Mensile, 5,70 euro, Poste Italiane SpA - Spedizione in abbonamento postale - D.L. 353/2003 (convertito in Legge il 27-02-2004, numero 46), articolo 1, comma 1 - DCB Milano
ANNO XV - NUMERO 146 - NOVEMBRE 2008
Fotogrammi A LUCCA 2008
Anniversari 1948 NIKON I POLAROID
NASA 1958-2008 FOTOGRAFIE “SPAZIALI”
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[Nel 1948, negli Stati Uniti] I negozianti avevano un margine dal trenta al quaranta per cento sulle vendite di apparecchi fotografici e molto più nello sviluppo e stampa. La Kodak stessa ricavava sulle pellicole margini dall’ottanta al novanta per cento. A quell’epoca, lo sconto era in pratica sconosciuto nel mercato al dettaglio. Peter C. Wensberg su questo numero, a pagina 42
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ALLAN D. VERCH
MI RICORDO. Su questo numero di FOTOgraphia, da pagina 41 celebriamo il sessantesimo anniversario dalla prima dimostrazione pubblica e vendita dell’originaria Polaroid Model 95: ai grandi magazzini Jordan Marsh, di Boston, il 26 novembre 1948. Ancora una volta, lo facciamo attraverso il ricordo di Peter C. Wensberg, riprendendo dalla sua appassionante biografia Edwin H. Land e la Polaroid (Sperling & Kupfer, 1989). Aggiungiamo poco di nostro, perché questa ricorrenza arriva nel momento nel quale dobbiamo registrare anche la fine della fotografia a sviluppo immediato, almeno nella forma nella quale l’abbiamo conosciuta e amata per decenni. Sicuramente, il marchio Polaroid resterà, per essere abbinato a prodotti che ne possano mettere a frutto la riconoscibilità conquistata nel tempo. Probabilmente, qualcosa sopravviverà, ma non è questo che più conta, ormai. Certamente, Fujifilm manterrà la propria interpretazione della fotografia a sviluppo immediato ancora per qualche ora. Però l’autentico senso e spirito della fotografia a sviluppo immediato chiude qui: sessanta anni dopo l’avvio ufficiale. Così, ci rimangono soltanto i ricordi, dei quali facciamo prezioso tesoro. Dopo averli richiamati nell’Editoriale dello scorso marzo, una volta ancora torno ai giorni del giugno 1993, quindici anni fa, quando visitai gli stabilimenti Polaroid disseminati attorno la sede ufficiale di Cambridge, Massachusetts, consapevole di incamminarmi verso una sorta di lungo addio. Ricordo perfettamente quei momenti, divisi tra una attualità tecnica di dovere e pellegrinaggi di piacere: verso i luoghi dove è stata scritta la storia Polaroid, a partire dalle intuizioni e invenzioni del suo geniale fondatore Edwin H. Land (che alla sua scomparsa, nel 1991, definimmo appunto “L’ultimo dei geni”, almeno in fotografia). Nel mio pellegrinaggio, sono stato anche in Edwin H. Land Boulevard, che attraversa Cambridge e indirizza verso la vicina Boston. M.R.
Questo è o non è un paese per vecchi?
Copertina Gigantesca esplosione solare, la cui forma ad arco è determinata dal campo magnetico della nostra stella. Le esplosioni avvengono sulla superficie del Sole e si allontanano nello spazio per centinaia di migliaia di chilometri. Sotto l’arco ci starebbero ventiquattro pianeti grandi come la Terra. La fotografia è stata scattata il 14 settembre 1999 dall’Extreme ultraviolet Imaging Telescope (EIT), strumento a bordo del satellite SOHO (Solar and Heliospheric Observatory), nella banda elettromagnetica di lunghezza d’onda pari a 304Å (angstrom), ben più corta dell’ultimo violetto visibile (4230Å). Nell’immagine, le zone più calde del Sole appaiono chiare, mentre quelle più fredde appaiono scure. La temperatura media della corona supera il milione di gradi. Fotografie “spaziali” da pagina 46
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3 Fumetto Da Speciale Witch, novembre-dicembre 2004. Avventura di Orube (storia di Paola Mulazzi e disegni di Federico Bertolucci), con richiamo alla Polaroid, della quale celebriamo il sessantesimo anniversario, conteggiato dalla prima dimostrazione e vendita del 26 novembre 1948 (ai grandi magazzini Jordan Marsh, di Boston), coincidente con il triste addio. La testimonianza di Peter C. Wensberg da pagina 41
7 Editoriale Tutto cambia, ma resta sempre uguale a se stesso. Anche le problematiche tecnologiche ripetono sempre i medesimi connotati. Bisogna saper distinguere ciò che conta da quanto è soltanto superfluo
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8 Niente Photokina? Su questo numero, nessuna relazione dalla recente Photokina 2008, svoltasi dal ventiré al ventotto settembre. Ne abbiamo così tanto da dire, a commento di una edizione che ha espresso soprattutto segnali positivi, che rimandiamo al prossimo dicembre. Addirittura con una edizione libraria in allegato: Alla Photokina e ritorno è una riflessione attorno l’attualità della fotografia, non soltanto tecnico-commerciale
10 Notizie Attrezzature, vicende e altre segnalazioni
12 Ancora 1945-2005 51
La selezione di Il fotogiornalismo in Italia 1945-2005. Linee di tendenza e percorsi, a cura di Uliano Lucas, è allestita a Cagliari: per un mese, fino all’undici dicembre
NOVEMBRE 2008
R , RIFLESSIONI IFLESSIONI, OSSERVAZIONI E COMMENTI OSSERVAZIONI E COMMENTI SULLA FOTOGRAFIA SULLA FOTOGRAFIA
16 Reportage
Anno XV - numero 146 - 5,70 euro
Appunti e attualità del fotogiornalismo internazionale A cura di Lello Piazza
DIRETTORE
IMPAGINAZIONE
21 Ha cantato il jazz
Gianluca Gigante
REDAZIONE
Ricordo di William Claxton, mancato l’undici ottobre. Ritratti della musica e dello star system
26 Georgia con tarocco?
Angelo Galantini
FOTOGRAFIE
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Le controverse fotografie dei combattimenti contro l’esercito russo trasmesse dall’Agenzia Reuters. Alcune paiono posati a scopo propagandistico
COLLABORATO
Pino Bertelli Antonio Bordoni Grazia Neri Loredana Patti Lello Piazza Franco Sergio Rebosio Ciro Rebuzzini Filippo Rebuzzini
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Due monografie della celebre reporter statunitense: Seen Behind the Scene e riedizione di Ward 81
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41 Il triste addio 62
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46 Cinquanta anni “spaziali” Grazie alla Nasa, fondata cinquanta anni fa, l’epopea della fotografia si è arricchita di immagini straordinarie di Lello Piazza
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54 Fotogrammi! Fotogrammi. Fotografie e fotografia nel cinema al LuccaDigitalPhotoFest 2008: mostre con contorni di Angelo Galantini
SEGRETERIA HANNO
28 Telemetro delle origini
Celebriamo i sessanta anni dalla dimostrazione-vendita della Polaroid Model 95, la prima di una lunga serie, registrando anche la fine di un’epoca e un mondo con testimonianza di Peter C. Wensberg
Rouge Maddalena Fasoli
Sessanta anni dall’originaria Nikon I, dalla quale ha preso avvio una delle più celebrate produzioni fotografiche. L’epopea degli apparecchi a telemetro, fino alla definitiva Nikon S4 (ma anche S3M) e alle celebrative Nikon S3 2YK e SP Limited Edition di Maurizio Rebuzzini
34 Mary Ellen Mark in doppio
RESPONSABILE
Maurizio Rebuzzini
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60 Terre di Sud
Fotocomposizione DTP e selezioni litografiche: Rouge, Milano Stampa: Arti Grafiche Salea, Milano
Rivista associata a TIPA
Progetto fotografico di Emiliano Mancuso, raccolto in una monografia che ne conserva l’appassionante ritmo di Grazia Neri
64 Ruth Orkin Sguardo su una visionaria della fotografia sociale di Pino Bertelli
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www.tipa.com
Ecco l’occasione per raccontarvi al mondo Con i fatti che succedono intorno a voi Con gli argomenti che alimentano le vostre passioni Per condividere fantasia e interessi con il mondo intero
Dal 1969 Si accettano le iscrizioni inviate per posta ordinaria o tramite Internet
Richiedete il modulo d’iscrizione
Ogni partecipante può sottoporre fino ad un massimo di 8 immagini: 2 per ciascuna delle 2 categorie, inviate sotto forma di stampe via posta ordinaria, e 2 per ciascuna delle 2 categorie inviate sotto forma di file JPEG via Internet. Iscrizione: 1° settembre – 30 novembre 2008 Criteri di accettazione: Tutti i fotografi, professionisti o amatori, di tutto il mondo.
Per maggiori dettagli, visitate www.nital.it
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utto sommato, le problematiche sono sempre le stesse. Tutt’al più cambia soltanto il modo di affrontarle ed esprimerle. Così che il senso di un testo di sessantuno anni fa (marzo 1947) è ancora di attualità. Come se si fosse già capito tutto, le parole di presentazione della Microcamera Ducati -storicizzata Ducati Sogno- oggi appaiono addirittura profetiche. Estrapoliamo: «Nei suoi cento anni di vita [che nel frattempo sono diventati centosettanta], in ogni momento, la macchina fotografica ha utilizzato tutte le risorse della tecnica costruttrice ottica, meccanica e chimica per rendersi sempre più pratica, pronta, economica e funzionale e per aderire sempre di più alle innumerevoli e svariate applicazioni». Continuiamo: «Si può così dire che a ogni progresso della stessa macchina fotografica, dell’ottica e della chimica è seguita una evoluzione del modello ideale, e sul mercato si sono affermati nuovi tipi, mentre volgevano al tramonto quelli precedenti, anche se gloriosi. [...] Trarre profitto da questi progressi tecnici, per dare alla macchina fotografica le dimensioni più opportune per conciliare nella maniera più pratica e più conveniente la funzionalità, la sicurezza di impiego, la economia di esercizio e, non ultima, la disponibilità in ogni occasione, è stato il tema che si sono proposti i progettisti». Naturalmente, intendiamo il senso assoluto di queste affermazioni: «Tutti hanno constatato che in mille casi si sono trovati di fronte a un soggetto interessante e a un accadimento straordinario e non hanno potuto soddisfare il vivissimo desiderio di fotografarlo, perché erano sprovvisti di macchina fotografica, non prevedendo di doverla usare, e non avevano nessuna intenzione di portarsi appresso un ingombro e un peso fastidioso, senza uno scopo preciso che lo giustificasse». Inviolabile: «Una macchina fotografica che ciascuno può avere sempre con sé, senza accorgersene, può essere di utilità e praticità insuperabili in tutte le occasioni; basterà formulare il pensiero che ciò che ci sta dinnanzi è meritevole di essere registrato/fissato sulla pellicola, e in pochi istanti il desiderio sarà trasformato in fatto compiuto». Concludiamo con rilevazioni che si accordano a tutte le macchine fotografiche, di ogni epoca e tecnologia: «Volersi cristallizzare su posizioni superate, corrisponde a rinunciare senza un motivo a una quantità di comodità e pregi. [...] Sono stati congegnati tutti gli accorgimenti che assicurano la praticità d’uso e l’alto rendimento, nonché servono ad evitare incidenti e passi falsi, affinché anche l’operatore più distratto non possa fallire uno scatto e non possa sciupare uno scatto precedente, a volte prezioso e insostituibile». Alla Photokina e ritorno, il libro che allegheremo al prossimo numero di dicembre di FOTOgraphia, richiama anche questa filosofia: molto cambia, ma tutto resta uguale. Bisogna sempre saper vedere ciò che conta, distinguendolo da quanto è soltanto superfluo. Inviolabilmente, al positivo. Maurizio Rebuzzini
Microcamera Ducati (storicizzata Ducati Sogno): «Una macchina fotografica che ciascuno può avere sempre con sé, senza accorgersene, può essere di utilità e praticità insuperabili in tutte le occasioni; basterà formulare il pensiero che ciò che ci sta dinnanzi è meritevole di essere registrato/fissato sulla pellicola, e in pochi istanti il desiderio sarà trasformato in fatto compiuto». Dalla presentazione del marzo 1947, sessantuno anni fa, che può essere declinata e riferita a ogni novità tecnica della fotografia. Anche alle espressioni tecnologiche dei nostri giorni attuali.
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NIENTE PHOTOKINA?
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È noto. L’abbiamo anche anticipato (nell’Editoriale dello scorso settembre): dal ventitré al ventotto settembre si è svolta la Photokina, da tempo World of Imaging, in estensione dall’originario riferimento esplicito alla sola fotografia, identificazione che ormai pare andare stretta, sembra non bastare: ma! Ma sempre fotografia rimane: non importa come la fotografia venga realizzata, se con materiali fotosensibili o supporti digitali, sempre Fotografia rimane. Nel corso dei decenni, secoli ormai, la chimica della formazione automatica delle immagini è sistematicamente cambiata, trasformandosi in relazione alle tecnologie via via raggiunte. Ma sempre di fotografia abbiamo parlato, a partire dal suggerimento di John Herschel, che nel 1819 aveva già dato un indispensabile impulso alle sperimentazioni dei pionieri, suggerendo l’eliminazione -dopo lo sviluppo- delle sostanze sensibili alla luce. Il suo originario iposolfito di sodio, che scioglie i sali d’argento, è il fissaggio, che ha consentito la fotografia chimica, allungatasi sui secoli. Già, fotografia e sempre fotografia rimane: fortunata definizione che John Herschel coniò in una lettera indirizzata a William Henry Fox Talbot, il 28 febbraio 1839, immediatamente dopo l’annuncio di Dominique François Jean Arago, che il precedente sette gennaio aveva annunciato il processo di Louis Jacques Mandé Daguerre, dal quale datiamo la Storia, e dopo le rivendicazioni di priorità dello sperimentatore e inventore inglese (Fox Talbot, appunto). Già, fotografia e sempre fotografia rimane: dai termini greci phos (luce) e grapho (scrittura).
ce delle proprie tecnologie, ma non limitandosi soltanto a queste e alle relative novità tecniche da proiettare sul mercato quotidiano. In aggiunta, l’edizione 2008 della Photokina è stata straordinaria e illuminante. In una definizione secca, l’industria fotografica nel proprio insieme ha rivelato di essere (finalmente) tornata a essere tale e quale: industria fotografica produttrice. Così che, abbiamo tante cose da dire sulla Photokina 2008, e a partire dalla Photokina 2008. Ma di Photokina non scriviamo su questo numero di novembre della rivista, contravvenendo la sequenza prestabilita di date. A differenza di tutte le riviste di settore, sia italiane sia internazionali, noi non relazioniamo dalla Photokina 2008, pur vantando di avere molto da dire. E in effetti stiamo per farlo. Non oggi, ma domani. Allegato al numero di dicembre di FOTOgraphia, inseriremo un libro che raccoglie le nostre tante impressioni e opinioni sulla Photokina e su qualcosa di più e oltre.
ALLA PHOTOKINA
E RITORNO
Con tutti i distinguo del caso, e nonostante il valore che hanno assunto altri appuntamenti merceologici della fotografia, la Photokina rimane un appuntamento discriminante, che ogni due anni, a Colonia, in Germania, si misura alla lu-
A partire da annotazioni di carattere tecnico-commerciale, ma non limitandosi a queste, Alla Photokina e ritorno è un autentico libro, di circa centosessanta pagine (lo stiamo ancora compilando), che sottolinea la personalità del nostro mondo.
Di certo c’è il titolo: Alla Photokina e ritorno. Anche il formato è stabilito, 15x21cm, e l’impostazione dei testi, accompagnati da immagini che scorrono accanto. Gli argomenti ci sono chiari, così come il loro svolgimento e la relativa consecuzione. Soltanto le pagine totali possono ancora variare, ma sono nell’ordine di almeno centosessanta. In allegato al prossimo numero di dicembre di FOTOgraphia: una pura follia, della quale andremo orgogliosi. Già lo siamo.
Una anticipazione è d’obbligo. Dalla Photokina 2008 arrivano segnali soltanto positivi: sia in termini di novità (che ci sarebbero state lo stesso e si sarebbero conosciute comunque, indipendentemente dall’appuntamento ufficiale di Colonia, in Germania, della fine di settembre), sia nel senso delle possibili sollecitazioni commerciali. Da ogni punto di vista dal quale si può osservare e commentare lo svolgimento dell’edizione 2008, bisogna riconoscere che è stata la Photokina della chiarezza e trasparenza. Se è vero che i tempi cambiano... è altrettanto vero che la Photokina ha saputo rinnovarsi con loro. Non più fiera di novità, che ormai vengono annunciate e presentate altrimenti (soprattutto in tempo reale, attraverso la Rete), è una straordinaria festa della fotografia: dall’offerta tecnica alla gratificazione degli utenti, o viceversa. In ogni caso, e in assoluto, per il bene(ficio) dell’intero mercato. Se anche di questo si tratta, è una lezione per l’intero comparto. Una lezione della quale fare prezioso tesoro. E ci rivolgiamo, soprattutto, agli operatori di alto profilo, alcuni dei quali, mal consigliati e pessimamente indirizzati da qualcuno, credono ancora che l’incremento commerciale della fotografia possa prescindere ed essere separato dalla promozione del proprio esercizio: professionale, al quale guardare con ammirazione, ma anche individuale e quotidiano, dal quale i clienti possono trarre benefici, gioia, soddisfazioni e piaceri. La fotografia è ancora (e sempre lo sarà) un esercizio attivo e non passivo, un hobby creativo e non statico. Dobbiamo esserne convinti. Dalla Photokina, abbiamo focalizzato anche questo, indipendentemente dalle novità, che ci sono sì state, ma che ci sarebbero state anche senza questo appuntamento fieristico. A risentirci a dicembre, con il libro-saggio annunciato. Follia pura! Maurizio Rebuzzini
’ sono marchi registrati di Sony Corporation, Giappone. ‘Sony’ ‘
Nuova 900. 24,6 Milioni di dettagli.
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900 è la nuova fotocamera reflex con sensore CMOS EXMOR da 24,6 Megapixel. Grazie all’elevatissima risoluzione, al sistema di stabilizzazione integrato ‘SteadyShot INSIDE’ presente per la prima volta in una reflex a formato pieno e ad una copertura del campo visivo del 100%, assicura scatti che catturano ogni dettaglio. 900 è la reflex digitale in grado di ridefinire i confini creativi della fotografia.
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LUCE ANULARE. Autentica innovazione nel mondo della fotografia reflex, particolarmente indirizzata all’inquadratura macro, a distanza ravvicinata, ma non soltanto a questa, il flash anulare Metz Mecablitz 15 MS-1 Digital è trasversale all’offerta tecnico commerciale di mercato. È dedicabile a tutte le reflex attualmente disponibili e a quelle che arriveranno in futuro: senza soluzione di continuità, è utilizzabile con ogni reflex Canon, Nikon, Olympus, Panasonic, Pentax, Samsung e Sony. Completamente ridisegnato, e senza cavi, il Metz Mecablitz 15 MS-1 Digital produce una illuminazione avvolgente, appunto anulare, attorno l’obiettivo di ripresa, distribuendo le emissioni luminose di due lampeggiatori simmetrici, con intensità regolabile e controllabile separatamente e individualmente. All’interno dell’anello di illuminazione, con diffusore a tutto tondo, gli stessi due flash ruotano nei propri alloggi, per essere orientati rispetto il soggetto inquadrato. Così che è assicurata una illuminazione equilibrata e precisa in ogni condizione di ripresa, a partire dalla macrofotografia, per approdare a altre applica-
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zioni, per esempio nel ritratto, per le quali è opportuno e saggio dosare la combinazione della luce sul soggetto. L’inclinazione individuale e autonoma (separata) dei due lampeggiatori, fino a 20 gradi di rotazione, consente una raffinata distribuzione della luce e permette versatili creatività individuali. L’illuminazione è configurabile con estrema facilità, anche con il prezioso aiuto della luce pilota, che visualizza preventivamente l’effetto realizzato. Per l’esposizione, nessun problema: dai parametri oggettivi impostati, a partire dalla sensibilità, il Metz Mecablitz 15 MS-1 Digital regola automaticamente la quantità di luce in relazione alla distanza e alla configurazione del soggetto. L’automatismo TTL di esposizione, senza cavi, è preventivamente indirizzabile attraverso l’impostazione della potenza in uscita, su una scala di sei valori. (Fowa, via Tabacchi 29, 10132 Torino).
