New York Times ha riferito del ritrovamento di tre valige di negativi di Bob Capa, relativi alla Guerra civile spagnola: tremilacinquecento scatti. La notizia è presto rimbalzata in tutto il mondo. Ne riferiamo da pagina 8
3 Fumetto 19
Da un’avventura di Tom Ficcanaso, del 1962. Per l’occasione, l’ambientazione centroamericana della vicenda (che provocatoriamente allineiamo all’odissea dei negativi di Bob Capa appena ritrovati, che appunto sono transitati per il Messico) sollecitò una identificazione parodiata: Tomasito Figuenariz: Desaventuras muy calientas in tierra mexicana. Personaggio sceneggiato e disegnato da Jacovitti, Tom Ficcanaso è un giornalista che non sa evitare di impicciarsi degli affari altrui: alla lettera, Ficcanaso
6 Editoriale
63
Polaroid: non ne potremo fare a meno. A ciascuno, le proprie polaroid. Ricordi ed evocazioni personali (ma neppure poi tanto), alla luce dell’annunciata dismissione delle pellicole integrali a sviluppo immediato, che approfondiamo e commentiamo da pagina 18
8 I negativi perduti di Capa La lunga vicenda del ritrovamento delle tre valige di negativi di Bob Capa ritenuti persi, come l’ha riferita The New York Times domenica ventisette gennaio
14 Notizie Attrezzature, vicende e altre segnalazioni
CARLA PONTI (GRUPPO POLASER)
44
16 Copertina truffaldina Il settimanale Chi ha realizzato un richiamo ingannevole: una combinazione posticcia di Carla Bruni e Nicolas Sarkozy lascia intendere che si tratti di una fotografia del/dal loro chiacchierato matrimonio
18 Polaroid, ultimo atto (?) 8
Dai quotidiani italiani che domenica dieci febbraio hanno commentato l’annunciata dismissione delle pellicole Polaroid integrali a sviluppo immediato
MARZO 2008
R , RIFLESSIONI IFLESSIONI, OSSERVAZIONI E COMMENTI OSSERVAZIONI E COMMENTI SULLA FOTOGRAFIA SULLA FOTOGRAFIA
20 Reportage
Anno XV - numero 139 - 5,70 euro
Appunti e attualità del fotogiornalismo internazionale A cura di Lello Piazza
DIRETTORE
RESPONSABILE
Maurizio Rebuzzini
IMPAGINAZIONE
24 Fotografia delle origini La presentazione di Alle origini del fotografico Lettura di The Pencil of Nature (1844-46) di William Henry Fox Talbot, straordinario studio di Roberto Signorini, si accompagna con quella di Cento anni di fotografia 1839-1939, di Lucia Moholy
Gianluca Gigante
REDAZIONE Angelo Galantini
19
FOTOGRAFIE Rouge
SEGRETERIA Maddalena Fasoli
HANNO
28 Nuovi orizzonti d’Arte Creata da Epson, la certificazione Digigraphie attesta i valori della stampa d’arte realizzata con tecnologie attuali-futuribili. In consecuzione, princìpi e regole di uso di Antonio Bordoni
30 Un giorno nella vita dell’Italia Edizione speciale del Magazine del Corriere della Sera. Quarantasette fotogiornalisti hanno realizzato un definito Ritratto d’autore di un paese incompiuto di Lello Piazza
50
Redazione, Amministrazione, Abbonamenti: Graphia srl, via Zuretti 2a, 20125 Milano; 02-66713604, fax 02-66981643; graphia@tin.it.
41 Senza dubbio, pornostar Biografia illustrata, soprattutto illustrata, dell’attrice hard Vanessa del Rio, che si rivela senza reticenze, né ricercando nuove personalità senza macchia o peccato di Maurizio Rebuzzini
● FOTOgraphia è venduta in abbonamento.
37
Oltre la mostra degli originali, appetibili soprattutto agli addetti, la colta selezione di fotografie del barone Wilhelm von Gloeden è riunita in una monografia che ci ha convinti di più. Con le dovute prudenze
Sedici fotografie di Franco Berutti testimoniano un tempo nel quale i riferimenti sociali si rivolgevano al mondo culturale. Ritratti di scrittori e personaggi del cinema di Lello Piazza
● FOTOgraphia è una pubblicazione mensile di Graphia srl, via Zuretti 2a, 20125 Milano. Registrazione del Tribunale di Milano numero 174 del Primo aprile 1994. Poste Italiane SpA - Spedizione in abbonamento postale - D.L. 353/2003 (convertito in Legge il 2702-2004, numero 46), articolo 1, comma 1 - DCB Milano. ● A garanzia degli abbonati, nel caso la pubblicazione sia pervenuta in spedizione gratuita o a pagamento, l’Editore garantisce la massima riservatezza dei dati forniti dagli abbonati e in suo possesso, fatto diritto, in ogni caso, per l’interessato di richiederne gratuitamente la rettifica o la cancellazione ai sensi della legge 675/96.
46 Raffinate visioni
53 Un tempo nel quale
COLLABORATO
Pino Bertelli Alcide Boaretto Antonio Bordoni Maria Teresa Ferrario Angelo Mereu Loredana Patti Carla Ponti Lello Piazza Franco Sergio Rebosio Ciro Rebuzzini Filippo Rebuzzini Luca Ventura Zebra for You
60
● FOTOgraphia Abbonamento 12 numeri 57,00 euro. Abbonamento annuale per l’estero, via ordinaria 114,00 euro; via aerea: Europa 125,00 euro, America, Asia, Africa 180,00 euro, gli altri paesi 200,00 euro. Versamenti: assegno bancario non trasferibile intestato a Graphia srl Milano; vaglia postale a Graphia srl - PT Milano Isola; su Ccp n. 28219202 intestato a Graphia srl, via Zuretti 2a, 20125 Milano; addebiti su carte di credito CartaSì, Visa, MasterCard. ● Nessuna maggiorazione è applicata per i numeri arretrati. ● È consentita la riproduzione di testi e fotografie, magari citando la fonte (ma non è indispensabile, né obbligatorio farlo). ● Manoscritti e fotografie non richiesti non saranno restituiti; l’Editore non è responsabile di eventuali danneggiamenti o smarrimenti. Fotocomposizione DTP e selezioni litografiche: Rouge, Milano Stampa: Arti Grafiche Salea, Milano
58 Sguardi riflessi
Rivista associata a TIPA
Al Musée suisse de l’appareil photographique, Les photographes - regars inversés racconta momenti particolari di una attenta osservazione dall’interno di Angelo Galantini
64 Uliano Lucas Sguardo su un interprete della fotografia randagia di Pino Bertelli
14
www.tipa.com
olaroid: non ne potremo fare a meno. Così che, per quanto prevedibile e prevista, non consideriamo ancora definitiva e irrevocabile la notizia che ha annunciato che Polaroid dismette(rebbe) la produzione di pellicole integrali a sviluppo immediato, che riferiamo su questo stesso numero, da pagina diciotto. Ottimisticamente, siamo convinti che qualcosa possa cambiare, che qualcuno possa subentrare, per conservare un patrimonio che è tanto commerciale quanto culturale. Altrimenti, si tratterebbe di una “prima volta” (che l’espressione fotografica perde un elemento indispensabile alla propria manifestazione), con la quale fare i propri conti: e l’approfondimento lo rimandiamo a uno dei prossimi numeri di FOTOgraphia, quando ci sarà materia in aggiornamento da abbinare a rievocazioni e considerazioni storiche (una volta ancora). Ora, in assoluta libertà di parola e pensiero, mi accodo alle testimonianze che hanno accompagnato la notizia ufficiale sui quotidiani nazionali di domenica dieci febbraio. Mi accodo e basta, senza allinearmi al clima di epitaffio mortuario che attraversa le meste parole di chi ne parla già al solo passato remoto. Come tutti, anche io ho le mie memorie polaroid, trasversali alla mia vita fotografica. Le tante (tutte) polaroid della mia vita passano, però, in secondo piano di fronte a ciò che comporta la notizia della dismissione delle pellicole integrali a sviluppo immediato. Speranze e ottimismi a parte, comunque sia registriamo la fine di un’epoca, di un mondo, di una storia. Se altri subentreranno, come crediamo possa accadere, saranno giusto “altri”, diversi e distanti dall’epopea polaroid. Così che, i ricordi individuali si orientano altrimenti, e lasciano affiorare istanti che da tempo stavano nascosti tra le pieghe della vita quotidiana. In particolare, torno a caldi giorni di un’estate ormai lontana (lo ricordo esattamente, era il giugno 1993), quando visitai gli stabilimenti Polaroid disseminati attorno la sede ufficiale di Cambridge, Massachusetts. Ai tempi già si ipotizzavano controversi scenari futuri, che avrebbero potuto fare a meno della fotografia a sviluppo immediato. Cioè, si era già consapevoli dell’ineluttabile fine della fotografia a sviluppo immediato, che può solo essere ritardata, ma non certo evitata. Così che, nonostante una certa buona salute apparente delle linee produttive del tempo, sia di pellicole integrali sia di pellicole a strappo, quel mio viaggio fu una sorta di lungo addio. Così almeno lo vissi io. Ricordo perfettamente quei giorni, divisi tra una attualità tecnica di dovere e pellegrinaggi di piacere: verso i luoghi dove è stata scritta la storia Polaroid, a partire dalle intuizioni e invenzioni del suo geniale fondatore Edwin H. Land (che alla sua scomparsa, nel 1991, definimmo appunto “L’ultimo dei geni”, almeno in fotografia). Sono stato in Osborn street, dove Land aveva il proprio laboratorio, all’ingresso del quale ha scattato alcune fotografie a sviluppo immediato sperimentali; insieme ad Allan D. Verch (allora alle
P
6
Fenway Park, dove giocano i Boston Red Sox. Gli spalti sono vicini al campo di gioco, il “diamante” è disegnato da un prato verde ben curato e i giocatori, nelle proprie divise bianche, si muovono su erba vera.
In L’uomo dei sogni ( Field of Dreams, cult generazionale con Kevin Costner; di Phil Alden Robinson; Usa, 1989) per un attimo appare sullo schermo il tabellone segnapunti del Fenway Park, dove giocano i Boston Red Sox, con ben evidente il logotipo di uno degli sponsor cittadini: Polaroid.
pubbliche relazioni) ho attraversato Technology Square, con il vento che sollevava i nostri soprabiti, così come in una fotografia degli anni Sessanta sono rappresentati, nello stesso luogo e in medesima condizione, Edwin H. Land e il suo fedele vicepresidente e amico di sempre William J. McCune; non ho certo ignorato l’Edwin H. Land Boulevard, che attraversa Cambridge e indirizza verso la vicina Boston. Ovvero: mi sono comportato da perfetto turista-pellegrino, istruito sulle pagine della biografia Edwin H. Land e la Polaroid, di Peter C. Wensberg, ed educato in decenni di autentica e viscerale passione per la fotografia a sviluppo immediato: tecnica, cronaca e storia. Ma non solo. Addirittura, a dispetto degli intensi ed emozionanti momenti ufficialmente “Polaroid”, sono altri i ricordi di quei giorni che ora mi appaiono più vivi e palpitanti, e che mi fanno sentire, in qualche misura, traditore: in una scala di memoria che pospone, come appena annotato, le personalità istituzionali Polaroid. Certo, non antepongo a Polaroid le visite a Beacon Hill, l’elegante quartiere dove ha vissuto anche la famiglia Kennedy, e al locale seminterrato vecchio stile che ha ispirato la celebre serie televisiva Cheers (in Italia, Cin Cin). Ma a Boston non mi sono limitato a questo. Per cui, eccoci. Inevitabilmente, due serate sono state dedicate ai Red Sox, la locale squadra di baseball, che soltanto recentemente è uscita dalla “Maledizione del Bambino”, lanciata nel 1919 da Babe Ruth, quando venne ceduto agli odiati Yankees di New York, tra le cui fila ha comunque costruito il proprio mito. (Anatema: senza di me non vincerete più nulla! Dopo ottantasei anni di astinenza, i Red Sox hanno finalmente vinto le World Series nel 2004, alle quali approdarono imponendosi proprio sugli Yankees al meglio delle sette partite previste: zero a tre per New York dopo tre incontri, quattro a tre per Boston il punteggio finale). Per i veri appassionati di baseball, pochi posti al mondo possono essere considerati migliori dello storico Fenway Park Stadium, dove giocano i Red Sox. Gli spalti sono vicini al campo di gioco, il “diamante” è disegnato da un prato verde ben curato e i giocatori, nelle proprie divise bianche, si muovono su erba vera. Per fortuna non ci sono ancora materiali sintetici, che hanno ormai invaso ogni altro stadio statunitense. Detto ciò, sono quelle due serate che ricordo con partecipe emozione: le luci del tramonto che cedono il passo all’illuminazione artificiale e poi la fiumana di tifosi che lasciano lo stadio. Una sera sono rimasto l’ultimo a uscire, estasiato da ciò che avevo visto. In fondo, oltre la linea del fuoricampo, il tabellone luminoso salutava la vittoria dei Red Sox sui Minnesota Twins. Là dove durante la partita si susseguono gli aggiornamenti tecnici, questo richiamo conclusivo sormontava il logotipo dello sponsor. In carattere bianco su fondo blu il messaggio pubblicitario era chiaro ed esplicito. Polaroid. Maurizio Rebuzzini
7
I NEGATIVI PERDUTI DI CAPA
F
Folgorante! Domenica ventisette gennaio, sulle prestigiose pagine dell’inserto di approfondimento Arts&Leisure dell’autorevole The New York Times, come ogni domenica in sostanziosa edizione comprensiva di consistenti allegati (di qualità e in quantità), è apparsa la notizia del ritrovamento delle valige di negativi di Robert Capa che si credevano persi, e del cui smarrimento il celebre fotoreporter non si era mai dato realmente pace. Ripresa dai quotidiani di tutto il mondo, Italia compresa, la notizia è presto rimbalzata tra gli addetti, alcuni dei quali hanno potuto (o soltanto voluto) vantare di esserne già al corrente da tempo, vincolati alla segretezza dalle complesse e delicate trattative in corso per il suo trasferimento al luogo che legittimamente deve gestire questo prezioso patrimonio fotografico: quell’International Center of Photography di New York, creato e diretto da Cornell Capa, che deve obbligatoriamente vivere nell’identificazione anagrafica di “fratello di Bob Capa”. A questo proposito, e tra parentesi, prima di affrontare i termini della vicenda di stretta attualità, rileviamo che i meriti fotografici di Cornell Capa sono molteplici e consistenti, non si limitano alla sua sola parentela, spesso imbarazzante, sempre limitante e riduttiva. Per quanto sia da considerare fotografo di secondo piano, tolta qualche intuizione degna di attenzione, Cornell Capa è stato ed è attento osservatore delle fenomenologie indotte del fotogiornalismo, per le quali e sulle quali ha organizzato eventi di spessore e rilievo: sopra tutti, l’identificazione e definizione della Concerned Photography, che alla fine degli anni Sessanta rintracciò, riconoscendolo, un impegno sociale e umanista i cui effetti si sono al-
8
lungati in avanti nei decenni, fino a essere arrivati intatti ai nostri giorni. Bravo, Cornell; e degno di affermazione individuale, oltre la sola parentela di nascita.
LA VALIGIA A firma Randy Kennedy, il citato articolo del The New York Times, ancora in forma cartacea (che dovrebbe cedere il passo alla sola edizione on line, come è stato recentemente paventato; FOTOgraphia, novembre 2007), racconta la vicenda del ritrovamento delle valige di negativi di Robert Capa e della loro donazione all’International Center of Photography (qui sotto e pagina accanto). Altri quotidiani hanno ripreso la notizia, riassumendone la cronaca, e La Repubblica ha parzialmente tradotto l’originale del New York Times, riportandone i tratti generali nella propria pagina Esteri, la stessa domenica ventisette gennaio (traduzione di Anna Bissanti): appunto, Scoperta la
valigia segreta di Capa - Ecco gli scatti che hanno fatto la storia (a pagina 10). Testuale. Al piccolo entourage di esperti di fotografia a conoscenza della sua esistenza era nota semplicemente come “la valigia messicana”. Nel pantheon dei tesori culturali moderni perduti era circondata dallo stesso alone mitico dei primi manoscritti di Hemingway, scomparsi da una stazione ferroviaria nel 1922. La valigia in questione -in realtà tre valigette di cartone pressato- contiene migliaia di negativi di fotografie che Robert Capa, uno dei pionieri della moderna foto[grafia] di guerra, ha scattato durante la Guerra civile spagnola e che, al momento di lasciare l’Europa diretto in America, nel 1939, aveva dimenticato nella sua camera oscura a Parigi. In seguito, Capa aveva dato per scontato che il suo lavoro fosse andato perduto
con l’invasione nazista, e quando morì in assignment in Vietnam, nel 1954, ne era ancora convinto. Invece, nel 1995 sono iniziate a circolare voci del contrario: si diceva che i negativi, in qualche modo, fossero sopravvissuti a peripezie degne di un romanzo di John le Carré, e che da Parigi fossero arrivati a Marsiglia e da lì, a opera di un generale e diplomatico messicano che aveva prestato servizio sotto Pancho Villa, fossero quindi arrivati a Città di Messico. Accipicchia, questo attacco giornalistico di Randy Kennedy è già avvincente. Alla maniera dei bravi scrittori, e non ce ne sono molti (noi certamente non apparteniamo a questa selettiva categoria: ce ne rendiamo perfettamente conto e ne siamo amaramente coscienti), nelle prime righe c’è già tutta la storia. Una cronaca apparentemente asciutta, ma consapevolmente incessante, attira immediatamente l’attenzione, e trattiene inviolabilmente il lettore: immobilizzandolo sulla poltrona, con il quotidiano tra le mani (The New York Times, nella città statunitense; La Repubblica, in traduzione di Anna Bissanti, in Italia). Quindi, il quotidiano italiano sintetizza Il ritrovamento dei negativi perduti di Robert Capa, con relativa donazione all’International Center of Photography, è stato commentato nell’allegato Arts&Leisure del prestigioso The New York Times di domenica ventisette gennaio. Peraltro adeguatamente illustrato (feticismo?: è avvincente lo still life di una delle tre valige di negativi arrotolati; fotografia di Tony Cenicola), dopo l’avvio in prima pagina, il lungo e dettagliato articolo di Randy Kennedy si distribuisce fino a riempire una intera facciata interna (pagina accanto).
il resto della storia in poche altre righe, che riassumono il lungo e dettagliato articolo originario (ripetiamo: riprodotto su queste due nostre pagine). È in effetti in Messico che sono rimasti ignorati per oltre mezzo secolo, fino al mese scorso, quando hanno intrapreso quella che verosimilmente sarà l’ultima tappa del loro lungo vagare, fino all’International Center of Photography di Manhattan, fondato dal Cornell Capa, fratello di Robert, al termine di anni di negoziazioni e trattative su quale dovesse essere la loro sede più opportuna. La scoperta ha letteralmente scombussolato il mondo della fotografia, anche perché si spera che i negativi possano dirimere una volta per tutte una questione rimasta in sospeso che, per così dire, ha leso in parte la reputazione di Capa: sapere con certezza se la sua foto[grafia] più famosa in assoluto -una delle fotografie di guerra più celebri di tutti i tempi- sia solo una messa in scena o no. Nota con il titolo di “The Falling Soldier”, il soldato morente [non è proprio così, ma quasi], ritrae un uomo delle milizie repubblicane spagnole nel momento preciso in cui, su una collina nei pressi di Cordoba, nel 1936, cade all’indietro dopo essere stato colpito da una pallottola al petto o alla testa. Malgrado il biografo di Capa Richard Whelan abbia più volte sostenuto con argomenti persuasivi che quella non fu una messa in scena, i dubbi sussistono ancor oggi. Non si è mai trovato infatti il negativo di quella scena. I curatori dell’International Center of Photography, che hanno dato inizio all’operazione di catalogazione e conservazione del materiale recuperato, che si protrarrà per mesi, dicono che la storia precisa di come i circa tremilacinquecento negativi sono arrivati fino in Messico forse non si saprà mai. Ma le condizioni
dei rullini sarebbero eccellenti: «Pare proprio che le foto[grafie] siano state scattate ieri», dicono gli esperti.
IN CRONACA Riprendiamo il testo originario di Randy Kennedy, da The New York Times di domenica ventisette gennaio, che La Repubblica ha riassunto e compresso (come è peraltro legittimo che abbia fatto; più approfondita, se vogliamo rilevarlo, la corrispondenza dagli Stati Uniti di Alessandra Farkas, pubblicata sul Corriere della Sera della stessa domenica di fine gennaio: ancora, Trovata la “valigia segreta” di Robert Capa; a pagina 11). Con il resoconto di Randy Kennedy, ripartiamo dall’individuazione dei negativi di Robert Capa a Città di Messico.
E qui sono rimasti nascosti per più di mezzo secolo, fino al mese scorso, quando hanno fatto quello che è probabilmente il loro viaggio definitivo alla volta dell’International Center of Photography di Midtown Manhattan, fondato da Cornell Capa, fratello di Robert. Dopo anni di quiete, serrati negoziati su quella che avrebbe dovuto essere la loro destinazione finale hanno trasferito il titolo giuridico dei negativi agli eredi legittimi di Capa, che li hanno ottenuti dai discendenti del generale, tra i quali c’è soprattutto un regista messicano che, prendendone coscienza per la prima volta negli anni Novanta, intuì subito l’importanza storica di quanto la sua famiglia possedeva. «Questo è veramente il san-
to Graal della fotografia di Capa», ha rilevato Brian Wallis, a capo del servizio di conservazione e archiviazione dell’Icp, che ha aggiunto che oltre ai negativi di Capa, le caselle impolverate contengono fotografie della Guerra civile spagnola scattate da Gerda Taro, compagna di Robert Capa, che lo ha affiancato professionalmente sui fronti della guerra, e David Seymour, noto come Chim, che successivamente avrebbe fondato l’agenzia Magnum Photos insieme a Capa [e Henri CartierBresson e George Rodger]. Come un’onda d’urto, la scoperta attraversa il mondo della fotografia; non da ultimo perché si spera che i negativi risolvano una volta per tutte una questione che incrina l’eredità fotografica di Capa [personalmente, dissentiamo: per quanto periodicamente richiamata, secondo il nostro punto di vista la diatriba sulla veridicità della fotografia del Miliziano colpito a morte non altera quella che è stata la sua influenza sulla storia]: se quella che può essere considerata la sua immagine più celebre -e una delle più famose fotografie di guerra di tutti i tempi- è posata. Conosciuta come “The Falling Soldier” [come appena citato, in Italia comunemente tradotto in Miliziano colpito a morte], raffigura un soldato repubblicano colpito a morte, che cade all’indietro nell’istante nel quale un proiettile lo ha raggiunto al petto o in testa, su una collina vicino a Cordoba, nel 1936. Quando la fotografia è stata pubblicata per la prima volta nella rivista francese Vu [prima di apparire in Life], fece sensazione e contribuì a richiamare l’attenzione internazionale verso la causa repubblicana [e a suo favore]. Anche se Richard Whelan, il biografo di Capa, ha motivato in modo convincente l’autenticità dello scatto, le sue pur persuasive parole non hanno dissipato i dubbi che aleggia-
9
La Repubblica ha riportato la notizia del ritrovamento dei negativi di Robert Capa riassumendo il resoconto originario di The New York Times (traduzione di Anna Bissanti).
no nel mondo fotografico. In parte questo è dovuto al fatto che, durante la Guerra civile spagnola, Robert Capa e Gerda Taro non si sono mai comportati da giornalisti distaccati: erano politicamente schierati. Erano comunisti, dichiaratamente partigiani della causa lealista. Per questo, per appoggiare le proprie opinioni ricorrevano anche a fotografie posate, peraltro pratica comune a quei tempi. Il negativo della celebre fotografia di Capa non è mai stato trovato (la fotografia è solitamente riprodotta da una stampa d’epoca [che oggi conteggiamo vintage]). Quindi, riferendoci ancora al ritrovamento della valigia, l’individuazione dello scatto, se non già della sequenza originaria degli scatti, comprensiva delle inquadrature che precedono e seguono la morte del miliziano, potrebbe porre fine al dibattito. Chiudere definitivamente ogni polemica. Ma la scoperta dei negativi perduti è stata salutata come un grande evento anche per altre ragioni, nel proprio insieme più concrete e consistenti. In particolare, questi scatti degli anni Trenta compongono i tratti della formazione fotografica di un autore che, in un secolo definito dalla guerra, ha svolto un ruolo fondamentale nella definizione della sua raffigurazione e rappresentazione
10
agli occhi del pubblico, portando i suoi orrori più vicini che mai -«Se le tue fotografie non sono abbastanza buone, vuol dire che non sei abbastanza vicino [al soggetto]» è stato il suo mantra-, con una visione originale che oggi possiamo identificare come cinematografica e irreale. […]
IL MITO DI CAPA Continuiamo a leggere da The New York Times. Praticamente, Capa ha inventato la figura del fotografo di guerra giramondo, con sigaretta all’angolo della bocca e macchina fotografica al collo, pronto ad affrontare ogni avversità. Tra battaglie e bevute con Hemingway e Steinbeck, la sua franchezza con i soldati dei quali condivideva il destino e la vita gli ha permesso di osservare e raffigurare tutto con brio. William Saroyan ha descritto Capa come «un giocatore di poker il cui azzardo è stato scattare fotografie». In una ipotesi alla Warhol, che incrementa il suo fascino contemporaneo, Robert Capa ha inventato anche se stesso. Nato Endre Friedmann in Ungheria, in complicità di intenti con Gerda Taro, che incontrò a Parigi, confezionò la personalità di Robert Capa, che insieme presentavano come “famoso fotografo americano” per ottenere incarichi giornali-
stici. Capa ha incarnato e interpretato talmente bene la finzione, da farla diventare realtà. (La tedesca Gerda Taro, il cui vero nome era Gerta Pohorylle, è morta sul campo in Spagna, nel 1937, a ventisette anni di età, schiacciata da un carro armato). Per una curiosa coincidenza, lo scorso autunno sono state pubblicate le edizioni italiane di due biografie di Gerda Taro, sulle quali torneremo a breve; per ora i dati identificatori. A ottobre, la casa editrice Archinto, sussidiaria di Rcs Libri, ha distribuito in libreria L’ombra di una fotografa - Gerda Taro e la sua guerra di Spagna, di François Maspero (Éditions du Seuil, 2006; traduzione di Stefania Santalucia). Un mese dopo, è stata la volta di Gerda Taro - Una fotografa rivoluzionaria nella Guerra civile spagnola, di Irme Schaber (Jonas Verlag, 1995; traduzione di Elena Doria; edizione DeriveApprodi). Riprendiamo la lettura da The New York Times. I curatori dell’International Center of Photography di New York, che hanno avviato i processi di restauro (poco necessario), conservazione e catalogazione del consistente corpo di negativi ritrovati e recuperati, affermano che non sarà mai possibile ricostruire l’iter di questo importante materiale fotografico, che è misteriosamente passato da Parigi al Messico, superando indenne i decenni e una successiva sequenza di sconvolgimenti politici e sociali: dalla Francia alla vigilia dell’occupazione nazista al Centro America del terzo millennio. Nel 1995, Jerald R. Green, professore al Queens College, dipartimento della City University di New York, ha ricevuto
una lettera da un regista di Città di Messico, che aveva appena visto una mostra di fotografie della Guerra civile spagnola, parzialmente sponsorizzata dal suo College. Il regista comunicò di essere appena entrato in possesso di un archivio di negativi fotografici 35mm, che era stato di sua zia, che a propria volta l’aveva ereditato dal padre, generale Francisco Aguilar Gonzalez, morto nel 1967. Alla fine degli anni Trenta, il generale si trovava a Marsiglia, in Francia, da dove, con funzioni diplomatiche allineate a direttive del proprio governo, dichiaratamente vicino alla causa repubblicana, aiutava i rifugiati dalla Spagna a emigrare in Messico.
