FOTOgraphia 144 settembre 2008

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Mensile, 5,70 euro, Poste Italiane SpA - Spedizione in abbonamento postale - D.L. 353/2003 (convertito in Legge il 27-02-2004, numero 46), articolo 1, comma 1 - DCB Milano

ANNO XV - NUMERO 144 - SETTEMBRE 2008

Sessanta anni DALLA SINAR NORMA

Approfondimento WEEGEE NON SEMPRE BASTA IL NOME

MASSIMO SESTINI NEWS PICTURES


Non ci sono fotografi stupidi, ci sono solo profeti imbecilli

dell’educazione alla fotografia. Pino Bertelli su questo numero, a pagina 66

Non è venduta in edicola. Per averla hai una sola possibilità: sottoscrivere l’abbonamento annuale. 12 numeri 57,00 euro Solo in abbonamento Compilare questo coupon (anche in fotocopia), e inviarlo a: Graphia srl, via Zuretti 2a, 20125 Milano MI (02-66713604, fax 02-66981643; graphia@tin.it)

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ANCORA WEEGEE. Su questo numero, da pagina 48, ci allunghiamo sulla personalità di Weegee. Alla luce di una mostra milanese, che è meno di Weegee di quanto si possa credere, approfondiamo i termini di una lunga vicenda fotografica, che consideriamo esemplare nella propria parabola espressiva. Scriviamo tanto di Weegee, speriamo non troppo, perché abbiamo constatato di persona che la sua fotografia è poco nota nel nostro paese, anche presso coloro i quali sono preposti a mediare i significati e contenuti della stessa Fotografia, in assoluto e con Maiuscola consapevole e volontaria, presso il più vasto pubblico. A integrazione delle nostre tredici pagine, dense anche di annotazioni complementari, e della trasformazione grafica del ritratto, collocata là dove siamo soliti presentare un fumetto a richiamo fotografico (sulla precedente pagina), qui riportiamo una ulteriore segnalazione storica, che rivela come e quanto la fotografia di Weegee sia stata anche ben considerata nel nostro paese. Torniamo indietro nei decenni, fino a istanti che, nella propria sostanza, sono più lontani di quanto già le date rivelano. Un fotoracconto di Weegee, opportunamente creditato, è stato pubblicato sul numero 39 (dicembre 1947) del celebre Il Politecnico, rivista di cultura contemporanea, come recitava la precisazione sotto la testata, diretta da Elio Vittorini. Qui e ora non è spazio né tempo per commentare questa lontana esperienza giornalistica; la nostra segnalazione riguarda soltanto l’attenzione per la fotografia di Weegee da parte di un mensile di parole, profondamente culturali e politiche, che raramente si concedeva all’immagine (in genere, soprattutto fotoracconti di Luigi Crocenzi, ma segnaliamo anche una serie fotografica dalla Grecia, di Werner Bischof, sul precedente numero 37). Originariamente, il fotoracconto Lettera dalla panchina, di Weegee fu pubblicato su due pagine accostate, con continuità di lettura; noi lo scomponiamo per poterlo presentare in dimensioni confortevoli. M.R.

Senza soluzione di continuità, tutta la Fotografia cerca opinioni senza preconcetti, ragioni senza congetture, riflessioni senza l’immissione di interessi personali.

Copertina Autoritratto di Massimo Sestini in una delle compiacenti camere del nightclub Babylon (prostituzione legalizzata). Ironica (in)consapevolezza di uno straordinario fotoreporter, uno dei più bravi del fotogiornalismo italiano contemporaneo, che da metà settembre è in mostra alla Galleria Grazia Neri. Da pagina 34

3 Fumetto Nostra elaborazione di un celebre ritratto di Weegee, sicuramente il più noto di tutti, restituito in forma grafica, per allinearsi alla consuetudine di avvio della rivista. Non siamo partiti da una stampa fotografica, ma da una riproduzione tipografica retinata: copertina di una pubblicazione italiana del 1954, che visualizziamo qui a sinistra (nelle condizioni in cui la possediamo)

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7 Editoriale Per quanto la tecnologia fotografica dei nostri giorni non alimenti attese, ma esprime conferme periodiche (ampiamente prevedibili e previste), e neppure consenta sorprese, rimane inviolabile l’appuntamento biennale con la Photokina di Colonia: alla fine di settembre. Oltre la passerella dei massimi sistemi, dalla fiera daremo visibilità alle produzioni (semi-artigianali?) che ancora esprimono entusiasmo per il gesto fotografico. A partire da Vincenzo Silvestri, autentico capofila

8 Le cime di New York 9

In richiamo dell’Undici settembre, ricordiamo la fantastica monografia New York, di Reinhart Wolf

10 Notizie Attrezzature, vicende e altre segnalazioni

12 La casa dei sogni L’avvincente ed emozionante serie Dream House, di Gregory Crewdson, alla Galleria Photology, di Milano

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15 Sessanta anni Sinar Con l’originaria Sinar Norma, nel 1948 prese avvio una delle leggende della fotografia professionale

20 Reportage 29

Appunti e attualità del fotogiornalismo internazionale A cura di Lello Piazza


SETTEMBRE 2008

R , RIFLESSIONI IFLESSIONI, OSSERVAZIONI E COMMENTI OSSERVAZIONI E COMMENTI SULLA FOTOGRAFIA SULLA FOTOGRAFIA

25 È di scena Totò

Anno XV - numero 144 - 5,70 euro

Totò-fotografo in Miseria e nobiltà. E altri incroci Ricerca iconografica di Filippo Rebuzzini

DIRETTORE

RESPONSABILE

Maurizio Rebuzzini

IMPAGINAZIONE

28 Ancora pieno formato

Gianluca Gigante

REDAZIONE

Dopo la D3 di vertice, ecco la Nikon D700: con sensore di acquisizione digitale in formato FX (36x23,9mm). Poi, gli obiettivi decentrabili e basculabili Nikkor PC-E e il Nikon Photo Contest International 2008-2009 di Antonio Bordoni

Angelo Galantini

FOTOGRAFIE Rouge

SEGRETERIA Maddalena Fasoli

34 News Pictures

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Trent’anni di fotogiornalismo di Massimo Sestini in mostra alla Galleria Grazia Neri, di Milano. di Lello Piazza

43 Nel mondo di Peter Beard In edizione standard, l’avvincente monografia Taschen di uno grande artista fotografo contemporaneo di Angelo Galantini

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COLLABORATO

Pino Bertelli Antonio Bordoni Loredana Patti Lello Piazza Franco Sergio Rebosio Ciro Rebuzzini Filippo Rebuzzini Massimo Sestini Giovanni Umicini Luca Ventura Redazione, Amministrazione, Abbonamenti: Graphia srl, via Zuretti 2a, 20125 Milano; 02-66713604, fax 02-66981643; graphia@tin.it.

48 Weegee (potrebbe bastare il nome) L’espressività di uno dei grandi fotografi del Novecento, in occasione di Unknown Weegee: cronache americane: in mostra a Milano fino al prossimo dodici ottobre di Maurizio Rebuzzini Ricerca iconografica di Ciro Rebuzzini

● FOTOgraphia è venduta in abbonamento. ● FOTOgraphia è una pubblicazione mensile di Graphia srl, via Zuretti 2a, 20125 Milano. Registrazione del Tribunale di Milano numero 174 del Primo aprile 1994. Poste Italiane SpA - Spedizione in abbonamento postale - D.L. 353/2003 (convertito in Legge il 2702-2004, numero 46), articolo 1, comma 1 - DCB Milano.

50 Weegee The Famous Consistente retrospettiva a Montpellier, in Francia

52 Naked City

HANNO

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Una delle più significative raccolte della Fotografia

● A garanzia degli abbonati, nel caso la pubblicazione sia pervenuta in spedizione gratuita o a pagamento, l’Editore garantisce la massima riservatezza dei dati forniti dagli abbonati e in suo possesso, fatto diritto, in ogni caso, per l’interessato di richiederne gratuitamente la rettifica o la cancellazione ai sensi della legge 675/96. ● FOTOgraphia Abbonamento 12 numeri 57,00 euro. Abbonamento annuale per l’estero, via ordinaria 114,00 euro; via aerea: Europa 125,00 euro, America, Asia, Africa 180,00 euro, gli altri paesi 200,00 euro. Versamenti: assegno bancario non trasferibile intestato a Graphia srl Milano; vaglia postale a Graphia srl - PT Milano Isola; su Ccp n. 28219202 intestato a Graphia srl, via Zuretti 2a, 20125 Milano; addebiti su carte di credito CartaSì, Visa, MasterCard.

53 Altro Naked City Telefilm americani: quattro stagioni, dal 1958 al 1963

54 Con Stanley Kubrick (?!) Da The Naked City al Dottor Stranamore: 1948 e 1964 Una copia impreziosita dell’autobiografia di Weegee

● Nessuna maggiorazione è applicata per i numeri arretrati. ● È consentita la riproduzione di testi e fotografie, magari citando la fonte (ma non è indispensabile, né obbligatorio farlo). ● Manoscritti e fotografie non richiesti non saranno restituiti; l’Editore non è responsabile di eventuali danneggiamenti o smarrimenti.

58 Occhio indiscreto

Fotocomposizione DTP e selezioni litografiche: Rouge, Milano Stampa: Arti Grafiche Salea, Milano

57 Weegee by Weegee

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Ennesimo richiamo a una trasposizione cinematografica

Rivista associata a TIPA

62 La montagna che vive Cervaiole, di Giovanni Umicini, a Seravezza (Lucca)

64 Romano Cagnoni Sguardo su un fotografo della deriva o della conoscenza di Pino Bertelli

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tiamo per partire per la Photokina, inviolabile appuntamento biennale della tecnologia fotografica: a Colonia, in Germania, dal ventitré al ventotto settembre prossimi. Andiamo in Photokina dal 1974, e dunque possiamo affermare di aver attraversato le più recenti stagioni dell’applicazione tecnica della fotografia. Siamo stati testimoni diretti delle evoluzioni che si sono susseguite, a ritmo sempre più accelerato, negli ultimi trentacinque anni. Dalla fotografia semplicemente meccanica, siamo passati all’integrazione di funzioni controllate elettronicamente, al motore di avanzamento incorporato nei corpi macchina, all’autofocus e, ovviamente, all’acquisizione digitale di immagini, che si affacciò timidamente nella prima metà degli anni Ottanta, per affrancarsi e affermarsi negli anni a seguire. La tecnologia fotografica è cambiata e si è trasformata di paripasso con analoghi scarti dell’intera società. E anche l’appuntamento con la Photokina non è quello che è stato nei decenni passati. Ovverosia, oggi non si va più alla spasmodica ricerca di novità, alcune delle quali tenute sottobanco da industrie che intendevano privilegiare soltanto identificate testate di prestigio: non c’è più nulla da scoprire e, peraltro, anche la funzione giornalistica è diversa rispetto al passato. Complice la nuova veicolazione delle informazioni, che rimbalzano in Rete, sappiamo già cosa incontreremo e dove. Volente o nolente, una certa globalizzazione delle notizie ha azzerato le attese. Allo stesso momento, la prevedibilità delle evoluzioni tecnologiche ha cancellato le sorprese: sappiamo tutti verso quali interpretazioni tecniche sta camminando la progettazione fotografica, spasmodicamente proiettata verso acquisizioni di risoluzione sempre più alta, produzione di file sempre più puliti, rapidità di azione sempre più serrate, sensori di dimensioni maggiori (il formato pieno 24x36mm è per tutti, o quasi). Quindi, la domanda è legittima: perché allestire ancora il grande e oneroso circo della Photokina. Forse, per incontrarsi tra addetti al lavoro. Probabilmente, per lanciare segnali ottimistici al mercato. Sicuramente, perché rinunciarvi è peccato. Ma, allora, qual è lo spirito giornalistico ancora capace di fare la differenza. Risposta inquietante. Proviamo a esternare la nostra: risolti i dialoghi sui massimi sistemi, quelli che richiamano l’attenzione del vasto pubblico (consumatore), noi ci muoveremo ancora tra le pieghe della Photokina, per dare spazio, senso e visibilità a quegli entusiasmi progettuali che vanno oltre i grandi numeri, e da questi stanno lontani. Mireremo all’individuazione di altri modi di intendere l’azione fotografica, per la quale la configurazione tecnica è soltanto necessaria, non sufficiente, al risultato finale, che rimane la Fotografia: la sua espressione e il suo linguaggio. Un nome sopra tutti ci è ben chiaro, ed è rappresentativo di un diversificato movimento: Vincenzo Silvestri, che quattro anni fa già elevammo a simbolo di una Photokina altra. Dove sta la differenza? Nel dimenticare il cervello, per ascoltare l’anima. Maurizio Rebuzzini

Oltre i valori tecnici delle sue produzioni fotografiche, il fiorentino Vincenzo Silvestri può essere elevato a rappresentante di una personalità che non si esaurisce con le proprie configurazioni, ma si proietta verso il senso del loro impiego: linguaggio estetico e comunicazione visiva. Così fanno altri, ognuno a proprio modo e in diversi campi fotografici d’azione. All’imminente Photokina 2008 li andremo a cercare, uno a uno.

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LE CIME DI NEW YORK

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Sopite le emozioni dei primi istanti, ai quali hanno fatto seguito le numerose edizioni librarie del primo anniversario, il ricordo dell’Undici settembre è presto rientrato nei ranghi. Tanto che, in base a regole persistenti, mai scritte ma sempre rispettate, per una eventuale consistente rievocazione fotografica dovremo aspettare il decennale 2001-2011. Per ora, in reazione all’oblio generale e generalizzato, richiamiamo la fantastica e imperdibile monografia New York, di Reinhart Wolf, che nulla ha da spartire con i tragici avvenimenti legati alla fatidica data, ma riguarda, comunque, la città dove «il grattacielo non è un elemento urbanistico, bensì una barriera all’azzurro, una raffica di fuochi d’artificio, un pennacchio sull’acconciatura di nomi definitivamente consacrati nel Gotha del denaro. Dall’asettico ufficio al cinquantaseiesimo piano si può contemplare l’immenso festival notturno di New York, nemmeno lontanamente immaginabile per chi non l’ha visto. È mineralogia titanica, infinita stratificazione prismatica di fiumi di luce: in verticale, in profondità, in saette violente come le linee del

diagramma delle temperature al capezzale d’un malato. Diamanti, innumerevoli diamanti... New York di fronte a Manhattan, pietra rosa nell’azzurro d’un cielo marino; New York, di notte, come una gioielleria illuminata» (Le Corbusier). Ancora, e prima delle fotografie di Reinhart Wolf, New York è uno spettacolo che i poeti hanno descritto con partecipe entusiasmo. È la «città di guglie e alberi maestri» di Walt Whitman. È l’assembramento di grattacieli che Henry James ha visto spuntare «come da uno stravagante puntaspilli troppo affollato». È la «musica incantatrice» che il pittore John Marin finì per udire: squilli d’arrogante superbia. A New York bisogna imparare di nuovo a vedere. Le tradizionali visioni europee qui servono a poco, o a niente addirittura; il filosofo Jean-Paul Sartre ha osservato che «New York è una città da presbiti: si può mettere a fuoco soltanto all’infinito». La vita di New York e i suoi edifici spesso traggono la propria bellezza dall’effetto complessivo, dal modo nel quale catturano l’occhio lungo il corso di una Avenue, da qualche volontaria accen-

New York, di Reinhart Wolf; prefazione di Edward Albee; testi di Sabina Lietzmann; intervista di Andy Warhol. Taschen, 2002 (distribuzione: Inter Logos, strada Curtatona 5/2, Località Fossalta, 41100 Modena; 059-412648; www.books.it); 80 pagine 20x42cm; 14,99 euro.

Le Twin Towers del World Trade Center.

tuazione dei dettagli, da qualche smagliatura nella griglia infinita delle strade (a questo proposito ricordiamo l’avvincente raccolta New York Vertical, di Horst Hamann, che l’editore tedesco teNeues ha pubblicato in tre edizioni successive: all’originaria, di 23x48,5cm, hanno fatto seguito due edizioni “ridotte” 16x33 e 10x22cm; FOTOgraphia, dicembre 2001).

ZEN E FOTOGRAFIA Come è noto, la fotogenia di New York è unica e incontestabile: tanto da creare un insieme di belle fotografie troppo uguali, troppo viste, appunto fotogeniche. Tra troppa omogeneità, il tedesco Reinhart Wolf, autentico maestro dell’impegno, tra Zen e fotografia, si è sottratto al fascino dei luccichii e alla vertigine delle prospettive dal basso o dall’alto, per concentrarsi sui singoli grattacieli, anzi, sulle cime osservate frontalmente. Cioè sulle cime sulle quali gli architetti hanno potuto sbizzarrirsi, per esprimere in maniera sontuosa la ricchezza dei committenti.

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GEOFF JUCKES

Per le sue fotografie, raccolte in un volume di grandi dimensioni, appunto New York, pubblicato in Italia da Longanesi, nel 1986, e rieditato da Taschen Verlag, nel 2002, all’indomani dell’Undici settembre, Reinhart Wolf ha usato un’attrezzatura imponente: banco ottico Sinar Norma nelle dimensioni 13x18cm, oppure 8x10 pollici (20,4x25,4cm), con lunghi obiettivi di focale da 360 a 1000mm [i sessant’anni Sinar sono ricordati su questo stesso numero, da pagina 15]. «Naturalmente è stato un lavoraccio -ha raccontato- e non solo per le cinque valigie di materiale. Ci sono volute ore, qualche volta intere giornate per convincere la gente a lasciarmi salire sui tetti. Portieri, custodi, condomini e inquilini non sempre capivano subito, spesso temevano che fossi un malintenzionato. E poi lo shock, quando dicevo “Allora va bene, domattina alle cinque”. Infatti è questa la mia ora preferita per lavorare. «Non posso lasciarmi sfuggire la luce tenue del primo mattino. E poi, pregare in ginocchio la gente dei palazzi che volevo fotografare, perché accendesse proprio certe luci di cui avevo bisogno e spegnesse tutte le altre. Quando finalmente veniva il mattino, con le condizioni meteorologiche desiderate, il mio sonnolento assistente mi lasciava con le valigie davanti al luogo prescelto e an-

Reinhart Wolf sul tetto di un edificio newyorkese. Dall’alto, in asse rispetto i soggetti, ha fotografato le cime dei palazzi della città, sulle quali gli architetti hanno potuto sbizzarrirsi, per esprimere in maniera sontuosa la ricchezza dei committenti. Il fotografo tedesco è al vetro smerigliato di un banco ottico Sinar Norma 13x18cm, che ha alternato all’8x10 pollici, inquadrando sempre con obiettivi di lunga focale, da 360 a 1000mm. Qui siamo nell’ordine di almeno 800mm, con doppia struttura di sostegno del pesante obiettivo.

Emery Roth’s Look Building, Madison Avenue.

dava a cercare un parcheggio. A quel punto ero solo, e dovevo destreggiarmi tra corridoi, scalinate, ascensori, sempre e comunque circondato dal sospetto. La gente ha subito paura, se ti vede circolare con valigie che possono contenere una bomba o una mitragliatrice, per giunta alla mattina presto. «Ma finalmente, quando tutti questi ostacoli erano superati e mi trovavo sul tetto giusto con l’inquadratura desiderata davanti a me (la distanza giusta, I’angolatura giusta, il cielo giusto), allora mi prendeva un senso di trionfo e appagamento, che confina con ciò che chiamiamo felicità. Era

come conquistare l’Everest». Mancato il 10 novembre 1988, a cinquantotto anni di età, Reinhart Wolf è stato uno dei grandi maestri della fotografia: un paziente, preciso, diligente, attento ed esigente compositore di forme, colori e luci, capace di raccontare luoghi e comporre still life nella coscienza di sé, del mondo e del tempo esistenziale (www.reihnartwolfphotoprints.com). La sua visione e interpretazione di New York toglie il fiato. È uno dei più convinti omaggi alla città, che sette anni fa ha subìto un tragico attentato (nessun giudizio politico), che ha colpito il cuore dei suoi cittadini. E quello di tutti noi. M.R.

Altro Undici settembre. Sempre attribuita a un fotografo anonimo (in origine tale per ragioni di sicurezza, e il segreto è rimasto inviolato nei decenni), questa è l’ultima fotografia del presidente cileno Salvador Allende, eletto democraticamente, che lo mostra mentre esce dal palazzo presidenziale della Moneda durante il colpo di stato militare (11 settembre 1973). Questa fotografia è stata World Press Photo of the Year 1973 ( FOTOgraphia, febbraio 2006).

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EVOLUZIONE CREATIVA. Con il nuovo Caplio GX100 Creative Set, Ricoh offre una combinazione digitale con un’ampia varietà di possibilità fotografiche e rendimento, che si distinguono da ogni altra interpretazione. Insieme alla Caplio GX100 di base (TIPA Award 2007 di categoria; FOTOgraphia, maggio 2007), il kit contiene l’esclusivo mirino LCD elettronico (VF-1), il convertitore grandangolare 0,8x (DW-6), il paraluce con adattatore (HA-2), la custodia in pelle (SC-45) e la tracolla (ST-2). Come già sottolineato, nell’approfondimento appena ricordato, dello scorso maggio 2007, al pari delle precedenti interpretazioni per pellicola 35mm, dalle quali deriva, la Ricoh Caplio GX100 è una configurazione digitale perfetta per i fotografi che intendono trasformare le proprie idee creative in immagini di qualità eccellente: sensore CCD con risoluzione di 10,01 Megapixel e caratteristiche da autentica reflex in miniatura. Grazie all’innovativo elaboratore di immagini Ricoh Smooth Imaging Engine II è possibile acquisire immagini digitali con disturbi estremamente ridotti, dettagli precisi e colori brillanti. Quindi, nel dettaglio delle pre-

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stazioni, l’ulteriore peculiarità della Caplio GX100 riguarda la sua dotazione ottica. L’efficace zoom 5,1-15,3mm f/2,5-4,4 corrisponde alla variazione focale 24-72mm della fotografia 24x36mm, che si amplia a 19mm con l’aggiuntivo grandangolare del kit (già accessorio opzionale). La sua qualità si basa sull’adozione di elementi asferici e vetri con elevato indice di rifrazione. La funzione di stabilizzazione dell’immagine nel CCD integrato riduce le conseguenze del movimento involontario al momento dello scatto, soprattutto nelle condizioni di illuminazione ridotta. Tutte le funzioni possono essere impostate automaticamente o manualmente. I comandi operativi sono pratici e funzionali, e consentono un controllo ottimale di tutte le funzioni, in qualsiasi momento. Il corpo macchina della Ricoh Caplio GX100, di soli 25mm di spessore, è solido e funzionale; i suoi materiali di alta qualità comunicano direttamente il carattere professionale di una configurazione di prima classe. In dotazione del Ricoh Caplio GX100 Creative Set, il mirino LCD elettronico inclinabile (VF-1, già accessorio opzionale) fornisce un campo visivo privo di parallasse con il cento per cento dell’inquadratura; inoltre, offre la visualizzazione simultanea di tutte le informazioni operative. È il complemento perfetto per il monitor LCD da 2,5 pollici sul retro. (Mamiya Trading, via Cesare Pavese 31, 20090 Opera Zerbo MI).