EVOLUZIONE CONTINUA. La compatta FinePix F60fd si aggiunge alla gamma high-tech di alta qualità della serie Fujifilm F. Derivazione diretta e consequenziale dell’apprezzata FinePix F50fd, è caratterizzata da un ampio display LCD da tre pollici, dalla funzione di rilevamento intelligente del volto Face Detection 3.0 e da una nuova tecnologia proprietaria di rilevamento delle immagini Scene Recognition. La Fujifilm FinePix F60fd utilizza la combinazione dell’alta risoluzione e dell’alta sensibilità per produrre immagini di elevata qualità. Dotata di sensore CCD da dodici Megapixel, doppio stabilizzatore delle immagini Dual Image Stabilisation (movimento del sensore ed alta sensibilità Iso), sensibilità fino a 1600 Iso equivalenti (6400 Iso equivalenti a tre Megapixel) e uno zoom Fujinon 3x (con escursione focale equivalente alla variazione 35-105mm della fotografia 24x36mm), rappresenta l’evoluzione delle com-
patte serie F, nel cui ambito hanno riscosso particolare successo le FinePix F50fd e F40fd (FOTOgraphia, maggio 2007). Gli utenti più esperti, che desiderano qualcosa in più di “uno scatto e via”, trovano nella FinePix F60fd, disponibile nelle finiture argento e nero, le opzioni per fotografare applicando la propria creatività. Attraverso la selezione della modalità automatica, la nuova compatta soddisfa anche gli utenti che amano fotografare senza troppi stress. La FinePix F60fd è dotata della tecnologia Scene Recognition, che identifica il soggetto senza la necessità di impostare l’apposita modalità Scene. Una volta individuata l’immagine nel display, la compatta finalizza la preselezione per fotografarlo nel modo migliore. Ancora, la tecnologia Real Photo è la combinazione dell’esclusivo sensore Super CCD, del processore RP e dello zoom con lenti Fujinon, che, lavorando congiuntamente, offrono risultati di alto livello. Toni naturali per i ritratti, immagini chiare con minor “rumore” per le scene notturne, immagini dettagliate per il paesaggio e nitide per la macro. A seguire, una delle caratteristiche principali e discriminanti della FinePix F60fd è la release 3.0 della tecnologia del rilevamento intelligente del volto, migliorata e capace di riconosce i volti anche da angolazioni estreme. Come nella versione precedente, in brevissimo tempo (0,036 secondi), il rilevamento intelligente del volto individua automaticamente fino a dieci volti nell’inquadratura e corregge automaticamente la messa a fuoco, l’esposizione e il bilanciamento del bianco, indipendentemente da dove si trovano i soggetti all’interno della composizione. La tecnologia Face Detection 3.0 può registrare volti fino a un’angolazione di 90 gradi, in qualsiasi direzione, per
volti di profilo e con una rotazione fino a 360 gradi. Dopo lo scatto, il sistema corregge automaticamente l’effetto occhi rossi, salvando sia l’immagine originale sia quella corretta. Oltre ad offrire un’elevata sensibilità Iso equivalente, per evitare soggetti mossi in condizioni di luce scarsa, la FinePix F60fd è caratterizzata dall’accomodamento del sensore CCD per la stabilizzazione dell’immagine, che compensa il movimento involontario (inevitabile) durante le riprese con tempi di otturazione prolungati. La combinazione dell’alta sensibilità Iso e dell’accomodamento del sensore CCD offre un sistema completo per evitare l’effetto mosso causato dal movimento della compatta o dai soggetti in movimento. La Fujifilm FinePix F60fd è dotata di un display TFT da tre pollici, da 230.000 pixel, con l’esclusivo rivestimento Fujifilm Wide View, per una chiara visualizzazione in riproduzione, da qualsiasi angolazione. Oltre a queste caratteristiche è stata aggiunta una nuova funzione di ordinamento per data. Infine, si conferma l’esclusiva tecnologia Real Photo (RP) di Fujifilm, che stabilisce i più elevati standard per una maggiore qualità delle immagini. Real Photo Technology identifica la combinazione di tecnologie all’avanguardia, come il sensore Super CCD, il processore Real Photo e gli obiettivi Fujinon: tecnologie finalizzate e combinate assieme per produrre i risultati migliori e più naturali possibili, in qualsiasi condizione. (Fujifilm Italia, via dell’Unione Europea 4, 20097 San Donato Milanese MI).
ANCORA 1945-2005
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Prosegue l’itinerario espositivo della imponente rassegna Il fotogiornalismo in Italia 1945-2005, che precisa di sottolineare Linee di tendenza e percorsi. Dopo l’avvio a Torino, nell’autunno 2005, l’allestimento milanese a cavallo tra il 2006 e 2007 (FOTOgraphia, ottobre 2006) e l’esportazione in Francia, a Montpellier, nell’estate 2007 (FOTOgraphia, giugno 2007), la selezione curata da Uliano Lucas è ora presentata a Cagliari: Cittadella dei Musei, Spazio San Pancrazio, Galleria per le mostre temporanee, piazza Arsenale 8, dal dodici novembre al successivo undici dicembre. Mostra promossa dalla Fondazione Italiana per la Fotografia, nella persona della sua presidentessa Daniela Trunfio, Il fotogiornalismo in Italia 1945-2005. Linee di tendenza e percorsi assolve appieno le premesse del suo titolo: analisi approfondita di sessant’anni di fotografia di informazione (e formazione?), realizzata con sapiente individuazione di un percorso che non si limita alla sola espressione visiva,
Tazio Secchiaroli: Manifestazione neofascista all’Altare della Patria contro l’invasione sovietica in Ungheria; Roma, 1956.
Uliano Lucas: Emigrante davanti al palazzo della Pirelli; Milano, 1968.
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né dipende soltanto da questa, ma si allunga sulle vicende, connessioni e dipendenze dei giornali che arrivano al pubblico. Eccoci: non una fotografia di superficie, isolata in se stessa, ma una concentrata ricostruzione del fotogiornalismo in tutte le proprie componenti, soprattutto nell’esplicito riferimento al proprio uso sui giornali, potere politico ed economico compreso. L’esposizione di Cagliari è stata realizzata con il patrocinio del Ministero dell’Istruzione, Università e Ricerca e realizzata con il contributo della Provincia di Cagliari, Assessorato Cultura e Identità, Spettacolo e Sport, in collaborazione con la Soprintendenza per i beni storici artistici ed etnoantropoligici della Sardegna e l’Università degli Studi di Cagliari. Si conferma e ribadisce un percorso di oltre trecentocinquanta immagini e documenti, per riflettere in modo critico e organico sulla storia del fotogiornalismo italiano, che ha raccontato la storia d’Italia degli ultimi sessant’anni: tra il modificarsi del paese, i centri di potere, il mondo editoriale, seguendo l’evolversi del linguaggio dell’informazione e della fotografia di informazione in rapporto alle mutate richieste della società. Ancora, si replica la scomposizione
Tonino Sgrò / Tam Tam: Giovane rom in metropolitana; Milano, circa 2002.
originaria in sezioni, peraltro riprese e riproposte dal volume-catalogo, con testi critici di Uliano Lucas, Tatiana Agliani, Piero Berengo Gardin, Carlo Cerchioli e Aldo Bonomi (Fondazione Italiana per la Fotografia; 276 pagine 24x22cm; 28,00 euro): Crona-
ca, reportage e grafica nell’immediato dopoguerra: il giornalismo italiano scopre la fotografia (con legittima approssimazione, datiamo a tutta la seconda metà degli anni Quaranta); Dall’informazione all’intrattenimento: il nuovo corso della fotografia degli
Piero Raffaelli: La nuova Vigevanese; 2006.
Alfa Castaldi: Bar Giamaica; Milano, circa 1956.
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anni Cinquanta (con estensione sul decennio); La fotografia come denuncia e libertà: i freelance degli anni Cinquanta (straordinaria e ammirevole visione, comprensiva di figure e situazioni ignorate dalla storiografia ufficiale); Una lezione inascoltata: il “giornalismo totale” di Le Ore e Vie Nuove (settimanali popolari di sostanzioso e sostanziale impegno sociale); Boom economico: un nuovo modello di vita (controversi anni Sessanta); Il fotogiornalismo della contestazione: cronaca e reportage (stagione che dalla fine dei Sessanta si è estesa al decennio successivo, influenzando tutta la fotografia sociale e umanista nel nostro paese); Creatività o omologazione? La fotografia giornalistica nell’era postmoderna (per se stessa, analisi allineata con quella che è stata internazionalmente individuata come Affermazione del fotoreporter-artista). Complessivamente, si raccontano tante storie, che ne compongono una finale, appunto quella del fotogiornalismo in Italia dal 1945 al 2005. Anzitutto, una storia delle immagini e delle scelte compiute dall’informazione nel campo della fotografia giornalistica. Documentano davvero la realtà dell’Italia, le fotografie pubblicate in questi cinquant’anni su decine di periodici? Cosa
ha fotografato il fotoreporter e cosa ha scelto di pubblicare il direttore? Qual è il limite del loro rispettivo fare informazione? In che misura le richieste dell’editoria hanno condizionato o modificato il modo di fotografare del fotogiornalista? E poi, anche, una storia di direttori, intellettuali e fotogiornalisti che hanno tentato di infrangere il muro dell’informazione di potere e fare un buon giornalismo di immagine. Tra contenuti, grafica e fotografia, ecco le esperienze di Mario Pannunzio, con Il Mondo, e Arrigo Benedetti, con L’Espresso, di Pasquale Prunas, con Le Ore e Il Messaggero, di Carlo Rizzi, con L’Europeo e Epoca, di Gianluigi Colin, con i supplementi del Corriere della Sera, e di Vittorio Corona, con King e La Voce, e le scelte innovative nell’uso dell’immagine di Gianluigi Melega e Lamberto Sechi a Panorama, di Nicola Cattedra a Tempo Illustrato e Il Giorno, di Nini Briglia a Epoca, di Tommaso Giglio a L’Europeo, di Paolo Pietroni, ideatore di Sette e Lo Specchio, e di Paolo Bracaglia, inventore dei supplementi di Vie Nuove. Come tradizione, ereditata dai precedenti allestimenti, anche l’esposizione cagliaritana di Il fotogiornalismo in Italia 1945-2005. Linee di
Chiara Samugheo: Claudia Cardinale; 1963.
Mario De Biasi / Epoca: Budapest; 1956.
tendenza e percorsi prevede incontri, iniziative e un’intensa attività per le scuole, curata dal Centro Servizi Bibliotecari della Provincia di Cagliari. Il primo appuntamento è fissato per giovedì 13 novembre, all’indomani dell’inaugurazione: alle 10,30, visita guidata con il curatore della mostra, Uliano Lucas. A.G.
Pierluigi Praturlon: Sul set del film La Ciociara, di Vittorio De Sica; 1960.
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Il fotogiornalismo in Italia 1945-2005. Linee di tendenza e percorsi. A cura di Uliano Lucas. Cittadella dei Musei, Spazio San Pancrazio, Galleria per le mostre temporanee, piazza Arsenale 8, 09124 Cagliari; 070-4092754; csb@provincia.cagliari.it. Dal 12 novembre all’11dicembre; martedì-venerdì 9,00-13,00 16,00-19,00, sabato 9,00-13,00.
sion e .
LELLO PIAZZA (2)
Questa rubrica riporta notizie che sono appartenute alla cronaca. Però, nel loro richiamo e riferimento molti motivi ci impediscono di essere tempestivi quanto la cronaca richiederebbe. Ciononostante riteniamo giusto proporle, perché siamo convinti che non abbiano perso la propria attualità, e continuino a offrire spunti di rifles-
NIKON PER LA NATURA. Sabato venti settembre, al Castello di Rio Maggiore è stato presentato alla stampa il primo centro Nikon for Parks (qui sopra). Si tratta di una struttura multifunzionale situata al primo piano del Centro di Accoglienza Turistica del Parco nazionale delle Cinque Terre, in Liguria, presso la stazione ferroviaria di Manarola, le cui funzioni sono: ❯ organizzazione di weekend in compagnia di fotografi professionisti, appositamente convocati da Nital/Nikon, per suggerire ai visitatori un modo di vivere il Parco attraverso la fotografia; ❯ organizzazione di workshop all’interno del Parco, riservati agli iscritti al Nikon Club; ❯ noleggio di apparecchi fotografici e binocoli Nikon; ❯ assistenza tecnica; ❯ possibilità di salvare su CD le immagini scattate all’interno del Parco. Il primo workshop fotografico si svolge dal sei all’otto dicembre, in occasione dell’allestimento del presepe luminoso sulla collina delle Tre Croci, sopra Manarola. Questa iniziativa si inserisce nel programma internazionale Countdown 2010 Save Biodiversity, patrocinata dal Ministero dell’Ambiente, che ha visto l’immediata adesione di Nital, distributore italiano del marchio Nikon. Da un punto di vista strategico, si pensa di esportare il progetto Nikon for Parks an-
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Il progetto Nikon for Parks si inserisce nel programma internazionale Countdown 2010 Save Biodiversity: primo passo per implementare il fototurismo sostenibile nelle aree protette. (a destra) Fotografia di guerra di Richard Mills, mancato lo scorso quattordici luglio. Il diciannove settembre, La Stampa ha pubblicato la fotografia di un piede di bambina che spunta dal bagagliaio dell’auto nella quale l’ha rinchiusa il padre assassino. Pubblicazione legittima e doverosa? Difficile dirlo.
che negli altri Parchi nazionali, per implementare il fototurismo sostenibile nelle aree protette.
DAVANTI AL DOLORE DEGLI ALTRI. In un breve articolo su Internet (www.grusol.it/informazioni/01-0106.asp), Enrico Peyretti cita Mencio, filosofo cinese del Quarto-Terzo secolo avanti Cristo, che definisce “il sentimento dell’umanità” come il «non poter sopportare le sofferenze altrui» senza agire in soccorso. Potrebbe essere stato un sentimento analogo a spingere una lettrice della Stampa, Cinzia Miglaiso, a inviare, lo scorso venti settembre, una lettera alla redazione: «Sono una mamma, sconvolta per la scelta di pubblicare la fotografia di quel piedino di bimba con la scarpina e la calzina delle “Principesse”, che esce dal cofano dell’auto del padre assassino [La Stampa, diciannove settembre; pagina 21; qui sotto]. A tutto c’è un limite: il rispetto del dolore di quella madre, che non potrà più stringere tra le braccia la sua bambina. Rispetto. Molti giornalisti e fotografi non conoscono questa parola. Chissà se il fotografo di Luserna è padre, se ha mai accompagnato la sua bimba a comprare le scarpe. Chissà cosa avrebbe pensato vedendo le stesse scarpine spuntare dalla scena di un delitto. Cosa volevate dimostrare? Di avere uno scoop? Da oggi il Paradiso, se esiste, ha un angelo in più, Ilaria, che gioca con Tommy, Matilde, Samuele e centinaia di altri bambini, che la furia omicida dei genitori ha strappato da questa vita e che voi giornalisti ci avete fatto conoscere e amare».
In proposito, non abbiamo nessun tipo di convinzione. Non sappiamo se la lettrice ha ragione oppure ha più ragione il giornale a informare il pubblico con una fotografia che trasmetta il più possibile il senso della tragedia di quanto è successo. E quel piedino che spunta dal cofano dell’automobile racconta dolorosamente e “più di mille parole” la follia di un gesto.
IL DEVASTANTE STRESS DELLA GUERRA. Il quattordici luglio scorso, Richard Mills, quarantuno anni, fotogiornalista a contratto per il quotidiano The Times, di Londra, è stato trovato morto nella sua camera d’albergo, a Harare, capitale dello Zimbabwe. Si pensa trattarsi di suicidio. A causa dell’ostilità delle autorità locali nei confronti della stampa, come molti altri inviati, Richard Mills lavorava in Zimbabwe in forma anonima. Dopo essersi congedato dalla Royal Air Force, Richard Mills ha cominciato a fotografare per il quotidiano The Irish News, che ha sede a Belfast. Nel 2000, ha iniziato la sua collaborazione come libero professionista col Times, che dapprima lo ha assegnato a seguire la guerra civile in Irlanda del Nord, poi lo ha invitato sui fronti caldi, come Afghanistan, Iraq e Somalia (qui sopra, una sua fotografia).
LA “POLAROID” DI KODAK. Nel momento nel quale si celebra la cerimonia funebre della Polaroid (su questo numero, da pagina 41 il sessantesimo anniversario dal 26 novembre 1948 e l’epitaffio conclusivo), un giovane fotografo italiano trentatreenne, Michele Ferrario (che nel suo curriculum si definisce “fotocazzoamatore”) segnala una interessante esperienza a sviluppo immediato. In un mercatino individua un pacco di pellicole (appunto) a sviluppo immediato per la Kodak EK100,
che nella seconda metà degli anni Settanta tentò di insidiare il primato di Polaroid, e che perse la sua guerra dopo nove anni di battaglie legali, lasciando circa sedici milioni di apparecchi orfani di pellicola. La data di scadenza sul pacco appena ritrovato è 1991. Procuratosi una ormai antica e fuori uso Kodak EK100 (a destra) e una batteria da 6V, necessaria al suo funzionamento, Michele Ferrario ha scattato delle immagini. I risultati possono essere definiti molto affascinanti, ma anche deludenti, e qui sotto riportiamo due delle fotografie realizzate.
Imbarazzante: in richiamo di una inchiesta sulla malavita napoletana, la copertina dell’Espresso del diciotto settembre propone un fotogramma tratto dal film Gomorra.
In commercio dal 1978 al 1980, la EK100 è stata uno degli apparecchi fotografici del sistema Kodak a sviluppo immediato.
VISA POUR L’IMAGE. A dicembre, riferiremo della ventesima edizione del festival di fotogiornalismo, che si è svolta, come ogni anno, all’inizio di settembre, a Perpignan, in Francia. Anticipiamo qui i vincitori dei premi assegnati. ❯ Visa d’Or News: Philip Blenkinsop (Noor); China Earthquake. ❯ Visa d’Or Feature: Brent Stirton / Reportage Getty Images per Newsweek e National Geographic Magazine; Virunga National Park; Repubblica democratica del Congo, luglio 2007. ❯ Visa d’Or Presse Quotidienne Internationale (riservato alla stampa quotidiana internazionale, per la pubblicazione del miglior reportage fotografico): Mona Ree-
Con una pellicola Kodak scaduta nel 1991, Michele Ferrario ha scattato immagini a sviluppo immediato. Allo stesso momento, sono affascinanti o deludenti: a ciascuno, il suo.
In quantità, ciò che, in una settimana qualsiasi, è abbinabile all’acquisto dell’Espresso.
der, di The Dallas Morning News. ❯ 2008 Care International du Reportage Humanitaire: Stephanie Sinclair. ❯ Prix du Jeune Reporter de la Ville de Perpignan: Munem Wasif. ❯ Prix Canon de la Femme Photojournaliste: Brenda Ann Kenneally.
UN FOTOGRAMMA PER LA CRONACA. Nel numero dello scorso diciotto settembre, il settimanale L’Espresso ha pubblicato una straordinaria inchiesta, che riporta in esclusiva le confessioni di un pentito di camorra, Gaetano Vassallo. Le confessioni riguardano i disastri ecologici provocati da un delinquenziale sistema di smaltimento dei rifiuti. La nostra segnalazione riguarda però la copertina del settimanale, illustrata con un fotogramma tratto dal film Gomorra (a destra). La domanda è: perché utilizzare un’immagine da un film per illustrare un fatto di cronaca? Solo il cinema, e non le centinaia di fotogiornalisti che hanno lavorato in Campania, è in grado di produrre immagini che siano convincente testimonianza visiva dei misfatti della criminalità organizzata napoletana? Del resto, qui possiamo anche pensare a una qualche attinenza. Ma spesso, in cronaca, i giornali usano posati cinematografici a caso, o quasi. Gli esempi più clamorosi riguardano le notizie sull’Arma dei Carabinieri, alternativamente accompagnate dai ritratti di Vittorio De Sica e Totò (da I due marescialli, di Sergio Corbucci, del 1961: rispettivamente, maresciallo Vittorio Cottone e ladro Antonio Capurro, che si spaccia per maresciallo) e dalle versioni moderne di Carlo Verdone e Enrico Montesano (agenti Glauco Sperandio e Marino Spada in I due carabinieri, di Carlo Verdone, del 1984), e più recentemente da fotogrammi dalla serie televisiva Carabinieri (appunto). E poi, registriamo anche la trita e ritrita farsa delle notizie su separazioni di coniugi con figli. Qui è d’obbligo l’immagine di Dustin Hoffman, che nei panni di Ted Kramer sistema il cappottino al figlio Billy (interpretato da un giovane Justin Henry), in Kramer contro Kramer, film di Robert Benton, del 1979. Diamine, in questo caso il let-
tore deve essere perfino a conoscenza della trama: la fotografia da sola non basta. Altrimenti è un’illustrazione addirittura grottesca.