FUGA DA PARIGI Da queste certezze, altre ipotesi plausibili e probabili. In base a quello che gli esperti sono riusciti a ricostruire, combinando ricerche d’archivio con documenti in possesso di Richard Whelan, il biografo di Capa, mancato lo scorso anno, partendo per New York nel 1939 o 1940, e temendo che il suo lavoro potesse essere distrutto [con la prevedibile invasione e occupazione nazista], Capa avrebbe chiesto al suo stampatore, che gestiva la camera oscura di Parigi, l’amico e fotografo ungherese Imre Weisz, noto come Cziki, di mettere in salvo i suoi negativi. Qui si perde la loro traccia. Si presume che Imre Weisz abbia portato con sé le valige, ma fu arrestato a Marsiglia e deportato in un campo di internamento in Algeria. A un certo punto, i negativi riappaiono [a Marsiglia?] e finiscono tra le mani del generale Francisco Aguilar Gonzalez, che muore in Messico nel 1967, come già rivelato. Non è chiaro se il generale avesse coscienza di cosa si trattasse e a chi appartenessero i negativi; è comunque certo che non ha mai contattato né Capa né Weisz,
Corrispondenza dagli Stati Uniti di Alessandra Farkas per il Corriere della Sera.
che casualmente ha vissuto il resto della sua vita a Città di Messico, dove ha sposato la pittrice surrealista Leonora Carrington. (Imre Weisz è morto recentemente, a novant’anni di età; intervistato da Richard Whelan per la biografia di Capa, nel 1985, non fu in grado di fornire informazioni sullo smarrimento dei negativi).
ALL’ICP Cominciata a Parigi alla fine degli anni Trenta, la vicenda delle valige di negativi di Robert Capa, tremilacinquecento scatti, sta per concludersi a New York. «A posteriori, e alla luce del recente trasferimento definitivo dei negativi di Capa ritrovati, sembra strano che non si sia mai fatto molto per individuare questo consistente fondo», ha osservato Brian Wallis [a capo del servizio di conservazione e archiviazione dell’International Center of Photography]. «Debbo pensare che li si era dati per persi definitivamente. Come molto altro, sono scomparsi in tempo di guerra». Quando si prese in considerazione che il materiale ritenuto irrimediabilmente perso era disponibile, l’Icp si è immediatamente messo in contatto con il regista messicano che ne vantava il possesso, chiedendo che fosse restituito a chi gestisce l’eredità e conserva la memoria di Robert Capa. Ma le prime lettere inviate e le simultanee conversazioni telefoniche non approdarono a nulla, ha rivelato Phillip S. Block, vice direttore del Centro, che ha aggiunto che lui e il suo staff cominciarono anche a dubitare dell’esistenza delle valige con i negativi; anche se il regista messicano ne vantava la proprietà, non esibiva alcuna prova che convalidasse le sue parole. (A questo punto è doveroso sottolineare che la destinazione dei negativi, la loro restituzione all’Icp, per tanti versi legittimo erede di Robert Capa, è stata decisa
collettivamente dalla famiglia Aguilar Gonzalez; il regista al centro della vicenda, che peraltro ha innescato, ha chiesto di non essere identificato in questo articolo e rifiutato di essere intervistato). Il regista messicano non si è presentato ad alcuno degli incontri concordati. «Quindi, senza alcun motivo apparente, le comunicazioni si sono completamente interrotte», ha raccontato Phillip S. Block. Nessun tentativo di ristabilire i contatti ha avuto successo. Però, quando l’International Center of Photography ha cominciato a organizzare una grande mostra sulla fotografia di guerra di Robert Capa e Gerda Taro, che è stata inaugurata lo scorso ventisei settembre [in mostra fino al sei gennaio di quest’anno], si è provato di nuovo, con la speranza che nella mostra potessero essere incluse alcune immagini [inedite?] stampate dai negativi dei primi anni. «Il regista non ha mai chiesto denaro», ha annotato Brian Wallis. «Gli interessava soltanto che i negativi arrivassero nel posto giusto». Frustrato dalla latitanza del regista, il Centro ha chiesto aiuto a Trisha Ziff, studiosa e curatrice di progetti fotografici, che è vissuta a Città di Messico per molti anni. Dopo aver impegnato settimane semplicemente per rintracciare lo schivo personaggio, ha avviato una contrattazione sui negativi, che si è prolungata
per quasi un anno. «Non è che non fosse convinto di dover cedere i negativi», ha considerato Trisha Ziff, raggiunta telefonicamente a Los Angeles, dove sta completando un documentario sul conosciuto ritratto di Che Guevara eseguito da Alberto Korda. «Credo soltanto che in precedenza la questione non fosse stata affrontata in modo adeguato», ha rilevato. In parte preoccupato dalla reazione dell’opinione pubblica del suo paese, che ha un profondo legame storico con la Guerra civile spagnola, il regista ha esaminato con estrema prudenza l’eventuale trasferimento dei negativi negli Stati Uniti. «Dal mio punto di vista, non ho esercitato pressioni, rispettando e onorando il suo dilemma». Alla fine, Trisha Ziff lo ha convinto a cedere questo importante fondo fotografico: «Suppongo che mi si potrebbe definire tenace», ha concluso. Allo stesso momento, gli ha promesso l’uso delle immagini di Capa per un documentario sul recupero dei negativi, che racconterà il loro avventuroso viaggio dall’Europa al Messico, sottolineando il ruolo svolto dalla sua famiglia. «Lo incontro ancora abbastanza frequentemente», ha continuato Trisha Ziff; «sono convinta che adesso sia in pace con se stesso, convinto di aver preso la decisione giusta». A dicembre, dopo aver an-
ticipato una limitata quantità di negativi, distribuiti in due consegne precedenti, il regista ha finalmente affidato a Trisha Ziff tutto il materiale, che lei stessa a portato a New York: «Non mi sono fidata di spedirlo con un qualsiasi servizio postale», ha rilevato. «Quando ho ricevuto le valige, mi è parso che mi vibrassero tra le mani», ha confessato. «Questo è stato il momento più stupefacente di tutta la vicenda». Brian Wallis ha aggiunto che gli esperti di conservazione della George Eastman House di Rochester, coinvolti nell’analisi tecnica dei preziosi negativi, definiscono eccellenti le loro condizioni, nonostante per settanta anni siano stati tenuti senza alcuna cura specifica e finalizzata, arrotolati in cellette che sembrano scomparti di dolciumi. «Sembra addirittura che le fotografie siano state scattate ieri», ha rilevato. «I negativi non sono deteriorati e il supporto è morbido. A titolo di test, abbiamo già isolato e stampato qualche fotogramma, per valutare la consistenza di tutti i rulli».
SORPRESE Quindi, negativi perfettamente conservati. Ma non è tutto qui il problema, anche se si tratta di una condizione discriminante. Cosa si spera di trovare, tra questi negativi? Quali scoperte si nascondono tra questi scatti? Randy Kennedy si avvia alla conclusione, con considerazioni che lasciano a bocca aperta. Condizioni fisiche a parte, che pure hanno la propria importanza, i tre contenitori, uno rosso, uno verde e l’alto beige, genericamente definiti valige, stanno rivelando straordinarie sorprese. Tra l’alto, ogni serie è completa di accurate classificazioni scritte a mano da Imre Weisz, oppure da qualche altro
11
collaboratore di Robert Capa. Così, per esempio è certo che ci siano ritratti di Hemingway e Federico García Lorca. È stato individuato anche il negativo di una delle più famose fotografie della Guerra civile spagnola di David “Chim” Seymour: una donna che allatta un bambino al seno, con lo sguardo rivolto all’esterno dell’inquadratura [Riunione per la distribuzione della terra; Estremadura, 1936]. «Siamo rimasti colpiti e sorpresi», ha rivelato Brian Wallis. (Spesso altrimenti identificata e attribuita, per esempio a uno sguardo rivolto al cielo per scoprire e individuare eventuali stormi di bombardieri in volo, questa fotografia è citata da Susan Sontag nel suo saggio Davanti al dolore degli altri, esame critico di immagini di guerra e sofferenza
che nel 2003 si è aggiunto alle sue originarie riflessioni del precedente Sulla fotografia). L’analisi approfondita dei negativi potrebbe anche portare a una doverosa rivalutazione della oscura carriera fotografica di Gerda Taro, una delle prime fotografe (al femminile) di guerra; addirittura, potrebbe rivelare che in realtà sono sue alcune immagini fino a oggi attribuite a Robert Capa. Compagni di vita, i due fotografi hanno lavorato insieme, a stretto contatto; a volte hanno firmato congiuntamente alcuni dei loro primi reportage, tanto che non è più possibile stabilire l’esatta paternità degli scatti. A questo proposito, Brian Wallis è andato oltre, molto oltre: ha addirittura ipotizzato che ci sia una remota possibilità che “The Falling Soldier” [il Miliziano colpito a mor-
te] potrebbe essere una fotografia di Gerda Taro e non di Robert Capa [il che, se fosse appurato, costringerebbe a riscrivere capitoli fondamentali della storia della fotografia!]. «Si tratta di una [azzardata!] teoria lanciata in questi giorni», ha rilevato. «Concretamente, non ne sappiamo nulla; e dunque si apre il campo per ipotesi a tutto tondo, alcune anche fantasiose o fantascientifiche. Di certo, questo materiale fotografico è tanto eccitante, che non possiamo neppure immaginare quali domande potranno sorgere e quali risposte potremo dare». In ultima analisi, ha detto Brian Wallis, la scoperta è epocale, perché questi negativi rappresentano un consistente corpo di immagini che definiscono e stabiliscono addirittura la nascita della
BIANCO E NERO laboratorio fotografico fine - art solo bianco & nero
UMICINI GIOVANNI VIA VOLTERRA 39 - 35143-PADOVA
PH. & FAX 049 720 731 e-mail : gumicin@tin.it
moderna fotografia di guerra. «Autentico caposcuola, così l’ha incoronato la storia, Capa ha stabilito un modo e il metodo di raffigurare la guerra: e queste sono le prime fotografie di guerra che ha scattato. Il fotografo non è solo un osservatore di avvenimenti, ma è lui stesso in battaglia: e questo è diventato lo stilema che da allora è arrivato al pubblico e ha riempito le pagine dei giornali», è la riflessione definitiva. «È tutto qui: una fotografia che porta l’osservatore dentro l’avvenimento. Si è trattato di una rivoluzione visiva, di una trasformazione del linguaggio fotografico che è nata in quegli anni, che si è cimentata in quella guerra, che comincia con queste prime immagini». Maurizio Rebuzzini (con sua libera traduzione)
700.
Il segreto delle incredibili prestazioni della reflex Sony 700 è racchiuso nel nuovissimo sensore Sony CMOS Exmor da 12,24 megapixel effettivi che assicura immagini nitide e con un basso livello di rumore a qualsiasi sensibilità ISO. L’uscita in HDMI, con modalità Photo TV HD, ti permetterà di vivere le tue immagini in Alta Definizione su schermi Full HD, con un risultato da grande cinema!
www.sony.it/reflex
‘Sony’e ‘like.no.other’ sono marchi registrati di Sony Corporation, Giappone.
Nuova Reflex Sony
SHIFT & TILT. Ovvero: decentrabile e basculabile. Tutto ciò, e qualcosa di più, è il nuovo PCE Nikkor 24mm f/3,5D ED, un obiettivo estremamente specialistico, adatto sia alla fotografia tradizionale, su pellicola 35mm per esposizioni 24x36mm, sia all’acquisizione digitale di immagini, con reflex Nikon dotate di sensore DX di dimensioni inferiori al fotogramma tradizionale o sensore FX pieno formato (Nikon D3; FOTOgraphia, ottobre e dicembre 2007). Dotato di movimenti micrometrici di decentramento e basculaggio, il nuovo PC-E Nikkor 24mm f/3,5D ED consente un effettivo controllo della prospettiva: è ideale tanto per la fotografia di architettura e paesaggio, indirizzo privilegiato, quanto per la ripresa in studio. Le ampie possibilità di basculaggio, comprese nel consistente intervallo da più a meno 8,5 gradi, e le estese opportunità di decentramento, che vanno da più a meno 11,5mm, garantiscono eccellenti e raffinate prestazioni fotografiche. Una volta fissato sul corpo macchina reflex, all’intramontabile montatura a baionetta Nikon F, il PC-E Nikkor 24mm f/3,5D ED può essere ruotato fino a 90 gradi nelle due direzioni, verso destra e sinistra, con comodi punti di arresto a intervalli di 30 gradi: così da orientare e dirigere i movimenti di accomodamento rispetto la composizione dell’immagine. È compatibile con i sistemi di messa a fuoco di tutte le reflex Nikon, e consente il controllo dell’apertura automatica del diaframma con le recenti configurazioni Nikon D3 e D300 (FOTOgraphia, ottobre e
14
dicembre 2007). Tecnicamente, la combinazione tra decentramento e basculaggio dirige lo spostamento calibrato degli elementi ottici interni, per consentire il controllo della prospettiva (Perspective Control, PC), che riduce o elimina la convergenza dell’angolo di visione in relazione al soggetto. Indispensabile nella fotografia di architettura, soprattutto in relazione alle linee (altrimenti) cadenti degli spigoli verticali, il controllo della prospettiva risulta prezioso anche in studio, in quanto consente di distribuire micrometricamente l’estensione (o la contrazione) della profondità di campo, ovvero della nitidezza. Quarantacinque anni abbondanti dopo il primo obiettivo Nikkor decentrabile -l’originario PC-Nikkor 35mm f/3,5 del 1961-, l’attuale PC-E Nikkor 24mm f/3,5D ED presenta e offre una personalità fotografica sostanzialmente diversa, al passo con l’attuale clima tecnico. Tanto che sono stati già annunciati i disegni ottici PC-E Micro Nikkor 45mm f/2,8D ED e PCE Micro Nikkor 85mm f/2,8D ED, che nel corso dell’anno arricchiranno la gamma dei Nikkor decentrabili e basculabili. Quindi, le focali sistematicamente maggiori stanno a indicare intendimenti che non si limitano alla fotografia in esterni, ma che, come abbiamo appena sottolineato, assolvono anche la fotografia in sala di posa. Nell’uso, la regolazione del PC-E Nikkor 24mm f/3,5D ED si basa sull’impiego di efficaci comandi: tra i quali il pulsante di chiusura del diaframma in stopdown, la ghiera di messa a fuoco manuale (da 21cm) e le manopole per la disposizione micrometrica dei movimenti lineari (di decentramento) e rotatori (di basculaggio). L’impiego combinato del rivestimento Nikon Nano-Crystal, tre lenti in vetro ED a basso indice di dispersione ed elementi asferici garantisce una alta qualità ottica. Sono ridotte al minimo le immagini fantasma,
i riflessi parassiti e l’aberrazione cromatica. La scala dei diaframmi chiude fino a f/32. (Nital, via Tabacchi 33, 10132 Torino).
KENTMERE. Già distributrice nazionale della linea di carte Ilford, sia fotografiche bianconero sia per stampa a getto di inchiostro, Unionfotomarket ha acquisito l’esclusività anche per lo storico marchio Kentmere, la cui gamma di prodotti è stata recentemente incorporata dalla stessa Ilford. Si tratta di una famiglia di raffinate carte bianconero, baritate e politenate, particolarmente apprezzata nel selettivo mondo della fotografia fine art, animato da autori di fama internazionale e artisti. Il marchio Kentmere viene conservato. Allo stesso momento è ribadita la linea di carte bianconero, con consistente quantità di formati e superfici. Con l’occasione, ricordiamo che molte delle fotografie che appartengono alla Storia, così come molte delle stampe che vengono battute in asta (a quotazioni sempre crescenti: la fotografia d’arte è di grande moda; FOTOgraphia, dicembre 2007), sono stampate su carta Kentmere, che garantisce la massima restituzione di toni e un adeguato contrasto, definito da alte luci brillanti e aree in ombra perfettamente leggibili. (Unionfotomarket, viale Certosa 36, 20155 Milano; e filiali a Torino, Verona, e Ancona; Centro Servizi a Genova, Bologna e Udine).
DUE E OTTOCENTO. I nuovi teleobiettivi con stabilizzatore di immagine Canon EF 200mm f/2L IS USM e EF 800mm f/5,6L IS USM sono inviolabilmente professionali: l’indirizzo esclusivo è sottolineato sia dai rispettivi costi di acquisto, sostenuti come è logico e inevitabile che siano, sia dalla consecuzione di prerogative tecniche di profilo assolutamente alto e specialistico. Su queste focali tele, una lun-
ga l’altra lunghissima, lo stabilizzatore Canon IS è più che opportuno, indispensabile addirittura, perché consente di impostare tempi di otturazione quattro volte più lunghi: il risultato dello scatto a 1/60 di secondo con stabilizzazione IS equivale a quello di 1/1000 di secondo senza. Ovviamente, la funzione IS si disattiva automaticamente quando la reflex Canon Eos è montata su treppiedi, in modo da evitare il conflitto tra il sensore IS e le vibrazioni del motore interno. L’EF 200mm f/2L IS USM ad alta luminosità relativa, appunto f/2, si indirizza alla fotografia di sport, in interni e al ritratto. La qualità delle sue riprese è garantita da un disegno comprensivo di un elemento ottico alla fluorite, per l’eliminazione delle aberrazioni cromatiche. Allo stesso momento, il super tele EF 800mm f/5,6L IS USM potenzia la gamma ottica Canon: è la focale più lunga del sistema ottico EF. Adeguatamente leggero da consentire lo scatto senza l’ausilio di treppiedi, è finalizzato alla fotografia di sport e natura. Ancora, si registra l’adozione di lenti UD e Super UD, a basso indice di dispersione, e alla fluorite. Entrambi possono utilizzare il moltiplicatore di focale Canon Extender EF 1,4x II, che incrementa sensibilmente i rispettivi ingrandimenti visivi: fino alle focali 280mm e 1120mm, sempre con stabilizzazione di immagine fino a quattro stop. (Canon Italia, via Milano 8, 20097 San Donato Milanese MI).
COPERTINA TRUFFALDINA
A
Alla voce “truffa”, il Vocabolario della lingua italiana di Nicola Zingarelli (edizione Zanichelli) recita: «Reato di chi con artifizi o raggiri, inducendo taluno in errore, procura a sé o ad altri un ingiusto profitto con altrui danno». Questa definizione è applicabile alla pubblicazione da parte del settimanale Chi dello scorso quindici febbraio di una copertina con una fotografia di Carla Bruni in abito da sposa e Nicolas Sarkozy in abito da cerimonia alle sue spalle? Vediamo. Intanto, osserviamo che alla fotografia fanno da contorno lo strillo “edizione straordinaria” (in collegamento diretto alla testata) e un occhiellone Carla Bruni - La cronaca del “sì” all’Eliseo con il presidente Sarkozy e una notizia a sorpresa, che introduce il titolo Dopo
le nozze un figlio, al quale “tira la volata”, come si dice. Cosa può pensare chi vede in edicola una copertina del genere? Può pensare che quel furbacchione del direttore di Chi, Umberto Signorini, è riuscito a fregare tutti i concorrenti procurandosi le fotografie del chiacchierato matrimonio, introvabili e giornalisticamente ambìte come una apparizione della Madonna di Lourdes. Comprare, comprare subito, guardare che faccia avevano i due vip quando si sono sposati, chi erano i testimoni: ci sarà stata una lacrima sul viso? Peccato, però, che l’acquirente è rimasto poi deluso: nessuna fotografia della cerimonia nuziale, che si è svolta in forma totalmente privata in
Copertina di Chi con richiamo fotografico truffaldino: non si tratta di una fotografia dal matrimonio del presidente francese Nicolas Sarkozy con Carla Bruni, ma di una combinazione tra due scatti singoli e separati dei personaggi. Certo, in caratteri minuti, questo è anche certificato, ma il richiamo in edicola rimane truffaldino, sia nella propria forma sia nelle intenzioni del settimanale.
16
una sala dell’Eliseo. Forse la cronaca del “sì” contiene qualche parvenza di verità (siamo abituati a leggere cronache inventate di sana pianta da giornalisti dalla penna facile), ma certo le fotografie non esistono. L’acquirente, speriamo, si incazza. Per come è stato raggirato. Ma è stato veramente raggirato? Se avesse osservato meglio la copertina, si sarebbe accorto che nell’angolo in basso a destra, sotto il codice a barre di gestione del giornale, c’è un avvertimento in corpo tipografico microscopico: «Carla Bruni e Nicolas Sarkozy in una elaborazione fotografica di “Chi”». Appunto, scritto in grassetto, corpo otto, certamente quasi invisibile, salvo che il lettore non utilizzi la lente di Sherlock Holmes ed esamini con pignoleria ogni angolo della copertina dei giornali che compra. La postilla-alibi assomiglia molto a quei contratti che banche e assicurazioni ti fanno firmare, sui quali, come sappiamo, le clausole più importanti da leggere sono quelle scritte in piccolo. Ma con banche e assicurazioni stiamo accorti, perché sappiamo che stiamo trattando con una versione, fuori dal fumetto, della Banda Bassotti. Ma adesso dobbiamo comportarci così anche con i giornali? Perciò, alla domanda iniziale diamo questa risposta: magari non si tratta di truffa ma di qualcosa che rasenta il comportamento truffaldino. La combinazione fotografica della copertina di Chi, che per il pubblico è una fotografia giornalistica, ha accostato e fuso prospetticamente insieme una Carla Bruni in abito bianco, fotografata chi sa dove e quando, con un elegante Nicolas Sarkozy, a propria volta fotografato in altro momento e altra circostanza. Purtroppo dobbiamo concludere che erano certamente più rassicuranti e credibili, anche se inventate (e dichiarate tali), le prime pagine della Domenica del Corriere disegnate da Walter Molino. Altri tempi, altra classe, altro giornalismo. L.P.