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proteggono l’attrezzatura da danni accidentali. Sei treppiedi Vanguard Alta+ in alluminio, identificati dalle sigle progressive 203AP (qui sopra), 204AP, 235AP, 263AP e 264AP, che scandiscono conseguenti prestazioni in incremento: altezza raggiungibile e capacità di sostegno. Le gambe prevedono tre angolazioni indipendenti, a 25, 50 e 80 gradi. Il doppio bloccaggio di sicurezza e l’anello anti-shock evitano possibili danni e prevengono i rischi di cadute delle apparecchiature durante il trasporto. Quindi, impugnature ergonomiche, testa panoramica con bloccaggio e pratica maniglia di trasporto. Due treppiedi Vanguard Alta+ in carbonio (224CP e 225CP), ideali per fotografia, video e birdwatching. Il nuovo tubo da 1,2mm in fibra di carbonio è realizzato con un’innovativa tecnologia a strati multipli 6x, per garantire prestazioni sicure in termini di stabilità, peso e robustezza. Abbinate a struttura e testa in lega di magnesio, le gambe prevedono tre angolazioni indipendenti, ancora a 25, 50 e 80 gradi. A completamento, Vanguard propone tre teste panoramiche fluide: PH-12, PH-22 e PH-32. (Pentax Italia, via Dione Cassio 15, 20138 Milano).

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LA CASA DEI SOGNI

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Dalla serie Dream House; 2002 (Digital Prints 63x100cm; edition of 15).

© GREGORY CREWDSON (2)

Giovane artista che vive a New York, Amalia Piccinini condivide le proprie esperienze creative, sia attive sia passive (produzione d’arte e mostre visitate), dalle pagine del sito www.flashartonline.it. La scorsa primavera, ha riferito di una mostra di Gregory Crewdson, allestita alla Luhring Augustine Gallery, al 531west della 24th street (www.luhringaugustine.com), nell’area di Chelsea, da tempo conquistata dalle gallerie d’arte e di fotografia, che si sono trasferite qui, abbandonando la precedente concentrazione tra le strade di SoHo. L’attualità di queste sue note, che stiamo per richiamare, è oggi sollecitata dalla esposizione della serie Dream House, di Gregory Crewdson, appunto, presentata a Milano, alla Galleria Photology, da metà settembre. Prima di altre considerazioni, prima di riprendere le annotazioni di Amalia Piccinini, con le quali introduciamo l’imminente passaggio milanese di Gregory Crewdson, prontamente commentato, rileviamo che in ognuno degli imponenti palazzi di Chelsea, tra la Decima e l’Undicesima Avenue, originariamente industriali, recentemente convertiti all’arte, si possono visitare decine di mostre (anche fotografiche), presentate da gallerie collocate su tutti i loro piani, in una alta densità di indirizzi coincidente con la qualità delle proposte. Riprendendo lo spirito e senso delle precedenti localizzazioni a SoHo, attorno la West Broadway, oggi l’area newyorkese di Chelsea compone una avvincente convergenza di visioni d’arte e fotografia d’avanguardia, tra le cui indicazioni si possono individuare i nomi significativi e le tendenze espressive del presente proiettato nel futuro. Altrove, sempre a New York, negli eleganti palazzi della Cinquantasettesima street, si celebra la Storia, attraverso le fotografie dei protagonisti di stagioni passate. Dalla testimonianza di Amalia Piccinini, appena ricordata: «[...] Sono sulla 24ma, e sto entrando alla Luhring Augustine Gallery, per vedere la mostra di Gregory Crewdson [...].

Nel giro di oggi non ho ancora visto nulla che mi abbia colpito, ma appena mi trovo davanti alle fotografie di [Gregory] Crewdson comincio a sentire emozioni e atmosfere interiori. «È un fotografo famoso per la sua tecnica e per la sua capacità di rappresentare il lato oscuro e onirico delle piccole città americane. Guardando queste fotografie in galleria avverto subito una tensione emotiva e un’inquietudine che ritrovo anche negli occhi e nelle espressioni di altri visitatori, che sono con me in questo momento. Le fotografie di questa

nuova serie sono tutte di grandi dimensioni e sono state realizzate negli ultimi tre anni, lavorando in quattro momenti: inverno, estate, ancora inverno e ancora estate. «Le immagini in esterno presentano figure silenziose, perse nel paesaggio, oppure riprese in piccoli interni: finestre di ristoranti, camere d’albergo, piccole case... e sono colte in momenti privati di profonda riflessione, per la quale mi sento quasi in colpa nel guardarle. Sono solitudini che non vorrebbero essere “spiate”, ma l’artista met-


© GREGORY CREWDSON

te a nudo i propri protagonisti e ci costringe a essere testimoni di tormenti e separazioni. [...] «Davanti a queste opere, è come se fossimo testimoni di un prima o un dopo, qualcosa che è accaduto nella vita di queste figure solitarie: segreti, desideri, paure. [...] Sono immagini di estrema solitudine, ma indubbiamente suggestive; immediato mi appare il paragone ai quadri di Edward Hopper, e -in modo diversoalla serie televisiva Twin Peaks, del regista David Lynch, dove con angoscia seguivo o “spiavo” quegli strani cittadini di un’America inquietante e misteriosa. Mi viene in mente anche un paragone più recente, il film del regista Gus Van Sant Paranoid Park: anche qui, un adolescente ripreso in scene diurne e notturne nella propria solitudine e nel terrore di convivere con un terribile segreto privato. «Queste fotografie di Gregory Crewdson sono da non perdere». Il suggerimento conclusivo di Amalia Piccinini, contattabile all’indirizzo amaliapiccinini.ny@gmail.com, si allunga all’allestimento milanese di Dream House, che replica le note identificative della fotografia di Gregory Crewdson, nato a Brooklyn, nel quartiere di Park Slope (spesso accostato al cinematografico Smoke), nel settembre 1962. Le note biografiche dell’autore rilevano sempre che da ragazzo ha fatto parte del gruppo punk rock The Speedies, che nel 1979 raggiunse una certa notorietà con il motivo Let Me Take Your Photo (Permettimi di scattarti una fotografia), che oggi viene considerato profetico per il percorso esistenziale ed espressivo dello stesso Gregory Crewdson. [Nota parallela: nel 2005, la canzone è stata utilizzata da HP/Hewlett Packard per promuovere una propria compatta digitale]. Comunque, e proseguendo, registriamo che l’avvicinamento di Gregory Crewdson alla fotografia ha seguìto un percorso standard per le culture anglosassoni (e dintorni). Nulla di casuale o autodidattico e autoreferente, ma rigoroso percorso scolastico finalizzato (appunto alla fotografia espressiva): dal Purchase College, frequentato negli anni Ottanta, alla Yale School of Art, presso la Yale University, dove ha ot-

Dalla serie Dream House; 2002 (Digital Prints 63x100cm; edition of 15).

tenuto un Master in belle arti. In seguito, ha insegnato presso il Sarah Lawrence, il Cooper Union, il Vassar College e alla Yale University, dove ha tenuto una cattedra fino al 1993. Oltre che dalla citata Luhring Augustine Gallery di New York, la fotografia di Gregory Crewdson è rappresentata dalla londinese White Cube Gallery. In Italia, prima dell’imminente appuntamento, Gregory Crewdson è stato recentemente presentato al Palazzo delle Esposizioni di Roma, dove è stata allestita una significativa quantità e qualità di opere: dallo scorso diciannove dicembre al successivo due marzo di quest’anno, tappa di un itinerario internazionale. In quell’occasione, a cura di Stephan Berg, è stato composto un percorso artistico aggiornato. In retrospettiva, dalle prime opere della fine degli anni Ottanta, oggi identificate come Early Work, si è approdati alla più recente serie Beneath the Roses, del 2003-2005, attraversando tutti gli anni Novanta di Natural Wonder, Twilight e Dream House. Proprio Dream House (2002) è di scena alla Galleria Photology di Milano, da metà settembre. Si tratta di una serie che, insieme a Beneath the Roses, richiama un approccio quasi cinematografico, in chiave fotografica. Ambientate nell’America suburbana, rivelano come citazioni, riferimenti e motivi ispiratori più immediati i film e i miti hollywoodiani e, secondo critiche accreditate, si rifanno al saggio sul perturbante di Sigmund Freud, Das Unheimliche (1919). In una casa non abitata del Vermont, dove tutto è rimasto come quando il proprietario era in vita, le

complesse messe in scena di Dream House sono state realizzate con la partecipazione di attori-complici (tra i quali, Tilda Swinton, Julianne Moore, Philip Seymour Hoffman, William H. Macy e Gwyneth Paltrow). Allineato su altre influenze individuate nella storia della fotografia statunitense, soprattutto di quella documentaria, con un concentrato utilizzo di luci teatrali e impiego di elementi fantastici e soprannaturali, e con uno stile largamente narrativo, Gregory Crewdson porta ancora più avanti la tradizione della staged photography, avviata da artisti come Cindy Sherman e Jeff Wall, e che è ormai considerata una delle modalità espressive più performanti della fotografia espressiva contemporanea. Dream House compone così una storia alla David Lynch, carica di mistero e inquietudine: dodici visioni stampate in grandi dimensioni, che formano un’unica opera. A completamento, la Galleria Photology presenta anche una serie di fotografie di backstage. Con l’occasione, il volume-catalogo, edito dalla stessa Galleria, si completa con testi dell’autore, di Kathy Ryan, photo editor del New York Times, che ha collaborato al progetto, e dell’attrice Tilda Swinton, che vi ha partecipato. A.G. Gregory Crewdson: Dream House. Photology, via della Moscova 25, 20121 Milano; 02-6595285, fax 02-654284; www.photology.com, photology@photology.com. Dal 18 settembre al 22 novembre; martedì-sabato 11,00-19,00. Mercoledì 17 settembre, dalle 18,30, booksigning con l’autore.

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Ecco l’occasione per raccontarvi al mondo Con i fatti che succedono intorno a voi Con gli argomenti che alimentano le vostre passioni Per condividere fantasia e interessi con il mondo intero

Dal 1969 Si accettano le iscrizioni inviate per posta ordinaria o tramite Internet

Richiedete il modulo d’iscrizione

Ogni partecipante può sottoporre fino ad un massimo di 8 immagini: 2 per ciascuna delle 2 categorie, inviate sotto forma di stampe via posta ordinaria, e 2 per ciascuna delle 2 categorie inviate sotto forma di file JPEG via Internet. Iscrizione: 1° settembre – 30 novembre 2008 Criteri di accettazione: Tutti i fotografi, professionisti o amatori, di tutto il mondo.

Per maggiori dettagli, visitate www.nital.it

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SESSANTA ANNI SINAR

P

esclusive prerogative tecniche (più di quante si può immaginare), fu Marco D’Atti, ai tempi titolare di Mafer, importatore Sinar in Italia dai primi anni Settanta (succeduto alla genovese Ippolito Cattaneo), lungimirante personalità del mercato italiano della fotografia professionale, venuto a mancare all’alba dell’edizione di FOTOgraphia, sul cui primo numero l’abbiamo ricordato con commozione e sincera amicizia.

LUCA VENTURA (2)

Per un certo periodo della mia vita professionale, sono stato molto vicino a Sinar, nobile produzione svizzera di apparecchi grande formato: i primi e gli unici che non sono stati soltanto tali -grande formato, appunto-, ma hanno incluso regolazioni configurate su base efficacemente geometrica. Complice e intermediario di questa comunità di intenti, tra le esigenze commerciali originarie di Sinar e la valorizzazione delle sue

Questa Sinar Norma, nostra personale, databile al 1962, quattordici anni dopo la presentazione del 1948, dalla quale conteggiamo gli attuali sessant’anni, è rappresentativa delle origini. Per venti anni abbondanti, fino alla Sinar-p del 1970, la Norma è stata sinonimo di banco ottico pratico, agevole e, soprattutto, modulare. Addirittura, gli elementi qualificanti sono sempre utilizzabili su tutti i modelli a seguire, fino alle odierne configurazioni digitali.

Così che, nell’attuale ricorrenza dei sessant’anni di produzione Sinar, conteggiati dalla configurazione originaria del 1948, successivamente identificata come Sinar Norma, torno al ricordo di due precedenti anniversari tondi, entrambi fastosamente celebrati a Schaffhausen, all’estremo nord della Svizzera, città natale sia della stessa Sinar sia della famiglia Koch che l’ha fondata e gestita per generazioni successive. Nel 1988, i quarant’anni Sinar coinvolsero soprattutto i distributori internazionali, convenuti in Svizzera alla vigilia dell’appuntamento con la Photokina di Colonia. Tra i pochi giornalisti invitati, oltre gli appuntamenti istituzionali e di rito, trascorsi piacevoli giornate con Marco e Franco D’Atti: e la rievocazione mi emoziona ancora oggi. Erano anni diversi dagli attuali, anche se all’orizzonte si profilavano già quei cambiamenti che avrebbero stravolto il nostro mondo, rivoltandolo come un guanto (tanto che, proprio in quella occasione, Hans-Carl Koch, allora ai vertici aziendali, presentò un’ipotesi futuribile di fotografia professionale senza pellicola fotosensibile). E i cambiamenti che si sono succeduti e sommati non hanno trasformato soltanto l’approccio tecnico all’esercizio della fotografia; ben più nel profondo, ne hanno modificato la struttura e socialità, sostituendo alla radice ogni comportamento precedente. Infatti, già alla successiva celebrazione dei cinquant’anni, nel settembre 1998, una volta anco-


La Sinar p2, del 1984, è un banco ottico spartiacque. La sua meccanica deriva direttamente dal precedente progetto Sinar-p (1970) e le sue prestazioni si sono proiettate in avanti. A quarant’anni dalle origini, dal 1988 la versione Sinar e(lettronica) aprì le porte alla tecnologia digitale di acquisizione delle immagini: Sinarcam (1996; FOTOgraphia, aprile 1997), Sinarback (1998), Sinar p3 (2002; FOTOgraphia, giugno 2002) e Sinar m (2003).

Sinar ha ottenuto sei TIPA Award di categoria, relativi alle proprie interpretazioni per l’acquisizione digitale di immagini: 2000, Sinar Macroscan; 2002, Sinar p3; 2004, Sinarback 54M; 2005, Sinarback eMotion22; 2006, Sinar m; 2008, Sinar Hy6.


ra in coincidenza di date con l’inizio della Photokina, tutto è stato diverso. Ancora parte del selezionato gruppo di giornalisti invitati, non ho di certo respirato la magica atmosfera di dieci anni prima, ormai dissolta dai venti di una innovazione forsennata (e spesso suicida). Ne convenimmo con Franco D’Atti, a Schaffhausen con il nipote Roberto, figlio di Marco al quale mi sono richiamato in attacco. I sessant’anni Sinar arrivano oggi in un tempo nel quale la fotografia professionale manifesta soprattutto contraddizioni nei termini, tanto che non si riescono più a scandire passi tecnici un tempo significativi. In epoca di

acquisizione digitale di immagini, pare che conti soltanto la risoluzione e qualcosa di contorno: e allora, senza soluzione di continuità, sono potenzialmente professionali le dotazioni che partono dalle configurazioni reflex 35mm ai dorsi per medio e grande formato. Ancora senza soluzione di continuità, dalla fotografia del reale alla sala di posa. Non accendo un dibattito al proposito, nel quale non voglio coinvolgere nessuno e neppure essere coinvolto. Soltanto non credo che sia tutto così semplice, anche se riconosco che la capacità di distinguere una prestazione professionale di sala di posa sia oggi estremamente eterea, se

non inesistente. Così che, ne sono perfettamente consapevole, gli attuali impulsi tecnologici della fotografia dei nostri giorni stanno per seppellire, se non l’hanno già seppellita, la lunga e gloriosa storia dei corpi mobili di controllo della prospettiva e distribuzione ottimale della nitidezza.

S-I-N-A-R Alla fine dei luminosi anni Quaranta, in un momento nel quale tutto il comparto fotografico rivelò straordinarie intuizioni, voglie e capacità inventive (Nikon, Hasselblad, Polaroid, Rectaflex, San Giorgio Janua, ma anche Magnum Photos), il fotografo svizzero Carl Koch, erede di una dinastia di

SESSANT’ANNI IN MOSTRA

A

ttenta istituzione museale, che procede a passi ben cadenzati, uno dopo l’altro, con un ritmo che non offende i tempi, il Musée suisse de l’appareil photographique dedica ai sessant’anni Sinar una significativa retrospettiva, didascalicamente intitolata Sinar a 60 ans. La selezione di apparecchi fotografici e immagini storiche si accompagna con una mostra fotografica di appoggio e supporto: Un photographe et sa Sinar - Ambroise Tézenas: Pékin, théâ-

tre du peuple (facile: Un fotografo e la sua Sinar Ambroise Tézenas: Pechino, teatro del popolo). Quindi, rievocazione storica a celebrazione di un consistente anniversario e qualificata testimonianza di uso. In una successione di cinque visite nella capitale cinese, Ambroise Tézenas ha registrato le trasformazioni radicali della città, nella propria corsa verso le Olimpiadi 2008 (dello scorso agosto): inevitabili lavori in corso, innumerevoli cantieri, centinaia di gru, una ininterrotta sequenza di enormi grattacieli moderni. Nella Pechino del Duemila soltanto la presenza umana non cambia, e si affaccia in queste immagini come vago richiamo in sottofondo. Un teatro sul cui palcoscenico si sta recitando un copione persino tragico. Ambroise Tézenas ha scattato con un apparecchio grande formato Sinar 4x5 pollici a banco ottico (10,2x12,7cm), rigorosamente fissato su treppiedi. Con questo progetto fotografico ha vinto il Leica European Publisher’s Award for Photography 2006, che gli è valso la pubblicazione in volume (in Italia: Pechino, teatro del popolo; Peliti Associati; 112 pagine 29,5x27cm, cartonato con sovraccoperta; 40,00 euro). A completamento, ricordiamo che nello stesso periodo espositivo il Musée suisse de l’appareil photo-

graphique presenta anche una personale di Yvan Dalain, straordinario interprete svizzero della street photography, mancato nel settembre 2007. ❯ Sinar a 60 ans. Dall’11 settembre al 4 gennaio 2009. ❯ Un photographe et sa Sinar - Ambroise Tézenas: Pékin, théâtre du peuple. Dall’11 settembre al 4 gennaio 2009. ❯ Yann Dalain. Dall’11 settembre al 15 marzo 2009. Musée suisse de l’appareil photographique, Grande Place 99 (ruelle des Anciens-Fossés 6), CH-1800 Vevey, Svizzera; 0041-21-9252140, fax 0041-21-9216458; www.cameramuseum.ch, cameramuseum@vevey.ch. Martedì-domenica e lunedì festivi 11,00-17,30. Da Un photographe et sa Sinar Ambroise Tézenas: Pékin, théâtre du peuple: Hutong No 1; 2002.

Da Sinar a 60 ans: sessione fotografica nella Bullinger-Kirsche di Zurigo, per conto della fabbrica di mattoni Ziegelei Paradies (1956). Tre apparecchi a banco ottico Sinar Norma sono attivati simultaneamente con un’unica emissione lampo al magnesio. Agli otturatori, da sinistra: Rolf Wessendorf, Dieter Bolt e Carl Koch.

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dettagli, e datiamo l’edificazione della fabbrica di Feuerthalen, sull’altro lato del Reno, al 1968, in tempi di Sinar-p, la prima espansione dell’edificio alla metà dei Settanta e il terzo ampliamento alla fine degli Ottanta. Sempre impresa a conduzione familiare, dalla seconda metà degli anni Settanta la Sinar è passata sotto la direzione di Hans-Carl Koch, figlio di Carl, che successivamente è stato affiancato dal proprio figlio Carl-Hans, ritiratosi due anni fa, quando l’azienda è stata travolta e coinvolta in trasformazioni societarie (per le quali si affacciò anche un’ipotesi di acquisizione e controllo da parte di Leica).

CORPI MOBILI Mancato a fine del 2005 (FOTO graphia, febbraio 2006), Carl Koch va celebrato come una delle personalità fondamentali della moderna tecnologia fotografica applicata: lo facciamo ora e qui, in occasione dei sessant’anni dall’originaria Sinar Norma del 1948. Ma, soprattutto, esortiamo chi di dovere a non permettere che la sua personalità venga dimenticata, nel turbinio delle impellenze quotidiane. Non sappiamo prevedere quanto del valore di Carl Koch resterà impresso nel futuro della fotografia professionale, il cui mondo è ormai edificato soprattutto sulle esili affermazioni del moderno marketing, che tutto vede e a poco provvede. Però, sappiamo quanto tanto c’è nel nostro presente di un passato che a conti fatti ci ha arricchiti un poco tutti. Carl Koch è stato uno di quei personaggi di statura, che incarnano in sé la genialità del semplice, o la semplicità del geniale. Le sue realizzazioni tecniche hanno rappresentato la più clamorosa e autentica svolta nella fotografia professionale moderna, che è diventata tale -moderna- anche grazie alle sue intuizioni. Soprattutto, dobbiamo ricordare che l’impronta Koch-Sinar ha modificato ogni precedente concetto di apparecchio grande formato, che grazie alla Norma originaria soltanto dall’inizio degli anni Cinquanta può declinare i concetti di modularità

GEOFF JUCKES

professionisti, presentò la propria interpretazione del banco ottico grande formato, che si rivelò subito folgorante e avvincente. In una realtà nella quale nulla era cambiato dalla notte dei tempi, l’originaria Sinar (allora acronimo di Studio INdustria ARchitettura; quindi, Studio Industria Natura Architettura Riproduzione dalla Sinar p2, del 1984) impose i tratti e termini della propria autentica differenza: leggera, semplice nelle regolazioni e, soprattutto, modulare. Al pari di pochi altri esempi fotografici (Nikon? Hasselblad?), ancora oggi, in epoca multidigitale, si possono intercambiare tra loro gli elementi basilari del sistema realizzati nei decenni della lunga storia (sessant’anni: 1948-2008). Fotografo di terza generazione, nel 1947 il trentunenne Carl-Hans Koch, generalmente chiamato solo Carlo Koch, subentrò al padre Hans-Carl, scomparso prematuramente, nell’attività professionale avviata dal nonno Carl August a Schaffhausen, all’estremo nord della Svizzera, sul confine con la Germania. Membro attivo del comitato centrale dell’Union Suisse des Photographes e membro della commissione di esperti per l’esame di diploma, a quei tempi Carl Koch divideva il proprio tempo lavorativo tra la conduzione del negozio-studio, specializzato nel ritratto e nella fotografia di panorama, e la progettazione di un apparecchio grande formato che fosse più pratico e agevole di quelli allora in commercio. I primi brevetti depositati datano al 1947, e il sistema Sinar fu avviato nel successivo 1948. Per una decina di anni, Carl Koch continuò a scomporsi tra l’attività professionale vera e propria e la neonata produzione fotografica. Soltanto nel 1958, le esigenze industriali ebbero il sopravvento, e Carl Koch cedette lo studio (rilevato dall’assistente Rolf Wessendorf, che ancora oggi è attivo a Schaffhausen), per dedicarsi completamente alla produzione e commercializzazione degli apparecchi Sinar. Da qui, superiamo molteplici

Reinhart Wolf durante le riprese per il suo progetto su New York, pubblicato in monografia (su questo stesso numero, da pagina 8): banco ottico Sinar Norma 13x18cm e lungo obiettivo di almeno 800mm di focale, con doppia struttura di sostegno.

ed efficienza a tutto campo. Dopo la Norma, è stato progettato messo a punto uno straordinario banco ottico a corpi mobili con movimenti razionali di basculaggio. Invece delle rotazioni di basculaggio casuali, la Sinar-p e, in subordine, anche la semplificazione Sinar-f adottarono regolazioni geometriche ragionate, tutte finalizzate al massimo e più proficuo controllo dell’estensione della nitidezza del soggetto inquadrato. Per quanto la Sinar Norma originaria avesse già stabilito concetti innovativi, la nuova era della fotografia grande formato fu avviata, dalla fine degli anni Sessanta, con il progetto Sinar-p dell’asse di basculaggio asimmetrico giacente sul piano focale, dal quale sono poi nate le evoluzioni meccaniche Sinar p2, Sinar e(lettronica) e Sinar x, e da qui sono state elaborate le attuali configurazioni per l’acquisizione digitale di immagini. Da tempo, non si può più parlare e scrivere di fotografia realizzata con apparecchi di grande formato, e neppure si può entrare nei dettagli dell’accomodamento ragionato dei corpi mobili (come abbiamo invece fatto nei primi anni di FOTOgraphia, approdando anche a visioni, soluzioni e interpretazioni personali). Certamente questo è un modo di intendere la fotografia che si sta perdendo, o, quantomeno, per perdere. Sopravvivono resistenze, ma il destino è segnato. Alla ricorrenza dei sessant’anni Sinar, tutto è cambiato, anche solo rispetto la celebrazione dei primi quaranta. M.R.