ANCORA ESPRESSO. Quando si parla di copie “paninate”! Si dice che la crisi di vendita di settimanali, mensili e, ultimamente, anche dei quotidiani, sia salvata dalle copie “paninate”, cioè da giornali che sono in vendita abbinati a un libro o a un Dvd o ad altri gadget più frivoli. Senza esprimere alcun genere di accusa, invitiamo a guardare la pagina dell’Espresso qui sotto, che illustra i prodotti che è possibile ottenere insieme al settimanale, ovviamente pagando un prezzo maggiorato. Ecco l’elenco: il Dvd del film Getaway, un doppio CD con musiche di tango argentino, il triplo Dvd della Madama Butterfly, di Giacomo Puccini, un albo di Tex a colori (Il ponte sull’abisso), un romanzo di Julian Barnes, Controcorrente, in inglese con traduzione a fronte, e, infine, un Vocabo-
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(76-138; a sinistra). Questo imperatore, che riuniva in sé il potere politico di un presidente americano e il potere religioso di un papa, scrisse una poesia prima di morire, che per me rappresenta una delle più belle cose scritte nella storia dell’uomo. Ecco la versione latina: Animula vagula, blandula, hospes comesque corporis, quae nunc abibis in loca pallidula, rigida nudula, nec, ut soles, dabis jocos [...]. La poesia, riportata a caratteri cubitali nell’ultimo pannello della mostra, conteneva due errori: “quo”, invece di “quae”, e “nubila” invece di “nudula”. Grave? Gravissimo! Ecco, la traduzione della poesia: Piccola anima smarrita e soave, compagna e ospite del corpo, ora ti appresti a scendere in luoghi incolori, ardui e spogli, ove non avrai più gli svaghi consueti [...]. Ve li immaginate, George Dabliu o papa Ratzingere, che scrivono un pensiero così struggente e umano?
PEDANTERIA SADICA? C’è chi mi accusa di coltivare un sadico divertimento nello scoprire e sottolineare gli errori degli altri. Una volta o l’altra, questa accusa che mi viene attribuita andava resa pubblica: qui e ora, per esempio. Come va resa pubblica, una volta per tutte, la mia risposta. Non sono certo convinto di non commettere mai errori, ci mancherebbe. Vorrei solo che chi vede i miei errori me li facesse notare, così come io faccio con gli altri. Il dissenso non bisogna ammetterlo, bisogna esigerlo, disse circa quarant’anni fa Robert Kennedy agli studenti in rivolta dell’Università di Berkeley, California. Quindi, imperterrito, tutte le volte che vedo un errore cerco e cercherò di farlo notare. Questo lungo preambolo, per segnalare un errore, anzi due, commessi dal prestigioso British Museum di Londra, in uno dei tanti pannelli di una mostra, per altro eccezionale, dedicata all’imperatore Adriano LELLO PIAZZA
L’ACCELERATORE MERITA LA COPERTINA. LHC (Large Hadron
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Collider), il più potente acceleratore di particelle mai costruito, è stato acceso l’Undici settembre scorso al Cern, di Ginevra. Si tratta del più grande (e costoso, sei miliardi di euro) esperimento scientifico della storia. La macchina è stata realizzata per dimostrare la validità della teoria fisica del modello standard, secondo la quale l’universo ha avuto origine da una grande esplosione iniziale, il definito Big Bang. Per esempio, l’esperimento va alla ricerca del “bosone di Higgs”, la cosiddetta “particella di Dio”, una particella elementare che sarebbe uno dei mattoncini costituenti della materia, della quale il modello standard prevede l’esistenza, ma che non è mai stata osservata. All’interno dell’acceleratore dovrebbe essere ricostruita la situazione dell’universo pochi istanti dopo il Big Bang. Il timore, strillato sulle prime pagine di tutti i giornali, che i microbuchi neri creati dall’LHC possano inghiottirsi il nostro pianeta e l’intero sistema solare, ha creato ancora più aspettativa intorno all’accensione
L’acceleratore LHC (Large Hadron Collider) sulla copertina di Newsweek del quindici settembre e sulle prime pagine di The Times, The Independent e The Daily Telegraph del dieci settembre.
In uno dei tanti pannelli della eccezionale mostra dedicata all’imperatore Adriano (76-138), il prestigioso British Museum di Londra ha commesso due errori nelle iscrizioni latine di una poesia dello stesso Adriano.
MAURIZIO REBUZZINI (3)
lario della lingua italiana, di Aldo Gabrielli. A seguire, le illustrazioni delle guide ai Ristoranti d’Italia e ai Vini d’Italia segnalano solo la loro presenza in libreria e non il fatto di essere acquistabili con il settimanale. In molti paesi stranieri, questi abbinamenti sono vietati, ma, che dire? Se servono a mantenere in vita l’informazione e a seminare cultura, forse va bene. O no?
dell’acceleratore. È perciò evidente che l’LHC ha meritato di essere il personaggio della settimana e forse dell’anno, anche se, pochi giorni dopo l’accensione, ha dovuto essere spento per alcune riparazioni che lo terranno fermo per qualche mese: non stupiamoci, stiamo ricostruendo l’inizio dell’universo, mica cose da ridere. Onore al merito per Newsweek, che ha dedicato la copertina all’acceleratore (pagina accanto): questo devono fare i giornali quando svolgono il proprio mestiere. Come hanno fatto i quotidiani inglesi, che la mattina del dieci settembre hanno dato risalto da prima pagina all’avvenimento; ancora sulla pagina accanto, testimoniamo di The Times, The Independent e The Daily Telegraph.
I RICORDI IN PHOTOSHOP. Con uno articolo che comincia addirittura in prima pagina, il quotidiano La Repubblica di martedì diciannove agosto riporta un servizio del New York Times, che segnala una nuova tendenza che si sta manifestando negli Stati Uniti (a destra): la manipolazione delle fotoricordo con Photoshop o software analoghi. Per esempio, alla maniera degli interventi dei paesi dell’Est comunista, si eliminano vecchi amici, fidanzati, coniugi con cui si sono rotte le relazioni, oppure si aggiunge un parente caro che la morte si è portato via. Secondo alcuni esperti, continua l’articolo, questa nuova moda aiuterebbe a superare momenti di difficili che si manifestano in occasione di separazioni dolorose, ma secondo altri le fotoricordo rappresentano momenti importanti della propria vita e modificarli con Photoshop significa autoingannarsi. E qui ci viene in mente anche l’azione dell’anticipatorio 1984, di George Orwell (scritto nel 1948), nel quale il protagonista Winston Smith è un archivista dello stato, incaricato di aggiornare libri e articoli di giornali precedentemente scritti, alla luce di ciò che è effettivamente accaduto, in modo da rendere riscontrabili e veritiere le previsioni del partito che governa indisturbato. Cioè, alla maniera delle trasformazioni dei ricordi, si riscrive la storia. L’articolo di New York Times /
muovere errori o esperienze spiacevoli, invece di farne tesoro. Ora, con i software esistenti possono raccontarsi delle balle ancora più convincenti, modificando le proprie fotografie. Direbbe un vecchio adagio: la cosa è talmente attraente che è un po’ “come invitare le oche a bere”. Direi meglio, in questo caso: gli struzzi ad affondare la testa sotto la sabbia, cosa che peraltro gli struzzi si guardano bene dal fare.
MA NE VALEVA LA PENA? FORSE SÌ. Il numero di People La Repubblica del diciannove agosto riporta un servizio del New York Times, che segnala la manipolazione delle fotoricordo con Photoshop o software analoghi.
L’edizione speciale, in numero doppio, di People con i gemelli di Angelina Jolie e Brad Pitt ha venduto 2,6 milioni di copie. Un affare sostanzioso.
Repubblica è arricchito da una preziosa testimonianza di Mary Warner Marien, autrice del saggio Photography: A Cultural History (560 pagine 21,5x28,5cm; Prentice Hall, 2002; riedizione Laurence King Publishing, 2006; 50,88 dollari): «Nel Diciannovesimo secolo, la gente aveva l’abitudine di posare con oggetti personali appartenuti a familiari assenti o deceduti, per poterli includere, emotivamente, nella fotografia». In India «è tradizione copiare e incollare nelle fotoricordo di un matrimonio l’immagine di un familiare assente, come atto di rispetto e inclusione». Mary Warner Marien conclude: «È solo occidentale l’idea secondo la quale ciò che si trova davanti all’obiettivo deve essere vero, deve essere la realtà». Personalmente, ritengo che sia inevitabile che, con la messa in vendita a meno di cento dollari di potenti strumenti di manipolazione delle immagini, come la versione Light di Photoshop CS3, chi ha un minimo di passione per la fotografia si ritenga invitato a interventi “gratificanti” anche sulle fotoricordo. La gente si racconta già un mucchio di balle sulla propria vita e tende a ri-
con i gemelli di Angelina Jolie e Brad Pitt ha venduto oltre due milioni e mezzo di copie (2,6 milioni, per l’esattezza), risultando così quello che ha venduto di più negli ultimi sette anni, preceduto soltanto, nei trentacinque di storia della rivista, dai numeri dedicati all’Undici settembre (4,1 milioni), alla morte della principessa Diana (3 milioni), alla morte di John F. Kennedy Jr (2,8 milioni), Il numero del 19 giugno 2006, con la copertina dedicata a Shiloh, la prima figlia di Brad e Angelina, aveva venduto 2,2 milioni di copie. I settimanali People e Hello! (Gran Bretagna) si sono divisi i diritti mondiali per queste fotografie, spendendo (investendo?) quattordici milioni di dollari. Dopo le pubblicazioni originarie, le immagini sono distribuite da Getty e i ricavi andranno in beneficenza. La domanda è: People avrà fatto un affare? Cerchiamo di fare due conti. La vendita media è di 1,5 milioni di copie. Il prezzo del fascicolo con i gemelli in copertina, un numero doppio speciale, è stato aumentato di mezzo dollaro. Ciò rappresenta già un consistente incremento dei ricavi, rispetto a quelli di un numero standard (ai ricavi vanno però sottratte le spese di pagine stampate per il numero doppio). Certamente questa edizione ha soprattutto attratto molta pubblicità in più, e poi c’è da valutare l’impatto positivo di uno scoop del genere sul brand di People. Quindi l’esagerazione del prezzo pagato alla fine può rivelarsi una cifra meno stupida di quello che appare a prima vista. A cura di Lello Piazza
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HA CANTATO IL JAZZ
W
William Claxton, famoso per i suoi bellissimi ritratti dei grandi musicisti americani del jazz, dei quali è stato un autentico cantore in forma visiva, si è spento a Los Angeles, sabato undici ottobre, a ottantuno anni. Tra tante sue immagini, raccolte in affascinanti monografie (le cui edizioni più recenti presentiamo a parte, nel riquadro pubblicato a pagina 22), si ricordano sopra tutti ritratti che hanno attraversato i decenni, elevandosi peraltro a icone
del Novecento, da Duke Ellington a Nat King Cole, da Chet Baker a Charlie Parker, da Dizzy Gillespie a Billie Holiday, a Miles Davis (www. williamclaxton.com, con sottofondo di soffusi motivi di jazz). Nato nel 1927, William Claxton ha studiato psicologia all’Università della California, ma si è presto innamorato del jazz, per il quale avviò il suo percorso professionale fotografando anzitutto per copertine di dischi. Si racconta che cominciò
Il fotografo William Claxton è mancato nella sua casa di Los Angeles, lo scorso undici ottobre.
STEVE CRIST
Il Ramsey Lewis Trio a Chicago: Eldee Young (basso), Ramsey Lewis (piano) e Isaac “Redd” Holt (batteria).
a fotografare i musicisti quasi per gioco. Poi divenne loro amico. Ebbe così inizio la sua lunga carriera di fotografo, che è durata cinquantacinque anni e lo ha avvicinato a prestigiose testate internazionali, tra le quali è giocoforza citare almeno due capisaldi del fotogiornalismo planetario, Life e Paris Match, oltre a Vogue, le cui pagine, al pari di altre analoghe, non si limitano all’assolvimento del solo compito istituzionalmente annunciato. A questo proposito, magari tra parentesi, occorre citare almeno due casi, distanti nel tempo e nello spazio (giornalistico): le rappresentazioni di aspetti sociali della sua epoca, e nella propria visione, di Diane Arbus, ospitati sulle pagine patinate di Harper’s Bazaar (art director il leggendario Peter Bogdanovich, del quale la fotografia dovrebbe celebrare il genio e l’intuizione visiva, in anticipo sui decenni); e poi, in momenti a noi prossimi, ricordiamo che il coinvolgente reportage Battle Company,
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di Tim Hetherington (in mostra all’imminente LuccaDigitalPhotoFest 2008, del quale riferiamo da pagina 54), è stato realizzato su incarico di Vanity Fair. Ancora, e a completamento, ricordiamo che in questo stesso reportage è stata individuata e premiata l’immagine World Press Photo of the Year 2008 (sul 2007; FOTOgraphia, aprile 2008).
UNA VITA DI JAZZ Torniamo in riga, riprendendo le note biografiche e professionali di William Claxton, nel ricordo della sua
recente scomparsa. Esposto in prestigiose gallerie del mondo e particolarmente quotato nel selettivo mercato delle stampe fotografiche d’arte, è famoso e riconosciuto anche per i suoi ritratti delle star di Hollywood, come Natalie Wood, Frank Sinatra e Steve McQueen, alla cui serie l’attento editore tedesco Taschen Verlag ha dedicato una monografia, anzi due (riquadro a pagina 24). Comunque, come già rilevato, la personalità più evidente di William Claxton è quella dell’interpretazione
dei personaggi e protagonisti del jazz. Ancora in questo caso, dopo una prima lontana edizione Jazz Seen, del 1999, quando furono anche pubblicate raccolte collegate, in forma di calendario, cartoline postali e dintorni, registriamo che lo stesso Taschen Verlag, riferimento privilegiato, ormai indispensabile al mondo fotografico nel proprio complesso, offre avvincenti interpretazioni bibliografiche recenti (anche recuperando e riattualizzando titoli passati). In fretta, risolviamo gli obblighi per la selezione New Orleans 1960,
BIBLIOGRAFIA MINIMA
T
aschen Verlag, sempre lui, ha in catalogo significative recenti monografie di William Claxton, mancato a Los Angeles lo scorso undici ottobre, a ottantuno anni. ❯ Steve McQueen; a cura di Steve Crist; testi in inglese, francese e tedesco; 192 pagine 19,6x24,5cm; 14,99 euro. ❯ McQueen; testi in inglese, francese e tedesco; 192 pagine 24x30cm; cartonato con sovraccoperta; 9,99 euro. ❯ New Orleans 1960; a cura di William Claxton; testi in inglese, francese e tedesco; 192 pagine 20,7x28,9cm; cartonato con sovraccoperta; 19,99 euro. ❯ Jazzlife; a cura di William Claxton e Joachim E. Berendt; testi in inglese, francese e tedesco; 696 pagine 29,1x40,7cm; car-
tonato con sovraccoperta; CD audio abbinato; 150,00 euro. ❯ Jazzlife; testi in inglese, francese e tedesco; 552 pagine 24,5x34,2cm; cartonato in cofanetto; 49,99 euro. ❯ Jazzlife - The Collector’s Edition; a cura di William Claxton e Joachim E. Berendt; testi in inglese, francese e tedesco; 696 pagine 29,1x40,7cm; cartonato con sovraccoperta; CD audio abbinato; in box con quattro stampe fotografiche firmate dall’autore [qui sotto]; 1000,00 euro.
Le quattro fotografie incluse nel box della Collector’s Edition di Jazzlife, di William Claxton, in copie fotografiche firmate dall’autore: Stan Getz by a stage door on Cosmo Alley, Hollywood (1956), The Metropole Café on Broadway near Times Square, New York City (1960), The George Williams Brass Band, New Orleans (1960) e Ray Charles with a Raylette, New York City (1960).
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pubblicata nel 2006: raccolta di fotografie scattate a contorno e nei momenti nei quali l’autore stava lavorando allo straordinario progetto Jazzlife, appunto titolo riproposto oggi da Taschen. A parte il ciclone Katrina, che a fine agosto 2005 ha devastato la città, causando milleottocento morti e danni per oltre novanta miliardi di dollari, oggi New Orleans non è certo più la città fotografata da William Claxton quasi cinquanta anni fa: e questo, se possibile, impreziosisce ancora di più la raccolta fotografica retrospettiva. In viaggio con il musicologo tedesco Joachim E. Berendt, che ha firmato i testi di Jazzlife, il fotografo ha registrato un clima e un mondo irripetibili, colti nel momento del proprio massimo splendore esistenziale. Commovente registrazione dell’anima di una città nella quale il jazz è nato. [A margine, precisiamo che Joachim E. Berendt ha curato la produzione più di duecentocin-
Il batterista Elvin Jones all’ingresso del Birdland; Manhattan, New York City.
Musicisti jazz in erba; Greenwich Village, New Yok City.
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VIVERE VELOCI, MORIRE GIOVANI
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teve McQueen e McQueen, che riprende e ripropone immagini del precedente, sono i due titoli monografici Taschen che riuniscono fotografie che William Claxton ha scattato al celebre attore statunitense, mancato nel 1980, a cinquanta anni. Il titolo più esaustivo è il primo, curato dal californiano Steve Crist, che per lo stesso editore ha curato anche le edizioni di Marilyn (fotografie e diari di André de Dienes’s) e The Polaroid Book, indispensabile casellario sulla collezione storica di immagini a sviluppo immediato. Oltre i dati tecnici riferiti altrove, nel riquadro pubblicato a pagina 22, completiamo con due testimonianze la presentazione delle monografie su Steve McQueen, icona cinematografica senza tempo. Il Value Rich Magazine, di Palm Springs, California, Usa, ha scritto: «Preziosa testimonianza di William Claxton, la cui visione e partecipazione alla vita di Steve McQueen restituisce la dimensione quotidiana di una indimenticabile star hollywoodiana. Rivediamo l’attore nei
momenti privati, di svago e gioco, e per un attimo possiamo anche dimenticarci che non è più tra noi». Con l’occasione di questa selezione di immagini, l’autore William Claxton ha ricordato l’amico scomparso: «Una volta, mentre eravamo insieme, lui ha guidato una Ford decappottabile nuovissima, con solo trenta miglia conteggiate sul tachimetro, spingendola a velocità massima per un lungo tratto su un’autostrada del Texas, fino a quando il motore ha cominciato a fumare. Allora ha rallentato, gridandomi “Clax, quando ti dico di saltare, salta!”. Siamo balzati fuori dall’abitacolo appena in tempo, prima che l’auto andasse in fiamme. Steve si è seduto sul ciglio della strada, a una distanza di sicurezza dal veicolo che bruciava, e si è messo a ridere a crepapelle». Da Vita spericolata, di Vasco Rossi (in Bollicine, del 1983): «Voglio una vita spericolata / Voglio una vita come quelle dei film / Voglio una vita esagerata / Voglio una vita come Steve McQueen».
quanta dischi, e nel 1953 ha pubblicato Das Jazzbuch, il libro di maggior successo sulla storia del jazz in tutto il mondo. La sua collezione di dischi, libri e documenti sul jazz costituisce la base dell’autorevole Jazzinstitut Darmstadt. È morto in un incidente nel 2000].
JAZZLIFE Appunto Jazzlife rimane l’opera fotografica immortale di William Claxton, non ne abbiamo dubbio. È frutto di un viaggio che, come appena ricordato, fu compiuto assieme al musicologo tedesco Joachim E. Berendt. Insieme, nel 1960, i due attraversarono gli Stati Uniti seguendo le tracce della musica jazz. Ne è scaturita una sorprendente collezione di immagini e registrazioni di interpreti leggendari, come pure di musicisti di strada sconosciuti. L’edizione originaria di Jazzlife, pubblicata da Burla Verlag, di Monaco, nel 1962, è ormai opera da collezionisti e/o bibliografi, sia della fotografia sia del jazz. Assieme all’autore, nel 2003, Taschen ha rimontato questa importante raccolta, integrandola con immagini inedite. L’attuale Jazzlife, in prima ri-edizione 2005, include anche una prefazione dello stesso William Claxton (in inglese, francese e tedesco), che racconta i suoi viaggi
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Steve McQueen su una Triumph TR6 650cc del 1963; Hollywood Hills, 1963. (a destra) William Claxton e Steve McQueen; Carmel, 1964. (in alto, a sinistra) André Previn; Hollywood.
con Joachim E. Berendt, complice di tante avventure, e la sua storia d’amore con la musica jazz in generale. Facendo tesoro delle attuali prerogative della tecnologia digitale, il volume si completa con un CD audio delle registrazioni originarie (ai tempi presentate in due album), restaurate da Joachim E. Berendt. Sulle pagine del libro si incontrano tutti gli interpreti del jazz, presenti sulla scena americana dei primi anni Sessanta: Charlie Parker, Count Basie, Duke Ellington, Muddy Waters, Gabor Szabo, Dave Brubeck, Stan Getz, Billie Holiday, Ella Fitzgerald, Miles Davis, Charlie Mingus, Thelo-
nious Monk, John Coltrane, per ricordare soltanto i nomi più noti. Attualmente sono disponibili tre edizioni di Jazzlife, di William Claxton: quella di partenza del 2005, con CD (696 pagine 29,1x40,7cm, cartonato con sovraccoperta; 150,00 euro); una semplificazione più recente di 552 pagine 24,5x34,5cm (cartonato, in cofanetto; 49,99 euro); e infine una affascinante e preziosa Collector’s Edition della edizione di partenza appena presentata, in box con quattro stampe fotografiche autografate dall’autore (tiratura di mille esemplari; 1000,00 euro). Angelo Galantini e Lello Piazza
GEORGIA CON TAROCCO?