POLAROID, ULTIMO ATTO (?)
C
Con una successione di lanci di agenzia, sabato nove febbraio è rimbalzata in tutto il mondo una comunicazione devastante per il circolo e mercato della fotografia. Prontamente ripresa dai quotidiani nazionali la mattina seguente, domenica dieci, la notizia è presto sintetizzata: Polaroid smette di produrre le pellicole integrali a sviluppo immediato, quelle espulse automaticamente dall’apparecchio fotografico con il quale sono state scattate, che si rivelano alla luce. Restano in bilico le emulsioni a strappo, in filmpack o pellicola piana singola, in relazione ai formati di ripresa; e aleggia una speranza: che qualcuno rilevi la produzione e la faccia continuare. Ipotesi a parte, rimane l’amarezza di una fine annunciata, che chiude(rebbe) uno dei più affascinanti capitoli della storia della fotografia, che tanto ha influito sul suo stesso linguaggio espressivo: senza soluzione di continuità, dalla fotoricordo familiare (e intima di cop-
18
pia!) all’intenzione artistica. In uno dei prossimi mesi, rifletteremo sul fenomeno “polaroid”, al quale abbiamo già riservato attenzioni in occasione del recente sessantesimo anniversario dal lancio della fotografia a sviluppo immediato (1947-2007, in FOTOgraphia del febbraio 2007). Per ora, soltanto questa rapida segnalazione, con la testimonianza di tre pagine di quotidiani italiani di domenica dieci febbraio, sintonizzati sulla medesima lunghezza d’onda: La Stampa: «Polaroid, ultimo scatto per un mito»; Corriere della Sera: «L’ultima Polaroid, addio al mito anni ’70»; La Repubblica: «Polaroid addio - Per “Magic camera” è l’ultimo scatto». Parliamone.
DECLINAZIONI Ovviamente, l’identificazione e certificazione “Polaroid” appare in tutti e tre i titoli, e non potrebbe essere altrimenti. Quindi, immediatamente a seguire, annotiamo che la definizione e quantificazione finale è altrettanto presente: “ultimo scatto”, per
Domenica dieci febbraio: La Stampa: «Polaroid, ultimo scatto per un mito»; Corriere della Sera: «L’ultima Polaroid, addio al mito anni ’70»; La Repubblica: «Polaroid addio - Per “Magic camera” è l’ultimo scatto».
La Stampa e La Repubblica, e “ultima Polaroid”, per il Corriere della Sera. Poi, si va a due a due: “mito”, nei titoli del Corriere e della Stampa; “addio”, in quelli della Repubblica e del Corriere, ancora. Restando in argomento, linguisticamente parlando, prendiamo le distanze dal Corriere della Sera, quando e per quanto afferma “L’ultima Polaroid”, perché con questa scrittura, con la “P” maiuscola, si dovrebbe intendere l’azienda e non “polaroid” come sinonimo di fotografia a sviluppo immediato (a partire dal nome proprio). Ma non è questo il problema, e forse neppure un problema. Avanti nelle considerazioni, registriamo tre illustrazioni di richiamo sostanzialmente allineate tra loro: allegro autoritratto con apparecchio folding SX-70, oppure della serie avviata dall’originaria SX-70, per La Stampa (i toni scuri della riproduzione non consentono l’identificazione certa); superitratto di Andy Warhol con polaroid (fotografia di Oliviero Toscani), in artificiosa cor-
LUCA VENTURA
sione del lancio della SX-70 (che replichiamo qui sotto), la prima a pellicola integrale a colori autosviluppanti: appunto, la “Magic Camera” richiamata nel titolo di La Repubblica. Anche tra le parole, rievocazioni e testimonianze rileviamo qualche sovrapposizione: Oliviero Toscani che risponde al Corriere della Sera («Troppo chimica, ma anch’io l’ho amata») e presenzia su La Repubblica, con il ritratto di Andy Warhol appena ricordato; lo stesso Andy Warhol che appare in tutte le rievocazioni, aggiungendo un suo ritratto con copia SX-70 tra le mani (La Stampa) e un autoritratto in SX-70 (Corriere della Sera, per il quale l’anno dello scatto è sconosciuto: datiamo con certezza al 1978, dalla monografia di autoritratti in polaroid riuniti nell’edizione speciale di Camera del set-
nice SX-70 che fuoriesce da un apparecchio di tipo familiare, per La Repubblica; l’attrice Hearther Graham (nei panni di Brandy “Rollergirl”), da Boogie Nights - L’altra Hollywood, di Paul Thomas Anderson, del 1997 (senza credito), per il Corriere della Sera. [Attenzione: definiamo “superitratto” quello di Andy Warhol, eseguito da Oliviero Toscani, in relazione alle riflessioni sul ritratto multiplo riportate in nostri interventi redazionali consecutivi, a partire dal marzo 1999].
ALTRE COINCIDENZE I tre quotidiani si sintonizzano, quindi, sulla presenza della copertina di Life del 27 ottobre 1972, in occa-
La pellicola integrale a sviluppo immediato nasce nel 1972 con l’originaria Polaroid SX-70, alla quale furono dedicate le copertine di Time e Life del ventisei giugno e ventisette ottobre.
tembre 1978, ricordata su questo stesso numero, a pagina 62; a questa serie appartiene anche l’autoritratto di Gian Paolo Barbieri, di anno analogamente sconosciuto per il quotidiano milanese). Soltanto La Stampa illustra l’originaria Model 95 del 1948, la prima messa in vendita (dal ventisei novembre, ai grandi magazzini Jordan Marsh di Boston), mentre gli altri due quotidiani vanno un poco più sul generico, con la stessa macchina fotografica recuperata in Rete. Ancora, e poi basta, La Repubblica parte per la tangente quando attribuisce a polaroid lo scatto di Douglas Kirkland di Marilyn Monroe tra lenzuola bianche, che invece fu realizzato con Hasselblad (FOTO graphia, dicembre 2002), e una istantanea di John F. Kennedy a Dallas, prima dell’attentato mortale del 22 novembre 1963 (FOTO graphia, novembre 2003), che polaroid non può essere e non conterebbe nulla se anche lo fosse. In chiusura: la più celebre delle polaroid entrate nella storia italiana, quella dell’onorevole Aldo Moro sequestrato dalle Brigate Rosse, è ricordata da La Repubblica e La Stampa. Infine, il quotidiano torinese spiazza tutti, rievocando la campagna pubblicitaria del 1961, declinata su una doppia testimonianza simultanea: il jazzista Louis Armstrong fotografato da Bert Stern. M.R.
festival Cinema de femmes, che si svolge a Creteil, in Francia, dal quattordici al ventitré marzo (www.filmsdefemmes.com), viene presentato il film Fine della storia di Letizia Battaglia (intervista sullo scorso numero di febbraio), che si cimenta come regista. Il film, un corto di diciotto minuti, è stato realizzato con budget strettissimi, messi a disposizione dalla Cooperativa Viartisti di Torino. Unica attrice Serena Barone, musiche di Giovanni Sollima (violoncellista e compositore). Essenziale è il commento al film, scritto da Lorenzo Baldo, giornalista di AntimafiaDuemila, periodico di “Informazioni su Cosa Nostra e organizzazioni criminali connesse” fondato da Giorgio Bongiovanni (www.antimafiaduemila.com), che con semplicità valuta la forza delle immagini. Il suo è un apprezzamento schietto ed efficace. «Immagini di passione, sete di giustizia, rabbia, disperazione e poi ancora disillusione, sconfitte, ma anche amore, speranza, orgoglio di continuare a lottare. Lottare per continuare a vivere, per non dargliela vinta. Mai. A qualunque costo. Fine della storia. Ma questa storia non finisce, ti entra dentro la carne, diventa parte di te e allora anche tu diventi una fotografia sospinta dalle onde, una fotografia che brucia, un grido, una risata, un pianto strozzato, un albero ai piedi del quale dei bambini tornano a giocare. E mentre il film scorre ti domandi come lotterai per continuare la storia».
20
copertina, sagacemente aggiornata su Cuore. Furio Colombo non osava leggere questi settimanali sui voli interni americani, per non essere scambiato per un pornofilo.
Evgenii Khaldei e Joe Rosenthal a Visa pour l’Image 1995. TONY NEWITT
LETIZIA BATTAGLIA, REGISTA. Al
Ancora nel 2008! Avvenente richiamo in copertina, completamente estraneo ai contenuti della rivista.
LA SEXY NEWS. I giornali mettono
COSA VENDE QUESTO GIORNALE? I maschietti pieni di testoste-
sparagnocche in copertina? In inverno, regalano il culendario? E noi mettiamo annunciatrici nude nel telegiornale! Da metà marzo (e per ora solo su Internet, www.nakednews.it), si potrà accedere anche in Italia allo show di maggior successo della Tv via cavo americana, Naked News. Marco Ottolini, l’uomo che sta lanciando l’iniziativa da noi, naturalmente dichiara: «Vogliamo informare la gente in modo non noioso». Il tg, che durerà un quarto d’ora, potrà essere visto solo su abbonamento (dieci euro al mese). Prevista anche una versione per telefonini, dove però il nudo non sarà integrale: solo topless. È in corso una trattativa per trasmettere il Naked News anche su una piattaforma Sky. Si teme un aumento dell’onanismo.
rone non si illudano. Copertina a parte, in Jack, mensile Gruner/Mondadori, non ci sono altre immagini per accarezzare i loro bollenti desideri. Cosa c’è allora nelle sue pagine? Telefonini, computer, navigatori satellitari e altre diavolerie tecnologiche. E allora perché una copertina così? La cattiva abitudine di occultare dietro la cover-gnocca i veri “prodotti” di cui parla il periodico viene da lontano. Chi può aver dimenticato le copertine di Espresso e Panorama di una decina e più di anni fa?, che ispirarono anche la classifica settimanale di (inutili e superflui) “culi” e “tette” in
ANCORA REICHSTAG. Lo scorso diciotto gennaio, alle 22,40, da Berlino, l’agenzia di stampa Ansa ha rilanciato la notizia pubblicata dal quotidiano Die Welt, della morte di Mikhail Petrovic Minin, ottantacinque anni, il soldato dell’Armata Rossa che ha effettivamente issato la bandiera sovietica sul Reichstag. Che io sappia, dell’evento esistono (almeno) cinque versioni, non molto distanti una dall’altra (e comunque abbiamo approfondito in FOTOgraphia del giugno 2005, nel sessantesimo anniversario, in occa-
Si torna a parlare della celebre fotografia di Evgenii Khaldei: la bandiera rossa issata sul Reichstag, una delle icone del Novecento. A ottantacinque anni di età, è morto Mikhail Petrovic Minin, indicato come il soldato dell’Armata Rossa che ha effettivamente issato la bandiera sovietica sul Reichstag. E il carosello delle identità è vasto ed eterogeneo.
sione di una sostanziosa retrospettiva fotografica allestita a Berlino). La prima è quella riportata anche dai quotidiani italiani il diciannove gennaio, a commento della scomparsa di Mikhail Petrovic Minin: scattata da Evgenii Khaldei (o Yvgeni Khaldi o Evgenij Chaldej), la fotografia che certifica la caduta di Berlino fu realizzata il 2 maggio 1945, due giorni dopo l’effettiva conquista della capitale tedesca. Come è noto, su ordine di Stalin, Evgenii Khaldei ricostruì l’ipotetico e plausibile alzabandiera facendo posare tre soldati. In seguito, in un incessante carosello di nomi, l’atto eroico fu attribuito a Meliton Kanataria (ma anche ad altri), perché proveniva dalla Georgia, la regione natia del dittatore sovietico. La seconda versione mi fu raccontata a Perpignan nel 1995 da Evgenii Khaldei in persona, quando fu ospite d’onore di Visa pour l’Image, insieme a Joe Rosenthal, autore della fotografia della bandiera americana issata sull’isola di Iwo Jima (qui sopra). Evgenii Khaldei mi disse che lui seguì i soldati che stavano andando sul tetto del Reichstag e scattò la fotografia in una situazione pericolosa, perché la città era ancora piena di cecchini tedeschi nascosti tra i comignoli. Secondo lui, lo scambio dei (nomi dei) soldati avvenne solo a Mosca, quando Stalin insignì Meliton Kanataria dell’Ordine di Lenin, perché voleva che l’eroe fosse georgiano come lui. Evgenii Khaldei mi disse anche che la fotografia ufficiale fatta circolare venne ritoccata. Il soldato
che alzava la bandiera portava due orologi, uno sul polso destro e uno sul polso sinistro, e ciò era la prova che i soldati dell’Armata Rossa predavano i cadaveri. Stalin fece togliere un orologio (e così abbiamo raccontato nel giugno 2005). La terza versione la trovo sul sito www.answers.com/topic/reichstag-building, che afferma che sul tetto del Reichstag salirono quattro soldati: Mikhail Petrovic Minin, Gazi Zagitov, Aleksei Bobrov e Aleksandr Lisimenko. Fu solo alla fine della guerra che a Mosca si cambiarono le identità, certificando che sul tetto erano saliti per primi Meliton Kanataria e Michail Jegorow. Una ulteriore versione è fornita dal sito www.wapedia.mobi/en/150th_Rifle_Division. Il due maggio, Evgenii Khaldei avrebbe fotografato due soldati del 756esimo reggimento di fucilieri, tale Kovaliev e un suo compagno rimasto senza nome. Un’altra bandiera sarebbe stata issata il giorno prima, cioè il Primo maggio, mentre il Reichstag veniva sgomberato dagli ultimi tedeschi. Il fatto però sarebbe avvenuto dopo il tramonto e non c’era più luce per la fotografia. Fu solo dopo il ritorno di Evgenii Khaldei a Mosca che Stalin decise che Kovaliev non gli andava bene e ordinò di attribuire l’alzabandiera a Meliton Kanataria e Michail Jegorow. Quindi, in occasione della retrospettiva di Berlino dell’estate 2005, Alexejev Nicolaiev, Abdullhakim Ismaiilow e Leonid Gorjatschov furono segnalati come i tre autentici protagonisti della fotografia, in correzione dell’ufficialità staliniana di Meliton Kanataria, Michail Jegorow e Konstantin Samsonow. Come insegna il grande Akira Kurosawa nel suo film Rashomon, ogni racconto di un fatto può perdersi in molte verità.
SOFTWARE PER LA RICERCA DELLE IMMAGINI. La svedese Polar Rose (www.polarrose.com) ha catalogato i ritratti di oltre cinque milioni di persone e personaggi. Tutti questi ritratti rappresentano la base sulla quale il gruppo svedese (diciassette scienziati e studiosi, divisi tra le università di Lund e Malmö) sta costruendo un software per il riconoscimento delle immagini.
La svedese Polar Rose ha catalogato i ritratti di oltre cinque milioni di persone e personaggi: base per costruite un software per il riconoscimento delle immagini.
Oggi, circa il dieci per cento delle ricerche su Google riguarda immagini. Che vengono però ritrovate in base a parole chiave che le accompagnano e non in relazione alle loro caratteristiche iconografiche. È il sogno di tutti, quello di poter ricercare sul proprio computer una fotografia in base ai propri contenuti: spiaggia, ombrellone blu, bambini con cappellino rosso. Siamo evidentemente ancora molto lontani, ma l’idea del gruppo Polar Rose sembra strategica, se è vero, come si legge su Internet, che Google ha acquistato Never Vision e Microsoft controlla SeaDragon Software: appunto, entrambe software house specializzate nel riconoscimento delle immagini.
BREVETTI A GOGO. Secondo l’IFI Patent Intelligence (Information for Industry; www.ificlaims.com), il più accreditato istituto che tiene monitorato il numero dei brevetti approvati ogni anno, con tremilacentoquarantotto (3148) brevetti depositati nel 2007 l’Ibm si conferma al primo posto, come da molti anni. Effervescenti le case che dominano il settore della fotografia digitale: Samsung è al secondo posto (duemilasettecentoventinque brevetti; 2725), Canon al terzo (millenovecentottantasette; 1987), Sony all’ottavo (millequattrocentottantuno; 1481), HP al decimo (millequattrocentosettanta; 1470), Seiko Epson al tredicesimo (milleduecentootto; 1208), Ricoh al diciottesimo (settecentoventotto; 728), Nokia al ventiduesimo (seicentottantadue; 682), Fujifilm al ventiquattresimo (seicentosessantadue; 662), Sun Microsystems al ventiseisimo (seicentodieci; 610) e Eastman Kodak al trentacinquesimo (quattrocentonovantatré; 493).
Quante fantastiche interpretazioni delle fotografie di Marte, con le quali si specula sull’illusione collettiva, andando a offrire significati per palati grossolani.
Da osservare che l’Uspto, l’ufficio brevetti americano, riceve molte più richieste di quante possa evaderne. I brevetti in attesa di approvazione sono più di un milione.
ILLUSIONE, CHIMERA MARZIANA SEI TU. Marte è il pianeta che più ha ispirato le fantasie umane. Non è la prima volta che segni sulle immagini del pianeta rosso vengono confusi per tracce lasciate da antiche civiltà. Capitò di scambiare ombre e sagome per il profilo di Nefertiti e, ancora più famosa, è una formazione rocciosa che assomiglia al volto di un uomo in vicinanza di piramidi e di una città (?). Questa immagine fu ripresa il 25 luglio 1976 dalla sonda Viking 1. La risoluzione è bassa (640x480 pixel), ma a quel tempo veniva definita alta dalla Nasa, l’ente spaziale statunitense. Alla fine di gennaio, quando su Internet è apparsa una fotografia scattata nel 2004 da Spirit, un veicolo esploratore della Nasa che opera su Marte, sui più importanti media sono subito ricominciate le interpretazioni fantastiche. Anche perché si dice che, subito dopo lo scatto, Spirit cessò per qualche tempo di funzionare. Nella fotografia appare una figura che ricorda vagamente la Sirenetta di Copenhagen. Il termine paraeidolia (dal greco para=oltre e eidolon=immagine) è stato coniato da Steven Goldstein nel 1994, per descrivere fenomeni percettivi che in un individuo provocano la sensazione di vedere qualcosa che abbia un significato, quando invece si tratta solo di segnali (visivi o sonori) confusi e casuali. Quindi, non di sirenetta si tratta ma di paraeidolia. Nel frattempo, Spirit e il suo gemello Opportunity continuano a lavorare su Marte.
21
Concreto convegno sul linguaggio che la televisione utilizza per promuovere il sociale. Gli atti si possono richiedere da fine marzo a Anna Cacopardo:
LA TELEVISIONE PER IL SOCIALE. Il primo e due febbraio, a Lecco si è tenuto un avvincente convegno sul linguaggio che la televisione utilizza per promuovere il sociale. Organizzato dall’attivissimo Cis (Centro Studi d’Impresa), creato da Giacomo Corno, commercialista e aziendalista a Lissone, in provincia di Milano, l’incontro ha impegnato specialisti della comunicazione e del no-profit. Tra i tanti, citiamo Alberto Contri, presidente della Fondazione Pubblicità Progresso, Massimo Ciampa di Mediafriend Onlus di Mediaset, Enrico Bertolino, l’attore comico, che ha parlato di un suo progetto realizzato in Brasile, Marco Roveda, fondatore di Lifegate. Da segnalare uno straordinario intervento video di Milena Gabanelli, la giornalista di inchiesta di Rai 3, che attraverso la sua storia professionale ha illustrato quali sono i fondamenti del giornalismo per immagini. Alla fine di marzo, gli atti saranno disponibili rivolgendosi a Anna Cacopardo: anna.cacopardo@ciscorno.it.
CREMA O CREMONA? Segnaliamo che La Repubblica del sette gennaio, in un articolo dedicato a Cremona dal titolo Cremona, liutai, frisone e buon vivere - La città delle occasioni sprecate, a firma di Franco Marcoaldi, dimostra che, a volte, il titolo (o almeno una sua parte: occasioni sprecate) è profeta in patria. Infatti, la bella fotografia di Pepi Me-
22
risio che illustra l’articolo non rappresenta la piazza del Duomo di Cremona, peraltro inconfondibile, data la presenza del celeberrimo Torrazzo, a tutti gli effetti autentico simbolo della città lombarda, ma quella di Crema, cittadina della provincia. Tra l’altro, la fotografia è degli anni Settanta, come rivelano i modelli di automobili che si intravedono: quindi, anche dal punto di vista dell’attualità questo è un modo bizzarro di illustrare un articolo che racconta la Cremona di oggi con un’immagine (sbagliata) di trent’anni fa. Almeno.
CENTOVENTI NEL MONDO, DIECI IN ITALIA. Compie centoventi anni National Geographic Magazine, il mensile dal caratteristico bordo giallo, che, da solo, senza le edizioni estere che oggi esistono nel mondo (è pubblicato in ventisei lingue, tra le quali il cinese, il portoghese brasiliano, il turco, lo svedese, il giapponese), all’inizio degli anni Novanta vendeva dodici milioni di copie (solo su abbonamento). Per coincidenza, l’edizione italiana ne compie dieci. L’avventura del Magazine inizia a Washington nel febbraio 1888, come bollettino della neocostituita National Geographic Society. Spesso si attribuisce a Life la nascita del fotogiornalismo (ignorando peraltro le testate tedesche della fine degli anni Venti), ma in realtà è il National Geographic la vera madre di tutti i reportage. La conquista dei Poli, con le testimonianze dirette di Robert Peary e Roald Amundsen (1909 e 1911), il terremoto di San Francisco (1906), le prime fotografie notturne di animali di George Shiras (1906), le prime fotografie a colori pubblicate nel 1910 (bianconeri su Cina e Giappone scattati da William Chapin, colorati a mano), la trasvolata atlantica senza scalo di Charles Lindbergh (1927), la prima fotografia subacquea a colori di John Oliver La Gorce (1926), il Kon-Tiki di Thor Heyerdahl (1947), la missione dell’Alvin di Robert Ballard che trovò il Titanic (1986), il Botswana di Frans Lanting, al quale la Society dedicò un intero numero (unico caso nelle sua storia; 1990), Dian Fossey e i suoi gorilla (1981), la scoperta del Machu Picchu (1911), Edmund Hillary e la conquista dell’Everest (1954).
Clamoroso fu il caso dell’intervento (sostanzialmente insignificante) su una fotografia delle piramidi di Giza (Cairo), con spostamento delle piramidi stesse per farle entrare nella copertina (1982). La polemica che ne seguì tra i lettori andò avanti per anni, e il fatto è uno dei più citati quando si parla di manipolazioni nel fotogiornalismo. A parte questa pagliuzza, il National è stata la vera e unica Università per un numero infinito di fotografi: grazie National.
ALEXANDRA BOULAT. Il Toscana Photographic Workshop (www.tpw.it) offre una borsa di studio per onorare la memoria di Alexandra Boulat, che per tanti anni ha insegnato al TPW, prematuramente scomparsa lo scorso autunno (FOTOgraphia, novembre 2007). Rivolta a giovani fotografi di età non superiore ai trentacinque anni, la borsa consiste nella possibilità di frequentare gratuitamente, vitto e alloggio inclusi, un corso estivo al TPW. Rimangono a carico del borsista solo le spese di viaggio. Per partecipare alla selezione è necessario inviare entro il trenta aprile un CD contenente da uno a tre progetti di quindici-venticinque fotografie ciascuno (si richiede una risoluzione di 100dpi, lato lungo 1200 pixel; includere la descrizione dei progetti e le didascalie), i dati personali e il curriculum vitae. Una prima selezione dei lavori sarà a cura del TPW. La scelta del vincitore avverrà invece insieme a membri dell’Agenzia VII, della quale faceva parte Alexandra Boulat. TPW, Casella Postale 931, Bologna Centro, 40124 Bologna (0516440048, anche fax). A cura di Lello Piazza
FOTOGRAFIA DELLE ORIGINI
O
Opera titanica. Operazione più che meritevole. Troppe parole a commento. Queste tre, almeno, sono le osservazioni che nella mia mente si riferiscono allo straordinario sguardo retrospettivo con il quale il bravo Roberto Signorini (se non diffidassimo degli assoluti, il più bravo tra gli studiosi italiani della fotografia) ha analizzato e vivisezionato il primo libro illustrato con fotografie applicate pubblicato: quel The Pencil of Nature, di William Henry Fox Talbot, apparso in fascicoli (di nessun successo commerciale, va rilevato) dal 29 giugno 1944 al successivo aprile 1846. Nel confuso panorama della storiografia fotografica italiana, che raramente agisce su testimonianze originarie (casi locali esclusi), Alle origini del fotografico, che sottotitola e subito precisa Lettura di The Pencil of Nature (1844-46) di William Henry Fox Talbot, è un approfondimento unico, sul quale riflettere con concentrata attenzione. Comunque sia, e prima di altre considerazioni, rimaniamo alle tre osservazioni appena anticipate. Con ordine.