FOCUS E KOUDELKA. Tra le nostre massime soddisfazioni, c’è il dare onore al merito. Quando ci capita di poterlo fare, ci pare di vivere in una società migliore. Dunque, onore al merito della rivista Focus, a Sandro Boeri, direttore intelligente, e a Mariella Sandrin, photo editor attento e puntuale. Ovviamente, la notizia non riguarda tanto la pubblicazione di fotografie di Josef Koudelka dell’invasione di Praga (FOTOgraphia, giugno 2008), quanto il fatto di pubblicarle in una rivista che si rivolge ai giovani (in alto).

FOTOGRAFIA E INFORMAZIONE. Sempre della serie “onore al merito”, a chi non lo conoscesse, vogliamo segnalare un ottimo sito, sempre aggiornato sul fotogiornalismo: www.fotoinfo.net (qui sotto). Il sito è l’organo di informazione della Associazione Italiana Giornalisti dell’Immagine. Il direttivo è così composto: Marco Vacca (presidente), Marco Capovilla (vicepresidente), Leonardo Brogioni, Carlo Cerchioli (tesoriere), Federico Della Bella e Matteo Bergami-

Nelle fotografie di Josef Koudelka, l’invasione sovietica di Praga, dell’estate 1968, su Focus di agosto.

ni. Fondamentale l’impegno di questa associazione per l’etica nel fotogiornalismo.

Copertina/e di Vogue Italia dello scorso luglio, che approfondisce le problematiche della moda interpretata con e da modelle di colore. Il definito A Black Issue si è presentato con quattro facciate ripiegate: a pagine dispiegate, si ottiene una continuità con i ritratti di Liya Kebede, Sessilee Lopez, Jourdan Dunn e Naomi Campbell, realizzati da Steven Meisel. Il New York Times ha commentato il Black Issue, elogiandolo.

Ancora per “onore al merito”, segnaliamo che lo scorso luglio, mentre imperversava la polemica sui provvedimenti nei confronti degli immigrati (quelli di colore, naturalmente, più quelli che vengono dall’Est europeo), Vogue Italia è arrivata in edicola con un numero geniale, un numero nero, che attira l’attenzione del pubblico sulle modelle di colore, sui loro problemi e i loro meriti. La copertina composita, dedicata a Liya Kebede, Sessilee Lopez, Jourdan Dunn e Naomi Campbell, si prolunga su quattro facciate, ripiegate una sull’altra per dare un risultato, a pagine dispiegate, di una continuità 75x27,5cm (in basso). A Black Issue è lo strillo di richiamo, seguito dai nomi di molte delle modelle fotografate. L’iniziativa è stata ripresa anche dal New York Times, che giustamente la elogia (qui sotto). I ritratti di copertina sono di Steven Mei-

Ottimo sito, sempre aggiornato sul fotogiornalismo: www.fotoinfo.net, organo di informazione della Associazione Italiana Giornalisti dell’Immagine.

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VOGUE: UN NUMERO DEDICATO ALLA BELLEZZA NERA.

sel per Vogue Italia. Dunque, complimenti e congratulazioni al direttore, Franca Sozzani. Un unico appunto: non si poteva anticipare il cuore del giornale? Il Black Issue è presentato da pagina 219, e veramente bisogna essere determinati per andarselo a trovare. Da pagina 219, per più di altre cento pagine, segnaliamo due richiami: un ricordo dedicato agli stilisti Yves Saint Laurent e Paco Rabanne, che furono i primi a mandare in passerella modelle di colore, negli Anni Sessanta, e un articolo che racconta dei problemi e pregiudizi che le modelle di colore devono affrontare ancora oggi. Le fotografie di queste pagine sono quasi tutte di Steven Meisel. Ma sono presenti brevi servizi di Patrick Sauteret, Guy Bourdin, Steven Klein; per chiudere con un portfolio di immagini firmate da Herb Ritts, Michel Comte, Bruce Weber, Peter Lindbergh e Bardo Fabiani.

MENAR VANTO DI MERITI CHE NON SI HANNO. Circa a metà dello scorso luglio, su Radio24, la bella emittente del Sole 24 Ore, sentiamo Pierluigi Vercesi, un bravo giornalista, pubblicizzare il numero di agosto dei Viaggi del Sole, del quale è direttore responsabile, dedicato a Pechino, argomento di attualità per via delle Olimpiadi (pagina accanto). Pierluigi Vercesi afferma che: «abbiamo mandato i nostri giornalisti e i nostri fotografi a Pechino, per raccontarvi cosa succede oggi laggiù».


Conoscendo le vecchie e becere abitudini del giornalismo italiano, di menar vanto di meriti che non si hanno, compero il numero, ahimé 6,90 euro, quasi quattordicimila delle vecchie lire. Bene: non sembra proprio che ci sia neppure un servizio commissionato. Sappiamo tutti come sono realizzati questi allegati, di corsa e al risparmio: figurati se si commissiona qualcosa. Questi allegati sono pubblicati solo per aver pagine sulle quali sistemare pubblicità. Abbiamo voluto approfondire. Non abbiamo telefonato a Pierluigi Vercesi, ma siamo andati negli archivi per vedere le date dei servizi: tutto materiale bello, ma datato; sicuramente non realizzato appositamente. Se il direttore dei Viaggi del Sole vuole risponderci, saremo lieti di pubblicare il suo punto di vista.

PREMI VISA 2008. Chi segue attentamente l’avvenimento, e le sue anticipazioni, sa già tutto. Sulle nostre pagine, potremo parlare della ventesima edizione di Visa pour l’Image soltanto dopo ottobre, forse già ad ottobre. Intanto, un nuovo aggiornamento, successivo alle note riportate in FOTOgraphia dello scorso luglio. Il venticinque giugno, una giuria composta da Armelle Canitrot (La

Accreditato dal vantato invio di giornalisti e fotografi in Cina, il numero di agosto dei Viaggi del Sole è invece realizzato con solo materiale di archivio. Pechino è già argomento di attualità, per via delle Olimpiadi; dunque, che bisogno c’è di menar vanto di meriti che non si hanno? (a destra) In Bass@no news, l’ennesimo allegro furto di immagini, riprodotte da un manuale di viaggio (di Lello Piazza), del 1996.

(in basso, a sinistra) Brenda Ann Kenneally, Prix Canon de la Femme Photojournaliste a Visa pour l’Image 2008. Wasif Munem, venticinque anni, dell’Agenzia VU, ha ottenuto il Prix Jeune Reporter di Visa pour l’Image 2008 per un reportage dedicato al suo paese, il Bangladesh.

Croix), Cyril Drouhet (Figaro Magazine), Ayperi Ecer (Reuter, Parigi), Ruth Eichhnorn (Geo Germania), Catherine Lalanne (Afj - Association de Femmes Journalistes), Delphine Lelu (Visa pour l’Image), Moïra Sauvage (Afj) e Marc Simon (VSD) ha assegnato a Brenda Ann Kenneally il Prix Canon de la Femme Photojournaliste 2008. Il premio di ottomila euro aiuterà la fotografa a realizzare il suo progetto Upstate Girls: what became of Collar city, che si ispira alla cittadina di Troy (Stato di New York), nella quale, per opera di Kate Mullany, nel 1864, fu fondato il primo sindacato femminile americano, la Collar Laundry Union. Se capisco bene, Brenda Ann Kenneally contrappone la fierezza delle donne americane dell’Ottocento con la disperazione rinunciataria che sembra prevalere tra le donne povere degli Stati Uniti di oggi. Oltre a insegnare all’International Center of Photography di New York, la quarantanovenne Brenda Ann Kenneally (in basso, a sinistra) è un fotogiornalista free lance. Con una fotografia dal titolo Upstate Girls, ha vinto il primo premio nella categoria Community Awareness, nell’edizione 2006 del PoYi (Pictures of the Year International Competition, della cui più recente edizione abbiamo riferito in FOTOgraphia dello scorso aprile). Il Prix Canon de la Femme Photojournaliste le sarà consegnato il sette settembre, a Perpignan, nell’ambito della settimana professionale di Visa pour l’Image 2008. Allo stesso momento, registriamo che il Prix Jeune Reporter è stato assegnato al bengalese Wasif Munem, venticinque anni, dell’Agenzia VU, per un reportage dedicato al suo paese, il Bangladesh (qui sotto).

RAPINA CONTINUA. Chi fa l’editore dovrebbe sapere che rubare è reato. E che non si può rubare lasciando un biglietto con scritto: abbiamo preso questo oggetto; non siamo riusciti a contattare il proprietario, ma se si farà vivo siamo disposti a pagarglielo. Che è l’equivalente di: non è stato possibile contattare tutti gli autori delle fotografie; l’editore ottempererà agli obblighi di legge con gli aventi diritto che si mettano in contatto con la nostra casa editrice. Chissà quanti di questi furti ci sfuggono? Saranno centinaia, ma che dico?, migliaia, ma che dico?, milioni! Intanto eccone uno recente, di un editore veneto, L’Editrice Artistica Bassano. Il periodico è Bass@no news, bimestrale distribuito gratuitamente (in alto). La rubrica è tenuta da un amico, Paolo Bittante, che probabilmente è convinto di farmi un favore, segnalando un mio antico libro del 1996 dedicato alla fotografia di viaggio. Certo, lo ringrazio, ma non si possono acquisire le fotografie dal libro e illustrare un articolo, neppure se lo stesso libro è citato. Menzionare un libro è un favore per l’editore e gli autori, usare le fotografie è un danno per i fotografi. L’unico modo di mostrare immagini pubblicate in un libro è quello di fotografarlo aperto, nelle pagine che interessano. Così si documentano le immagini nel proprio contesto editoriale. Nell’altro modo si usano le immagini senza permesso.

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LA VII CAMBIA STRUTTURA. L’Agenzia VII, della quale abbiamo riferito in diverse occasioni (soprattutto nel settembre 2002 e febbraio 2004), ha recentemente optato per una nuova organizzazione dei propri fotogiornalisti. Nella newsletter dello scorso luglio, l’Agenzia comunica che accanto ai lavori dei membri (tra i quali è recentemente entrato l’italiano Franco Paggetti) distribuirà i reportage di un certo numero di fotogiornalisti particolarmente dotati. Le due entry più recenti sono Jocelyn Bain Hogg e Stefano De Luigi. Jocelyn Bain Hogg (www.jocelynbainhogg.com) ha iniziato la carriera studiando Documentary Photography alla Newport School of Art Media and Design, nel Galles. I suoi lavori sono stati pubblicati da Vogue, Elle, Harper’s Bazaar, Vanity Fair, The Sunday Times, The Independent, The Observer, Marie Claire, Stern, GQ, Esquire, Le Monde e La Repubblica. Oggi è anche professore visitatore di fotogiornalismo presso il London College of Communication. Stefano De Luigi (www.stefanodeluigi.com) è uno dei grandi giovani fotografi italiani (in alto). I suoi lavori appaiono regolarmente su Stern, Paris Match, Le Monde, Time e The New Yorker. Ma è meglio conosciuto per i suoi progetti a lungo termine, come Pornoland (Contrasto Editore; 60 fotografie; 112

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Il bravo Stefano De Luigi sarà distribuito internazionalmente anche dall’Agenzia VII, che da luglio ha allargato oltre i lavori dei propri membri.

pagine 23x29cm; 25,00 euro; vincitore del Premio Marco Bastianelli 2005) e Cecità, prodotto con il contributo dello Eugene Smith Fellowship Grant del 2007 e il supporto di Vision 2020 (una campagna internazionale che si prefigge l’eliminazione delle principali cause di cecità nel mondo entro il 2020). Stefano De Luigi è attualmente impegnato in un nuovo progetto, Cinema Mundi, che si occupa del cinema alternativo. Ha prodotto un corto di sette minuti, che è stato presentato al Festival del Cinema di Locarno del 2007.

Ignoti writer hanno imbrattato più volte una delle grandi affissioni di Armani, nel centro di Milano.

LA FOTOGRAFIA COME ILLUSTRAZIONE. Nei giornali, si sen-

Copertina dell’Espresso dello scorso ventisei giugno, che illustra il concetto del doppio gioco (credito: Augusto Casasoli e Antonio Scattolon / A3). Doppia pagina di Geo Germania (luglio 2008), dedicata all’inconscio.

te sempre di più l’esigenza di utilizzare fotografie, o immagini che appaiono tali, per illustrare concetti eterei, come la libertà, la solitudine, il doppio gioco, l’avarizia, lo stress. Recentemente, ce lo ha confermato Ruth Eichhorn, capo dei photo editor di Geo Germania, ma è facile convincersene sfogliando i periodici italiani. In questo senso, la manipolazione digitale, facile e immediata, svolge un ruolo decisivo, perché permette di

combinare con un effetto realistico assoluto pezzi di fotografie di varia provenienza, per costruire un risultato che appare come uno scatto vero e proprio. Ne presentiamo due esempi: la felice copertina dell’Espresso dello scorso ventisei giugno, che illustra il concetto del doppio gioco (credito: Augusto Casasoli e Antonio Scattolon / A3; a sinistra, al centro) e una bella doppia pagina del numero di giugno di Geo Germania, dedicata all’inconscio (a sinistra, in basso). I nostri fotogiornalisti dovrebbero diventar bravi anche in questo.

LA PUBBLICITÀ CONTESTATA DI ARMANI. In piena bagarre sul piano della pubblicità a Milano, presentato dall’assessore all’Arredo urbano Maurizio Cadeo, che prevede la scomparsa delle grandi affissioni dalla zona del Duomo e dintorni (bagarre che si è manifestata anche con attacchi dai compagni di maggioranza dell’assessore, contrari all’iniziativa), si è registrata l’azione di ignoti writer, che hanno imbrattato più volte uno dei grandi manifesti che Giorgio Armani presenta periodicamente nello slargo tra via Broletto, via dell’Orso e via Cusani, sempre a Milano (la cui lunga storia, avviata nel 1984, è stata documentata da Angelo Mereu, così come l’abbiamo presentata in FOTOgraphia del giugno 2004). Si tratta della gigantesca affissione che mostra il calciatore inglese David Beckham in mutande (in alto). Per la verità sembra più un manifesto Dolce&Gabbana, che non Armani. Ora, è legittimo chiedersi: a quando la pubblicità della mutanda col buco? E pensare che ci siamo battuti per la libertà sessuale: autocritica! autocritica! A cura di Lello Piazza


Aver scelto una reflex digitale Nikon significa voler raggiungere livelli superiori di qualitĂ e prestazioni. Ma per ottimizzare tutti gli aspetti della tua fotocamera e raggiungere la perfetta combinazione di performance è necessario disporre di ottiche di altissimo livello.In questo caso, la scelta ha un solo nome: Nikkor. PerchĂŠ? Perchè soltanto le ottiche Nikkor sono progettate appositamente per gli apparecchi Nikon di oggi e di domani, sulla base di conoscenze e specifiche disponibili soltanto al nostro interno. Solo Nikon può fornire tale tipo di sicurezza e competenza. Gli obiettivi Nikkor, sinonimo di qualitĂ ottica, oltre ad utilizzare le materie prime migliori, di avvalersi dei procedimenti piĂš avanzati e delle tecniche progettuali piĂš sofisticate, incorporano un microprocessore che lavora in abbinamento al sistema computerizzato del corpo camera Nikon AF, per lo scambio delle informazioni che assicurano una messa a fuoco rapidissima, la misurazione Matrix dell’esposizione, il fill-flash bilanciato e le altre innovazioni funzionali che caratterizzano le reflex Nikon. Obiettivi Nikkor: gli unici a permetterti di sfruttare al massimo le potenzialitĂ della tua reflex Nikon.

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Dopo aver scelto una grande reflex, ti accontenti di un obiettivo qualunque?



È DI SCENA TOTÒ

A

Ai propri tempi, non sempre adeguatamente considerato dalla critica cinematografica, Totò è stato riabilitato in momenti successivi, nella propria sostanza addirittura recenti. In particolare, oggigiorno non si tiene più conto della povertà di molte delle sceneggiature dei tanti film nei quali ha recitato, ma soltanto della sua capacità interpretativa,

In Miseria e nobiltà, lo sketch di Totò-fotografo inizia quando due sposini in viaggio di nozze gli chiedono una fotoricordo.

per la quale si pone l’accento soprattutto su un riconosciuto estro di improvvisazione in scena, con la quale Totò sarebbe brillantemente uscito da insidiosi vicoli ciechi. Ma non è questo che ci interessa, qui e oggi, per quanto ci incuriosisca in altri momenti della nostra esistenza. Invece, e nello specifico, in compagnia di Totò continuiamo a passeggiare lungo il confortante sentiero che abbiamo tracciato da tempo, definito dalla classificazione e commento della presenza della fotografia nel cinema. In particolare, con la segnalazione dello sketch di Totò-fotografo nel film Miseria e nobiltà, ancora oggi riferiamo una osservazione di dettaglio, che a proprio modo contribuisce a definire la consistenza del fenomeno. Insieme a tante altre già ospitate sulla rivista, e ad altrettante che ospiteremo nei mesi a seguire, questa odierna è una segnalazione sfumata nella propria apparenza, ma sostanziosa nel contenuto. Dopo aver ampiamente risolti i richiami di più alto profilo, come lo sono quelli nei quali la fotografia è intrigante protagonista della vicenda narrata dal film (da Blow up a La finestra sul cortile, da Il favoloso mondo di Amélie a Pretty Baby, da La dolce vita a Occhio indiscreto, da One Hour Photo a Flags of Our Fathers, Fur e tanti altri ancora), ulteriori minuzie forniscono giusto quell’indispensabile contorno che estende il campo delle considerazioni, allargando i confini di una combinazione (appunto fotografia al cinema) ricca di straordinarie tracce, allusioni e tonalità.

PRIMA LE PAROLE In base a una classificazione fenomenologica ragionata, della quale possediamo la chiave interpretativa, Totò ha incrociato la fotografia in almeno quattro ghiotte occasioni. Oggi ci soffermiamo su una in particolare -ribadiamo: Totò-fotografo in Miseria e nobiltà-, non prima di

aver richiamato le altre tre. Soprattutto, non prima di una citazione che allinea l’umorismo spesso surreale di Totò alla fotografia; meglio, che dona alla fotografia una preziosa perla, che ne dovrebbe/potrebbe arricchire la personalità. In Totò Baby (di Ottavio Alessi; Italia, 1964), uno dei film girati per sfruttare il richiamo esplicito all’attore, in un momento di suo alto gradimento popolare, Totò enuncia quella che pomposamente presenta come la «Prima regola del manuale del delinquente: farsi fotografare solo per la foto segnaletica. Foto fatta capo ha». Dal testo al contesto, è evidente il gioco di parole, elaborato su un modo di dire a tutti noto (appunto, “frase fatta capo ha”). Così, la sua trasformazione fotografica ci è gratificante, nel senso che la fotografia abbandona per un istante i lustrini del proprio dibattito culturale (spesso arido), per esprimere un significato fondamentale, riconoscibile universalmente. Addirittura, faccendone proverbio, sottintendiamo un princìpio didattico e morale di norma, avvertimento, consiglio o massima dettato dall’esperienza (come appare nel contesto del film). A seguire, sempre in avvicinamento al Totò-fotografo di Miseria e nobiltà, citiamo un momento fotografico di Totò che fa capolino in Totò, Vittorio e la dottoressa (di Camillo Mastrocinque; Italia, Francia e Spagna, 1957). Nel corso di un pedinamento, due improvvisati investigatori privati, Michele Spillone detto Mike (Totò) e Gennaro detto Johnny (Agostino Salvietti), fanno uso di una attrezzatura fotografica opportunamente camuffata: la macchina a soffietto sotto il cappello di Totò, il flash sotto quello del compare. Totò e Sophia Loren sono quindi i protagonisti dell’episodio La macchina fotografica, il nono di Tempi nostri - Zibaldone n. 2, di Alessandro Blasetti (Italia e Francia, 1954), che conclude il film, l’unico

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Nei panni di fotografo, Totò vorrebbe escludere dall’inquadratura il marito, per dare visibilità alla sposa, alla quale dedica attenzioni particolari. Lo sposino si infastidisce e non se ne fa nulla. La coppia si allontana, adirata (a destra).

sceneggiato da Age e Scarpelli. Con la scusa di fotografarla, nei panni del bellimbusto Dionillo, Totò cerca di accedere alle grazie della prorompente Sophia Loren, dopo aver vinto una biottica Rolleiflex in un gioco a estrazione (beato lui!). È ovvio: viene derubato della biottica in un momento di distrazione.

MISERIA E NOBILTÀ Eccoci all’arrivo, o quasi: per il quale lasciamo la parola alla sequenza di immagini riunite in queste pagine. Diretto da Mario Mattoli, uno

dei registi preferiti da Totò, il cinematografico Miseria e nobiltà, è la fedele trasposizione dell’omonima commedia di Eduardo Scarpetta. Uscito nelle sale nel 1954, il film si allarga un poco rispetto i tre atti originari, con scene finalizzate al ritmo cinematografico, che, comunque sia, rimane abbondantemente teatrale, fino alla conclusione con sipario in chiusura. Tra le aggiunte, la sceneggiatura di Ruggero Maccari e Mario Mattoli ha incluso lo sketch dello scrivano Don Felice Sciosciammocca (Totò), che si sostituisce a Don Pasquale (Enzo Turco), il fotografo ambulante che divide con lui l’area antistante il teatro napoletano nel quale si esibisce la ballerina Gemma, interpretata da Sophia Loren: è una sequenza tutta da vedere e rivedere. Cerchiamo di raccontarla. Una coppia di sposini in viaggio di nozze si presenta davanti alla macchina fotografica, temporaneamente abbandonata da Don Pasquale, impegnato in una commissione. Nei panni di Don Felice Sciosciammocca, Totò si improvvisa fotografo. Dal vetro smerigliato dell’apparecchio a soffietto in legno, rigorosamente su treppiedi altrettanto in legno, controlla l’inquadratura, fa spostare gli sposini, invita il marito ad abbassarsi, quindi a stare dietro la moglie, alla quale riserva cortesi attenzioni, e ne combina di ogni. A un certo punto, abbassato accanto la sposa, dubbioso di essere incluso nell’inquadratura, il marito si rivolge al fotografo, a colui che lui crede essere il fotografo, e scopre di non essere inquadrato... perché la sua faccia rovinerebbe la perfezione dell’immagine della moglie. Al caso, propone Don Felice Sciosciammocca, scattiamo due ritratti (dunque due compensi) e poi incolliamo insieme le fotografie singole: parole accompagnate dal gesto dei palmi delle mani che si uniscono con uno sputo in mezzo! Ovviamente, non se ne fa nulla, e i due sposini si allontanano adirati.