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Molti blog hanno sottolineato la presenza di alcuni dettagli poco spiegabili in una serie di fotografie che hanno denunciato vittime provocate dagli attacchi russi contro la città di Gori, in Georgia (per esempio, http: //sodavideo.com/index.php?option =com_myblog&show=Fake-PHOTOS-Georgian-photographer-George-Abdaladze-.html&Itemid=57, oppure http://blog.wired.com/defense/2008/09/fake-georgia-pi.). Il sospetto riguarda il fatto che alcuni media internazionali, inclusi Reuters e Associated Press, avrebbero tentato di appoggiare con immagini costruite la propaganda pro Georgia e contro la Russia. Il fotografo Bryan William Jones, frequentatore del blog Danger Room, fa notare che alcune immagini sem-
brano mostrare corpi delle vittime che cambiano di posto da uno scatto all’altro, un georgiano fotogenico che appare in scatti diversi e in ruoli differenti, una donna che una volta si dispera, e un’altra volta è in atteggiamento di assoluta indifferenza. Del resto, anche la Russia ha giocato pesante con l’informazione giornalistica, denunciando di avere avuto duemila perdite, mentre Human Rights Watch ne ha conteggiate meno di un centinaio. Michael Scotto, a capo di Reuters Russia, ha dichiarato: «Alcune notizie di origine locale provenienti dalla Russia hanno accusato Reuters di aver utilizzato fotografie posate nei propri reportage sul conflitto in Georgia. Ciò è assolutamente falso». Alcuni commentatori danno ragione a Reuters,
affermando che in scatti diversi l’utilizzo di obiettivi di lunghezze focali diverse può dare l’impressione che alcuni soggetti siano stati spostati [?!]. Reuters ha comunque messo sul sito la sequenza degli scatti, a te-
Visualizzazione del sito dell’agenzia Reuters, con le fotografie dalla Georgia.
Davanti al fotografo, la stessa donna sembra avere un coinvolgimento molto diverso rispetto a quanto sta accadendo.
L’eventuale cadavere in primo piano, segnalato nella didascalia Reuters come figlio della donna, è stato spostato. In una fotografia, la donna appare distratta, mentre nell’altra manifesta disperazione.
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Didascalia Reuters: «Gori: il cadavere di una donna trasportato a braccia». Come mai il cadavere si tiene al braccio dell’infermiera? Inoltre, quello che appare cadavere a terra in una fotografia è lo stesso eventuale cadavere dell’altra, evidentemente realizzata in tutt’altro luogo. Nell’uomo che grida disperato nella seconda fotografia, qualcuno ha riconosciuto quello in secondo piano nella prima.
stimonianza della veridicità degli stessi. Queste sequenze sono comunque difficili da interpretare. In queste pagine mostriamo alcune delle fotografie in questione: lasciamo giudicare a voi, annotando però le nostre sensazioni (o sensazioni altrui, che abbiamo fatto nostre). A conclusione, e oltre le tante altre riflessioni sul fotogiornalismo che at-
traversano le nostre pagine, mese dopo mese, ribadiamo il senso del dovere che si deve avere verso il pubblico al quale si rivolgono e indirizzano le fotografie di giornalismo: parliamo di etica. Un conto è il dibattito tra addetti, che possono affrontare e sottolineare le infinite possibili mistificazioni della fotografia, in relazione e base a propri peccati origina-
ri. Un altro è ciò che la gente crede essere la fotografia. Infatti, non possiamo ignorare, né sottovalutare, che la grande rivoluzione della fotografia è stata quella di mostrare la realtà senza apparenti mediazioni e da qui, forse, è nata la propria diffusione e popolarità anche come documento. Prima di tutto, a questo si deve attenere il fotogiornalismo. L.P.
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TELEMETRO DELLE ORIGINI
Lo scorso dicembre, abbiamo celebrato i novant’anni Nikon, conteggiati dal 1917 di origine. A breve, sarà indispensabile ricordare i cinquant’anni dalla Nikon F, del 1959, prima reflex a sistema, anticipatoria di una luminosa stagione, nel corso della quale la stessa Nikon è stata elevata a sinonimo di reflex e autentica leggenda. Nel mezzo, ci stanno i sessant’anni dalla prima macchina fotografica Nikon. In un momento di efficaci rievocazioni e celebrazioni (tanti sono gli anniversari da richiamare: lo facciamo all’interno del lungo racconto Alla Photokina e ritorno, allegato al prossimo numero di dicembre di FOTOgraphia), l’originaria Nikon I esige una considerazione a sé. Questa
A
nni fa, a cavallo tra i Settanta e Ottanta, hanno cominciato a essere scritte e pubblicate tante storie di macchine fotografiche. La luminosa stagione fu sollecitata, occorre rilevarlo, dall’interesse collezionistico e antiquario avviato dalla appassionante vicenda Leica. Di fatto, l’uscita allo scoperto di un mondo che in precedenza era rimasto chiuso in se stesso, coltivato in grande segretezza, aprì le porte a una diversificata serie di ramificazioni, che diedero Nikon I (1948)
l’annuncio pubblicitario originario della Nikon I (1948), apparecchio a telemetro per quaranta pose 24x32mm. Dal 10 dicembre 1954, la prima Nikon 24x36mm è stata la Nikon S2.
appunto vita a studi approfonditi e ricerche finalizzate praticamente su tutti i marchi della fotografia, sia sostanzialmente moderna, sia autenticamente antica e storica. Mai tradotto in italiano, The Nikon Rangefinder Camera, di Robert Rotoloni (Hove Foto Books, 1981), può essere considerato e conteggiato come il testo cardine per il marchio giapponese, prontamente proiettato nell’avvincente mondo del collezionismo fotografico. A seguire, altri titoli hanno svelato passaggi storici, sui quali ciascuno di noi ha potuto
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1948-2008: ANNI QUARANTA
Nikon M (1949)
approfondire le proprie conoscenze. Tra questi, un posto di rilievo e onore spetta all’ottimo e indispensabile Nikon Pocket Book, di Peter Braczko, che l’Editrice Reflex ha pubblicato in italiano (FOTOgraphia, maggio 1995). A seguire, la stessa casa editrice ha affiancato questo titolo con l’altrettanto avvincente Nikon Story, di Pierpaolo Cancarini Ghisetti, meno schematico, più divulgativo e altrettanto coinvolgente (FOTOgraphia, maggio 2001). Comunque, questi due sono i soli titoli sulla storia Nikon disponibili in italiano. I riferimenti ufficiali: Nikon Pocket Book, di Peter Braczko (384 pagine 10x21cm; 28,00 euro) e Nikon Story, di Pierpaolo Cancarini Ghisetti (172 pagine 15,5x23cm; 31,00 euro); per Nikon S (1950) ulteriori dettagli, e acquisti, riferirsi al sito della casa editrice www.reflex.it. È proprio su e con questi testi che si possono conoscere tutti i dettagli, non soltanto tecnici, della lunga storia degli apparecchi fotografici Nikon, dall’originaria linea a telemetro fino alle reflex, fino alle interpretazioni più recenti.
Logotipo originario Nikon, inciso sugli apparecchi a telemetro degli anni Quaranta e Cinquanta. E poi anche sulle prime Nikon F.
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In occasione dei sessant’anni dalla originaria Nikon I, appunto del 1948, che il citato Peter Braczko certifica essere rimasta in produzione per poco più di un anno, dal marzo 1948 al successivo aprile 1949, qui e ora ricordiamo soltanto la genìa degli apparecchi a telemetro, senza tornare una volta ancora su altre vicende legate al marchio (sulle quali ci siamo peraltro già allungati lo scorso dicembre 2007, in occasione dei novant’anni dell’azienda). Prima di farlo, è doveroso ricordare che le Nikon a telemetro -sul cui scheletro sarebbe poi nata la Nikon F, che ne avrebbe conservato le linee guida- derivarono dalla costruzione della tedesca Contax, ai tempi ai vertici tecnologici della fotografia 24x36mm insieme a Leica (che a propria volta ispirò altre produzioni fotografiche giapponesi, e oltre). Apparecchio a telemetro con obiettivi intercambiabili, la Nikon I non nacque 24x36mm, ma 24x32mm [a pagina 29]. Infatti, l’ingerenza statunitense sul Giappone occupato militarmente (e non solo) indirizzò alcune produzioni fotografiche nazionali dell’immediato dopoguerra verso formati di negativo che fossero proporzionali ai tagli di carta e agli standard americani: per dire, vicini al rapporto tra i lati delle pellicole piane 4x5 e 8x10 pollici (10,2x12,7cm e 20,4x 25,4cm). A differenza del medio formato 6x7cm, che ha avuto ragione sul 6x9cm europeo, i definiti “Japan Size” non ebbero fortuna. Comunque, Nikon I, con incisione “Made in Occupied Japan” sul fondello del dorso estraibile: formato di ripresa 24x32mm su pellicola 35mm, con autonomia di quaranta pose, contro le trentasei standard. Otturatore a tendina sul piano focale, con tempi di otturazione in doppia scala, da un secondo a 1/20 di secondo e da 1/30 di secondo a 1/500 di secondo, più le pose B e T. Corpo macchina cromato; e Peter Braczko cita l’esistenza di un solo esemplare conosciuto con finiture nere, in possesso di un collezionista giapponese. Ribadiamo che notizie di questo tipo sono il gustoso condimento di tutto il Nikon Pocket Book e anche della Nikon Story, di Pierpaolo Cancarini Ghisetti. Nella primavera 1949, la Nikon I cede il passo alla evoluzione Nikon M (marzo 1949 - dicembre 1950), che ne ripropone le caratteristiche tecniche salienti, andando però ad allargare il
Nikon S2 (1954)
Nikon SP (1957)
fotogramma a 24x34mm [in alto, a sinistra]. Due versioni, entrambe cromate: con e senza sincronizzazione flash. Segnaliamo che la Nikon M è stata la prima a distribuzione internazionale ufficiosa, a seguito della quale, come spesso ricordato, si registrarono consistenti e convincenti apprezzamenti da parte di fotografi professionisti, presto ripresi dalla stampa: citazione d’obbligo per le note entusiastiche riportate sul New York Times del 10 dicembre 1950 (FOTOgraphia, dicembre 2007). La prima Nikon a distribuzione internazionale ufficiale sarà la Nikon S, della quale stiamo per riferire.
1948-2008: ANNI CINQUANTA
Nikon S3 (1958)
Ancora 24x34mm, la successiva Nikon S si affiancò alla precedente e coesistente Nikon M dal gennaio 1950, rimanendo in catalogo fino a tutto il gennaio 1955 [pagina accanto, al centro]. Le note esteriori ripetono i termini originari, fino all’ampio bottone di avanzamento della pellicola. Soltanto, si registra la dotazione standard della sincronizzazione flash, con riferimenti ai diversi tipi di lampeggiatori, a lampadina ed elettronici, che si sarebbe allungata fino alla reflex Nikon F. Come rilevato nelle storiografie sopra ricordate, persiste e perdura l’incisione sul fondello “Made in Occupied Japan”, sostituita, dall’8 settembre 1951, quando l’esercito americano lasciò il Giappone, dalla precisazione “Japan”. Della Nikon S3 Y2K, celebrativa del Duemila, abbiamo ampiamente riferito in FOTOgraphia del maggio 2001 (con visualizzazione in copertina), e qui richiamiamo: «Confezionata in un box recuperato, lui pure, dall’originale del 1958, la riedizione della Nikon S3 a telemetro celebra il nuovo Millennio, e lo certifica nelle indicazioni riportate sulla scatola a quadretti con i logotipi d’epoca, d’attualità fino al 1961. All’interno, l’edizione speciale è certificata dalla raffinata finitura bordeaux sulla quale è appoggiata la nuova Nikon S3 Y2K».
Nel concreto, l’informato Peter Braczko, che attraversa diagonalmente le nostre odierne note tecnico-storiche, conteggia quattro versioni Nikon S standard e due speciali. Anzitutto, registriamo le finiture cromata e nera; quindi, precisiamo che le Nikon S cromate sono reperibili nelle proprie sottoversioni (diciamola così) con incisione “Made in Occupied Japan” e con numero di matricola a otto cifre, che soltanto per questo sono più quotate sul mercato del collezionismo, soprattutto statunitense. Speciali e dedicate sono state poi le Nikon S, cromata e nera, in versione per lo staff della rivista Life: con bottoni di avanzamento della pellicola e riavvolgimento di dimensioni sostanzialmente incrementate. Il 10 dicembre 1954 vede la luce la Nikon S2, che approda al formato di esposizione 24x36mm (l’effimero “Japan Size” se ne va in pensione) e propone finiture rivisitate [pagina accanto, in basso]. Arriva la leva di avanzamento della pellicola e si segnalano i tempi di otturazione a progressione internazionale: ancora in doppia sequenza, da un secondo a 1/30 di secondo e da 1/30 di secondo a 1/1000 di secondo, più le pose B e T. La base del telemetro di rilevazione della messa a fuoco è allargata e il mirino di visione più ampio e brillante. Nel dettaglio, a parte altre sfumature, che si sono alternate nel corso degli anni, fino al marzo 1958, si registra una prima versione con il contafotogrammi, il selettore dei tempi di otturazione e la scala delle distanze cromati, e una seconda, con le stesse incisioni bianche su fondo nero. Da cui, le quattro versioni censite, per corpi macchina cromati e neri. Ancora, registriamo la configurazione Nikon S2-E, il cui prototipo (al quale non seguì la produzione) fu presentato all’Ipex di Chicago, fiera specializzata, attualmente proiettata verso le arti grafiche: predisposta per il motore di avanzamento della pellicola dopo lo scatto, è stata ideologicamente anticipatoria sia della imminente Nikon SP sia del concetto di sistema fotografico, che, dopo la stagione del telemetro (anni Cinquanta), si affermerà con la costruzione reflex, dalla sempre ricordata Nikon F, del 1959.
1948-2008: ANNI CINQUANTA/2 Ecco qui, la Nikon SP (19 settembre 1957 - giugno 1965): probabilmente la più affascinante delle Nikon a telemetro (giudizio personale) [in alto, a sinistra], peraltro evocata anche nella foto-
Nikon S4 (1959)
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grafia simbolica della nostra copertina dello scorso dicembre 2007, accanto l’imprescindibile Nikon F (fotografia di Luca Ventura, Studio Rouge, di Milano, precedentemente utilizzata per la copertina di Nikon Story, di Pierpaolo Cancarini Ghisetti, dell’Editrice Reflex). All’interno della propria genìa, la si riconosce per il particolare disegno della finestrella anteriore del mirino, per le rinnovate finiture dei comandi operativi e per il selettore dei tem- Nikon S3M (1960) pi di otturazione da un secondo a 1/1000 di secondo, che verranno replicati nelle successive configurazioni, fino a proiettarsi sulla reflex originaria Nikon F. Nella sigla identificatoria Nikon SP, la “P” finale richiama “Professional”, e identifica l’orientamento tecnico-commerciale che andrà a definire i decenni successivi del marketing Nikon. Tra l’altro, proprio la Nikon SP segnala come per lungo tempo il telemetro si propose come alternativa operativa alla neonata reflex, tanto che questa configurazione rimase sul mercato fino alla metà degli anni Sessanta, affiancando per circa sei anni la Nikon F. Le caratteristiche, ora. L’otturatore sul piano focale fu realizzato in due versioni, in tessuto (seta gommata) e titanio, certificando così le quattro versioni, con finitura cromata e nera. Il mirino telemetro comprende le delimitazioni di sei lunghezze focali, accoppiate agli obiettivi intercambiabili: 28, 35, 50, 85, 105 e 135mm. Dal marzo 1958, e rimanendo in catalogo fino al marzo 1961,
la Nikon S3 è considerabile come modifica della precedente SP: soprattutto, niente selettore per le cornici luminose nel mirino, all’interno del quale rimangono fisse le cornici delle focali 35, 50 e 105mm [a pagina 31]. Diverse anche le finiture del corpo macchina e sostanzialmente confermate le caratteristiche tecniche. Ancora quattro versioni, cromata e nera, con tendina in tessuto e in titanio. Per i giochi olimpici di Tokyo, nel 1964 fu realizzata una configurazione Nikon S3 Olympic, con tendina al titanio, dotata di particolari costruttivi ripresi dalla Nikon F. E poi, anticipiamo la riedizione Nikon S3 Y2K, del 2000, che commentiamo più avanti. Ci avviciniamo alla conclusione dell’epopea del telemetro Nikon. Gli ultimi due apparecchi, a propria volta coevi anche alla Nikon F (sempre lei! troppo lei!), sono la Nikon S4 e la Nikon S3M: rispettivamente vendute dal marzo 1959 al luglio 1960 e dall’aprile 1960 all’aprile 1961. La Nikon S4 è una sostanziale semplificazione delle precedenti SP e S3, proposta a un prezzo ridotto: cromata e basta, otturatore in sola seta gommata, priva dell’autoscatto, senza accoppiamento al motore, azzeramento manuale del contafotogrammi, cornici nel mirino per le sole focali 50 e 105mm [a pagina 31]. Invece, dal punto di vista antiquario e collezionistico la Nikon S3M è la più rara e preziosa tra le Nikon a telemetro (e reflex), prodotta in centonovantacinque esemplari, è una derivazione della S3, per il mezzo formato 18x24mm e relativo contafotogrammi fino a settantadue pose [qui sopra]. Mirino con delimitazione di inquadratura delle focali 35, 50 e 105mm e combinazione dedicata con motore S72. Ancora più rare sono le Nikon S3M cromate, all’interno di una produzione con finiture soprattutto nere.
1948-2008: DUEMILA
Pubblicata da Harper & Brothers nel 1951, la raccolta fotografica di David Douglas Duncan This is War! rappresenta la prima testimonianza fotografica dal (giovane) fronte della guerra di Corea, dove il celebre fotoreporter statunitense fu tra i primi a usare le Nikon a telemetro.
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Dalla produzione standard di Nikon a telemetro, che ha definito gli anni Cinquanta, con balzo ardito voliamo verso tempi a noi prossimi. Approdiamo così alle Nikon celebrative, in edizione limitata, avviate nel Duemila con la Nikon S3 Y2K, appunto celebrativa del Millennio. Ne abbiamo ampiamente riferito in FOTOgraphia del maggio 2001 (con visualizzazione in copertina), e qui richiamiamo: «Confezionata in un box recuperato, lui pure, dall’originale del 1958, la riedizione della Nikon S3 a telemetro celebra il nuovo Millennio, e lo certifica nelle indicazioni riportate sulla scatola a quadretti con i logotipi d’epoca, d’attualità fino al 1961 [a pagina 31]. All’interno, l’edizione speciale è certificata dalla raffinata finitura bordeaux sulla quale è appoggiata la nuova Nikon S3 Y2K». Questa prima Nikon S3 Y2K cromata, in commercio dal febbraio 2000, fu poi seguita da una altrettanto Limited Edition in versione nera, con le medesime caratteristiche tecniche e di confezionamento prezioso. Quindi, e siamo agli sgoccioli, nel gennaio 2005 ha visto la luce un’altra riedizione Nikon SP Black Limited Edition, che ha ripreso i valori del modello originario, del 1957. Come è ovvio che sia, tre apparecchi celebrativi particolarmente apprezzati sul mercato del collezionismo, dove sono consistentemente quotati. Lo diciamo spesso, e una volta di più non guasta certo: a ciascuno, la sua. Maurizio Rebuzzini
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Da Seen Behind the Scene, di Mary Ellen Mark: l’attore Sean Penn in sala trucco; Manhattan, New York, 1983.