OPERA TITANICA Opera titanica. Non solo, Roberto Signorini ha tradotto i commenti di William Henry Fox Talbot alle sue tavole fotografiche, che rappresentano le prime parole/considerazioni ufficiali attorno l’immagine fotografica, successive a quelle dell’annuncio e presentazione della sua invenzione (semplificando, ci limitiamo alle due date ufficiali del dagherrotipo: annuncio del 7 gennaio e presentazione del 19 agosto 1839). No: Roberto Signorini ha compilato uno studio approfondito e dettagliato a partire da The Pencil of Nature, che l’ha portato lontano e che, nell’ottima edizione pubblicata da Clueb - Cooperativa Libraria Università Editrice Bologna, che considera soltanto i testi, evitando l’apparato fotografico originario, ci prende per mano e indirizza lungo un cammino a dir poco avvincente.
24
A quantificazione, basta scorrere l’indice degli argomenti affrontati, che raggiungono le considerazioni originarie di William Henry Fox Talbot con un ritmo rigorosamente cadenzato. Dopo una opportuna serie di doverose premesse, da Ambiente e formazione di [Fox] Talbot (cinque paragrafi in successione temporale) a Genesi, caratteristiche e implicazioni teoriche dei processi fotografici elaborati da [Fox] Talbot (otto corposi paragrafi con cadenza ancora cronologica, a propria volta ulteriormente scomposti in sottoparagrafi di chiara esposizione), a La realizzazione di The Pencil of Nature - 1844-46 (cinque paragrafi con propri sottoparagrafi), L’ultima fase della ricerca di [Fox] Talbot e la fotoincisione (tre paragrafi) e The Pencil of Nature: la portata teorica dell’opera (sei paragrafi con propri sottoparagrafi). Quindi, in chiusura della prima parte, si trova una consistente Bibliografia, in dop-
Alle origini del fotografico Lettura di The Pencil of Nature (1844-46) di William Henry Fox Talbot, di Roberto Signorini; Clueb - Cooperativa Libraria Università Editrice Bologna, 2007 (via Marsala 31, 40126 Bologna; 051-220736; www.clueb.com); 528 pagine 17x24cm; 38,00 euro.
pio ordine: per autore e argomento. Dopo tante analisi, la seconda parte di Alle origini del fotografico contiene la traduzione delle ventiquattro tavole di The Pencil of Nature, con numerose note a rimando e di chiarimento. Per quanto ammirati dall’opera di Roberto Signorini, consideriamo questa consecuzione leggermente imbarazzante. Personalmente, dal punto di vista filologico, avremmo preferito un ordine inverso: prima la traduzione, in modo da avvicinare il pensiero di Fox Talbot con mente libera, e poi le analisi e considerazioni critiche e storiche, che invece, anteposte, condizionano inevitabilmente il lettore, che non pensa più soltanto con la sua sola testa. Comunque, è un’opinione personale, di scarsa portata. In aggiunta, a complemento, ricordiamo che di The Pencil of Nature esistono almeno due edizioni moderne in anastatica, che danno peso e spessore soprattutto alla consecuzione dei calotipi originari: la prima è quella di Da Capo Press, New York, 1969, con introduzione di Beaumont Newhall, direttore della George Eastman House (autore di storie della fotografia, tra le quali amiamo soprattutto L’immagine latente, storia dell’invenzione della fotografia pubblicata in Italia da Zanichelli, nel 1969); l’altra è quella di Hogyf Editio di Budapest, del 1998. Quindi, segnaliamo che già Fabio Augugliaro, ai tempi giornalista di settore, aveva tradotto i commenti alle tavole: in Reflex del febbraio 1983. Infine, non dimentichiamo l’anastatica del luglio 1980 dell’originaria lettura The Art of Photogenic Drawing, tenuta da William Henry Fox Talbot alla Royal Society di Londra, il 31 gennaio 1839, in risposta all’annuncio del dagherrotipo (sette gennaio) e in affermazione della propria vantata paternità dell’invenzione del processo fotografico: edizione Rara photographica, in centoquattro esemplari numerati, a cura di Cesare Saletta, libraio d’antiquariato a Bologna.
lasciato al caso e tutto è vivisezionato con minuto dettaglio (infiniti i richiami e raccordi), è a propria volta un’opera fondamentale per la storiografia fotografica, in pertinente equilibrio tra rilevazioni burocratiche e rivelazioni culturali.
TROPPE PAROLE
Nella storia della fotografia si conteggia The Pencil of Nature, di William Henry Fox Talbot, come il primo libro illustrato con fotografie applicate. La sua edizione originaria è attribuita a Longman, Brown, Green e Longmans di Londra. È stato pubblicato in fascicoli dal 29 giugno 1944 al successivo aprile 1846.
MERITEVOLE Sui meriti di Alle origini del fotografico di Roberto Signorini, ovvero della sua Lettura di The Pencil of Nature (1844-46) di William Henry Fox Talbot, ci siamo già espressi. Dopo averlo fatto tra le righe, ne ufficializziamo il valore, ribadendone l’assoluto approfondimento, che non ha eguali in nessuna precedente analisi (non soltanto “lettura”). Dall’incipt della premessa, che subito precisa di trovarsi di fronte a un’opera di fondazione (appunto, The Pencil of Nature): «Tra i numerosi “protofotografi”, [...] William Henry Fox Talbot occupa una posizione di primissimo piano sia per l’ampiezza, completezza e continuità della ricerca tecnica (dalla registrazione fotochimica su carta dell’immagine fino ai primi passi della sua riproduzione fotomeccanica a inchiostro, sempre su carta) sia per la consapevolezza delle implicazioni scientifiche, estetiche e socioculturali del nuovo mezzo comunicativo e artistico». E proprio a queste ipotesi dobbiamo richiamarci e tornare, per approfondire le radici di un pensiero nuovo, oltre che innovativo, che da quegli istanti della metà dell’Ottocento si è proiettato in avanti. Così che il compendioso saggio di Roberto Signorini, sul quale nulla è
Concludiamo il trittico delle nostre osservazioni, andando a quantificare come “troppe” le parole con le quali lo straordinario Alle origini del fotografico di Roberto Signorini viene presentato in una serie di appuntamenti pubblici itineranti. Personalmente, abbiamo assistito all’incontro di Milano, al quale altri ne sono seguiti in diverse località, pensiamo svolti sulla medesima lunghezza d’onda. Qual è l’ipotesi di “troppo”? È semplice: troppo è l’abito pomposamente accademico che in Italia “troppo” spesso si cuce attorno la riflessione della fotografia, storica, contemporanea, d’arte, reportage e tanto altro ancora. Comunque, volando sempre oltre il seminato e sempre senza molte volontà di condivisione e comprensione altrui, ma per il piacere di una accademia cattedrattica. Invece, parlare per trasmettere parole, idee e opinioni e per offrire chiavi di lettura presuppone la capacità e volontà di stare a lato, per
lasciare la scena all’autentico soggetto; in più, presuppone soprattutto l’abbandono di ogni intellettualismo di maniera, a favore di racconti allineati all’ascoltatore. Roberto Signorini ha analizzato a fondo l’argomento proposto e tanto dovrebbe bastare. Da qui, a nostro giudizio, si dovrebbe tornare alle origini, appunto!, per lasciare spazio e tempo alle meraviglie e scoperte che colpiscono William Henry Fox Talbot al cospetto di un linguaggio assolutamente nuovo. A distanza di decenni, secoli addirittura, non gli si possono attribuire intenzioni e intuizioni declinate sul e con il nostro modo di vedere e considerare la fotografia (e da questo partire per la tangente), ma dobbiamo soprattutto sintonizzarci sul suo passo, non camminare con il nostro ritmo (altrimenti educato, altrimenti alimentato). Se agiamo così, sommersi dal nostro attuale modo di pensare, perdiamo di vista gli stessi princìpi originari. Legittimamente, nella serata milanese cui abbiamo appena accennato, Cesare Colombo, che conosce bene le caratteristiche, gli inganni, gli equivoci potenziali e tanto altro del linguaggio fotografico, ha sottolineato proprio l’avvicinamento senza preconcetti/pregiudizi alle conside-
Nel 1939, la Francia ha celebrato il centenario della fotografia con una emissione filatelica. Il francobollo francese del centenario della fotografia (1839-1939) rievoca le figure di Joseph Nicéphore Niépce e Louis Jacques Mandé Daguerre, indicando anche gli anni dei rispettivi successi fotografici: 1922, quando Niépce ottiene una buona copia a contatto su lastra di peltro spalmata di bitume di Giudea di una stampa/ritratto (del 1610) del cardinale di Reims Georges d’Amboise; 1939, per l’ufficialità del processo di Daguerre. I ritratti dei due padri francesi della fotografia sormontano la visualizzazione dell’annuncio di Arago del 7 gennaio 1839.
25
NEL CENTENARIO (1839 - 1939)
P
rezioso volumetto, tale soltanto nelle dimensioni, che confezionano un avvincente contenuto, Cento anni di fotografia 1839-1939 è pubblicato da Alinari 24 Ore, in una edizione italiana a cura di Angelo Maggi, che l’introduce con un approfondito saggio (Lucia Moholy: una donna del XX secolo fra fotografie e conoscenza storica), arricchita da una presentazione di Italo Zannier. Si tratta di una riflessione che Lucia Moholy ha compilato in occasione del centenario dall’annuncio e presentazione del processo dagherrotipico, dalla cui serrata consecuzione si conteggia la nascita della fotografia: appunto, 1839-1939 (che in Francia fu celebrata anche da una emissione filatelica: a pagina 25). Per una curiosa coincidenza, questa traduzione italiana, la prima (e unica) dall’edizione originaria dell’inglese Penguin, del 1939 (ovviamente), è stata distribuita in libreria in sostanziale coincidenza di date con Alle origini del fotografico, di Roberto Signorini, del quale ci occupiamo nel corpo centrale dell’attuale intervento redazionale. Analogamente, possiamo allungare le coincidenze (significative!) con l’esposizione dei Ritratti d’autore di Gisèle Freund alla Galleria Carla Sozzani di Milano, fino allo scorso ventiquattro febbraio (FOTOgraphia, dicembre 2007), ricordando che nel 1936 la fotografa tedesco-francese compilò la propria tesi di laurea percorrendo un tragitto analogo a questo di Lucia Moholy, almeno nell’allineamento delle date: La Photographie en France au XIXème siècle, che in Italia è diventato Fotografia e società (Riflessione teorica ed esperienza pratica di un’allieva di Adorno; Einaudi, 1976, più recente edizione 2007). Passo dopo passo, con cadenza ben ritmata, tanto da poter essere presa a esempio, Lucia Moholy attraversa i priCento anni di fotografia 1839-1939, di Lucia Moholy; a cura di Angelo Maggi; traduzione di Angelo Maggi e Mariapia de Mozzi; presentazione di Italo Zannier; Alinari 24 Ore, 2008 (largo Alinari 15, 50123 Firenze; www.alinari.it); 240 pagine 11x18cm; 15,00 euro.
razioni di Fox Talbot. I testi che accompagnano i suoi calotipi originari partono sempre da considerazioni sostanzialmente tecniche; spesso rivelano punti di vista che appartengono a un modo di vedere e pensare diverso dal nostro attuale, ormai profondamente solidificato in tante conoscenze e competenze (anche linguistiche): e queste candide sorprese raccontano l’approccio originario, ancora estraneo ai distinguo culturali che sarebbero maturati successivamente, dando vita a quello
26
mi cento anni di fotografia, andando a individuare momenti, fenomeni e consecuzioni sociali significativamente discriminanti. Per esempio, dopo i tratti delle origini, l’autrice sottolinea subito come la fotografia abbia presto rivelato i connotati di Una nuova arte democratica (secondo dei ventotto capitoli nei quali è suddivisa l’opera). Testuale: «Ogni arte ha la sua tecnica. Anche la fotografia. Ma il rapporto fra la fotografia e la sua tecnica è particolare: c’è più uguaglianza di diritti fra le due che tra le altre arti e le relative tecniche. Di qui molti traggono la conclusione che la fotografia non sia per nulla un’arte». In pochi periodi, composti di affermazioni chiare, esplicite e dirette, c’è il succo di un’annosa controversia e di un irrisolto dibattito, che accompagna l’espressione fotografica fin dal suo nascere, e che perdura ancora oggi. Bastano queste parole a far capire che siamo di fronte a un testo di straordinaria concentrazione e assoluta trasparenza, che può solo arricchire le conoscenze individuali sulla storia della fotografia e le relative influenze sulla e dalla società. Infatti, al pari delle nostre opinioni (e non si tratta soltanto di semplice personalismo), Lucia Moholy è perfettamente cosciente che la fotografia sia un’applicazione di tecnica e creatività in reciproca intesa, così come sa bene come la società tutta influenzi il pensiero fotografico nello stesso momento in cui l’espressività fotografica agisce a propria volta verso la società. Non ci sono compartimenti stagni, e le sollecitazioni vanno avanti-indietro, danno per quanto ricevono, in un percorso a doppio senso che caratterizza e definisce anche le vicende personali, professionali e creative di ciascuno di noi. Insomma, un’altra lettura irrinunciabile. Un altro libro da non ignorare. La prima e unica edizione di A Hundred Years of Photography 1839-1939, di Lucia Moholy, è stata pubblicata dall’inglese Penguin nel 1939 (Museo di Storia della Fotografia Fratelli Alinari, Firenze; donazione Angelo Maggi).
che oggi definiamo linguaggio espressivo della fotografia. Così, per esempio (e l’esempio è proprio di Cesare Colombo), alla quattordicesima tavola, La scala a pioli, leggiamo: «Per ottenere gruppi di figure non occorre più tempo di quello che si richiederebbe per figure singole, dato che la Camera le raffigura tutte simultaneamente, per quanto numerose possano essere». Ed è questo il senso delle origini, quando nulla era dato per scontato, come invece possiamo fare oggi, al-
la luce di decenni di parole e analisi, che ci condizionano. Inevitabilmente. Comunque, e in conclusione: Alle origini del fotografico di Roberto Signorini è un’opera indispensabile, che solidifica le fondamenta dello studio della storia e del linguaggio della fotografia. È un’opera da studiare con concentrazione e poi consultare con frequenza; inoltre, e in sovramercato, è un’opera che stabilisce una statura d’autore (Roberto Signorini) che si eleva di spanne sopra tutti. M.R.
OBIETTIVI
AT-X PRO SERIES MADE FOR NEW GENERATION DIGITAL REFLEX ;
:
9
6 7 8 9 : ;
AT-X Pro Tokina AF 10-17mm f/3.5-4.5 DX Fisheye AT-X Pro Tokina AF 12-24mm f/4.0 DX
8
AT-X Pro Tokina AF 16-50mm f/2.8 DX AT-X Pro Tokina AF 50-135mm f/2.8 DX AT-X Pro Tokina AF 80-400mm f/4.5 –5.6 AT-X Pro Tokina AF 100mm f/2,8 D Macro
7 Tokina AT-X PRO, JDPPD GL RELHWWLYL $) VWXGLDWL SHU OH UHà H[ GLJLWDOL GL QXRYLVVLPD JHQHUD]LRQH VYLOXSSDWL SHU L VHQVRUL APS-C H SHU FRSULUH WXWWH OH HVLJHQ]H GL ULSUHVD &RPSDWWL OHJJHUL HUJRQRPLFL UREXVWL H GL HFFHOOHQWH TXDOLWj LGHDOL SHU VFDWWL G¡DXWRUH 'LVSRQLELOL FRQ DWWDFFR &DQRQ R 1LNRQ
Tecnologia ottica: /HQWL $VIHULFKH • /HQWL D EDVVD GLVSHUVLRQH • /HQWL DVIHULFKH GL JUDQGH GLDPHWUR 0HVVD D IXRFR LQWHUQD • 3DVVDJJLR UDSLGR GD 0) D $)
6
Fowa S.p.A. - Via Tabacchi, 29 - 10132 Torino - Tel: 011.81.441 - Fax: 011.899.39.77 - e-mail:info@fowa.it - web: www.fowa.it
NUOVI ORIZZONTI D’ARTE
A
Alla fine dello scorso anno, in coincidenza con la presentazione del rituale Calendario (nell’edizione 2008 illustrata con dodici fotografie di Gianni Berengo Gardin), Epson ha lanciato in Italia il progetto Digigraphie: attualmente unico marchio di validazione internazionale per produrre o riprodurre opere d’arte in serie limitata con gli strumenti della tecnologia digitale e la garanzia di eccellente qualità e lunga durata. In concreto, è una solida opportunità per artisti, gallerie d’arte e musei, che dovrebbe fare chiarezza in un ambito tecnico fino a oggi non chiaro, né chiarito, come ha puntualmente sottolineato anche la stimata Giuliana Scimé nella corrispondenza da ParisPhoto 2007 (in FOTO graphia dello scorso febbraio). Digigraphie è un progetto europeo che prevede un marchio di autenticità, che non può essere scavalcato o manomesso, che prende atto della realtà dei nostri giorni. Infatti, oggi è possibile creare stampe e copie digitali di opere d’arte con la garanzia della massima qualità e affidabilità: una grande oppor-
tunità non solo per gli artisti, ma anche per musei e gallerie d’arte.
RIPRODUCIBILITÀ A questo proposito, si impone la sottolineatura dell’operazione che ha riportato nel refettorio di San Giorgio Maggiore, a Venezia, una versione (fotografica digitale) delle Nozze di Cana del Veronese, che critici e storici dell’arte hanno definito «identica all’originale». Il marchio Digigraphie attesta la stampa effettuata con stampanti professionali della serie Epson Stylus Pro a otto colori e inchiostri a pigmenti della serie UltraChrome o UltraChrome K3 su carta certificata, seguendo una serie di Regole di utilizzo e criteri stabiliti.
REGOLE DELLA DIGIGRAPHIE
C
ome si diventa artista Digigraphie? Per diventare artista Digigraphie è necessario possedere o dotarsi di una soluzione di stampa che risponda a quanto indicato nelle specifiche tecniche della certificazione, commentate nel corpo centrale dell’attuale intervento redazionale (in proprio o presso laboratori allineati). Quindi, per ricevere la certificazione di artista Digigraphie, l’autore deve seguire e completare un corso di formazione per la creazione delle opere Digigraphie e firmare la Carta dell’Artista Digigraphie, con la quale si impegna a rispettare le clausole tecniche e morali previste. L’originalità del procedimento Digigraphie si basa proprio sul rispetto di un certo numero di regole di uso finalizzate al corretto utilizzo del timbro a secco Digigraphie e del certificato che assicura l’originalità dell’opera in tiratura limitata. ❯ Clausole tecniche. L’artista Digigraphie stampa le proprie opere su supporti certificati con stampanti inkjet Epson della serie Epson Stylus Pro a otto colori (elenco nel riquadro sulla pagina accanto), dotate di inchiostri Epson UltraChrome. Identificata da un timbro a secco e accompagnata dal certificato di autenticità, l’opera è numerata e firmata dall’artista. ❯ Clausole morali. L’utilizzo di questo strumento professionale di produzione di stampe vincola l’artista alla creazione esclusiva di una serie limitata di opere sulla base di tre specifici requisiti: la quantità di stampe in tiratura, il formato e il tipo di carta. Rispettando queste regole di utilizzo, l’artista preserva e valorizza la propria opera.
28
Ricksa è un’opera del poeta e pittore di arte urbana Cyril Anguelidis inserita nella Galleria Digigraphie, attestata nella propria tiratura con procedimento digitale certificato.
Non tanto paradossalmente, si è esplicitamente parlato del terzo miracolo di Cana, dopo quello di Gesù, che trasformò l’acqua in vino, e quello del Veronese, che tra il 6 giugno 1562 e il 6 ottobre 1963 dipinse la scena evangelica per il refettorio benedettino di San Giorgio Maggiore, a Venezia. Con tecnica digitale e un anno di lavoro, l’artista Adam Lowe ha prodotto per la Fondazione Cini la copia che ha convinto gli storici dell’arte. Addirittura, c’è chi sostiene che questa copia, in perfetto rapporto con l’architettura del convento, così come preordinato dal Veronese, sia più “autentica” della tela che al Louvre è spesso ignorata dai turisti, che le voltano le spalle mentre fotografano la Gioconda di Leonardo da Vinci. (Ricordiamo che, tagliata in strisce, la tela originaria è stata trafugata in Francia dai commissari di Napoleone; è conservata ed esposta al Louvre dall’11 settembre 1797). Comunque, senza approfondire oltre questa straordinaria vicenda, commentata dalla stampa nazionale a metà dello scorso settembre, in occasione dell’inaugurazione al pubblico, e senza scomodare ancora le riflessioni di Walter Benjamin
a proposito dell’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, sottolineiamo come Digigraphie introduca princìpi nuovi e innovativi all’interno dell’espressione artistica contemporanea. Stabilendo quasi una nuova forma d’arte, Digigraphie non cambia l’essenza dell’opera d’arte, ma ne dà una nuova forma, una nuova materialità. L’immaginazione, le emozioni, l’occhio e le mani dell’artista non sono più i soli strumenti che intervengono nella produzione di un’opera d’arte. L’innovazione tecnologica viene quindi in aiuto all’artista, offrendo nuove opportunità per realizzare al meglio i suoi propositi.
Con firma JM Berts, il fotografo Jean Michel Berts realizza vedute parigine, interpretate in avvincenti toni di bianconero. Questa Quai de Jemmapes fa parte di una serie certificata Digigraphie.
CERTIFICAZIONE Digigraphie è il frutto di anni di ricerca del gruppo Seiko Epson sulle prestazioni tecniche delle proprie stampanti e sulla resistenza e qualità degli inchiostri a pigmenti della serie Epson UltraChrome (TIPA Award 2006; FOTOgraphia, maggio 2006). Il marchio Digigraphie attesta la stampa effettuata con stampanti professionali della serie Epson Stylus Pro a otto colori e inchiostri a pigmenti della serie UltraChrome o UltraChrome K3 su carta certificata, seguendo una serie di Regole di utilizzo e criteri stabiliti, a garanzia del valore e del successo di questa tec-
SUPPORTI CERTIFICATI
A
ssieme alla tecnologia Epson MicroPiezo di alta qualità di stampa (2880dpi) e all’impiego di inchiostri Epson UltraChrome e UltraChrome K3 a base di pigmenti rivestiti di una particolare resina (FOTOgraphia, luglio 2005), la terza condizione indispensabile per la certificazione Digigraphie riguarda la stampa su supporti certificati Epson. Al momento, sono certificati i supporti (in formato o bobina): UltraSmooth Fine Art Paper (250g, 325g e 500g), Smooth Fine Art Paper (225g e 426g), Carta Acquerello Radiant White (190g), Somerset “Velvet Fine Art” Paper per Epson (255g e 505g), PremierArt Water Resistant “Matte” Canvas per Epson (350g), PremierArt Water-Resistant Canvas per Epson (350g), Arches Digital Pure White Soft, Arches Digital Pure White Textured, Arches Digital Natural Soft, Arches Digital Natural Textured, Canson Montval Torchon 280g, Hahnemühle Photo Rag 308, Hahnemühle Photo Rag Satin 310, Hahnemühle Museum Etching 350. Quindi, segnaliamo le stampanti Digigraphie, nella gamma Epson Stylus Pro: 4000 8c, 7600, 9600, 4800, 7800, 9800, 3800, 4880, 7880, 9880 e 11880.
nologia (sintetizzate nel riquadro pubblicato sulla pagina accanto). Ogni stampa viene autenticata da un numero progressivo e dalla firma dell’artista e viene consegnata con un certificato di garanzia. Ogni artista che aderisce a Digigraphie ha a disposizione una galleria online su www.digigraphie.net, per presentare le proprie singole opere e l’intero proprio portfolio artistico. A differenza della litografia, come appena annotato, la Digigraphie permette la riproduzione delle opere d’arte direttamente sulla carta, utilizzando le stampanti Epson Stylus Pro della serie a otto colori con testine ad alta risoluzione e inchiostri a base di pigmenti Epson UltraChrome. Così, la Digigraphie si presenta e offre come l’incontro tra due talenti apparentemente contrapposti, l’artista e l’ingegnere: l’artista alla ricerca dell’opportunità di riprodurre le proprie opere e l’ingegnere impegnato a elaborare la tecnologia più adatta per tradurre questa volontà. Strumento nelle mani dell’artista, con Digigraphie si ricompone quello che nell’antica Grecia (e dintorni) definiva il sottile legame tra scienze matematiche e visioni artistiche, successivamente scomposti dalla cultura occidentale: oggi, Arte e Tecnica si ricongiungono, andando addirittura a sottolineare una condizione esemplare, se non già simbolica, delle istanze culturali della nostra società attuale. Ponte tra tradizione e modernità, Digigraphie permette agli artisti di produrre serie limitate (in tiratura)
delle proprie opere con la garanzia di qualità elevata e massima fedeltà all’originale: poiché ogni riproduzione viene numerata, referenziata e firmata dall’autore.