INCROCI Attenzione agli incroci cinematografici, che spesso sottolineiamo: come quello di Jude Law, morboso

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fotografo-necrofilo e killer in Era mio padre (FOTOgraphia, novembre 2005), coprotagonista di Sky Captain and the World of Tomorrow, film con retrogusto fotografico (FOTOgraphia, dicembre 2005), e scrittore Dan in Closer, dove viene fotografato da Anna Cameron/Julia Roberts (FOTOgraphia, ottobre 2006). Su analoga sintonia, Totò e Sophia Loren si incontrano nei due film che abbiamo ricordato oggi, uno di passaggio e l’altro in approfondimento: curiosamente entrambi del 1954, nell’episodio La macchina fotografica (in Tempi nostri - Zibaldone n. 2) e in Miseria e nobiltà. Quindi, esageriamo un poco richiamando almeno altre due vicende fotografiche di film con Sophia Loren. Nei panni di Agnese Tirabassi, Sophia Loren è insidiata dal fotografo Mario (Peppino De Filippo), con “l’occhio che scruta...”. Straordinari i loro siparietti in Il segno di Venere, di Dino Risi (Italia, 1955), film costruito su misura per Franca Valeri/Cesira, tra gli sceneggiatori, insieme a Luigi Comencini, Ennio Flaiano e altre eccellenti firme del cinema italiano dell’epoca. E poi, ancora, in La fortuna di essere donna, di Alessandro Blasetti (Italia e Francia, 1956), Sophia Loren/Antonietta Fallari finisce per innamorarsi del fotografo Corrado Betti (Marcello Mastroianni), al quale avrebbe voluto far causa per una propria immagine pubblicata sulla copertina di un rotocalco. E poi, Marcello Mastroianni è ancora fotografo (Tiberio) nella sgangherata combriccola dei Soliti ignoti (di Mario Monicelli; Italia, 1958). Le storie continuano. M.R. Ricerca iconografica di Filippo Rebuzzini



La Nikon D700 incorpora un pratico flash i-TTL, con sollevamento automatico e copertura di campo fino all’inquadratura grandangolare 24mm, ideale per una luce lampo discreta quando un illuminatore di dimensioni superiori potrebbe rivelarsi ingombrante.

F

acili profeti, già un anno fa, al momento della presentazione della nuova Nikon D3, con sensore FX a pieno formato (24x36mm; FOTOgraphia, ottobre 2007), avevamo preventivato tempi rapidi di evoluzione tecnica, con proiezione a fasce commerciali più ampie, avvicinabili e avvicinate da una configurazione moderatamente alleggerita, sì da poter essere proposta a un prezzo di vendita/acquisto più abbordabile rispetto la reflex ammiraglia. Due i motivi per i quali i tempi tecnologici sono oggi rapidi: il primo, fondamentale, dipende dalla velocità con la quale progrediscono i termini qualificanti della fotografia dei nostri giorni; il secondo, in certa misura in subordine, ma neppure poi troppo, è determinato e deriva dalla necessaria continua sollecitazione commerciale del mercato. Come dire, e diciamolo!, chi si ferma è perduto. Così, la genìa delle reflex Nikon con sensore di acquisizione digi-

tale di immagini a pieno formato, FX nel codice della casa (in parallelo, DX è il sensore di acquisizione di dimensioni ridotte rispetto il tradizionale fotogramma 24x36mm), è approdata alla configurazione di spessore D700, che si colloca un gradino sotto l’ammiraglia D3, della quale riprende e ripropone l’essenza delle prestazioni tecniche. Nella codificazione Nikon, fedele alla propria storia (che abbiamo commentato lo scorso dicembre, celebrando i novant’anni del marchio), la numerazione a tre cifre centinaia sta a indicare le dotazioni tecniche di fascia alta, appena al di sotto delle reflex top di gamma, la cui evoluzione digitale è appunto approdata alla identificazione numerica D3, successiva alle precedenti D1 e D2 (così come le reflex argentiche hanno scandito i tempi F, F2, F3, F4, F5 e F6 conclusiva).

ECCO QUI: D700 Come accennato, e approfondito in cronaca (FOTOgraphia, ottobre e dicembre 2007), la reflex Nikon D3 ha rappresentato un grande e sostanzioso passo in avanti nella fotografia digitale, nel cui ambito ha introdotto modalità di lavoro innovative, adatte e finalizzate alla fotografia professionale. Ora, con la nuova D700, sul mercato internazionale da fine luglio, dal design compatto e leggero, è possibile disporre di molte delle caratteristiche performanti che hanno subito decretato il successo

PER PUNTI

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intetizziamo le caratteristiche principali della nuova Nikon D700. Però, prima di farlo, è obbligatoria una annotazione di costume, che forse è anche di sostanza. Da qui in poi, e prendiamo l’attuale D700 a pretesto, non reputiamo più il caso di specificare le categorie “reflex digitali” e “compatte digitali”. Insomma, a questo punto della vicenda fotografica è ampiamente inutile la distinzione con qualcosa d’altro: reflex e compatte argentiche/analogiche per pellicola fotosensibile, ormai disponibili nel solo mercato dell’usato, del collezionismo e dell’antiquariato (secondo intenzioni individuali). Quindi, su queste nostre pagine, la Nikon D700 è la prima reflex (digitale) esplicitamente definita soltanto “reflex”. Punto, e basta. Comunque, le caratteristiche. ❯ Sensore CMOS da 12,1 Megapixel Nikon FX (a pieno formato 36x23,9mm), con elevato rapporto segnale/disturbo, ampia gamma dinamica e unità di pulizia automatica incorporata, che riduce la polvere eventualmente depositatasi sulla sua superficie. ❯ Sensibilità da 200 a 6400 Iso equivalenti, estendibile fino a 25.600 Iso equivalenti (HI-1 e HI-2, con risultato analogo a quello della diapositiva con trattamento forzato più uno o due stop) e a 100 Iso equivalenti (LO-1). ❯ Sequenza rapida fino a cinque fotogrammi al secondo (otto fotogrammi al secondo con l’alimentazione opzionale Multi Power Battery Pack MB-D10, con batteria agli ioni di Litio EN-EL4a o otto batterie AA). ❯ Modulo di elaborazione delle immagini Expeed, con conversione A/D a 14 bit ed elaborazione delle immagini a 16 bit. ❯ Sistema di riconoscimento scena avanzato, che allinea la misurazione della re-

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flex e i sensori AF per ottenere esposizioni precise e immagini ben definite. ❯ Sistema AF Multi-CAM3500DX a cinquantuno punti, selezionabile o configurabile singolarmente con impostazioni di copertura a nove, ventuno e cinquantuno punti. ❯ Controlli immagine che semplificano l’elaborazione delle immagini nella reflex, consentendo la personalizzazione preimpostata dei parametri dell’immagine (per esempio, nitidezza, contrasto, luminosità, tonalità e saturazione nelle diverse modalità colore). ❯ Monitor LCD VGA da tre pollici e 920.000 pixel, con ampio angolo di visione da 170 gradi. ❯ Visione Live View con autofocus, che consente di comporre immagini attraverso il monitor LCD da tre pollici. Sono supportate due modalità: Mano libera o Treppiedi. ❯ Modalità Ritaglio DX, che può essere attivata automaticamente quanto è utilizzato un obiettivo formato DX. ❯ Risposta rapida: ritardo dell’otturatore pari a circa quaranta millisecondi. ❯ D-Lighting attivo, che consente di ottenere magnifiche immagini ad alto contrasto nella propria applicazione automatica al momento dello scatto. ❯ Interfaccia di uscita video HDMI, che consente il collegamento a sistemi video ad alta definizione. ❯ Ergonomia intuitiva, con posizionamento dei pulsanti finalizzato a un utilizzo rapido e comodo. ❯ Resistente corpo macchina in lega di magnesio: a prova di acqua e polvere. ❯ Supporto dei collegamenti LAN wireless e Ethernet, attraverso il trasmettitore senza cavi WT-4 (opzionale).


Equidistante dalla D3 di vertice, dalla quale eredita le caratteristiche tecniche discriminanti, soprattutto il sensore di acquisizione a pieno formato FX, e dalla D300, indirizzata a un più ampio pubblico fotografico potenziale, la nuova D700 conferma e ribadisce l’essenza del differenziato progetto fotografico Nikon. Prestazioni squisitamente professionali, in una configurazione proposta a un prezzo di vendita/acquisto particolarmente conveniente. Senza compromessi qualitativi, la fotografia reflex continua il proprio inesorabile cammino. In avanti, dal presente al prossimo futuro

ANCORA PIENO FORMATO

tecnico e commerciale dell’originaria D3, la prima Nikon con sensore a pieno formato. Così che, anche la Nikon D700 è in condizioni operative di accogliere, e perfino superare, le aspettative dei fotografi più esigenti, in un corpo agile, elaborato a partire dalle le linee della pluripremiata Nikon D300 (tra l’altro, tra tanto, e come anche la D3, TIPA Award 2008 di categoria; FOTOgraphia, giugno 2008). In luce morbida e tenue, la Nikon D700 cattura tonalità omogenee e seducenti, con un sorprendente dettaglio fotografico. In condizioni di luce scarsa, produce immagini praticamente prive di disturbo, per garantire risultati impeccabili fino a 6400 Iso equivalenti. Quindi, in condizioni di illuminazione continuamente variabili, la D700 gestisce ogni complesso cambiamento di esposizione con la funzione dedicata Iso Auto. La portabilità, la rapidità di risposta e la maneggevolezza ottimamente bilanciata della reflex impreziosiscono ulteriormente la nuova configurazione. Unita a una impressionante rapidità di scatto (fino a cinque fotogrammi al secondo, oppure fino a otto con l’alimentazione opzionale Multi Power Battery), l’estrema qualità delle acquisizioni permette alla Nikon D700 di registrare ogni momento cruciale, dalle situazioni in rapido movimento a quelle più statiche. Tutti i soggetti, in qualsiasi condizione ambientale vengano affrontati, sono ripresi con precisione e nitidezza grazie all’esclusivo sistema Nikon AF a cinquantuno punti. «La Nikon D3 ha conquistato il settore della fotografia d’azione, incoraggiando molti professioni-

sti a farla propria, e ci aspettiamo che l’attuale D700 possa continuare questa tendenza», ha dichiarato Robert Cristina, Responsabile di Professional Products e NPS presso Nikon Europe.

PRATICITÀ La Nikon D700 eredita la qualità d’immagine della D3. Utilizzando le medesime tecnologie di base, come il sensore di immagine CMOS formato

A partire dal sensore CMOS di acquisizione, da 12,1 Megapixel, a pieno formato FX, la Nikon D700 offre molte delle caratteristiche performanti della D3 di vertice.

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I comandi operativi della Nikon D700 riprendono e confermano le collocazioni del proprio sistema reflex. Inoltre, si segnala la Visione Live View con autofocus, che consente di comporre immagini attraverso il monitor LCD da tre pollici e 920.000 pixel, con ampio angolo di visione da 170 gradi.

L’originaria velocità di scatto di cinque fotogrammi al secondo, ottenuta grazie alla potente batteria agli ioni di Litio EN-EL3e da 1500mAh, può essere ampliata fino a un massimo di otto fotogrammi al secondo, con il Multi Power Battery Pack opzionale MB-D10. È così possibile una completa integrazione dell’alimentazione con le configurazioni già conosciute Nikon D3 e D300.

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Nikon FX (36x23,9mm, pieno formato), da 12,1 Megapixel effettivi, e la possibilità di estendere notevolmente la sensibilità, la nuova reflex permette di acquisire file luminosi e nitidi, in un’ampia gamma Iso equivalente. Allo stesso momento, la Nikon D700 conferma anche l’innovativo sistema di elaborazione delle immagini ad alta velocità Expeed, la conversione A/D a 14 bit e il canale di elaborazione immagine a 16 bit, per garantire quel dettaglio e quelle gradazioni uniformi indispensabili per ottenere ingrandimenti di elevata qualità. La D700 è ideale per chi, avendo bisogno di una reflex digitale comoda da trasportare (o desiderandola), non intende scendere a compromessi per quel che riguarda la robustezza e la resistenza a polvere e umidità. Inoltre, comprende un sistema di pulizia del sensore di immagine che utilizza vibrazioni ad alta frequenza, per ridurre, fino a eliminarlo, l’accumulo di polvere eventualmente presente sulla superficie dello stesso sensore. Come anticipato, la velocità di scatto di cinque fotogrammi al secondo, ottenuta grazie alla compatta e potente batteria agli ioni di Litio EN-EL3e da 1500mAh, può essere ampliata fino a un massimo di otto fotogrammi al secondo, con il Multi Power Battery Pack opzionale MB-D10 (che può utilizzare anche la potente batteria EN-EL4a da 2500mAh). È così possibile una completa integrazione

dell’alimentazione con le configurazioni già conosciute Nikon D3 e D300. Un altro vantaggio operativo è offerto dal pratico flash incorporato i-TTL, con sollevamento automatico e copertura di campo fino all’inquadratura grandangolare della focale 24mm, ideale per una luce lampo discreta quando un illuminatore di dimensioni superiori potrebbe rivelarsi ingombrante.

EFFICACIA Nonostante il prezzo di acquisto conveniente (ovviamente inferiore alla D3, top di gamma), la Nikon D700 non scende a compromessi per quel che riguarda le proprie prestazioni: tempi di azione rapidissimi (ritardo allo scatto di appena quaranta millisecondi), estrema precisione del sistema AF MultiCAM3500 a cinquantuno punti, modalità di ritaglio DX (per l’allineamento con i sensori di dimensioni inferiori al pieno formato), funzione Live View con il sistema AF a contrasto di fase, monitor TFT ad alta definizione da tre pollici (lo stesso delle D3 e D300). Il mirino della Nikon D700 si basa su un efficiente pentaprisma in vetro, con copertura pari al novantacinque per cento del campo effettivamente inquadrato e illuminazione dei punti AF regolabile tramite LED, per una visione luminosa e senza interruzioni. Una nuova convincente funzione riguarda la possibilità di visualizzare l’indicatore del livello di orizzonte virtuale durante la modalità Live View, per determinare l’orientamento della reflex anche con il braccio disteso in avanti, in alto o di lato. Ancora, e infine, sottolineiamo come anche questa Nikon D700 sia stata progettata per il futuro, senza tralasciare il passato della propria genìa. Mentre Nikon festeggia il Settantacinquesimo anniversario dei suoi


ANCORA DECENTRABILI E BASCULABILI asso indietro, allo scorso marzo, alla presentazione dell’obiettivo decentrabile e basculabile PC-E Nikkor 24mm f/3,5D ED. Con l’occasione abbiamo spePcificato le finalità di una configurazione ottica specialistica, adatta sia alla fotografia tradizionale, su pellicola 35mm per esposizioni 24x36mm, sia all’acquisizione digitale di immagini, con reflex Nikon dotate di sensore DX di dimensioni inferiori al fotogramma tradizionale o sensore FX pieno formato. Ora, in aggiornamento tecnico, registriamo che non si è trattato di un episodio a sé, né tantomeno di una proposta effimera. Con l’introduzione dei nuovi PC-E Micro Nikkor 45mm f/2,8D ED e PC-E Micro Nikkor 85mm f/2,8D ED si delinea la composizione di una autentica famiglia ottica di obiettivi efficacemente decentrabili e basculabili, con anche prestazioni “Micro” (macro), a messa a fuoco ravvicinata. Tutti dotati di movimenti micrometrici di decentramento e basculaggio, i tre PC-E Nikkor consentono un effettivo controllo della prospettiva: si rivelano ideali tanto per la fotografia di architettura e paesaggio, indirizzo privilegiato, quanto per la ripresa in studio. Le ampie possibilità di basculaggio e le estese opportunità di decentramento garantiscono eccellenti e raffinate prestazioni fotografiche. Una volta fissati sul corpo macchina reflex, all’intramontabile montatura a baionetta Nikon F, i PC-E Micro Nikkor 45mm f/2,8D ED e PC-E Micro Nikkor 85mm f/2,8D ED (e PC-E Nikkor 24mm f/3,5D ED) possono essere ruotati fino a 90 gradi nelle due direzioni, verso destra e verso sinistra, con comodi punti di arresto a intervalli di 30 gradi: così da orientare e dirigere i movimenti di accomodamento rispetto la composizione dell’immagine. Nell’uso, sono compatibili con i sistemi di messa a fuoco di tutte le reflex Nikon, e consentono il controllo dell’apertura au-

tomatica del diaframma con le recenti configurazioni Nikon D3, D300 e D700. Tecnicamente, la combinazione tra decentramento e basculaggio dirige lo spostamento calibrato degli elementi ottici interni, per consentire il controllo della prospettiva (Perspective Control, PC), che riduce o elimina la convergenza dell’angolo di visione in relazione al soggetto. Indispensabile nella fotografia di architettura, soprattutto in relazione alle linee (altrimenti) cadenti degli spigoli verticali, il controllo della prospettiva risulta prezioso anche in studio, in quanto consente di distribuire micrometricamente l’estensione (o la contrazione volontaria) della profondità di campo, ovvero della nitidezza. Nell’uso, la regolazione dei PC-E Micro Nikkor 45mm f/2,8D ED e PC-E Micro Nikkor 85mm f/2,8D ED (e PC-E Nikkor 24mm f/3,5D ED) si basa sull’impiego di efficaci comandi: tra i quali il pulsante di chiusura del diaframma in stop-down, la ghiera di messa a fuoco manuale e le manopole per la disposizione micrometrica dei movimenti lineari (di decentramento) e rotatori (di basculaggio). L’impiego combinato del rivestimento Nikon Nano Crystal e lenti in vetro ED a basso indice di dispersione garantisce una alta qualità ottica. Sono ridotte al minimo le immagini fantasma, i riflessi parassiti e l’aberrazione cromatica. In stretta novità tecnica, registriamo che la focale standard del PC-E Micro Nikkor 45mm f/2,8D ED è ideale per una prospettiva naturale, controllabile in modo creativo: a fuoco da soli 25,3cm e scala dei diaframmi fino a f/32. Quindi, il PC-E Micro Nikkor 85mm f/2,8D ED, che sostituisce il parifocale soltanto “PC”, si offre anche alla macrofotografia, allo still life e alla ritrattistica creativa e arbitraria: a fuoco da 39cm e scala dei diaframmi fino a f/32.

Tre volte decentrabili e basculabili Scala diaframmi Diaframma Costruzione ottica Rivestimento ottico Nel disegno ottico Angolo di campo A fuoco da Decentramento Basculaggio Rotazione Messa a fuoco Filtri Dimensioni e peso

PC-E Nikkor 24mm f/3,5D ED f/3,5 - f/32 A nove lamelle arrotondate 13 elementi in 10 gruppi Nano Crystal Coat Tre elementi in vetro ED Tre elementi asferici 84 gradi (DX: 56 gradi) 21cm +/- 11,5mm +/- 8,5 gradi +/- 90 gradi (a 30 gradi) Manuale 77mm 82,5x108mm, 730g

PC-E Micro Nikkor 45mm f/2,8D ED f/2,8 - f/32 A nove lamelle arrotondate 9 elementi in 8 gruppi Nano Crystal Coat Un elemento in vetro ED

PC-E Micro Nikkor 85mm f/2,8D ED f/2,8 - f/32 A nove lamelle arrotondate 9 elementi in 8 gruppi Nano Crystal Coat Un elemento in vetro ED

51 gradi (DX: 34,5 gradi) 25,3cm +/- 11,5mm +/- 8,5 gradi +/- 90 gradi (a 30 gradi) Manuale 77mm 83,5x112mm, 780g

28,4 gradi (DX: 18,9 gradi) 39cm +/- 11,5mm +/- 8,5 gradi +/- 90 gradi (a 30 gradi) Manuale 77mm 82,7x107mm, 650g

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NIKON PHOTO CONTEST INTERNATIONAL

P

er quanto possano farlo, le cifre parlano chiaro: alla scorsa edizione del prestigioso concorso fotografico Nikon Photo Contest International hanno partecipato sedicimila autori, da centotrentacinque paesi, con un totale di quarantasettemila immagini: 16.000 iscritti da 135 paesi, con 47.000 immagini. La trentaduesima edizione 2008-2009 apre le proprie iscrizioni il Primo settembre, e ci si aspetta una partecipazione addirittura incrementata: la crescita è inevitabile, a testimonianza di un sostanzioso gradimento da parte dei fotografi di tutto il mondo, sia professionisti sia non professionisti. Il regolamento è ribadito. Per il tema confermato, Al cuore dell’immagine, che invita ad esprimere le emozioni che toccano il cuore, sono previste due categorie: Il mio pianeta, relativo a rappresentazioni del proprio mondo, sia in riferimento a problematiche ambientali sia a scene di vita quotidiana o a persone e situazioni che hanno stimolato l’immaginazione individuale, e Soggetto libero. Al solito, ogni partecipante può inviare fino a otto immagini, due per ciascuna delle due categorie previste, inviate per posta ordinaria, e altrettante due per ciascuna delle stesse due categorie, inviate sotto forma di file Jpeg via Internet. Ricordiamo che il tema Al cuore dell’immagine, oppure Nel cuore dell’immagine, fate voi, è anche il motivo conduttore dell’attuale filosofia Nikon Imaging, appunto At the Heart of the Image: esplicito invito a rappresentare fotograficamente le proprie passioni, mostrando la ricchezza della vita e la sua splendida e irrinunciabile complessità. Tutte le immagini presentate al Nikon Photo Contest International 2008-2009 saranno giudicate da fotografi professionisti. Oltre ai consueti cinquantaquattro

premi previsti, e al premio speciale, in occasione del Settantacinquesimo anniversario del marchio Nikkor (relativo agli obiettivi progettati e prodotti da Nikon), per questa edizione viene conferito anche un ulteriore premio riservato a un’immagine autenticamente eccezionale. I nomi dei vincitori e le rispettive fotografie verranno pubblicati sul sito Internet relativo al concorso www.nikon-npci.com. Come avviene da diverse edizioni, il Nikon Photo Contest International 20082009 conferma il proprio allineamento con l’organizzazione umanitaria internazionale Right to Play, alla quale vengono donati due euro per ogni partecipante (FOTOgraphia, maggio 2007). Soprattutto attiva in Africa e Asia, e in modo particolare in zone di guerra, Right to Play incoraggia i bambini a praticare sport e a giocare, per un migliore sviluppo personale e una maggiore fiducia in se stessi. Martina Beckmann, Marketing Manager di Nikon Europe, ha affermato che «Con l’NPCI, Nikon sollecita le persone di tutto il mondo a scoprire la gioia della fotografia, lasciando loro la possibilità di sperimentare il potere comunicativo delle immagini. Siamo convinti che molti partecipanti risponderanno di nuovo a questa eccitante sfida. Ci auguriamo altresì che il numero di partecipanti aumenti ulteriormente, così da poter incrementare il nostro contributo alla grande causa di Right to Play, sulla quale abbiamo sintonizzato un nostro specifico contributo finanziario». Nikon Photo Contest International 2008-2009: dettagli e regolamento all’indirizzo www.nikon-npci.com; informazioni dal distributore Nital (via Tabacchi 33, 10132 Torino). Iscrizioni dal Primo settembre al 30 novembre.

obiettivi Nikkor e gli oltre quaranta milioni di obiettivi venduti, le sofisticate tecnologie di elaborazione delle immagini per il controllo dell’illuminazione periferica (vignettatura) e dell’aberrazione cromatica confermano e rinnovano le possibilità creative degli stessi obiettivi intercambiabili Nikkor con innesto a baionetta F-mount. Per non parlare poi, in termini di Storia, degli attuali sessanta anni di macchine fotografiche Nikon, conteggiati dall’originaria Nikon I, del 1948, e degli imminenti cinquanta di reflex, dalla NiLa genìa delle reflex Nikon con sensore di acquisizione digitale di immagini a pieno formato, FX nel codice della casa, è approdata alla configurazione di spessore D700, che si colloca un gradino sotto l’ammiraglia D3, della quale riprende e ripropone l’essenza delle prestazioni tecniche. Nella codificazione Nikon, fedele alla propria storia, la numerazione a tre cifre centinaia sta a indicare le dotazioni tecniche di fascia alta, appena al di sotto delle reflex top di gamma.