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oincidenza affascinante. Arrivano simultaneamente in libreria due monografie della brava Mary Ellen Mark, fotografa statunitense della quale si può dire solo bene. E diciamolo, allora, ricordandone la personalità. In occasione di un ennesimo passaggio italiano della sua selezione American Odissey, che ha poi proseguito il suo tour nel nostro paese, nel settembre 2004 abbiamo riportato la postfazione con
la quale, nell’omonimo volume, la stessa Mary Ellen Mark commenta il proprio progetto. In anticipo sulla presentazione delle due attuali monografie, immediatamente a seguire, un estratto è doveroso e rappresentativo della sua fotografia. «Nel mio lavoro sono guidata da ciò che mi tocca e sorprende. Le fotografie possono essere enigmatiche. Alle volte funzionano per ciò che è presente nell’inquadratura, altre volte per ciò che ne resta fuori. Non c’è una formula per scattare fotografie. È un
MARY ELLEN M
Due monografie della celebre e celebrata reporter statunitense. Nel primo volume, Seen Behind the Scene, di Phaidon, sono raccolti quaranta anni di frequentazione di set cinematografici internazionali; il secondo è la riedizione dell’introvabile Ward 81, originariamente pubblicato nel 1979, oggi riproposto da Damiani Editore: avvincente racconto dall’interno di un’unità psichiatrica di cura di donne ritenute pericolose per se stesse e per la comunità. Agli antipodi, tra finzione e tragica realtà, un modo di vedere che coinvolge l’osservatore
processo misterioso; una sfida senza fine. Nuove idee si schiudono costantemente e nuove possibilità si rivelano dietro ogni angolo. Il trucco è di aprirsi abbastanza per riconoscerle nel momento nel quale appaiono, saperle portare avanti e perseguirle. «Ho cominciato a fotografare nei primi anni Sessanta, quando ero una studentessa alla Annenberg School for Communication. Dai miei primi giorni sulla strada, armata di macchina fotografica, sapevo che sarebbe stato così: sarei diventata foto-
grafa. Questo infantile senso di eccitamento non mi ha mai abbandonato, come anche il piacere che riesce a darmi il contatto con le persone che fotografo. Scattare fotografie può essere una contraddizione; perché, se da un lato la macchina fotografica facilita il contatto con il soggetto, dall’altro fornisce una necessaria distanza. A volte il mio lavoro si focalizza su aspetti di vita che sono molto difficili. Quando la macchina fotografica è tra me e il soggetto, spesso mi protegge da una situazio-
Da Seen Behind the Scene, di Mary Ellen Mark: Brooke Shields in una pausa di lavorazione di Sahara, di Andrew V. McLaglen; Israele, 1983.
MARK IN DOPPIO
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Da Seen Behind the Scene, di Mary Ellen Mark: l’attore Patrick Swayze davanti alla propria abitazione; Lakeview, California, 1995.
Seen Behind the Scene, di Mary Ellen Mark; Phaidon Press Limited, 2008 (www.phaidon.com); in inglese; 264 pagine 21,4x29cm, cartonato con sovraccoperta; 200 illustrazioni; 49,95 euro.
ne spiacevole, ma al tempo stesso mi permette di introdurmi in mondi altrimenti impenetrabili».
IL CINEMA Pubblicato da Phaidon, Seen Behind the Scene sintetizza un lungo percorso di Mary Ellen Mark, che a partire dagli anni Sessanta ha lavorato su oltre cento set cinematografici, scattando migliaia di fotografie di attori sulla scena e della vita dietro le quinte. Ricca di duecento illustrazioni, la corposa monografia (di duecentosessanta pagine 21,4x29cm) raccoglie quelle che l’autrice considera le sue più belle immagini a tema. Si spazia da Satyricon, di Federico Felli-
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ni, il primo film che Mary Ellen Mark ha fotografato, alle produzioni leggendarie degli anni Settanta, come Apocalypse Now, di Francis Ford Coppola, e Qualcuno volò sul nido del cuculo, di Milos Forman, per arrivare ai grandi successi di anni più recenti, come Tootsie, di Sidney Pollack, e Gandhi, di Richard Attenborough, (rispettivamente richiamati in FOTOgraphia dello scorso ottobre e del precedente maggio). Seen Behind the Scene documenta anche la più recente attività di Mary Ellen Mark, che continua a fotografare il cinema, in alternanza con i intensi reportage dal reale, e che negli ultimi anni ha documentato i backstage di alcune realizzazioni da Oscar, come Moulin Rouge, di Baz Luhrmann, Babel, di Alejandro Gonzalez Inarritu e Sweeney Todd: The Demon Barber of Fleet Street, di Tim Burton. Distribuita su oltre quaranta anni, la sua esperienza fotografica ha permesso a Mary Ellen Mark di vivere in prima persona i grandi cambiamenti del mondo del cinema. In introduzione alla monografia (in inglese), la fotografa sottolinea come abbia amato fotografare le reazioni del regista durante le riprese e la sua interazione con la costruzione della scena, e come oggi tutto questo non sia più possibile. Infatti, oggi il regista è raramente vicino alla macchina da
Da Seen Behind the Scene, di Mary Ellen Mark: con la supervisione del regista Sydney Pollack, Dustin Hoffman è truccato da donna (da Michael Dorsey a Dorothy Michaels); Tootsie, 1982 ( FOTOgraphia, ottobre 2008).
L’AUTRICE
DEAN TAVOULARIS
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ary Ellen Mark è nata a Philadelphia, nel 1940, da una famiglia della middle class. Dopo una laurea in Storia dell’Arte, ha frequentato un corso di fotogiornalismo alla Annenberg School of Communication. Grazie a una borsa di studio ha viaggiato per due anni in Turchia, Grecia, Spagna e Italia. Tornata a New York, è passata al professionismo e in breve tempo ha avviato un proprio studio. È il cinema ad offrirle i primi incarichi, in qualità di fotografo di scena e ritrattista. Lavora su set di diversi film, tra i quali ricordiamo Satyricon di Federico Fellini. Dall’incontro con Milos Forman, e dalla collaborazione sul set di Qualcuno volò sul nido del cuculo, nel 1979 nasce Ward 81, viaggio drammatico all’interno della sezione femminile di un manicomio americano, ora riproposto da Damiani Editore in una nuova edizione, fedele all’originale. Sensibile al richiamo degli emarginati, Mary Ellen Mark ha approfondito diversi temi e realizzato numerosi reportage raccolti in volume; tra i titoli: Falkland Road (Knopf, 1981), documento sulla prostituzione a Bombay, Mother Teresa’s Mission of Charity in Calcutta (1985), omaggio alla presenza della missionaria nei quartieri po-
veri della città indiana, Streetwise (1988), reportage sui bambini di strada di Seattle, il volume antologico Mary Ellen Mark: 25 Years (Bulfinch, 1991), Indian Circus (Chronicle, 1993), sguardo appassionato sulla vita circense e i suoi protagonisti, American Odissey (Aperture, 1999), sguardo critico e ironico sugli Stati Uniti negli ultimi trentacinque anni, Mary Ellen Mark 55 (Phaidon, 2001), agile raccolta, e Twins (Aperture, 2003), ampio reportage su coppie gemellari, pubblicato alla fine del 2003. Dalla frequentazione delle celebrità del cinema e della cultura internazionale e dall’amore sincero per gli individui più deboli è nato il volume Portraits, pubblicato in Italia da Federico Motta Editore (1995; FOTOgraphia, novembre 1995). Infine, ricordiamo che Mary Ellen Mark ha fatto parte della qualificata giuria finale del prestigioso Sony World Photography Award 2008, del quale abbiamo ampiamente riferito nel nostro numero dello scorso giugno. Mary Ellen Mark sul set di Apocalypse Now (di Francis Ford Coppola, 1976), a Pagsanjan, Filippine.
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Ward 81, di Mary Ellen Mark; testi di Milos Forman e Karen Folger Jacobs; Damiani Editore, 2007 (via Zanardi 376, 40131 Bologna; 051-6350805, fax 051-6347188; www.damianieditore.com, info@damianieditore.it); in inglese; 96 pagine 24x34cm, cartonato; 85 illustrazioni; 40,00 euro.
presa e lo si trova sempre più spesso di fronte a un monitor, lontano dal set. Se servisse certificarlo, il ritratto iconico di Federico Fellini dietro la macchina da presa fissa una tappa fondamentale nella storia del cinema e rappresenta una testimonianza significativa di come la produzione cinematografica sia cambiata con l’avvento di nuove tecnologie. Anche i ritratti di Mary Ellen Mark degli anni Sessanta, Settanta e Ottanta sono documenti importanti dei cambiamenti della proposizione delle celebrità del mondo del cinema. Agli esordi della sua carrie-
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ra, la fotografa era semplicemente una delle tante presenze sul set e poteva accedere liberamente a tutto il cast; oggi invece, con il crescente impatto di immagine delle star, è sempre più difficile lavorare dietro le quinte, dove gli attori sono costantemente circondati dal proprio entourage e hanno agende fittissime, con impegni in ogni momento della giornata. In questo clima, le candide immagini che Mary Ellen Mark ha carpito a attori del calibro di Cate Blanchett, Brad Pitt, Johnny Depp e Nicole Kidman diventano rarità imperdibili.
Da Ward 81, di Mary Ellen Mark, reportage dal Reparto 81 dell’Oregon State Hospital, entro le cui mura è stato girato l’inquietante Qualcuno volò sul nido del cuculo, di Milos Forman: unità psichiatrica di sicurezza allestita all’interno della struttura sanitaria per accudire e curare donne ritenute pericolose per se stesse e per la comunità.
Infine, annotiamo che corpo fotografico di Seen Behind the Scene è arricchito da una serie di contributi di attori, registi e professionisti del mondo del cinema, che si alternano nel raccontare aneddoti del dietro le quinte (ripetiamolo, in inglese).
WARD 81 Capitolo importante dell’intera vicenda fotografica di Mary Ellen Mark, quantomeno di quella parte della sua fotografia sociale e intensamente reportagistica, Ward 81 è ora riproposto da Damiani Edi-
tore in una versione attuale, comunque fedele all’originaria di circa trenta anni fa. La vicenda è presto sintetizzata. Nel 1975, The Pennsylvania Gazette incaricò Mary Ellen Mark di seguire le riprese di Qualcuno volò sul nido del cuculo, film di Milos Forman girato negli spazi dell’Oregon State Hospital (in originale One Flew Over the Cuckoo’s Nest ). Fu questa l’occasione che portò la fotografa a contatto con le recluse del Reparto 81 (appunto, Ward 81), un’unità psichiatrica di sicurezza allestita all’interno della struttura sanitaria per accudire e curare donne ritenute pericolose per se stesse e per la comunità. Nel febbraio 1976, un anno prima della chiusura definitiva del reparto, assieme alla scrittrice e psichiatra Karen Folger Jacobs, Mary Ellen Mark trascorse un mese all’interno della stessa struttura, per documentare la drammatica quotidianità delle pazienti. A distanza di trent’anni dalla pubblicazione del volume che ha raccolto il frutto di questo incontro, Damiani ripropone un reportage di grande valore umano e documentario. Angelo Galantini
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GRANDI MAGAZZINI JORDAN MARSH, BOSTON, MASSACHUSETTS, 26 NOVEMBRE 1948
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ordan Marsh, il vecchio grande magazzino di Boston, si trovava all’incrocio di Washington Street con Summer Street e guardava in cagnesco il suo più forte rivale, Filene’s, sull’altro lato della strada. Nel 1948, i due grandi magazzini delimitavano il distretto commerciale della città bassa di Boston. A loro ci si riferiva per localizzare altri punti di riferimento, come R.H. Stearns, S.S. Pierce, la gelateria Bailey e Locke-Ober. «A un isolato dal Jordan sulla Winteh, poi gira a destra in Winteh Square. Non puoi sbagliare». Jordan riuniva un rispettabile gruppo di edifici e ali adiacenti, oltre a una dipendenza collegata da un ponte coperto, che passava sopra la strada. I suoi reparti venivano periodicamente ristrutturati, ampliati, chiusi o riaperti con un adeguato strombazzamento, man mano che le maree del commercio defluivano e cambiavano i gusti del pubblico. Il reparto fotografia era uno dei più piccoli. Anche se era in buona posizione, al piano terra dell’Hovey Building, con l’entrata che dava direttamente su Washington Street, la maggioranza dei clienti se ne serviva come scorciatoia per andare al reparto gioielleria, più grande e più frequentato. Il reparto fotografia del Jordan non offriva una grande varietà di prodotti. La Eastman Kodak forniva la maggioranza degli articoli in vendita. Al vertice della gamma c’era la Kodak Reflex, una macchina fotografica biottica piuttosto banale. C’erano Kodak a soffietto pieghevole e mirino prismatico e Baby Brownie, in vendita a due dollari e settantacinque centesimi soltanto [2,75 dollari], che producevano istantanee in bianconero più che accettabili. La Brownie era la prima macchina fotografica mira-e-scatta. «Premete il pulsante, al resto pensiamo noi», insisteva la Kodak. Al Jordan Marsh, le macchine fotografiche tedesche o giapponesi erano pressoché inesistenti. Agfa, Leica, Rolleiflex e
IL TRISTE
ADDIO Grandi magazzini Jordan Marsh, di Boston, Massachusetts, 26 novembre 1948: sessanta anni fa. Prima dimostrazione pubblica e vendita della fotografia a sviluppo immediato, successiva all’annuncio del precedente 21 febbraio 1947 (FOTOgraphia, febbraio 1997 e febbraio 2007). Celebriamo l’anniversario, nel momento in cui dobbiamo anche registrare e prendere atto della fine (annunciata) della stessa fotografia a sviluppo immediato: a breve cesserà la produzione di pellicole. Polaroid può anche rimanere marchio per prodotti che ne sfruttino il richiamo, fotografici o meno che siano. Ma la fotografia a sviluppo immediato, ribadiamolo, chiude qui: sessanta anni dopo il suo avvio ufficiale. Nessuna nostra parola a commento -non ne serve alcuna-, e ci affidiamo al ricordo di Peter C. Wensberg, che lavorò alla Polaroid Corporation per ventidue anni, arrivando alla carica di vicepresidente esecutivo. Riprendiamo dalla biografia dell’inventore della fotografia a sviluppo immediato, per decenni tutt’uno con la sua azienda: Edwin H. Land e la Polaroid, edizione italiana dell’originario Land’s Polaroid - A company and the man who invented it, pubblicato nel 1989 da Sperling & Kupfer
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DOCUMENTI ORIGINALI empre affascinanti e coinvolgenti, i ricordi di Peter C. Wensberg, che abbiamo avuto il piacere di conoscere personalmente anni fa. Al pari di quanto evocato a proposito della presentazione della fotografia a sviluppo immediato del 21 febbraio 1947, ripreso e riproposto in FOTOgraphia del febbraio 1997 e febbraio 2007, rispettivamente in occasione dei cinquanta e sessanta anni, anche il primo giorno di vendita della Polaroid Model 95 originaria, ai grandi magazzini Jordan Marsh, di Boston, è fascinoso ed emozionante. Addirittura, ci commuove sempre, ogni volta che lo leggiamo: ma è vicenda assolutamente personale. A ciascuno, le proprie reazioni. Oggi, in queste pagine, ci limitiamo alle sue parole, perché quella che avrebbe potuto essere una solenne celebrazione dei sessanta anni di fotografia a sviluppo immediato si è trasformata anche in epitaffio conclusivo. Quindi, lasciamo stare sullo scaffale tutti i documenti e le testimonianze che avevamo riunito e raccolto per l’occasione, cominciando a ordinarli prima dell’annuncio a tutti noto, con il quale si è sancita la fine della fotografia a sviluppo immediato (FOTOgraphia, marzo
2008). Di tutto questo, riparleremo in altri momenti, senza l’amarezza che sta avvolgendo questo tramonto, peraltro legittimo e prevedibile, cuore a parte. A pagina 44 riportiamo la traduzione dell’articolo con il quale The New York Times del 22 febbraio 1947 commentò la presentazione di Edwin H. Land della sera precedente. (A proposito, la notizia portante della prima pagina è la bufera di neve abbattutasi sulla città, che, come ha rivelato Peter C. Wensberg, rischiò di mandare all’aria la dimostrazione al Pennsylvania Hotel). Quindi, in conclusione, proponiamo qui tre fotografie-testimonianza. Ci teniamo a sottolineare sia lo spessore degli approfondimenti e delle considerazioni riferite in FOTOgraphia, che si basano sempre su materiali originari, sia la qualifica della nostra testata all’interno del panorama giornalistico specializzato, non soltanto italiano. Più volte abbiamo riprodotto le copertine di Life e Time con il ritratto di Edwin H. Land; poche righe fa abbiamo citato The New York Times: non lo facciamo per sentito dire, ma possediamo le copie di questi giornali. Eccole.M.R.
Alla (triste) maniera delle fotografie di rapiti, non soltanto politici, non soltanto italiani, il direttore di FOTOgraphia, Maurizio Rebuzzini, certifica la presenza nell’archivio della redazione delle copie originarie dei giornali che sono spesso ricordati nelle rievocazioni
della storia Polaroid: Life del 27 ottobre 1972, Time del 26 giugno 1972 e The New York Times del 22 febbraio 1947. A pagina 44, la traduzione dell’articolo con il quale il quotidiano newyorkese ha commentato la presentazione di Edwin H. Land della sera precedente.
