FOTOgraphia 141 maggio 2008

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Mensile, 5,70 euro, Poste Italiane SpA - Spedizione in abbonamento postale - D.L. 353/2003 (convertito in Legge il 27-02-2004, numero 46), articolo 1, comma 1 - DCB Milano

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ANNO XV - NUMERO 141 - MAGGIO 2008

Storia e dintorni WILLIAM HENRY FOX TALBOT EDWARD SHERIFF CURTIS Collettiva Fiaf IMMAGINI DEL GUSTO

ANCORA FOTOGRAFIA AL CINEMA I FILM FONDAMENTALI


Mentre l’autoritratto in pittura non ha mai potuto affrontare il sottile e delicato rapporto tra l’autore e il proprio mezzo espressivo, la fotografia ha avuto modo di includere nella composizione i propri strumenti. Angelo Galantini su questo numero, a pagina 60

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PAROLE, LE NOSTRE PAROLE. Ci sono argomenti fotografici, soprattutto annunciati, che vengono trattati da tutte le riviste di settore, nazionali e internazionali. Uno di questi, trasversale a ogni redazione, è quello dell’assegnazione annuale dei premi del World Press Photo, la cui edizione 2008 (sul precedente 2007) è stata commentata sul nostro numero dello scorso aprile: sette pagine, con concentrato accompagnamento di testo (di Lello Piazza). Ogni anno, è sostanzialmente lo stesso: qualche immagine, il più possibile, e tante parole, fino alla dettagliata segnalazione dei vincitori di ogni categoria. Ma rimaniamo a quest’anno. Abbiamo avuto modo di valutare e considerare quanto fatto da altri, soprattutto fuori dai nostri confini nazionali, entro i quali il World Press Photo non è proprio argomento di riflessione giornalistica da parte delle testate di settore (ma non è questo il problema e neppure un problema). Così che, abbiamo potuto constatare come all’estero si dedichi lo stesso nostro spazio redazionale, riproducendo le fotografie in dimensioni superiori ed evitando ogni commento. Cioè si pubblicano le immagini senza approfondire ciò che rivela il loro insieme, che a nostro giudizio sottolinea lo stato dell’arte nell’ambito del fotogiornalismo (peraltro sottolineato anche dalla mostra che viene allestita ogni anno: a maggio al Museo di Roma in Trastevere e alla Galleria Carla Sozzani di Milano, in simultanea; a dicembre, al LuccaDigitalPhotoFest). Da cui, è confermata la nostra vocazione alle parole di “riflessione, osservazione e commento sulla Fotografia”, come annunciamo in Sommario, sotto l’indicazione della testata (sulla pagina accanto). In effetti, anche alla luce di questa ulteriore prova, se così vogliamo considerarla, FOTOgraphia è più una rivista di testi che di immagini. Non è per caso, lo confessiamo apertamente, ma per volontà e intenzioni dichiarate ed esplicite. Le immagini che presentiamo richiamano gli argomenti trattati, che sono affrontati e approfonditi appunto con parole a commento (e a volte, pubblichiamo anche testi privi di illustrazioni: a partire dagli Sguardi su, di Pino Bertelli, che concludono ogni nostra edizione mensile). Questo significa che anteponiamo le considerazioni sulla fotografia, per quella continua e costante ricerca di dialogo e condivisione di idee e opinioni, che nelle intenzioni arricchiscono la vita fotografica di ciascuno di noi. Quindi, nessuna sorpresa, nessun dubbio: continuiamo e continueremo in questa direzione, che definisce e identifica la nostra personalità redazionale. In fondo, ma neppure poi tanto, siamo anche convinti di aver qualcosa da dire. E, dunque, lo diciamo. M.R.

Le prove (qui accanto) vengono utilizzate per soppiantare interpretazioni e congetture tramite la ricercata applicazione di metodi imparziali e di validità accertata.

Copertina Dalla locandina del film Flags of Our Fathers, di Clint Eastwood, uno dei titoli esclusi dalla classifica dei dieci titoli cinematografici più significativi della presenza della fotografia nella sceneggiatura, compilata dall’autorevole American Photo. Proprio nove consistenti assenze ci hanno sollecitati a tornare su un argomento spesso ospitato su queste pagine. Nello specifico, il racconto di Flags of Our Fathers è giusto basato sulla celebre fotografia di Joe Rosenthal, della bandiera statunitense innalzata sul monte Suribachi, sull’isola giapponese di Iwo Jima. La fotografia è il filo conduttore della trama. In attesa di affrontare proprio questo film, da pagina 49 annotiamo i nostri distinguo rispetto la classifica di American Photo, e segnaliamo le nostre integrazioni

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3 Fumetto Da una cartolina degli anni Sessanta (e dintorni): ennesima testimonianza della giocosa e gioiosa raffigurazione fotografica, che si aggiunge alla nostra consistente qualità di segnalazioni a tema

6 Editoriale

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Scartando a lato la diatriba tra chi è pro e chi, invece, è contro talune esuberanti manifestazioni attuali della tecnologia digitale di acquisizione delle immagini, perché non è questo il problema, e neppure il punto di vista che ci interessa, sottolineiamo come la consecuzione tra riconoscimento dei volti, individuazione del sorriso del soggetto inquadrato e sua possibile ricreazione (dall’assenza) rappresentino un significativo cambiamento nella progettazione e produzione delle macchine fotografiche. Per la prima volta, dopo quasi centosettanta anni di Storia, non più rivolte al loro solo uso, ma proiettate all’interpretazione del soggetto. Con altre considerazioni a seguire. Le nostre di sempre

8 Niente Sessantotto 57

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Il Maggio 68 è rievocato da due periodici francesi: il mensile Réponses Photo e il settimanale VSD. Per mille motivi, tutti motivati, nessuna celebrazione italiana; in attesa, casomai, di presentare le monografie fotografiche a tema, inevitabilmente pubblicate in occasione dei quaranta’anni (1968-2008)

10 Notizie Attrezzature, vicende e altre segnalazioni


MAGGIO 2008

R , RIFLESSIONI IFLESSIONI, OSSERVAZIONI E COMMENTI OSSERVAZIONI E COMMENTI SULLA FOTOGRAFIA SULLA FOTOGRAFIA

14 Pulitzer alla fotografia

Anno XV - numero 141 - 5,70 euro

Andrees Latif nella sezione Breacking News Photography e Preston Gannaway nella categoria Feature Photography

DIRETTORE

RESPONSABILE

Maurizio Rebuzzini

IMPAGINAZIONE

17 Copertine elettorali

Gianluca Gigante

Da Newsweek al Magazine del Corriere della Sera; da Panorama a Il Giornale. E poi ancora fotomosaici

Angelo Galantini

REDAZIONE

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FOTOGRAFIE Rouge

20 Una vita difficile

SEGRETERIA

È mancato Dith Pran, fotografo cambogiano al quale dobbiamo palpitanti testimonianze visive, la cui storia è evocata nel coinvolgente film Urla del silenzio

HANNO

Maddalena Fasoli

24 Reportage Appunti e attualità del fotogiornalismo internazionale A cura di Lello Piazza

28 Immagini del gusto Fino a settembre, a Bibbiena, in Toscana, sono esposti i risultati del progetto a tema promosso dalla Fiaf e dal collegato Centro Italiano della Fotografia d’Autore

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COLLABORATO

Pino Bertelli Antonio Bordoni Faith D’Aluisio Maria Teresa Ferrario Peter Menzel Loredana Patti Lello Piazza Franco Sergio Rebosio Ciro Rebuzzini Filippo Rebuzzini Zebra for You Redazione, Amministrazione, Abbonamenti: Graphia srl, via Zuretti 2a, 20125 Milano; 02-66713604, fax 02-66981643; graphia@tin.it.

34 Sguardi storici

● FOTOgraphia è venduta in abbonamento.

Riflettori sulle personalità di William Henry Fox Talbot e Edward Sheriff Curtis: due monografie di grande valore, che richiamano le origini stesse della fotografia di Maurizio Rebuzzini

● FOTOgraphia è una pubblicazione mensile di Graphia srl, via Zuretti 2a, 20125 Milano. Registrazione del Tribunale di Milano numero 174 del Primo aprile 1994. Poste Italiane SpA - Spedizione in abbonamento postale - D.L. 353/2003 (convertito in Legge il 2702-2004, numero 46), articolo 1, comma 1 - DCB Milano.

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● A garanzia degli abbonati, nel caso la pubblicazione sia pervenuta in spedizione gratuita o a pagamento, l’Editore garantisce la massima riservatezza dei dati forniti dagli abbonati e in suo possesso, fatto diritto, in ogni caso, per l’interessato di richiederne gratuitamente la rettifica o la cancellazione ai sensi della legge 675/96.

42 Quale cibo Hungry Planet: What the World Eats è il più recente progetto fotografico di Peter Menzel e Faith D’Aluisio. Il volume e considerazioni a margine (dal web) di Lello Piazza

49 Ancora, al cinema!

● FOTOgraphia Abbonamento 12 numeri 57,00 euro. Abbonamento annuale per l’estero, via ordinaria 114,00 euro; via aerea: Europa 125,00 euro, America, Asia, Africa 180,00 euro, gli altri paesi 200,00 euro. Versamenti: assegno bancario non trasferibile intestato a Graphia srl Milano; vaglia postale a Graphia srl - PT Milano Isola; su Ccp n. 28219202 intestato a Graphia srl, via Zuretti 2a, 20125 Milano; addebiti su carte di credito CartaSì, Visa, MasterCard.

In disaccordo con i dieci titoli indicati da American Photo, integriamo con la segnalazione di altri nove film significativi della presenza della fotografia. Indispensabili di Maurizio Rebuzzini

● Nessuna maggiorazione è applicata per i numeri arretrati. ● È consentita la riproduzione di testi e fotografie, magari citando la fonte (ma non è indispensabile, né obbligatorio farlo). ● Manoscritti e fotografie non richiesti non saranno restituiti; l’Editore non è responsabile di eventuali danneggiamenti o smarrimenti.

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Fotocomposizione DTP e selezioni litografiche: Rouge, Milano Stampa: Arti Grafiche Salea, Milano

57 Fotografati da sola!

Rivista associata a TIPA

Autoritratti al femminile, con volontario retrogusto erotico, coordinati dal bravo Uwe Ommer. Do it yourself appartiene a un intrigante territorio della fotografia di Angelo Galantini

65 Julián Ochoa Sguardi su un fotografo del libero spirito di Pino Bertelli

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www.tipa.com


tiamo per parlare tra noi. Ci proiettiamo in avanti, esprimendo parole e valutando consecuzioni che appartengono al territorio mirato di coloro i quali osservano la fotografia senza preclusioni, per considerare i suoi fenomeni per ciò che significano, o possono significare, oltre le loro apparenze superficiali. Certo, non pensiamo di possedere il Verbo, e neppure crediamo che le nostre considerazioni abbiano il valore esatto di una formula matematica; però riconosciamo il peso delle considerazioni senza preconcetti, che non possono che essere benefiche e offrono un quadro complessivo. Ora, dopo aver chiarito gli aspetti impliciti, è obbligatorio indicare il soggetto esplicito del nostro esame: ciò che potrebbero significare le nuove applicazioni tecnologiche che accompagnano l’offerta fotografica dei nostri attuali giorni, in relazione alle quali approdiamo alla loro innovativa proiezione verso la soddisfazione del soggetto e alla loro coincidente estraneità dalla storia evolutiva del linguaggio fotografico. Senza alcun commento aggiuntivo, nelle presentazioni tecniche in cronaca registriamo le caratteristiche di ogni strumento di ripresa, ormai soltanto ad acquisizione digitale di immagini. Qui andiamo oltre, e arriviamo sottopelle. In particolare, ci riferiamo ad alcune funzioni aggiuntive, che da tempo qualificano e definiscono gli apparecchi fotografici digitali, soprattutto quelli compatti, rivolti al più ampio pubblico possibile, alla ricerca di quelle consistenti cifre di vendita che proiettano la fotografia oltre i confini ristretti del passato. Riferendo dell’evoluzione della funzione originaria di riconoscimento dei volti nell’inquadratura (Face Detection), con conseguenti regolazioni fotografiche mirate e privilegiate, il giornalismo internazionale ha manifestato sostanziali perplessità. Dopo aver registrato che la tecnologia fotografica applicata è arrivata a distinguere non soltanto i volti, ma addirittura il sorriso del soggetto inquadrato, alcuni quotidiani hanno espresso imbarazzi e sollevato dubbi, peraltro in sintonia con lo spirito di osservazioni del giornalismo non specializzato. A noi toccano altre riflessioni, che non si esauriscono nello stupore e con la facile ironia che ha attraversato le relazioni giornalistiche appena ricordate, ma che -invece!- considerano l’applicazione tecnologica per ciò che significa: sia al presente, sia in potenziale proiezione in avanti. Rispetto le possibilità operative degli strumenti a base meccanica, che da tempo fanno largo uso di regolazioni e comandi elettronici, la tecnologia digitale ha infinite possibilità di offrire varianti e interpretazioni. Non si tratta più di facilitare l’uso degli apparecchi (magari concentrandosi sulla semplicità di caricamento della pellicola e sulla garanzia di risultati formalmente precisi), che ha raggiunto il proprio apice con lo sfortunato progetto APS di una dozzina di anni fa, ma di offrire una esuberante quantità di possibilità aggiuntive, che vanno oltre il solo momento dello scatto, per approdare all’interpretazione del soggetto. Da cui, per conseguenza, il riconoscimento

S Al vertice della nuova gamma Cyber-shot W, in cinque modelli di caratteristiche tecniche progressivamente superiori, dalla W110 di base, la nuova compatta digitale Sony Cyber-shot W170, da 10,1 Megapixel effettivi, dispone della particolare funzione di ritocco del sorriso del soggetto.

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del volto e la forzatura sul sorriso. È male? È bene? Di certo, la questione non sta qui, tra male e bene, ma altrove. Io ho i miei gusti e le mie esigenze; tutti abbiamo i nostri gusti e le nostre esigenze. Per esempio, io non so inquadrare dal monitor, e dunque gradisco ancora il mirino ottico, anche quando fotografo con compatte digitali. Questa condizione, come tante altre, è personale e non deve influire sulle considerazioni di fondo. Quindi, è probabile che a molti di noi non interessi affatto né il riconoscimento del volto né, tantomeno, la certezza che il soggetto stia sorridendo (con Enzo Jannacci, da E l’era tardi: «Mi surridi, lü gnanca onn vers!», ovvero «Io sorrido, lui neppure un cenno!»). Ma non siamo noi il pubblico al quale si rivolge questo mercato fotografico. Quindi, niente personalismi, ma approfondimento. Senza coinvolgimento, possiamo osservare con la serenità che ci consente di non schierarci in fazioni contrapposte, pro o contro, ma ci permette di arrivare là dove volevamo approdare: alla riflessione sui significati collegati e conseguenti. Cosa significa (anche) la consecuzione dal riconoscimento dei volti all’identificazione e/o sottolineatura del sorriso? Qualcosa di importante e unico, che in precedenza non è mai appartenuto all’evoluzione tecnologica della fotografia (con corrispondente proiezione sulla sua stessa espressività): significa che per la prima volta la tecnica fotografica non si rivolge a se stessa, ma al soggetto. Se ce lo concediamo, la differenza non è poca, né minima: è sostanziale! Ci piacciano o meno tutte o alcune delle attuali manifestazioni tecnologiche che accompagnano l’acquisizione digitale di immagini, un fatto è rilevante e discriminante: a differenza di tutta la Storia, definita da evoluzioni tecniche estranee al soggetto della fotografia, ciò che viene proposto oggi antepone proprio il soggetto alla mediazione dello strumento. Orrore! Stiamo glorificando la tecnologia digitale, disprezzando per contrapposizione quella argentica (analogica)? Stiamo ripudiando la Storia? No: riflettendo, siamo semplicemente arrivati a una ipotesi di conforto tecnologico. Se è questa la direzione che certa fotografia ha preso, per approdare a consumi autenticamente e consistentemente “di massa”, non ci stupiscono/stupiscano le strade che percorre l’industria produttrice. E dunque arriviamo a una conclusione che ci pare inevitabile: questa attualità fotografica non appartiene alla lunga storia evolutiva della fotografia, dalle origini ai giorni nostri. Queste tecnologie applicate manifestano e rivelano altri debiti di riconoscenza, esterni ed estranei -appunto!- alla consecuzione fotografica. Non nascono nel mondo dell’immagine consapevole, ma declinano l’immagine nel mondo quotidiano. È tutta un’altra socialità, estranea al linguaggio fotografico così come lo intendiamo da centosettanta anni. Da una parte (la nostra?) ci sta la Fotografia, dall’altra immagini frettolosamente registrate, che compongono i tratti di un’altra vicenda e costume. Insomma, due storie che non si incontrano. Maurizio Rebuzzini

Come altre compatte digitali dei nostri giorni, anche l’Olympus FE-340 è predisposta per l’impostazione volontaria dello scatto fotografico vincolato al sorriso del soggetto.

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NIENTE SESSANTOTTO

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Nel continuo inseguirsi e susseguirsi di celebrazioni e rimandi, questa volta evitiamo di rievocare il fatidico Maggio 68, del quale ricorrono i quarant’anni. Da una parte, è un gioco facile, addirittura scontato, dall’altra, con la sincerità che ci accompagna, dobbiamo riconoscere che in Italia non c’è stato alcun Maggio 68. Nel nostro paese, la stagione delle rivendicazioni operaie e studentesche, allora innescata dal clima francese, soprattutto parigino, è cominciata qualche mese dopo, nell’autunno del Sessantotto (peraltro dopo l’invasione sovietica della Cecoslovacchia, che stroncò il rinnovamento politico della definita “Primavera di Praga”); a seguire, in Italia quei sogni si sono allungati in avanti nel tempo, fino a infrangersi e spezzarsi sulle tragedie sociali e politiche degli anni Settanta, durante i quali si sono teorizzate anche posizioni estreme, che hanno causato inutili morti e cocenti dolori. Con cristallina sincerità, il Maggio 68 è questione soprattutto francese, che appunto sottintende rievocazioni nazionali, che qui testimo-

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niamo con due esempi, uno mensile (oltre che specializzato: testata di settore) e l’altro settimanale, che segnaliamo in questo ordine. A seguire, nei prossimi mesi affronteremo le monografie sul Sessantotto in generale, anticipando già l’edizione Rizzoli, curata dall’attento Uliano Lucas. Per ora, come appena precisato, limitiamoci alle due segnalazioni francesi. Abbiamo già incontrato il mensile Réponses Photo almeno in due occasioni: commentando un consistente portfolio di Gianni Be-

Entrambi stillati in copertina di Réponses Photo, un portfolio di immagini di Marc Riboud e una testimonianza di Josef Koudelka rievocano il Maggio 68. Senza soluzione di continuità, i temi caldi di una eroica stagione, nel quarantesimo anniversario (1968-2008): dalle premesse delle manifestazioni statunitensi contro la guerra in Vietnam (Marc Riboud, anche in copertina) al maggio francese (ancora Marc Riboud), all’invasione sovietica della Cecoslovacchia (Josef Koudelka).

rengo Gardin (FOTOgraphia, giugno 2005) e richiamando la personalità del caporedattore JeanChristophe Béchet, autore delle Vues n° 0 presentate lo scorso maggio 2007. Oggi segnaliamo il consistente portfolio Mai 68 di Marc Riboud (con rimando alle sue fotografie delle manifestazioni di Washington contro la guerra in Vietnam, della precedente primavera 1967: anche in copertina) e la lunga testimonianza dell’invasione sovietica di Praga di Josef Koudelka, intervista e immagini (le fo-


Ancora Maggio 68, da un punto di vista giornalistico. Corredando il proprio lungo articolo con un portfolio di immagini di Raymond Depardon, il settimanale francese VSD si interroga su Cosa resta del maggio 68?. Ancora, quella stagione di rinnovamento è osservata da diversi punti di vista.

tografie sono riunite anche in una monografia, pubblicata in Italia da Contrasto; e, anticipiamolo, a giugno, il prestigioso spazio Forma di Milano dedica una imponente mo-

stra allo stesso Josef Koudelka). I due argomenti, palesemente collegati tra loro, tanto da essere richiamati assieme sullo strillo di copertina, rappresentano il piatto forte

del numero di maggio di Réponses Photo, mensile specializzato in adeguato equilibrio tra approfondimenti tecnici e raffinata passerella di immagini, come consente il florido mercato francese della fotografia, ricco e arricchito da un consistente seguito di pubblico (appassionato) e da una concentrata presenza di attenti operatori commerciali (in diretta conseguenza e consecuzione). Nel proprio numero del ventitré aprile, il settimanale giornalistico VSD affronta la celebrazione dello stesso Mai 68, opportunamente richiamata subito in copertina (e non potrebbe essere altrimenti), domandandosi Cosa resta del maggio 68?. Corredato da un portfolio di immagini di Raymond Depardon (Magnum Photos dal 1979), l’articolo in questione spazia dalla politica al design, alla musica e allo sport, appunto rivoltati nel corso del Sessantotto, eroica stagione di sogni e proiezioni sociali con le quali il mondo contemporaneo deve fare i propri conti: discorso ampio, che non ci compete. In conclusione, ripetiamo i termini della vicenda. Per i motivi anticipati, niente Maggio 68. E l’appuntamento sulla fotografia della stagione allora innescata è rimandato alla presentazione e commento delle monografie a tema che sono state appena pubblicate, o che stanno per esserlo. M.R.

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IMPERTERRITA RICOH. Generazione Ricoh Caplio R8: compatta digitale con zoom ottico 7,1x (equivalente all’escursione 28-200mm f/3,3-5,2 della fotografia 24x36mm) e risoluzione da dieci Megapixel effettivi. A garanzia di alta qualità formale delle acquisizioni, non manca la combinazione con l’efficace motore di elaborazione delle immagini Smooth Imaging Engine III, già presente nelle più recenti configurazioni Ricoh. A seguire, la compatta digitale Ricoh Caplio R8 di ultima generazione offre inoltre numerose altre capacità perfezionate, a partire e dalla conferma dell’opzione per composizione quadrata, alla maniera di tante configurazioni della fotografia tradizionale medio formato 6x6cm, ereditata dalla versatile Ricoh Caplio GX100, TIPA Award 2007 (FOTOgraphia, maggio 2007), e dall’ampio display LCD da 2,7 pollici (460.000 pixel), ad angolo di visione allargato, con possibilità di riproduzione dettagliata delle miniature delle immagini acquisite e memorizzate. Oltre alla propria evoluzione tecnica, la R8 è stata sottoposta a un restyling completo, che presenta e offre un elegante corpo macchina di soli 22,6mm di spessore, dal solido e pratico design contemporaneo. Inoltre, la Ricoh Caplio R8 è dotata della funzione di correzione delle vibrazioni, basata sullo spostamento del sensore CCD, che compensa il movimento involontario della compatta. È così possibile eliminare il micromosso, che tende a verificarsi soprattutto con l’inquadratura spostata alla selezione tele o in macrofotografia. Già, fotografia a distanza ravvicinata: da un solo centimetro con le focali grandangolari e da venticin-

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que centimetri alle focali tele. Quindi, non manca la modalità di riconoscimento dei volti, che finalizza messa a fuoco, esposizione e bilanciamento del bianco (Editoriale di questo stesso numero, da pagina sei). Sensibilità fino a 1600 Iso equivalenti; schede di memoria Secure Digital, SD standard oppure SDHC ad alta capacità; in finitura classic, nero e argento. (Mamiya Trading, via Cesare Pavese 31, 20090 Opera Zerbo MI).