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kon F, del 1959, le cui celebrazioni saranno rispettivamente ricordate questo autunno e nei primi mesi del prossimo anno: è più di una promessa, addirittura un impegno. Allo stesso momento, concludendo in cronaca, il Nikon Total Imaging System (sistema fotografico estremamente versatile) cresce con elementi e accessori adatti a ogni sfida in campo fotografico. Ora e in futuro. Antonio Bordoni



NEWS PICTU

Attentato al giudice Giovanni Falcone; Capaci (Palermo), 23 maggio 1992.

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E

sposta alla Galleria Grazia Neri di Milano, allineata con l’Agenzia che lo rappresenta e distribuisce, la mostra News pictures di Massimo Sestini raccoglie un significativo campionario della sua fotografia di giornalismo. Di fatto, essendo Massimo Sestini uno dei fotoreporter più prolifici dei nostri tempi, in quantità ma soprattutto qualità di visione e raffigurazione, la mostra presenta e offre uno spaccato eccezionale sugli avvenimenti italiani dei recenti trent’anni, raccontati da un fotografo che ha spazia-

to in ogni settore del giornalismo, dalla politica alla cronaca, dal costume alla politica, al ritratto. Grazia Neri, fondatrice e titolare dell’Agenzia che porta il suo nome, personalità di spicco della fotografia italiana contemporanea, del cui mondo è autorevole protagonista, annota «Massimo Sestini ha sempre cavalcato il nuovo nella forma e con duttilità; è entrato in ogni campo dell’immagine, sapendo combinare in modo straordinario contenuto, tecnica e composizione». Nell’allestimento di News pictures, a cura di Ti-


URES

Trent'anni di storia italiana nella prima mostra di Massimo Sestini, uno dei più attenti (e prolifici) fotogiornalisti italiani dei nostri tempi, capace di spaziare dalla cronaca alla documentazione; senza soluzione di continuità, dall’avvenimento agli approfondimenti. L’abbiamo già incontrato sulle nostre pagine, raccontando la sua collaborazione con la Polizia di Stato in occasione dei solenni funerali di Papa Wojtyla (FOTOgraphia, maggio 2005); ora, una intervista di Lello Piazza rivela i termini e connotati di una straordinaria personalità fotografica. Il fotogiornalismo nel sangue e Dna

iao Massimo, mi senti? «Ti sento forte e chiaro». È la prima volta che vedo una panoramica completa del tuo lavoro. È veramente impressionante! Si accavallano gli stili più diversi: la cronaca, certo, ma anche ritratti, posati, sport, fotografia aerea, moda e news di estrema attualità. Ti manca di aver fotografato gli animali, poi non rimarrebbe nessun settore scoperto. Da dove nasce questo desiderio di essere presente su tutti questi tanti fronti? È raro trovare un fotografo così poliedrico. «Puro istinto di sopravvivenza. Nel reportage, unito a un condimento di cronaca (paparazzata), bisogna poter essere da bosco e da riviera, cioè sapersela cavare nelle situazioni più diverse. Devi imparare ad andare in montagna e andare nel mare, devi saperti presentare davanti a persone che richiedono mise di un certo livello e ti devi anche saper mimetizzare come un incursore nascosto su un albero o dentro un sacco della spazzatura, sulla spiaggia».

C ziana Faraoni e realizzata con il contributo di Canon, in esposizione per un mese abbondante, da metà settembre, le immagini di cronaca sono presentate in successione cronologica. A completamento, due sezioni dedicate: una al ritratto e l’altra a una brillante interpretazione del gossip. Con l’occasione, Lello Piazza ha intervistato Massimo Sestini (www.massimosestini.it), approfondendo i termini e connotati di una straordinaria personalità fotografica. Ripetiamolo: il fotogiornalismo nel sangue e Dna. A.G.

Autoritratto di Massimo Sestini: Babylon, Schloss Freyenthurn (nightclub esplicitamente organizzato e allestito per prostituzione legalizzata); Klagenfurt, Austria.

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UNA TESTIMONIANZA

M

assimo Sestini è il fotografo e l’uomo dell’exploit. Questa sua prima mostra è una breve sosta lungo la sua vita di corsa, dopo trent’anni di fotografie che raccontano spettacolarmente la grande Storia e migliaia di quelle piccole del nostro paese e di tanto mondo. Se guardo le sue fotografie, mi vengono a mente queste parole: giornalismo, prima mano, tecnologia, numeri, coraggio, tempo. Timidezza. Giornalismo, perché sono sue le immagini che raccontano gli eventi che hanno cambiato l’Italia: Rapido 904, Moby Prince, G8, Giubileo, attentati di Borsellino e Falcone. Prima mano. Ovverosia, l’articolata e onnipresente necessità di essere a tu per tu con quello che succede. Costi quello che costi. Denunce, attese su alberi, doppi giochi, finzioni, travestimenti, faccia tosta. È così che sono nate le famose paparazzate, da Lady D in bikini al matrimonio blindato di Eros Ramazzotti. Ma il concetto di paparazzata di Massimo Sestini è un concetto evoluto. Non si tratta di mettere a nudo il personaggio del gossip, ma di raccontare quello che non si dovrebbe vedere, soprattutto i retroscena del potere, della cultura, dell’economia. La fotografia rubata in Parlamento, il primo giorno del governo Berlusconi; lo stesso Silvio Berlusconi, in compagnia di un Emilio Fede, che inciampa rovinosamente nel giardino del Cavaliere. Riccardo Muti che dirige la prima della Scala, sorpreso dall’alto, in completo e rischioso silenzio. Tecnologia, perché siano computer, collegamenti volanti, sperimentazione digitale, luci, radiocomandi per fare scattare macchine fotografiche nascoste in fioriere o sotto la sua famosa cravatta con il buco o l’indecente marsupio in vita, la sua carriera di testimone, fotogiornalista, collaboratore di decine di testate è sempre stata aiutata e ispirata da un costante aggiornamento tecnologico. Dalla tecnologia ai numeri, il passo è breve. Nei suoi archivi, ci sono migliaia di personaggi fotografati; ha collezionato migliaia di ore di volo per fotografarli, consuma un’automobile nuova in due anni (avevo fatto un conto, molto approssima-

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tivo, ma credo che Massimo Sestini percorra ogni anno la distanza tra Terra e Luna e ritorno). Ha un numero infinito di amici e una bella quantità di nemici. Nel corso di un anno, produce quasi trecento servizi. I numeri sono la sua vittoria sul tempo. Quello che riesce a maneggiare, estendere e restringere a piacimento. Coraggio. O meglio faccia tosta. E una bella dose di inconsapevolezza. Non l’ho mai sentito dubitare sulla fattibilità di una fotografia. Convince i soggetti a fare quello che desidera. O, meglio, quello che pensa che il giornale per cui sta lavorando desideri. Così, la gente finisce nuda o al gabinetto, su un palo nel lago al buio o in cima a un albero di barca a vela alto sessanta metri. È lui stesso vittima di questa inconsapevolezza, quando si avvicina troppo all’Etna in eruzione, si immerge per fotografare Roberto Bolle, costringe i piloti di elicottero a sorvolare spazi proibiti o scendere troppo sopra i bagnanti in Versilia. Così sono nati i suoi reportage più importanti e spettacolari. Timidezza. In realtà questa parola è sua. Quando gli ho chiesto da dove nascono le sue fotografie, dove trova spinta il suo approccio professionale, mi ha risposto: «Nel lavoro non sarei mai arrivato da nessuna parte proprio perché sono timido. Per questo mi costringo a fare cose impossibili e non avere limiti. Non mi devo confrontare con il personaggio, vado più in fretta, vado oltre. Da questo nasce anche il mio non rispettare la privacy». In questi ultimi anni, Massimo Sestini ha cercato di vincere la timidezza dedicandosi di più al ritratto, dove l’incontro è per forza tra persone e non può sorvolarle. C’è chi ha scritto che Massimo Sestini è il “teleobiettivo di Dio”. Io penso, più modestamente, che è il nostro uomo in più. Spesso inconsapevole di quanto sia importante, esilarante, informativo, determinante il suo racconto. Di questa ironica inconsapevolezza mi sembra pieno lo sguardo imbarazzato dell’autopaparazzata su quell’erotico (ma non per lui) letto di un bordello austriaco [a pagina 35]. Michele Neri


Massimo Sestini è un fotografo del quale non si parla molto in Italia, perché nel nostro paese si dà soprattutto spazio ad altra fotografia, che forse si considera di profilo superiore (e di questo siamo colpevoli pure noi, lo ammettiamo). Così, per trovare consistenti riconoscimenti al suo infaticabile professionismo dobbiamo superare i nostri ristretti confini nazionali. Prestigioso mensile di costume e tendenza, l’inglese Arena ha dedicato un lungo articolo a Massimo Sestini, sul suo numero del marzo 2001: sette intense pagine, sulle quali la personalità del bravo fotoreporter è stata ben presentata e adeguatamente commentata. Lo stesso, ha fatto The Sunday Times Magazine del precedente 10 agosto 2000, che gli ha riservato una intera pagina. E così testimoniamo.

Dove hai imparato a fare il fotografo? «Ho imparato da solo, anche se nei primi anni di liceo ho seguìto un corso di camera oscura, che teneva un custode della scuola, la sera dopo cena. Stampavo il bianconero nel bagno di casa, obbligando i miei parenti a non servirsene quando lo stavo usando io. «A un certo punto, ancora giovane, facevo l’istruttore di windsurf. Avevo una scuola a Forte dei Marmi, in Versilia, ed ero amico dei bagnini degli stabilimenti balneari più importanti. Sapevano che ero appassionato di fotografia, e mi chiamavano, dicendo: “Ehi, Massimo, c’è il tal vip qui in spiaggia da me”. A paparazzare ho iniziato così. «Poi, è arrivato il momento dell’università, e mi sono iscritto a Scienze Politiche, a Firenze; nei primi mesi di università sono entrato nell’agenzia Fotocronache di Fulvio Frighi, che copriva la cronaca per il quotidiano toscano La Nazione; qui ho imparato i primi rudimenti del fotogiornalismo». Dunque, i bagnini sono stati i tuoi primi informatori. È chiaro che non potrai rivelare le tue fonti attuali. Ma, almeno come tipologia, che tipo di persone sono? «Alcuni sono amici che conosco da tempo. Ma ci sono anche professionisti dello spionaggio, tipi che farebbero e fanno qualunque cosa per denaro, senza il minimo scrupolo». Come è il tuo rapporto con i giornali? Osservando le fotografie che stanno andando in mostra, si capisce che nelle redazioni devono conoscere le tue doti poliedriche, per assegnarti servizi così diversi. «Sì. Ma mi chiamano soprattutto quando bisogna lavorare di fretta, quando hanno magari bisogno di un ritratto molto importante di qualcuno che dice: “Va bene, fatemi ’sto ritratto, però vi do quattro minuti quattro”.

«Vengo sfruttato principalmente in queste situazioni, perché pensano che ho la faccia tosta del paparazzo, trasportata nel ritratto. E sono sicuri che, per l’istinto di sopravvivenza che mi contraddistingue, sono capace di avere in un lampo un’idea vincente per realizzare il ritratto. Per convincere quel personaggio a fare, in quattro minuti, qualcosa che lui non farebbe di norma, perché si sentirebbe ridicolo. «Perché? Per una serie di perché. Io gli vado a spiegare: tu mi dai solo quattro minuti e vuoi fare una grande fotografia! Allora, dammi una mano, cerca di darmi qualcosa in più di quello che daresti normalmente». Qual è la tua fotografia più famosa? «Il primo bikini di Lady Diana. Si parla dell’estate del 1991» [a pagina 41]. E qual è l’esperienza che ti è più cara? «Un ritratto di mia figlia». Sono contento di sentirtelo dire. Alla fine del Secondo millennio si parlava insistentemente di una possibile catastrofe informatica, che avrebbe potuto spazzare via la civiltà occiden-

Prostituta alle Cascine; Firenze. Eruzione dell’Etna; Zafferana (Catania), luglio 2001. (pagina accanto) Chris Ofili, installazione Within Reach al Padiglione inglese della cinquantesima Biennale d’Arte di Venezia; 14 novembre 2003.

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Patti Smith; Ferrara. Gianluca Rana; San Giovanni Lupatoto (Verona).

tale. In quella occasione, Maurizio Rebuzzini aveva pianificato una serie di interviste, poi pubblicate su FOTOgraphia [del dicembre 1999: speciale Salviamo il salvabile], nelle quali chiedeva ad amici e personaggi del nostro piccolo mondo quale fotografia avrebbero salvato, se fosse stato in loro potere e se la catastrofe si fosse veramente verificata. Io gli ho risposto: quella di mio figlio. «Eccolo lì, anche lui il papà, ah ah ah». Ci dici qual è il segreto del paparazzismo? «Nelle situazioni molto critiche, bisogna essere capaci di sparire, di diventare invisibili. Oppure, occorre avere tanta faccia tosta, anche se si è molto timidi. Per esempio, se ti sei infilato in un matrimonio o in una festa di vip, per rubare qualche fotografia, e ti beccano e vogliono buttarti fuori, allora devi essere bravo a convincere i gorilla che tu sei lì assolutamente autorizzato, anche se non è vero.

«Dipende sempre e tutto dalle tue doti di venditore di tappeti». Qual è l’attrezzatura che usi? In alcune fotografie all’aperto si intuisce un’illuminazione da studio. «La mia attrezzatura mi è costata un’ernia al disco. «Mi porto una serie di flash professionali ricaricabili, alimentati da batterie al piombo, pesantissime, come le batterie delle automobili. Me li porto dappertutto, sia che vada in cima al Monte Rosa, sia che vada nelle grotte sotto terra. In esterno posso avere una buona luce da pochi bank leggeri, su torce flash alimentate da queste batterie pesantissime [Galleria Profoto; FOTOgraphia, settembre 2005]. «È indicibile la fatica che bisogna fare per portarsele appresso. «Da dove viene quella qualità della mia luce? Sono i miei bank, che funzionano grazie a queste batterie ingombranti e pesanti (continuo a ripeterlo vero?, come in un incubo), che si ricaricano in una notte e mi danno cento lampi a 1200ws di potenza». Per le macchine fotografiche? «Uso reflex digitali 35mm». Che cosa è per te la spregiudicatezza? Quando si infrange un limite sacrosanto e quando invece si compie un lavoro sacrosanto? C’è stata una volta in cui hai preferito rinun-

ANCORA PAPARAZZI

P

igozzi and the Paparazzi, il cui titolo richiama esplicitamente la figura di Jean Pigozzi, collezionista di natali torinesi, eclettico protagonista della mondanità internazionale, è una imponente mostra a tema dichiarato, esposta alla prestigiosa Helmut Newton Foundation di Berlino (Jebensstrasse 2, D-10963 Berlin; 0049-30-3186 4856): fino al prossimo sedici novembre; martedì-domenica 10,00-18,00, giovedì fino alle 22,00. In scena, un consistente corpo di fotografie dagli anni Sessanta, riunite anche nell’avvincente fascicolo-catalogo che accompagna la mostra (76 pagine, con introduzione di Matthias Harder). La sede, intitolata al noto fotografo scomparso all’inizio del 2004 (FOTOgraphia, febbraio 2005), del quale conserva la memoria, celebra una delle passioni di Helmut Newton, che avrebbe dichiarato che da giovane ambiva a diventare fotografo di cronaca rosa. In occasione della presentazione della mostra, domenica dieci agosto, il Corriere della Sera ha accompagnato le proprie note con una intervista di Mara Gergolet a Massimo Sestini, che riproponiamo, a completamento della presentazione della sua imminente personale News pictures, alla Galleria Grazia Neri di Milano, dal diciotto settembre.

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Massimo Sestini, «il teleobiettivo di Dio»... Helmut Newton sognava di fare il paparazzo, lo sa? «Beh, la cosa ci onora tutti. Helmut Newton, per me, è sempre stato un libro di testo fondamentale. Il bianconero, le luci dalle finestre, il glamour. Ho imparato tante cose da lui». Newton elogiava la vostra rapidità, l’aggressività... «La rapidità è fondamentale. Certi scoop altrimenti non si possono fare». La sua Lady D in bikini ha fatto storia, in effetti [a pagina 41]. «Già, in Sardegna, era il 1991... Ma i segreti del mestiere sono rimasti quelli: la faccia tosta, l’incoscienza, la tenacia. Tenacia, non aggressività. Il paparazzo è come un pescatore, deve saper aspettare». Sì, ma lei è capace di tutto: nuotare sott’acqua, volare in elicottero, pur di centrare il bersaglio. «Ho quarantacinque anni e mi diverto ancora. Perciò dico che il nostro mestiere non morirà mai. Perché è fatto da gente che lo ama. Il diciotto settembre, presso la Galleria Grazia Neri, a Milano, finalmente, dopo trent’anni, esporrò la mia prima mostra. Si intitola News pictures. Sono molto felice».


ciare alla fotografia? Ti sei mai fermato? «Mi sono fermato, ma dopo, mai durante. «Penso che mentre si scatta bisogna essere sempre spregiudicati, perché nel momento in cui realizzi una fotografia importante devi catturare un attimo che scappa. «Io non credo esista nessun essere al mondo con una lucidità mentale tale da riuscire a essere ragionevole mentre scatta. Se c’è da fare qualcosa, si deve fare e basta, perché la fotografia va colta al volo. Al momento, non c’è tempo per pensare: se hai un attimo di titubanza, la fotografia scappa via, e in seguito potresti pentirtene amaramente. «Poi, a casa, tutti noi siamo giornalisti, anzi esseri umani; e abbiamo modo di pensare alla deontologia. Quando ci mettiamo con i piedi sotto il tavolo a editare le nostre fotografie, ci dobbiamo porre tutti gli scrupoli necessari a giudicare la paparazzata fatta all’arrembaggio. E a quel punto riusciamo a decidere: questo servizio non lo distribuisco, lo brucio o lo chiudo nel cassetto a chiave per sempre, perché non è giusto che esca. «Ma, attenzione! Spesso succede che tu la fotografia non solo la devi fare, contro tutto e contro tutti, ma poi la devi anche pubblicare: è il nostro mestiere, è dovere di cronaca. «Ti faccio un esempio: un terremoto con una famiglia sepolta sotto le macerie di una casa. I soccorritori stanno cercando le vittime e i sopravvissuti. Sul luogo, ci sono i soccorritori, i vigili del fuoco e i fotografi: ognuno fa il proprio lavoro (noi scattiamo foto-

grafie). Se arrivano gli amici di questa famiglia, se la prendono in primo luogo con i fotografi, e gridano: sciacalli, cosa fate?, non esiste che voi siate qui a scattare fotografie mentre i nostri cari soffrono. Io invece dico che esiste, eccome!, che noi si sia lì a scattare fotografie! Come esiste il medico che cerca di salvare loro la vita. Ognuno svolge il proprio ruolo». Perché fai il fotogiornalista? O, meglio: qual è una professione diversa da questa che vorresti fare? «Solo questo vorrei fare, solo questo voglio fare, solo questo, con tutti i sacrifici che comporta.

Tiziano Terzani con il nipote Novalis. Renzo Piano nel suo studio; Vesima (Genova).

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Maria Josè di Savoia, ultima regina d’Italia, moglie di Umberto II, varca per la prima volta il confine con l’Italia, per recarsi al matrimonio della nipote Bianca, principessa di Savoia-Aosta; settembre 1988.

«Lo faccio perché non saprei fare altro. Fondamentalmente lo faccio perché mi dà adrenalina. «Ogni giorno che passa, anche se sono nella professione da più di trent’anni, quando scatto una fotografia provo i brividi, esattamente come quando ero all’inizio. «Alla sera, prima di addormentarmi, penso e progetto le fotografie che scatterò il giorno dopo, penso al ritratto che devo realizzare, al reportage che mi hanno commissionato. E in questi pensieri, in questi progetti, provo sempre emozione, sento l’adrenalina. «A volte, stimolare la mia creatività mi eccita; a volte, sono guidato da motivi più futili, persino infantili. Poi, quando sono sul campo, è ancora adrenalina pura: passo dal brivido di scaraventarmi giù da un aereo col paracadute a un giorno in cui sono a un matrimonio con lo smoking, a un momento nel quale scopro che non mi sono arrivate le luci, perse nell’ultimo cambio dell’aereo che ho preso: sono lì, su un’isoletta in capo al mondo, e non mi è arrivata l’attrezzatura per fare il servizio. Più adrena-

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lina di così non si può e, per fortuna, tutti i giorni è la solita storia, che si ripete invariabilmente». Cosa pensi dei grandi concorsi fotografici internazionali? Del World Press Photo, per esempio? «Parliamo del World Press. È un premio molto importante e molto ambìto. Io ho partecipato un paio di volte. Non credo che possa cambiare la carriera di un fotografo della mia età. Per me, vincere o non vincere, non sollecita nessun nuovo fatturato. «Credo invece che sia importante per un giovane. Un giovane che vince il World Press ha molte più strade aperte di uno che non l’ha vinto». C’è qualcosa che vorresti aggiungere, un consiglio ai giovani? «Guarda, è un mestiere che non consiglierei a nessuno. Proprio a nessuno. «Paradossale, vero? Una cosa che ami e che non consigli a nessuno! Ma è un mestiere che richiede enormi sacrifici. I giovani di oggi sono meno disposti ai sacrifici di quelli di una volta. Le ultime generazioni sono viziate.