LOREDANA PATTI (3)
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Voigtländer lottavano ancora per liberarsi dalle macerie dei bombardamenti. Le poche giapponesi presenti sul mercato erano imitazioni economiche, vendute nel reparto giocattoli. Prima della guerra, la Eastman Kodak era stata infastidita solo dalla tedesca Agfa e dalla giapponese Konishiroku [Konica]. A quel punto regnava trionfante, tenendo saldamente più del novanta per cento del mercato americano. Nessuna corporation, né General Motors né GeneraI Electric, dominava il proprio settore al pari della Kodak, che non solo produceva e vendeva la maggioranza delle macchine fotografiche e delle pellicole negli Stati Uniti, ma controllava anche lo sviluppo e la stampa. La parte del leone di questa lucrosa attività, gestita dalla Kodak stessa, era svolta a Rochester. I laboratori che cercavano di mettersi in concorrenza nello sviluppo e stampa delle pellicole non avevano altra scelta che comprare apparecchiature, prodotti chimici e carta dalla Kodak. Eastman forniva pellicole, apparecchiature e sviluppo a Hollywood, studi fotografici,
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settore radiografico, fotografia aerea: praticamente a ogni settore della fotografia industriale e professionale. In questo ultimo campo, i progressi erano stati rapidi, ma le macchine fotografiche per dilettanti avevano tenuto un passo più lento. La Kodak non si preoccupava molto della concorrenza e i margini erano buoni. La rapida espansione della Eastman non era sfuggita ai cacciatori di trust del New Deal. Negli Anni Trenta e Quaranta, la Kodak aveva dovuto affrontare una serie di azioni antitrust, l’ultima delle quali impose -nel 1948- lo smantellamento della catena Eastman Kodak di negozi di apparecchi fotografici. Nonostante questo passo indietro, i prodotti Eastman erano diffusi in tutta l’America. La Kodak era la marca dominante in qualsiasi negozio di apparecchi fotografici, in ogni laboratorio di sviluppo e stampa, nella maggioranza dei drugstore e in ogni grande magazzino che trattasse quegli articoli. I commercianti dipendevano quasi totalmente dalla Eastman Kodak. Anche se la Kodak non poteva controllare i prezzi al minuto sen-
za violare la lettera della legge RobinsonPatman, controllava letteralmente il mercato, il che portava allo stesso risultato. Nelle associazioni di commercianti del settore, il personale era costituito in gran parte da funzionari o incaricati della Kodak. I negozianti avevano un margine dal trenta al quaranta per cento sulle vendite di apparecchi fotografici e molto più nello sviluppo e stampa. La Kodak stessa ricavava sulle pellicole margini dall’ottanta al novanta per cento. A quell’epoca, lo sconto era in pratica sconosciuto nel mercato al dettaglio. La presentazione fatta da [Edwin H.] Land alla Optical Society aveva suscitato grande interesse, essendo stata ampiamente illustrata nei giornali di settore e nelle riviste degli appassionati di fotografia; ma molti, compreso qualcuno della Eastman Kodak, consideravano il nuovo processo di fotografia a sviluppo immediato una novità, una curiosità scientifica, non un potenziale concorrente. Per descrivere l’invenzione di Land si fece grande uso di una nuova parola: «aggeggio». L’ag-
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geggio era una nuvola più piccola di una mano sull’orizzonte della Kodak. Sotto diversi aspetti, la prima macchina fotografica Polaroid Land, definita Model 95, perché avrebbe dovuto essere venduta a novantacinque dollari, adottava la struttura delle macchine fotografiche del tempo. Assomigliava a una grandissima Kodak con l’otturatore centrale, l’obiettivo piccolo, l’imponente soffietto, il mirino piegabile semplice e la cinghia per portarla. Non solo era più grande di una Kodak, era anche molto più pesante. Contribuivano al peso i due cilindri di acciaio di precisione all’interno della camera di sviluppo; con la pellicola inserita, la Model 95 pesava circa due chili e trecento grammi. Anche se l’aspetto esteriore era familiare, l’interno non assomigliava a niente di già visto. Il rullo della pellicola era composto da tre elementi: un segmento di negativa in un rotolo, un segmento di carta in un altro e otto gusci di reagente viscoso per lo sviluppo. Il rotolo di pellicola (in realtà due rotoli collegati) era un perfetto origami di taglio e montaggio di carta pressata. I due rotoli stavano nelle camere che si trovavano alle due estremità dell’apparecchio. Quando la macchina fotografica era chiusa e la parte iniziale della
pellicola era infilata nella fessura, la porzione di materiale fotosensibile utile e necessaria per il primo fotogramma negativo si posizionava dietro l’obiettivo. Dopo l’esposizione, la parte finale della pellicola avanzava ancora, e a questo punto succedevano due cose: i cilindri rompevano la busta di carta metallizzata del primo guscio e la carta positiva corrispondente scorreva tra loro, di fronte al negativo impressionato. Per effetto della pressione dei due cilindri, il reagente contenuto nel guscio si spandeva in modo uniforme tra positiva e negativa, che andavano a formare un sandwich con lo strato di reagente spalmato come mostarda tra i due fogli, ormai fermi all’uscita sul retro/dorso della macchina fotografica. Il processo di sviluppo cominciava appena il reagente entrava in contatto con la negativa. Il ciclo di distribuzione, di cui Land aveva dato la prima dimostrazione al Pennsylvania Hotel [FOTOgraphia, febbraio 1997 e febbraio 2007], cominciava a trasferire grani sviluppati di argento dalla negativa e a disporli sul foglio positivo, dando luogo alla formazione dell’immagine. Dopo un minuto, il fotografo metteva fine al processo aprendo il grande sportello sulla parte posteriore della macchi-
na fotografica, estraendo la positiva dall’intelaiatura e separandola dalla negativa e dal reagente ancora attivo. Tolta la copia, richiudeva lo sportello e l’apparecchio era pronto per un’altra fotografia, con un nuovo negativo posizionato sul piano focale. Se la negativa veniva tolta troppo presto, la fotografia era sottosviluppata, senza contrasto e priva di dettagli; se veniva lasciata troppo a lungo, la fotografia risultava opaca, scura e sovrasviluppata. Oltre al controllo del tempo di sviluppo, l’uso della Model 95 richiedeva mani e braccia forti. Spesso le donne dovevano appoggiarla sulla spalla per mettere a fuoco l’obiettivo. Anche se il design era stato progettato da Walter Dorwin Teague, lo stimato designer industriale che aveva invano cercato di farsi perdonare la sfortunata lampada da tavolo [polarizzante], la macchina fotografica Polaroid non era un bell’oggetto. Ma aveva l’inequivocabile aspetto di un apparecchio che faceva qualcosa di unico. Come una mitragliatrice o un paio di forbici, non poteva essere scambiata per qualcos’altro. Come la bottiglia della CocaCola e la Model T [Ford], la Polaroid Model 95 fu direttamente assimilata dalla coscienza americana e resa per sempre e immediatamente riconoscibile.
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IL GIORNO DOPO: VENTIDUE FEBBRAIO
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ncora, da Edwin H. Land e la Polaroid, di Peter C. Wensberg, Capitolo 2 - La fotografia. New York, 1947. A proposito dell’entusiasmo dei giornalisti presenti all’annuncio del ventuno febbraio, vengono ricordati i resoconti giornalistici subito riservati alla fotografia a sviluppo immediato. Il ritratto di Edwin H. Land con il suo ritratto immediato tra le mani «Comparve il mattino successivo sulla prima pagina della seconda rubrica del New York Times, insieme con l’articolo di una colonna di William L. Laurence, più parole di quante il Times riservasse quel giorno alle battaglie, alle elezioni e alla morte dei grandi uomini». L’articolo è illustrato con un ritratto di Edwin H. Land con il proprio ritratto immediato, in inquadratura leggermente diversa dalla posa ufficiale ampiamente nota (tra tanto altro, copertina di FOTOgraphia del febbraio 1997 e apertura della celebrazione del successivo febbraio 2007), e uno schema di funzionamento dell’accoppiamento a sandwich, proprio e caratteristico della fotografia a sviluppo immediato. Ecco quell’articolo, pubblicato a pagina 15 del New York Times del 22 febbraio 1947 (tra parentesi quadra, nostre annotazioni). Titolo: Presentata la fotografia a sviluppo immediato Sottotitolo: Il processo che permette di avere una stampa fotografica pronta in un minuto è opera del capo della Polaroid Primo occhiello: Utilizzata una pellicola convenzionale [?] Secondo occhiello: Una carta speciale associata a sviluppo e fissaggio viene messa in sandwich con una pellicola Ieri sera, alla riunione invernale dell’Optical Society of America, Edwin H. Land, presidente e direttore del reparto ricerche della Polaroid Corporation, ha presentato una nuova rivoluzionaria macchina fotografia, da lui stesso inventata, che sforna una fotografia bella e pronta soltanto un minuto dopo lo scatto. Nel programma della serata dell’Optical Society, pubblicato per l’occasione, la nuova macchina fotografica viene descritta come «una rivoluzione equivalente al passaggio dalle lastre con emulsione umida alla pellicola in rullo», avvenuta quasi un secolo fa [dal collodio alla Box Kodak]. In un solo passaggio, la macchina fotografica riunisce tutte le normali operazioni del processo fotografico. Lo scatto produce una stampa in forma definitiva. La macchina non contiene un serbatoio [di trattamento convenzionale]; la stampa esce asciutta e non richiede ulteriori interventi. Il risultato è immediatamente visibile e la copia può essere utilizzata subito. Edwin H. Land ha affermato che la macchina fotografica a sviluppo immediato, della quale si prevede una produzione in vari modelli e diversi formati, come accade con le macchine fotografiche tradizionali, potrà essere utilizzata sia per la fotoricordo, sia per svariate applicazioni tecniche, come le lastre a Raggi X. Passeranno comunque diversi mesi, prima che Polaroid sia in grado di annunciare la disponibilità dei primi esemplari e il loro prezzo. Non si richiede nessuna attrezzatura speciale Edwin H. Land ha sottolineato che con questa macchina fotografica sarà possibile controllare subito il risultato di uno scatto prima di lasciare il luogo dove lo stesso scatto è stato realizzato. Se è stata commessa qualche impreci-
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sione nell’esposizione o nell’inquadratura, lo scatto potrà essere immediatamente ripetuto, correggendo gli errori. Con la nuova macchina fotografica, ha aggiunto, «sarà possibile per tutti scattare fotografie e ottenere stampe ovunque, senza dover aspettare che la pellicola venga sviluppata e senza utilizzare la tradizionale attrezzatura per la stampa». Il modello [sperimentale] presentato da Edwin H. Land contiene un paio di piccoli cilindri, nei quali la carta (che sta in un proprio rullo) e la pellicola (in un altro rullo) vengono pressate in sandwich. Per il resto, l’aspetto della macchina fotografica è lo stesso di quello di una macchina fotografica tradizionale [attenzione, per la dimostrazione del ventuno febbraio fu usata una “comune” Deardorff 8x10 pollici opportunamente adattata]. Dopo lo scatto, carta e pellicola vengono fatte avanzare a mano attraverso i cilindri, girando un bottone: la pressione dei cilindri incolla temporaneamente carta e film in un sandwich. Un minuto dopo, separando i due strati, appare l’immagine definitiva, la stampa pronta. Durante il passaggio, la pressione dei cilindri schiaccia il microscopico contenitore dei liquidi di sviluppo e fissaggio combinato alla carta; solo allora, la speciale miscela di sostanze chimiche si distribuisce [uniformemente] tra carta e pellicola esposta e inizia istantaneamente il proprio lavoro: sviluppa il negativo e crea contemporaneamente un’immagine positiva nel breve tempo in cui avviene il contatto. La quantità di miscela rilasciata a ogni scatto è esattamente sufficiente a produrre una singola immagine. La superficie esterna di pellicola e carta non lascia passare la luce, il che protegge il negativo da un’ulteriore esposizione mentre il sandwich fuoriesce dal corpo macchina. Vengono usate sostanze chimiche comuni Le sostanze determinanti contenute nella capsula di liquidi associata alla carta sono quelle della fotografia tradizionale. Sviluppo all’idrochinina e fissaggio di sodio tiosolfato o iposolfito. Queste sostanze formano un’immagine positiva attraverso l’argento delle aree non esposte del negativo, che solitamente vengono eliminate nel processo di sviluppo tradizionale. Le immagini ottenute possono essere in bianconero o in diversi toni di viraggio seppia, come nella rotogravure. Edwin H. Land ha rivelato che questo nuovo processo «potrà essere modificato per la fotografia a colori e per la fotografia in movimento» [anticipazione ardita: il Polacolor Type 48 originario sarà del 1963, quindici anni dopo] e che ha personalmente messo a punto diverse tecniche di sviluppo immediato. Alcune di queste tecniche, ha aggiunto, prevedono che il negativo possa essere successivamente utilizzato per stampe fotografiche tradizionali [la prima pellicola con negativo recuperabile, Polaroid Type 55 P/N, in formato 4x5 pollici, è del 1961]. Comunque, si possono ottenere varie copie di uno scatto originale dell’attuale fotografia a sviluppo immediato rifotografando la stampa il numero di volte che si vuole. Per lo sviluppo immediato può essere utilizzata una delle pellicole tradizionali già in commercio [?]. L’accoppiamento di pellicole di caratteristiche diverse con differenti formule chimiche delle sostanze contenute nella carta speciale, ha aggiunto Land, permetterà di ottenere «la vasta gamma di sensibilità, di contrasti e altre caratteristiche della fotografia tradizionale». Edwin H. Land, che non ha ancora compiuto trentotto anni [era nato il 7 maggio 1909; è mancato il Primo marzo 1991], ha inventato i filtri polarizzatori di plastica prodotti dalla Polaroid Corporation. Inizialmente, si è interessato alla fotografia a sviluppo immediato per hobby, e ha comunque trovato il tempo di lavorarci anche durante la guerra, mentre era a capo di un team di ricerca della stessa Polaroid finalizzato allo studio di nuove armi e di altri materiali bellici, e dirigeva uno stabilimento della Marina per lo sviluppo e la costruzione di missili teleguidati. William L. Laurence ( The New York Times, 22 febbraio 1947) Traduzione di Lello Piazza
Quando la squadra della Polaroid arrivò al Jordan Marsh, il giorno successivo a quello del Ringraziamento [ventisei novembre], per organizzare la prima dimostrazione pubblica della macchina, si vide assegnare un posticino dietro uno dei banchi ai due lati della sala. l tre uomini guardarono quello spazio stretto, per niente attraente. Uno era là per far funzionare la macchina, l’altro per manovrare una serie di grandi cartelli. Ro Messina li aiutò a mettere le macchine e le pellicole in scatole nuove e pulite della Samson United, poi tornò a Cambridge con la sua DeSoto. «Telefonate e diteci come va», disse andandosene, non del tutto capace di nascondere la preoccupazione nella voce. Anche se mancava appena un mese a Natale, il reparto fotografia del Jordan Marsh non era molto affollato. Dal soffitto pendevano casualmente decorazioni natalizie, un campanello dell’Esercito della Salvezza risuonava di tanto in tanto sulla strada. l due incaricati della dimostrazione ammucchiarono le scatole Polaroid dietro il banco e in una stanza del magazzino. Un unico viaggio in automobile era stato sufficiente a trasportare quella che sembrava una scorta che sarebbe durata a lungo, forse mesi. Una crisi notturna del marketing Polaroid aveva fatto scendere il prezzo a ottantanove dollari e settantacinque centesimi (89,75 dollari). Il prezzo per un rotolo di pellicola da otto pose restò a un dollaro e settantacinque centesimi (1,75 dollari). Mentre portavano a termine i preparativi, i due della Polaroid dovettero subire i benevoli sarcasmi dei commessi del Jordan, curiosi di capire che cosa fosse quell’intrusione. Quando ebbe montato il flash, l’addetto alla macchina fotografica chiamò i commessi al suo banco. Si unì anche qualche cliente curioso. Dato che era quasi la fine di novembre, uomini e donne portavano il cappello per proteggersi dal gelo del New England. Nel 1948, soprattutto a Boston, era molto usato un cappello a tesa larga. Quei cappelli creavano problemi, perché la gente che non era in prima fila non poteva vedere cosa stesse succedendo. l due venditori confabularono brevemente, poi salirono sopra il banco. L’addetto ai cartelli alzò il primo: «La nuova macchina fotografica Polaroid Land». Quello con la Model 95 si piegò verso il pubblico che aveva gli occhi al livello delle sue ginocchia. L’occhio nel mirino, scelse un viso a circa un metro di distanza e schiacciò il pulsante. Il flash si illuminò
con un forte scoppio. La folla indietreggiò. Altre persone si avvicinarono per vedere cosa stava succedendo. L’uomo dei cartelli mostrò il successivo: «La fotografia è fatta». Questa ridondanza non sfuggì agli spettatori, sempre più numerosi. «Lo vediamo, fesso», disse una voce di Southie [soprannome degli irlandesi, che vivono nell’area sud di Boston]. Il fotografo tirò la linguetta della pellicola e guardò l’orologio. Gli astanti si chiedevano che cosa altro potesse accadere. l secondi passavano lentamente. l due venditori cominciarono a capire quanto fosse lungo un minuto davanti a un pubblico in scettica attesa, lezione che Land aveva imparato circa due anni prima, alla Optical Society. «Dovremmo avere qualcosa da dire mentre stiamo aspettando». «Abbiamo bisogno di un amplificatore, per farci sentire da tutti. Ma da dove arrivano?». «Non lo so. Questo posto era quasi maledettamente vuoto quando ci siamo arrampicati quassù». «È pronta?». L’uomo con la macchina fotografica si guardò nuovamente il polso. «No, ancora no. La faccio cuocere un po’ di più?». Avevano inconsapevolmente fatto proprio il vocabolario di cucina, per descrivere il processo che a parere di Land avrebbe rivoluzionato la fotografia e l’arte. Tra il pubblico, un uomo cominciò a battere ritmicamente le mani. «Ecco fatto», disse il dimostratore alzando la macchina e mostrandone il retro. La folla tacque. Poi staccò la stampa dalla parte della negativa e con un gesto di assoluta sicurezza, senza neppure guardarla, la voltò verso il pubblico rapito, che vide un’immagine in bianco e marrone, chiara, nitida, di visi a bocca aperta e di cappelli neri [diamine, che fine ha fatto questa che possiamo considerare e conteggiare come la prima polaroid pubblica?]. L’addetto ai cartelli mostrò il penultimo. «Fotografie sviluppate, asciutte in sessanta secondi». Si sentì un applauso. Sollevò l’ultimo cartello: «La prossima dimostrazione tra cinque minuti». I due uomini si guardarono intorno. Lo stretto locale era gremito. La gente premeva contro il banco. «Aspetti un minuto, non ho visto la fotografia!». «Quanto costa?». «Funziona in acqua?». l venditori si guardarono sbalorditi. «Ah, ho capito... “Land”», disse l’addetto ai cartelli [in inglese, land significa terra. Da qui l’idea che la Polaroid Land
dovesse funzionare solo sulla terraferma. (NdT)]. «Fatene un’altra». Le fotografie a sviluppo immediato ebbero un successo altrettanto immediato. La folla si assiepava intorno al banco. Non voleva vedere l’apparecchio, voleva comprarlo. «Abbiamo bisogno di qualcuno che venda, mentre noi facciamo la dimostrazione», disse il fotografo. Una donna gli aveva afferrato un piede. «Continua a far funzionare la macchina. Io prenderò le ordinazioni. Non abbiamo bisogno di cartelli, tanto possono vedere quello che succede». Distribuite così, sotto il fuoco, le funzioni complementari di vendita e pubblicità, i due tornarono al lavoro. Fu un giorno lungo; continuarono finché due fatti li costrinsero a fermarsi. «Non ho più macchine; dammi quella di dimostrazione. Ho trovato uno che la pagherà al prezzo di listino», disse il venditore, mentre il direttore del reparto gioielleria si faceva strada tra la folla, seguìto dal vicedirettore del grande magazzino. «Guardi». Per farsi sentire, il direttore del reparto gioielleria dovette alzare la voce. «È come l’esibizione di un mago! In tutto il giorno non ho avuto dieci persone nel mio reparto. Non riescono a farsi strada in questa calca!». Il vicedirettore si guardò attorno, andò alla cassa e l’aprì. «Quanto avete venduto?», domandò, facendo rapidamente i conti. «Cinquantasei macchine fotografiche, compresa quella per la dimostrazione e tutte le pellicole». «Mi avevano detto che era una specie di aggeggio». «Bene, oggi abbiamo venduto tutti gli aggeggi. Ci pare che sia più che sufficiente». «Quando tornate?». «Domani alle due». «Non potreste venire alle dieci, quando apriamo?». «Le macchine non arriveranno dalla fabbrica prima di mezzogiorno». «Vuoi dire che le vendete man mano che le fate?». «Proprio così, ma un’ora fa abbiamo telefonato in ufficio, e stiamo aumentando la produzione». «Oh, Signore! Bene, domani tornate prima che potete», disse il vicedirettore. «Vi daremo un po’ più di spazio nel reparto accanto». Peter C. Wensberg (da Edwin H. Land e la Polaroid / Capitolo 13 La dimostrazione. Boston, 1948; Sperling & Kupfer Editori, 1989)
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CINQUANTA
“SPAZIALI” Immagini tratte da sito Grin (Great Images in Nasa: http://grin.hq.nasa.gov/). Da sinistra a destra e dall’alto in basso: Nebulosa Eskimo, distanza 5000al (cinquemila anni luce); aurore polari su Saturno; una tuta spaziale difettosa scaricata dagli astronauti fuori dalla Stazione Spaziale Internazionale, piena di rifiuti (dopo qualche giro in orbita, la tuta si è disintegrata, rientrando nell’atmosfera terrestre; 20 febbraio 2006); nebulosa Carina (50al); stelle neonate nella nebulosa di Orione (5000al); la capsula Gemini 7 (15 dicembre 1965); nebulosa NGC 2371 (New General Catalog; al centro, i resti di una stella morta; 4300al); due galassie a spirale classificate AM 0500-620 (350.000.000al); l’astronauta Steve Smith lavora al telescopio Hubble; galassia NGC 1512 (30.000.000al); nebulosa Occhi di Gatto (3300al); tornado Isabella (settembre 2003); scontro tra le galassie NGC 2207 e IC2 163; gruppo di cinque galassie, NGC 7317, NGC 7318A, NGC 7318B, NGC 7319 e NGC 7320, che va sotto il nome di Quintetto di Stephan, dal nome dell’astronomo francese Édouard Stephan, che le ha scoperte nel 1877 (NG 7320 a 32.000.000al, le altre a distanze comprese tra duecentottanta e trecentoquaranta milioni di anni luce); galassia NGC 3079 (50al); anelli di Saturno in falso colore; polo sud di Giove; nebulosa Farfalla (2100al); l’immagine più dettagliata mai realizzata dei resti di una supernova (10.000al), nella costellazione di Cassiopea (si tratta di un’esposizione fotografica di un milione di secondi: duecentosettantotto ore in nove giorni diversi [278h in 9 giorni]); corona di stelle azzurre attorno alla galassia di Hoag (seicento milioni di anni luce).