STRUMENTI Tre elementi indispensabili assicurano e garantiscono la perfetta realizzazione di questa tecnica di stampa. Uno: la tecnologia proprietaria Epson MicroPiezo di alta qualità di stampa (2880dpi) grazie alla precisa espulsione di gocce di inchiostro omogenee, dalla dimensione variabile a seconda delle aree di colore e ai dettagli da riprodurre. Due: la gamma di inchiostri Epson UltraChrome e UltraChrome K3 a base di pigmenti rivestiti di una particolare resina, che offrono una ampia gamma di colori (otto colori e tre livelli di nero, per ottime stampe in bianconero) in grado di creare riproduzioni fedeli all’originale (FOTOgraphia, luglio 2005). Resistenti a luce, acqua e agenti atmosferici, questi inchiostri assicurano un’elevata resistenza delle stampe nel tempo: settantacinque anni per le copie a colori e cento anni per quelle in bianconero. Proprio grazie a questi inchiostri, la durata delle opere in Digigraphie supera di gran lunga quella ottenuta con altre tecniche di stampa. Tre: supporti certificati -quali supporti lisci, ultralisci o telati, carte acquerello, velvet, sia in formato sia in bobina-, tutti sottoposti a test in laboratori indipendenti per garantire la stabilità della riproduzione nel tempo (l’elenco qui accanto). A.Bor.
29
UN GIORNO Lo scorso trentuno gennaio, il Magazine del Corriere della Sera, che ogni giovedì accompagna il quotidiano, ha pubblicato una edizione speciale, presentata come Ritratto d’autore di un paese incompiuto. Ideato e coordinato dal photo editor Chiara Mariani, il contenitore di Un giorno nella vita dell’Italia ha riunito immagini di quarantasette fotografi, che hanno lavorato nella stessa giornata. Un portfolio dai mille risvolti, sul quale abbiamo riunito diverse opinioni
«E
io che la portai al fiume / credendo che fosse ragazza, / invece aveva marito». Questo è l’incipit di La sposa infedele di Federico García Lorca. Certo, una grande sorpresa per il poeta spagnolo. Che non gli impedì, quella notte di San Giacomo, di percorrere «il migliore dei cammini / sopra una puledra di madreperla / senza briglie e senza staffe». Scusate se tiro in ballo questa bellissima poesia, ma non riesco a formulare in modo diverso la mia sorpresa a proposito dello straordinario lavoro fotografico pubblicato dal Magazine del Corriere della Sera nel numero cinque, in edicola lo scorso trentuno gennaio. E io che credevo che fossero tutti d’accordo sul Giorno nella vita dell’Italia... invece ho sentito e visto di tutto. Ma anche a me la sorpresa non ha impedito di percorrere “il migliore dei cammini” tra tanti pareri diversi, alcuni intelligenti, altri volgari e demenziali, qualcuno birichino, come quelli di un blog della Rete. Non voglio dire molto. Voglio soltanto motivare l’aggettivo “straordinario”, con il quale ho de-
30
finito questo lavoro. Primo: oggi in Italia non esiste alcun giornale che prenda iniziative di questo genere, finanziandole in proprio (producendole, come si dice), anche se il finanziamento si è limitato al riconoscimento delle spese di produzione delle fotografie. E che coinvolgono un così grande numero di fotografi: quarantasette. Questa è già una buona motivazione per l’aggettivo “straordinario”. Secondo: tutto è stato coordinato da una persona sola, Chiara Mariani, photo editor del Magazine del Corriere della Sera, con qualche (piccolo) aiuto. Non da un esercito di esperti, come quello che gestì i contatti con i fotografi coinvolti nel vecchio, grande progetto A Day in the Life of Italy di qualche anno fa (era la primavera-estate 1990). E questo è il completamento della buona motivazione.
RITRATTO D’AUTORE Me ne scuso, ma a questo punto l’analisi delle fotografie viene in secondo piano. Mentre sulla qualità del progetto siamo nell’ambito della oggettività assoluta, nei giudizi sulle singole immagini entriamo nella visione personale di ciascuno di noi. A me alcune fotografie riunite nella visione collettiva appaiono frutto di un grande impegno, altre denunciano una certa fretta esecutiva. Ma è difficile tirare le orecchie a qualcuno: effettivamente tutto è stato realizzato con tempi ristretti. Forse non per tutti c’è stato modo di capire la reale dimensione del progetto, la sua importanza. Naturalmente, i complimenti non vanno solo a Chiara Mariani, ma si estendono al direttore Giuseppe Di Piazza e a tutta la redazione. Però so che se devo contare su qualcuno per una seconda puntata, è soprattutto a Chiara Mariani che devo rivolgermi. Forza Chiara, comincia a pensarci. Il progetto fotogiornalistico si è concretizzato in sessanta pagine del Magazine del Corriere della Sera, ampiamente illustrate (più testi a contorno): appunto, «quarantasette fotografi al lavoro,
NELLA VITA DELL’ITALIA paginazione adeguatamente alternata. Per ogni visione sono certificati luogo e orario dello scatto, prima di un doveroso commento in didascalia (e credito del fotografo).
HANNO DETTO/1 Abbiamo raccolto alcune autorevoli opinioni sul progetto Un giorno nella vita dell’Italia. Diamo suLa professoressa Zarina Astra, di origine lettone, nella sua casa laziale. Da trent’anni segue il restauro della “città che muore”, nata 2500 anni fa su un friabilissimo sperone di tufo. GIANNI GIANSANTI: CIVITA DI BAGNOREGIO (VITERBO), 18,10
nella stessa giornata, per il “Magazine”. Ritratto d’autore di un paese incompiuto». Al piede di queste nostre pagine, riuniamo tutta la sequenza originaria, conservandone l’ordine. Come si vede, dopo un commento in apertura, a firma del photo editor Chiara Mariani che ha inventato questo ritratto d’autore, le fotografie sono pubblicate in incessante successione, con una im-
31
Alta Val Venosta. La tormenta batte sulla stazione di partenza della funivia che dal paese porta agli impianti sciistici di alta quota e al rifugio CAI “Città di Milano”. (pagina accanto) Gianni, trentacinque anni, divide un appartamento di quaranta metri quadri con la madre Mirella, sessantenne.
32
bito la parola a Chiara Mariani, photo editor del Magazine del Corriere della Sera. «Temevamo di incontrare molta riluttanza: in fondo, quando abbiamo intrapreso l’avventura di questa cover story, si è chiesto a decine di fotografi di collaborare a un progetto che, per propria natura, travolge i singoli protagonisti per emergere come corpo unico che comporta poca gloria per ciascuno ma a ciascuno promette la sfida del confronto; a tutti si è chiesto di lavorare alle medesime condizioni e tutti sapevano che alla fine sarebbe stato salvato e pubblicato un solo scatto, consegnando il resto esclusivamente alla propria memoria. «È stato un percorso emozionante, che ha scatenato la creatività e generosità dei fotogiornalisti interpellati, che hanno offerto idee e tempo, dimostrando
che una fotografia non è la didascalia di un testo, come spesso si ritiene nel nostro paese, ma è in sé notizia, studio, sforzo intellettuale, ricerca estetica. «Per molti anni, in passato, editori americani hanno affidato a fotografi in tutto il mondo il compito di ritrarre un intero paese in una sola giornata, per realizzare un volume monumentale per ognuno [riferimento alla collana A Day in the Life of, che ha compreso anche una monografia dedicata all’Italia; riquadro a pagina 34]. La nostra intenzione è nata da presupposti diversi: per garantire uno sguardo empatico, gli autori sono tutti italiani, con tre eccezioni, ma si tratta di fotografi che comunque vivono da anni nel nostro paese; la destinazione degli scatti è un giornale e non un libro e i temi sono stati concordati con i singoli fotogra-
UN ALTRO GIORNO iorno più, giorno meno, quattro anni fa maturò l’iniziativa 24 ore su Bolzano, sottotitolata una Leica, 17 fotografi, una città (ovviamente bilingue: 24 Stunden in Bozen - eine Leica, 17 Fotografen, eine Stadt), realizzata dagli autori del Gruppo Fotografico Leica: mostra alla Galleria Civica della città e volume-catalogo di accompagnamento (FOTOgraphia, maggio 2004). L’affinità con gli analoghi svolgimenti fotografici “un giorno nella vita di”, oggi richiamati dal progetto del Magazine del Corriere della Sera, è più che evidente. Allora, il Gruppo Fotografico Leica diede una interpretazione a sorpresa di Bolzano, dove era stato invitato dall’amministrazione locale, tramite l’Assessorato alla Cultura del Comune. Fotografi provenienti da luoghi diversi avvicinarono e affrontarono una realtà (probabilmente) sconosciuta, raccontando con un linguaggio fotografico conosciuto, capace di cogliere gli aspetti, le differenze e le contraddizioni che distinguono, qualificandolo, ogni ambiente urbano. In un soleggiato sabato dell’estate 2003, si mossero tra le strade della città, per raccogliere un insieme di immagini rappresentative della realtà e dello svolgimento della vita. Alternativamente con occhio discreto o indiscreto, a ciascuno il proprio, fotografarono luoghi, persone e situazioni. Nell’eterogeneità di linguaggi visivi autonomi, espressi da variegate personalità d’autore, il Gruppo Fotografico Leica ha così edificato una rappresentazione significativa della curiosità del visitatore esterno, proiettato in un mondo nuovo, appunto scoperto con la controllata complicità del mezzo fotografico.
ROMOLO RAPPAINI
G
FRANCESCO COCCO: CARPI (MODENA), 20,58
ROBERTO ARCARI: SOLDA (BOLZANO), 11,00
fi. Mentre l’Italia annaspava tra crisi dei rifiuti e marasma politico, alimentando ovunque un’immagine assai negativa di sé, in controtendenza avevamo intenzione di focalizzare soprattutto tematiche positive. Poi, c’è sembrato troppo riduttivo, e per stilare il programma definitivo abbiamo confrontato le nostre idee con quelle degli autori coinvolti. «Le sorprese sono state tante, e alla fine un elemento positivo del paese l’abbiamo trovato proprio al punto di partenza, tra i fotografi che hanno lavorato con noi. A cominciare da autori di fama internazionale, come Gianni Berengo Gardin, Mauro Galligani, Gianni Giansanti, tutti si sono gettati nell’avventura con passione, impegno e umiltà: quasi a sottolineare lo slancio immutato negli anni verso il proprio mestiere, che si abbraccia fondamentalmente per passione e si sopporta a lungo solo per amore dell’utopia». Appunto: il fotogiornalista Gianni Giansanti. A lui la parola: «Che ti devo dire. Mi sembra una buona iniziativa; la dimostrazione che in Italia qualcosa sta forse cambiando nei confronti della fotografia. Non c’è mai stata una iniziativa del genere, da quando si fece A Day in the Life of Italy - Un giorno nella vita dell’Italia. Quella fu una cosa in grande. Affittarono un intero albergo in via Cavour, a Roma, dove fecero alloggiare membri dell’organizzazione, cento fotografi che arrivarono da ogni parte del mondo, editor e assistenti. Per stabilire e preparare la lista delle location e dare gli assegnati c’era voluto un anno. «Invece, noi italiani riusciamo a risolvere le situazioni più critiche con l’estro creativo dell’improvvisazione, che poi è la nostra principale qualità. Nel caso del Magazine, già la scelta dei fotografi non deve essere stata facile. Poi, il direttore non ha dato nessuna indicazione o tematica, per cui ognuno era libero di fare quello più desiderava. Detta così può sembrare una impresa poco impegnativa. E invece è il contrario, perché la responsabilità di produrre una singola immagine che rappresenti una storia è interamente del fotografo. «Vedendo la banalità di certe fotografie, si può pensare che qualcuno non abbia dato la giusta importanza al progetto, sottovalutando l’iniziativa e in qualche caso danneggiandola. A giustificazione del suo scarso contributo al progetto, pare che qualcuno abbia affermato di non aver capito che si stava trattando di un impegno importante: bene, io dico che qualcosa può anche non appa-
33
A DAY IN THE LIFE liana nel proprio continente antico e complesso non sono affascinanti solo perché realizzate da alcuni dei migliori fotogiornalisti del mondo. Lo sono anche perché colgono il paese in un dato giorno, il 6 marzo 1981. Più di cento fotografi, provenienti da diciannove paesi, sono stati invitati a documentare, proprio in questo giorno simbolico di tutti, il modo con cui gli uomini hanno occupato una terra così sterminata. Queste pagine non sono solo il risultato del lavoro di un centinaio di professionisti di talento, ma un frammento di tempo cristallizzato. Tutte le fotografie sono state scattate nell’arco di ventiquattro ore, allo scopo di documentare in una sola giornata il rapporto tra l’uomo e la più antica delle isole». L’introduzione si concluse così: «Diversamente dai primi coloni europei, la macchina fotografica è sempre a proprio agio, nei paesaggi razionali come in quelli surreali, nei giardini ordinati come nei deserti scoranti. Ciò non significa che la fotografia non sia una forma d’arte, ma l’arte che deriva dalla scelta che il fotografo fa del tempo e dell’inquadratura. All’interno dell’inquadratura, la macchina assume un atteggiamento neutrale nei confronti dei luoghi, dei momenti, delle persone. La verità di queste fotografie risiede nella neutralità. La loro arte, il loro fascino, il piacere che procurano sono il frutto del genio professionale». Questo format, sperimentato per la prima volta nell’isola-continente del Pacifico Occidentale, fu inventato da Rick Smolan e David Cohen. Nel progetto, Smolan era affiancato dalla moglie Jennifer, figlia di Elliott Erwitt. Dopo l’Australia, ci furono A Day in the Life of: America, Canada, Russia, Irlanda, Italia, Giappone, Cina, Spagna, Israele, Thailandia, Vietnam, California, Hawaii, India, Hollywood, Africa (con l’attiva partecipazione di Olympus; FOTOgraphia, marzo 2003), e persino un interessantissimo giorno virtuale nella vita del Cyberspazio. Tutti i volumi pubblicati sono di grandi dimensioni, all’interno delle quali la fotografia vive momenti di gloria, sia per l’accurata riproduzione in stampa sia per i generosi ingrandimenti. A seguire, registriamolo, lo stesso format è poi degenerato in titoli come un giorno nella vita del cane o del giovane dinosauro. Quindi, una notazione a margine: A Day in the Life è il titolo di una canzone composta da John Lennon e Paul McCartney nel 1967, come traccia finale dell’album dei Beatles Sgt. Pepper’s Lonely Hearts Club Band, una leggenda della musica moderna (FOTOgraphia, giugno 2007).
PATRICIO ESTAY: FIRENZE, 18,32
all’Australia, un quarto di milione di copie vendute, il primo volume della fortunaDcificòtaedicato serie di monografie geografiche e giornalistiche (o pseudo tali) A Day in the Life of spegli intendimenti della collana subito in introduzione: «Queste immagini di gente austra-
gione al direttore Giuseppe Di Piazza, che ha lanciato l’idea, e a Chiara Mariani, che caparbiamente l’ha realizzata, grazie anche al contributo di tutto il collaudato staff del Magazine. «Poi, a giornale pubblicato, si registrano le inevitabili polemiche, che, come io amo dire, vengono a galla solo in occasione di momenti importanti. E questo lo è stato».
HANNO DETTO/2 (centro pagina) Dopo un temporale, la statua di Dante Alighieri si riflette nel selciato di piazza Santa Croce.
34
rire importante quando ti viene proposta, ma è solo il tuo impegno e ingegno che può farla diventare grande. Che posso dire a chi invece ha pensato che la propria fama sarebbe stata sufficiente per produrre una grande immagine, anche se scattata “nell’orticello” di casa? Che molto spesso il proprio nome da solo non basta a fare grande un’immagine, che la fotografia è ancora qualcosa che va ricercata faticosamente e riportata come testimonianza, come informazione. «Devo ammettere che all’inizio sono stato abbastanza perplesso riguardo la riuscita di un progetto del genere, inoltre organizzato in poco tempo e con mezzi limitati: ma alla fine le sessanta pagine dedicate interamente alla fotografia hanno dato ra-
Ancora parole dall’interno del progetto, al quale ha fattivamente collaborato l’Agenzia Contrasto. Quindi, ecco le testimonianze di Luciano Santagostino (da Milano) e Giulia Tornari (da Roma). Luciano Santagostino, Agenzia Contrasto, Milano: «Denis Curti mi ha anticipato che volevi parlarmi a proposito del progetto fotografico del Magazine, che abbiamo seguìto con particolare passione. «Anche se all’inizio ci siamo un po’ spaventati, ci siamo presto resi conto che per noi sarebbe stato abbastanza facile fornire un certo numero di fotografi per il progetto. Al giornale, l’operazione non sarebbe costata molto: si trattava di una di quelle situazioni nelle quali ai fotografi può interessare esserci più che guadagnare. Trentuno dei
GERARD BRUNEAU: PRATO, 9,30
nostri hanno accettato immediatamente, senza alcuna discussione e con grande entusiasmo. Noi siamo abbastanza soddisfatti del lavoro. Ovviamente, abbiamo organizzato un briefing, affinché non ne scaturisse un insieme casuale. Non basta chiedere semplicemente ai fotografi di uscire di casa un giorno fissato per uno scatto. Non puoi lasciarli a briglia sciolta: rischi di avere un risultato confuso, con molte sovrapposizioni. «Mi sembra che tutti abbiano lavorato con grande concentrazione e il risultato finale ha riservato sorprese più interessanti di quelle che ci aspettavamo. Perciò è molto probabile che le fotografie realizzate entrino in un nostro progetto più ampio, più articolato. In Italia non c’è mai stato nessuno che ha fatto qualcosa di simile. «Tutto si è svolto in un tempo molto breve, magari troppo in fretta. Io ci vedo un quid di spontaneità in più, altri magari lo vivono come approssimazione e superficialità. Ma sono sicuro che se ci sarà una seconda puntata, tutti cominceremo a prepararci almeno tre mesi prima. «Speriamo che questa iniziativa scateni una specie di reazione a catena. Sarebbe un bene per il fotogiornalismo italiano».
Giulia Tornari, Agenzia Contrasto, Roma: «Il progetto dedicato all’Italia ci è stato proposto dal direttore del Magazine del Corriere della Sera, Giuseppe Di Piazza, che ci ha chiesto di documentare un giorno nella vita del nostro paese, osservato attraverso lo sguardo dei fotografi che collaborano con Contrasto. I fotografi hanno aderito dimostrando entusiasmo per l’idea e ciascuno ha scelto un tema a lui caro.
Lo scrittore Sandro Veronesi, vincitore del premio Strega nel 2006 con il romanzo Caos Calmo, fa colazione nella cucina di casa.
35
QUARANTASETTE FOTOGRAFI
P
ubblicato sul Magazine del Corriere della Sera dello scorso trentuno gennaio, Un giorno nella vita dell’Italia ha impegnato quarantaset-
te fotografi, dei quali si riportano anche brevi note biografiche e professionali. Noi ci limitiamo ai soli nomi, in rigoroso ordine alfabetico.
HANNO DETTO/3 Opinioni dall’esterno, Magazine tra le mani: Grazia Neri, presidente dell’Agenzia Grazia Neri, Mariella Sandrin, photo editor di Focus, e Mauro Vallinotto, photo
GUIDO HARARI: MILANO, 10,34
Roberto Arcari, Rino Barillari, Gianni Berengo Gardin, Marcello Bonfanti, Enrico Bossan, Gerald Bruneau, Roberto Caccuri, Lorenzo Cicconi Massi, Francesco Cocco, Alberto Conti, Giovanni Cozzi, Mauro D’Agati, Stefano Dal Pozzolo, Daniel Dal Zennaro, Patricio Estay, Fulvia Pedroni Farassino, Andrea Frazzetta, Mauro Galligani, Luigi Gariglio, Simona Ghizzoni, Gianni Giansanti, Guido Harari, Julian Hargreaves, Alessandro Imbriaco, Davide Lanzilao, Martino Lombezzi, Giorgio Lotti, Fabio Lovino, Ada Masella, Alberto Novelli, Pietro Paolini, Eligio Paoni, Stefano Pavesi, Lorenzo Pesce, Alessio Pizzicannella, Efrem Raimondi, Enzo Ranieri, Armando Rotoletti, Giulio Sarchiola, Loris Savino, Antonio Scattolon, Massimo Sestini, Mauro Sioli, Alessandro Tosatto, Angelo Turetta, Riccardo Venturi, Theo Volpatti.
«L’agenzia ha coordinato il tutto, seguendo la redazione e produzione, e facendo in modo che non ci fossero sovrapposizioni di temi o luoghi. «Il successo della pubblicazione è stato sorprendente: molti ci hanno contattato, complimentandosi con noi. Mi piacerebbe che per i fotografi ci fossero più spesso opportunità simili, progetti a più mani, magari con più tempo a disposizione, sia nell’ideazione sia nella realizzazione. «Resta apprezzabile che siano riusciti pubblicare sessanta pagine di immagini, senza interruzioni pubblicitarie».
36
Mariani, che ha gestito una solida impresa». Mariella Sandrin, photo editor di Focus, Milano: «Quarantasette fotografi italiani partono all’unisono per realizzare un unico reportage di cronaca. Destinazione: Italia. Uno dopo l’altro ritornano con un’immagine colta all’istante, da veri fotogiornalisti che registrano, scelgono e rimandano al giornale, che li ha inviati, il momento topico del luogo di destinazione. L’Italia che ci mostrano è un caleidoscopio: dal Nulla dell’autostrada incompiuta e mostro ecologico di Napoli all’intervento ipertecnologico nell’Ospedale di eccellenza, l’Istituto Besta di Milano; dal bar-ritrovo della campagna pavese alla lezione di legalità di Milano. «Le fotografie parlano da sole, raccontano in uno scatto la realtà che ci fanno vedere e dimostrano le grandi doti di maestri quali Gianni Berengo Gardin, Mauro Galligani e Gerald Bruneau».
(pagina accanto) Fase di un’operazione chirurgica all’Istituto Neurologico Carlo Besta. L’intervento è in “awake anesthesia” con resezione di un tumore cerebrale in area motoria e del linguaggio. Il paziente è sveglio. Jogging al quartiere Vomero su una strada spezzata che parte dal nulla e non arriva in nessun posto. Il grosso ponte spunta nel bel mezzo della città.
MAURO SIOLI: NAPOLI, 12,30
editor del quotidiano La Stampa. In questo ordine. Grazia Neri, presidente dell’Agenzia Grazia Neri, Milano: «L’iniziativa del Magazine ci ricorda che i fotografi italiani, da circa cinque o sei anni a questa parte, hanno maggiori possibilità rispetto al passato di ricevere assegnati, anche se non sui grandi fatti internazionali, per i quali i giornali aspettano le fotografie di Associated Press, Reuters e France-Presse. Per questo, poi, i nostri non emergono quasi mai nelle news. «Ma questa iniziativa è estremamente positiva, anche perché mi ha ricordato talenti conosciuti e mi ha fatto vedere nuovi nomi del fotogiornalismo, che non conoscevo affatto. Mi dispiace che l’iniziativa sia stata vista, per così dire, a “cose fatte”, senza un lavoro di annunci e preparazione, che ne avrebbero ampliato l’eco. Complimenti a Chiara
37
UN MOMENTO NEL MONDO
S
pontaneamente, l’azione di Un giorno nella vita dell’Italia, nella propria realizzazione sulle pagine del Magazine del Corriere della Sera, a cura di Chiara Mariani, photo editor della testata, richiama un altro coinvolgimento simultaneo di tanti fotografi. Pensiamo a One Moment of The World, realizzato in tre occasioni temporalmente successive. In origine, il progetto avrebbe dovuto comprendere l’inizio delle quattro stagioni, ma si è arenato alle prime tre: quelle del 21 marzo 1983, del 21 giugno 1984 e del 23 settembre 1985, raccolte in altrettante monografie della collana Photovision, tutte pubblicate con il contributo di Olympus.
(centro pagina) In officina. Il pranzo di Stefano, meccanico di Trastevere.
38
Rispettivamente, quarantacinque, cinquantasette e cinquantatré fotografi di tutto il mondo sono stati invitati a scattare nella propria città, nel medesimo istante, a un’ora indicata (alle nove o dieci del mattino, ora di New York), in modo che sulle pagine delle rispettive monografie è stato raccolto lo svolgersi di un’intera giornata, tratteggiata dalle differenze di fuso orario. Idealmente e concettualmente (così ci pare connotata questa simultaneità organizzata), la fotografia si è proposta come mezzo di unione tra i paesi, addirittura mezzo per il raggiungimento di una migliore comprensione tra i popoli.