CHE ESCURSIONE! Lo zoom SMC Pentax-DA 18-250mm f/3,5-6,3ED AL [IF] si rivolge a un utilizzo di fascia sensibilmente alta: quella dell’attenta ripresa fotografica, che si basa su una considerevole escursione 14x, che esordisce all’ampia visione grandangolare per approdare al consistente avvicinamento tele. Sul sensore digitale di dimensioni inferiori al fotogramma fotografico tradizionale 24x36mm, l’escursione equivalente è 27,5-383mm. Ciò a dire che con i sensori ad acquisizione digitale di immagini in formato APS-C (23,5x15,7mm) delle reflex Pentax lo zoom consente di affrontare e assolvere la maggior parte delle situazioni fotografiche possibili e potenziali. Nel concreto, si deve anche (e soprattutto) valutare l’alta resa qualitativa. Come specifica la sigla identificatoria, grazie all’utilizzo di un elemento ottico a basso indice di dispersione (ED) e due lenti asferiche (AL) è garantita la compensazione di tutti gli effetti negativi prodotti dalle aberrazioni ottiche. Anche la curvatura, la disposizione e il trattamento di tutti gli elementi ottici sono stati finalizzati alle esigenze e necessità della fotografia digitale. (Protege - Divisione Foto, via Dione Cassio 15, 20138 Milano).

STAMPA KODAK. Nuova linea di stampanti multifunzione Kodak EasyShare con Tecnologia Kodacolor (proprietaria), che combina quattro elementi chiave: inchiostri a pigmenti, carta fotografica microporosa, una sofisticata tecnologia di gestione del colore e dell’immagine e un motore di stampa con sistema di testine Micro-Elettro-Meccanico (MEMS), per efficaci risultati di stampa di testi e immagini dai colori nitidi e vivaci. La Kodak EasyShare 5500 si propone a coloro i quali hanno il proprio ufficio in casa e alle famiglie che desiderano possedere uno strumento completo, in grado di stampare, scansionare, copiare e usufruire di fax. Realizza documenti e stampe fotografiche di alta qualità, senza limitazioni. Dispone di un display LCD a colori da 2,4 pollici, un alimentatore fogli automatico e un dispositivo per la stampa fronte-retro; oltre a essere dotata dell’utile Funzione fax. La Kodak EasyShare 5300, premiata al CES 2008 di Las Vegas con un riconoscimento per l’Innovazione, nella categoria Periferiche per Computer, è in gra-

do di produrre trentadue pagine in bianconero e trenta a colori al minuto; la stampa fotografica 10x15cm si completa in soli ventotto secondi; inoltre, dispone di un grande e luminoso display LCD a colori da tre pollici, che consente di visualizzare subito le immagini e di inquadrarle direttamente dalla stampante. Mentre gli slot per le memory card permettono di stampare senza il supporto del computer. Infine, la Kodak EasyShare ESP3 è una multifunzione dal design elegante e compatto,

che, grazie al programma di Ritocco facciale, consente di migliorare le proprie fotografie, riducendo le imperfezioni dei volti con un semplice tasto. (Kodak, viale Matteotti 62, 20092 Cinisello Balsamo MI).

GENERAZIONE DIGITALE. Con lo zoom Mamiya Sekor AF 75-150mm f/4,5 D prende avvio la nuova gamma di obiettivi Mamiya per medio formato, dedicati alla combinazione con apparecchi e dorsi ad acquisizione digitale di immagini. Ovviamente, siccome copre l’intera proiezione 4,5x6cm, lo zoom è utilizzabile anche con dorsi per pellicola a rullo ed esposizione medio formato. Il nuovo Mamiya Sekor AF 75-150mm f/4,5 D copre un angolo di campo che varia da 50 a 26 gradi, corrispondenti all’escursione equivalente standard-medio tele 47-93mm della fotografia 24x36mm. La distanza minima di messa a fuoco è di appena un metro, consistentemente inferiore a quella che definisce gli attuali zoom AF 55-110mm e AF 105-210mm, che mettono a fuoco da 150cm. In dotazione il paraluce a petali, che assicura una protezione adeguata lungo tutta l’escursione focale. (Mamiya Trading, via Cesare Pavese 31, 20090 Opera Zerbo MI).



CON LIVE VIEW. Le nuove reflex digitali Sony α300 e α350 sono dotate di Quick Auto Focus Live View, per tempi di risposta ultraveloci. Così che le elevate risoluzioni di 14,2 e 10,2 Megapixel del sensore di acquisizione CCD in formato APS-C (23,5x15,7mm), rispettivamente della α350 e α300, si combinano con una pratica agilità fotografica reflex senza interruzioni di visione (durante lo scatto). Queste due nuove reflex portano a quattro la gamma del sistema Sony α (Alpha), composta da modelli di semplice utilizzo e ricchi di funzioni: dal modello base α200 alla α700 (FOTO graphia, novembre 2007), più versatile e con tempi di risposta rapidissimi, dedicato agli appassionati di fotografia e ai semiprofessionisti. Nel sistema, sono disponibili ventiquattro obiettivi α compatibili, compresi disegni ottici Carl Zeiss, sistemi di illuminazione e accessori dedicati. Le attuali α350 e α300 sono le prime reflex digitali Sony ad avvalersi della tecnologia Quick AF Live View. Esclusiva assoluta e tecnologia proprietaria, questo innovativo sistema coniuga la praticità dell’anteprima immediata dell’immagine con un sistema autofocus preciso e veloce, in grado di supportare le modalità

di scatto continuo, molto apprezzato dai possessori delle reflex. Per la prima volta, il sistema Quick AF Live View supera le limitazioni tecniche che impedivano visualizzazione e scatti ultra rapidi in modalità Live View. L’ampio monitor LCD da 2,7 pollici consente di scattare, esprimendo convincentemente la propria creatività. Orientabile fino a 130 gradi verso l’alto e 40 gradi verso il basso, consente di rimanere sempre “faccia a faccia” con i soggetti. Gli effetti della compensazione dell’esposizione e del bilanciamento del bianco possono essere comodamente visualizzati in anteprima nella modalità Live View; mentre il luminoso mirino ottico offre una pratica alternativa. Le due reflex sono dotate della più recente versione del processore BIONZ, ancora tecnologia proprietaria, che perfeziona le straordinarie potenzialità del sensore CCD ad alta risoluzione. Il processore si allinea con la funzione D-Range (DRO), che assicura il bilanciamento automatico dell’esposizione, con una straordinaria ricchezza di dettagli nei

punti più luminosi e nelle zone d’ombra. Inoltre, grazie all’avanzato sistema di identificazione delle scene in controluce, le reflex offrono risultati perfetti anche con i soggetti più difficili. Nelle due nuove Sony α350 e α300, la sensibilità è incrementata fino a 3200 Iso equivalenti, per garantire la massima qualità in caso di riprese a mano libera effettuate in condizioni di scarsa illuminazione e senza flash; mentre una speciale modalità di riduzione del rumore migliora ulteriormente la qualità delle immagini scattate con impostazioni ad alta sensibilità. Il sistema integrato di stabilizzazione dell’immagine Super SteadyShot offre ottime prestazioni per ridurre le sfocature provocate dai movimenti del corpo macchina al momento dello scatto, con ogni tipo di obiettivo α. Inoltre, un nuovo algoritmo di controllo apporta un incremento della correzione, che arriva a 2,5-3,5 stop. Le reflex Sony α350 e α300 sono state progettate per incrementare la praticità di utilizzo e per offrire una grande varietà di possibilità creative, anche ai fotografi meno esperti che non hanno mai utilizzato una reflex digitale.

Come tutti i modelli Sony α, anche le due nuove reflex digitali α350 e α300 sono dotate del sistema di protezione antipolvere a vibrazione e con rivestimento antistatico del sensore, che riduce al minimo i danni provocati dalle particelle di polvere che penetrano nel corpo della macchina durante la sostituzione degli obiettivi. Grazie alla batteria di alimentazione InfoLithium ad alta capacità, l’autonomia raggiunge livelli elevati, consentendo di scattare fino a settecentotrenta immagini, con una singola carica, per dedicarsi agli scatti senza preoccuparsi del livello della batteria. Sul monitor LCD da 2,7 pollici viene visualizzata l’autonomia residua sotto forma di percentuale, per una precisa indicazione del livello di carica residua. (Sony Italia, via Galileo Galilei 40, 20092 Cinisello Balsamo MI).


OBIETTIVI

AT-X PRO SERIES MADE FOR NEW GENERATION DIGITAL REFLEX ;

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AT-X Pro Tokina AF 10-17mm f/3.5-4.5 DX Fisheye AT-X Pro Tokina AF 12-24mm f/4.0 DX

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PULITZER ALLA FOTOGRAFIA

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Nell’edizione 2008 del premio Pulitzer, il fotografo Adrees Latif dell’agenzia Reuters è stato premiato nella sezione Breaking News Photography; mentre Preston Gannaway, del Concord Monitor, il quotidiano di Concord, capitale del New Hampshire, è risultata prima nella Feature Photography. A seguire, i dettagli. Prima, però, rileviamo come neppure il Pulitzer riesca ad evitare la fotografia del dolore (ne riflettiamo più avanti). Tanto che, oltre i vincitori, anche i candidati finalisti delle due categorie fotografiche sono autori di immagini che sottolineano gli aspetti tragici della vita. Soprattutto è tanto spesso fotografia di guerra, estesa anche alle sue conseguenze sui reduci e sulla popolazione civile.

Adrees Latif, dell’agenzia Reuters, si è aggiudicato il Pulitzer nella categoria Breaking News Photography per la drammatica immagine del videoperatore giapponese Kenji Nagai dell’Agence France Press che, nonostante fosse stato colpito a morte dalla polizia birmana durante una manifestazione di piazza a Rangoon, in Myanmar, ex Birmania, ha comunque portato avanti il proprio lavoro (27 settembre 2007).

Già premiato in altre selezioni, il reportage Remember Me di Preston Gannaway, del Concord Monitor, ha ricevuto il premio Pulitzer nella categoria Feature Photography: la sofferenza di una famiglia nella quale una donna è stata colpita da un cancro.

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Breaking News Photography. Il riconoscimento per questa sezione consiste in un assegno di diecimila dollari e premia una fotografia o un reportage (in bianconero o colore), stampati su un giornale o pubblicati online, rappresentativi di una situazione di grande rilievo della cronaca quotidiana a livello mondiale. Adrees Latif si è aggiudicato il Pulitzer per la drammatica immagine del video operatore giapponese Kenji Nagai dell’Agence France Press che, nonostante stesse fosse stato colpito a morte dalla polizia birmana durante una manifestazione di piazza a Rangoon, in Myanmar, ex Birmania, ha comunque portato avanti il proprio lavoro (un particolare, in FOTOgraphia dello scorso novembre; l’inquadratura completa qui sopra). Inizialmente, Reuters non ha attribuito a nessun fotografo questa immagine, ripresa nei pressi della pagoda di Sule. Anzi, in un primo momento, si era addirittura parlato di un citizen photographer. A seguire, è stato rivelato il credito, originariamente omesso per tutelare la figura dell’autore nei giorni delle continue manifestazioni anti-regime, spesso represse nel sangue. Adrees Latif è un fotografo pakistano, nato a Lahore nel 1973. Dopo qualche anno vissuto in Arabia Saudita, nel 1980 si è trasferito con la famiglia in Texas. Prima di entrare nella Reuters è stato staff photographer dell’Houston Post, dal 1993

al 1996, e nel 1999 ha preso una laurea breve in giornalismo all’università di Houston (Texas). Nel 2003, Adrees Latif è diventato corrispondente da Bangkok (Thailandia) per l’agenzia Reuters. Feature Photography. Come anticipato, il Pulitzer in questa sezione è stato assegnato a Preston Gannaway per il suo reportage Remember Me, che racconta la sofferenza di una famiglia nella quale una donna è stata colpita da un cancro (a sinistra). Abbiamo già visto servizi di questo genere premiati in altri concorsi e in altre edizioni. Fanno parte di un filone di successo negli Stati Uniti (e altrove) che, prendendo ispirazione da un avvincente saggio di Susan Sontag (spesso ricordato su queste pagine), possiamo definire “davanti al dolore degli altri”. Paradossalmente, sia Preston Gannaway sia il photo editor Dan Habib, hanno lasciato il Concord Monitor proprio nell’anno nel quale, per la prima volta, un membro del giornale gli ha portato un premio Pulitzer. Entrata nel quotidiano nel 2003, Preston Gannaway, è stata nominata Photographer of the Year 2005 nella regione del New England (Maine, New Hampshire, Vermont, Rhode Island e Massachusetts). Prima di fotografare per il Concord Monitor, Preston Gannaway ha collaborato con il Santa Fe New Mexican e il Bangor Daily News. Quest’anno, sempre per Reme-


ANCHE BOB DYLAN

ELLIOTT LANDY

P

ossiamo definire “storico” il Pulitzer 2008, che per la prima volta ha assegnato un riconoscimento a un cantautore: Bob Dylan, premiato per la sua carriera. Testuale: «per il suo profondo impatto sulla musica popolare e la cultura americana, attraverso composizioni liriche dallo straordinario potere poetico». Non più immagine e simbolo della rivolta contro i signori della guerra, dell’inizio della sua carriera, Bob Dylan ha superato indenne i decenni, passando dai caldi momenti della guerra in Vietnam, tragedia statunitense che ha coinvolto tutto il mondo, a una successiva trasformazione sociale. Straordinario interprete dei suoi motivi, dei quali cambia gli accordi a ogni esecu-

zione, non ripetendosi mai, Bob Dylan è un autentico poeta dei nostri giorni, capace di emozionare e coinvolgere come pochi. La stampa internazionale ha rilevato compatta e unanime che l’assegnazione del Pulitzer è significativa, «perché sembra istituire una connessione tra il presente, questa tarda modernità nella quale Bob Dylan è un rocker sessantaseienne che fa del manierismo musicale nel suo infinito e sempre elusivo tour mondiale, e l’alba della modernizzazione nell’epoca dei baby boomer [FOTOgraphia, settembre 1996], quando l’America e il mondo erano giovani, e spalancati all’idea di cambiare la società» (Edmondo Berselli in La Repubblica del nove aprile).

ber Me, Preston Gannaway ha già ricevuto un riconoscimento di eccellenza nella categoria Best Multimedia Project e un primo premio nella categoria Newspaper Picture Editing Portfolio (circolazione inferiore a 100.000 copie) del Pictures of the Year International Competition, POYi in acronimo (FOTOgraphia, aprile 2008). Un altro primo premio le è stato attribuito al Best Published Picture Story for Newspapers (circolazione inferiore a 115.000 copie), bandito dalla National Press Photographers Association. La giuria del Pulitzer era composta da Liza Gross, managing editor del Miami Herald, Dan Habib, photo editor (dimissionario) del Concord Monitor, Naomi Halperin, direttore della fotografia del Morning Call, Michelle McNally, vice direttore per la fotografia del The New York Times, e Zach Ryall, Internet managing editor dell’Austin American-Statesman. L.P.

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COPERTINE ELETTORALI

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Chiariamo subito che non intendiamo commentare i risultati delle recenti elezioni politiche italiane: non è materia di nostra competenza. Al solito, ci soffermiamo soltanto su considerazioni di carattere fotografico, così come le abbiamo annotate nei giorni precedenti, e in un istante immediatamente successivo. Allo stesso momento, precisiamo che, pur parlando di ritratti e volti di candidati, dei candidati di spicco della contesa, osservati dalle copertine di alcuni identificati periodici, evitiamo di allungarci sui ritratti dei manifesti elettorali, che non hanno espresso nulla di nuovo: in linea di massima, e forse anche in assoluto, hanno confermato la pochezza, se non addirittura la miseria e povertà, che da sempre definiscono la propaganda politica italiana, visualizzata in facce da mal eseguita fototessera (e poco di più). Ovviamente, e come abbiamo notato tutti, la competizione ha acceso i riflettori sui leader delle due formazioni opposte: Silvio Berlusconi e Walter Veltroni, con altro minimo contorno. Ed è su questa antitesi che si è espresso l’autorevole Newsweek, nella propria edizione europea con data di copertina sette aprile: una settimana prima della sessione di voto. Una illustrazione elaborata a partire da due ritratti di Alex Majoli (Magnum Photos), accreditati!, ha fuso

assieme i due candidati, uniti nel richiamo “Veltrusconi” (a destra). Metà volto di Silvio Berlusconi e metà volto di Walter Veltroni sintetizzano la condizione che il settimanale commenta come la prima autentica elezione italiana concentrata sul solo dualismo di due forti formazioni contrapposte. Quindi, l’analisi politica, strillata in copertina, sollecita un’alleanza utile per creare le condizioni di autentica gestione della nazione; alla lettera, «How a grand coalition could end Italy’s chaos» (come una grande coalizione può porre fine al caos italiano). Nessun commento alle teorie politiche del settimanale statunitense, che sono state peraltro riprese da opinionisti italiani. Soltanto, dal nostro punto di vista, rileviamo l’efficacia dell’interpretazione fotografica. Con intenzioni diverse, qualcosa di analogo è stato fatto, la mattina di domenica tredici aprile, la prima delle due giornate di voto, dal quotidiano milanese Il Giornale, vicino e intimo alle posizioni di Silvio Berlusconi. Per sottolineare come Walter Veltroni altro non sarebbe che una rivisitazione della precedente gestione dell’ex premier Romano Prodi, è stata allestita una successione fotografica di sei ritratti accostati. Si parte con Romano Prodi e, in dissolvenza, si arriva a Walter Veltroni: appunto uno è pari all’altro. La sequenza ser-

La copertina dell’edizione europea di Newsweek del sette aprile ha presentato una illustrazione elaborata a partire da due ritratti di Alex Majoli (Magnum Photos). I due leader contrapposti Silvio Berlusconi e Walter Veltroni sono uniti nel richiamo “Veltrusconi”.

rata (a pagina 19) sovrasta il titolo in combinazione «Non fatevi imbrogliare», ovvero sappiate che da Romano Prodi a Walter Veltroni non c’è soluzione di continuità: entrambi sono della stessa pasta, entrambi sono responsabili di quanto imputato al governo di centrosinistra. Anche in questo caso, non commentiamo; la precisazione della posizione politica del quotidiano, dichiaratamente schierato, serve soltanto per motivare l’azione foto-

In edicola giovedì dieci aprile, il Magazine del Corriere della Sera ha proposto ai propri lettori una scelta tra quattro copertine analoghe, ma diverse: ritratto di Silvio Berlusconi, Walter Veltroni, Pier Ferdinando Casini e Fausto Bertinotti.

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FOTOMOSAICI DI ROBERT SILVERS (E DINTORNI)

T

essere con ragion d’essere, titolammo, nel marzo 1999, la nostra prima presentazione dei fotomosaici di Robert Silvers, che ricostruiscono volti noti e raffigurazioni conosciute, che allora classificammo nell’ambito del superitratto: rappresentazioni della fisionomia che non si limitano al solo e semplice ritratto classico. Il fotomosaico appartiene alla grande famiglia dei fotomontaggi, ovverosia è una sorta di “fotografia di fotografie”. Esemplare è stata una osservazione di Paul Rand, uno dei più grandi graphic designer del mondo, prematuramente scomparso a metà degli anni Novanta: «Il fotomontaggio è un’illustrazione per associazione, per giustapposizione, per subappalto. Ripiega il tempo e pone elementi estranei assieme; uno strumento ideale per raccontare storie e per la visualizzazione di idee complesse». Riconducibile a esperienze artistiche antiche, per esempio alla pittura di Arcimboldo, che nel Cinquecento realizzava ritratti-nature morte accostando frutti, verdure e pesci, il fotomosaico deve la propria efficacia visiva a un pertinente apporto tecnico. In particolare, il fotomosaico si basa sulla tecnologia digitale, che traduce in tempo reale le intenzioni espressive dell’autore. Creatore di splendide illustrazioni, Robert Silvers, laureatosi nei corsi di Michael Hawley al MIT di Cambridge (Massachusetts, Usa), ha elaborato un programma che agisce direttamente sugli algoritmi di base del computer. Considerando il contenuto delle singole tessere, durante la creazione del fotomosaico Robert Silvers ottiene una uniformità concettuale tra la parte e il tutto. Per esempio, il fotomosaico del presidente Abraham Lincoln, che richiama un ritratto eseguito da Alexander Gardner nel 1863, è composto da immagini della Guerra civile; addirittura, nell’occhio sinistro è inserito il ritratto di John Wilkes Booth, che assassinò il presidente il 15 aprile 1865, durante una rappresentazione teatrale. In allineamento, è significativo il fotomosaico dell’attuale presidente degli Stati Uniti George W. Bush (a destra), formato con ritratti di soldati americani morti in Iraq, proposto sul sito dell’insospettabile Washington Post (per questo fotomosaico, ripetiamo le nostre riserve sull’alterazione proditoria dei toni delle singole tessere). Ancora, ricordiamo il fotomosaico di Robert Silvers realizzato con mille immagini parziali di chiese cattoliche che formano il ritratto di papa Wojtyla. In celebrazione del suo ottantesimo compleanno, nel 2000 è stato usato per fogli filatelici identici della Micronesia e del Gambia (in alto, a destra). In definitiva, il fotomosaico esprime ricercati legami concettuali. Come sempre e tutto, il suo effetto visivo si basa sull’ordine della raffigurazione. Non basta alternare i toni per raggiungere il proprio scopo, ma le singole tessere debbono essere in ordine con ciò che rappresentano.