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ANNI utto comincia il 29 luglio 1958, quando il presidente Ike Eisenhower firma l’atto di nascita della National Aeronautics and Space Administration (Nasa), l’agenzia che, a partire da quel momento, ha il compito di coordinare i progetti americani per la conquista dello spazio. Nella storia di questa avventura scientifica, otto mesi prima, l’America visse uno dei sui giorni più neri. Il 6 dicembre 1957, sulla rampa di lancio della base di Cape Canaveral, in Florida, che successivamente sarebbe entrata nella memoria collettiva del nostro tempo, è pronto il missile Vanguard, che deve portare in orbita il primo satellite americano. Si tratta di una risposta (tardiva) allo Sputnik sovietico, lanciato con successo il precedente quattro ottobre. Qualcosa non funziona, e il missile vettore esplode subito dopo l’accensione dei motori: alle 16, 44 minuti e 34 secondi, per l’esattezza. Disastro! Vergogna! L’emergenza non è dettata soltanto dalla pessima figura che la nazione ha fatto, ma, soprattutto, dalla preoccupazione di perdere la leadership militare e tecnologica in uno dei settori più strategici. Il governo americano reagisce, ma passano mesi prima che nasca la Nasa. Nell’agenzia, che nei decenni successivi si avvarrà di ingenti finanziamenti, viene coinvolto il grande scienziato tedesco Wernher von Braun, catturato dagli americani alla fine della Seconda guerra mondiale e portato negli Stati Uniti. Von Braun era stato l’inventore delle micidiali V1 e V2, che, lanciate dalla Germania, avevano martoriato Londra a partire dal 1944 [«Giovane ingegnere tedesco di quarantacinque anni, che aveva indossato l’uniforme nera con le teste di morto delle
Grazie alla Nasa, l’ente che nacque cinquanta anni fa per portare l’America nello spazio, l’epopea della fotografia si è arricchita di immagini straordinarie, che rivelano le bellezze inquietanti dell’infinito intorno a noi
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L’anno luce (al, in sigla) non è una unità di misura di tempo, ma di spazio: rappresenta la distanza che la luce può percorrere in un anno nel vuoto, circa novemilaquattrocentosessanta miliardi di chilometri (9460km). Infatti, la luce viaggia a circa trecentomila chilometri al secondo (300.000km/s). È importante ricordare che, quando osserviamo una stella, diciamo a 3300al di distanza, non la stiamo osservando adesso, ma la stiamo osservando come era tremilatrecento anni fa. Ciò dà luogo a un paradosso apparente: se osservasse la Terra, un abitante di un pianeta satellite di questa stella, che fosse dotato di un telescopio ultra potente, vedrebbe ciò che accadeva sul nostro pianeta altrettanti tremilatrecento anni fa. Cioè, puntando il telescopio sull’Egitto, avvisterebbe il giovane faraone Tutankhamun aggirarsi per le strade di Tebe. Per questo è importante riuscire a guardare nello spazio profondo, distante miliardi di anni luce: per vedere come erano le stelle miliardi di anni fa, in un tempo vicino alle origini dell’Universo.
SS, padre di quelle armi della vendetta nazista, le V1 e le V2, che erano state fabbricate dagli schiavi deportati dall’Europa occupata ed erano piovute per mesi sulla testa di innocenti londinesi. La fantastica lavatrice della Guerra Fredda lo aveva ripulito, smacchiato, candeggiato e naturalizzato americano, perché lui e lui solo, Wernher Von Braun, aveva il missile giusto, il progetto migliore, la chiave che avrebbe aperto per l’America le porte del cielo», da Nasa, la leggenda contromano, di Vittorio Zucconi, in La Repubblica dello scorso ventisette luglio]. Per molti anni, saranno i missili progettati da von Braun la carta vincente della sfida spaziale americana all’Unione Sovietica di Nikita Kruscev. Dopo che i primi satelliti furono finalmente messi in orbita, l’agenzia si concentra sull’ambizioso obiettivo di portare l’uomo sulla Luna. L’“ordine” viene dal presidente John F. Kennedy, che in un famoso discorso al Congresso, il 25 maggio 1961 dice: «I believe that this nation should commit itself to achieving the goal, before this decade is out, of landing a man on the Moon and returning him safely to the Earth» (Io credo che la nostra nazione debba impe-
Gigantesca esplosione solare, la cui forma ad arco è determinata dal campo magnetico della nostra stella. Le esplosioni avvengono sulla superficie del Sole e si allontanano nello spazio per centinaia di migliaia di chilometri. Sotto l’arco ci starebbero ventiquattro pianeti grandi come la Terra. La fotografia è stata scattata il 14 settembre 1999 dall’Extreme ultraviolet Imaging Telescope (EIT), strumento a bordo del satellite SOHO (Solar and Heliospheric Observatory), nella banda elettromagnetica di lunghezza d’onda pari a 304Å (angstrom), ben più corta dell’ultimo violetto visibile (4230Å). Nell’immagine, le zone più calde del Sole appaiono chiare, mentre quelle più fredde appaiono scure. La temperatura media della corona supera il milione di gradi.
Sono mortale e precario, lo so; ma se scruto le stelle fitte, nel loro corso circolare, più non tocco la terra coi piedi: mi sento vicino a Zeus, l’ambrosia degli dei mi sazia. Claudio Tolomeo, 150 dopo Cristo, Alessandria d’Egitto
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La nebulosa Rosetta (NGC 2237) contiene un grappolo di giovani stelle (NGC 2244), che si sono formate circa quattro milioni di anni fa. Si estende per circa 100al e si trova a una distanza di 5000al dalla Terra.
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gnarsi a portare un uomo sulla Luna e a riportarlo a casa sano e salvo entro la fine degli anni Sessanta). E aggiunge: «We choose to go to the Moon in this decade and do the other things, not because they are easy, but because they are hard» (Scegliamo di andare sulla Luna e di fare altre cose in questo decennio, non perché sono facili, ma perché sono difficili). Cominciano così i voli suborbitali e orbitali del progetto Mercury (1959-1963) e le prime fotografie della Terra dallo spazio scattate da un uomo. E anche se, come nel precedente caso dello Sputnik, furono ancora una volta i sovietici a vincere la gara con il loro indimenticabile astronauta Jurij Gagarin (Vostok 1,
12 aprile 1961), la Nasa passa successivamente in testa, riuscendo a portare il primo uomo sulla Luna, il 20 luglio 1969, con l’undicesima missione del progetto Apollo (FOTOgraphia, luglio 1994 e luglio 1999). Gli Stati Uniti battono così l’Unione Sovietica, anche se i russi erano riusciti per primi a far allunare un veicolo robotizzato e a scattare le prime fotografie della faccia nascosta del nostro satellite. Accanto alle iniziative spaziali che coinvolgono l’uomo, altre missioni appassionanti caratterizzano i progetti e i successi della Nasa nei suoi cinquanta anni di storia (1958-2008). In tutte le missioni, la fotografia rappresenta non
Un’altra immagine realizzata con un’esposizione di un milione di secondi: ottocentottanta scatti sovrapposti, della durata di ventuno minuti ciascuno, realizzati in quattro mesi, in più di quattrocento giri orbitali (880 scatti di 21 minuti in 4 mesi e 400 giri orbitali). Tra le oltre diecimila galassie riunite nell’inquadratura (alcune delle quali sono state evidenziate), ci sono oggetti tra i più giovani mai osservati, che distano da noi tredici miliardi di anni luce. Questo significa che ciò che osserviamo, lo vediamo come era (è stato) tredici miliardi di anni fa, poche centinaia di milioni di anni dopo il Big Bang, alle origini di Tutto.
LE TAPPE DELLA NASA (ANCHE TRAGICHE)
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ronologia commentata delle date fondamentali nella storia della Nasa (National Aeronautics and Space Administration), l’ente spaziale statunitense che nel corso della propria storia ha realizzato e diffuso straordinarie fotografie della Terra e dell’Universo. 29 luglio 1958. Il presidente Dwight David “Ike” Eisenhower firma l’atto costitutivo della Nasa (National Aeronautics and Space Administration). 19 dicembre 1960. Missione Mercury R1A: primo lancio nello spazio di una navicella spaziale americana priva di equipaggio. 5 maggio 1961. Missione Mercury R3: Alan Shepard è il primo americano nello spazio, con un volo di quindici minuti attorno all’orbita terrestre [per distinguerli gli uni dagli altri, gli americani sono stati definiti astronauti, i russi cosmonauti]. 20 febbraio 1962. Missione Mercury-Atlas 6: John Glenn è il primo astronauta a compiere un’orbita completa attorno alla Terra. 3 giugno 1965. Missione Gemini 4: lancio con prima attività extraveicolare americana (Eva, Extra Vehicular Activity). 16 marzo 1966. Missione Gemini 8: lancio con primo aggancio nello spazio tra una navicella spaziale e un satellite. 21 dicembre 1968. Missione Apollo 8: lancio con primo volo umano attorno l’orbita lunare. La navicella rientra sulla Terra il ventisette dicembre. 18 maggio 1969. Missione Apollo 10: primo volo umano attorno l’orbita della Luna con il modulo lunare LM, che verrà successivamente usato per l’allunaggio. Il razzo è un Saturn V. 16 luglio 1969. Missione Apollo 11: il comandante Neil A. Armstrong è il primo uomo a toccare il suolo lunare, il venti luglio.
11 aprile 1970. Missione Apollo 13, la terza con destinazione Luna: esplode il serbatoio dell’ossigeno del razzo Saturn V. L’equipaggio esce incolume dall’incidente. [Questa drammatica vicenda è densa di aneddoti e malattie, che qui non è il caso rievocare. Ricordiamo soltanto che il film Apollo 13, di Ron Howard (1995), è un racconto adeguatamente verosimile. Nel film, Tom Hanks interpreta il comandante della missione James “Jim” Lovell (veterano di Gemini 7, Gemini 12 e Apollo 8; il primo a svolgere quattro missioni nello spazio), che aveva sostituito l’astronauta precedentemente nominato Alan Shepard, il primo astronauta americano, con Mercury R3, bloccato da un’infezione all’apparato uditivo, che avrebbe poi comandato la successiva missione Apollo 14]. 7 dicembre 1972. Missione Apollo 17: sesta e (per ora) ultima missione con destinazione Luna, raggiunta l’undici dicembre. 25 maggio 1973. Missione Skylab 2: lancio del primo equipaggio sulla stazione spaziale americana Skylab. 12 aprile 1981. Missione Sts-1: prima missione spaziale del programma Space Shuttle e primo volo dello Shuttle Columbia. 28 gennaio 1986. Missione Sts-51L: un guasto a una guarnizione dello Space Shuttle Challenger causa un’esplosione in partenza, settantatré secondi dopo il decollo; muoiono i sette astronauti a bordo e una insegnante ospite della missione. 2 novembre 2000. Missione Iss (International Space Station): avamposto permanente della presenza umana nello spazio. 16 gennaio 2003. Missione Sts-107: per un danno allo scudo termico, lo Space Shuttle Columbia si disintegra durante la fase di rientro; muore l’intero equipaggio, al solito formato da sette astronauti.
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“Mostruoso” oggetto stellare, particolare della nebulosa Cono, che ricorda i mostri degli incubi. La sua forma, da cui prende il nome, è generata da immense colonne di gas e polveri stellari. Colonne di questo tipo sono tipiche delle zone in cui si formano le nuove stelle. L’immagine è stata realizzata dal telescopio Hubble nell’aprile 2002. Questa fotografia, scattata da Voyager 2, la prima a distanza ravvicinata di Nettuno, è arrivata sulla Terra nell’agosto 1989, dopo che la sonda era in viaggio da dodici anni. Pianeta composto quasi esclusivamente dai gas elio, idrogeno e poco metano, Nettuno è l’ottavo del sistema solare, e dista 4,35 miliardi di chilometri da noi. L’immagine è stata ottenuta sovrapponendo due riprese fotografiche singole e indipendenti, una realizzata con filtro verde, l’altra con filtro arancione.
A VOLTE, NON TORNANO arliamo delle macchine fotografiche che hanno accompaPti tecnologici gnato le missioni spaziali della Nasa, che sono uno dei vandella svedese Hasselblad. Parliamo di quelle che non sono tornate a Terra. È ampiamente noto l’episodio della SWC sfuggita involontariamente al controllo di Michael Collins, durante la missione Gemini 10, del 18-21 luglio 1966 (successivamente, Michael Collins governerà la navicella base Columbia della missione Apollo 11, la prima con allunaggio). Questa Hasselblad SWC persa nello spazio permise alla stampa svedese di vantare il primo satellite artificiale svedese (appunto!) in orbita attorno al pianeta. Raccontiamo i fatti. Durante una passeggiata fuori capsula, Michael Collins si lasciò sfuggire dalle mani la sua Hasselblad SWC. Fece diversi tentativi per riafferrarla, ma l’apparecchio fotografico si allontanò sempre più, fluttuando nello spazio cosmico. Di questa vicenda resta la registrazione del contatto radio con il centro di controllo della Nasa, a Houston, allora diffuso in contemporanea in tutto il mondo. Improvvisamente, Michael Collins esclamò: «Maledizione! L’ho lasciata cadere! Ho lasciato cadere la mia Hasselblad». Insieme all’apparecchio fotografico andarono perse le centotrenta immagini fino ad allora riprese dall’incauto astronauta con il leggendario Carl Zeiss Biogon 38mm. A seguire, altre Hasselblad sono non sono tornate a casa. Per lasciare posto ai reperti recuperati sulla superficie della Luna, alcune delle missioni della Nasa hanno specificatamente previsto l’abbandono volontario di una parte delle attrezzature tecniche, tra le quali anche gli apparecchi fotografici. Complessivamente, sono rimaste sulla Luna dodici Hasselblad 500EL modificate, prive di magazzino portapellicola. Questi apparecchi fotografici si trovano nel Mare Tranquillitatis (Apollo 11), nell’Oceano Procellarum (Apollo 12), presso il Massiccio di Fra Mauro (Apollo 14), vicino alla Cresta di Hadley negli Appennini (Apollo 15), nell’area di allunaggio Descartes (Apollo 16) e vicino al Monte Taurus, ai limiti del Mare Tranquillitatis (Apollo 17).
Spettacolare immagine di Saturno, ripresa dalla sonda Cassini e inviata sulla Terra il 12 gennaio 2007. Si tratta di un mosaico di trentasei scatti, dodici nella banda del rosso, dodici in quella del verde e dodici in quella del blu (36 scatti: 12 più 12 più 12); tempo di realizzazione: due ore e mezzo. 20 luglio 1976, una delle prime immagini della superficie di Marte, inviate sulla Terra dalla sonda spaziale Viking 1.
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Dicembre 1992: annuncio pubblicitario Hasselblad per il mercato statunitense, che richiama trenta anni di collaborazione fotografica con la Nasa, a partire dalla prima macchina fotografica comperata dall’astronauta Walter Schirra in un negozio di Houston.
soltanto un imprescindibile strumento di indagine scientifica, ma il canale fondamentale attraverso il quale lo stesso ente spaziale statunitense cattura l’attenzione del pubblico, lo stupisce con visioni strabilianti e si assicura il suo consenso, anche per tenere vivo l’impegno del mondo politico nei confronti dei finanziamenti necessari a proseguire lungo la strada che conduce alle stelle.
Esempi della forza straordinaria dello strumento visivo sono gli scatti capolavoro di Saturno, realizzati dalla sonda Cassini (progetto avviato nel 1997 e tuttora in corso), le immagini mozzafiato di Giove, dei suoi satelliti, Io, Europa, Ganimede e Callisto, e dei suoi anelli, catturate dalla sonda Galileo (1996-1997), le fotografie del suolo di Marte, riprese dal Mars Pathfinder (1996-1997), le imma-
Un italiano alla Nasa. Naturalizzato americano [fuga di cervelli: leggici ministro Mariastella Gelmini, dell’Istruzione, Università e Ricerca, ex Pubblica Istruzione], l’astrofisico Riccardo Giacconi (1931) può essere definito l’uomo della fotografia a Raggi X. Insignito nel 2002 del Premio Nobel per i suoi studi di astrofisica, che hanno portato alla scoperta delle prime sorgenti cosmiche in Raggi X, attualmente Riccardo Giacconi è a capo del progetto Chandra Deep Field-South, che si propone di esplorare l’universo con il Chandra X-ray Observatory della Nasa. Grazie ai sensori di questo osservatorio in orbita intorno alla Terra, sensibili soprattutto alla banda infrarossa dello spettro luminoso, la stazione scientifica esplora le regioni ad alta energia dello spazio, vedendo ciò che con la tradizionale osservazione con i telescopi ottici non si poteva vedere e scoprire.
L’astronauta Edwin E. Aldrin Jr (“Buzz”), con il modulo lunare sullo sfondo, fotografato durante la missione Apollo 11, la prima a portare un essere umano sulla Luna (20 luglio 1969). La fotografia è stata scattata dal comandante della missione, Neil A. Armstrong, il primo uomo a toccare il suolo lunare.
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La maggior parte delle migliaia di scatti utilizzati per comporre questa immagine spettacolare della Terra in colori naturali (ciascuno dei quali copre un chilometro quadrato) provengono dal Modis, uno spettroradiometro in orbita a 700km di altezza, su un satellite Nasa. L’immagine testimonia le enormi potenzialità rappresentate dall’utilizzo dei satelliti per lo studio delle variazioni del tempo atmosferico.
Il telescopio orbitante Hubble, il cui nome viene dall’astronomo americano Edwin Powell Hubble (18891953), è l’“autore” di alcune delle immagini più straordinarie della storia della fotografia. Hubble non fotografa a colori: i suoi sensori vedono solo in sfumature di grigio, e l’aspetto finale degli scatti è il risultato di un intervento sulle riprese in bianconero, che vengono “colorate artificialmente”. Ciò ha motivate ragioni scientifiche. Infatti, la luce viene riflessa dai corpi celesti in una grande varietà di radiazioni, e soltanto alcune delle quali sono visibili: quelle con lunghezza d’onda compresa tra i 380 e i 750 nanometri (nm, un miliardesimo di metro). Per esempio, prima dei 380nm ci sono gli ultravioletti, i Raggi X e i Raggi Gamma, oltre i 750nm ci sono l’infrarosso, le microonde e le onde radio, tutte radiazioni invisibili. Evidentemente è importante “vedere” anche quei corpi che emettono radiazioni nelle bande invisibili all’occhio umano. Spesso, le riprese in bianconero sono indirizzate
soltanto all’interno di certe lunghezze d’onda: Hubble è dotato di una serie di filtri per tagliare le lunghezze d’onda indesiderate o, al contrario, isolare quelle che interessano. Una volta ottenuta la fotografia, gli scienziati intervengono con il colore. Lo fanno principalmente con i tre scopi: 1) trasformare gli scatti originari in bianconero in una fotografia che rappresenti proprio quello che vedremmo se i nostri occhi fossero potenti come il telescopio Hubble; 2) rendere visibili oggetti o particolari di un oggetto che emettono luce in lunghezze d’onda non visibili all’occhio umano; 3) evidenziare alcuni dettagli di un oggetto che altrimenti non apparirebbero con il dovuto risalto. Anche le fotografie in colori veri sono dunque il risultato di un intervento: un classico sandwich di tre riprese nelle bande RGB, rosso, verde e blu. È di queste ore la triste notizia che rivela che, a causa degli alti costi di manutenzione, la Nasa starebbe per abbandonare Hubble.