«Quindi non può più esistere la vecchia scuola fatta di praticaccia, come l’abbiamo vissuta noi. Se qualcuno si volesse avvicinare a questo lavoro, allora: attenzione! Ce la farà solo se è definitivamente disposto a sacrificare qualsiasi cosa per raggiungere il proprio scopo». Però, Massimo, oggi ci sono problemi che quando ero giovane io non c’erano. Si sono aperti nuovi mercati, è vero, ma lì si vendono fotografie a un dollaro! Su questi mercati, Getty Images pensa di impostare il proprio futuro. Ciò rappresenta una minaccia per la professione, che una volta non c’era. È ben vero che, sempre secondo Getty, il mercato della fotografia è fatto per circa il sessantuno per cento da commissionato, e sul commissionato i professionisti non hanno sicuramente concorrenza di fotografi disposti a vendere le loro fotografie a un dollaro. «Ormai vivo solo di commissionati. Siccome è difficilissimo riuscire a raccattarne, so quanto valgano questi cambiamenti ipotizzati (o reali).

«Produrre un servizio è sempre più rischioso: devi sostenere dei costi e dedicarci tempo. Poi, magari non te lo comprano. «Però i giovani devono sapere che, all’inizio della carriera, produrre a spese proprie è l’unico modo di mettere nero su bianco quello che sai fare per mostrarlo agli altri. Chi imbocca questa strada, deve mettere in conto che occorre investire tantissimo sull’autoproduzione». Massimo, grazie, bravo. Sono molto felice di aver avuto questa opportunità di parlarti. Sono felice anche di questa mostra, che mi ha permesso di conoscere una parte del tuo lavoro che ignoravo. Lello Piazza

Diana d’Inghilterra; Capo di Coda di Cavallo (Sardegna), 11 agosto 1991. Gli attori Matt Demon e Brad Pitt durante le riprese di Ocean Twelve; Lago di Como, 2004.

Massimo Sestini: News pictures. A cura di Tiziana Faraoni. Galleria Grazia Neri, via Maroncelli 14, 20154 Milano; 02-625271, fax 02-6597839; www.grazianeri.com, photoagency@grazianeri.com. Dal 18 settembre al 24 ottobre; lunedì-venerdì 9,00-13,00 - 14,30-18,00, sabato 10,00-12,30 - 15,00-17,00. Con il contributo di Canon.

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NEL MONDO DI

Pagine del Diario di Peter Beard; 5-6 marzo 1978.

PETER BEARD otografo, collezionista e scrittore, Peter Beard vive un’esistenza che delinea i tratti di una continua opera d’arte. Compila affascinanti Diari giornalieri di vita, che illustra con avvincenti combinazioni di immagini, che partono dalla registrazione oggettivamente fotografica per proiettarsi in fantastiche elaborazioni nelle quali il gesto sovrapposto, spesso collage, delinea e definisce autentiche opere d’arte: considerate e conteggiate tali dalla più autorevole e accreditata critica internazionale. Non solo; a completamento di una continuità di azioni creative che partono dal quotidiano, come pure dal vissuto, suoi incontri con artisti contemporanei hanno prodotto altre e ulteriori performance, una volta di più centrate sulla sua vocazione espressiva. A metà degli anni Settanta, Francis Bacon (FOTOgraphia, ottobre 2001) ne ha dipinto il ritratto

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Reinterpretando le proprie Collector’s Edition e Art Edition, del 2006, l’editore tedesco Taschen Verlag propone ora una confezione standard della monografia Peter Beard, che rappresenta e compone un concreto avvicinamento all’autore: uno dei più significativi della fotografia contemporanea. Senza soluzione di continuità, dal professionismo all’espressione creativa si registra un continuo omaggio all’Africa e ai suoi riti: tema conduttore di una intera esistenza

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Nevi del Kilimanjaro; 1972-2008. (al centro) Giraffe a Mirage, sulla Taru Desert (con Masai Loibon’s Giraffe Bone Pipe); Kenya; 1960.

e poi ne ha anche sovrapposto le sembianze in alcuni dei suoi stessi autoritratti successivi. Ancora, Salvador Dalí ha realizzato un autentico happening, dipingendo sul suo corpo. E poi, dalla collaborazione con Andy Warhol sono nati Diari compilati a quattro mani. E dalle associazioni con Truman Capote, i Rolling Stones, Jacqueline Onassis (già Jacqueline Kennedy) e Mick Jagger sono scaturiti film, libri e opere pittoriche, nelle quali ognu-

no è figurato per se stesso o nelle proprie azioni. In chiave professionale, come fotografo di moda ha lavorato per testate di alto prestigio, soprattutto Vogue, per le cui pagine ha realizzato fantastiche ambientazioni africane con le modelle Iman e Veruschka (coprotagonista dell’icona del cinematografico Blow up; diverse le nostre citazioni, tra le quali segnaliamo soprattutto la copertina di FOTOgraphia del dicembre 2006). Addirit-

L’AUTORE

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ato a New York nel 1938, fin dalla propria infanzia Peter Beard ha scattato fotografie e compilato Diari di osservazioni quotidiane. Si è laureato alla Yale University, prima di partire per l’Africa, alla quale l’hanno avvicinato i libri di Karen Blixen (a partire dall’autobiografico La mia Africa). Negli anni Sessanta e Settanta ha lavorato nel Tsavo National Park, istituito nel 1948, il più grande del Kenya, uno dei più estesi di tutta l’Africa (duemila chilometri quadrati di superficie), nell’area di Aberdares, e al Lake Rudolf, nei pressi del confine settentrionale del Kenya. La sua prima mostra è stata esposta nel 1975, alla statunitense Blum Helman Gallery. In seguito, nel 1977, all’International Center of Photography di New York

sono state presentate installazione di carcasse di elefante, Diari bruciati, manufatti africani, libri e ricordi personali. Oltre la creazione di opere d’arte di originale personalità, Peter Beard ha lavorato come fotografo di moda per Vogue e collaborato a progetti con Andy Warhol, Andrew Wyeth, Richard Linder, Terry Southern, Truman Capote e Francis Bacon. Nel 1996, al Centre National de la Photographie di Parigi è stata allestita una sua prima grande retrospettiva, seguita da consistenti allestimenti scenici a Berlino, Londra, Milano, Stoccolma, Tokyo e Vienna. Peter Beard si divide tra la residenza di Long Island, New York, e lunghi soggiorni in Kenya, con la moglie Nejma e la figlia Zara. Peter Beard e Karen Blixen, l’autrice di La mia Africa (Out of Africa, originariamente pubblicato con lo pseudonimo di Isak Dinesen); Rungstedlund, Danimarca; 1962. Peter Beard mentre compila il suo Diario, nella propria tenda; Hog Ranch, Kenya; 1990.

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tura, Iman è una sua scoperta: ed è stata proiettata nel mondo della moda dopo un primo redazionale realizzato in Africa con lo stesso Peter Beard. Quindi, va segnalato che il prossimo Calendario Pirelli 2009 porterà la sua firma. Il mai interrotto rapporto d’amore con la storia naturale e la fauna selvatica, tema costante e continuo della sua fotografia e della sua arte, ha radici antiche, oltre che profonde: nasce con la

Peter Beard. A cura di Ruth Ansel, Nejma Beard, David Fahey, con testi di Steven M. L. Aronson, Owen Edwards e Peter Beard; multilingua inglese, francese e tedesco; Taschen, 2008 (distribuzione: Inter Logos, strada Curtatona 5/2, Località Fossalta, 41100 Modena; 059-412648; www.books.it); 784 pagine 21,8x31,6cm, cartonato; due volumi in cofanetto; 75,00 euro.

lettura dei libri Karen Blixen (il più famoso dei quali è l’autobiografico La mia Africa, originariamente pubblicato con lo pseudonimo di Isak Dinesen, dal quale è stato sceneggiato l’omonimo film di Sidney Pollack, con Meryl Streep e Robert Redford). Dopo un primo soggiorno in Kenya, dove ha conosciuto la scrittrice, Peter Beard ha stabilito uno dei suoi quartieri generali in Africa, dalle cui visioni e dal cui clima sono nate le sue opere artistiche, tutte declinate con i connotati di un ripetuto omaggio a terre antiche e alle popolazioni e agli animali che le abitano. Con fotografie, collage e Diari di viaggio, Peter Beard ha registrato e documentato tutto quanto si è manifestato davanti ai suoi occhi e al suo squisito senso artistico. Questo materiale è stato spesso raccolto in monografie d’autore, che non han-

Fayel Tall; Lake Rudolph, Kenya; febbraio 1987.

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Maureen e Late-Night Feeder; Hog Ranch, Kenya; 1987. Cuccioli; Mweiga, Kenya; 1968. (in alto, a destra) Khadija con i Diari; New York; 1986.

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no lasciato indifferente il pubblico, sollecitato alla riflessione e a considerazioni sulla condizione umana. Pur nella metafora dell’arte, Peter Beard ha avuto la capacità di non esaurire la propria azione nel gesto soltanto estetico, ma di declinarla in un pertinente equilibrio di forze, tra le quali si afferma anche (e soprattutto?) quella della rivelazione realistica e reale: appunto proposta alla meditazione individuale dell’osservatore. Dopo aver pubblicato preziose edizioni per collezionisti e d’arte, il tedesco Taschen Verlag, che sta guadagnando tanti meriti nell’ambito dell’edi-

toria fotografica contemporanea (con sguardi anche retrospettivi e storici) ha realizzato ora un prezioso cofanetto nel quale sono riuniti due volumi che fanno il punto sull’opera di Peter Beard. Semplicemente intitolata Peter Beard, l’attuale proposta di grande respiro riprende i connotati delle citate edizioni per collezionisti e d’arte, delle quali richiamiamo i termini: il titolo Peter Beard è stato realizzato nel 2006 in Collector’s Edition (616 pagine di generose dimensioni 34,5x50cm; in due versioni, con stampa fotografica allegata di Fayel Tall o 965 Elephants; 1000,00 euro) e Art Edition (stessi dati tecnici, per una tiratura limitata a duemiladuecentocinquanta copie, numerate da 251 a 2500 e firmate dall’autore; 4000,00 euro). L’attuale edizione standard di Peter Beard conserva i valori che hanno definito le due interpretazioni bibliografiche appena ricordate: lettura ottimale delle opere e dei Diari, efficace riproduzione litografica che dà risalto al raffinato dettaglio dei collage originari. Come accennato, due volumi in cofanetto: 784 pagine 21,8x31,6cm totali, a settantacinque euro. Comprensivo di un saggio del critico Owen Edwards, il primo volume propone duecento pagine di Diari e duecentonovantaquattro pagine di collage, cinque dei quali presentati in pagine multiple ripiegate, due dei quali datati alla fine del 2007: dunque di stretta attualità. Il secondo volume riunisce l’indice delle immagini del primo volume, fotografie personali dell’autore e suoi lavori delle origini; quindi, si registrano una intervista di Steven M. L. Aronson, una ristampa anastatica del manoscritto del 1993 di Peter Beard, pubblicato sul primo numero (esaurito) della rivista Blind Spot, un’ampia bibliografia e filmografia e la cronologia delle mostre dell’autore. Angelo Galantini


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WEEGEE

(potrebbe bastare il nome)

F

rancamente: chi pensa che la mostra Unknown Weegee: cronache americane, al Palazzo della Ragione di Milano, a due passi da piazza del Duomo, fino al prossimo dodici ottobre, sia rappresentativa del celebre autore, che ha declinato in poesia la cronaca nera (ne stiamo per scrivere), potrebbe rimanere deluso dalla serie di immagini presentate. Ovvero, chi volesse andare in cerca di verifiche e confronti, qui non trova nulla della produzione fotografica nota di Weegee (è dichiarato: Unknown Weegee). Ovvero, non trova nessuna delle fotografie conosciute, che hanno composto i tratti di una esperienza espressiva unica nel proprio genere e unica all’interno del consistente contenitore della Storia del linguaggio visivo, così come è stata raccolta e raccontata da molti, da ciascuno dei quali abbiamo imparato. Non certo per caso, né celia, la mostra è stata debitamente identificata come Unknown Weegee, ovvero “Weegee sconosciuto”, con l’aggiunta, al passaggio italiano di un itinerario internazionale, partito da New York l’estate 2006, dell’identificazione a promesse cronache americane, che offrono un richiamo e riferimento certo per il pubblico più ampio, perché generico. Chiariamo subito la certificazione di “Weegee sconosciuto”: come appena rilevato e annotato, nessuna delle novantasette fotografie presentate in mostra è nota e riconoscibile; quando va bene, si può trattare di scatti simili a inquadrature conosciute: ma, per lo più, si tratta proprio di al-

tro. Infatti, Unknown Weegee: cronache americane è stata realizzata con stampe (vintage) che appartengono alla collezione dell’International Center of Photography di New York, che fanno parte del fondo donato dalla compagna del fotografo, Wilma Wilcox, composto da commoventi cimeli di una intera esistenza. Dunque, si tratta di fotografie e stampe che Weegee aveva realizzato per sé, spesso senza alcuna diligenza formale (tanto che

«Io sono sposato con la mia macchina fotografica» Weegee (1961).

Weegee con la Speed Graphic, usata dal 1930 al 1947 -successivamente ci sarebbero state l’Hasselblad e la Rolleiflex-, e l’immancabile sigaro: qui a sinistra in un autoritratto del 1940 (circa) e sulla pagina accanto nel ritratto più noto, scattato nel 1942 da un autore sconosciuto. Sempre sulla pagina accanto, il timbro che Weegee apponeva alle proprie stampe.

Esposta a Milano, fino al prossimo dodici ottobre, Unknown Weegee: cronache americane è una selezione fotografica che si rivolge più agli addetti che al grande pubblico generico, al quale dovrebbero indirizzarsi i programmi ufficiali degli enti cittadini. Non è una retrospettiva del grande autore newyorkese, ma un complemento alla sua fotografia, appunto adatto all’approfondimento e non alla presa di contatto. Quindi, in mancanza di ciò che si conosce (o dovrebbe conoscere), nessuna conferma, ma una visione trasversale e di rinforzo su un “Weegee sconosciuto”, alla lettera. Assai più sconosciuto di quanto si possa immaginare 49


«La finalità di Weegee non è il sensazionalismo. È un artista, un uomo dai sentimenti seri e forti. Nell’area della vita in cui ha vissuto e lavorato, le sue fotografie sono la registrazione veritiera del suo modo di vedere. Per questo critico sono uno straordinario amalgama di umorismo sardonico, indignazione per l’ingiustizia, pathos e una compassione velata di amarezza. Sembrano ripetere “La vita deve avere una sua dignità”» Paul Strand

WEEGEE THE FAMOUS

P

rogrammata al Le Pavillon Populaire di Montpellier, fino al prossimo quattordici settembre, la mostra New York. Weegee The Famous (incredibile, per la Francia: tutta la dizione in inglese) rappresenta l’autentica occasione per conoscere la fotografia di questo grande autore. Per la prima volta in Europa, duecentottanta immagini (dalla collezione di Michael e Michele Auer; FOTOgraphia, settembre 2005) visualizzano un percorso espressivo esteso dal 1932 al 1960: in quattordici sezioni tematiche, tutte e solo stampe vintage, originariamente prodotte per la pubblicazione su giornali e riviste. Questo consistente fondo, che va dalla cronaca ai mordaci ritratti umoristici della fine degli anni Cinquanta, è stato ceduto agli Auer da un amico intimo di Weegee, il fotografo Louis Stettner, che nel 1977 curò la prima monografia di centododici immagini, semplicemente intitolata Weegee (Alfred A Knopf, New York), ma personalizzata in copertina dall’ingrandimento del celebre timbro con il quale il cronista newyorkese certificava le proprie fotografie: appunto “Credit Photo by Weegee the Famous” (a pagina 48). L’importanza di questa prima raccolta è tale e tanta, che l’allestimento di New York. Weegee The Famous riflette la sua stessa divisione tematica, che richiama i passi della fotografia dell’autore. New York. Weegee The Famous. Dalla collezione di Michael e Michele Auer; direzione artistica di Roland Laboye. Le Pavillon Populaire, Esplanade Charles de Gaulle, F-34000 Montpellier, Francia. Fino al 14 settembre; martedì-domenica 11,00-19,00. Con catalogo di 384 pagine.

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a volte i bordi di contorno sono storti, per un uso affrettato e non accurato del marginatore), come possibile promemoria.

UNKNOWN WEEGEE Così che, se vogliamo precisarlo, confermando quanto già annotato lo scorso luglio, in anticipazione, «per chi si occupa di fotografia con curiosità e voglia di conoscere (e sapere), le note preventive di annuncio della retrospettiva Unknown Weegee: cronache americane sono a dir poco entusiasmanti. [...] È un appuntamento fotografico di primissimo piano, da non perdere assolutamente. [...] In mostra e nel relativo volume-catalogo che l’accompagna (realizzato da Steidl per conto di Icp: niente edizione italiana, per la quale l’editore tedesco ha negato i diritti), [...] copie fotografiche personali di Weegee, da lui stesso stampate e maneggiate (emozionanti i segni dell’usura fisica), trasversali al suo intero corpo di lavoro, spesso filologicamente impreziosite da annotazioni in retro (non visibili: ma ci sono) o sui bordi. Insomma, sono stampe di lavoro, che dalla propria utilità originaria, a distanza di decenni, si propongono per una condivisione che avvolge e coinvolge l’osservatore, oltre lo spessore e i significati espliciti delle visioni, inquadrature e composizioni del soggetto rappresentato». Ancora: «così, ci piace pensare a un complemento, a un “rinforzino” di quelli che completano certi inviti a pranzo, che aggiunge qualcosa alla conoscenza individuale. Quindi, non un ripasso, ma una autentica, opportuna e ben accetta lezione fotografica, integrativa di tutto quanto già possiamo sapere su Weegee». Insomma, una occasione ghiotta per chi vive di fotografia -noi tra i tanti-, ma, allo stesso momento, una possibile delusione per chi ne attraversa più distrattamente la via. A cura di Cynthia Young, per conto dell’International Center of Photography, che -ripetiamoloconserva un affascinante fondo di Weegee, Unknown Weegee: cronache americane non delinea una presa di contatto con l’autore, come invece fa l’avvincente esposizione allestita a Montpellier, in Francia, fino a metà settembre (riquadro qui accanto) e ha fatto, in misura minore, la rassegna di stampe vintage 1939-1950 allestita alla Galleria Photology, di Milano, nella primavera 2001: come abbiamo appena rilevato, questa italiana/milanese è una selezione che si offre meglio a chi già conosce la fotografia di Weegee, il cui percorso espressivo più noto viene qui integrato da una altra serie di immagini a complemento. Così che, per certi versi, tutti consapevoli, occorre riprendere considerazioni già espresse, lo scorso marzo, nell’ambito della presentazione della mostra Wilhelm von Gloeden Fotografie. Nudi Paesaggi Scene di genere, a cura di Italo Zannier, per combinazione esposta nello stesso Palazzo della Ragione, di Milano, dove è ora allestita l’attuale Unknown Weegee: cronache americane: per quanto qualsiasi esposizione di originali fotografi-


© WEEGEE / INTERNATIONAL CENTER

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PHOTOGRAPHY (2)

ci dia particolari tipi di emozioni, che allineano l’osservatore con le intenzioni creative dell’autore, il pur attento allestimento scenico di questa mostra ci pare più appagante per gli addetti di quanto non sia coinvolgente per il pubblico. Infatti, con qualsiasi personalità professionale si esprimono, gli addetti hanno un particolare rapporto con gli originali fotografici, che vengono osservati, letti, con-

siderati e, persino, studiati con mente e sentimenti finalizzati. Nel grande salone del Palazzo della Ragione di Milano, costoro (noi tra questi) trovano esattamente ciò che serve al loro approccio con l’approfondimento della fotografia di Weegee: un casellario filologicamente impeccabile, con il quale appagare il proprio appetito. Il pubblico più ampio, genericamente generico, al quale si rivolgoQui presentiamo una stampa di Weegee così come è esposta nella mostra Unknown Weegee: cronache americane e conservata nel fondo dell’International Center of Photography di New York. Nelle pagine a seguire, sono invece riprodotti solo i soggetti, senza i bordi delle rispettive stampe bianconero e senza le eventuali annotazioni a margine sugli stessi. At an East Side Murder; circa 1943 (stampa al bromuro d’argento; 18,9x23,5cm).

(in basso, a sinistra) [Circus audience]; circa 1943 (stampa al bromuro d’argento; 23,5x19,1cm).

Anche se non si tratta della stessa insegna, registriamo un Weegee appollaiato su un cornicione, pronto all’azione, nei pressi di un negozio di armi di New York. Quindi, testimoniamo che la fotografia Gun shop, appunto negozio di armi (a sinistra, in basso), del 1943, è stata usata per la sovraccoperta di un romanzo di James Ellroy, che si ispira sempre alla cronaca nera americana degli anni Cinquanta e dintorni (sebbene a quella di Los Angeles, la sua città): Corpi da reato, Bompiani, 1999; dal 2000, nella collana dei Tascabili Narrativa.

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NAKED CITY

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Loredana Patti

pinione assolutamente personale (Maurizio Rebuzzini), con la quale allinearsi o dalla quale prendere le distanze: a ciascuno, il suo. Io considero Naked City una delle più significative raccolte della Fotografia, con la quale confrontarsi per decifrare e considerare l’essenza del suo stesso linguaggio espressivo. A book is born, un libro è nato, recita il primo dei diciotto capitoli nel quale l’insieme è scomposto (diciassette di immagini e uno, conclusivo, di annotazioni tecniche). Sulla pagina a fronte, a sinistra, l’imperterrito ritratto di Weegee con la Speed Graphic tra le mani e il sigaro tra i denti (a pagina 48), adeguatamen-

Weegee mentre firma le copie di Naked City, in una libreria newyorkese: immancabile la Speed Graphic.

te didascalizzato: Weegee and his Love - his Camera. Ovverosia, Weegee con il suo amore, la sua macchina fotografica: binomio indissolubile, segno di un’esistenza votata alla fotografia di cronaca. In Naked City (Essential Books, New York, 1945; e poi anastatiche Da Capo Press, New York, dal 1973 e del 2002) sono raccolte fotografie di archivio, che Weegee ha rivisto e ri/accostato tra loro, dividendole in capitoli tematici. Esaurite le rispettive cronache newyorkesi originarie, non solo di nera, ma soprattutto di nera, le immagini raccontano con un ritmo visivo nuovo e innovativo. Successivamente, molte di queste fotografie sono state riproposte in raccolte monografiche d’autore, andando a comporre i tratti di una personalità tra le più straordinarie della fotografia del Novecento. Sinceramente, tutte queste monografie moderne (e sono tante, mai troppe) sono state prodotte con particolare attenzione, tanto da vantare, tra l’altro, un’ottima riproduzione litografica, che non qualifica, invece, Naked City. Quindi, se si vogliono avvicinare le fotografie di Weegee nella propria alta qualità formale sono indispensabili le raccolte successive: ripetiamo, tanti i titoli tra i quali scegliere, un per l’altro più che adeguati. Però, la sequenza originaria di Naked City mette a diretto contatto con lo spirito dell’autore. Diciamola anche così, in paragone: un conto sono i CD che riuniscono i presunti brani migliori dei Beatles (in compilation), tanto per fare un esempio, e un altro è ascoltare la consecuzione dei motivi degli album originari, quali Revolver (1966), Sgt. Pepper’s Lonely Hearts Club Band (1967; FOTO graphia, giugno 2007), Abbey Road (1969) o A Hard Day’s Night (1964). Ancora oggi, a distanza di sessanta anni abbondanti, è emozionante sfogliare Naked City. Mi piacerebbe poterlo fare insieme ad altri, affinché i commenti di ognuno possano arricchire le mie opinioni. Invece, per come va la vita, posso farlo solo in privato: e solo mi concedo un allineamento in più, con il Toscano tra i denti (non un semplice sigaro, ma proprio un Toscano, che fumava anche Mario Giacomelli: e il parallelo mi è estremamente gradito). Selezione di doppie pagine di Naked City, di Weegee, pubblicato da Essential Essential Books di New York nel 1945 (successivamente riproposto in anastatiche Da Capo Press, New York, dal 1973 e del 2002). Alcune di queste immagini, non tutte, fanno parte della produzione fotografica di Weegee accolta e celebrata dalla critica internazionale, e sono continuamente riproposte nelle monografie sull’autore (sulle cui pagine sono riprodotte con alta qualità formale). Altre rimangono vincolate a questo racconto, uno dei più efficaci della storia della fotografia.