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Convincente fotomosaico di papa Giovanni Paolo II, realizzato da Robert Silvers con mille immagini di chiese cattoliche (soprattutto particolari architettonici), in opportuni toni originariamente diversi. Nel 2000, in occasione dell’ottantesimo compleanno di Karol Wojtyla, è stato usato per due fogli filatelici identici del Gambia e della Micronesia, a propria volta mosaici. Dal sito del Washington Post, quotidiano al di sopra di ogni sospetto, fotomosaico di Robert Silvers del presidente degli Stati Uniti George W. Bush, formato con ritratti di soldati americani morti in Iraq (proditoriamente alterati nei propri toni originari). Tre copertine in fotomosaico e simil fotomosaico diverse per contenuto e rispettive qualità realizzative. Straordinario è il ritratto di Marilyn Monroe composto da Robert Silvers con copertine storiche di Life, che nell’ottobre 1996 ha celebrato il sessantesimo anniversario della testata ( FOTOgraphia, dicembre 1996). Posticcio è il volto di papa Wojtyla abbinato ai primi dieci anni di Sette, supplemento del Corriere della Sera (10 marzo 1998). Discutibile è la celebrazione del cinquantenario della Repubblica federale tedesca, realizzata dal settimanale Spiegel (settembre 1998) con immagini degli ultimi cinquant’anni, appunto.


grafica, la sola che ci compete. Un passo indietro, ancora, alla settimana precedente i due giorni elettorali, domenica tredici e lunedì quattordici aprile. In edicola giovedì dieci aprile, il Magazine del Corriere della Sera, che a metà di ogni settimana accompagna il quotidiano milanese, ha proposto ai propri lettori-acquirenti una scelta tra quattro copertine analoghe, ma diverse: ritratto di Silvio Berlusconi, Walter Veltroni, Pier Ferdinando Casini e Fausto Bertinotti (a pagina 17). A parità di contenuti interni, ognuno ha così potuto allinearsi con il candidato vicino alle proprie posizioni e convinzioni politiche. Non male, davvero. Lodevole iniziativa del settimanale, che, una volta ancora, sottolinea la propria attenzione verso la combinazione di parole (giornalistiche) e immagini (fotogiornalistiche), in comunione di intenti. Con l’occasione, richiamiamo ancora il consistente numero speciale della fine dello scorso gen-

naio, che ha raccontato Un giorno nella vita dell’Italia con immagini di quarantasette fotografi, che hanno lavorato nella stessa giornata. Ricordiamo che abbiamo approfondito questo Ritratto d’autore di un paese incompiuto, ideato e coordinato dal photo editor Chiara Mariani, sul nostro numero di marzo. Tornando alle quattro copertine elettorali a scelta del Magazine del Corriere della Sera, sottolineiamo che si tratta di una intelligente riproposizione di una analoga soluzione realizzata nel gennaio 1997 dal mensile George, edito da John F. Kennedy

Per sottolineare la continuità politica del centrosinistra, Il Giornale del tredici aprile ha visualizzato una successione fotografica di sei ritratti accostati, in dissolvenza da Romano Prodi a Walter Veltroni.

Panorama del ventitré aprile commenta la vittoria di Silvio Berlusconi con una combinazione posticcia alla maniera dei fotomosaici di Robert Silvers (pagina accanto).

Jr, figlio del precedente ucciso a Dallas nel novembre 1963, successivamente morto in un incidente aereo. All’indomani delle elezioni presidenziali statunitensi, quel numero di George fu proposto in versione a doppia copertina, ancora a scelta una o l’altra (FOTOgraphia, marzo 1997), in allineamento al proprio stato d’animo. A ciascuno, la preferita, tra quella che celebrò la vittoria elettorale di Bill Clinton (ragazza sorridente) e quella che si rammaricava per la sconfitta del repubblicano Bob Dole (ragazza in lacrime). [Attenzione: da qualche mese, anche il mensile Max è in edicola in doppia copertina: a scelta, al maschile e femminile]. Chiudiamo con la copertina di Panorama datata ventitré aprile: la vittoria di Silvio Berlusconi, che «torna alla guida del governo per la terza volta; con queste idee su tasse, famiglia, Alitalia, spazzatura; e nei primi cento giorni...» (testuale lo strillo), è certificata da un ritratto pubblicato alla maniera dei fotomosaici di Robert Silvers (FOTOgraphia, marzo 1999, e riquadro sulla pagina accanto). Non si tratta di un autentico fotomosaico, ovvero di ritratto costruito sulla sapiente combinazione di tessere di tono alternato, appunto finalizzate alla raffigurazione definitiva, ma di intonazione posticcia. Il ritratto di Silvio Berlusconi è sovrapposto a una fitta sequenza casuale di ritratti di personaggi politici italiani, vicini e lontani alle posizioni del primo ministro, riprodotti in un tono deliberatamente abbassato, appunto per lasciare visibilità al premier (a sinistra). Così facendo, Panorama ha ripetuto una analoga combinazione con la quale, nel marzo 1998, il settimanale Sette, allora supplemento del Corriere della Sera (testata sostituita dal Magazine del quale ci siamo appena occupati), celebrò i propri primi dieci anni di edizione, richiamando un ritratto analogamente posticcio di papa Wojtyla (pagina accanto). Per le copertine elettorali è tutto qui. A completamento, con l’occasione, e in combinazione parallela, nel riquadro pubblicato sulla pagina accanto riprendiamo i termini dell’autentico fotomosaico, sul quale ci induce a tornare la copertina di Panorama appena commentata. M.R.

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UNA VITA DIFFICILE Dith Pran, il fotogiornalista alle cui immagini si devono le testimonianze più importanti del genocidio perpetrato dai Khmer Rossi in Cambogia, è mancato domenica trenta marzo, all’età di sessantacinque anni. La sua storia è raccontata nel best seller The Death and Life of Dith Pran (1980), del giornalista del The New York Times Sydney H. Schanberg, che ha ispirato il film Urla del silenzio ( The Killing Fields; di Roland Joffé; Inghilterra, 1984).

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Dopo una lunga lotta con un cancro al pancreas, all’età di sessantacinque anni, domenica trenta marzo è mancato Dith Pran. È il fotogiornalista alle cui immagini si devono le testimonianze più importanti del genocidio perpetrato dai Khmer Rossi in Cambogia. La sua figura gioca un ruolo fondamentale in Urla del silenzio (The Killing Fields, di Roland Joffé), il drammatico film inglese del 1984 che ha tratto ispirazione dal best seller The Death and Life of Dith Pran (1980), del famoso giornalista del The New York Times Sydney H. Schanberg, corrispondente da Phnom Penh (Cambogia) nel periodo in cui la dit-

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tatura di Pol Pot trasformò il paese in un obitorio: dal 1976 al 1979 sono stati sterminati almeno due milioni di cittadini inermi, che prima dell’esecuzione venivano fotografati dalla maniera della fototessera di identificazione, davanti a un improvvisato fondo bianco (FOTOgraphia, settembre 2007). Fu proprio Sidney H. Schanberg, premio Pulitzer 1976 nella categoria International Reporting per i suoi reportage dalla Cambogia, che arruolò Dith Pran, che in seguito venne assunto dal quotidiano ed entrò a far parte dei fotografi dello staff. La sua storia è appunto raccontata nel libro citato e nel film che ne è seguìto. La

trama finisce sulle note di Image di John Lennon (FOTOgraphia, dicembre 2001); la data è certa: 9 ottobre 1979, quando Sydney H. Schanberg è riuscito a tornare in Cambogia per riprendere l’amico con sé. Sui titoli di coda: «Dith Pran tornò con Sydney Schanberg in America, insieme alla sua famiglia. Attualmente lavora come fotografo per il New York Times, dove Sydney Schanberg fa il giornalista. Il tormento in Cambogia non è ancora giunto al termine. I campi profughi al confine della Thailandia sono ancora affollati dai bambini delle zone di guerra». [In Urla del silenzio, uno dei film del consistente casellario della presenza della fotografia nel cinema (soprattutto in FOTOgraphia del dicembre 2006 e maggio 2007, in relazione alla mostra Fotografia & Cinema. Fotogrammi celebri, a cura di Maurizio e Filippo Rebuzzini, alla Galleria Grazia Neri di Milano; e su questo stesso numero, da pagina 49), il giornalista Sydney H. Schanberg è interpretato da Sam Waterson, il procuratore distrettuale Jack McCoy del televisivo Law & Order, che usa Nikon F2; mentre Dith Pran è interpretato da Hang S. Ngor (pagina accanto). Nel film, ci sono anche John Malkovitch, nei panni del fotografo Alan “Al” Rockoff, pure con Nikon F2, nere nel suo caso (FOTOgraphia, dicembre 2007), e Julian Sands, nei panni del fotografo Jon Swain, con Asahi Pentax Spotmatic nera]. Sul sito del The New York Times è possibile ascoltare una coinvolgente intervista con Dith Pran, registrata all’inizio di marzo, un mese prima che morisse. Si tratta di un pezzo di cultura da non perdere assolutamente. La trovate a: www.nytimes. com/packages/html/multimedia/20 080320_DITH_PRAN_LAST_WORD _FEATURE/index.html#section1. Dith Pran è stato un autodidatta: ha imparato l’inglese e la fotografia da solo. Aiutò Sidney H. Schanberg a coprire la guerra civile in Cambogia fino al 1975, quando tutti i gior-


Oltre un portfolio di sue immagini, il sito del The New York Times ricorda Dith Pran con una coinvolgente intervista registrata all’inizio di marzo, un mese prima che morisse.

nalisti stranieri furono espulsi; in seguito, fu catturato dai soldati del dittatore. Evitò di essere giustiziato, affermando di essere di livello culturale modesto. Ottenne così di finire in un campo di rieducazione, dove sopravvisse, sempre in procinto di morire di fame, facendo il contadino. Nel 1979, come rievocato nel libro e nel film ricordati, riuscì a raggiungere gli Stati Uniti. Bill Keller, executive editor del The New York Times, ha scritto di lui: «Dith Pran ci ricorda una speciale categoria di giornalisti eroici,

In Urla del silenzio, Dith Pran è interpretato da Hang S. Ngor. Mentre Sam Waterson dà il volto al giornalista Sydney H. Schanberg (con Nikon F2).

che per un giornale rappresentano tutto, il partner in loco, uno che fa squadra, un interprete, un autista, uno che ti aiuta se hai un problema, che conosce le vie di fuga, che rende possibile il tuo lavoro, che spesso diventa tuo amico, che può salvare la tua vita, che si acconten-

ta di condividere la tua fama stando in secondo piano, e che rischia molto di più di te». Come spesso ha dichiarato, il cruccio più grande di Dith Pran è stato quello di (dover) morire prima che Pol Pot fosse processato e condannato per i propri crimini. L.P.

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Report 2007 Uccisi Africa Americhe Asia Europa e blocco ex Urss Nord Africa e Medio Oriente Totale

12 7 17 2 48 86

Giornalisti Picchiati Arrestati o minacciati 162 86 430 77 132 887

145 626 562 83 95 1511

2007 ANNO MORTALE PER GIORNALISTI E FOTOGIORNALISTI. Secondo la relazione annuale dell’autorevole organizzazione francese Reporters sans frontières (Rsf), che tiene monitorata la situazione della stampa nel mondo, il 2007 è stato un annus horribilis per i giornalisti (e in particolare per i fotogiornalisti e gli operatori video, che sono di gran lunga i più numerosi sul campo): il peggiore dal 1994, anno in cui Rsf ha cominciato a operare. Nel report si rileva espressamente che il numero delle vittime tra i fotogiornalisti è più elevato perché il loro equipaggiamento professionale li rende più facilmente riconoscibili. Ne sono stati ammazzati ottantasei, uno in più che nel 2006, quarantasette solo in Iraq (quarantuno nel 2006), dei quali uno solo straniero, il russo Dimitri Chebotayev, embedded con l’esercito americano (sei maggio). A parte, il quadro che riassume i dati del report 2007 (qui sopra). Inoltre, sono stati uccisi anche venti assistenti al seguito. Per quanto riguarda Internet, trentasette blogger sono stati arrestati e ventuno aggrediti; sono anche stati chiusi o sospesi duemilaseicentosettantasei (2676) siti web. Nelle Americhe, i paesi più ostili ai fotografi sono Bolivia, Colombia e Haiti; mentre in Asia, quelli più rischiosi sono Afghanistan, Malesia, Myanmar (Birmania), Bangladesh, Cina, Pakistan, Iran, Palestina e Iraq. Rsf ha pubblicato anche una classifica di paesi che meglio o peggio rispettano la libertà di stampa. Nell’ordine, ai primi dieci posti, vengono Islanda, Norvegia, Estonia, Slovacchia, Belgio, Finlandia, Svezia, Danimarca, Irlanda e Portogallo. L’Italia è al trentacinquesimo posto, dopo Spagna (33), Francia (31),

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Rapiti 1 11 23 3 29 67

Fonti di informazione chiuse per censura

61 91 273 60 43 528

Ghana (29) e Inghilterra (24), ma davanti a Giappone (37), Israele (44) e Stati Uniti (48). Agli ultimi posti, la Repubblica popolare cinese (163), Myanmar (164), Cuba (165), Iran (166), Turkmenistan (167), Corea del Nord (168). Chiude l’Eritrea al centosessantanovesimo posto.

YANN ARTHUS-BERTRAND. Il

Noto per il suo grande progetto La Terra vista dal cielo (monografia e mostre itineranti), Yann Arthus-Bertrand ha vinto il Prix Georges Pompidou, riservato a un personaggio di rilievo della cultura francese. Il riconoscimento è stato consegnato mercoledì ventisei marzo dal vice presidente dell’Associazione Georges Pompidou, Bernard Esambert e dal ministro della Cultura e della Comunicazione, signora Christine Albanel.

fotografo francese, diventato famosissimo per aver realizzato uno dei progetti più straordinari della storia della fotografia, La Terra vista dal cielo, ha vinto la terza edizione del Prix Georges Pompidou, intitolato al più volte primo ministro francese (cinque mandati), presidente della Repubblica dal 1969, mancato improvvisamente nel 1974, e riservato a un personaggio di rilievo della cultura nazionale. Il riconoscimento è stato consegnato mercoledì ventisei marzo dal vice presidente dell’Associazione Georges Pompidou, Bernard Esambert e dal ministro della Cultura e della Comunicazione, signora Christine Albanel (qui sotto) che ha così dichiarato: «Nel suo lavoro, Yann Arthus-Bertrand ha saputo coniugare arte e scienza, bellezza e impegno. Ha sorvolato in lungo e in largo il nostro pianeta, per regalarci scatti spettacolari che hanno fatto il giro del mondo e mostrato che la Terra è l’opera d’arte più bella che conosciamo». Il libro La Terra vista dal cielo di Yann Arthus-Bertrand (edizione ita-

liana Mondadori Electa; 462 pagine 29x40cm, 55,00 euro) è stato tradotto in molte lingue e venduto in più di due milioni di copie. Centoventi spettacolari ingrandimenti 120x180cm delle immagini sono stati allestiti in una mostra esposta all’aperto per le strade di Milano, nell’autunno 2004, e Palermo, nella primavera-estate 2006 (FOTO graphia, aprile 2006). Per la stagione 2008-2009 è prevista una nuova tappa a Roma.

PREMIO ALEXIA A STEPHANIE SINCLAIR. Membro del VII Network, una sezione appena nata dell’agenzia VII, vincitrice di un premio Pulitzer nel 2001 (condiviso con i membri dello staff del Chicago Tribune), di numerosi riconoscimenti al World Press Photo e di un Visa d’Or Magazine nel 2004, Stephanie Sinclair si è aggiudicata l’assegno annuale di quindicimila dollari della Alexia Foundation, un’organizzazione creata in memoria di Alexia Tsairis, studentessa ventenne di fotogiornalismo della Syracuse University (NY) rimasta uccisa il 21 dicembre 1988 nel disastro aereo del volo Pan Am 103, fatto esplodere da terroristi libici nei cieli di Lockerbie (Scozia), mentre era in rotta verso New York. Con il suo progetto, Stephanie Sinclair si propone di realizzare un lavoro sulle bambine del mondo costrette a entrare prematuramente nell’età adulta. Il premio Alexia riservato a uno studente, che consiste in un assegno di mille dollari e in una borsa di studio presso il Syracuse University London Centre, è stato invece assegnato a Matt Eich, che ha presentato un progetto sui problemi sociali nelle piccole comunità rurali.

ALTRI PREMI. Data la palese crisi planetaria degli assignement (che in Italia si fa sentire più che in altri paesi), per fortuna si registrano premi che sostengono i fotografi, assegnati sulla base di diversi tipi di concorsi. Segnaliamo quello che la più grande agenzia fotografica mondiale, Getty Images, ha recentemente attribuito per progetti riguardanti lavori fotografici editoriali agli statunitensi Ian Martin e Lorena Ros, che hanno intascato un assegno di


ventimila dollari ciascuno. Ian Martin userà questa contribuzione per realizzare un progetto sui bianchi poveri del Sudafrica; mentre Lorena Ros ha in mente un grande reportage sugli abusi sessuali che vengono consumati negli Stati Uniti nei confronti di minori. I due fotografi sono stati scelti tra centotrentanove candidati in rappresentanza di ventinove paesi. La giuria (di tutto rispetto) era composta da Simon Barnett, direttore della fotografia di Newsweek, David Griffin, direttore della fotografia del National Geographic, Alison Morely, dell’ICP (International Center of Photography di New York) e Rosanna Sguera, responsabile di Vanity Fair per il fotogiornalismo. Altri tre premi analoghi verranno messi in palio da Getty Images a settembre.

I riconoscimenti dell’Eyes of History (gli occhi della storia) sono assegnati dalla White House News Photographers Association (Whnpa).

E ANCORA PREMI. Chiudiamo l’elenco dei più importanti riconoscimenti consegnati nei primi nei primi tre mesi del 2008 (tra i quali anche quelli del POYi; FOTOgraphia, aprile 2008), segnalando i riconoscimenti dell’Eyes of History (gli occhi della storia), assegnati dalla White House News Photographers Association (Whnpa). Come si vede sono gli americani a vincere a man bassa quasi tutti i premi che sono distribuiti da istituzioni, per altro a propria volta statunitensi. Segnaliamo i vincitori delle sezioni del concorso dedicate alla fotografia. Chi fosse interessato anche alle sezioni New Media, TV e Student può vedere a www.whnpa.org. Photographer of the Year è Jahi Chikwendiu, The Washington Post. Avvincente l’inizio della sua carriera. Comincia come professore di matematica di liceo a Lexington (Kentucky), ma la sua passione per il fotogiornalismo ha il sopravvento. Dopo un anno di insegnamento, diventa fotografo di staff dell’Herald-Leader, quotidiano locale di Lexington. Un anno dopo è nominato fotografo dell’anno dalla Kentucky News Photographers Association, due anni ancora e viene assunto a tempo pieno dal Washington Post, per il quale lavora ancora oggi. I suoi reportage del 2007 riguardano il Darfur, il problema delle cluster bomb in

Libano e la vita dei ragazzi nei licei di Washington D.C. Gli altri vincitori sono: Jay L. Clendenin, agenzia Aurora Photos (Politica); Charles Ommanney, Getty Images per Newsweek (Ritratto); Monica Lopossay, The Baltimore Sun (Pictorial, fotografia che sottolinea le qualità estetiche e grafiche del soggetto); Christopher T. Assaf, The Baltimore Sun (Feature); Toni L. Sandys, The Washington Post (Sport, azione), Michael Connor, The Washington Times (Sport feature); Jason Reed, Reuters (Presidential, il presidente Usa); Jason Reed, Reuters (On Capitol Hill, il mondo intorno al presidente Usa); Win McNamee, Getty Images (Insiders Washington, dietro le quinte della politica); Andrea Bruce, The Washington Post (Cronaca americana); Katie Falkenberg, The Washington Times (Cronaca internazionale); Khue Bui, Newsweek (Picture story riguardante la politica); Olivier Douliery, Abaca Press (Portfolio riguardante la politica).

QUOTAZIONI RECORD. Amiamo la fotografia, e non possiamo

che rallegrarci quando i collezionisti si rivelano disposti a pagare cifre strabilianti, che potrebbero sistemare per sempre la vita di ciascuno di noi, per aggiudicarsi una stampa vintage. Perciò, abbiamo brindato quando è giunta notizia che in una sessione d’asta di Sotheby’s New York, lunedì sette aprile sono state vendute fotografie del Diciannovesimo e Ventesimo secolo per quasi nove milioni di dollari (8,9, per l’esattezza); e il giorno successivo per altri 8,4 milioni di dollari. Lunedì sono state aggiudicate sessantatré delle sessantotto stampe appartenenti alla Quillan Collection, una collezione messa insieme in più di vent’anni dalla finanziaria Quillan Company (chissà perché se ne sono liberati?, che siano coinvolti nel crack dei subprime?). Sono stati due giorni di grandi vendite, con quotazioni record raggiunte da fotografie di Richard Avedon, Hans Bellmer, Bill Brandt, László Moholy-Nagy, August Sander, Paul Strand e Edward Weston. La cifra più alta, un milione e seicentomila dollari (1,4 milioni per la stampa e duecentomila di provvigione al compratore in sala, prestavolto e prestanome del vero acquirente), è stata pagata per un nudo di Edward Weston del 1925 (qui sotto; Sotheby’s afferma che esistono solo due stampe di questo scatto). Poi, ci sono i 645.800 dollari pagati per un Rebecca, un ritratto di August Sander del 1923, e i 493.000 dollari di Werkstudenten, un altro ritratto di August Sander del 1926; mentre una Marilyn Monroe di Richard Avedon, del 1957, ha incassato 457.000 dollari.

Questo nudo di Edward Weston, del 1925, è stato aggiudicato per un milione e seicentomila dollari a una sessione d’asta di Sotheby’s New York. Dello scatto, dovrebbero esistere soltanto due stampe.

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Altre cifre battute: 265.000 dollari per Van Gogh’s Room in the Asylum of St. Paul-de-Mausole (St. Rémy), di Bill Brandt, del 1950; 289.000 dollari per San Francisco Waterfront, di Dorothea Lange, del 1933; 313.000 dollari per Untitled Film Still #53, di Cindy Sherman, del 1980. Se non siete ancora sazi, ci sono i 554.000 dollari per A Family on the Lawn One Sunday in Westchester, di Diane Arbus; i 409.000 dollari per un dagherrotipo di Albert Sands Southworth e Josiah Johnson Hawes; i 313.000 dollari per Metropolitan Tower-Twilight, una stampa al platino di Karl Struss; e, infine, i 229.000 dollari per un altro Edward Weston, Leeks.

SEMINARIO. Nell’ultimo weekend di giugno, da venerdì ventisette a domenica ventinove, a Montepulciano, in provincia di Siena, si tiene un seminario dal titolo Passion & Profession, organizzato da Carlo Roberti nell’ambito delle attività del Toscana Photographic Workshop (TPW; più recente segnalazione in FOTOgraphia dello scorso aprile). Soprattutto agli studenti che partecipano ogni anno ai corsi del TPW, e anche a tutti coloro che “da grandi” vogliono fare i fotografi, il seminario offre tre giorni di dibattiti e incontri con un gruppo di esperti italiani e stranieri che operano nel mondo della comunicazione e della fotografia. Venerdì ventisette è dedicato alla fotografia fine art, sabato ventotto alla fotografia di viaggio e domenica alla documentary photography. Le mattine sono riservate a tavole rotonde: un gruppo di esperti presenta brevi interventi e risponde alle domande dei partecipanti. Invece, i pomeriggi sono indirizzati a incontri dei partecipanti con gli esperti, secondo un calendario prestabilito e una rigorosa suddivisione in gruppi, massimo otto persone per gruppo, ai quali è obbligatorio prenotarsi (vale il noto princìpio: chi primo arriva, meglio si accomoda). Tra gli esperti presenti, tra i migliori in campo nazionale e internazionale, ci sono specialisti della fotografia (anche online), photo editor, galleristi, editori, direttori di agenzie fotografiche e di riviste di settore, esperti di multimedia e di

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tecniche di stampa fine art. Il programma definitivo di Passion & Profession e l’elenco completo degli esperti presenti è disponibile su www.tpw.it. Il costo per partecipare ai tre seminari è di 360,00 euro, e comprende anche l’iscrizione a due gruppi di lavoro pomeridiani. Ogni iscrizione aggiuntiva ad altri gruppi di lavoro, oltre i due dovuti, costa sessanta euro. Per ulteriori informazioni contattare il TPW via mail (info@tpw.it) o telefonicamente (051-6440048).