Mauro Vallinotto, photo editor di La Stampa, Torino: «Dalle biennali d’arte alle antologie di lettura per la prima media, le scelte dei curatori in merito a chi c’è o non c’è hanno sempre creato polemiche. Chi decide, talvolta sbaglia. Chi sta alla finestra sempre sparla. «A questo rito non si sottrae neppure una persona gentile e schiva come Chiara Mariani, che con questa rassegna sull’Italia ha gettato un sasso nella palude della fotografia giornalistica italiana, lavorando, presumo, in condizioni difficili e organizzativamente molto complesse. Quando nel 1990 fui coinvolto, come fotografo, nell’avventura di Un giorno nella vita dell’Italia, nonostante alle spalle ci fosse una casa editrice come la statunitense Collins, non si fece molto di meglio. Almeno qui, sul Magazine, ci sono stati risparmiati certi stereotipi tipo le spaghettate in famiglia che tanto piacciono agli americani. «Piuttosto sorprende (si fa per dire, visto che so-
MAURO GALLIGANI: ASINARA (SASSARI), 11,30 ADA MASELLA: ROMA, 13,45
no nel ramo da quasi quarant’anni), la pigrizia intellettuale, e non solo, di alcuni dei fotografi presenti: raccontare il proprio paese, la propria città, il mondo degli affetti che ci circonda avrebbe dovuto essere insieme un dovere e un piacere, capaci di scatenare in tutti gli autori l’adrenalina a mille. Invece, davanti ad alcune immagini (non molte per fortuna), siamo all’encefalogramma piatto. «C’è chi ci annoia ripetendo da anni, decenni, la stessa fotografia, pensando in questo modo di riaffermare una sorta di copyright personale. Abbiamo ospedali sporchi fatiscenti e assassini. Ma cosa di meglio di un bel parto con tutti felici e contenti? Certo, convocare una nazionale senza i Totti e i Del Piero comporta dei rischi di immagine e attriti con i loro procuratori. Però resta la sensazione, per colpa degli autori, ripeto e ribadisco, di un risultato raggiunto solo in parte. «In una cosa, il lavoro di Chiara Mariani ha centrato perfettamente il proprio fine: nel restituirci l’immagine di un paese invecchiato, ripiegato su se stesso, banale e privo di entusiasmi e sorprese. Un’Italia, insomma, pronta ad accogliere il vento nuovo che ci porterà un giovane come Silvio Berlusconi». Lello Piazza
Carcere di Fornelli. L’ispettore superiore del corpo di Polizia penitenziaria, Gianmaria Deriu, davanti all’ex centro di detenzione di massima sicurezza dell’Asinara, ribattezzata l’“Isola del diavolo”. Qui vennero internati brigatisti e mafiosi celebri come Raffaele Cutolo e Salvatore Riina. Il carcere fu chiuso definitivamente nel 1997. Dopo ben centododici anni di chiusura totale, oggi l’isolotto sardo è visitabile dal pubblico.
39
al centro
della fotografia
tra attrezzature, immagini e opinioni. nostre e vostre.
SENZA DUBBIO PORNOSTAR F
inalmente, una pornostar che non rinnega, né ripudia il proprio passato. Finalmente, una pornostar che non si trasforma in maître à penser, maestro di pensiero buono per tutti i palinsesti televisivi. Finalmente, una pornostar che racconta la propria vita senza scorciatoie, né facili comprensioni o condivisioni: nella preziosa confezione di una monografia di alto profilo bibliografico, tanto da essere venduta a cinquecento euro, va precisato subito, a scanso di equivoci (e c’è anche un’edizione che costa addirittura mille euro: ne riferiamo più avanti). Vanessa del Rio, della quale sapevamo poco o nulla prima della pubblicazione della lussureggiante raccolta Fifty Years of Slightly Slutty Behavior (Cinquant’anni di comportamento leggermente lurido; semplificabile in Cinquant’anni da puttana), ha concluso la sua carriera oltre vent’anni fa, nel 1986, per sopraggiunti limiti di età. Come spesso acca-
Fifty Years of Slightly Slutty Behavior, che conteggia cinquant’anni di comportamento leggermente lurido, è la biografia ampiamente illustrata della attrice hard Vanessa del Rio, in scena negli anni Settanta e Ottanta. Nulla di significativo per la riflessione propriamente fotografica, ma una segnalazione di costume e socialità. Senza rimpianti, né rinnegando nulla, una edizione libraria impreziosita da valori formali, che proiettano questa monografia nel ristretto novero delle opere di sostanzioso valore bibliografico
41
(pagina precedente) Da Babylon Pink, 1979 (Cecil Howard and Command Video).
(in basso, a destra) Ritratto eseguito da Barbara Nitke, 1984.
Da una serie fotografica del 1973, precedente il debutto cinematografico.
Vanessa del Rio: Fifty Years of Slightly Slutty Behavior; a cura di Dian Hanson; Taschen, 2007 (distribuzione: Inter Logos, strada Curtatona 5/2, Località Fossalta, 41100 Modena; 059-412648; www.books.it); 396 pagine 30x30cm, in cofanetto comprensivo di un Dvd; cartonato; tiratura numerata e firmata; duecento copie Art Edition (da 1 a 200), con litografia di Robert Crumb, 1000,00 euro; milletrecento copie Collector’s Edition (da 201 a 1500) 500,00 euro.
42
de, e come è capitato a tante altre prima e dopo di lei, una volta abbandonate le scene (di film inviolabilmente ed esplicitamente hard) è entrata in una sorta di territorio da leggenda: tanto che il suo sito www.vanessadelrio.com continua a proporre materiali e visioni per soli adulti. Dagli Stati Uniti, dove ha esercitato dagli anni Settanta, la sua fama si è allargata nel mondo, entrando nel ristretto novero delle celebrità della pornografia internazionale. Appesi al chiodo slip e reggiseno, che per il vero ha poco e per poco indossato nelle proprie performance cinematografiche, attualmente veicolate in edizioni Dvd da collezionisti, Vanessa del Rio si è incamminata verso una curiosa militanza femminista, la cui linea conduttrice l’ha portata a teorizzare il mondo della pornografia come l’unico nel quale comandano le donne, e gli uomini sono relegati a un ruolo marginale. Il filo conduttore del selettivo Fifty Years of Slightly Slutty Behavior (selettivo dal punto di vista del suo costo, non certo popolare) è il racconto delle avventure di Vanessa del Rio, che si accompagna con un consistente corpus di illustrazioni a commento. Anzi, le illustrazioni sono la componente fondamentale dell’edizione libraria, peraltro completa anche di un documentario di centoquaranta minuti (in Dvd) e di una litografia del celebre disegnatore di fumetti erotici Robert Crumb (nelle duecento copie Art Edition), che si inserisce nel recente filone delle memorie di altrettanto note pornostar internazionali, abilmente commentato da Andrea Curreli nel sito specializzato di Tiscali Spettacoli (http://spettacoli.tiscali.it/articoli/07/06/01/pornostar_book.html).
ALTRE MEMORIE Ricco di rivelazioni sui suoi flirt con note star di Hollywood, nel 2004 How to Make Love Like a Porn Star (Fare l’amore come una pornostar), di Jenna
Jameson, considerata attualmente la regina del cinema hard, è rimasto per sei settimane nella lista dei best seller del The New York Times. Ad aprire la strada delle confessioni delle pornodive è stata però Traci Lords, con il suo Underneath it All (Sotto a tutto), del 2003, critico compendio della sua travagliata esperienza nel mondo del cinema hard, anticipato al momento del suo ritiro, nel 1986: dal consumo di cocaina ai film porno girati, con documenti falsi, quando era ancora minorenne. Del tutto diverso, il punto di vista espresso in un altro libro edito nello stesso anno dall’attrice Christy Canyon, attualmente nello staff di Playboy: il suo Quan Lights, Camera, Sex! (Luce, si gira, sesso!) raccoglie brevi racconti dell’intensa carriera della diva dell’hard, protagonista di oltre duecento film dal 1984 al 1997. Invece, un altro testo scritto con la collaborazione di alcune pornostar ha fatto tremare non pochi protagonisti dello star system statunitense. Pubblicato nel 2005, The Other Holly-
Sul set di Deep Inside Vanessa del Rio, 1986 (Vca Pictures).
Da Platinum Paradise, 1980 (Cecil Howard and Command Video).
Una delle millecinquecento copie di Vanessa del Rio: Fifty Years of Slightly Slutty Behavior contiene un definito Golden Ticket disegnato da Robert Crumb: bonus per una giornata, tutto incluso (all inclusive) con Vanessa del Rio, classe 1952.
43
Con il proprio compagno George Payne, per Lbo Entertainment, fine anni Settanta.
Da The Filthy Rich, 1980 (Caballero Video Company).
Da Showgirl Classics, fine anni Settanta (Lbo Entertainment).
44
wood: The Uncensored Oral History of the Porn Film Industry (L’altra Hollywood: la storia orale non censurata dell’industria del cinema porno) diffonde storie piccanti di personaggi del calibro di Warren Beatty, Tony Curtis e Sammy Davis Jr.
VANESSA DEL RIO Torniamo alla raccolta di parole e immagini, soprattutto immagini, di Vanessa del Rio, approdata al cinema pornografico a metà degli anni Settanta, all’indomani della celebre Gola Profonda (Linda Lovelace), che ha infranto gli argini della clandestinità, offrendo al cinema hard una visibilità ufficiale e ufficializzata. In quel clima, Vanessa del Rio, nata nel quartiere newyorkese di Harlem, ha frantumato un altro tabù, diciamola così, imponendo la propria prorompente personalità latina. Come sottolinea lei stessa, non sesso per denaro, ma per piacere: e qui, starebbe una differenza. Nell’arco di due decadi, dagli anni Settanta agli Ottanta, si è imposta come icona sessuale trasversale a tutti i confini etnici. L’attuale sontuosa edizione libraria celebra soprattutto la sua esuberanza sessuale: posati e fotografie di scena delle sue performance cinematografiche esplicite. Sinceramente, dobbiamo sottolineare che si tratta di immagini per lo più di profilo basso (molte addirittura brutte), tutte definite da una certa forza visiva senza equivoci, peraltro estranea ai nostri interessi fotografici (e non soltanto fotografici), che non aggiunge nulla alla lunga vicenda della storia evolutiva del linguaggio fotografico. Però, e in definitiva, queste stesse immagini rappresentano uno spaccato sociale, che c’è, c’è stato, e dunque registriamo: con adeguato distacco. Non partecipiamo a questa vicenda, né dal punto di vista fotografico, né da quello bibliografico, come
invece siamo soliti fare con e per altre presentazioni. Ribadiamo: stiamo registrando soltanto un fenomeno di costume, elevato di tono, rango e spessore da una edizione libraria formalmente preziosa (anche nel prezzo di vendita/acquisto). Addirittura, appartiene al costume (editoriale? sociale?) anche la formalità dell’intera operazione libraria, che certifica una tiratura limitata a millecinquecento esemplari numerati, firmati dall’autrice. Il totale si scompone quindi in milletrecento copie identificate come Collector’s Edition, appetibili da una identificata schiera di bibliografi a tutti i costi, e duecento in Art Edition, arricchite di una litografia del celebre cartoonist Robert Crumb, che abbiamo già citato: mille euro di costo. Ancora, e ancora costume?, una delle millecinquecento copie contiene un definito Golden Ticket disegnato per l’occasione dallo stesso Robert Crumb: bonus per una giornata, tutto incluso (all inclusive) con Vanessa del Rio, classe 1952. Maurizio Rebuzzini
RAFFINATE
VISIONI
In mostra fino al ventiquattro marzo, al Palazzo della Ragione di Milano, la consistente retrospettiva Fotografie, Nudi, Paesaggi e Scene di genere infrange e supera antichi tabù sulla personalità del barone Wilhelm von Gloeden, troppo spesso morbosamente riferita alle sole rappresentazioni di nudi maschili, semplicisticamente licenziate per la loro connotazione pseudo sessuale. È una visione complessiva sulla sua opera fotografica, che si rafforza nell’edizione libraria di un avvincente volume-catalogo, addirittura più coinvolgente dell’esposizione degli originali, per forza di cose temporalmente effimera. Con le dovute prudenze
D
overose annotazioni di merito, più di una, in sequenza serrata. Anzitutto, una comunicazione di servizio. Sia nell’allestimento scenico dell’esposizione degli originali fotografici del barone Wilhelm von Gloeden, al Palazzo della Ragione di Milano, prospiciente la piazza del Duomo, sia nella messa in pagina del catalogo che l’accompagna, sopravvivendo ai suoi giorni di apertura al pubblico (fino al prossimo ventiquattro marzo), la cadenza grafica della specifica di Fotografie, Nudi, Paesaggi e Scene di genere ne scandisce la gerarchia. Così che è assolutamente chiara la consecuzione tra il richiamo principale di Wilhelm von Gloeden Fotografie e la descrizione abbinata di Nudi Paesaggi Scene di genere. In entrambi i casi, la combinazione di caratteri da stampa alternati e corpi tipografici opportu-
46
namente finalizzati (diverse grandezze dei caratteri) stabilisce le gerarchie visive del richiamo, che nella relazione giornalistica, quale è questa nostra, deve invece dipendere dall’uso di punteggiature estranee alle intenzioni originarie, che da una parte cambiano addirittura il ritmo e dall’altra possono vanificare eventuali ricerche di approfondimenti in Rete, che probabilmente dipendono dalle identificazioni originarie. In parte, possiamo rimediare cambiando un poco l’ordine della punteggiatura, che da qui in avanti reinterpretiamo in Wilhelm von Gloeden Fotografie. Nudi Paesaggi Scene di genere. Dopo esserci compiaciuti e dilettati con annotazioni assolutamente complementari, tanto per darci un ritmo, è doveroso arrivare alla sostanza della avvincente retrospettiva di Wilhelm von Gloeden. Subito, dichiariamo di non aver alcuna intenzione di dare fiato alle superflue diatribe, molto meneghine, molto parrocchiali, che da tempo stanno attraversando il mondo dell’arte, chiamato a dare
conto di proprie raffigurazioni presuntamente scostumate. Per cui, non ci interessano affatto le polemiche stracittadine che hanno preceduto l’esposizione dei nudi maschili di Wilhelm von Gloeden, rimandando peraltro al testo critico di Italo Zannier (curatore della mostra, del quale proponiamo un estratto; a pagina 48) la definizione di una statura fotografica che non dipende solo dall’esuberanza di questi soggetti, ma da una capacità espressiva che non può essere etichettata (né, tantomeno, bollata) con semplicismi di maniera. A conseguenza, sulla stessa lunghezza d’onda, ribadiamo il nostro personale giudizio di merito: oltre altri, tutti di spessore, la selezione di Wilhelm von Gloeden Fotografie. Nudi Paesaggi Scene di genere, dagli Archivi Alinari (con ulteriore integrazione di un fondo von Gloeden - Plüschow del Civico Archivio Fotografico di Milano), ha il merito di aver infranto antichi tabù sulla personalità del barone, troppo spesso morbosamente riferita al-
Taormina. Mandorli in fiore; circa 1890; stampa all’albumina, 168x219mm (Archivi Alinari, Firenze).
47
L’ARCHEOLOGICA, CASTA FOTOGRAFIA DI VON GLOEDEN
N
ella Sicilia Orientale, tra Messina e Siracusa, sul finire dell’Ottocento, operò un gruppo di fotografi, talmente eccezionale, da formare un singolare Circolo d’élite, con un Presidente -il Capuana, “professore di fotografia”-, e perlomeno due Soci, il De Roberto e Giovanni Verga, tutti appassionatamente dediti alle riprese di immagini lungo l’Alcantara e la fotogenica, assolata campagna, soggetti favorevoli per “veristici” ritratti di rocce, ulivi e contadini. A questo gruppo di audaci fotoamatori, avrebbe potuto aggiungersi il bell’alemanno Wilhelm von Gloeden, immigrato corsaro d’immagini, infine stanziale operatore tra le rocce di Taormina, sopra gli scogli di Naxos, con lo sguardo d’attesa rivolto verso l’Etna fumante. All’inizio del suo lavoro di fotografo, i soggetti preferiti, e quasi ovvii, furono le vedute panoramiche e di strada, oltre ai mestieri locali, ripresi con un intento soprattutto documentario da “souvenir”. Solo in seguito, iniziò a realizzare un “progetto” di ripresa (quello suo più famoso, che infine l’ha marchiato!) delle sue caratterizzanti immagini “archeologiche”, costruite come tableaux vivants sullo sfondo del paesaggio di Taormina. Ma tutte immagini “di sicuro gusto pittorico”, ahimè eccessivamente siglato dal suo lavoro più audace, quello dei “nudi”, tuttora ritenuto ai limiti della pornografia, ma che invece, se riletto senza pregiudizi convenzionali, salvo alcune eccezioni, si rivela di delicata castità, semmai naïve, e d’una ironica, ingenua ma accattivante poesia. Sono rare in effetti le immagini di nudo fortemente audaci, imbarazzanti e “scandalose”, come tuttora si vuole indicare nell’opera del fotografo tedesco. L’instancabile intellettuale-fotografo Wilhelm von Gloeden sembrerebbe avere praticato appassionatamente due contemporanee attività, quasi secondo due vite d’autore, come fotografo.
Una professione pubblica, con vedute di paesaggio e di scenette di folklore, l’altra apparentemente clandestina, e in parte lo era, come fotoamatore e, se si vuole insistere, come conclamato omosessuale. I giovani di Taormina e dintorni, comunque, sembrano scelti con la cura dello studioso d’antichità, quella riferita approssimativamente ai miti della Magna Grecia: tutti belli secondo l’ideale di Wilkelmann, e vivaci, disponibili alla recita, anche per una piccola mancia, ma soprattutto per l’inevitabile narcisismo che coglie un po’ tutti, quando si pongono dinanzi a un apparecchio fotografico o cinematografico e televisivo, e oggi il fotocellulare, tutti strumenti che sollecitano anche un compiaciuto sorriso. C’è una amichevole compiacenza nell’espressione di questi ragazzotti abbronzati, dagli occhi splendenti di nero, come le loro folte sopracciglia, tipici modelli, non tanto in quanto siciliani, ma come sopravvissuti figli naturali di antichi Dei, scesi ovviamente dalle pendici scenografiche dell’Etna, o emersi sorridenti dalle onde del mare di Naxos. Wilhelm aveva un compagno fedele, e assiduo negli ultimi tempi, Pancrazio Bucini, anche assistente fotografo, il quale ebbe in eredità il grande archivio di lastre e stampe e tutto il resto, fortunatamente in parte salvato da Lucio Amelio e ora protetto nelle Raccolte Museali Fratelli Alinari. Il Bucini, ahimè, per quella eredità si attirò ben presto le ire dei benpensanti moralisti borghesi, non tanto e non solo quelli di Taormina, ma forse per sollecitazioni esterne anche politiche, subì un famoso e significativo, lungo processo, per produzione e smercio di immagini oscene, ossia offensive del “comune senso del pudore”. Immagini che oggi, da quel punto di vista, semmai fanno soltanto sorridere. Il processo si concluse dopo tre anni, nel 1941, al Tribunale di Messina, con l’assoluzione del Bucini. Italo Zannier
le sole rappresentazioni di nudi maschili, banalmente licenziate per la loro connotazione pseudo sessuale. Questa visione complessiva sulla sua opera fotografica, che si rafforza nei saggi critici riuniti nell’avvincente volume-catalogo -al quale stiamo per arrivare-, accompagna l’osservatore al di là di una linea di demarcazione inutile e preconcetta, che gli consente di superare Taormina. Teatro Greco con tre figure maschili, tra le quali, al centro, Wilhelm von Gloeden; circa 1890; carta albuminata mat, 228x159mm (Archivi Alinari, Firenze).
Taormina, circa 1890; stampa all’albumina, 235x170mm (Archivi Alinari, Firenze).
48
pregiudizi e prevenzioni di sapore amaro. Almeno per la libertà di espressione e pensiero. Infine, ancora una nostra considerazione. Per quanto qualsiasi esposizione di originali fotografici dia particolari tipi di emozioni, che allineano l’osservatore con le intenzioni creative dell’autore, il pur attento allestimento scenico di Wilhelm von Gloeden Fotografie. Nudi Paesaggi Scene di genere ci è
parso più appagante per gli addetti di quanto non sia coinvolgente per il pubblico. Spieghiamoci. Gli addetti hanno un particolare rapporto con gli originali fotografici, che vengono osservati, letti, considerati e, persino, studiati con mente e sentimenti finalizzati. E nel grande salone del Palazzo della Ragione di Milano hanno trovato esattamente ciò che serve al loro approccio: un casel-
lario filologicamente impeccabile, con il quale appagare il proprio appetito. Il pubblico più ampio, genericamente generico, cui si rivolgono le sbandierate produzioni pubbliche, avrebbe bisogno di altro coinvolgimento, stabilito da allestimenti che siano accattivanti e coinvolgenti, pur senza alterare lo spirito originario delle opere presentate. Per questo, ci pare che il volume-catalogo che
Gruppo di giovani in terrazza con strumenti musicali; circa 1900; stampa all’albumina, 168x222mm; timbro a inchiostro sul verso “..Deposè 1903..” (Archivi Alinari, Firenze). Palermo. Gruppo scultoreo dei fratelli Canaris e ragazzo; circa 1910; carta albuminata mat, 226x167mm (Archivi Alinari, Firenze).
Nudo maschile con tacchino; circa 1900; stampa all’albumina, 222x158mm (Archivi Alinari, Firenze).
49
BIOGRAFIA
W
ilhelm von Gloeden nasce il 18 settembre 1856 in Germania, a Schloss Volkshagen, vicino a Wismar, dal barone Hermann von Gloeden e dalla baronessa Charlotte Maassen. 1876 Inizia gli studi di storia dell’arte a Rostock. 1877 Frequenta i corsi di pittura del professor Carl Gehrts all’Accademia di Weimar; per motivi di salute, dopo poco tempo si trasferisce in un sanatorio sul mar Baltico. Accetta l’invito del pittore Ottone Geleng, da tempo trasferitosi in Sicilia, di visitare l’Italia e Taormina, durante la convalescenza. 1878 Dopo aver percorso l’Italia seguendo le tappe del tradizionale Grand Tour, si stabilisce a Taormina, prima in un villino vicino al Teatro Greco, poi in piazza San Domenico, in una casa con giardino, che diventerà anche il suo atelier fotografico. Si avvicina alla fotografia sotto la guida di Giuseppe Bruno e Giovanni Crupi. 1880 A Francavilla al Mare, è ospite di Francesco Paolo Michetti, che apprezza il suo lavoro per le qualità artistiche; nell’ambiente del pittore conosce Matilde Serao, Gabriele D’Annunzio, Costantino Barbella. 1893 Espone le sue fotografie a Londra, presso il Linked Ring e la Royal Photographic Society, dove ottiene la medaglia d’oro. Nello stesso anno, alcune sue fotografie iniziano a essere riprodotte (pubblicate), da The Studio e Kunst für Alle. Comincia a svolgere campagne fotografiche in Sicilia, Germania e Tunisia, che concluderà nel 1900. 1895 In seguito a uno scandalo che coinvolge il patrigno, il barone di Hammerstein, von Gloeden perde ogni sostegno finanziario, trovandosi costretto a trasformare la sua passione fotografica in vera e propria professione. Il Granduca Friedrich III di Mecklenburg-Schwerin gli regala una macchina fotografica per lastre di grande formato (30x40cm) e lo sostiene nella sua nuova impresa. 1897 Nella sua casa, Wilhelm von Gloeden riceve la visita di Oscar Wilde, e successivamente riceve altre personalità dell’alta società e cultura internazionale: il re del Siam, Edoardo d’Inghilterra, Augusto di Prussia, figlio del Kaiser, Eleonora Duse e gli industriali Krupp, Rothschild, Morgam, Vanderbilt. Sue fotografie sono inoltre utilizzate da artisti, come Lawrence Alma Tadema, Frederich Leighton e Maxfield Parish. Alfred Stieglitz pubblica alcuni nudi di von Gloeden in Camera Notes. 1898 Wilhelm von Gloeden diventa corrispondente della Freie Photographische Vereinigung di Berlino, e l’anno seguente espone al Keller & Reiner Arte Salon, nella stessa capitale tedesca. 1899 Partecipa all’Esposizione di Fotografia dell’Accademia Reale di Berlino. 1897-1906 Per il suo lavoro fotografico, riceve diversi premi e riconoscimenti; in particolare all’Esposizione del Cairo (1897), al Photoclub di Budapest (1903), alla Société de Photographie di Marsiglia (1903), a Nizza e a Riga (1905); nel 1906, riceve la medaglia d’oro del Ministero della Pubblica istruzione Italiana. 1908 Anatole France, diretto in Egitto, si ferma a Taormina per fargli visita. Partecipa alla realizzazione del volume Messina e Reggio 28 XII 1908 - 29 XII 1908, pubblicato dalla Società Fotografica Italiana nel 1909 per ricordare il terremoto. 1911 Partecipa all’Esposizione Universale di Roma. 1915-1918 In quanto straniero, lascia l’Italia durante gli anni del conflitto. Al suo rientro a Taormina, nel 1918, riprende il suo lavoro e commercializza le sue fotografie stampandole dai negativi eseguiti precedentemente. 1930 Termina la sua attività fotografica. Vende la sua casa in piazza San Domenico, per ricavarne una rendita annuale. Muore la sorellastra, Sofia Raab, che lo aveva raggiunto a Taormina nel 1895. Wilhelm von Gloeden muore il 16 febbraio 1931. Viene sepolto nel cimitero dei protestanti di Taormina. La baronessa Frida von Hammerstein, sua sorellastra e unica erede, cede tutti i diritti di proprietà e utilizzo delle fotografie al suo assistente Pancrazio Bucini, detto Il Moro. A seguire, nel 1933, Pancrazio Bucini subisce il parziale sequestro dei materiali dell’archivio von Gloeden, con l’accusa di detenzione e commercializzazione di soggetti pornografici. Quindi, subisce un processo presso il Tribunale di Messina, che si prolunga dal 1939 al 1941, dal quale viene assolto: è riconosciuto il valore artistico e non pornografico dell’opera di Wilhelm von Gloeden.