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PHOTOGRAPHY OF

© WEEGEE / INTERNATIONAL CENTER

no le sbandierate produzioni pubbliche, avrebbe bisogno di altre selezioni, diciamo più didattiche.

WEEGEE Nato Usher Fellig (a Zloczew, nell’impero austriaco, oggi Polonia), nel 1899, diventato Arthur Fellig a Ellis Island, nel 1910, quando emigrò a New York con la sua famiglia, stabilendosi nel Lower East Side, diventato “Weegee” nel mondo della fotografia di cronaca newyorkese degli anni Trenta, autodefinitosi “Weegee the Famous” (come reci-

ta il timbro di credito sulle sue stampe; a pagina 48), Weegee -appunto- è una delle figure fondamentali della fotografia del Novecento. Il suo gesto e le sue immagini hanno fornito straordinaria materia al suo stesso significato espressivo, proiettandosi ben oltre l’assolvimento originario della cronaca nera newyorkese degli anni Trenta e Quaranta. Già l’abbiamo scritto e qui ripetiamo: non per paradosso con la cruda realtà delle inquadrature di Weegee, ma per significato autentico, questa è poesia nel senso effettivo del rico-

Water Main Burst Uproots Madison Avenue; circa 1938 (stampa al bromuro d’argento; 17,1x21,7cm).

ALTRO NAKED CITY

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ronologia: nel 1948, a due anni dalla propria pubblicazione, la raccolta Naked City, di Weegee, ispirò la sceneggiatura del film The Naked City, di Jules Dassin, (in Italia, La città nuda; riquadro a pagina 54), liberamente ispirato alla monografia pubblicata nel 1945, della quale riferiamo nel corpo centrale dell’attuale intervento redazionale e nell’apposito riquadro pubblicato sulla pagina accanto. A propria volta, dal film fu derivata una serie televisiva, che è andata in onda negli Stati Uniti dal 1958 al 1963, registrando quattro stagioni successive. In tutto, centotrentotto episodi, dal primo, Meridian, del 30 settembre 1958, al conclusivo, Barefoot on a Bed of Coals, del 29 maggio 1963: trentanove episodi settimanali nella prima stagione (dal 30 settembre 1958 al 23 giugno 1959), trentadue nella seconda (dal 12 ottobre 1960 al 21 giugno 1961), trentatré nella terza (da 27 settembre 1961 al 20 giugno 1962) e trentaquattro nella quarta, e conclusiva (dal 19 settembre 1962 al 29 maggio 1963). Annotiamo anche che la se-

rie ha vinto quattro Emmy per serial televisivi di prima serata e ottenuto una consistente serie di altri riconoscimenti. Come ricorda lo scrittore Lawrence Block, in Mille modi di morire (traduzione banalizzata dell’originario Eight Million Ways To Die, che ne quantifica otto milioni di modi: Il Giallo Mondadori / 1803, del 21 agosto 1983), alla fine del telefilm una voce dai toni profondi e drammatici recitava: «Ci sono otto milioni di storie nella città nuda. Questa è una di quelle». [A proposito, un’altra serie televisiva statunitense di quegli stessi anni, Ai confini della realtà, che è arrivata anche in Italia, ed è stata persino raccolta in Dvd (FOTOgraphia, ottobre 2006) era accompagnata da parole magiche di introduzione: «C’è una quinta dimensione, oltre quelle che l’uomo già conosce; è senza limiti, come l’infinito, e senza tempo, come l’eternità. È la regione intermedia tra la luce e l’oscurità, tra la scienza e la superstizione, tra l’oscuro baratro dell’ignoto e le vette luminose del sapere. È la regione dell’immaginazione, una regione che si trova... ai confini della realtà»].

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CON STANLEY KUBRICK (?!)

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alla raccolta Naked City, di Weegee, è stata ricavato materiale per la sceneggiatura di un film di Jules Dassin, appunto The Naked City (in Italia, La città nuda; 1948), liberamente ispirato alla monografia pubblicata nel 1945, della quale riferiamo nel corpo centrale dell’attuale intervento redazionale e nell’apposito riquadro pubblicato a pagina 52 [a margine ricordia-

mo che il regista Jules Dassin finì nelle liste nere del maccartismo, magari anche per la direzione di questo film]. Da qui parte una curiosa consecuzione, che condividiamo con piacere. Quando era ancora fotografo, prima di diventare regista, Stanley Kubrick fu inviato da Look Magazine sul set di The Naked City, dove conobbe Weegee: su quel set, armato di Rolleiflex (in basso, a sinistra), il futuro regista fotografò lo stesso Weegee in cima a una scala, mentre riprende le scene del “suo” film (in basso, al centro). Sedici anni dopo, Stanley Kubrick ingaggiò Weegee come fotografo di scena per Dr. Strangelove or: How I Learned to Stop Worrying and Love the Bomb (in Italia, letteralmente, Il dottor Stranamore, ovvero come imparai a non preoccuparmi e ad amare la bomba; 1964). Su questo set, l’accento anglotedesco di Arthur Fellig/Weegee è stato copiato/ironizzato da Peter Sellers per caratterizzare il personaggio dello scienziato nazista pazzo che ama la bomba: sia nella dizione originaria, oggi alla portata del Dvd del film, sia nella sua traduzione italiana. Weegee davanti al manifesto del film The Naked City, ispirato dalla e alla sua raccolta di immagini. (in basso, a sinistra) Con Rolleiflex tra le mani, Stanley Kubrick sul set di The Naked City, di Jules Dassin, film ispirato all’omonima raccolta fotografica di Weegee (da Stanley Kubrick. Una vita per immagini, a cura di Christiane Kubrick: Rizzoli libri illustrati, 2003; FOTOgraphia, aprile 2004). (in basso, al centro) Weegee fotografato da Stanley Kubrick, inviato di Look Magazine sul set di The Naked City (1947).

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The Gold Painted Stripper; circa 1950 (stampa al bromuro d’argento; 35,6x27,9cm).

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(in basso, a destra) Stanley Kubrick, regista, e Weegee, fotografo di scena, sul set del Dottor Stranamore: tra le mani di Weegee una Rolleiflex insonorizzata, che richiama l’attenzione del regista.

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noscimento di una fotografia che non vale solo per se stessa, e le proprie intenzioni e/o necessità di partenza, ma per qualcosa di altro, che ciascuno trova prima di tutto in se stesso (Sguardo su, di Pino Bertelli, in FOTOgraphia del febbraio 2006). In questo senso, e in autentico e completo spirito filologico, al quale ci siamo già ampiamente richiamati e riferiti, è assolutamente significativa una sequenza di immagini incluse nell’attuale selezione Unknown Weegee: cronache americane: pensiamo alle sei Installation photo, fotografie di documentazione della mostra Murder is My Business, ovvero l’omicidio è il mio affare (il mio lavoro), allestita alla newyorkese Photo League, nel 1941, quattro anni prima dell’edizione libraria del folgorante Naked City, del quale stiamo per riferire.


Faces in the Crowd; circa 1951 (stampa al bromuro d’argento; 27x34,1cm).

Allo stesso momento, rileviamo che il concetto stesso di “Murder/business” ha attraversato tutta l’azione fotografica di Weegee, in particolare quella della cronaca nera newyorkese, che l’avrebbe poi proiettato su altri palcoscenici, fino alla mondanità hollywoodiana, dove raccolse frutti sostanziosi, per quanto lontani e divergenti dalla originaria poesia della strada. Tanto che la replica insistita di Murder, Inc è uno dei capitoli della sua affascinante autobiografia (Weegee by Weegee: An Autobiography; Ziff-Davis Publishing Company, New York, 1961; Da Capo Press, New York, 1975; riquadro a pagina 57). E poi, ancora, Murder was my business è la didascalia alla ricevuta di Time Incorporated, per la fotografia di due morti assassinati, la cui riproduzione Check for Two Murders fa parte anche dell’attuale selezione Unknown Weegee: cronache americane (circa 1939; stampa al bromuro d’argento 21,3x31,1cm; a pagina 56). Proprio dalla citata autobiografia, ricaviamo un passaggio significativo: «L’altro tabloid, il Daily Mirror, era un giornale anticonformista. Distrattamente lasciavo intendere a Manny Elkins, il picture editor, che avevo appena venduto una serie al News. Allora la voleva anche il Mirror, perché i due giornali erano come cane e gatto e si facevano una concorrenza spietata. All’inizio della mia collaborazione con il Mirror, mi era capitato di vendergli una fotografia e di vederla pubblicata, il giorno dopo, anche su Journal-American. Avevo chiesto a Elkins: “Come mai?”. Mi aveva risposto che anche Journal-American era un giornale della Hearst. Allora gli avevo fatto nota-

re il timbro sul retro della stampa, “Fotografia: Weegee The Famous. Per singola pubblicazione”, e gli avevo scucito altri cinque sacchi. [...] «Gli affari andavano a gonfie vele. Mi sentivo in gran forma. I giornali cominciavano a dipendere da me per la fornitura del materiale. Un bell’omicidio per notte più un incendio e magari una rapina con ostaggi mi bastavano a procurarmi la pancia piena tutti i giorni, oltre alla confortevole sensazione di un gruzzolo in tasca».

NAKED CITY In genere e generale, la fotografia ufficiale celebra soprattutto una identificata serie di autori (e non sempre Weegee è tra questi) e una ristretta quantità di libri fotografici, definiti discriminanti. I titoli sono presto identificati, e non serve richiamarli tutti; comunque, tre sono indispensabili (fantastici anni Cinquanta!): New York, di William Klein, del 1956 [FOTOgraphia, febbraio 1997], Gli americani, di Robert Frank, del 1958-1959 [FOTOgraphia, luglio 2008], e Images à la sauvette, di Henri Cartier-Bresson, del 1952 [FOTOgraphia, dicembre 1999]. Se ce lo concediamo, così indirizzati, si finisce per celebrare e santificare soprattutto una fotografia sopra le righe, indirizzata a un pubblico essenzialmente colto, una fotografia nella quale l’autore ha esercitato un’azione intellettuale, mettendoci del suo per l’interpretazione e rappresentazione del soggetto. Addirittura, se capiamo cosa e quanto stiamo affermando (nella completa stima con autori di tanta statura e indirizzo, e nel rispet-

Dal terzo volume della serie Pin-up, fumetto sceneggiato da Yann Le Pennetier e disegnato da Philippe Berthet, uno dei tanti ispirati a Betty Page, pubblicato in Italia nella collana Euromaster Tuttocolore, che abbiamo anticipato in FOTOgraphia del marzo 2001. Per un istante, tra le pieghe della vicenda a sfondo poliziesco, che attraversa la parabola fotografica di Betty Page, fa capolino Weegee (con errore “Wegee”), inquadrato proprio come impertinente fotografo di cronaca. Attenzione, la traduzione italiana in “re dei guardoni” risulta più forte di quanto non sia l’originaria definizione di “Peeping Tom”, che vuol dire lo stesso, ma lo esprime con altra lievità.

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Girl jumped out of car, and was killed, on Park Ave.; probabilmente 1940 (stampa al bromuro d’argento; 18,1x22,9cm).

Cinderella Ball; 1941 (stampa al bromuro d’argento; 26,4x30,8cm).

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to dell’amicizia personale con alcuni di loro), si arriva a considerare soltanto -non soprattutto- una fotografia in una certa misura insolente, forse persino “stronza”. Non fraintendete, è quasi un paradosso, una provocazione, che stabilisce i termini della vicenda, forzandoli volontariamente e consapevolmente: non si tratta di giudizio di demerito, né di non valore, ma di uno scarto a lato utile per inquadrare la vicenda fotografica di Weegee che stiamo considerando. [Se ce lo concediamo, possiamo riferire un paragone tra le fotografie della Depressione statunitense degli anni Trenta riprese, nelle medesime circostanze, dal grande Walker Evans (in FOTOgraphia del dicembre 2005 e Sguardo su, di Pino Bertelli, del novembre 2003)

Dalla mostra Unknown Weegee: cronache americane, al Palazzo della Ragione, di Milano, fino al prossimo dodici ottobre, riprendiamo Check for Two Murders (circa 1939; stampa al bromuro d’argento 21,3x31,1cm): riproduzione di una ricevuta di pagamento di Time Incorporated New York, per la fotografia di due morti assassinati. Nella sua autobiografia Weegee by Weegee, ampiamente citata nel testo e richiamata nel riquadro sulla pagina accanto, Weegee l’ha didascalizzata come Murder was my business: l’omicidio è stato il mio affare (il mio lavoro). Con l’occasione, ricordiamo anche e ancora che Murder is My Business (è il mio affare / è il mio lavoro) è il titolo di una mostra che lo stesso Weegee ha esposto alla newyorkese Photo League, nel 1941. Nell’ambito dell’attuale Unknown Weegee: cronache americane, sei fotografie ( installation photo) documentano quell’allestimento.


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ell’edizione originaria dell’autobiografia di Weegee, intitolata Weegee by Weegee: An Autobiography e pubblicata da Ziff-Davis Publishing Company di New York nel 1961, possediamo soltanto una accurata fotocopia. Invece, su eBay siamo riusciti a rintracciare e acquistare la seconda edizione, del newyorkese Da Capo Press (1975), che ha curato anche le anastatiche di altri suoi titoli, a partire dall’epocale Naked City, trasversale alla nostra lunga riflessione odierna. Per quanto questo nostro volume sia bibliograficamente (e feticisticamente) inferiore all’originario, e sia altresì penalizzato dalla sovraccoperta ritagliata e deturpata, c’è qualcosa in questo oggetto che lo distingue e qualifica. Come testimoniamo, si tratta della copia appartenuta alla biblioteca della prestigiosa Time-Life Books (stanza 305D: dalla quale è stato proditoriamente sottratto? o forse soltanto eliminato!): lo certifica il timbro sul frontespizio, altresì comprensivo di annotazioni e riferimenti a matita (qui accanto). Allo stesso momento, e in sovramercato, la proprietà Time-Life Books è attestata dalla scrittura a pennarello nero sui bordi destro e superiore del volume (qui sotto). Insomma, così si accontenta un certo feticismo. Ma l’edizione originaria è tutt’altro: ne siamo consapevoli e lo riconosciamo. La proprietà originaria di questa copia di Weegee by Weegee: An Autobiography è attestata anche dalla scrittura sui bordi esterni delle pagine: “T/L Books”, ovverosia biblioteca di Time-Life Books.

(al centro) Some of the Players; circa 1945 (stampa al bromuro d’argento; 21,3x16,5cm).

Couple in Voodoo Trance; circa 1956 (stampa al bromuro d’argento; 21,3x19,1cm).

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(in alto, a destra) Frontespizio della nostra copia di Weegee by Weegee: An Autobiography, nell’edizione Da Capo Press, New York, 1975: a parte le annotazioni a matita, il timbro rivela l’antica appartenenza di questo volume alla biblioteca di Time-Life Books.

LOREDANA PATTI (2)

WEEGEE BY WEEGEE

e Ben Shahn, pittore trasmigrato alla fotografia (Sguardo su, sempre di Pino Bertelli, del maggio 2006). Le immagini di Ben Shahn, spontanee e dirette, sono spesso più incisive del soggetto e più emozionanti di quelle di Walker Evans, raffinato e colto autore, celebrato dalla Storia. Ancora, e analogamente, sulla stessa linea di ragionamento possiamo considerare spontaneo e non artificiosamente intellettuale Mario Giacomelli, peraltro ido-

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OCCHIO INDISCRETO

Protagonista di Occhio indiscreto, il reporter di cronaca nera Bernzy è tagliato sulla figura e personalità di Weegee. L’attore Joe Pesci ne replica bene i gesti e gli atteggiamenti; quindi, non mancano la Speed Graphic all’occhio e il sigaro tra i denti.

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ncora indispensabile oggi, il richiamo al cinematografico Occhio indiscreto (in originale The Public Eye, di Howard Franklin; Usa, 1992) è stato ripetuto più volte sulle nostre pagine: dalla prima segnalazione nel marzo 1996 (Vite vere in cinemascope: appunto Weegee, e poi Margaret Bourke-White e Ernest James Bellocq) alla più recente, dello scorso maggio, quando abbiamo integrato la frettolosa classifica con la quale American Photo ha indicato i suoi dieci film più importanti della presenza della fotografia nel cinema. A completamento della presentazione di Weegee, è necessario ricordare come in Occhio indiscreto la messa in scena di un reporter anni Quaranta richiami esplicitamente la figura e personalità di Weegee. Così come l’originale, anche il cinematografico Bernzy o Grande Bernzini (Leon Bernstein) si muove nel sottobosco newyorkese: in una città violenta, nella quale ogni notte si rinnova la sfida della vita, e dove il valore dell’esistenza non supera i tre dollari a cadavere con i quali i giornali di nera pagano ogni fotografia di morti ammazzati. Nel film, un ottimo Joe Pesci replica bene modi, gesti e atteggiamenti nei quali ognuno è disposto a individuare il leggendario Weegee, a partire dall’immancabile sigaro tra i denti, anche quanto il mirino della Speed Graphic è portato all’occhio. E non mancano consistenti riflessioni sulla fotografia, che contornano la vicenda principale, di altro indirizzo. [Ricerca iconografica di Filippo Rebuzzini] Il richiamo a Weegee è talmente esplicito, che la produzione del film Occhio indiscreto ha distribuito anche questo posato di Joe Pesci, che riprende e ne ripropone un celebre autoritratto del 1942, con Weegee al lavoro nel baule della sua Chevrolet, adattato a ufficio (in alto).

latrato dalla critica, che ne ha sacralizzato il gesto]. Cioè, ricollegandoci al filo delle considerazioni interrotte con i richiami riportati qui sopra, si arriva a non tenere conto dell’immagine nel quotidiano e della poesia che affiora non dalla superficie evidente dei soggetti rappresentati, ma si manifesta impetuosamente tra le pieghe dell’esistenza raccontata per immagini. In questo senso, con la propria naturale schiettezza, spontaneità e franca trasparenza espressiva, Weegee è una delle figure più nobili e valide della storia recente della fotografia, per la quale ha scritto capitoli di avvincente fascino, che non si limitano all’apparenza delle sue inquadrature, ma scavano nel profondo dell’anima di ciascuno di noi. Così che, la sua raccolta Naked City, alla quale

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altre hanno fatto seguito, senza però raggiungere questa perfezione di sintesi e condivisione (per esempio, tutt’altro è il rimaneggiamento in Naked Hollywood), è esemplare dell’intenzione fotografica e del suo conseguente valore, una volta assolto ed esaurito l’incarico originario. Ripubblicato dal newyorkese Da Capo Press in successive edizioni anastatiche, dal 1973, e riproposto in una ulteriore anastatica aggiornata, del 2002, Naked City, del 1945, è un volume fotografico a dir poco sensazionale e straordinario (Essential Books, New York). In anticipo su comportamenti fotografici attuali, che da tempo attraversano la fotografia contemporanea, e senza alcuna delle malizie dei nostri giorni, a volte addirittura sgualdrine, Weegee ha com-


PHOTOGRAPHY (2) OF

© WEEGEE / INTERNATIONAL CENTER

posto un racconto fotografico riprendendo immagini dal proprio archivio di cronaca, per lo più nera, e le ha ri/collegate tra loro con un nuovo senso e rinnovati punti di osservazione. Indipendentemente dalle motivazioni originarie, esauritesi nelle rispettive pubblicazioni sui tabloid newyorkesi, nella sequenza di Naked City le fotografie non raccontano più un fatto, un accadimento, qualsiasi questo sia e qualsiasi siano stati i suoi protagonisti, ma compongono i tratti di un altro racconto. Accompagnate da testi introduttivi, e spesso anche da didascalie (sostanzialmente) ironiche, attraverso diciassette capitoli, più un diciottesimo conclusivo di note fotografiche, in accostamento sulle pagine a fronte e nella successione delle pagine a seguire, le fotografie raccontano l’essenza e anima di una città, per l’appunto nuda, oppure denudata (riquadro a pagina 52). Quindi, in conclusione, Weegee è stato anche altro: come accennato, ha avuto modo di raccogliere gustosi frutti della sua semina; si è trasferito a Los Angeles, condividendone la mondanità; ha elaborato una particolare tecnica per realizzare mordaci ritratti umoristici (teorizzata anche nella monografia Weegee’s Creative Camera, del 1959, anno nel quale espose i suoi ritratti defor-

“Ermine-Wrapped Patron Caught in Gambling Den”; 1940 (stampa al bromuro d’argento; 20,6x25,4cm).

[Space Patrol]; circa 1954 (stampa al bromuro d’argento; 23,2x19,2cm).

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Ritratto di Weegee eseguito da Lisette Model, nel 1945, all’indomani della pubblicazione di Naked City: una volta ancora, e una di più, con l’inseparabile Speed Graphic.

Unknown Weegee. Con saggi di Luc Sante e Cynthia Young e testi di Paul Strand e Ralph Steiner; Icp/Steidl, 2006; 120 illustrazioni; 152 pagine 22,8x27,9cm, cartonato; 25,00 euro.

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Weegee

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«Quando scatto una foto[grafia] mi sembra davvero di entrare in trance: è l’effetto del dramma in corso o in procinto di scatenarsi: nasconderlo e andarsene in giro con occhiali dalle lenti rosa è impossibile. In altre parole, abbiamo bellezza e bruttezza: tutti amano la bellezza, ma la bruttezza permane... Non dimentichiamo che si tratta di un fattore umano»

© WEEGEE / INTERNATIONAL CENTER

[The World Goes Nuts]; circa 1943 (stampa al bromuro d’argento; 11,7x16,5cm).