GRIN. Fnac e UniCredit Group sono gli sponsor dell’edizione 2008 del Premio Amilcare Ponchielli, organizzato dal Grin, Gruppo Nazionale Ricercatori Iconografici, e dedicato al photo editor del settimanale Sette, prematuramente scomparso nel 2001. Il bando del premio è stato presentato lo scorso dieci aprile presso la Galleria Fnac di via Torino, a Milano. In concomitanza con questa presentazione, sono state proiettate le immagini straordinarie del lavoro Fedeli alla tribù, dedicato al momento del passaggio dalla adolescenza all’infanzia, con il quale Lorenzo Cicconi Massi ha vinto l’edizione 2007 dello stesso premio. In autunno, la Galleria Fnac ospiterà una mostra realizzata con le fotografie di questo progetto. Una breve presentazione di Lorenzo Cicconi Massi è dovuta. Classe 1966, si laurea in sociologia nel 1991 con una tesi su Mario Giacomelli e il gruppo Misa a Senigallia. Il suo impegno nel campo della comunicazione visiva comincia con un attento lavoro di ricerca fotografica in bianconero, mentre, parallelamente, realizza cortometraggi a basso costo premiati in alcuni festival e mandati in onda da Tele+ e Rai. Dopo aver vinto, nel 1999, il primo premio al concorso Canon dedicato ai giovani, nel gennaio 2000 Lorenzo Cicconi Massi entra nell’Agenzia Contrasto. Da allora, le sue fotografie vengono premiate in numerosi concorsi e pubblicate da molte testate italiane. Dal 2006, alcune sue stampe fanno parte della collezione di Forma, Centro per la Fotografia a Milano, e della galleria Nile Tuzun di San Francisco (Usa;

Fedeli alla tribù è il reportage dedicato al momento del passaggio dalla adolescenza all’infanzia con il quale Lorenzo Cicconi Massi ha vinto la scorsa edizione 2007 del Premio Amilcare Ponchielli, organizzato dal Grin (Gruppo Nazionale Ricercatori Iconografici), dedicato al photo editor del settimanale Sette, prematuramente scomparso nel 2001.

www.niletuzungallery.com), specializzata in fotografia italiana. L’anno scorso è giunto terzo al World Press Photo nella categoria Sports Features Singles, con un lavoro sui giovani calciatori cinesi. Come regista, ha esordito con il lungometraggio Prova a volare, che ha tra gli interpreti Riccardo Scamarcio, Ennio Fantastichini e Antonio Catania. Per saperne di più: www.lorenzocicconimassi.it.

CONCORSO. In collaborazione

Il concorso Levallois-Epson Photography Award nasce con lo scopo di promuovere la fotografia contemporanea in tutte le proprie forme. Informazioni su www.photolevallois.org.

con Epson Francia, il comune di Levallois, piccolo centro a nordovest di Parigi, appena fuori dal Boulevard Périférique, la grande circonvallazione che delimita la capitale francese, lancia il primo concorso Levallois-Epson Photography Award, con lo scopo di promuovere la fotografia contemporanea in tutte le proprie forme. Il concorso è riservato a fotografi di ogni nazionalità, che hanno meno di trentacinque anni di età. Il premio ammonta a diecimila euro. Il vincitore verrà annunciato il prossimo quattordici novembre. Contemporaneamente, con le sue immagini verrà inaugurata una mostra presso l’Escale, il centro culturale della città. Il modulo di partecipazione può essere scaricato al sito www.photo-levallois.org. La data ultima per la presentazione delle opere è il trentuno luglio. A cura di Lello Piazza


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Giuseppe Tomelleri: Spiaggia libera, ore 12,00.

Fabrizio Tempesti: Ore 23,59.

L

anciata in occasione della inaugurazione del Centro Italiano della Fotografia d’Autore, nell’ex Casa Mandamentale di Bibbiena, in Toscana, nella provincia di Arezzo, nel capoluogo del verde Casentino, a sessanta chilometri da Firenze (FOTOgraphia, maggio 2005), la campagna fotografica Immagini del gusto approda a una propria consistente esposizione, che viene allestita in mostra dal prossimo Primo giugno e rimane in cartellone fino al sette settembre. A dire il vero, si tratta di un secondo tempo, vasto e diversificato, che segue l’originaria rapida visione fotografica che nel settembre 2005 la stessa Fiaf (Federazione Italiana Associazioni Fotografiche) realizzò in collaborazione con l’Associazione Internazionale non profit Slow Food: monografia e, ancora, mostra negli stessi locali di Bibbiena. Quindi, si può conteggiarla anche come terzo tempo, se e quando si considera la lunga e diversificata successione di mostre locali di avvicinamento, che da due anni impegnano i circoli affiliati Fiaf. Entrando nello specifico, rileviamo che la differenza tra quell’origine dell’autunno 2005 e l’allestimento di questa estate è sostanziale: di quantità, prima di altro, cui fa contorno una conseguente e corrispondente qualità di osservazione, distri-

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Carlo Chiapponi: Il gusto che sento.

buita nel tempo e nello spazio e realizzata da un solido e compatto assortimento di autori, ognuno definito da una propria personale interpretazione del tema affrontato e svolto. Ovviamente, è legittimo sottolinearlo, queste attuali Immagini del gusto, che si propongono e offrono come Percorsi contemporanei sul cibo, sono declinate con un taglio che appartiene al lungo tragitto espressivo della fotografia non professionale italiana, che giusto all’interno della Fiaf ha sempre manifestato il proprio linguaggio espressivo caratteristico (al quale la fotografia italiana deve sicuramente molto). Precisiamo che si tratta di interpretazione fotografica che, prima di altro, se non già soprattutto, declina l’efficacia e il richiamo della forma visiva pura, che è estranea ad altre intenzioni di valutazione e giudizio sociale invece proprie e caratteristiche del fotoreportage e della fotografia di documentazione. Precisato ciò, le Immagini del gusto non hanno alcuna parentela con l’acuta inchiesta fotografica Hungry Planet: What the World Eats, di Peter Menzel e Faith D’Aluisio, che per curiosa coincidenza è commentata su questo stesso numero di FOTOgraphia, da pagina 42. In questo chiarimento, che consideriamo d’obbligo, non esprimiamo alcun giudizio di merito (o eventuale demerito), né, tantomeno, stabiliamo alcuna scala di valori. Soltanto, distinguiamo l’una intenzione fotografica dall’altra, attribuendo a ciascuna di loro validità e pregi individuali.

PERCORSI SUL CIBO

Realizzate da numerosi autori che partecipano al dibattito fotografico che si svolge nell’ambito dei circoli aderenti alla Fiaf (più avanti, la burocrazia delle cifre ufficiali), mille immagini compongono il consistente corpus della diversificata mostra Immagini del gusto - Percorsi contemporanei sul cibo, allestita al Centro Italiano della Fotografia d’Au-

Al culmine di un lungo tragitto, il progetto a tema promosso dalla Federazione Italiana Associazioni Fotografiche (Fiaf) e dal collegato Centro Italiano della Fotografia d’Autore (Cifa) approda all’esposizione nazionale di mille immagini, successiva alla lunga sequenza di mostre locali. Una volta ancora, e una di più, un significativo contributo della fotografia non professionale, che compone i tratti di una osservazione che arricchisce sia il patrimonio sociale sia il contenitore nel quale riconosciamo i valori e significati della storia della fotografia italiana

IMMAGINI DEL GUSTO

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Michele Berti: L’elogio del Pollo Ruspante. Mario Caramanna: Chicchi e chicchere ovvero il piacere del caffè. (al centro) Massimo Merlini: Estetica del cibo.

ASSOCIAZIONISMO FOTOGRAFICO

P

ilastro della cultura fotografia italiana e internazionale, la Federazione Italiana Associazioni Fotografiche (Fiaf) coordina l’attività dei circoli locali distribuiti sul territorio nazionale. Creata oltre cinquanta anni fa per divulgare e sostenere la fotografia non professionale, oggi annovera circa cinquemilacinquecento associati e cinquecentocinquanta circoli affiliati, tramite i quali raggiunge le circa quarantamila persone che ruotano in questi club e nutrono interesse per il mondo della fotografia. La sua forza è la rete capillare di fotografi non professionisti, che con il proprio apporto spontaneo lavorano ogni giorno per sostenere la più autentica e genuina passione fotografica. La Fiaf fa parte della Fédération Internationale de l’Art Photographique (Fiap), che estende a livello planetario il caloroso spirito della fotografia non professionale.

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tore di Bibbiena: simboliche portate di un’immensa tavolata fotografica. Testimonial della manifestazione è il conduttore televisivo Davide Mengacci (FOTOgraphia, settembre 2006), esperto di arte culinaria nonché uno degli autori delle fotografie esposte nella stessa avvincente mostra. Nel proprio svolgimento complessivo, la manifestazione occupa anche altre sedi sparse in tutta la cittadina, le cui strade e piazze sono trasformate, per l’occasione, in un grande e festoso contenitore di immagini (con allestimenti autonomi che si concludono a fine settembre). Così che, tutta la scenografia compone i tratti significativi di un viaggio nella cultura gastronomica italiana, mettendo in scena una forte interpretazione della contemporaneità e offrendo un valido momento di riflessione sul linguaggio fotografico. L’incontro quotidiano con il cibo è un rapporto raramente analizzato dalla fotografia (e fa clamorosa eccezione il progetto Hungry Planet: What the World Eats, di Peter Menzel e Faith D’Aluisio, al quale ci siamo appena riferiti, che presentiamo su questo stesso numero, da pagina 42). Eppure, riflettendo sui ritmi della nostra vita al passo con i cibi che mangiamo siamo obbligati a riesaminare le abitudini del nostro tempo attuale, scoprendo una dimensione di insospettabile profondità, che evidenzia i vizi, sottolinea le pause e mette a nudo le abitudini di relazione tra le persone. Gli aromi e le tradizioni del passato aiutano a riprendere confidenza con il sapore e la convivialità, con il benessere e la pausa, che aggiungono il gusto di piaceri dimenticati. Il linguaggio


della fotografia può molto: può interpretare le necessità, illustrare i vizi e le ossessioni e documentare la realtà nelle proprie rapide trasformazioni.

CIFRE E DATI A questa riflessione e interpretazione visiva sono stati chiamati fotografi non professionisti di tutta Italia, che hanno aderito al progetto Immagini del gusto, promosso dalla Federazione Italiana Associazioni Fotografiche (Fiaf) e coordinato dal Centro Italiano della Fotografia d’Autore (Cifa). All’indomani dell’autunno 2005 di ideazione, il progetto è stato presentato ufficialmente il 10 giugno 2006, presso la sede del Centro, con una conferenza alla quale hanno partecipato esperti del Centro Studi e Archivio della Comunicazione dell’Università di Parma, docenti universitari, critici d’arte ed esperti del linguaggio e della storia della fotografia. Da quel momento sono state organizzate e svolte numerose Tavole del gusto, incontri dialettici a disposizione di coloro i quali hanno ricercato confronto e conforto sulle modalità espressive da impiegare per descrivere il tema indicato. Le analisi e conclusioni del serrato dibattito sono state gestite mediante un blog appositamente studiato per generare curiosità, che ha altresì offerto indicazioni, idee e segnalazioni di eventi gastronomici. A conclusione dell’iniziativa, le cifre della partecipazione sono state più che soddisfacenti: diciassettemila fotografie sono pervenute al Cifa per la selezione nazionale. Questa robusta quantità è l’espressione di novecento autori, singoli, in gruppo o per circolo, che hanno inviato i propri elaborati fotografici. Come già annotato, mille fotografie sono esposte a Bibbiena, seicento delle quali proposte anche sul catalogo nazionale realizzato in occasione della mostra definitiva, che arriva dopo oltre duecento esposizioni locali e parziali, a propria volta accompagnate da un corrispondente volume-catalo-

go che contiene novecento immagini. L’intero progetto è stato coordinato da un comitato organizzatore, composto da Lino Aldi, Paola Capodicasa, Federico Ghelli, Alberto Moioli, Silvano Monchi, Cristina Paglionico, Claudio Pastrone, Roberto Rossi e Giancarlo Torresani, in collaborazione con il Centro Studi e Archivio della Comunicazione Università di Parma (Csac) e Circuito Città Gai. Come rilevato, e con i distinguo rispetto altri reportage di diverso orientamento professionale e svolgimento sociale già sottolineati (a partire da Hungry Planet: What the World Eats, di Peter Menzel e Faith D’Aluisio, già ricordato), scopo del progetto congiunto della Federazione Italiana Associazioni Fotografiche (Fiaf) e del Centro Italiano della Fotografia d’Autore (Cifa) è la rappresentazione fotografica di un identificato mondo contemporaneo, osservato attraverso diverse tematiche indirizzate: sopra tutto, la

Sandra Nastri: Mutamenti.

IN ACRONIMO, CIFA

N

ato per volontà della Federazione Italiana Associazioni Fotografiche (Fiaf), il Centro Italiano della Fotografia d’Autore (Cifa) si propone come osservatorio privilegiato sulla fotografia non professionale (FOTOgraphia, maggio 2005). Opera nel campo della conservazione, catalogazione e riproposizione del patrimonio fotografico nazionale. In questo senso, previene la scomparsa delle opere fotografiche d’autore, raccogliendole, conservandole e offrendole nuovamente e sistematicamente all’attenzione del pubblico e degli studiosi. È attivo un sistema di sperimentazione didattica a diversi livelli, sia all’interno dell’ambito scolastico, dalla scuola dell’infanzia all’università, sia all’esterno degli spazi deputati alla formazione, che fornisce un consistente supporto di conoscenze. Quindi, sono state realizzate collaborazioni e integrazioni con le istituzioni nazionali e internazionali che si occupano di fotografia. Il Centro osserva il presente, proponendosi come produttore e propulsore di attività ed eventi da esportare oltre la propria sede istituzionale, ma guarda anche al futuro: per esempio, l’interesse per le nuove forme espressive e per l’attività dei giovani non si limita alla registrazione del loro operato, ma li aiuta promuovendone la produzione. Localizzato a Bibbiena, in provincia di Arezzo (via delle Monache 2; www.cen-

trofotografia.org, info@centrofotografia.org), il Centro Italiano della Fotografia d’Autore (Cifa) è guidato da un Comitato Organizzativo e un Comitato Scientifico: Flavia Barbaro, responsabile dei servizi educativi della Fondazione Torino Musei e della Gam di Torino; Salvo dell’Arte, avvocato e docente di Diritto dell’immagine presso l’Università di Padova; Laura Gasparini, esperta di conservazione e della Fototeca Panizzi di Reggio Emilia; Antonio Maraldi, responsabile del Centro Cinema Città di Cesena; Nino Migliori, docente e fotografo; Lucia Miodini, docente e membro del Centro Studi e Archivio della Comunicazione dell’Università di Parma (Csac); Michele Smargiassi, giornalista e studioso di storia della fotografia; Enrica Viganò, gallerista, curatrice e critico fotografico.

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Raoul Iacometti: Botteghe.

Christian Tasso: L’ultima goccia.

comunicazione, gli spazi del commercio, la produzione e la promozione territoriale del cibo. Oltre l’allestimento in mostra degli originali fotografici, l’appena citato Catalogo Mostra Nazionale, che l’accompagna, sintetizza i risultati e consegna una enorme quantità di materiale documentario ed espressivo alla storia della fotografia italiana, rendendo pieno onore alla cultura gastronomica del nostro paese (segnaliamo anche il sito dedicato www.immaginidelgusto.org). In coincidenza, l’insieme e successione delle mostre locali di avvicinamento sono rappresentate con le immagini del Libro delle Mostre. Questo secondo testo offre un quadro quantitativamente superiore della capacità descrittiva e interpretativa degli autori, ricollegando l’evento nazionale di Immagini del gusto alle realtà locali e alle specifiche tradizioni. Angelo Galantini Immagini del gusto - Percorsi contemporanei sul cibo (www.immaginidelgusto.org). Centro Italiano della Fotografia d’Autore (Cifa), via delle Monache 2, 52011 Bibbiena AR; www.centrofotografia.org, info@centrofotografia.org. Dal Primo giugno al 7 settembre; lunedì 15,30-18,30, martedì-sabato 9,30-12,30 - 15,30-18,30, domenica 10,00-12,30. ❯ Mostre locali dal 31 maggio al 28 settembre con orari variati in relazione alle singole sedi espositive.

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ntrambe pubblicate (purtroppo) nella sola lingua inglese, due monografie dell’attento editore Phaidon Press, uno dei più solleciti riferimenti europei per la fotografia di alto profilo, dischiudono le porte di vicende lontane, che stanno alle origini e base della fotografia colta e che hanno influito sia sulla sua lunga vicenda storica, sia sul suo profondo linguaggio espressivo. Considerate le coincidenze di intenti ed edizione, trattiamo in simultanea i due titoli, che arrivano in libreria insieme, all’inizio di giugno: in ordine, William Henry Fox Talbot, a cura di Geoffrey Batchen, e Edward Sheriff Curtis, a cura di Joanna Cohen Scherer. Nelle due identificazioni librarie, nessuna altra specifica, oltre il solo richiamo alle due figure storiche considerate, prese in esame e analizzate. Curiosamente, superando un certo legittimo silenzio che attraversa tutta l’editoria fotografica dei nostri giorni, ci siamo occupati di William Henry Fox Talbot appena due mesi fa, sul nostro numero di marzo, dove e quando abbiamo commentato l’edizione dell’avvincente Alle origini del fotografico, ottimo saggio del competente Roberto Signorini, sottotitolato Lettura di The Pencil of Nature (1844-46) di William Henry Fox Talbot. Certamente non più figura giornali-

E

William Henry Fox Talbot; a cura di Geoffrey Batchen; Phaidon Press Limited, 2008 (www.phaidon.com); 128 pagine 21,6x27cm, cartonato; cinquantasei illustrazioni; 29,95 euro.

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sticamente appetibile, il pioniere inglese della fotografia torna ora (e presto) di attualità redazionale in relazione alla imminente monografia di Phaidon Press, che presenta una consistente riproduzione di cinquantasei illustrazioni, patrimonio irrinunciabile della storia evolutiva della fotografia. Così che, immediatamente a seguire, è giocoforza soffermarsi sulla personalità di William Henry Fox Talbot, che a tutti gli effetti è l’autentico padre della fotografia, così come l’abbiamo intesa fino a oggi, e come continuiamo a considerarla ancora, pur alla luce dei nuovi e innovativi princìpi tecnologici dei nostri giorni, proiettati in avanti. Analogamente, stiamo per riferire i connotati identificativi di Edward Sheriff Curtis, il cui intendimento fotografico non si è esaurito nella sua sola effimera manifestazione originaria, ma si è profondamente radicato nella cultura della fotografia, che

SGUARDI


sì, tutt’altro e, al contrario, la pittura si è invece liberata dell’assolvimento del vero, per proiettarsi verso altre luminose forme espressive, prima tra tutte l’Impressionismo, dal quale storicizziamo l’arte moderna), a parte deviazioni tangenziali, riprendiamo, l’annuncio di Arago sollecitò anche rivendicazioni di altre pretese paternità della “natura che si fa di sé medesima pittrice” (alla lettera). Per motivi contingenti, qui soprassediamo sulla sfortunata vicenda del funzionario del ministero delle Finanze francese Hippolyte Bayard (1801-1887), che era approdato sia a un processo “fotografico” positivo diretto, analogo al dagherrotipo, sebbene su carta, sia a un processo negativo-positivo. Quindi, registriamo che all’indomani di quel sette gennaio è l’inglese William Henry Fox Talbot (18001877) a vantare una legittima priorità “fotografica”. Afferma che già nel precedente 1833 aveva esposto al sole una foglia a contatto con carta imbevuta in soluzione di sale da cucina e nitrato d’argento, ottenendone un disegno bianco su fondo nero, che consideriamo il primo vero “negativo”. Quindi, nell’estate 1835, nella propria residenza di Lacock Abbey, nel Wiltshire, dove ora ha sede un museo a lui intitolato, aveva esposto il suo materiale sensibile alla luce (carta al nitrato e cloruro d’ar-

ne ha fatto prezioso tesoro e insegnamento. Al solito, con ordine.

WILLIAM HENRY FOX TALBOT La personalità di William Henry Fox Talbot, studiata a fondo e rivelata dal saggio di Roberto Signorini appena ricordato (e presentato in FOTOgraphia dello scorso marzo), irrompe nel panorama fotografico, sconvolgendolo, all’indomani della comunicazione con la quale, il 7 gennaio 1839, l’astronomo Dominique François Jean Arago annunciò all’Accademia delle Scienze di Parigi il processo di Louis Jacques Mandé Daguerre, dal quale si conteggia la nascita ufficiale della fotografia. A parte le visioni apocalittiche che accompagnarono questa rivelazione (sopra tutte il celeberrimo lapidario epitaffio del pittore e accademico Paul Delaroche, che proprio aveva capito nulla: «Da oggi la pittura è morta»; e non è stato co-

William Henry Fox Talbot: High Street; Oxford, 1843.

Il catalogo di titoli dell’editore inglese Phaidon Press si sta sistematicamente arricchendo di avvincenti titoli dedicati alla fotografia: contemporanea (tante le monografie d’autore), di profilo (collezioni e osservazioni complementari) e storica. Proprio un doppio sguardo dichiaratamente retrospettivo richiama la nostra attenzione giornalistica, in costante equilibrio (precario?) tra le molteplici espressioni della fotografia, senza soluzione di continuità. Riflettori accesi e puntati sulle personalità di William Henry Fox Talbot, a tutti gli effetti l’autentico padre della fotografia così come l’abbiamo sempre intesa, e Edward Sheriff Curtis, pioniere di quella fotografia antropologica e di memoria che si è allungata in avanti nei decenni

STORICI

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William Henry Fox Talbot: The Ladder; circa 1845 (Tavola XIV di The Pencil of Nature). È su questa immagine che William Henry Fox Talbot ha annotato: «Per ottenere gruppi di figure non occorre più tempo di quello che si richiederebbe per figure singole, dato che la Camera le raffigura tutte simultaneamente, per quanto numerose possano essere».