50
accompagna la mostra, pubblicato da Alinari 24 Ore nella collana Monografie dei grandi fotografi, sia addirittura più apprezzabile e appetibile della mostra degli originali (con prudenza!). Nella sequenza delle pagine, la dimensione delle immagini è ritmata su un tempo di osservazione e percezione che viene adeguatamente assecondato e indirizzato: fino al punto di offrire livelli di maggiore leggibilità e comprensione delle opere. Un esempio sopra tutti riguarda la Veduta da Naxos, del 1900 circa (che non possiamo visua-
Due giovani nudi; circa 1900; stampa all’albumina, 229x165mm (Archivi Alinari, Firenze).
In copertina: Due giovani seduti tra erba e rocce; 1898; da stampa all’albumina, 288x371mm; timbro a inchiostro sul verso “W. v. Gloeden 92. (sic) marzo 1898…” (Archivi Alinari, Firenze). Wilhelm von Gloeden Fotografie. Nudi Paesaggi Scene di genere, a cura di Italo Zannier. Saggio di Italo Zannier ( L’archeologica, casta fotografia di von Gloeden; in estratto e sintesi, a pagina 48); introduzione di Vittorio Sgarbi; testi di Monica Maffioli ( L’archivio von Gloeden conservato nelle Raccolte Museali Fratelli Alinari) e Silvia Paolo e Alessandro Oldani ( Il fondo von Gloeden - Plüschow conservato al Civico Archivio Fotografico di Milano); edizione bilingue italiano e inglese; Alinari 24 Ore / Monografie dei grandi fotografi, 2008 (largo Alinari 15, 50123 Firenze; www.alinari.it, infoalinari.it); 150 illustrazioni; 192 pagine 24x29cm; 45,00 euro.
lizzare, non essendo tra le immagini liberalizzate per la presentazione giornalistica della mostra). Alla parete, il pubblico incontra una stampa su carta albuminata mat 16,5x22,4cm che non consente di apprezzare adeguatamente la raffinatezza della composizione, che nel particolare si basa sulla suggestione di toni fortemente contrastati: il nero delle rocce laviche e il tono opposto delle due figure chiare che guardano verso il mare in lontananza. In catalogo, il consistente ingrandimento a quasi quaranta centimetri di base, sulla doppia pa-
gina, e l’osservazione ravvicinata fanno battere forte il cuore: che raffinato e colto autore è stato il barone Wilhelm von Gloeden, che acuto osservatore dello spazio, prontamente tradotto in una rappresentazione fotografica di alto profilo. Ancora, con le dimensioni alternate delle immagini presentate e con la loro sequenza nella successione delle pagine, il catalogo Wilhelm von Gloeden Fotografie. Nudi Paesaggi Scene di genere si presenta e offre come monografia allestita da chi sa cosa sia la fotografia, il suo racconto e la sua condivisione. Ciò detto, il nostro compito giornalistico non va oltre, non può andare oltre, verso competenze che non ci appartengono. Per cui, a parte proponiamo un estratto (in sintesi) dal saggio introduttivo di Italo Zannier, che offre strumenti e considerazioni di adeguato approfondimento critico e storico (riquadro a pagina 48). Il testo completo è riportato sull’edizione libraria Wilhelm von Gloeden Fotografie. Nudi Paesaggi Scene di genere, con ulteriori interventi di Monica Maffioli e Silvia Paoli e Alessandro Oldani, oltre l’introduzione di Vittorio Sgarbi. La monografia comprende, quindi, consistenti apparati storici complementari. M.R. Wilhelm von Gloeden Fotografie. Nudi Paesaggi Scene di genere. A cura di Italo Zannier. Palazzo della Ragione, piazza Mercanti, 20123 Milano. Fino al 24 marzo; lunedì 14,30-19,30, da martedì a domenica 9,30-19,30, giovedì chiusura alle 22,30.
51
UN TEMPO NEL QUALE Sedici fotografie di Franco Berutti, da negativi recuperati da Angelo Mereu, testimoniano un tempo nel quale i riferimenti sociali si rivolgevano soprattutto al mondo culturale. Ritratti di scrittori e personaggi del cinema che richiamano decenni trascorsi, dei quali sentiamo nostalgia
lamoroso! Se cercate su Internet «“Franco Berutti” cinema», oppure «“Franco Berutti” Corriere», trovate soltanto una decina di voci, che mai però parlano di Franco [Berutti]. Se poi cercate «“Franco Berutti” giornalista» non trovate addirittura nessuna voce. Incredibile, perché Franco Berutti è un grande del giornalismo, un grande cronista, non solo dello spettacolo, che ha lavorato a Settimo Giorno, attento settimanale degli anni Quaranta-Cinquanta, Il Giorno, all’inizio della sua avventura giornalistica, cominciata il 21 aprile 1956 e voluta dall’Eni di Enrico Mattei e Cino Del Duca, La Domenica del Corriere e, infine, al Corriere della Sera. Con Pietro Bianchi, è poi autore di una memorabile Storia del cinema, pubblicata da Garzanti, nel 1957. Provate allora a cercare su Internet anche «Storia del cinema / Pietro Bianchi / Franco Berutti»: troverete qualche citazione in più, ma poca cosa. Con un poco di fortuna, si può rintracciarne una copia presso qualche venditore in ebay. Ho conosciuto Franco Berutti nel novembre 1980, in un viaggio sulla costa est degli Stati Uniti. Lui era mandato dal Corriere, io dal mensile Weekend. A Disney World, nei pressi di Orlando (Florida), si inaugurava una nuova “montagna russa”, la Big Thunder Mountain Railroad costata cinque miliardi di lire di allora, e la Disney era interessata a che se ne parlasse in Italia. Familiarizzai subito con lui e gli stetti vicino per tutto il viaggio. Franco Berutti era stato iscritto a Ingegneria nell’anno accademico 1944-45 (conservo ancora il suo tesserino universitario, dove è ritratto con tutti i capelli in testa e i baffetti da sparviero; qui sopra, a destra). Forse per il suo tentativo ingegneristico abortito, sembrava in qualche modo interessato a me, alla mia figura anomala di docente di Analisi Matematica a Ingegneria e di fotogiornalista. Io, d’altro canto, ero affascinato dalla sua cultu-
C
Il tesserino universitario di Franco Berutti (Politecnico di Milano, anno accademico 1944-45), nel quale è ritratto con tutti i capelli in testa e i baffetti da sparviero, citato nell’articolo. Lasciata la facoltà di Ingegneria, Franco Berutti si iscrisse a Lettere.
AUTORITRATTO
CON IL PADRE
ALESSANDRO
ra, dal suo modo di fare scanzonato ed elegante, dal suo stile unico e indefinibile, dalle sue battute di un sarcasmo bonario. Richiamando evocazioni cinematografiche, vicine ai suoi interessi privati e professionali, in una presentazione scritta per una mostra realizzata con le fotografie “americane” di Franco Berutti, ospitata nelle sale del Ristorante Rigolo di largo Treves, a pochi passi dalla redazione del quotidiano milanese, nel
53
TULLIO KEZICH
54
GOFFREDO PARISE
PIETRO BIANCHI
novembre 2003 Marzio Breda, storico e giornalista del Corriere, lo descrive così: «Aveva l’ironia di un Peter Sellers, lo scetticismo di un Alec Guinness, la cultura irregolare di uno Zavattini, l’umanità candida di quegli uomini “che stanno al mondo con i piedi fortemente poggiati sulle nuvole”». Al rientro dal viaggio negli Stati Uniti, la mia amicizia con Franco Berutti è diventata eterna. Avevo dato poco e ottenuto moltissimo. Cominciammo a frequentarci con regolarità. La prima volta che venne a cena da noi, a casa, mi sorprese. Nelle mani custodiva un pacchettino avvolto nella carta di Peck (il raffinato negozio milanese di delicatezze gastronomiche). Pensavo a qualcosa per noi, ma, entrando, disse: «Grazie che mi avete preparato da mangiare, ma avevo voglia di piedino di maiale. Non volevo disturbarvi e me lo sono portato». Fantastico e unico. Un’altra dote di Franco Berutti è stata la generosità. Riprendo un aneddoto raccontato dal pittore Giancarlo Cazzaniga: «Il non ricco
BRUNO ROSSI CARLO BO LUIGI ZAMPA
giornalista Franco Berutti ha comprato uno dei miei primi quadri». Solidarietà agli artisti!, avrebbe esclamato, ma sottovoce, Franco. Franco Berutti è nato il 20 febbraio 1924, a Genova Pegli, ma quando arrivò a Milano, nel 1944, veniva da Pinerolo, nella provincia di Torino. Come ho già ricordato, si iscrisse per un anno Ingegneria, ma poi passò a Lettere. Conobbe Giuseppe (Peppino) Marotta, lo scrittore dell’Oro di Napoli, e diventarono amici. Nel 1949 conobbe Silvana Branduani, «figlia del mitico libraio Cesarino, un punto di riferimento in una Milano assetata di sapere» come ha scritto Gianluigi Colin, art director del Corriere della Sera. Quando Franco sposa Silvana, nel 1959, testimone di nozze è un fotografo di eccezione, caro amico suo, Ugo Mulas. Esistono un centinaio di stampe vintage del matrimonio (oggi le classifichiamo così, vintage), conservate da un amico, Angelo Mereu, del quale parlo più avanti. Franco Berutti comincia a lavorare come giornalista, e nelle redazioni diventa subito noto come L’Enciclopedia. Clamoroso un altro aneddoto ricordato da Tullio Kezich, nel suo saluto all’amico cronista, pubblicato dal Corriere della Sera il 20 giugno 2000, due giorni dopo la sua morte. Narra Tullio Kezich che Enrico Emanuelli, un inviato del Corriere, deve recarsi per la prima volta a New York. A un tavolo del bar Giamaica, in via Brera a Milano, il giovane Franco Berutti gli viene in soccorso dandogli un sacco di consigli: dove mangiare, dove trovare giornali italiani, in che albergo alloggiare, e via dicendo. Colpito dalla generosità e competenza di Franco Berutti, Enrico Emanuelli gli chiede per quanti anni ha vissuto negli Stati Uniti. «Non ci sono mai stato», risponde candidamente Franco Berutti. Eppure i consigli furono tutti validissimi, e Enrico Emanuelli ne fece buon uso. Verso la fine degli anni Ottanta, la fortuna mi ha fatto incontrare Angelo Mereu, personaggio straordinario, generoso e poetico, abile orafo e ottimo fotografo [ospitato in FOTOgraphia in tre occasioni successive: nel giugno e novembre 2005 con immagini da telefonino e nel precedente giugno 2004 in occasione delle prime cinquanta affissioni pubblicitarie di Armani, in via Broletto, a Milano]. Grande fu la mia sorpresa, quando scoprii che anche Angelo era amico di Franco, amico fraterno. Così il Rigolo, il ristorante di largo Treves già ricordato, a due passi dal Corriere, dove Franco è andato a colazione per quarant’anni, divenne (purtroppo non abbastanza spesso) il luogo dove ritrovare due amici, ridere con loro, ricaricarsi l’anima. Le sedici fotografie di Franco Berutti che da fine marzo a tutto maggio sono esposte nel negozio Giolina e Angelo Mereu Oro e Bijoux, in via Solferino 22a, a Milano, nello stesso isolato del
55
ALBERTO LATTUADA E ROSSANA PODESTÀ
Sedici fotografie di Franco Berutti esposte da Giolina e Angelo Mereu Oro e Bijoux, via Solferino 22a, 20121 Milano; 02-653770; giolinaeangelomereu@fastwebnet.it. Dal 21 marzo al 29 maggio.
56
AUTORITRATTO
Corriere della Sera, a due passi dal suo ingresso, vengono da negativi che in parte erano custoditi dalla moglie Silvana, e in parte sono stati recuperati dallo stesso Angelo Mereu nel disordinatissimo archivio che Franco ha lasciato. Sono fotografie nelle quali compaiono Alberto Lattuada e Rossana Podestà, Bruno Rossi e Carlo Bo, Luigi Zampa e Goffredo Parise. C’è anche un autoscatto, che mostra Franco Berutti con suo padre Alessandro, e un secondo autoscatto nel quale compare da solo. Questo fondo fotografico non è mai stato esposto. Dal punto di vista della composizione o della tecnica non si tratta certo di capolavori, ma sono testimonianze avvincenti. Si tratta infatti di rari e preziosi istanti della vita di un uomo che ha attraversato i decenni d’oro della cultura milanese e del cinema italiano. Tra i grandi fotografi della Milano di allora, oltre a Ugo Mulas, gli furono amici Gianfranco Moroldo e Alfa Castaldi. E i personaggi della cultura che frequentava erano lo scrittore ed editore Leo Longanesi, i pittori Bruno Cassinari e Lucio Fontana, gli scrittori Eugenio Montale, Riccardo Bacchelli, Mario Soldati, Dino Buzzati (con lui al Corriere), gli uomini di cinema Ermanno Olmi, Michelangelo Antonioni, Federico Fellini, Marcello Mastroianni, Vittorio De Sica. Eccetera, eccetera. Così concludeva Tullio Kezich nel suo saluto, già ricordato: «È triste che Franco Berutti se ne sia andato; ed è ancora più triste constatare che di tipi simili si è perso lo stampo». È proprio vero, è così. Lello Piazza
SGUARDI
Il gesto fotografico, la personalità dei fotografi e un contorno di fotografie pubblicitarie (di macchine fotografiche) compongono i tratti di una affascinante visione che non si esaurisce nella propria brillante apparenza, ma si estende al racconto della stessa storia della fotografia. Esposta al Musée suisse de l’appareil photographique, di Vevey, Les photographes - regars inversés racconta momenti particolari con una osservazione dall’interno. Ribadiamo: rivela come i fotografi vedono se stessi, la propria attività, la propria personalità nel momento in cui si sta manifestando nel gesto (rito?!) della ripresa fotografica
A
ssolvendo al meglio e con intelligenza il proprio compito istituzionale, l’avvincente Musée suisse de l’appareil photographique di Vevey non si perde in quei superflui intellettualismi di maniera, peraltro spesso sterili, che purtroppo caratterizzano molte manifestazioni italiane della fotografia, ma rivolge la propria attenzione ai fenomeni che ruotano attorno la personalità della stessa fotografia nel proprio insieme. Confessiamo subito di essere particolarmente vicini e affini a questo modo di osservare il mondo fotografico, tanto che, per quanto possiamo farlo, noi stessi siamo dichiaratamente interessati alle fenomenologie di costume e sociali (che non sono di solo contorno). Personalmente, tra tanto altro, ci interessiamo della presenza della fotografia nel cinema (oltre i nostri articoli a tema, ricordiamo ancora la selezione Fotografia & Cinema. Fotogrammi celebri, a cura di Maurizio e Filippo Rebuzzini, allestita alla Galleria Grazia Neri all’inizio dello scorso anno; FOTOgraphia, dicembre 2006 e maggio 2007), nella narrativa, nei fumetti (con i quali, da tempo, apriamo ogni edizione della rivista) e in filatelia (numerosi i richiami sulle nostre pagine). In questo senso, senza inutili false modestie, possiamo anche leggere e riconoscere lo spessore di al-
58
tri nostri precedenti appuntamenti redazionali, che negli anni passati si sono adeguatamente soffermati su aspetti tecnici che si proiettano verso il costume e/o il design industriale: per tanti versi, è stato questo il senso delle considerazioni di 50per70 - Attrezzature fotografiche dagli anni Cinquanta e non oltre i Settanta, pubblicate alla fine degli anni Novanta, e delle successive visualizzazioni di Memorabilia - Forme ed estetica della fotografia, avviate nel giugno 1996 con l’affascinante Asahi Pentax Spotmatic, del 1964.
RIFLESSI Riservisti svizzeri in posa davanti alla bottega di un fotografo; Prima guerra mondiale (Collezione Musée suisse de l’appareil photographique).
Così che, in allineamento, ci sentiamo schierati a fianco dell’attenzione con la quale il Musée suisse de l’appareil photographique parla di fotografia, avviando le proprie riflessioni e considerazioni da una concentrata analisi dei suoi strumenti tecnici, senza peraltro fermarsi, né limitarsi, a questo. Anzi, è assolutamente vero l’esatto contrario. In sintonia di intenti, come FOTOgraphia fa vita della propria materia istituzionale (appunto la fotografia), richiamandosi ai suoi fenomeni (espressivi o tecnici che siano)
per proiettarsi e proiettarli nell’esistenza quotidiana di ciascuno di noi, con percorso analogo il Museo svizzero approfondisce partendo (o fingendo di farlo) da considerazioni oggettivamente utilitaristiche. È stato questo il caso della convincente selezione di ritratti di cento fotografi contemporanei, incontrati fino alla prima metà degli anni Ottanta, realizzati da Michel Auer, ed esposti a Vevey, sul lago Lemano (lago di Ginevra), nelle sale del Museo, dall’ottobre 2005 al successivo febbraio (FOTOgraphia, settembre 2005).
59
Scena fotografica; circa 1916 (Collezione Musée suisse de l’appareil photographique).
Ovviamente, al Musée suisse de l’appareil photographique le mostre temporanee, come questa appena ricordata, altre che pure abbiamo presentato e quella che stiamo per commentare, fanno da contorno e cornice all’esposizione permanente di macchine fotografiche e immagini che scandiscono i tempi della Storia, dalle origini fino ai nostri giorni (qui sotto).
REGARS INVERSÉS
Fotogiornalisti al matrimonio di Simeone II re di Bulgaria (dal 1943 al 1946) con l’aristocratica spagnola Margarita Gomez Acebo y Cejuela, nella chiesa ortodossa di Vevey; 21 gennaio 1962 (Fotografia di Eric Guignard; Collezione Musée suisse de l’appareil photographique).
In consistente consecuzione ideale, che stiamo per sottolineare, l’imminente selezione Les photographes - regars inversés, in cartellone al Museo di Vevey dal dodici marzo a tutto agosto, si riallaccia sia alla serie di ritratti di Michel Auer, che abbiamo appena ricordato, sia a una lunga tradizione della raffigurazione dei fotografi, che richiamiamo in un apposito riquadro pubblicato a pagina 62 (dopo averla già commentata in occasioni precedenti). Gli sguardi rovesci non raccontano ciò che la fotografia fa dalle proprie origini, o quasi. Cioè, non raccontano lo svolgimento della vita, inquadrata in composizioni capaci di attrarre e sedurre l’attenzione dell’osservatore. Cambiando orientamento, e rivolgendosi al momento esplicitamente fotografico, raccontano istanti particolari con una osservazione dall’interno: rivelano come i fotografi vedono se stessi, la propria attività, la propria personalità nel momento in cui si sta manifestando nel gesto (rito?!) della ripresa fotografica. Quindi, assolvendo il proprio compito istituzionale fondamentale e principale, che è quello della conservazione del patrimonio fotografico, a partire dagli strumenti, il Musée suisse de l’appareil photographique dischiude un fantastico dietro-le-quinte,
AUTENTICO MUSEO
A
ll’interno di un edificio del Diciottesimo secolo, una architettura contemporanea ospita una straordinaria collezione di apparecchi fotografici. Quattro piani di esposizione permanente coprono l’intera storia della fotografia, con la testimonianza di apparecchi, materiali e accessori. Dalla camera obscura originaria, il percorso del Musée suisse de l’appareil photographique porta fino all’immagine digitale del presente-futuro. Dal successo di una retrospettiva che Vevey, amabile cittadina sul lago Lemano (dove si ritirò anche Charlie Chaplin), dedicò nel 1971 alla storia della fotografia osservata dal punto di vista della famosa collezione di Michel Auer, raccolta anche in prestigiose monografie, nacque l’idea e l’intenzione di dare vita proprio a un autentico Museo, che fu quindi realizzato e fondato da ClaudeHenry Forney nel 1979. Dopo una prima sede provvisoria, dal 1989 il Musée suisse de l’appareil photographique ha sede definitiva nell’antico palazzo appena ricordato, appositamente ristrutturato dall’architetto Hugo Fovanna, ed è diretto da Pascale e Jean-Marc Bonnard Yersin. Musée suisse de l’appareil photographique, Grande Place 99 (ruelle des Anciens-Fossés 6), CH-1800 Vevey, Svizzera; 0041-21-9252140, fax 0041-21-9216458; www.cameramuseum.ch, cameramuseum@vevey.ch; da marzo a ottobre martedì-domenica 10,30-12,00 - 14,00-17,30, da novembre a febbraio solo pomeriggio.
60
Henri Cartier-Bresson alla finestra di un hotel sulla Fifth Avenue di New York fotografato da RenĂŠ Burri (Magnum Photos).
Werner Bischof fotografato da Ernst Haas (Magnum Photos).