PHOTOGRAPHY (2)

[Woman signing autographs in car]; circa 1948 (stampa al bromuro d’argento; 27,3x33cm).

mati in una personale allestita nei padiglioni della Photokina: Caricatures of the Great); ha realizzato cortometraggi. Ma l’essenza della sua fotografia rimane vincolata alla stagione della cronaca nera newyorkese degli anni Trenta e Quaranta. È mancato il 26 dicembre 1968, a New York, all’età di sessantanove anni. Maurizio Rebuzzini Ricerca iconografica di Ciro Rebuzzini Unknown Weegee: cronache americane. A cura di Cynthia Young, per l’International Center of Photography, New York; mostra prodotta e organizzata dall’Assessorato alla Cultura del Comune di Milano e 24ore Motta Cultura (02-30076253; mostre@mottaeditore.it). Palazzo della Ragione, piazza dei Mercanti 1, 20123 Milano. Fino al 12 ottobre; lunedì 14,30-19,30, martedì-domenica 9,30-19,30, giovedì fino alle 22,30.



LA MONTAGNA CHE VIVE

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Toscano di origine, da decenni residente a Padova, Giovanni Umicini, classe 1931, ha recentemente celebrato la città d’adozione con una imponente retrospettiva di cinquant’anni della sua street photography: appunto, Per Padova, lo scorso inverno al Museo Civico di piazza del Santo (FOTOgraphia, ottobre 2007). In quella occasione, temporalmente successiva a tante altre esposizioni personali e collettive, è stata sottolineata la statura e qualità della declinazione della definita fotografia di strada, della quale Giovanni Umicini è avvincente interprete (all’esposizione degli originali sopravvive un ben allestito catalogo, pubblicato da Biblos Edizioni, di Cittadella PD; www.biblos.it, info@biblos.it).

Ora, a distanza di poco meno di un anno, lo stesso autore manifesta l’applicazione della propria intensa visione con un soggetto sostanzialmente diverso, addirittura estraneo: quantomeno in apparenza. Dall’inizio di agosto, e per tutto settembre, le Ex Scuderie Granducali Medicee, di Seravezza, in provincia di Lucca, ospitano la selezione di immagini Cervaiole. La montagna che vive, che in un certo senso rappresentano un ritorno dell’autore nelle proprie terre di origine. Dedicata alle cave e ai cavatori delle Cervaiole, la mostra, con consistente catalogo di accompagnamento, che riunisce tutte le immagini esposte, è stata promossa dalla Henraux di Querceta, azienda lea-

Da Cervaiole. La montagna che vive: due fasi dell’estrazione del marmo, una di insieme, a campo allargato (a sinistra, 2006), e l’altra in avvicinamento grandangolare (qui sopra, 2008).

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der nel settore della escavazione e lavorazione del marmo, con il patrocinio e la collaborazione dell’Amministrazione Comunale di Seravezza. L’insieme delle immagini di Giovanni Umicini valorizza e fa conoscere a un vasto pubblico la millenaria cultura del marmo. Nelle intenzioni dell’amministrazione locale, questa esposizione si configura come il primo di una serie di eventi culturali e promozionali, identificati nell’ampio progetto La via dei marmi di Michelangelo. Il corpo di queste ottanta fotografie riguarda il più importante gruppo di cave di proprietà della Henraux, quelle delle Cervaiole richiamate dal titolo (Monte Altissimo), già attive alla metà dell’Ottocento, che nel corso dei decenni, secoli ormai, hanno fornito marmi per prestigiosi edifici pubblici, privati o di carattere religioso in tutto il mondo. Oltre riprendere il senso della propria visione fotografica, la rappresentazione di Giovanni Umicini conferma gli stilemi che nel corso del tempo ne hanno definito la personalità espressiva: tutte fotografie in bianconero, rigorosamente stampate dall’autore, che impone così anche la sua rico-

Protagonisti di un lavoro duro e difficile: Riccardo Tedeschi (qui sopra, 2007), Federico Ori (a destra, 2007) e Lorenzo Tonacci (qui sotto, 2006). (in basso, a destra) Imponente visione delle cave (2005).

nosciuta capacità in camera oscura. La mostra Cervaiole. La montagna che vive è il risultato finale di un lavoro iniziato nel 2003 sulle cave dalle quali si estrae una pregiata qualità di marmo, nota come Arabescato Cervaiole. A partire dal 2003, con regolarità e costanza Giovanni Umicini ha frequentato l’ambiente delle cave ritraendo realtà differenti in diversi periodi dell’anno: dalle trasformazioni ambientali, climatiche e stagionali ai grandi paesaggi di cava, vasti e solenni, aperti sull’orizzonte del mare e verso le cime interne delle Alpi Apuane. Le immagini sono dedicate soprattutto al lavoro dei cavatori; con straordinaria delicatezza e sentimento partecipe inquadrano e compongono gesti, espressioni, momenti della fatica quotidiana di questi uomini, protagonisti da secoli di un lavoro duro e difficile. Uomini dal carattere non sempre facile, con i quali l’autore fotografo ha stabilito una forte intesa e ha stretto un particolare rapporto di amicizia e di stima reciproca, al punto di essere considerato dagli stessi cavatori come “uno di loro”. A.G. Giovanni Umicini: Cervaiole. La montagna che vive. Ex Scuderie Granducali Medicee, via del Palazzo, 55047 Seravezza LU; www.palazzomediceo.com, uturismo@comune.seravezza.lucca.it. Fino al 28 settembre; 10,00-13,00 - 16,00-23,00, dal 16 settembre martedì-domenica 10,00-13,00 - 15,00-20,00. Catalogo a cura di Costantino Paolicchi: edizione Bandecchi&Vivaldi (via Giovanni XXIII 54, 56025 Pontedera PI; 0587-483270; www.bandecchievivaldi.it, info@bandecchievivaldi.it); 138 pagine 28x28cm, cartonato.

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ROMANO CAGNONI

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Disoccupate le strade dai sogni della fotografia, perché di nessuna patria è la fotografia. Non c’è bisogno né di patria né di fotografia dove ci si sente bene, perché il mondo e la fantasia sono il paese di non-dove della fotografia. Ogni bandiera e ogni dogma piantati nel cuore rendono l’immaginazione sterile. Non v’è fotografia celebrata che tenga: la fotografia non serve a niente, se non significa essere nel mondo e abitarlo in un modo diverso da ciò che la società dello spettacolo impone. Guy Debord era realista, ecco perché chiedeva l’impossibile: «Contrariamente alla pura e semplice menzogna, la disinformazione, e qui il concetto diventa interessante per i difensori della società dominante, deve fatalmente contenere una certa parte di verità, ma deliberatamente manipolata da un abile nemico. [...] Insomma, la disinformazione sarebbe il cattivo uso della verità. Chi la diffonde è colpevole, e chi ci crede, imbecille». (Commentari sulla società dello spettacolo; SugarCo, 1990; Alla memoria di Gerard Lebovici, assassinato a Parigi il 5 marzo 1984 in un agguato rimasto misterioso). Il potere dello spettacolare -con tutti gli strumenti del comunicare- organizza magistralmente l’ignoranza, la sottomissione e falsa la percezione. Il governo dello spettacolo è padrone dei ricordi, formatore di coscienze, depositario di valori falsi; la comunicazione spettacolarizzata regna ovunque, ed esegue le proprie sentenze sommarie. La fotografia della deriva possiede già il sogno di una società in amore, si tratta ora di possedere la coscienza di viverlo realmente.

DISOCCUPATE LE STRADE DAI SOGNI DELLA FOTOGRAFIA Romano Cagnoni, fotografo della deriva o della conoscen-

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za, è uno dei pochi fotogiornalisti italiani che ha raggiunto una statura autoriale internazionale. Per questo “maledetto toscano”, ogni fotografia non ha “suolo sacro”, ma può diventare una sorta di luogo dove abitare, almeno in quel momento. «Sei amato solo dove puoi mostrarti debole senza provocare in risposta la forza» (Theodor W. Adorno). La libertà non sta nello scegliere la luce o l’ombra, ma nel chiamarsi fuori da qualsiasi scelta prescritta. Ciascuno di noi è diverso e unico, perché contiene in sé tutta l’umanità; la verità è spesso volgare e la ragione sconcia. Meglio lavorare per uno straniamento dialettico

guaggio fotografico che vale. Romano Cagnoni comincia a girare il mondo per varie testate giornalistiche. Comprende presto che la macchina fotografica non è solo un giocattolo per idioti, ma anche uno strumento di comunicazione che se non può salvare il mondo, qualche volta, almeno, non si fa connivente con le violenze che i popoli impoveriti subiscono. Uomo dallo spirito libertario e fotografo senza tessera di partito, insieme al giornalista James Cameron, nel 1965 testimonia la guerra nel Vietnam. Nel 1966, è in Africa, per un servizio sulle Arti Negre commissionato dal Sunday Times. Tra il 1968 e il 1970, documen-

«Non posso permettermi di giudicare, di tirare conclusioni affrettate, di essere di destra o di sinistra. Ho solo imparato questo, a essere dappertutto dalla parte del debole» Romano Cagnoni o fotografico, tanto abbiamo pianto e visto che siamo nauseati del genio dell’uomo. Una nota fotografica, quasi. Romano Cagnoni nasce a Pietrasanta (Toscana), nel 1935. Nel 1958, va a Londra e non teme di fare il lavapiatti per vivere. Inizia a lavorare come fotogiornalista per alcune riviste italiane; Simon Guttmann, un ebreo di origine austriaca, gli mette una macchina fotografica in mano (come aveva fatto con Robert “Bob” Capa, forse) e gli suggerisce i primi rudimenti sul lin-

ta la guerra nel Biafra; per la qualità etica ed epica delle sue immagini riceve un Editor’s note su Life e l’Overseas Press Club Award, negli Stati Uniti. Nel 1970, fotografa la guerra in Egitto e i guerriglieri di Al-Fatah. Nel 1971, l’Agenzia Magnum Photos lo contatta, per annetterlo tra le sue prestigiose fila, ma la burocrazia artistica non fa per lui, e resta a lavorare come fotografo indipendente. I fotoracconti di Romano Cagnoni sul Bangladesh, Cile, Cuba, Brasile, Argentina, Para-

guay, Israele, Cambogia -guerre, lotte di liberazione, popoli assoggettati dal post-colonialismo delle multinazionali- sono attraversati da un codice morale raro, da un’autenticità dell’amare insolita, da un poetica della fratellanza che è appartenenza alle pluralità multiculturali e non ai giochi di potere. Nel 1978, Romano Cagnoni porta la sua macchina fotografica nel meridione italiano, nelle fabbriche della Fiat, nelle celebrazioni della Sindone di Torino; tiene conferenze all’università di Bologna, elabora campagne pubblicitarie per la Olivetti. Nel 1980, va in Afghanistan e fotografa (clandestinamente) l’Armata Rossa, l’anno dopo è la volta della Polonia e poi la guerra tra Argentina e Inghilterra per le isole Falkland (Malvinas, per i sudamericani). Nel 1983, l’Observer lo invia in Oriente per un servizio sul Triangolo d’oro. Berenice Sydney, compagna di Romano Cagnoni da più di vent’anni, viene a mancare nel maggio dello stesso anno. Romano Cagnoni fissa sulla pellicola la desertificazione del Sahara, torna in Italia e realizza un ritratto fotografico della sua città, lavora sui malati di mente di Napoli e Aversa e si avventura nelle cave di marmo di Carrara; nel 1989, documenta il crollo del muro di Berlino (e del regime comunista) e i moti rivoluzionari in Romania; nel 1990, racconta il sangue del popolo curdo e le tensioni sociali in Israele (prima della guerra del Golfo); nel 1992, riceve la medaglia di bronzo dell’Art Directors Club für Deutschland. Con un apparecchio fotografico a banco ottico (4x5 pollici / 10,2x12,7cm), tra il 1991 e il 1995, Romano Cagnoni riprende le macerie della guerra in Yugoslavia. I suoi ritratti di bambini di Sarajevo e i profughi in


fuga dalle “bombe intelligenti” sono pubblicati sui più importanti giornali del pianeta. Nel 1995, realizza un reportage straordinario sui guerriglieri ceceni a Grozny. In quei giorni, lo zar della mafiosa dittatura post-comunista (Vladimir Putin) ha ordinato lo sterminio dei ceceni (che supererà il milione e mezzo di persone), e il silenzio complice del mondo occidentale assume imbarazzanti e umilianti forme di connivenza con il crimine organizzato. Per le democrazie dello spettacolo, il gas e il petrolio russi valgono ben più della carneficina di un popolo. Nel 1996, lavora a una campagna pubblicitaria per gli Emirati Arabi Uniti e tra il 1997 e il 1998 documenta lo sviluppo di Israele, a cinquant’anni dalla fondazione. Torna sovente in Italia, si reca diverse volte ad Assisi, per fotografare i restauri dei danni causati dal terremoto. Ci piace pensare che in questo inizio di secolo il toscanaccio (con il sorriso aperto dei poeti di strada) continui a sognare con la sua macchina fotografica un mondo meno feroce. Comunque, il suo farefotografia ha insegnato che «ciascuno si nutre dell’agonia di un altro uomo» (E.M. Cioran), ed è bene non dimenticare mai che solo la bellezza può salvare l’umanità dalla caduta. Del resto, l’industria delle immagini non inventa nulla di singolare e l’ultima rivoluzione della fotografia (non importa se numerica o analogica) è ancora parte di piani programmatici che prevedono il successo economico di altri modi di comunicare; nel contempo, le stesse multinazionali del mercimonio sostengono, con disinvoltura, guerre di colonizzazione, genocidi, catastrofi ambientali causate da una dissennata crescita industriale e la violazione dei più elementari diritti umani in molti paesi del mondo. Ciò che è importante è l’innalzamento dei dividendi bancari, l’umanità assoggettata non conta. «Ne consegue che anche le

fotografie debbono essere decifrate come espressione degli interessi nascosti di coloro che detengono il potere: gli interessi degli azionisti della Kodak, dei proprietari delle agenzie pubblicitarie, dei burattinai dietro il parco industrie americano, proprio così, gli interessi dell’intero complesso ideologico, militare e industriale americano. Una volta messi a nudo questi interessi, potremmo considerare ogni singola fotografia e l’intero universo fotografico», diceva (Vilém Flusser; Per una filosofia della fotografia; Agorà, 1987; Bruno Mondadori, 2006). Tutto vero. L’economia politica ha ucciso l’infanzia della poesia. Coloro che organizzano il mondo sono anche i produttori della sofferenza, e ogni appello alla conquista dei mercati planetari è un richiamo alla schiavitù. «Io nacqui a debellar tre mali estremi: tirannide, sofismi, ipocrisia», Tommaso Campanella diceva. Il regno del desiderio non conosce strategie economiche, né alternanze politiche; la stupidità degli altri non è una scusa per avallare la propria stupidità. Là dove i masnadieri trionfano, lì nasce la disobbedienza civile.

IL MONDO MESSO A FUOCO E LA FOTOGRAFIA DELLA DERIVA La fotografia della deriva è un modo di vedere il mondo, come cambiarlo e come cercare di fondare una filosofia dello sguardo liberato da ogni idolo o simulacro. La filosofia della fotografia come princìpio di conoscenza è al fondo di ogni forma del fotografare. La filosofia della fotografia come interpretazione dell’esistente ha il compito di decifrare, riflettere e aprire spazi di libertà. La filosofia della fotografia come interrogazione della storia è necessaria, poiché è l’ultima forma di rivoluzione della società omologata. Siccome la verità e la poesia sono morte dappertutto, tutto è permesso agli sguardi liberati da ogni coercizione dei sa-

peri dominanti. L’immaginale della deriva sborda dalle passeggiate di Charles Baudelaire, i passaggi di Walter Benjamin, le derive metropolitane dei surrealisti (André Breton), dei lettristi (Isidore Isou), dei situazionisti (Guy Debord), dei ragazzi scappati di casa o dei cani perduti senza collare... ed hanno fatto dell’indignazione il loro stato naturale. Motto di spirito: abbiamo talmente letto, fotografato e parlato, che siamo nauseati del talento di uomini legati alla codificazione dell’inconsueto o alla drammatizzazione dello straordinario. Il mondo messo a fuoco o la fotografia della deriva di Romano Cagnoni contiene ciò che hanno affabulato altri maestri del fotogiornalismo, come Henri Cartier-Bresson, Don McCullin o Eugene W. Smith. Ad entrare nei suoi libri (specie Romano Cagnoni, Sud come sudore, Caro marmo, Chiaroscuro o Il mondo messo a fuoco), quindi nelle sue immagini, si colgono identità violate, violenze continuate, speranze insurrezionali. L’uomo economico o militare è visto sovente come origine del dolore; e anche quando si accosta ai guerriglieri di ogni sorta, Romano Cagnoni non sembra mai credere che è con la guerra che si decidono le sorti del mondo. Per Romano Cagnoni, credo, l’identità dei popoli si basa sulla comunità universale e sulla fine delle disuguaglianze sociali. La sopravvivenza quotidiana non può essere semplicemente destino. Le immagini della deriva di Romano Cagnoni lasciano intravedere il lungo cammino verso la libertà dei popoli impoveriti e nel contempo sono specchio/colpa -mai troppo denunciata- dell’immacolata concezione dell’Occidente come forma migliore di “buon governo”. Il ritorno all’ignoranza, a guardarsi negli occhi, ad ascoltare il diverso da sé, sarebbe un segno di rinnovata

intelligenza; tuttavia, la crudeltà dei regimi democratici aiuta i più capaci o i più arroganti a diventare santi o criminali, che poi è la stessa cosa. La scrittura fotografica di Romano Cagnoni è complessa e immediata al contempo. Se andiamo a sfogliare le sue immagini -La fila di reclute, in Biafra (1968); L’uomo con un bambino morto nelle braccia, in Biafra (1969); Il bunker costruito con tronchi di albero, in Biafra (1970); I ragazzi che salgono sugli alberi di cocco, in Bangladesh (1971); Le ragazze vicino alle tombe delle vittime del “Bloody Sunday”, al cimitero di Londonderry (1972); Il soldato israeliano ferito agli occhi e la moglie che assistono a uno spettacolo, a Tel Aviv (1973); Un malato dell’ospedale psichiatrico di Napoli (1988); I bambini senza dimora di Bucarest (1989); L’arrivo degli emigranti albanesi, a Bari (1991); I bambini nella guerra di Sarajevo (1991); La bambina che tiene nelle mani un pezzo di bomba, a Sarajevo (1992); Il guerrigliero ceceno con i denti d’oro, a Grozny (1995) [che tanto clamore ha suscitato per le affissioni della mostra Chiaroscuro, al Palazzo dell’Arengario, di Milano, alla fine del 2003]; e l’intero mondo “messo a fuoco” da Romano Cagnoninon è difficile cogliere, come è raro vedere nel fotoreportage, il senso profondo dell’umano. Sullo sguardo errante di Romano Cagnoni. Come per molti fotogiornalisti, il suo linguaggio fotografico è polisemico (a più segni), e dietro l’apparente semplicità cela una visione del reale sovente “ritagliata” dalla realtà. Più di altri, Romano Cagnoni non coglie soltanto il momento del fotografico, inventa la fotografia che scatta. Le sue immagini assumono un carattere simbolico: non danno risposte, ma contengono domande. Non c’è niente di creativo nella spontaneità di ogni arte, solo spazzatura per il mer-

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cato dell’arte. Nella fotografia di Romano Cagnoni, l’oscurità della “scatola magica” è ancora circondata di mistero e ogni immagine riesce sovente a contenere i significati (la causa) e l’impronta (la conseguenza). Lo sguardo errante di Romano Cagnoni si sbilancia oltre le sovrastrutture culturali o politiche, e mostra che non ci sono fotografi stupidi, ci sono solo profeti imbecilli dell’educazione alla fotografia. Il linguaggio fotografico di Romano Cagnoni va oltre il reportage dal quale parte. I corpi, gli avvenimenti, le situazioni che cadono nella sua macchina fotografica sono mescolati o amalgamati in immagini risolute, tenere a volte. Specie quando il suo sguardo si posa sui bambini, Romano Cagnoni coltiva una fotografia degli “altrove”, un’iconografia dei corpi, una filosofia di amare il debole e l’oppresso, senza chiedere permesso. Romano Cagnoni sa, e ce lo raffigura con le sue fotografie, che l’ingiustizia governa il mondo. Per quanto ci riguarda, la bellezza compositiva delle sue immagini non è né “pittorica” (come molti hanno scritto), né “istintiva” (che solo in parte è vero). Le fotoscritture di Roma-

no Cagnoni emergono dall’etica/poetica della fotografia diretta (Alfred Stieglitz non c’entra nulla, né con la fotografia diretta, né con altro che non sia mercimonio d’autore) e lasciano pensare a una fotografia dell’amaritudine o dell’accoglienza; tuttavia ciò che rappresentano contiene sempre qualcosa, qualche riferimento, qualche strappo con le idee domi-

mano Cagnoni c’è la consapevolezza della fine dell’arte come della fine del mondo, il rifiuto alla dimenticanza che la storia dei valori imposti è tragica e ingiusta, e a saper scavare nella profondità del suo sguardo trasversale e pulito, si può scorgere anche la voglia e il coraggio del rovesciamento di prospettiva di una quotidianità della barbarie. Ogni critica è un’eresia, e i

«Il primo che si dà arie, pulisce i cessi» [c’era scritto su un cartello del teatro-dormitorio a Kiev, nel 1994, mentre i soldati di Putin sparavano, senza un filo di eleganza, contro i ragazzi che chiedevano il sale dolce della libertà] nanti, non solo in fotografia. Occorre giudicare ciascuno per i suoi atti o la sua arte, non per la posizione sociale, per il suo successo o per i suoi eccessi di sana follia (Antonin Artaud). La fotografia della deriva di Romano Cagnoni si accosta agli indesiderabili della Terra e rivela turbamenti politici e abissi culturali. È anche altro, lo sappiamo, ma è a quella coscienza universale libertaria che mira; colui che lavora per il bene comune non ha bisogno di padri... e nelle immagini di Ro-

carnefici che stanno nei parlamenti delle democrazie spettacolari e dei regimi comunisti a ogni conventicola dei “grandi della Terra” sbandierano che la ghigliottina è l’inizio della saggezza. L’Arcipelago del mercato globale è un gulag nel quale ciascuno si costruisce la propria prigione (come l’Ivan Denissovicˇ di Aleksandr Solzˇenicyn [Una giornata di Ivan Denissovič; Garzanti, 1970 / lo scrittore russo Aleksandr Solzˇenicyn è mancato a Mosca, all’inizio di agosto, all’età di ot-

tantanove anni]) e il fascio dei governi ricchi calpesta la bellezza dell’uomo, sempre. «Il potere politico nasce dalla canna del fucile», recitava il più stupido degli slogan di Mao, e nelle merci contraffatte o banalizzate dei grandi centri commerciali: intanto a ogni leccata di gelato finto, un bambino muore per fame. Non ne vogliamo mangiare di questo pane. Noi siamo per volare con la “colomba di Kant” verso cieli puliti, verso un’esistenza più giusta e più umana per tutti, dove la parola amore vuole dire veramente amore. Disperate le strade dai sogni della fotografia: perché identità e violenza si confondono, e l’ignoranza della guerra e la globalizzazione economica continuano a mortificare quella parte della società civile che rifiuta i surrogati della politica e il buonismo fascista, specie della sinistra (tutta), che giustifica l’integrazione al postcolonialismo storico. Avete reso il mondo contemporaneo un cimitero di illusioni e lo avete chiamo democrazia! Che la fotografia della deriva o della conoscenza sia contro di voi! Ciascuno vive o muore per le proprie utopie realizzate. Pino Bertelli (13 volte agosto 2008)


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