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gento) con una piccola camera obscura dotata di obiettivo, ottenendo il negativo (di circa 6x6cm) di una finestra. Lo definisce “disegno fotogenico”, e sarà calotipia quando verrà depositato il brevetto (1841); allo stesso momento, rivela la possibilità di ottenere copie positive in quantità, stampando nuovamente a contatto, carta su carta, il negativo originario. Ecco perché reputiamo William Henry Fox Talbot padre della fotografia così come la intendiamo, stampabile in copie multiple, teoricamente infinite: a differenza (sostanziale!) dalla copia unica del dagherrotipo, sul quale l’immagine si forma sulla sottile e delicata lastra d’argento esposta in ripresa. Il ventinove gennaio, William Henry Fox Talbot scrive una lettera all’accademico François Arago, padrino di Daguerre, nella quale rivendica la priorità dei propri esperimenti; e il successivo trentuno

gennaio tiene una relazione sui suoi disegni fotogenici alla Royal Society, dopo che il precedente venticinque gennaio Michael Faraday, al quale si deve la scoperta dell’induzione elettromagnetica, li aveva già mostrati ai membri della Royal Institution. Curiosamente, la relazione della seduta del trentuno gennaio precede la pubblicazione del manuale di Daguerre, dell’agosto 1839, in coincidenza con la presentazione ufficiale del diciannove del mese, in una seduta pubblica dell’Accademia delle Scienze di Parigi con le Accademie Francesi delle Belle Arti (Historique ed Description des procédés du Daguerréotype et du Diorama, realizzato in parecchie edizioni immediatamente successive e subito tradotto in inglese, tedesco, spagnolo, svedese e italiano), offrendosi come primo autentico testo di “fotografia”. A questo punto, sono obbligatorie alcune anno-


tazioni complementari. Anzitutto ricordiamo ancora che la traduzione italiana Descrizione pratica del nuovo istromento chiamato il daguerrotipo è stata recentemente riproposta in anastatica da Photographica di Perugia, come abbiamo ampiamente riferito in FOTOgraphia dell’ottobre 2003 e giugno 2007. Quindi, segnaliamo anche l’anastatica dell’originale inglese Some account of the Art of Photogenic Drawning, appunto relazione della lettura di William Henry Fox Talbot del 31 gennaio 1839, in edizione Rara photographica: centoquattro esemplari numerati, a cura di Cesare Saletta, libraio d’antiquariato a Bologna, del luglio 1980. Infine, registriamo anche la relativa traduzione italiana Metodo per eseguire sulla carta il fotogenico disegno rinvenuto dal signor Fox Talbot, a cura di Gaetano Lomazzi, del 1839 (in data sconosciuta, da marzo ad agosto, comunque antecedente l’edizione italiana del manuale di Daguerre), presso l’editore milanese Giuseppe Crespi: ancora in anastatica Rara photographica di Cesare Saletta, del gennaio 1981. A William Henry Fox Talbot (circa, questa volta) dobbiamo anche il termine “fotografia”. Fusione delle parole greche “phos” (luce) e “grapho” (scrittura), in alternativa alla “eliografia” di Joseph Nicéphore Niépce e al dagherrotipo (che si riferisce soltanto a se stesso), l’identificazione “fotografia” è declinata per la prima volta da Sir John Herschel (1792-1871) in una lettera a Fox Talbot del 28 febbraio 1839. Digressione d’obbligo: figlio di Sir Frederick William Herschel (1738-1822), che nel 1800 scoprì la radiazione infrarossa, John Herschel è una delle figure discriminanti per la nascita della fotografia, sul cui cammino ci si era avviati già nel corso del Settecento, ottenendo risultati effimeri che annerivano alla luce. È lui che nel 1819 scopre che l’iposolfito di sodio scioglie i sali d’argento, stabilendo così il princìpio del fissaggio dell’immagine fotografica. A completamento, rileviamo anche che nel 1840 lo stesso John Herschel conia i termini “negativo” e “positivo”.

del Times fissata su una ruota in movimento. L’attuale monografia William Henry Fox Talbot (Phaidon Press) soprassiede, quasi, sugli aspetti dell’invenzione del processo calotipico, da cui è partita l’evoluzione tecnologica della fotografia, che si è allungata sui decenni successivi, e che oggi si manifesta con esuberanti interpretazioni, che da una decina di anni hanno superato la condizione originaria del materiale chimico fotosensibile. Soprattutto, la monografia rivela la personalità fotografica del pioniere inglese, padre naturale della fotografia così come l’abbiamo sempre intesa (insistiamo!). Dunque, è una monografia che dà fiato alla sua espressività di autore fotografo delle origini. Oltre gli esperimenti preistorici, definiamoli così, a partire dall’attività dello studio professionale avviato a Londra, nel corso della propria vita William Henry

(in basso) William Henry Fox Talbot: The Haystack; aprile 1844 (Tavola X di The Pencil of Nature).

William Henry Fox Talbot: Loch Katrine Pier; da The Lady of the Lake, ottobre 1844.

FOTOGRAFO Tornando al pionierismo di William Henry Fox Talbot, ricordiamo i perfezionamenti al suo processo originario, con codifica dei princìpi dell’immagine latente delle carte sensibili allo ioduro d’argento, del 1840, e il brevetto del processo calotipico, depositato l’8 febbraio 1841: la cui negativa su carta al nitrato d’argento e ioduro di potassio richiede tempi di esposizione variabili da sessanta a centoventi secondi. Quindi, ribadiamo il valore storico dell’edizione di The Pencil of Nature, il primo libro illustrato con fotografie applicate, avviata nel 1844, all’indomani dell’apertura di uno studio fotografico a Reading, l’attuale Baker street di Londra [al cui civico inventato 221b, Arthur Conan Doyle stabilisce la residenza di Sherlock Holmes]. E su The Pencil of Nature abbiamo già ampiamente riferito lo scorso marzo. Soltanto, e ancora, sottolineiamo la personalità di infaticabile ricercatore, ricordando che, nel 1851, sfruttando una potente scintilla elettrica, William Henry Fox Talbot fotografò nitidamente una pagine

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ne anche lavori meno noti o inediti, che rivelano una nuova e straordinaria portata della sua espressività d’autore. Queste fotografie riflettono senza dubbio la società e il mondo culturale del tempo, e si rivelano immagini affascinanti, in grado di emozionare ancora oggi (soprattutto oggi). Il volume è introdotto da un saggio del curatore Geoffrey Batchen (in inglese), noto studioso di teoria e storia della fotografia, che appunto rilegge la figura di William Henry Fox Talbot non solo come scienziato e uomo tecnico, ma anche come fotografo in senso espressivo ed artistico.

Edward Sheriff Curtis; a cura di Joanna Cohen Scherer; Phaidon Press Limited, 2008 (www.phaidon.com); 128 pagine 25x29cm, cartonato con sovraccoperta; cinquantasei illustrazioni; 29,95 euro.

EDWARD SHERIFF CURTIS

(al centro) Edward Sheriff Curtis: In a Piegan Lodge; prima del 1910 (non ritoccata).

Edward Sheriff Curtis: The Three Chiefs (Piegan); 1900.

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Fox Talbot ha scattato oltre cinquemila immagini, che includono affascinanti visioni della sua casa di Lacock Abbey, ritratti di suoi amici e famigliari, still life di elementi botanici, tessuti e oggetti di vario tipo. Intellettuale attivo nel mondo delle scienze, della matematica (per la cui competenza, dal 1831 fu membro della Royal Society), dell’astronomia, dell’archeologia e della politica (parlamentare dal 1832 al 1834), personalità più importante nel processo che portò all’invenzione della fotografia (non ci stanchiamo di rilevarlo), William Henry Fox Talbot è stato una figura chiave del Diciannovesimo secolo, durante il quale rivolse la propria attenzione all’elaborazione e diffusione degli innovativi processi fotografici, che hanno trasformato la visione del mondo. L’attuale selezione a cura di Geoffrey Batchen raccoglie le più famose interpretazioni fotografiche di William Henry Fox Talbot, compresi alcuni dei primi negativi della Storia. Allo stesso tempo, propo-

Una indiscutibile attualità storica delle fotografie con le quali Edward Sheriff Curtis ha documentato le popolazioni native degli Stati Uniti è testimoniata dal dibattito culturale che rende preziose le recenti monografie che raccolgono quelle immagini, a partire dall’anastatica dei venti volumi originari The North American Indian (Taschen Verlag, 1997; 576 pagine 14x19,5cm; FOTOgraphia, ottobre 1997; in recente edizione italiana Indiani d’America, celebrativa dei venticinque anni dell’editore tedesco, a 9,90 euro). Con i nativi americani, il fotografo Edward Sheriff Curtis (1868-1952), figlio di un pastore del Wisconsin, predicatore itinerante, abituato fin da piccolo a viaggiare nelle vaste estensioni dei giovani Stati Uniti, ha compiuto una documentazione che supera se stessa, proponendosi come “memoria di una nazione scomparsa”. Nel suo indispensabile saggio Il fotografo mestiere d’arte, avvincente percorso storico (FOTOgraphia, maggio 2003), Giuliana Scimé accosta la sua azione a quella, successiva di trent’anni abbondanti, con la quale Roman Vishniac ha testimoniato la vita dei ghetti europei, avendo premonizione dell’imminente genocidio del popolo ebraico. Giuliana Scimé sottolinea la statura del monumentale progetto fotografico di Edward Sheriff Cur-


tis, che «conserva per la storia la nazione dei nativi americani»: appunto, venti volumi di etnofotografia nei quali sono raccolte tutte le tribù indiane (a pagina 40). Quindi, Giuliana Scimé ricorda la didascalia a una delle fotografie, «un gruppo di indiani a cavallo che si avvia verso un incerto orizzonte»: «Per The Vanishing Race, la razza che sta scomparendo, Edward Sheriff Curtis scrive: “L’idea che deve trasmettere questa immagine è che gli Indiani come razza, già mutilati dalla loro forza tribale e spogliati dei loro abiti originari, stanno entrando nell’oscurità di un futuro sconosciuto”». Avviato nel 1898, e condotto per i successivi trent’anni, il grandioso e faticoso progetto di Edward Sheriff Curtis è risultato fondamentale per la conoscenza di una etnia proditoriamente e cinicamente immolata sull’altare del progresso, che giusto dalla seconda metà dell’Ottocento ha acquisito i propri connotati moderni. Impressionato dallo sterminio di un popolo, Edward Sheriff Curtis si è impegnato nella sistematica registrazione e documentazione della vita, della cultura, della religione, delle tradizioni e dei miti delle popolazioni native del Nord America. Come anticipato, testi e immagini furono raccolti in venti volumi che compongono la più autentica e appassionata descrizione di un mondo condannato a una morte prematura, quanto annunciata. Introdotti da una prefazione di Theodore Roosevelt, presidente della Repubblica, i venti volumi riuniti sotto il comune titolo di The North American Indian furono il risultato delle trentennali ricerche sul campo condotte da Edward Sheriff Curtis sotto il patrocinio di John Pierpont Morgan, industriale del settore ferroviario; il loro insieme illustra e descrive l’esistenza degli Indiani degli Stati Uniti e dell’Alaska. Ogni volume originario dell’opera fotografica enciclopedica è dedicato a una tribù oppure a più tribù affini, e segue uno schema prestabilito. Oltre le fotocalcografie (circa duemiladuecento in tutto), per ogni tribù Edward Sheriff Curtis ha registrato anche

espressioni linguistiche, riflessioni sue e dei suoi assistenti su temi quali l’organizzazione politica e sociale della comunità, le condizioni di vita, la preparazione dei pasti, l’ambiente di vita, i giochi. Ciò che più di tutto ha guidato il suo progetto sono state le leggende, i miti, i costumi e le cerimonie religiose: le storie che i Nativi Americani da sempre si sono tramandati oralmente, alle quali, fino ad allora, nessun bianco aveva fatto attenzione.

ETNOFOTOGRAFIA Con l’aiuto di uno dei primi mezzi di registrazione del suono, con il quale ha inciso musiche e canti indiani, e con diciassette volonterosi assistenti, Edward Sheriff Curtis ha girato gli Stati Uniti in lungo e largo, sfidando i pregiudizi della cultura anglosassone, che ancora vedeva nelle tradizioni dei Nativi Americani un ammasso di superstizioni e abitudini selvagge (Sguardo su, di Pino Bertelli, in FOTOgraphia del giugno 2005). Edward Sheriff Curtis iniziò a fotografare i Nativi Americani quando ormai erano già da tempo confinati nelle riserve, ridotti a condizioni di vita miserabili, deprivati di quelle estensioni geografiche sconfinate che facevano parte integrante delle proprie abitudini e della loro tradizione. La tragedia di Wounded Knee (oggi eretto a luogo simbolico), che nel 1890 aveva posto fine alla resistenza dei Nativi Americani, definitivamente sconfitti e annientati dall’esercito statunitense (che Edward Sheriff Curtis commentò con le asciutte ma dirette parole «poco meno di un massacro»), aveva dato il via a quella decimazione delle tribù che è ricordata in ognuno dei venti volumi di The North American Indian. Edward Sheriff Curtis riuscì a essere ben accetto tra molti dei Nativi Americani del tempo, che compresero il valore di testimonianza del suo progetto, l’importanza di produrre un qualcosa di materiale dove depositare le proprie tradizioni, da consegnare alla Storia. Nei trent’anni del suo lavoro,

Edward Sheriff Curtis: A Blackfoot Travois; 1925.

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SETTANTANOVE TRIBÙ

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trutturato come capitolo di una unica edizione libraria, ognuno dei venti volumi originari di The North American Indian di Edward Sheriff Curtis, raccolti da Taschen Verlag in un consistente volume unico (576 pagine 14x19,5cm; anche in edizione italiana Indiani d’America; FOTOgraphia, ottobre 1997), riunisce fotografie che riguardano una o più tribù indiane. ❯ Volume I (1907): Apache, Jicarillas, Navaho. ❯ Volume II (1908): Pima, Papago, Qáhatïka, Mohave, Yuma, Maricopa, Walapai, Havasupai, Apache-Mohave, Yavapai. ❯ Volume III (1908): Teton Sioux, Yanktonai, Assiniboin. ❯ Volume IV (1909): Apsaroke (Crows), Hidatsa. ❯ Volume V (1909): Mandan, Arikara, Atsina. ❯ Volume VI (1911): Piegan (Blackfeet & Bloods), Cheyenne, Arapaho. ❯ Volume VII (1911): Yakima, Klickitat, Interior Salish, Kutenai. ❯ Volume VIII (1911): Nez Percés, Wallawalla, Umatilla, Cayuse, Chinookan Tribes. ❯ Volume IX (1913): Salishan Tribes of the Coast, Chimakum, Quilliute, Willapa. ❯ Volume X (1915): Kwakiutl. ❯ Volume XI (1916): Nootka, Haida. ❯ Volume XII (1922): Hopi. ❯ Volume XIII (1924): Hupa, Yurok, Karok, Wiyot, Tolawa, Tututni, Shasta, Achomawi, Klamath. ❯ Volume XIV (1924): Kato, Wailaki, Yuki, Pomo, Wintun, Maidu, Miwok, Yokuts. ❯ Volume XV (1926): Southern California Shoshoneans, Diegueños, Plateau Shoshoneans (Paiute), Washo. ❯ Volume XVI (1926): Tiwa, Tano, Keres. ❯ Volume XVII (1926): Tewa, Zuñi. ❯ Volume XVIII (1928): Chipewyan, Cree, Sarsi. ❯ Volume XIX (1930): Wichita, Southern Cheyenne, Oto, Comanche. ❯ Volume XX (1930): Nunivak, King Island, Little Diomede Island, Cape Prince of Wales, Kotzebue.

Edward Sheriff Curtis: Chief Joseph (Nez Percé); 1903.

visitò settantanove tribù, impressionò quarantamila negativi fotografici, realizzò un numero altissimo di interviste, scrisse tutte le storie tribali di cui venne a conoscenza. Fotografò e filmò anche la Danza del Serpente, complesso rituale degli Hopi al quale, a dimostrazione della fiducia che riuscì a conquistarsi, fu invitato a partecipare, fatto assai inusuale per un bianco. Per giorni e giorni, Edward

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Sheriff Curtis danzò con il corpo dipinto, stringendo un serpente a sonagli tra i denti. Anche se l’intero progetto era stato ideato e realizzato con grande metodicità, l’autore fu spesso criticato dagli antropologi e dagli etnologi delle università americane, che gli rimproverarono una certa mancanza di rigore scientifico. In effetti, le fotografie sono ben lontane dalle ricerche antropometriche e antropologiche più in generale, e proprio in questo sta il loro grande valore, che è passato indenne attraverso i decenni e si appresta a diventare immortale. Le situazioni e i volti documentati da Edward Sheriff Curtis non svelano la volontà di costituire un casellario umano sulle varie tribù, né tantomeno hanno come scopo la denuncia delle condizioni di vita dei Nativi Americani, ma portano alla luce la nobiltà e grandezza d’animo di un popolo. O meglio, ha fotografato quello che già era stato distrutto, quella fierezza passata che lasciava intendere i miti e le leggende di cui era appassionato. Il suo interesse si è indirizzato verso quei valori che ormai erano perduti, verso la vita delle tribù non ancora intaccata dall’opera “civilizzatrice” dei bianchi. In questa impresa, lo aiutò la tecnica della fotocalcografia, con cui vennero riprodotte le sue fotografie per la stampa dei volumi. Edward Sheriff Curtis poteva affidare ad abili collaboratori il compito di ritoccare quei difetti delle fotografie originarie che stravolgevano le sue intenzioni, per conferire, così, un effetto più drammatico alle sue immagini definitive, impreziosite da una illuminazione particolare, quanto significativa. La grande passione e la tenacia gli permisero di avvicinarsi a luoghi e persone ai quali probabilmente la freddezza antropologica non sarebbe mai arrivata. I Nativi Americani sono oggi divisi nei confronti dell’opera fotografica di Edward Sheriff Curtis. Alcuni la interpretano come semplice ripetizione di uno stereotipo tipicamente “bianco”, altri ne apprezzano lo sforzo e la possibilità di rintracciare il proprio passato per trarne forza, per recuperare quel senso della continuità, fondamentale per ogni cultura, che la vita nelle riserve rende assai difficile. Alla fine, questa controversia odierna sancisce il valore assoluto e definitivo dell’opera fotografica nel proprio insieme, che nella contesa afferma la propria costante attualità. Se queste immagini si fossero esaurite in un gioco accademico, oggi non varrebbe la spesa riproporle in edizioni librarie complementari, e oggi non sarebbe più il caso di parlarne. Invece, ancora la monografia Edward Sheriff Curtis, a cura di Joanna Cohen Scherer, rivela che il successo di queste immagini è prevalentemente dovuto a una straordinaria bellezza, che ancora oggi emana una forza avvincente. Il volume raccoglie e propone una selezione significativa di ritratti e paesaggi. Le cinquantasei fotografie pubblicate sono introdotte da un saggio della curatrice Joanna Cohen Scherer (in inglese), ricercatrice della Smithsonian Institution di Washington, specializzata nelle culture native dell’America. Maurizio Rebuzzini



Da Hungry Planet: What the World Eats, di Peter Menzel e Faith D’Aluisio: la famiglia Revis nella cucina della loro casa alla periferia di Raleigh, North Carolina, Stati Uniti, con il cibo che mangiano in una settimana. Ronald Revis, trentanove anni, e la moglie Rosemary Revis, quaranta, con i figli del primo matrimonio di Rosemary, Brandon Demery, sedici anni, e Tyrone Demery, quattordici. Metodi di cottura: forno elettrico, tostapane, forno, forno a microonde, barbecue all’aperto. Conservazione dei cibi: frigorifero congelatore. I loro cibi preferiti sono gli spaghetti (Ronald e Brandon), le patate in generale (Rosemary) e il pollo (Tyrone). Per l’alimentazione, la famiglia Ayme spende 341,98 dollari alla settimana.

Hungry Planet: What the World Eats è il più recente progetto fotografico realizzato da Peter Menzel e Faith D’Aluisio, che da anni sono impegnati su temi che riguardano soprattutto scienza, società e ambiente. La monografia è pubblicata da Ten Speed Press: 288 pagine 30,5x23cm, cartonato con sovraccoperta; 40,00 dollari. Ricordiamo anche i precedenti reportage di Peter Menzel e Faith D’Aluisio: Material World: A Global Family Portrait (incontro con i componenti di famiglie tipo in trenta nazioni diverse: tutto l’arredo e le suppellettili delle loro case sono stati portati all’aperto, dove è stata scattata una fotografia), Women in the Material World (dedicato ai problemi della donna nel mondo), Man Eating Bugs: The Art and Science of Eating Insects (panoramica di come, in molte parti del pianeta, si ricavano proteine da insetti e artropodi) e Robo sapiens: Evolution of a New Species (evoluzioni tecnologiche e implicazioni sociali della robotica).

entite questa. Lo scorso cinque marzo ricevo per email un messaggio curioso: «Salve a tutti. Per favore, potete aiutarci a porre rimedio a un atto di pirateria che abbiamo subìto dopo che il settimanale Time ha pubblicato una ventina di fotografie tratte dal nostro libro più recente, Hungry Planet: What the World Eats (www.time.com/time/photogallery/0,29307,1626519,00.html)? Ci sono migliaia di siti, mail e blog che hanno scaricato quelle fotografie e le stanno facendo circolare sul web senza nessun credito, senza che sia chiaro chi siano gli autori del libro o i fotografi. Forse potreste aiutarci a riappropriarci del nostro copyright, rimbalzando questo messaggio a tutti gli indirizzi della vostra mailing list, in modo da mettere al corrente del fatto il più grande numero di persone possibile. Come sapete, questo progetto è stato finanziato da noi: per produrlo siamo stati impegnati tre anni e abbiamo investito una montagna di denaro. Per favore, fate girare questa mail e suggerite ai vostri amici di fare lo stesso. Il vostro aiu-

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to sarà molto apprezzato. Grazie. Peter Menzel e Faith D’Aluisio». Naturalmente la mail è stata inviata a molti operatori della fotografia, e forse qualcuno di voi l’avrà pure ricevuta. Quello che è successo è un esempio di cosa può accadere quando si propongono le proprie fotografie su Internet. D’altra parte, non pubblicare il proprio lavoro sulla Rete ha altre controindicazioni, altrettanto negative. I furti sono inevitabili, ma si può fare qualcosa per ridurre i danni al minimo. Ecco un unico, semplice suggerimento. Se pubblicate materiale protetto da copyright, fotografie o testi, impedite che chiunque possa copiare un’immagine semplicemente cliccandoci sopra col tasto destro del mouse o possa selezionare col cursore parte del testo che avete faticosamente scritto, e farne un copia sul suo computer. Non è una grande protezione, ma è quello che si può fare più facilmente. Naturalmente i fotografi devono permettere che i potenziali clienti scarichino immagini in bassa risoluzione dai loro


QUALE CIBO Hungry Planet: What the World Eats è il più recente progetto fotografico di Peter Menzel e Faith D’Aluisio. Le immagini sono state pubblicate da Time sul web senza credito, e a conseguenza sono state acquisite e usate in forma anonima da molti. Non è un problema di soldi, annota il fotografo, ma di divulgazione consapevole delle fotografie. Richiamiamo l’attenzione sia sul fatto in sé, sia sul valore e spessore del reportage

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Da Hungry Planet: What the World Eats, di Peter Menzel e Faith D’Aluisio: la famiglia Ayme nella cucina della propria abitazione, a Tingo, villaggio ecuadoregno nelle Ande centrali, con il cibo che mangiano in una settimana. La famiglia è composta dai genitori Ermelinda Ayme Sichigalo, trentasette anni, e Orlando Ayme, trentacinque, con i figli (da sinistra) Livia, di quindici anni, Natalie, di otto, Moises, di undici, Alvarito, di quattro, Jessica, di dieci, Orlando hijo (Junior), di nove mesi, in braccio alla madre, e Mauricio, di trenta mesi. Un’altra figlia, Lucia, di cinque anni, vive con i nonni. Metodo di cottura: fuoco a legna. Conservazione dei cibi: essiccazione naturale. Per l’alimentazione, la famiglia Ayme spende 31,55 dollari alla settimana.

siti, per abbozzare un layout. Ma allora, l’accesso a questi download deve essere condizionato da “userid” e “password”, e le immagini scaricate devono avere un “watermark” evidente che ne impedisca l’uso gratuito. Il sito di Time non è stato progettato con queste precauzioni. Cliccando col tasto destro, si possono scaricare fotografie pulite di dimensioni pari a 611x404 pixel, una risoluzione apparentemente molto bassa. Ma, usando un buon programma di interpolazione (basta Photoshop), l’immagine scaricata può essere riprodotta sui mensili, che stampano a 70 linee/cm, a base 10cm (con una risoluzione di 240dpi); o, addirittura, a base 24cm (con una risoluzione di 100dpi) sui quotidiani, tipologia di giornali molto dedita al furto, che stampano a 25 linee/cm.