61
ALTRI FOTOGRAFI FOTOGRAFATI
R
affigurati per se stessi o nel gesto della propria azione fotografica, ritratti e autoritratti di fotografi compongono un casellario vasto ed eterogeneo. In occasione dell’attuale allestimento della avvincente selezione Les photographes regars inversés, al Musée suisse de l’appareil photographique, nel corpo centrale dell’attuale intervento redazionale abbiamo già ricordato i ritratti di cento fotografi contemporanei, allestiti nella personale Michel Auer Photographer, esposta nella stessa sede museale svizzera dall’ottobre 2005 al febbraio 2006 (FOTOgraphia, settembre 2005). Qui a seguire, ripercorriamo il fenomeno, ricordando le monografie che riuniscono e raccolgono ritratti o autoritratti di fotografi. ❯ De l’autre côté de l’objectif, di Arnold Crane (1995; FOTOgraphia, dicembre 1996), è un elaborato progetto visivo. Dal 1967, in un arco di ventotto anni il fotografo newyorkese Arnold Crane ha frequentato fotografi di fama. Li ha sistematicamente fotografati, vivendo con loro per periodi più o meno lunghi, seguendoli nelle occupazioni giornaliere, nel lavoro, in studio, durante il tempo libero. Così, ha composto ed edificato un autentico monumento di valore visivo inestimabile, nonché di catalogazione storica di autori-simbolo del nostro tempo (ventiquattro, da Berenice Abbott e Ansel Adams a Paul Strand, Minor White e Garry Winogrand, pescando dall’ordine alfabetico). ❯ Faces of Photography, di Tina Ruisinger (2002), ricalca il progetto di Arnold Crane appena ricordato: ancora cinquanta maestri della fotografia contemporanea, incontrati, intervistati e fotografati. Ogni fotografo è presentato con una galleria di almeno due intensi ritratti bianconero, non didascalici, non documentativi, ma proprio ritratti. A seguire, sono riprodotte simil-pagine di block notes, dove altre istantanee (estese agli ambienti di vita dei singoli fotografi: cucina, citofono, scrivania, poltrona) si completano con annotazioni scritte, graffette di trattenimento, pinzature. All’interno di questa selezione di “cinquanta maestri”, ci gratifica sottolineare tre presenze italiane: Mario Giacomelli (incontrato a Senigallia il 22 gennaio 1998), Gianni Berengo Gardin e Mario De Biasi. ❯ The Camera I (1994): raccolta-catalogo di un’omonima esposizione di autoritratti di fotografi provenienti dalla collezione di Audrey e Sydney Irmas. La sequenza delle autoraffigurazioni della collezione parte da lontano, da Roger Fenton (1855), André Adolphe Eugène Disdéri (1860), Nadar (1863), per arrivare, attraverso i decenni, alle rappresentazioni dei giorni moderni. Il valore di questa proposta monografica risiede nella possibilità di tratteggiare e leggere il senso delle rispettive epoche attraverso l’autorappresentazione dei fotografi. ❯ Flesh & Blood (1992): zibaldone di immagini di fotografi con la propria famiglia, da un punto di vista soltanto statunitense. ❯ Celebrating the Negative, a cura di John Loengard (1994; FOTOgraphia, maggio 1995), è una raccolta di negativi di immagini che appartengono alla storia della fotografia, ognuno tenuto tra le mani sopra un piano luminoso. Con rigore museale, sono riportati i dati di identificazione dello stesso negativo, pri-
mo tra tutti il luogo della sua conservazione, e non è stata omessa l’indicazione di chi lo sta trattenendo tra le proprie mani. Dopo di che, un testo commenta la fotografia in oggetto, che -attenzione- non viene neppure presentata: si dà per scontato che si tratti di una immagine universalmente nota, già sufficientemente definita dalla propria visione al negativo. ❯ Halsman at Work, a cura di Yvonne Halsman (1989): la moglie di Philippe Halsman racconta affascinanti dietro-le-quinte di celeberrime sessioni fotografiche. ❯ Photographers and their Images, a cura di Fi McGhee (1989), riunisce un nutrito gruppo di fotografi interpellati dal curatore, che si è premurato di ritrarli durante il colloquio: ogni fotografo indica e commenta la propria immagine preferita. ❯ I fotografi e il loro apparecchio (1995) è un fascicolo realizzato dalla svizzera Sinar, che sottintende un filo conduttore indiscutibile: l’apparecchio in questione è sempre e comunque il banco ottico Sinar. ❯ Self-Portrait in the Age of Photography (1985) è stata una sorta di anticipazione del ricordato The Camera I. Ancora si tratta di autoritratti di fotografi, e ancora si tratta di un volume-catalogo: della mostra itinerante che prese avvio con le esposizioni in Texas nel marzo e aprile 1986, alla Sarah Campbell Blaffer Gallery dell’Università di Houston e al San Antonio Traves Park Plaza. ❯ Camera, settembre 1978: monografia di autoritratti in polaroid. Autentica selezione internazionale, con significative presenze italiane: Gian Paolo Barbieri, Pepi Merisio, Will McBride (che allora viveva in Italia) e Oliviero Toscani. ❯ Masters of Light, di Abe Frajndlich (1990), è un’altra raccolta di ritratti di fotografi, presentata in mostra alla Photokina di Colonia del 1990. ❯ Photographers Photographed, di Bill Jay (1983): fotografi fotografati. ❯ The Craft of Photography, campagna stampa Leica realizzata con testimonianze dirette di autori, rappresentati dalle proprie mani che tengono un apparecchio Leica M o R (FOTOgraphia, settembre 2002). ❯ In good hands, di Michael Agel: ritratti di fotografi con le proprie Leica (in Leica World 1/2003 e Leica Magazine 4/2003; in mostra al Castello dei Pico di Mirandola, in provincia di Modena, fino allo scorso diciassette febbraio). Volendoci allargare, si potrebbero includere in questo casellario altre due segnalazioni. Prima di tutto, ricordiamo la raccolta Camera Crazy (2004), nella quale il fotografo di moda Arthur Elgort ha riunito una sostanziosa quantità di immagini dove compaiono sempre apparecchi fotografici, tra le mani di colleghi piuttosto che nella casualità di istantanee stradali. Quindi, torniamo ai raduni di fotografi di fama internazionale che Olympus ha organizzato e svolto in tempi successivi: 1979, 1983 e 2004. In ognuna di queste riunioni, ogni fotografo ha fotografato gli altri (personalmente abbiamo in archivio la serie bianconero di Gian Paolo Barbieri del 1979: ed è un’altra storia); in particolare, il periodico e-Magazine ha pubblicato le fotografie del 2004 nel proprio primo numero (FOTOgraphia, maggio 2004).
la cui consistenza compone avvincenti tessere del vasto mosaico del suo racconto storico. Le immagini selezionate e raccolte in mostra rivelano la vita, la passione e i gesti di chi sta effettivamente utilizzando macchine fotografiche. È stato composto un casellario essenziale che svela ambienti, istanti di passione o tensione creativa, personalità. Composta da istantanee, ritratti posati e autoritratti e raffigurazioni pubblicitarie, questa raccolta di immagini di fotografi in azione arricchisce l’incredibilmente vasta e varia iconografia a tema (anche il celebre ritratto di William Henry Fox Talbot, uno dei padri della fotografia, realizzato nel maggio 1864 da John Moffat, lo ha rappresentato con un obiettivo tra le mani e un apparecchio fotografico lì accanto). Nel proprio insieme, si ricava persino una sorta di evoluzione temporale della professione nel corso dei de-
62
cenni, il proprio adattamento ai continui cambiamenti o nuove situazioni, la propria metamorfosi indotta dai progressi tecnologici. In parallelo, altrettanti sconvolgimenti hanno determinato anche il modo nel quale il medium della fotografia è visto e utilizzato dal caleidoscopico mondo di utenti privati. Insomma: Les photographes - regars inversés svela un capitolo della storia della fotografia, raccontato attraverso la sua riflessione interna. Quasi, il suo autoritratto.
TRE TEMPI La mostra al Musée suisse de l’appareil photographique è divisa in tre sezioni. La prima sottolinea il fatto che il termine “fotografia” evoca una miriade di impressioni. In una successione di immagini che ripercorrono i decenni, qui sono mostrati i ge-
sti dello scatto, che sottolineano anche, come appena osservato, la sostanziale e sostanziosa trasformazione temporale, sia in ambito professionale sia nell’esercizio non professionale. A poco a poco, immagine dopo immagine, prende vita e forma un ritratto degli stessi fotografi, che si riflette nella successione delle raffigurazioni (autentiche rappresentazioni). Come sappiamo, “fotografia” è tanto e diverso: sessioni in studio, per la pubblicità commerciale, ripetizioni di routine, osservazioni e documentazioni della vita nel proprio svolgimento. In ogni situazione, ci sono apparecchiature che assolvono in modo adeguato la condizione affrontata, e che, per riflesso, richiedono gesti e attenzioni proprie. Insomma, questa prima sezione di Les photographes - regars inversés è esattamente ciò che abbiamo già annotato: un autentico casellario di istanti fotografici nel proprio significato originario (due esempi alle pagine 58 e 60). La seconda sezione si rivolge al fotogiornalismo e alla fotocronaca. La sua riflessione implicita e consequenziale è indirizzata all’evoluzione stessa del reportage e, in parallelo, dell’editoria e dei diversi modi di trattare le notizie. Le immagini provengono da consistenti archivi storici e diverse agenzie, delle quali documentano peraltro l’attività quotidiana. Come sappiamo (dall’interno del mondo fotografico, del quale conosciamo confini e caratteristiche), l’impatto della fotografia di giornalismo è discriminante sul pubblico dei giornali. Quindi, con sguardo rovescio, questa rappresentazione opposta, che mostra i fotoreporter al lavoro, visualizza come agiscono e operano questi professionisti, soprattutto nel corso di quelle manifestazioni pubbliche e annunciate durante le quali sono affiancati uno all’altro, nel tentativo di conquistare un punto di vista migliore, una prospettiva più calzante, una inquadratura significativa (un esempio a pagina 60). In questa sezione è altresì presentata l’analisi sul
fotogiornalismo svizzero realizzata dall’Istituto di Sociologia dei Mass Media presso l’Università di Losanna (docente, il professor Gianni Haver), che puntualizza l’evoluzione dell’azione dei fotografi di diverse riviste, come Illustré, Sie und Er, Patrie suisse, Zürcher Illustrierte e Illustrazione ticinese. Infine, la terza e ultima sezione si concentra sul “fotografo fotografato”, dagli archivi della prestigiosa e autorevole agenzia Magnum Photos. Si tratta di una sorta di complemento visivo al racconto delle attività dei celebri fotografi Magnum, che spesso accompagna le edizioni librarie dei loro reportage (per esempio, Henri Cartier-Bresson e Werner Bischof, rispettivamente fotografati da René Burri e Ernst Haas, a pagina 61). Infine, in appendice: avvincente selezione di immagini per le pubblicità e la depliantistica Kodak degli anni Cinquanta (due esempi in questa pagina), che in Italia furono presentate nell’ambito del PhotoFestival 2003 - Tecnica e creatività, a cura di Tita Beretta, Giulio Forti e Maurizio Rebuzzini (FOTOgraphia, marzo 2003): senza alcun consistente seguito, tra l’indifferenza generale. Tanto dovevamo sottolineare. Angelo Galantini
Situazioni di serena vita familiare e dintorni per pubblicità Eastman Kodak Company degli anni Cinquanta (Collezione Musée suisse de l’appareil photographique).
Les photographes - regars inversés. Musée suisse de l’appareil photographique, Grande Place 99 (ruelle des Anciens-Fossés 6), CH-1800 Vevey, Svizzera; 0041-21-9252140, fax 0041-21-9216458; www.cameramuseum.ch, cameramuseum@vevey.ch. Dal 12 marzo al 31 agosto; martedì-domenica 10,30-12,00 - 14,00-17,30.
63
F
ULIANO LUCAS
Fotografare è imparare a vivere. All’inferno non c’è nulla che ci attenda senza lacrime e sangue; la nostra vita è qui, dice la fotografia della povertà. Di più. La scrittura fotografica del dissidio figura la congiunzione tra curiosità intellettuale e sensibilità etica. Il dialogo e gli scambi tra culture favoriscono un’accoglienza etica e regole generali di convivenza. L’incontro delle diversità è ricchezza. I diritti umani non rispondono alle prediche della modernizzazione occidentale, ma alle sfide della società multietnica che viene. Il compito della fotografia della povertà è quello di esprimere le diversità multiculturali e rigettare giustificazioni e legittimazioni delle democrazie armate. La pace si fa con la pace e non con le bombe. La pace armata è la pace dei cimiteri. «L’Italia è la quarta nazione esportatrice di armi nel mondo, dopo gli Stati Uniti, la Russia e la Francia. Oltre ai pacchi per l’Unicef, esportiamo armi. E le esportiamo nei paesi del terzo mondo» (don Tonino Bello). Si tratta di lavorare per una teologia della pace con ogni forma di comunicazione; e anche la fotografia può essere un mezzo per rompere la soggezione e il silenzio. La fotografia della povertà interroga, non dà risposte.
SULLA FOTOGRAFIA DELLA POVERTÀ E CRITICA DELLA VIOLENZA
«La critica della violenza è la filosofia della sua storia» (Walter Benjamin). La fotografia della povertà è uno sguardo che si pone contro o non si fa complice della violenza che conserva il diritto del dominatore e oppone una “violenza creativa”, figurativa, ereticale che la smaschera. La “violenza creativa” rappresenta se stessa, e nell’esposizione del
64
proprio dolore estremo mostra l’esistenza degli ultimi della Terra come tale. La “violenza del sacrificio” non è spettacolare, né si presta al mercimonio di nessuna ragione che non sia la fine del privilegio e della sopraffazione. Poiché la violenza del potere conserva l’egemonia sulle genti attraverso la mercificazione di terrorismi, guerre, catastrofi, e il riduzionismo economico fa il
ria porta in sé denuncia l’intoccabilità dei governanti di ogni risma, e ha come intima utopia l’eliminazione della povertà e dell'ineguaglianza. Diritti e libertà si estendono là dove etica e bellezza sconfiggono l’economia e la politica della violenza. Non ci può essere giustizia se non c’è uguaglianza e fine delle discriminazioni. Il fondamento della libertà è l’uguaglianza e la bel-
«Le nostre autorità non sanno niente, non possono niente, non valgono niente, non ci risparmiano niente, e non sanno che cullarci nelle fandonie, al solo scopo di conservare i privilegi acquisiti e di perpetuare il proprio dominio» Albert Caraco resto, la fotografia della povertà è un mezzo per combattere, smascherare, denunciare il legame tra povertà e violenza che fuoriesce dalle scelte dei governi occidentali in materia di politica estera. In Russia, Cina, Africa, America Latina e in molti altri paesi del mondo i diritti umani sono calpestati; ma gli affari sono affari, e il sangue innocente che scorre mostra la banalità dell’economia e l’inadeguatezza della politica. Gli impoveriti non hanno patria. «Coloro che stanno al governo appartengono a una classe sociale differente da quella cui appartengono le vittime delle carestie, e, in genere, nessuno di loro deve subire le umiliazioni» (Amartya Sen). La filosofia di amore e libertà che la fotografia della mise-
lezza. Il rispetto dei diritti umani nasce da qui. La bruttezza domina nel mondo. La bruttezza della politica, la bruttezza dell’economia, la bruttezza delle armi, la bruttezza delle religioni monoteiste esprimono l’imperiosità, peraltro infondata, delle democrazie dello spettacolo, e anche il genocidio è giustificato sugli scranni dei governi. I popoli impoveriti subiscono le forche, le vessazioni, le restaurazioni arbitrarie dell’impero occidentale. Economia e politica sono intrecciate a criminalità comune ed esprimono idee astratte e orrori concreti. È vero, la povertà genera violenza. La violenza è spesso una risposta contro una violenza subìta. La fotografia randagia di Uliano Lucas è stata costruita
sul tavolo ruvido della realtà offesa e non ha temuto di perdere il tanfo della popolarità o ha declamato la verità della cronaca rivestendola dell’abituale arroganza che molti hanno deputato alla fotografia sociale. Subito, la fotografia randagia di Uliano Lucas è stata trasversale al mercantilismo delle idee e ha stabilito che è meglio mangiare fagioli da uomini liberi che gli avanzi delle torte alle mele da schiavi. La sua scrittura inconografica è una ricerca al contempo segnata dalla visione solitaria del fotogiornalista sganciato dai luoghi comuni e fortemente “calda” o partecipata dal punto di vista umano. Nei suoi ritratti di strada si comprende presto che il benessere di un uomo non dipende soltanto da quanto guadagna, ma se è escluso o è parte emarginata delle risorse e delle ricchezze dell’intera comunità. Quella di Uliano Lucas è un’immagine dell’ascolto e della riflessione. È uno stare in mezzo agli ultimi e combattere la libertà dei più forti, credo. È mostrare che tre quarti di umanità si trova in situazione di bisogno e soltanto un quarto possiede quasi tutte le ricchezze della Terra. La libertà, come l’amore, non ha frontiere, e quando è calpestata è calpestata anche la dignità dell’intera umanità.
DELLA FOTOGRAFIA RANDAGIA Uliano Lucas nasce a Milano nel 1942 da una famiglia operaia. Le biografie che lo riguardano passano in esame la sua infanzia, gli studi nel Convitto-Scuola Rinascita, l’espulsione per indisciplina, frequentatore assiduo del quartiere di Brera. Il bar Giamaica, le discussioni con artisti, fotografi, giornalisti... tutti in cerca di un qualche posto nell’Ita-
lia del “miracolo economico”. Ugo Mulas, Mario Dondero, Alfa Castaldi sono alcuni nomi importanti che Uliano Lucas conosce nella ex-latteria di Brera: come lui, fotografi destinati a lasciare un segno nella storia della fotografia italiana. In principio, Uliano Lucas riprende la scena emergente della musica (Stormy Six, Ribelli o il cabaret di Tinin Mantegazza), poi, forse, si accorge che tutto ciò che si dipinge come alternativo contiene già la frequentazione dei “salotti buoni” di ogni arte, e si avvicina al fotogiornalismo sociale, del quale sarà un punto di riferimento importante per la generazione della gioia del Sessantotto. Le sue immagini degli anni 1968-1975 restano un bene prezioso per chiunque abbia imbracciato una macchina fotografica e cercato di rubare pezzi di mondo in rivolta. I temi che tratta sono l’immigrazione, la distruzione dell’ambiente, le manifestazioni di piazza, la rivoluzione dei fiori in Portogallo, le guerre di liberazione in Angola, Eritrea, Guinea Bissau; tuttavia la sua fotografia randagia è sempre legata alla bellezza e annodata a una visione utopista dell’esistenza. Sono tanti i giornali, non solo italiani, ai quali Uliano Lucas collabora (Tempo, Vie Nuove, L’Europeo, Il Manifesto, La Stampa, Il Giorno, L’Express, Le Nouvel Observateur e Jeune Afrique), e ogni volta le sue immagini ripropongono l’impegno sociale e il rispetto per chi non ha voce, né volto. Così nascono i suoi lavori sulla tossicodipendenza a Torino, sulla riconversione industriale a Genova, sul carcere di San Vittore a Milano; e sempre Uliano Lucas non cerca scuse, sa da che parte sta il potere e un mondo altro. All’alba del terzo millennio, la sua fotografia popolare è ancora lì a mostrare che l’uomo è il protagonista della propria libertà o delle proprie catene. Della fotografia randagia di
Uliano Lucas. A partire dal profondo. A vedere le prime pubblicazioni (Guinea Bissau: Una rivoluzione africana, 1970; Cinque anni a Milano, 1973; La primavera di Lisbona: Anno primo della rivoluzione, 1975; Emigranti in Europa, 1977; L’istituzione armata, 1977; Vivere nel milanese, 1983; Uliano Lucas: Reporter, 1983) non possiamo non restare affascinati dalla forza, anche irruente, delle sue inquadrature. È innegabile che il lavoro formale di Uliano Lucas comunica un sentimento sociale e una pratica della bellezza non comuni. Il fotografo milanese non ricerca il “bello” da esposizione, né si conforma al reportage baciato dal clamore della cronaca. Le sue fotografie fissano il mondo deformato e lo stupore di rovesciarlo. Non contemplano il mucchio di rovine annunciate della società dello spettacolo, ma contengono la bufera esistenziale che sospinge le genti in rivolta a ritroso del futuro. Ancora. La fotografia randagia di Uliano Lucas è avvolta da una luce saturnina, epifanica, aurorale, che porta la tragicità della storia nel libero cielo dell’utopia, e le sue immagini diventano messaggeri di antiche dissoluzioni della tradizione dominante. Solo chi ha avuto fame può raccontare la miseria. Chi dunque può parlare (con ogni mezzo) della verità, se non coloro che l’hanno vissuta? Chi è stato allevato nella pubblica via sa che tutte le rivoluzioni iniziano nella strada e muoiono in parlamento. C’è della ribellione nella fotografia randagia d’ogni porto o taverna, perché osa immaginare che ci si possa ribellare all’ordine costituito. La fotografia randagia di Uliano Lucas segna l’istante nel quale la realtà e la verità sono accadute o passate, e porta una nuova visione dell’esistenza che risplende in ciò che realmente è. Il suo rapporto con Edgardo Pellegrini, giornalista e compagno di tanti viaggi, di li-
bri e discussioni, lo porta ad approfondire una fotografia di attualità, politica o di costume di grande profondità e comunicazione autoriale. Le sue immagini sul disastro di Seveso, sulle carceri di San Vittore o sulla tossicodipendenza desacralizzano l’ipocrisia e la barbarie rimossa dai centri di potere, mostrano senza veli la cocente disfatta di una società in decomposizione. L’amore, la creatività e la conoscenza che sono alla base della sua fotografia esprimono l’emancipazione dell’uomo da una morsa storica che porta in sé la propria rovina. Sotto un certo taglio, le immagini “povere” di Uliano Lucas sdoganano l’effimero e l’ingannevole dei consumatori di simulacri e rigettano l’emergere di una vita ridotta a sopravvivenza. Per quanto siamo inclini ad amare le fotografie contenute in opere come Cinque anni a Milano, L’istituzione armata, Emigranti in Europa, Il cuore dell’Africa, La vita e nient’altro e Negli occhi del lavoro. Economia e cooperazione sociale, ci sentiamo meno coinvolti in lavori come Paesi del Gran Sasso, Magia dell’Arena, Veneto: La rinascita, Padova da Antenore al nuovo millennio, La magica storia del Napoli o gli Annuari Autogrill. La bellezza del suo fare-fotografia c’è in tutto il suo percorso espressivo, ma la nostra inclinazione per la forza materica della sua fotografia randagia ci porta a condividere la passione o il fine ultimo di un’etica figurativa dell’uomo come Uliano Lucas l’ha ritratto ai bordi della storia, e cioè come il solo artigiano o poeta possibile del proprio destino. A leggere con cura le immagini del margine di Uliano Lucas non è difficile scorgere sui volti degli ultimi i seminamenti di una nuova civiltà dell’amore e della fraternità, la rivendicazione del diritto di non condividere le scelte suicide dell’economia-politica e gettare -attraverso l’iconologia della pover-
tà- schegge di resistenza, di sdegno o di rifiuto contro la dittatura dell’idiozia. La fotografia randagia di Uliano Lucas esprime un agire per il rovesciamento di prospettiva della realtà impoverita, un reinventare l’umano, la ricostruzione intima dell’uomo liberato dalle approssimazioni e dalle deleghe che lo ingabbiano nel trionfo della merce e della vita artificiale. Il reportage di Uliano Lucas abolisce la propaganda e il totalitarismo dell’immagine edulcorata; al di là di ogni ideologia del vuoto, elabora un’ipotesi di società della felicità o, forse, è meglio dire una critica radicale dell’umanitarismo mercantile, nel quale tutti i giochi sono ormai fatti prigionieri dell’industria culturale. Ci passano negli occhi le immagini degli emigranti, dei centri di salute mentale, degli operai in fabbrica, dei giovani in rivolta, delle periferie metropolitane, dei ribelli neri, delle vite sciupate dalla “polvere degli angeli”, che Uliano Lucas è riuscito a raccontare -come pochi in Italia- con la veridicità ereticale dei poeti di strada, arrivando ad aprire sentieri o rizomi comunicazionali che hanno figurato la contiguità tra fascismo e democrazie dello spettacolo. Non è però un’estetica dell’ottimismo, quella che esprime la fotografia di Uliano Lucas, né una predica del pessimismo diretta contro il consenso generalizzato. Uliano Lucas scippa alla vita una ritrattistica che denuncia l’origine dell’impostura e non si accontenta nemmeno di mostrare la nevrosi quotidiana di una servitù volontaria, legata alle forche della pubblicità: lascia i ruoli del disumano ai frequentatori della cronaca facile e porta la poesia del quotidiano fuori dall’impotenza collettiva. La scrittura fotografica di Uliano Lucas è fatta di momenti rubati alle macerie della civiltà. Le sue fotografie rimettono al centro l’autonomia in-
65
dividuale, senza la quale i popoli cadono facile preda di tutti poteri. La pietas laica espressa nelle sue immagini si emancipa nello sguardo del fotografo, e i soggetti sono materiali di verità rovesciate che contribuiscono o sono parte dell’emancipazione o del dolore di un’epoca. In questo senso, nella propria presa diretta del sociale, le fotografie randagie di Uliano Lucas si trascolorano in anima universale dell’uomo in rivolta e insorgono contro la letargia dell’intelligenza, specie le più massacrate dagli dèi della ragione imposta. È strano. A vedere con cura l’insieme delle fotografie di Uliano Lucas si ha la sensazione di essere di fronte a una filosofia della sofferenza prolungata, ma anche all’ebbrezza della libertà che suscita il realismo degli insorti che con-
tinuano, giustamente, a pretendere l’impossibile. Il fotogiornalismo di Uliano Lucas si ritaglia in un linguaggio del qualitativo, che permette di disvelare la grossolana impostura del mercantilismo fotografico. Uliano Lucas fotografa il dolore, la povertà, la speranza; sa che la disuguaglianza è il prodotto delle fedi, delle politiche, dei saperi orchestrati sui banchi della ragione imposta. Le sue immagini mostrano l’incapacità degli uomini di guardare in faccia il proprio destino, o, forse, sono icone di uno spirito particolare che ha voltato le spalle alla scolastica, alle categorie, alle tecniche di assuefazione al dominio: una coscienza in cammino verso la scoperta di un’autentica verità o di una perduta utopia. Pino Bertelli (18 volte gennaio 2008)
[[[ LJRIX MX /,%5, ', )272*5$),$ '$ 78772 ,/ 021'2 , PLJOLRUL YROXPL GL IRWRJUD¿D GHJOL HGLWRUL LWDOLDQL H LQWHUQD]LRQDOL LQ YHQGLWD SHU FRUULVSRQGHQ]D H RQOLQH
9PJOPLKP .9(;0: PS *H[HSVNV /-
$ISTRIBUZIONE SH NYHUKL SPIYLYPH KP MV[VNYHMPH
DQWRORJLH JUDQGL PDHVWUL IRWR VWRULFD IRWRJUD¿D FRQWHPSRUDQHD UHSRUWDJH PRGD QXGR ULWUDWWR VWLOO OLIH QDWXUD SDHVDJJLR H DUFKLWHWWXUD HWQRORJLD IRWR GL YLDJJLR IRWRJUD¿D GLJLWDOH IRWR VSRUWLYD FLQHPD PXVLFD GDQ]D H WHDWUR VDJJLVWLFD H FULWLFD PDQXDOLVWLFD ULYLVWH DEERQDPHQWL D ULYLVWH LQWHUQD]LRQDOL OLEUL IRWRJUD¿FL GD FROOH]LRQH
+) 'LVWULEX]LRQH &DVHOOD 3RVWDOH 9HUFHOOL WHO ID[ H PDLO KI GLVWULEX]LRQH#KIQHW LW