PETER MENZEL E FAITH D’ALUISIO La denuncia di questo atto di pirateria ci offre occasione di presentare Peter Menzel, sua moglie Faith D’Aluisio e il loro Hungry Planet, un libro che dovrebbe essere in tutte le biblioteche pubbliche del mondo e anche nelle case dei cittadini occidentali. Tutti noi, un po’ obesini, potremmo trarre spunti di ri-

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flessione da quanto si vede e si legge nel libro a proposito del nostro regime alimentare, sia confrontandolo con quello del resto del mondo, sia verificandone la sua adeguatezza a un nostro salutare stato fisico. Rappresentato in Italia dall’Agenzia Grazia Neri di Milano, Peter Menzel è uno dei grandi interpreti americani della documentary photography, noto per i suoi reportage su temi che riguardano soprattutto scienza, società e ambiente. Le sue immagini, premiate in tutte le più importanti competizioni internazionali, sono state pubblicate, tra gli altri, da Life, National Geographic, Smithsonian, The New York Times Magazine, Time, Stern, GEO e Focus. Da una quindicina di anni elabora, di volta in volta, grandi progetti, che lo tengono impegnato decine di mesi. Da ogni progetto nasce un libro e molti servizi. Material World: A Global Family Portrait, del 1994, fu il primo in questo senso. Il progetto si è materializzato nell’incontro con i componenti di famiglie tipo in trenta nazioni diverse: tutto l’arredo e le suppellettili delle loro case sono stati portati all’aperto, dove è stata scattata una fotografia. Come si può capire, un impegno gigantesco. Il progetto successivo è stato Women in the Material World, dedicato ai problemi della donna nel mondo. Successivamente, Peter Menzel ha realizzato Man Eating Bugs: The Art and Science of Eating Insects, una straordinaria panoramica di come, in molte parti del pianeta, si ricavano proteine da insetti e artropodi (una selezione di questo imponente lavoro è stata esposta nell’ambito di ObiettivoUomoAmbiente, a Viterbo, nell’autunno 2005, alla Prima Biennale Internazionale di fotografia e dibattiti tra scienza e cultura, della quale abbiamo riferito in FOTOgraphia del luglio e dicembre 2005, rispettivamente in annuncio e sintesi/analisi dello svolgimento). Quarto progetto è stato Robo sapiens: Evolution of a New Species,


PIRATERIA SUL WEB ome è accaduto che dal portfolio pubblicato da Time.com le nostre fotograGrazie al successo del primo portfolio, qualche settimana dopo, Time.com ci fie realizzate per il progetto Hungry Planet [qui sotto] siano finite su migliaia ha chiamati per averne un secondo. Spedendo loro un nuovo set di ritratti di fadi altri siti senza alcun credito. miglie, abbiamo anche contrattato la pubblicazione di un terzo portfolio in corNel 2007, Time Magazine ci ha richiesto fotografie per illustrare un rispondenza all’uscita dell’edizione in brossura di Hungry Planet, nell’autunno articolo sulla Scienza dell’Appetito. Con le fotografie fornite, tratte dal 2007. I metadata non sono più stati tolti dalle immagini. nostro libro più recente Hungry Planet: What the World Eats, lo scorso undici Ciononostante, questo non ha impedito ai bloggers e a centinaia di altre persogiugno Time Magazine ha pubblicato un articolo di sei pagine. Anche le ne di scaricare le fotografie dal sito Time.com, di usarle sul proprio blog, metterle didascalie utilizzate sono state tratte dal libro, e di questo è stato dato giusto sul proprio sito web, o spedirle per email agli amici. La stragrande maggioranza credito a noi. Si può vedere la messa in pagina dell’articolo sul nostro sito: di queste persone non ha mai indicato né il nome del fotografo né il libro da cui www.menzelphoto.com/stories/fullstory.php?folder=TimeHP. le immagini sono tratte, né, tantomeno, hanno rimandato al nostro sito web. Contemporaneamente, il sito web del Time ha pubblicato un portfolio di una dozA un certo punto siamo stati travolti da centinaia di email spediteci da altri zina di fotografie, sempre riprese dal libro: immagini che mostrano famiglie foto- fotografi e da amici, che avevano visto tutto questo e lo portavano alla nostra grafate in tutto il mondo davanti a quelattenzione. Abbiamo reagito cercando lo che mangiano normalmente in una di individuare su Google siti e blog che settimana. Time ci ha pagati per enhanno usato nostre immagini. Ci siamo trambi gli utilizzi, riportando correttamessi in contatto con loro e abbiamo mente il credito a me come fotografo e chiesto non denaro, ma semplicemenmia moglie Faith D’Aluisio, come autori te di aggiungere i crediti e segnalare la di Hungry Planet e dei testi lì riportati. provenienza dell’immagini. Molte delA quel tempo, serializzazioni dal nole persone contattate si sono scusate, e stro libro erano già state pubblicate (e hanno posto rimedio all’atto di piratepagate) da molte riviste fuori dagli Staria. Allo stesso momento, molti altri ti Uniti. Questo costituisce un fatto imnon hanno fatto nulla e la pirateria portante per noi, perché, come tutti gli continua in migliaia di casi. altri precedenti, questo progetto fotoNoi non siamo interessati a portare grafico è stato autofinanziato in proprio. nessuno di questi “pirati” in tribunale e Abbiamo passato tre anni e speso qua- Peter Menzel e Faith D’Aluisio, autori di Hungry Planet: What the World Eats. a farci dare denaro da loro: vogliamo si mezzo milione di dollari per fotogra- Il fotografo è rappresentato in Italia dall’Agenzia Grazia Neri. soltanto che il nostro copyright sia ricofare trenta famiglie in ventiquattro paesi diversi, ciascuna con di fronte una quan- nosciuto e che sia indicata la fonte da cui provengono le immagini. Se, vedendo le tità di cibo corrispondente a ciò che normalmente consuma in una settimana. nostre fotografie, qualcuno fosse interessato ad approfondire l’argomento, soltanScopo del progetto fotografico è quello di far conoscere al pubblico tematiche to conoscendone l’origine, potrebbe arrivare al libro ed esaudire il suo desiderio. riguardanti la nutrizione in tutto il mondo, sensibilizzandolo sullo spinoso argoPerciò, per comunicare al numero più vasto di persone l’origine di queste fomento. Abbiamo voluto rendere noto il fatto che, per la prima volta nella sto- tografie di così grande successo, abbiamo inviato una email a tutti i nostri amiria, l’umanità sovralimentata ha superato in numero coloro che non riescono a ci, spiegando l’accaduto e chiedendo loro di far rimbalzare la nostra email a tutmangiare a sufficienza. te le persone della loro mailing list [integrale all’inizio dell’articolo di Lello PiazIl portfolio pubblicato da Time.com ha avuto un grande successo, ed è stato za]. Con questa operazione abbiamo cercato di creare un virus postale, che pouno di quelli più apprezzati dai lettori nella storia del magazine sul web. Pur- tesse raggiungere migliaia di persone, facendo sapere loro che siamo noi gli autroppo, pubblicando le fotografie sul web, i redattori di Time hanno eliminato tori di quelle immagini e che esiste un libro, pieno di dati sul cibo nel mondo, i metadata contenuti nell’Info file. Chi ha scaricato queste immagini dal sito di che le raccoglie. Sembra che l’iniziativa abbia funzionato, anche se è difficile stiTime (semplicemente con un doppio click del mouse) si è trovato sul proprio mare quante siano le persone contattate in questo modo. computer un file jpeg senza alcuna informazione riguardante il fotografo auIl progetto Hungry Planet ha come scopo quello di migliorare la vita delle pertore, il copyright, la didascalia, o la fonte. sone. In linea di princìpio, non siamo contrari che il nostro lavoro raggiunga il Poco dopo la pubblicazione su Time.com hanno cominciato ad apparire su In- pubblico gratuitamente. Ma se vogliamo continuare a lavorare per la gente, dobternet una serie di blog e siti con le nostre immagini, senza nessun riferimento a biamo coprire le spese dei nostri progetti, altrimenti non riusciremo a realizzarnoi, al nostro progetto, al nostro lavoro e al nostro libro. In parte, ciò è sicura- ne di nuovi. Per questo la presenza del credito è così importante. mente dovuto al fatto che Time.com ha tolto i metadata dalle fotografie. QuanOvviamente, speriamo di continuare a pubblicare sul settimanale Time Mado li ho contattati per segnalare l’inconveniente, mi hanno risposto che questa è gazine e sul sito Time.com, ma certamente cercheremo in tutti i modi di evitare la loro normale procedura, ma che comunque avrebbero immediatamente rein- di ripetere gli errori del passato. serito i metadata nelle fotografie. Peccato che ormai oltre venti milioni di persoPeter Menzel ne avevano già visitato il sito e non sappiamo quanti hanno scaricato immagini. (marzo 2008, Napa Valley, California, Usa; www.menzelphoto.com)

DAVID GRIFFIN

C

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Da Hungry Planet: What the World Eats, di Peter Menzel e Faith D’Aluisio: la famiglia Aboubakar, della provincia del Darfur, in Sudan, di fronte alla loro tenda nel Breidjing Refugee Camp, campo profughi nel Ciad orientale, con il cibo che mangiano in una settimana. D’jimia Ishakh Souleymane, quaranta anni, ha tra le braccia la figlia Hawa, di due anni; gli altri figli sono, da sinistra, Su, di dodici anni, Mariam, di cinque, Youssouf, di otto, e Abdel Kerim, di sedici. Metodo di cottura: fuoco a legna. Conservazione dei cibi: essiccazione naturale. Il cibo preferito da D’jimia è la zuppa con carne fresca di pecora. Per l’alimentazione, la famiglia Aboubakar spende 1,23 dollari alla settimana.

dedicato alle evoluzioni tecnologiche e implicazioni sociali della robotica. Infine, ricordiamo ancora l’attuale Hungry Planet: What the World Eats, il più recente ampio reportage a tema. In tutti questi progetti è stato fondamentale il contributo della moglie di Peter Menzel, Faith D’Aluisio, che si è occupata della raccolta dei dati, delle interviste, delle statistiche e dei testi.

HUNGRY PLANET Hungry Planet: What the World Eats ha lo stesso vasto orizzonte di Women in the Material World e Man Eating Bugs: l’intero pianeta è stato coinvolto attraverso una visione mirata su ventiquattro paesi, dal Bhutan alla Bosnia, dal Messico alla Mongolia, dalla Germania agli Stati Uniti, nei quali sono state individuate trenta famiglie rappresentative. Anche in questo caso le fotografie, ambientate in casa, al mercato o all’interno della comunità di appartenenza, non sono di puro reportage, ma sono posate, con i membri della famiglia che esibiscono tutto il cibo che mediamente consuma-

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no in una settimana. A ogni famiglia, Faith D’Aluisio e Peter Menzel hanno dedicato proprio un settimana di tempo, vivendo con loro e controllando lo stile di vita alimentare, come in una gigantesca inchiesta sul mondo affamato, hungry planet appunto, il titolo del libro. Il testo che accompagna le immagini racconta come la famiglia si procura il cibo, dove lo acquista o dove lo raccoglie, quanto spende per mangiare in sette giorni. Ispirato dalle grandi mutazioni che hanno modificato il nostro modo di nutrirci, in primo luogo la globalizzazione, che ci consente di mettere in tavola cibi esotici provenienti da terre lontane, ma anche permette a McDonald’s di esportare in tutto il pianeta il suo pollo fritto e i suoi Cheeseburger, Hungry Planet si propone per e con chiavi di lettura e osservazione stratificate e individuali (a ciascuno, la propria): è un coffee table book, da sfogliare e guardare, un libro di cucina, uno speciale atlante geografico gastronomico, un libro di viaggi, un saggio di economia politica (nell’era nella quale, per la prima volta nella storia, l’umanità sovralimentata ha superato il numero di coloro i quali non riescono a mangiare a sufficienza). Nel 2006, la James Beard Foundation, un ente non profit che ha per scopo promuovere e difendere il valore del cibo e della cucina americana (sic!), lo ha nominato Best Book of the Year. Dal dieci ottobre al sei gennaio scorsi, nelle sale del Palazzo Eucherio Sanvitale, di Parma, alle fotografie di Hungry Planet è stata dedicata una grande mostra, organizzata dalla Gnam (acronimo di Gastronomia nell’Arte Moderna), organismo che progetta eventi culturali dedicati al cibo. Lello Piazza




ANCORA AL CINEMA!

ollecitati a farlo da un numero speciale di American Photo, che commentiamo più avanti, torniamo a richiamare la presenza della fotografia nel cinema, non senza ricordare le nostre numerose e successive segnalazioni di film, presentati con concentrate annotazioni complementari e di contorno. Quindi, non possiamo ignorare di aver illustrato la commossa rievocazione dei novanta anni Nikon con la sua combinazione al cinema (FOTOgraphia, dicembre 2007). Così, ci ha rallegrato il numero speciale di American Photo, autorevole testata statunitense, che lo scorso marzo ha reso un concentrato «tributo alla fotografia e al cinema». L’edizione è preziosa e la combinazione fotografia-e-cinema è osservata da molteplici punti di vista, fino alla sequenza di una serie di portfolio di attori-fotografi. Di alcuni, già conoscevamo l’attenzione anche fotografica, altri sono stati piacevole novità e lamentiamo qualche colpevole assenza (sicuramente motivata da solide circostanze).

S

I PRIMI DIECI (?) Di tutto questo potremo parlarne in futuro, sempre che l’organizzazione redazionale degli argomenti lo consenta e giustifichi. Per ora, alla luce delle nostre visioni e considerazioni personali, che si sono concretizzate in numerosi articoli già pubblicati in FOTO graphia, fin dal lontano 1995 (in occasione del centenario del cinema), ci sintonizziamo soltanto con la segnalazione dei dieci film significativi della presenza della fotografia nel cinema stilata da American Photo. Ovviamente, non siamo d’accordo sulle loro scel-

Un numero speciale dell’autorevole American Photo approfondisce la presenza della fotografia nel cinema, argomento che ci sta particolarmente a cuore e sul quale torniamo oggi con rinnovata energia. Diversi punti di osservazione si traducono in altrettanti argomenti della prestigiosa testata, tra i quali, per nostra coincidenza di visione, isoliamo soltanto la classifica dei dieci più significativi film con riflessione oppure analisi fotografica. A seguire, diciamo la nostra, ribadendo termini e considerazioni che da tempo ci appartengono e qualificano

Lo scorso marzo, l’autorevole American Photo ha pubblicato un numero speciale «tributo alla fotografia e al cinema», nel quale la combinazione fotografia-e-cinema è osservata da molteplici punti di vista. Soprattutto, segnaliamo la classifica dei dieci film significativi della presenza della fotografia nel cinema. A parte non apprezzare le classifiche in generale, non condividiamo le scelte espresse (per quanto: a ciascuno, la serenità delle proprie opinioni), e in queste pagine integriamo, censendo nove sceneggiature che non dovrebbero essere dimenticate.

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Con l’epocale La dolce vita (di Federico Fellini; Italia e Francia, 1960) nasce l’identificazione di “paparazzo”: dal nome proprio del reporter invadente e sfacciato del film (interpretato da Walter Santesso) a nome comune, spesso declinato in senso negativo.

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te, ma questo è scontato, oltre che non significativo: a ciascuno, le proprie opinioni. Come già annotato, ci auguriamo che le idee siano sempre approvate o contestate; ribadiamo: siamo per la cerebro-diversità, che è altrettanto importante della biodiversità. Arricchisce il pensiero di ognuno di noi con una avvincente varietà di sentimenti, gusti e riflessioni. Ecco i dieci titoli di American Photo: 1) Rear Window (in Italia, La finestra sul cortile; di Alfred Hitchcock; Usa, 1954); 2) Blow up (di Michelangelo Antonioni; Italia e Gran Bretagna, 1966); 3) Funny Face (in Italia, Cenerentola a Parigi; di Stanley Donen; Usa, 1957); 4) Eyes of Laura Mars (in Italia, Gli occhi di Laura Mars; di Irvin Kershner; Usa, 1978); 5) Apocalypse Now (di Francis Ford Coppola; Usa, 1979); 6) Fairy Tale: A True Story (in Italia, Favole; di Charles Sturridge; Gran Bretagna e Usa, 1997); 7) Under Fire (in Italia, Sotto tiro; di Roger Spottiswoode; Usa, 1983); 8) Star 80 (di Bob Fosse; Usa, 1983); 9) Pecker (di John Wates; Usa, 1998); 10) The Notorious Bettie Page (di Mary Harron; Usa, 2005).

rata e sui turbamenti che la sceneggiatura esprime. Lo stesso, ci sentiamo di affermare per Star 80, il film che narra la tragica vicenda Dorothy Stratten, sfortunata Playmate dell’anno 1980, già Miss agosto 1979: venne uccisa dal marito, geloso del regista Peter Bogdanovich, con il quale Dorothy voleva andare a vivere. Ovviamente, nel film c’è molta fotografia, ma l’essenza del racconto è altrove. Analogamente, è altro anche The Notorious Bettie Page, che abbiamo anticipato in FOTOgraphia del maggio 2006 (oltre precedenti rievocazioni della stessa Bettie/Betty Page) e che non è mai arrivato in Italia, a parte le proiezioni nell’ambito del Torino Film Festival 2006. Il film è altro, pur ruotando attorno la fotografia: soprattutto è costume statunitense e vicenda di precario moralismo. In un certo senso, queste due inclusioni aprono la porta a una visione di traverso, che potrebbe far entrare in classifica una miriade di altri film. A titolo di esempio, in sintonia di intenti, ci limitiamo a segnalare Closer (FOTOgraphia, ottobre 2006) e Sballati d’amore, alle cui rispettive sceneggiature riconosciamo un consistente retrogusto fotografico. Ricordiamolo in fretta: in Closer (regia di Mike Nichols; Usa, 2004), la fotografia è l’elemento di contatto tra i due protagonisti, dei quali il film narra le vicende esistenziali e sentimentali (la fotografa Anna Cameron, interpretata da Julia Roberts, e l’aspirante scrittore Dan, con il volto di Jude Law); analogamente, anche per Sballati d’amore (A Lot Like Love, regia di Nigel Cole; Usa, 2005) la fotografia è il filo che lega i balzi temporali della contraddittoria rincorsa, distribuita negli anni a seguire, tra la disinvolta Emily Friehl (l’attrice Amanda Peet) e il confuso Oliver Martin (l’attore Ashton Kutcher). Invece, tornando ai magnifici dieci di American Photo, è ottima la puntualizzazione della magia evocata dalla fotografia in Favole -titolo italiano-, film lieve ma appassionante. E sono legittime tutte le altre segnalazioni, seppure con una graduatoria che si potrebbe ancora discutere. Però, diavolo, che fine hanno fatto altri titoli assolutamente indispensabili? A nostra volta, rischiamo di dimenticarne alcuni, molti forse, ma non possiamo non censire quei film che ci paiono fondamentali per la presenza della fotografia al cinema, ovvero quelle sceneggiature che ne hanno sottolineato valori, peculiarità e, perché no, contraddizioni. E da qui ci allunghiamo con tante parole ancora.

NON CONDIVIDIAMO

PRIME SEGNALAZIONI

Come anticipato, non condividiamo la classifica. Sappiamo quanto non sia facile farlo, e siamo consapevoli delle difficoltà di scelta, ma bisognerebbe distinguere i film nei quali, pur massicciamente presente, la fotografia è soprattutto una nota di contorno, e a volte è soltanto questo: per esempio, ci riferiamo ad Apocalypse Now, nel quale il fotogiornalista Dennis Hopper (attore che nella vita privata è anche fotografo di successo: non compare nei portfolio di American Photo) ha una presenza sostanzialmente defilata, ininfluente sulla vicenda nar-

Indiscutibilmente, da qualsiasi punto si osservi la vicenda e a qualsiasi livello culturale la si voglia iscrivere, la fenomenologia della fotografia nel cinema ha un proprio richiamo principale e discriminante, che si è proiettato con prepotenza nel costume quotidiano, entrando addirittura nel vocabolario. Dal nome proprio a nome comune, spesso declinato in senso negativo, l’identificazione di “paparazzo” nasce con l’epocale La dolce vita (Italia e Francia, 1960), la cui sceneggiatura è firmata dal regista Federico Fellini, Ennio Flaiano e Tullio Pinel-


li, tre personalità di spicco della cultura e socialità italiana del tempo [pagina accanto]. Interpretato da Walter Santesso, Paparazzo è uno dei fotografi di cronaca rosa della Dolce vita (ancora una identificazione che ha travalicato i propri confini originari). È un reporter particolarmente invadente e sfacciato, sulla cui genesi si è espresso lo sceneggiatore Ennio Flaiano, raccontandone in La solitudine del satiro (Rizzoli; Milano, 1973), dove è altresì svelata l’ispirazione/origine del fortunato nome (non ripetiamo, rimandando all’approfondimento in FOTOgraphia del giugno 2000). Invece è sottile, e non sfacciata, la fotografia che attraversa la sceneggiatura di Smoke, di Wayne Wang (Usa, Germania e Giappone, 1995). Costruito attorno a Il racconto di Natale di Auggie Wren, di Paul Auster, originariamente pubblicato sul New York Times il 25 dicembre 1990 (edizione illustrata di Federico Motta, 1998; FOTOgraphia, dicembre 1999), il film ha due momenti fotografici degni di particolare attenzione [a destra]. Anzitutto, c’è il risvolto fotografico dello stesso Racconto, che nel film l’ammaliante tabaccaio Augustus “Auggie” Wren (Harvey Keitel) regala allo scrittore Paul Benjamin in crisi di idee (l’attore William Hurt); quindi, c’è la profonda riflessione sul tempo, che lo stesso Auggie Wren esprime quando mostra gli album delle proprie fotografie ossessivamente ripetute, partendo da una citazione dall’Amleto (di William Shakespeare): «Sai com’è: domani e domani e domani, il tempo scorre a piccoli passi» (ancora rimandiamo al dialogo completo, in FOTOgraphia del novembre 2003).

vere con cui i giornali di nera pagano ogni fotografia di morti ammazzati. Sullo schermo, un ottimo Joe Pesci replica bene modi, gesti e atteggiamenti nei quali ognuno è disposto a individuare il leggendario Weegee, a partire dall’immancabile sigaro tra i denti, anche quanto il mirino della Speed Graphic è portato all’occhio. E non mancano, sia chiaro, consistenti riflessioni sulla fotografia, che contornano la vicenda principale, di altro indirizzo [a pagina 52].

VITE VERE: WEEGEE

VITE VERE: FOTOREPORTAGE

Da non dimenticare, né sottovalutare un altro film statunitense, a nostro modo di vedere assolutamente discriminante. Quando Occhio indiscreto arrivò sugli schermi italiani se ne parlò molto (The Public Eye, di Howard Franklin; Usa, 1992). Siccome tutto cade sempre più precipitosamente nel dimenticatoio, all’indomani del proprio momento di gloria e notorietà, la vicenda a sfondo fotografico si è presto esaurita in se stessa. La locandina dell’epoca e la confezione della videocassetta non ammettono equivoci (al momento, non è stato realizzato il Dvd). Non ci si può sbagliare, il richiamo è esplicito: «Omicidi. Scandali. Crimini. Non è importante su cosa punta l’obiettivo, lui scatta solo delle foto[grafie]...». Non c’è alcun dubbio: si tratta della messa in scena di un reporter anni Quaranta sullo stile di Weegee, il celebrato fotografo di cronaca nera newyorkese che nella propria autobiografia didascalizzò un mandato di pagamento di Time, relativo alla fotografia di due assassinati, come “L’omicidio è il mio business” (Weegee by Weegee; Ziff-Davis Publishing Company; New York, 1961). Come l’originale Weegee (Arthur H. Fellig; 18991968), anche il cinematografico Bernzy o Grande Bernzini (Leon Bernstein) si muove nel sottobosco newyorkese: in una città violenta, nella quale il valore dell’esistenza non supera i tre dollari a cada-

Oltre Weegee, appena evocato, in tempi diversi, altri quattro personaggi storici della fotografia sono arrivati al cinema: Margaret Bourke-White (19041971), Joe Rosenthal (1911-2006), Ernest James Bellocq (1873-1949) e Diane Arbus (1923-1971). Cominciamo con Margaret Bourke-White: compare in Gandhi, di Richard Attenborough (Gran Bretagna e India, 1982), dove ha avuto il volto di Candice Bergen [a pagina 53]. L’episodio visualizzato nel film è storico; nel 1946, due anni prima del suo assassinio, quando il Mahatma aveva attirato l’attenzione internazionale, la reporter statunitense fu inviata da Life in India. Celeberrimo è il ritratto con l’arcolaio compreso nell’inquadratura orizzontale, una delle icone del Novecento. Quindi, registriamo che la biografia di Margaret Bourke-White, scritta da Vicki Goldberg, è stata usata per la sceneggiatura di un film televisivo, Il coraggio di Margaret, di Lawrence Schiller, nell’interpretazione di Farrah Fawcett (Margaret Bourke-White; Usa, 1989). Proseguiamo con Joe Rosenthal. Regista e interprete della trasposizione cinematografica di I ponti di Madison County (altro film-con-fotografia; FOTOgraphia, novembre 1995), Clint Eastwood ha incrociato la fotografia con il recente Flags of Our Fathers (Usa, 2006), che richiama una vicenda dis-

In Smoke (di Wayne Wang; Usa, Germania e Giappone, 1995), Auggie Wren (l’attore Harvey Keitel) è l’ammaliante tabaccaio di Brooklyn che ogni mattina, alle otto in punto, fotografa l’angolo del suo negozio: «Sai com’è: domani e domani e domani, il tempo scorre a piccoli passi».

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criminante del fronte del Pacifico della Seconda guerra mondiale, consegnata alla Storia da una fotografia epocale (FOTOgraphia, marzo 2006). Il 23 febbraio 1945, le forze armate statunitensi riconquistano un prezioso territorio: per l’occasione, cinque marine e un medico issano la bandiera stellestrisce sulla sommità del monte Suribachi, nell’isola di Iwo Jima. Fotografato da Joe(seph) Rosenthal dell’Associated Press, il momento è diventato uno dei simboli della Seconda guerra mondiale e un’icona per l’eroismo americano. Sostanzialmente elaborato attorno questa fotografia, della quale si rivelano anche dietro-le-quinte solitamente propri dell’approfondimento degli addetti, Flags of Our Fathers è stato sceneggiato da Paul Haggis sulla base dell’originario romanzo omonimo di James Bradley: biografia dei sei uomini nella fotografia di Joe Rosenthal, della quale

Dichiaratamente ispirato a Weegee, il reporter di cronaca nera Bernzy (Leon Bernstein o Grande Bernzini) è il protagonista di Occhio indiscreto ( The Public Eye, di Howard Franklin; Usa, 1992). Sullo schermo, Joe Pesci replica bene modi, gesti e atteggiamenti del leggendario Weegee.

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è coautore il figlio di uno di loro, che nel 2000 è arrivata al vertice delle classifiche librarie del New York Times, nella categoria dei saggi. Nel film, Joe Rosenthal ha il volto dell’attore Ned Eisenberg, che gli assomiglia molto [a pagina 54 e in copertina]. Con l’occasione ricordiamo che prima di Flags of Our Fathers, di Clint Eastwood, la vicenda della fotografia epocale di Joe Rosenthal arrivò al cinema nel 1961: The Outsider, del regista Delbert Mann, che in Italia è stato trasformato in Il sesto eroe. In breve, si racconta la storia (reale? inventata? interpretata?) dell’indiano Ira Hamilton Hayes (l’attore Tony Curtis), elevato a eroe nazionale per aver issato la bandiera sul monte Suribachi.

VITE VERE: ERNEST JAMES BELLOCQ Totalmente sconosciuto in vita, Ernest James Bellocq (1873-1949) deve la propria acquisita notorietà a Lee Friedlander, conosciuto e celebrato fotografo americano. Proprio Lee Friedlander scoprì il lavoro di Ernest James Bellocq, e nel 1966 acquistò ottantanove lastre in vetro di suoi ritratti di prostitute, datati al 1912 circa, e allestì la rassegna retrospettiva intitolata Storyville Portraits, esposta al Museum of Modern Art di New York nel 1970. Questo fondo costituisce l’unico frammento del suo lavoro che gli sia sopravvissuto. Ed è il materiale visivo sul quale il regista francese Louis Malle si è basato per costruire la storia raccontata in Pretty Baby, suo primo film americano del 1978 (FOTOgraphia, marzo 1996). La vicenda è appunto ambientata a Storyville, quartiere a luce rossa di New Orleans; e tutto ruota attorno la figura di una dodicenne Brooke Shields (Violet), la cui inconsistenza recitativa è seconda solo alla povertà del film. Più apprezzabile è la presenza sullo schermo di Susan Sarandon (Hattie), che interpreta una delle prostitute


Nel film Gandhi (di Richard Attenborough; Gran Bretagna e India, 1982) è rievocata la figura di Margaret Bourke-White (l’attrice Candice Bergen), inviata da Life in India, nel 1946. Per la cronaca, il Mahatma è interpretato da Ben Kingsley.

che vengono fotografate da un evanescente Bellocq: interpretato da un Keith Carradine uguale a se stesso (come sempre), ma questa volta in ordine con le esigenze di copione, al quale serviva una figura eterea che facesse da spalla alla ragazzina offerta al voyeurismo popolare [a pagina 54].

VITE VERE: DIANE ARBUS Presentato e lanciato con grande clamore nell’ottobre 2006, e tempestivamente commentato in FOTOgraphia il mese dopo, Fur ha richiamato l’attenzione dei media prima di altro, e soprattutto, per la protagonista Nicole Kidman, attrice da prima pagina nella cronaca rosa internazionale. Su un’altra lunghezza d’onda, il mondo fotografico è stato attirato dalla trama annunciata, peraltro sottolineata nel titolo completo, che specifica Un ritratto immaginario di Diane Arbus: a tutti gli effetti, una delle figure determinanti della fotografia contemporanea (Fur: An Imaginary Portrait of Diane Arbus, di Steven Shainberg; Usa, 2006) [a pagina 54]. Firmato dal regista Steven Shainberg, nonostante il richiamo esplicito, Fur. Un ritratto immaginario di Diane Arbus è un film niente affatto fotografico. Infatti, per quanto Patricia Bosworth, autrice dell’approfondita Diane Arbus. Una biografia (Serra e Riva Editori; Milano, 1987), sia tra i co-produttori della pellicola, la sceneggiatura di Erin Cressida Wilson non ha alcun debito di riconoscenza con questa Biografia ufficiale, che Rizzoli ha ripubblicato nell’autunno 2006, in coda allo stesso film, con un nuovo titolo più appetibile per un pubblico di taglio consapevolmente pettegolo: Diane Arbus. Vita e morte di un genio della fotografia (con fascetta esterna aggiuntiva “Da questo libro il film Fur con Nicole Kidman”, ingannevole nel proprio richiamo).

Semmai, rileviamolo, Fur. Un ritratto immaginario di Diane Arbus si limita all’ossessione della fotografa per i definiti “freaks”, soggetti espliciti della sua concentrata parabola espressiva.

MINILAB Dopo le presenze biografiche della fotografia al cinema, annotiamo che American Photo ha ignorato due sceneggiature convincentemente fotografiche, a proprio modo e indipendentemente una dall’altra autenticamente e profondamente fotografiche. Quindi, concludiamo con l’intrigante One Hour Photo, subito qui di seguito, e Il favoloso mondo di Amélie, in chiusura. Prendendo a pretesto il servizio di sviluppo e stampa delle fotoricordo, One Hour Photo (di Mark

LE NOSTRE SEGNALAZIONI

R

ispettiamo la classifica dei dieci film fondamentali della combinazione tra fotografia e cinema stilata da American Photo dello scorso marzo, numero speciale a tema (a pagina XX). Però, ci siamo permessi di rilevare assenze che ci paiono in diversa misura gravi. Quindi, nel corpo centrale di questo attuale intervento redazionale commentiamo una nostra serie di titoli fondamentali, che qui sintetizziamo. ❯ La dolce vita (di Federico Fellini; Italia e Francia, 1960); ❯ Smoke (di Wayne Wang; Usa, Germania e Giappone, 1995); ❯ Occhio indiscreto (The Public Eye; di Howard Franklin; Usa, 1992); ❯ Gandhi (di Richard Attenborough; Gran Bretagna e India, 1982); ❯ Flags of Our Fathers (di Clint Eastwood; Usa, 2006); ❯ Pretty Baby (di Louis Malle; Usa, 1978); ❯ Fur. Un ritratto immaginario di Diane Arbus (Fur: An Imaginary Portrait of Diane Arbus; di Steven Shainberg; Usa, 2006); ❯ One Hour Photo (di Mark Romanek; Usa, 2002); ❯ Il favoloso mondo di Amélie (Le fabuleux destin d’Amélie Poulain; di Jean-Pierre Jeunet; Francia e Germania, 2001).

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Flags of Our Fathers (di Clint Eastwood; Usa, 2006) rievoca la conquista dell’isola di Iwo Jima, nella Seconda guerra mondiale, basandosi sulla celebre fotografia di Joe Rosenthal (interpretato da Ned Eisenberg). (al centro) Nicole Kidman dà il volto a Diane Arbus nella farraginosa vicenda di Fur. Un ritratto immaginario di Diane Arbus ( Fur: An Imaginary Portrait of Diane Arbus; di Steven Shainberg; Usa, 2006).

Pretty Baby (di Louis Malle; Usa, 1978) si ispira alle fotografie scattate da Ernest James Bellocq nei bordelli di New Orleans, nel 1912 circa. Nel film, il fotografo è interpretato da Keith Carradine. Susan Sarandon è la prostituta Hattie; Brooke Shields, la bambina Violet.

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Romanek; Usa, 2002) narra una vicenda dai molteplici risvolti e di svolgimento quantomeno controverso, che alla resa dei conti mette in scena una autentica psicopatia a sfondo fotografico (non tanto dissimile, siamo sinceri, da quella del serial killer Mark Lewis, il cineoperatore/fotografo assassino di L’occhio che uccide, di Michael Powell, del 1960, in originale Pepping Tom). Trama a parte, che riguarda un territorio della psicopatia esistenziale estraneo al nostro particolare punto di vista, One Hour Photo sottolinea aspetti dichiaratamente fotografici, che meritano attenzione autonoma (FOTOgraphia, novembre 2002). Robin Williams dà volto e corpo alle paranoie esistenziali di Seymour “Sy” Parrish, addetto al servizio minilab presso un lindo e asettico centro commerciale della provincia statunitense. Affronta lo sviluppo e la stampa con grande serietà. Svolge il proprio lavoro con cura e meticolosità, preoccupandosi che ogni fotogramma rappresenti in modo adeguato un momento nel tempo: dopotutto, la vita non è che un insieme di istanti. Ribadiamo: One Hour Photo mette in scena un’ossessione. Seymour “Sy” Parrish vive un’esistenza in qualche modo di riflesso: alla famiglia Yor-

kin, che conosce e ama attraverso le fotografie che la moglie Nina gli porta regolarmente a sviluppare. Straordinaria metafora della Vita e della Solitudine individuale, con eccezionali momenti di richiamo tra l’istantanea fotografica e la realtà, One Hour Photo non esaurisce le proprie riflessioni nel solo riferimento fotografico, dal quale prende peraltro avvio. L’analisi è più profonda, ed è stata ben sottolineata da un direttore della fotografia capace di alternare l’aridità degli spazi dello psicopatico Sy, sempre bianchi, sempre lindi, sempre anonimi, sempre asettici (quasi sovraesposti di uno o due stop), con l’energia, il calore, la saturazione e la vivacità dei luoghi della vita di tutti i giorni [pagina accanto].

MAGICA AMÉLIE Apoteosi dell’intreccio tra fotografia e vita, per molti motivi, Il favoloso mondo di Amélie (Le fabuleux destin d’Amélie Poulain, di Jean-Pierre Jeunet; Francia e Germania, 2001) è un film emblematico, che ha edificato la propria sceneggiatura su solidi riferimenti e richiami fotografici, substrato poetico per raccontare la Vita (FOTOgraphia, ottobre 2005). Il film è una delicata storia d’amore, con la fotografia sullo sfondo. Ma l’occasione vera di questo racconto è quella di parlare di sogni. Con chiari riferimenti alla psicoanalisi, trattati con sottile e divertente ironia, sottende il complesso argomento della psicologia infantile, ricca di sogni, potenzialità, rivelazioni: elemento concettuale, richiamo muto alla fotografia, nella propria funzione di ricordo. Magistralmente interpretata dalla giovane Audrey Tautou, Amélie Poulain è un angelo un po’ strambo, dall’infanzia non vissuta, durante la quale amava fotografare con una Kodak Instamatic le nuvole raffiguranti evidentissime forme di animali, visio-


In One Hour Photo (di Mark Romanek; Usa, 2002), Robin Williams è il paranoico Seymour “Sy” Parrish, addetto al servizio minilab presso un lindo e asettico centro commerciale della provincia statunitense. Attraverso la fotografia, il film mette in scena una straordinaria metafora della Vita e della Solitudine individuale.

NEL CULTO DI AMÉLIE

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ltre le proprie glorie cinematografiche, Il favoloso mondo di Amélie ha dato anche vita a un consistente fenomeno di culto. I luoghi del film, dall’abitazione della protagonista ai negozi di quartiere dove fa la spesa, sono meta di autentico pellegrinaggio, al quale fanno da contorno pubblicazioni e reliquie vendute in loco. Pubblicato nel 2002 da Mondadori, in Italia è disponibile Il favoloso Album di Amélie Poulain, volume illustrato che sta in equilibrio tra la narrazione del film e le ispirazioni e/o consecuzioni di ordine soprattutto fotografico (200 pagine 23x28cm; cartonato con sovraccoperta; 18,60 euro).

ne inaccessibile agli adulti. È rimasta fanciulla nell’anima. Ha i sogni ancora intatti. Anzi, vive la vita come un perenne sogno. Per una serie di circostanze, dedica la propria vita alla felicità altrui. È in questo contesto che fa il proprio ingresso la fotografia, come gioco portante della struttura del film: un album di fotografie composto con le immagini di sconosciuti, scartate dalle cabine per fototessere automatiche nelle stazioni della metropolitana parigina, raccolte con paziente dedizione da un misterioso personaggio (interpretato dal regista Mathieu Kassovitz). Amélie lo osserva mentre traffica sotto una di queste cabine, nell’intento di recuperare le fotografie scartate. Quando i loro sguardi si incrociano, il suo cuore comincia a battere. Forse è folle come lei. Lo insegue quando lui, mosso da un improvviso motivo, corre all’inseguimento di qualcuno (che poi incontriamo e ritroviamo in tutto il film), e raccoglie il famoso album, che il ragazzo smarrisce, senza accorgersene, nella fretta della corsa. «Quel che si dice un album di famiglia», esclama Amélie mentre lo sfoglia e lo tiene tra le mani, come si terrebbe un tesoro prezioso. Ma quale famiglia? Lei che praticamente non ne ha avuta [a destra]. Comincia così un gioco di appuntamenti e inseguimenti, teoricamente per riconsegnare al legittimo proprietario il proprio album, ma in fondo per il desiderio di incontrarsi finalmente tra persone affini, riconoscersi e non essere più soli. Amélie è intimamente turbata da questo suo stato interiore; ma, forse proprio per non volerlo vedere, continua nel sano intento di cambiare in meglio le vite altrui: quella del padre, per esempio, personaggio isolato quanto ombroso e lamentoso, che ha per unico amico un nanetto da giardino, al quale dedica le sue esclusive attenzioni. Amélie, che da tempo suggerisce al padre il potere terapeutico dei viaggi per risollevarsi dalle proprie malinconie, e mai presa in considerazione, organizza il rapimento del nano, incaricando una hostess che viaggia per il mondo di fotografarlo in ogni città e di spedire le pola-

roid al padre. Singolare e simpatico ruolo di riflessione conferito alla fotografia, istantanea questa volta. In effetti, quando il nanetto tornerà a casa, avrà la sua funzione positiva sulle riconsiderazioni della vita che il padre di Amélie si troverà a fare. In conclusione, capace di essere realtà pur non essendola, non certo a caso, la fotografia è il filo conduttore della trama narrativa. Conclusione: questi nove film, che mancano dalla segnalazione dei dieci titoli di American Photo, ci paiono proprio emblematici della presenza della fotografia al cinema. Maurizio Rebuzzini

Le fototessere da cabina automatica rappresentano uno dei tre momenti fotografici di Il favoloso mondo di Amélie ( Le fabuleux destin d’Amélie Poulain; di Jean-Pierre Jeunet; Francia e Germania, 2001). Addirittura l’elemento narrativo dell’intero film: delicata storia d’amore.

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urioso fotografo, il tedesco Uwe Ommer. Capace di passare dalla registrazione di sapore e intendimento sociale, attraverso i ritratti posati di mille famiglie (affascinante mostra a Colonia, nell’autunno 2000, a contorno della Photokina, fiera mondiale della fotografia, e monografia conseguente; a pagina 61), all’evocazione di un sottile e raffinato erotismo visivo dei nostri giorni. In questo senso, sono tanti i riferimenti, tra i quali, oltre le monografie Taschen che richiamiamo a pagina 61 (ancora), ricordiamo l’edizione di un lontano calendario Piaggio, realizzato nell’estate 1988 nella campagna toscana. In ogni caso, sia nella rilevazione sociale sia nel più leggero erotismo visivo, la sua è sempre e comunque fotografia posata: tableaux attentamente costruiti davanti alla macchina fotografica. Con altrettanta cura e meticolosità, Uwe Ommer ha allestito i set del suo più recente progetto fotografico Do it yourself, raccolto in volume dalla poliedrica casa editrice tedesca Taschen Verlag, che frequenta la fotografia d’autore senza soluzione di continuità dalla storia al contemporaneo. Come specifica subito il titolo, che appunto definisce la fotografia eseguita da se stes-

se (i soggetti sono tutti inviolabilmente al femminile), ufficialmente si tratta di autoscatti. Però, rileviamolo subito, oltre questa dichiarazione di intenti, alla quale è giocoforza attenersi, immagine dopo immagine ognuno di noi riconosce qualcosa di diverso: autentiche pose, costruite e allestite dallo stesso fotografo. Inquadrature apparentemente casuali sono state predisposte con minuziosa attenzione: quella che si deve sempre riservare alla finzione (al tableaux) che simula la realtà, rappresentandola.

Il già consistente capitolo delle autoraffigurazioni, che appartiene a un intrigante territorio della fotografia, fin dalle proprie origini, si arricchisce di una particolare serie di immagini. Sono quelle, a sfondo dichiaratamente erotico (a volte addirittura esplicito), che Uwe Ommer ha confezionato con una efficace quantità e qualità di avvenenti modelle, che simulano di fotografarsi da se stesse: appunto Do it yourself (monografia Taschen Verlag). Non è proprio vero, come rileviamo, ma questa è l’apparenza ufficiale. Alla quale ci si deve attenere

FOTOGRAFATI

DA SOLA!

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Do it yourself, di Uwe Ommer; a cura di Renaud Marchand; Taschen, 2008 (distribuzione: Inter Logos, strada Curtatona 5/2, Località Fossalta, 41100 Modena; 059-412648; www.books.it); 256 pagine 22,5x30cm, cartonato con sovraccoperta; 29,99 euro.

ALTRA STORIA

O

riginariamente pubblicati dalla stampa periodica tedesca, e ripresi dall’edizione italiana di Marie Claire del marzo 1996, autoscatti liberatori di giovani donne berlinesi sono stati raccolti in volume da Edition Stemmle di Zurigo. Ideata dal fotografo André Rival, l’operazione corre su un binario oggettivamente multiplo, che qui richiamiamo a margine di Do it yourself di Uwe Ommer, di tutt’altro indirizzo. Da una parte, ci si deve riferire alla psicologia personale e sociale, e in questo senso si esprimono i colti testi a commento (in inglese); dall’altra, c’è chi ha puntualizzato soprattutto l’aspetto involontariamente erotico dell’insieme delle immagini: anche se, per il vero, la stampa italiana che se ne è occupata in cronaca non ha mancato di sottolineare una ipotesi più realistica di “eros ironico” (per esempio, il milanese Corriere della Sera del 20 febbraio 1996). Per nostro punto di vista, educato e maturato con frequentazioni fotografiche concentrate e rigorosamente attente, indipendentemente dal gesto autoreferente, la raccolta Self-Images: 100 Women è distante sia dalla serie di Uwe Ommer, di erotismo allegro e complice, sia dallo spessore dell’autentico autoritratto introspettivo al femminile (ottimamente censito in In/Sights. Self-Portraits by Women, a cura di Joyce Tenneson Cohen, del 1978). Queste autoraffigurazioni vanno soprattutto incluse nel compendioso territorio della fotografia antropologica, che per il solito è ignorata dalla critica ufficiale: fototessere,

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fotografia giudiziaria e quanto viene composto con metodologie ripetitive e schematiche di tipo documentativo. Come altri progetti, tra i quali ricordiamo l’incessante sequenza di Yellow 2.0 (FOTOgraphia, settembre 1994), anche questa libertà ufficiale della quale hanno potuto godere le cento donne berlinesi finisce per delineare i contorni esatti e inequivocabili del casellario, addirittura trasuda il proprio intendimento segnaletico. Infine, un doveroso chiarimento tecnico e di procedura. Il giovane fotografo franco-tedesco André Rival ha allestito un set con fondo bianco-luce, e ha disposto un apparecchio fotografico con inquadratura fissa. Un collegamento video con il mirino di visione della Mamiya 6x7cm ha consentito alle ragazze/soggetto di controllare su monitor la composizione fotografica. Quindi, munite di un cavo di buona lunghezza, collegato al pulsante di scatto, hanno scelto le proprie pose e scattato nei tempi e modi che hanno voluto: qualcuna lo ha fatto in fretta, altre si sono attardate delle ore. Come anticipato, il risultato è intrigante, con piani di lettura molteplici e stratificati. Un libro da non sottovalutare. Self-Images: 100 Women, ritratti liberatori di giovani donne berlinesi; testi in inglese; Edition Stemmle, Zurigo 1996; 152 pagine 24x29,5cm, cartonato con sovraccoperta; 39,98 euro.


AUTOSCATTI (?)

Così che, l’elemento comune che collega tra loro tutte le fotografie, definendone sia il progetto sia la serie, è l’inviolabile presenza dell’elemento fotografico relativo e collegato allo scatto (autoscatto apparente e raffigurato). Ogni soggetto, ogni modella ha tra le mani il cavo con peretta collegato con il pulsante di scatto della macchina fotografica, piuttosto che il comune flessibile o un comando a distanza, che a propria volta compaiono in tutte le inquadrature. È giusto questa combinazione compositiva, ricercata oltre che formalmente estetizzata, che stabilisce il connotato dell’azione Do it yourself, appunto dell’autoscatto. Secondo lo stile espressivo dell’autore Uwe Ommer, ogni immagine è adeguatamente sofisticata, sì da comporre i tratti di un erotismo volontariamente raffinato. Ma pure sempre erotismo, sia chiaro. E qui, e ora, si impone una considerazione a complemento. Per quanto si possano spendere parole per motivare l’eleganza di queste fotografie, come di immagini di analogo svolgimento (erotico, non autoritratto), la determinazione originaria rimane sempre dominante e, forse, sola: raffigurazioni che sollecitano il piacere, soprattutto maschile, dell’osservazione di un corpo femminile offerto, nudo o quasi. Ovvero di un corpo, senza anima, che si propone esclusivamente per se stesso e per le considerazioni individuali che ciascuno è libero di fare. Ciò detto, siamo consapevoli che il nudo sia uno dei territori a lungo frequentati dalla fotografia, peraltro in eredità della millenaria storia dell’arte. Però siamo altrettanto consapevoli che l’ipotesi casta sia soltanto teorica: il più delle volte, come peraltro in questa serie di Uwe Ommer, il nudo fotografico si proietta nei territori della sollecitazione erotica, che distinguiamo da quella pornografica soprattutto per pudore e cortesia. Solitamente, all’erotismo attribuiamo un valore positivo, relegando la pornografia in un terri-

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torio sordido e negativo. Però, il filo che distingue una raffigurazione dall’altra, a parte la presentazione dell’atto sessuale esplicito, è sottile, etereo, oltre che personale. Quando la fotografia propone un corpo offerto, per lo più femminile, rimanda a inevitabili pensieri sessuali, che ciascuno consuma a propria misura.

AUTORITRATTO (AUTORITRATTI) Con diverso profilo, non necessariamente più alto, perché questo immediatamente precedente non deve essere inteso basso, ma soltanto diverso, le fotografie di Do it yourself di Uwe Ommer richiamano ed esigono anche altre considerazioni: appunto di carattere esplicitamente “fotografico”. Per come si presentano sono autoritratti (ripetiamo con esplicito richiamo erotico), che si iscrivono al consistente casellario che la fotografia ha esteso in qualità e quantità, raccogliendo il testimone passatogli dalla pittura,

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rispetto la quale la fotografia può contare su una più efficace immediatezza e su una oggettiva maggiore facilità di esecuzione. Ma! Ma c’è dell’altro. Mentre l’autoritratto in pittura non ha mai potuto affrontare il sottile e delicato rapporto tra l’autore e il proprio mezzo espressivo, la fotografia ha avuto modo di includere nella composizione i propri strumenti. E questo, se ce lo permettiamo, stabilisce anche una differenza di sostanza, che si richiama sia al linguaggio della fotografia sia alla complessità dei rapporti che questa ha con la propria mediazione tecnica, così come la vivono (e a volte subiscono) gli autori: «Quando ho una macchina fotografica in mano, non ho paura di nulla» (Alfred Eisenstaedt). Non si tratta tanto di stabilire i connotati di un complesso rapporto di presunto odio o amore, quanto, più semplicemente (ma non certo banalmente) di confronto e incontro: come sottolineano tutti gli autoritratti della storia della fotografia.


UWE OMMER CON TASCHEN

P

rima dell’attuale Do it yourself, l’editore tedesco Taschen Verlag ha pubblicato altre quattro monografie di Uwe Ommer: due di carattere, diciamo così, documentativo e sociale, altre due di erotismo visivo. ❯ 1000 Families (576 pagine 19,6x25cm; 19,99 euro) è un progetto che ha impegnato quattro anni di lavoro, in centoquaranta paesi del mondo, nei quali sono stati fotografati gruppi familiari in posa. Nell’autunno 2000, in coincidenza con le date della Photokina di Colonia, una consistente serie di queste immagini è stata allestita in una affascinante mostra fotografica all’aperto. Ingrandimenti di generose dimensioni sono stati esposti lungo il tragitto che dai padiglioni della Fiera porta al Duomo. ❯ Transit. Around the World in 1424 Days (720 pagine 29x29cm, cartonato; 49,99 euro) è il diario del viaggio attorno il mondo per la realizzazione del precedente 1000 Families. Annotazioni visive, dietro-le-quinte e osservazioni complementari in una incessante sequenza di immagini. ❯ Asian Ladies (160 pagine 22x30cm, cartonato con sovraccoperta; 24,99 euro) e Black Ladies (160 pagine 18,4x24,5cm, cartonato con sovraccoperta; 14,99 euro) sono esattamente ciò che il titolo rivela: rispettivamente nudi di donne da due continenti specificati.

In questo senso, rimandiamo soprattutto a raccolte mirate, ognuna delle quali sottolinea il senso delle rispettive epoche attraverso l’autorappresentazione dei fotografi; ne segnaliamo quattro. La prima è The Camera I (1994), catalogo di una omonima esposizione di autoritratti di fotografi, provenienti dalla collezione di Audrey e Sydney Irmas; attraverso i decenni, da Roger Fenton (1855), André Adolphe Eugène Disdéri (1860) e Nadar (1863) si approda ai giorni moderni. Analoga è stata la precedente selezione Self-Portrait in the Age of Photography (1985), ancora autoritratti di fotografi, e ancora volume-catalogo: della mostra itinerante che prese avvio in Texas, nel marzo e aprile 1986. Le altre due selezioni sono di sostanziale attualità, una analoga all’altra. Il numero speciale del settembre 1978 dell’autorevole periodico Camera, che purtroppo ha cessato le pubblicazioni da tempo, è una monografia di autoritratti in polaroid. Nell’anno

in cui venne presentato il Polacolor 8x10 pollici, per l’appunto usato da molti autori, la rivista fu allestita come selezione internazionale, con significative presenze italiane: Gian Paolo Barbieri, Pepi Merisio, Will McBride (che allora viveva in Italia) e Oliviero Toscani. In sostanziale continuità di intenti, quasi, I fotografi e il loro apparecchio (1995) è un fascicolo realizzato dalla svizzera Sinar, che si esprime lungo un filo conduttore inevitabile: l’apparecchio in questione è sempre e comunque il banco ottico Sinar.

DO IT YOURSELF Dopo tanta digressione, attraverso l’idea/ipotesi di autoritratto fotografico (soprattutto d’autore) e raccolte librarie collegate, torniamo al soggetto dichiarato di Do it yourself, di Uwe Ommer. Subito una rilevazione d’obbligo: l’immagine di copertina è straordinaria (a pagina 58). A differenza delle nostre abitudini,

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qui ci sbilanciamo: la classifichiamo come la più bella immagine dell’intera raccolta, della quale possiamo presentare soltanto poche immagini. E non certo per caso la richiama: inviolabilmente, è l’immagine simbolo di tutta la serie fotografica. Tanto che, osserviamolo, è riprodotta anche sulla locandina della rassegna Regards sur le corps, allestita nell’ambito dell’Ottavo Festival europeo della fotografia di nudo, ad Arles, dal tre all’otto maggio, nel quale Uwe Ommer è invitato d’onore. Quindi, come già rilevato, sfogliando le oltre duecentocinquanta pagine del volume, si incontra una incessante sequenza di ragazze che posano davanti all’apparecchio fotografico, simulando l’autoritratto: allo specchio o con il dispositivo di scatto a distanza in mano. In generale, i tableaux sono eroticamente evocativi in relazione al nudo costante, oltre che in dipendenza delle pose, soprattutto di (invitanti) corpi esplicitamente offerti: e su questo stile di raffigurazione fotografica non ci esprimiamo, perché non è il caso di farlo. Qui, quantomeno. Con tutto, riconosciamo a Uwe Ommer la trasparenza di questo insieme, che si accoda a consistenti capitoli della storia evolutiva del linguaggio fotografico: già ne abbiamo scritto tanto, ed ora non aggiungiamo altro. Ma la trasparenza non è il solo e unico valore di questa raccolta, definita anche da una solare allegria che si allunga sulle pagine. Alla resa dei conti, è tutto un gioco, tra i soggetti e l’osservatore, complice il fotografo. In conclusione, a parte qualche intrigante posa volontariamente provocante, soprattutto nello sguardo rivolto allo stesso osservatore, più che nel gesto fisico in sé, possiamo perfino rilevare che per lo più si tratta di un erotismo tanto gioviale da sconfinare nella complicità di intenti e relazioni. Evviva. Angelo Galantini

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L’

JULIÁN OCHOA

L’amore, la creatività e la conoscenza sono alle origini della nostra esistenza, e dovrebbero anche essere alla base di ogni comunità. Tutta l’arte degli uomini nasce dalla loro ricerca della felicità, tutta l’arte della loro barbarie si afferma nel consenso incondizionato ai governi delle democrazie dello spettacolo. La tecnologia dominante e l’ideologia del neoliberismo giustificano il delirio redditizio della merce, e nessuna società egualitaria conoscerà il regno della libertà, della fraternità e della fantasia finché gli uomini del libero spirito non passeranno dalla critica dell’arte alla critica della politica. I fotografi del libero spirito si collocano al di là del bene e del male e mostrano che l’insegnamento della visione quotidiana della vita (non solo fotografica) si costruisce sulla conoscenza della luce e non sulle parole insegnate. La fotografia più consumata si nasconde sotto una valanga di nozioni inventate, di costruzioni formali diffuse dall’industria di macchine fotografiche (analogiche o digitali, fa lo stesso) e il discorso iniziatico è sempre quello dell’edonismo annunciato e la totale assenza di contenuti. Lasciamo agli scrupolosi la cura di verificare l’incredibile messe di imbecilli che ha prodotto il mercato globale della fotografia.

DEI FOTOGRAFI DEL LIBERO SPIRITO Però, ai quattro venti della Terra ci sono fotografi del libero spirito che non hanno timore di lavorare fuori schema e costruiscono una fotografia dei desideri, dei piaceri, delle passioni, e vanno a disseminare negli animi più attenti o più sensibili una sorta di filosofia umanista che insegna ad aprire gli occhi.

Uno di questi passatori della fotografia della bellezza è lo spagnolo Julián Ochoa. Fotografo schivo quanto basta a non entrare danzando nel grande circo dell’immagine mondana, Julián Ochoa vive di fotografia, cioè fotografa matrimoni, battesimi, morti; se occorre, anche le comunioni dei bambini già sistemati nella cuccia dalla famiglia, dalla chiesa e dallo stato. Siccome la fotografia si fa come si vive, lui si ritaglia pezzi di vita fuori del lavoro e fotografa

Nelle sue immagini esprime una tecnica ricercata, tuttavia fa della bellezza formale un’etica della ragione e vede negli ultimi, i senza voce, gli emarginati della Terra compagni di strada con i quali condividere sofferenze, ingiustizie e ribellioni. La bellezza fotografica di Julián Ochoa non grida mai il suo dolore per la vita che gli cade davanti. Riesce ad affabulare una pietà laica che prende le distanze da un’umanità che si afferma nella distruzione e nell’indifferenza. Senza peraltro

«Negli ultimi tempi, la fotografia è diventata una forma di divertimento diffusa quanto il sesso e il ballo; il che significa che, come quasi tutte le forme d’arte di massa, non è esercitata dai più come arte. È soprattutto un rito sociale, una difesa dall’angoscia e uno strumento di potere» Susan Sontag per sé e per chi riesce a comprendere la sua arte. Ha partecipato a concorsi e vinto premi importanti, anche, ma una grossa parte della sua fotografia è altro dalle medaglie e diplomi che gli hanno appuntato sul petto con sottofondo della musica flamenca di Camarón de la Isla. La scrittura fotografica di Julián Ochoa è l’esatto contrario delle virtù artistiche insegnate dagli angeli ingannatori della morale fotografica dominante.

sacrificare i dettagli, le sue immagini a noi care, quelle della ritrattistica nomade, documentano una possibilità di abitare il mondo in modo diverso. L’infelicità o la miseria che sovente sono fotografate da Julián Ochoa sono avvolte, figurate, accolte da uno sguardo colmo di tenerezza e la loro lettura ci porta oltre la realtà che ha fissato con la sua macchina fotografica. Dicono la verità, e senza scomodare Lewis W. Hine, Jacob A. Riis, Dorothea Lan-

ge, Walker Evans o Henri Cartier-Bresson, che lavorano su altri filamenti strutturali della bellezza, le fotografie di Julián Ochoa si prendono la libertà di significare la sofferenza e restituire dignità e rispetto a coloro i quali sono i protagonisti e le vittime dell’umano dolore. [In relazione ai fotografi appena citati, rimandiamo ai rispettivi Sguardi su, di Pino Bertelli, pubblicati in FOTOgraphia dell’ottobre 2005 (Lewis W. Hine), settembre 2005 (Jacob A. Riis), dicembre 2001 (Dorothea Lange), novembre 2003 (Walker Evans) e novembre 2001 (Henri Cartier-Bresson)].

SULLA FOTOGRAFIA IN UTOPIA DI JULIÁN OCHOA Julián Ochoa nasce a San Fernando, in Spagna, il 26 settembre 1961. A diciassette anni, qualcuno gli regala una macchina fotografica (Werlisa), ed è subito amore per la fotografia. Lavora su temi sparsi: persone, paesaggi, astrazioni simboliche. Cerca la fotografia ovunque e, forse, la trova qualche anno dopo nella semplicità profonda del suo cuore. In molte delle immagini che Juliàn Ochoa ha preso nel proprio errare c’è una sorta d’infanzia della fotografia, di autenticità del gesto fotografato, di bellezza randagia che poggia su una visione non riconciliata con l’immediatezza del reportage. La sua ossatura fotografia segna invece un’attitudine estetica basata sul rispetto e sullo stupore, e ciò che rappresenta è il mondo visibile di un desiderio o di una rappresentazione dell’uomo e dell’ambiente nel quale vive. Il realismo fotografico di Juliàn Ochoa è filtrato da un’innata inclinazione al disvelamento delle cose che stanno dietro le cose. Insomma, per

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lui c’è un tempo del dicibile e un tempo della creatività. L’impossibilità, dunque, di cogliere l’esistente così come accade di fronte alla macchina fotografica; e nei suoi ritratti, che crediamo siano la sua espressione più compiuta, il conoscibile si trasforma in amore per la diversità, in opposizione alla violenza dei forti, in minute felicità soppresse e rivendicate appunto dall’autore, dove la creatività salva il soggetto dall’orlo del precipizio e lo deposita negli angoli impopolari della fraternità. L’eternità dell’immagine esiste solo là dove la scrittura fotografica si fa “segno” e non denuncia nessuna assoluzione o giustificazione della vita innominata della merce. Juliàn Ochoa osserva i soggetti secondo la propria collocazione nella storia, e proprio nell’istante che li fissa nel suo sguardo rivela anche una nuova dimensione del profondo. Non si fa prendere dall’estetismo della tecnica o dalla necessità di una risposta civile; nel giardino del linguaggio fotografico lavora su un umanesimo colto, quasi un ideogramma, che diviene strappo o separazione da ogni intento o forzatura dove l’arte o la comunicazione dimorano in superficie. Imprime alla sua ritrattistica la franchezza e la felicità di un tempo e di uno spazio dell’immagine: è la luce che rivela il mondo. La libertà della fotografia presuppone spiriti liberi. Lo sguardo si fa tanto più libero quanto meno il fotografo cerca l’effetto plastico, il naturalismo colorato. La grande fotografia si tiene fuori dai bordelli del successo e lascia le tracce della stupefazione nel meraviglioso, del quale percepiamo soltanto l’ombra: la strega e non la fata. Di nessuna patria è la Fotografia. «E come in ogni fiaba è il travestimento di una verità, così anche le immagini vogliono comunicarci un segreto. Il loro significato è soltanto tastato dai sensi, soltanto sfiora-

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to» (Ernst Jünger). Ecco perché un’opera d’arte è destinata a servire o a sovvertire l’ordine del discorso. Nessuno è più grande del suo schiavo, e la sola fama che davvero lascia negli occhi di chi lo vuole sono i palpiti dell’inestimabile che non si trova nei musei della nausea, nelle gallerie dei mercanti o nei gazebo del successo a ogni costo. La rottura dell’immaginazione liberata risplende nella profanazione dei luoghi comuni e l’incubo degli imbecilli prezzolati è quello che ogni tanto qualche poeta di strada innalza, elevando la propria arte a epifania dell’inaccessibile. La fotografia in utopia di Juliàn Ochoa si configura su tre percorsi principali: l’astrazione formale, la figurazione materica e la ritrattistica poetica. Le immagini che riguardano l’astrazione formale (cieli, paesaggi, ombre) sono il residuo di un esercizio di piacere, nel quale il fotografo si lascia influenzare da quanto colpisce la sua attenzione. Non di rado ciò che più emerge da queste immagini di notevole esecuzione tecnica sono sia una certa freddezza estetica o, meglio, una fuggevole cattura del reale (che nemmeno è contemplato), sia l’avvicinamento a una sorta di pittoricismo arcaico, nel quale luce e ombre sono un frammento o una replica di qualcosa che è immagine ma non ancora Fotografia. Fotografare significa qualcosa di più che riprodurre o cercare la poesia dove non c’è; fotografare vuol dire impadronirsi del tempo e dello spazio e risvegliare il desiderio delle coscienze o sconvolgere il comune senso del sentire e del vedere fuori da tutte le forme di sentimentalismo umanistico. Fotografare significa attribuire importanza non solo a ciò che si fotografa, ma anche violare l’arte annegata nella demistificazione della realtà. Anche la figurazione materica (strade, barche, auto) risente

ancora di una frequentazione dei generi amatoriali finemente realizzati; tuttavia già qui lo sguardo di Julián Ochoa mostra anche una visione del mondo che non trasmette verità definitive e l’essenzialità della trattazione, e quindi l’emersione di una certa bellezza formale. Nel proprio insieme, restituisce una notevole inclinazione artistica piuttosto castigata, che mai sfocia in estetismo. La ritrattistica poetica è di gran lunga l’espressione più valida e importante di Julián Ochoa. Per esempio, le sue fotografie randagie dei viaggi in India esprimono una forza visiva notevole, che esula dal reportage d’occasione e dalla ritrattistica edonistica. «Il bello è il vero» (Susan Sontag), ma il vero è il superamento della dimensione oggettiva, che è pura trascrizione del reale. I ritratti di Julián Ochoa strappano il velo all’occasionale “artistico” per ratificare -oltre la posa- l’intenzionalità di una poetica singolare, che demolisce le disparità per farsi interprete di un bisogno o di una denuncia sociale colma di speranze libertarie. La ritrattistica di strada di Julián Ochoa è polisemica. Nell’insieme del suo lavoro c’è la visione frontale, il taglio informale, l’esplicita consapevolezza di cogliere il momento al di là del rango sociale o della situazione di estrema miseria del soggetto. La prospettiva realista delle sue immagini è attenta ai valori personali e restituisce un’atmosfera ambientale di grande pregio. Il fotografo non teme di descrivere una geografia dei sentimenti, e mostra che niente di ciò che cade in una fotografia è banale. Julián Ochoa non incensa l’oggetto della sua attenzione, né lo crea a propria immagine e somiglianza: lo denuda, per mostrare che questo non è il migliore dei mondi possibili. La bellezza è il vero fine di ogni forma d’arte e «nessuno ha bisogno di frequentare una scuola per fare, capire, o gode-

re dell’arte. Artisti a critici eccellenti -alcuni tra i migliori- sono autodidatti» (Robert Adams). L’inconveniente di essere radicali a fronte di ogni forma di espressione è quello di avere e sostenere idee inadatte all’agonia del mercimonio. Ogni grande fotografia è un evento che esiste soltanto in funzione della propria bellezza estetica. A mano a mano che l’arte sprofonda nei gazebi della merce, si moltiplicano i disertori della sottomissione. Non solo in fotografia, la politica della bellezza non s’impara; è iscritta in una pratica dell’utopia che rigetta la civiltà dell’immagine come impostura del sacro e scopre in sé l’etica della condivisione alla quale aspira. Il piacere della pratica ereticale contro l’ordine costituito è opera di sognatori che si chiamano fuori dalla catastrofe dello spettacolo. «Se l’anima è bella è bella anche l’immagine» (Ando Gilardi). Meglio ladro che fotografo, piegato agli scanni del potere, che imita tutto e non esprime nulla. In ogni opera d’arte, la bellezza si fonda sulla comunione delle differenze e sull’accoglienza delle diversità. La poesia, come l’amore, inizia con la critica dell’arte e finisce col denunciare ogni sistema fondato sullo sfruttamento dell’uomo sull’uomo. La fotografia radicale si legittima nel recupero della creatività, dell’arte e della cultura. L’organizzazione dell’apparenza è legata alla filosofia della sopravvivenza e solo là dove sono infranti i codici e le regole dei privilegiati ha inizio una società veramente umana. La fotografia radicale è una costruzione di situazioni, è un momento di vita altro, un evento, un’epifania dell’anima in volo che è estensione di uno spazio-temporale e un’unità di comportamento nel tempo. La costruzione della fotografia radicale o in utopia, comincia oltre la rovine dello spettacolo. Pino Bertelli (2 volte aprile 2008)




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