Il telescopio compie quattrocento anni. Molto prima che nascesse la fotografia, precisamente nel 1608, l’olandese Hans Lippershey chiese il brevetto di uno strumento «che permettesse di osservare gli oggetti lontani come se fossero vicini». I documenti ufficiali parlano di questo strumento come di un apparecchio dedicato allo studio delle stelle. La genealogia di Hubble ha perciò inizio quattrocento anni fa, e non ci dimentichiamo di Galileo Galilei.
gini “primitive” di Nettuno (1989), inviate da Voyager 2 da più di quattro milioni di chilometri di distanza dalla Terra. Voyager 2 è partito nel 1977, e nel suo viaggio alla velocità di oltre trentamila chilometri all’ora ha fotografato Giove nel 1979, Saturno nel 1981 e Urano nel 1986, per poi uscire dal sistema solare e perdersi nello spazio profondo. Ma è stato il telescopio orbitale Hubble a scattare le fotografie che più mostrano quanto insignificante sia la Terra di fronte a decine di galassie che appaiono in una singola inquadratura, all’immensità dell’u-
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niverso, al numero incalcolabile di stelle lontane che possono essere raggiunte solo con un viaggio di miliardi di anni, a patto di viaggiare alla velocità della luce (secondo la Teoria della Relatività di Albert Einstein, limite invalicabile per la velocità di un corpo dotato di massa). Fotografie spettacolari e inquietanti di fronte alle quali vi invito a rivivere l’esperienza che Giacomo Leopardi recita nella sua poesia L’infinito: «Così tra questa immensità s’annega il pensier mio: e il naufragar m’è dolce in questo mare». Lello Piazza
A cura di Maurizio e Filippo Rebuzzini, la mostra Fotogrammi. Fotografi e fotografia nel cinema, allestita nell’ambito di LuccaDigitalPhotoFest 2008, è realizzata con il supporto di Sony Italia.
ncora un avvicinamento alla composizione definitiva del racconto della presenza consapevole (o meno) della fotografia al cinema: all’interno delle sue sceneggiature, come tra le pieghe, presto individuate, delle sue scenografie. Esposta e proposta nell’ambito della quarta edizione del LuccaDigitalPhotoFest, del quale riassumiamo nell’apposito riquadro pubblicato a pagina 56, Fotogrammi. Fotografi e fotografia nel cinema, a cura di Maurizio e Filippo Rebuzzini, riprende e ri-conferma una visione assolutamente specifica e particolare, che peraltro è spesso/sempre ospitata sulle pagine di FOTOgraphia, che dà consistente rilievo alla combinazione della fotografia al cinema (appunto). Realizzata con il supporto di Sony Italia, peraltro presente in altri momenti dello stesso LuccaDigital PhotoFest (riquadro sulla pagina accanto), la mostra riprende il filo di una narrazione che non si esaurisce
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nella propria apparenza, ma sottolinea combinazioni sociali della stessa fotografia, oltre a rilevarne identificati significati espressivi e culturali. Come già annotato in altre occasioni, a questa precedenti, si tratta sempre e comunque di manifestazioni che contribuiscono al lungo e approfondito dibattito sul costume della fotografia e sulla fotografia proiettata verso il grande pubblico, non necessariamente di addetti. A differenza di precedenti esperienze, e magari sulla scia di una delle consuetudini redazionali di FOTOgraphia, della quale i curatori Maurizio e Filippo Rebuzzini sono, rispettivamente, direttore e collaboratore, per la prima volta pubblica Fotografi e fotografia nel cinema sono raccolti e rappresentati in questo modo: attraverso una incessante sequenza di Fotogrammi. A differenza di una precedente selezione, esposta alla Galleria Grazia Neri di Milano, all’inizio dello scorso 2007 (FOTOgraphia, dicembre 2006 e maggio 2007), l’attuale e affasci-
FOTOGRAMMI! Una delle diciassette mostre che compongono il programma espositivo di LuccaDigital PhotoFest 2008, alle quali si accompagnano una convincente antologia sul ritratto fotografico del Novecento, che si allunga nelle date, ed eventi di contorno. Con intenzioni e contenuti espliciti e dichiarati, Fotogrammi. Fotografi e fotografia nel cinema aggiunge un capitolo nuovo e originale alle riflessioni e considerazioni del fenomeno dichiarato (anche nel titolo). Visione che contribuisce al lungo e approfondito dibattito sul costume della fotografia e sulla fotografia proiettata verso il grande pubblico, non necessariamente di addetti
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nante Fotogrammi. Fotografi e fotografia nel cinema non comprende posati dai set dei film presi in considerazione e neppure ordina gli stessi Fotogrammi (frames) in altro modo che quello puramente estetico: alternativamente, per assonanze oppure contrasti di tono e colore, di situazioni, di interpretazioni, di sintesi. Ma, forse, non è proprio solo così: certamente c’è dell’altro, ma non importa.
INTENZIONI E CONTENUTI Così che, si manifestano e prendono vita intenzioni e contenuti che si potrebbero definire “nuovi”, se soltanto il forsennato richiamo alle novità non componesse i tratti di uno degli abusi fonetici dei nostri giorni. Ma questa visione, questa sintesi, è effettivamente tale: nuova nella propria sostanza espressiva. Infatti, l’allineamento con un contenitore programmatico di profilo culturale alto, quale è il cartellone che da quattro edizioni definisce l’appuntamento con il qualificato LuccaDigitalPhotoFest, ha sollecitato una visione e visualizzazione non didascalica, diversa dall’analisi semiologica del fenomeno della presenza della fotografia nel cinema. Altrove, in momenti e spazi preposti, per esempio proprio sulle e dalle pagine di FOTOgraphia, le considerazioni sono finalizzate alla puntualizzazione di combinazioni pertinenti. Invece, l’attuale Fotogrammi. Fotografi e fotografia nel cinema non scandisce tempi consequenziali, ma certifica l’entità e vastità del fenomeno nel proprio complesso. Con uno scarto raffigurativo volontario e ricercato, senza soluzione di continuità i ventiquattro metri lineari di esposizione, per un metro in altezza, presentano la bellezza (è il caso!) di quattrocentosettantacinque fotogrammi, da centododici film, accostati uno dietro/davanti l’altro e uno sopra/sotto l’altro. Autentico protagonista della vicenda, Filippo Rebuzzini, appassionato di cinema moderno e contemporaneo, per il quale collabora fattivamente a FOTOgraphia, ha fo-
calizzato memoria ed esperienza su momenti e situazioni grandi e consistenti, anche nei numeri. Estranea a percorsi culturali fossilizzati, la sua osservazione ha distribuito brio e freschezza sull’intero impianto di Fotogrammi. Fotografi e fotografia nel cinema. Diversamente dai pannelli tematici della precedente analoga selezione Fotografia & Cinema. Fotogrammi celebri, alla Galleria Grazia Neri di Milano, all’inizio dello scorso 2007 (FOTOgraphia, maggio 2007), il senso e lo spirito dell’attuale percorso costituiscono un autentico punto programmatico nell’analisi stessa del fenomeno avvicinato e affrontato.
Da Fotogrammi. Fotografi e fotografia nel cinema, combinazione di tre dei quindici pannelli della avvincente visualizzazione. In questo caso, nell’allestimento scenico della mostra, questi tre pannelli sono tra loro collegati e consequenziali.
CONSAPEVOLE ORIGINALITÀ A questo punto sono indispensabili (almeno) due precisazioni, entrambe sui contenuti. Anzitutto, va chiarito che questa catalogazione della presenza della fotografia nel cinema non preten(continua a pagina 58)
SONY C’È! (ED È BENE CHE CI SIA)
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iprendiamo e ripetiamo il titolo con il quale, sullo scorso numero di ottobre, abbiamo commentato la nuova reflex Sony α900, allungandoci sul valore commerciale della presenza Sony nel mercato fotografico italiano, ribadito anche in Editoriale. Ripetiamo, per sottolineare la partecipazione Sony al LuccaDigitalPhotoFest 2008, nel cui ambito ha peraltro contribuito alla realizzazione della mostra Fotogrammi. Fotografi e fotografia nel cinema, a cura di Maurizio e Filippo Rebuzzini, esposta all’Ex Manifattura Tabacchi, che approfondiamo in queste pagine. Sabato ventinove e domenica trenta novembre è allestita una presentazione di prodotti fotografici Sony nella LiveArea, centro nevralgico di informazioni sul Festival e punto di incontro dei protagonisti dell’evento, alle Logge di Palazzo Pretorio, in piazza San Michele. Quindi, nell’ambito di PhotoCafé, nell’Auditorium di San Girolamo a Lucca, sabato ventinove novembre, alle 15,00, si svolge l’incontro Tecnica e Creatività. L’industria si presenta: introduce Maurizio Rebuzzini e Tamara Sotgiu (Sony Italia) presenta la nuova Sony α900.
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LUCCADIGITALPHOTOFEST 2008
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ato quattro anni fa (FOTOgraphia, febbraio 2006), il LuccaDigitalPhotoFest ha presto catalizzato l’attenzione di critica, stampa, artisti e fotografi italiani e stranieri. Con i novemilacinquecento visitatori della scorsa edizione 2007 (FOTOgraphia, novembre 2007), il Festival ha affermato la propria autorevolezza, segnalandosi come uno degli appuntamenti annuali di maggior prestigio in Europa. Il programma 2008 si svolge dal quindici novembre all’otto dicembre: diciassette mostre (più una; sulla pagina accanto), workshop, lettura portfolio, dibattiti, proiezioni, incontri con gli autori, premiazioni e momenti di grande impatto emotivo. L’evento è realizzato dall’Associazione Toscana Arti Fotografiche e dal Comune di Lucca, con il contributo della Fondazione Cassa di Risparmio di Lucca, ed è sostenuto dalla Provincia di Lucca e dalla Fondazione Banca del Monte di Lucca. Partner del Festival sono Canson Infinity e Ducato, presenti sia in veste di sponsor, sia con iniziative dedicate. ❯ MOSTRE (dal 15 novembre all’8 dicembre: diciassette mostre in sei sedi espositive; lunedì-venerdì 13,30-19,30, sabato, domenica e lunedì 8 dicembre 10,00-19,30; orari diversi solo per World Press Photo 2008, a Palazzo Guinigi) • Villa Bottini, via Elisa. • Alex Webb: Fotografie (Piano nobile) • Matteo Basilé: The Saints are Coming (Piano nobile) • Tim Hetherington: Battle Company (Piano seminterrato) • Palazzo Guinigi, via Guinigi. • World Press Photo 2008 (Piano primo) [10,00-19,30] • Mario Cravo Neto: L’Eterno Presente (Piano primo) • Massimo Vitali: Portfolio (Piano secondo) • Andrew Zuckerman: Creature (Piano secondo) • Enzo Cei: Trapianti (Piano secondo) • Mario Daniele: Océan: da Capbreton a Quiberon (Piano secondo) • Museo di Villa Guinigi, via della Quarquonia. • AES+F: Last Riot 2 (Piano seminterrato) • Baluardo di San Regolo sulle Mura Urbane. • Mario Lasalandra: Poeti, Maschere, Attori, Fantasmi. Fotografie 1962-2006 • Diego D’Alessandro e Marco Porta: Pensare Cerchi D’acqua • Ex Manifattura Tabacchi, piazzale Verdi. • Paolo Pellegrin: As I was Dying • Fotogrammi. Fotografi e fotografia nel cinema • Patrizia Savarese: Lo straripamento • Territoires de Fiction • Ex Chiesina dell’Alba, via San Nicolao 63. • Stefano De Luigi: Cinema Mundi ❯ LIVE AREA (Logge di Palazzo Pretorio, piazza San Michele) Centro di informazioni sul Festival, biglietteria per le mostre, punto di incontro dei protagonisti dell’evento. • Autoscatto rubato, di Eugenio Gherardi Angiolini. Sabato 29 novembre, 10,3013,00 - 16,30-18,30; domenica 7 dicembre, 10,30-13,00 - 17,00-19,00. • Presentazione prodotti Sony. Sabato 29 e domenica 30 novembre. ❯ PHOTOCAFÉ (Auditorium di San Girolamo a Lucca) • La gestione dello scatto nell’era digitale: meno tempo davanti al monitor e di più dietro l’obiettivo. Non un sogno, ma realtà; con Alessandro Daprà (Apple Italia). Sabato 15 novembre, 17,30. • Omaggio a Pompeo Batoni - Faces. Ritratti nella fotografia del XX secolo; con Maria Teresa Filieri (direttore scientifico Fondazione Ragghianti), Walter Guadagnini (curatore della Mostra e docente all’Accademia delle Belle Arti di Bologna), Francesco Zanot (curatore della Mostra), Enrico Stefanelli (presidente e direttore artistico Ldpf) e Roberto Evangelisti (direttore artistico Ldpf). Domenica 16 novembre, 17,30.
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• Rize: alzati e balla, film di David LaChapelle; moderatore Roberto Evangeli-
sti. Lunedì 17 novembre, 21,30. • Selezione filmati World Press Photo 2008; a cura di Enrico Stefanelli, moderatore Roberto Evangelisti. Sabato 22 novembre, 17,30. • Control, film del fotografo Anton Corbijn; moderatore Roberto Evangelisti. Lunedì 24 novembre, 21,30. • Tecnica e Creatività. L’industria si presenta; a cura di Sony Italia, introduce Maurizio Rebuzzini; Tamara Sotgiu (Sony Italia) presenta la nuova Sony α900 (FOTOgraphia, ottobre 2008). Sabato 29 novembre, 15,00. • Grazia Neri: 40 anni d’agenzia; con Grazia Neri; a cura di Enrico Stefanelli, moderatore Roberto Evangelisti. Sabato 29 novembre, 17,30. • Canson Infinity; con Cris Crangle (International Director of Sales & PR Canson Infinity). Domenica 30 novembre, 17,30. • I quindici filmati del Premio Amilcare Ponchielli 2008 (premio al fotogiornalismo creato dal Grin); con Mariateresa Cerretelli, moderatore Roberto Evangelisti. Sabato 6 dicembre, 17,30. ❯ PROIEZIONE (Auditorium di San Micheletto a Lucca) • Bejing: In & Out (dieci fotografi italiani a Pechino) e Odd Days, di Simona Ghizzoni; a cura di Enrico Stefanelli, moderatore Roberto Evangelisti. Venerdì 21 novembre, 21,30. ❯ LETTURA PORTFOLIO (Centro Culturale Agorà, piazza dei Servi) • Sabato 29 novembre, 10,00-13,00: Paola Brivio (photo editor di Geo), Elena Ceratti (Agenzia Grazia Neri), Gabriele Croppi (fotografo), Alice Crose (Agenzia Grazia Neri), Sara Munari (fotografa e docente di tecnica fotografica e storia della fotografia). • Domenica 30 novembre, 10,00-13,00: Mariateresa Cerretelli (photo editor di Class), Alessandra Mauro (Agenzia Contrasto), Roberto Mutti (critico), Marc Prust (Agence VU), Maurizio Rebuzzini (direttore di FOTOgraphia e docente di Storia della fotografia all’Università Cattolica del Sacro Cuore di Brescia). ❯ WORKSHOP (Villa Bottini, via Elisa) • Giuseppe Andretta (Apple Italia): Il Digitale dalla A alla Z. Sabato 22 novembre; 100,00 euro. • Christian Verzino (Apple Italia): Ciak! Si fotografa. Domenica 23 novembre; 100,00 euro. • Alex Webb (Mangum Photos / Agenzia Contrasto) e Rebecca Norris: Masterclass “Alex Webb & Rebecca Norris Webb”. Sabato 29 e domenica 30 novembre; 250,00 euro. • Tim Hetherington (World Press Photo of the Year 2008): Immagini e potenzialità. Sabato 29 e domenica 30 novembre; 150,00 euro. • Gianluca Catzeddu (Adobe): Il nuovo modo di concepire la pre-produzione: dalla calibrazione della macchina fotografica ai settaggi preventivi del nostro software, alla fusione di scatti multipli. Sabato 6 dicembre; 100,00 euro. • Giovanni Antico (Adobe): Intersezioni creative tra il mondo della fotografia e quello del video. Domenica 7 dicembre; 100,00 euro. • Pino Ninfa: Il ritratto ambientato: tra istantanea, posa e ritratto consapevole. Sabato 6 e domenica 7 dicembre; 150,00 euro. ❯ LUCCA DIGITAL PHOTO AWARD. Consegna del premio a Alex Webb e proiezione di una sua retrospettiva. Teatro del Giglio, piazza del Giglio 13, sabato 29 novembre, 21,00. Nella stessa occasione, consegna del Premio Canson-TAF a Paolo Pellegrin, dei premi LuccaDigitalPhotoContest 2008 e LuccaDigitalVideoContest 2008 a Mario Daniele e Patrizia Savarese, del Premio La Nazione a Tim Hetherington e del Premio Fondazione Arpa a Massimo Vitali. Associazione Toscana Arti Fotografiche, via Guidiccioni 188, 55100 Lucca; 0583-5899215; www.ldpf.it, info@ldpf.it.
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ata da un’idea del direttore artistico del LuccaDigitalPhotoFest, Enrico Stefanelli, Faces. Ritratti nella fotografia del XX secolo è una selezione che accompagna il Festival, rimanendo in cartellone dal quindici novembre, come le altre mostre della manifestazione, fino al successivo trentuno gennaio (ben oltre le date delle altre diciassette esposizioni fotografiche). A cura di Walter Guadagnini e Francesco Zanot, il progetto è stato realizzato grazie alla collaborazione con la Fondazione Licia e Carlo Ludovico Ragghianti e il sostegno della Fondazione Cassa di Risparmio di Lucca. Attraverso centoquaranta opere di diciassette autori, è ripercorsa la storia della fotografia di ritratto del Novecento: Edward Steichen, August Sander, Edward S. Curtis, Ernest James Bellocq, Paul Strand, Dorothea Lange, Arnold Newman, Ugo Mulas, Diane Arbus, Andy Warhol, Larry Clark, Malick Sidibé, Bill Owens, Ed Van Der Elsken, Jitka Hanzlova, Boris Mikhailov e Adam Broomberg & Oliver Chanarin. Come certifica anche il richiamo alla presentazione di domenica sedici novembre, questa visione fotografica evoca la figura del ritrattista pittore Pompeo Batoni (1708-1787), originario di Lucca, al centro di una consistente serie di celebrazioni: dopo le grandi mostre di Londra e Houston, a dicembre, nel trecentesimo della nascita, è inaugurata una convincente esposizione nella città natale. In allineamento con la sua pittura, che ha sottolineato le caratteristiche di ambientare il soggetto e conferire peculiare importanza agli abiti, agli oggetti e a tutto quanto definisce il contesto sociale della persona ritratta, la selezione fotogra-
fica dà risalto ed evidenza all’evoluzione dello stesso concetto di ritratto “ambientato” nella fotografia internazionale del Novecento: proponendosi appunto come omaggio alla personalità e all’opera di Pompeo Batoni. Ogni autore fotografo è rappresentato con una significativa serie di immagini, in modo da rendere percepibili le caratteristiche primarie delle singole poetiche. Le opere provengono da collezioni pubbliche e private di tutto il mondo, tra le quali il San Francisco Museum of Modern Art, la Aperture Foundation di New York, la Maison européenne de la photographie di Parigi, il Nederlands Fotomuseum di Rotterdam, l’Andy Warhol Museum di Pittsburgh. Trentuno opere appartengono alla George Eastman House di Rochester. Infine, numerose fotografie sono state prestate da primarie collezioni private italiane e straniere, e in alcuni casi dai fotografi stessi, direttamente coinvolti nella selezione delle immagini. Catalogo a cura della Fondazione Ragghianti, contenente i saggi introduttivi dei curatori, la riproduzione di tutte le opere esposte e note bio-bibliografiche degli autori in mostra.
AUGUST SANDER
FACES. RITRATTI NELLA FOTOGRAFIA DEL XX SECOLO
Faces. Ritratti nella fotografia del XX secolo. Ideazione di Enrico Stefanelli; a cura di Walter Guadagnini e Francesco Zanot; comitato scientifico: Maria Teresa Filieri (presidente), Roberto Evangelisti, Walter Guadagnini, Enrico Stefanelli, Francesco Zanot; organizzazione: Susanna Ferrari, Angelica Giorni, Giuliana Baldocchi. Fondazione Licia e Carlo Ludovico Ragghianti, via San Micheletto 3, 55100 Lucca; 0583-5899215; info@ldpf.it, info@fondazioneragghianti.it. Dal 15 novembre al 31 gennaio 2009, 10,00-19,30.
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Fotogrammi. Fotografi e fotografia nel cinema aggiunge un capitolo nuovo e originale alle riflessioni e considerazioni del fenomeno dichiarato nel titolo. Quindici pannelli, alternati tra il montaggio di 1x1m e 2x1m, raccontano una delle migliaia di storie possibili, a partire dai medesimi Fotogrammi.
(continua da pagina 55) de di essere enciclopedica, né totale. La sua sola ambizione è indirizzata altrimenti: a ritmo alternato -tra visioni leggere, approfondimenti e analisi perfino dettagliate-, il consistente insieme di Fotogrammi. Fotografi e fotografia nel cinema si propone soprattutto, non certo soltanto, come visita guidata. Detto ciò, i curatori Maurizio e Filippo Rebuzzini sono altresì consapevoli che eventuali superficialità, soggettivamente riscontrabili (come tali), e possibili mancanze non minano il percorso individuato, come non compromettono il senso complessivo del racconto. Sono state espresse visioni e con-
siderazioni incrociate, in modo da formare un continuum narrativo gradevole e avvolgente, oltre che convincente e fascinoso. In secondo luogo, va sottolineato che la visualizzazione attraverso fotogrammi muti è giocoforza estranea a quei dialoghi cinematografici che, nella propria (apparente) profondità, appartengono già alla riflessione teorica della fotografia. In questo censimento ragionato, i curatori non sono stati guidati tanto dal soggetto fotografico in se stesso e nel proprio dibattito istituzionale di (e per) addetti, quanto dalla proiezione della fotografia verso il grande pubblico. Ancora, e in conclusione, va rilevato che Foto-
LE MOSTRE DEL LUCCADIGITALPHOTOFEST 2008
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ltre la sintesi sul programma completo del LuccaDigitalPhotoFest 2008, pubblicata a pagina 56, riassumiamo le mostre, indipendentemente dai rispettivi luoghi di esposizione, per i cui indirizzi e orari rimandiamo comunque al riquadro appena ricordato. ❯ Alex Webb: Fotografie. Main Guest 2008. In collaborazione con Magnum Photos / Agenzia Contrasto; anteprima nazionale. Villa Bottini. ❯ Tim Hetherington: Battle Company. World Press Photo of the Year 2008 (FOTOgraphia, aprile 2008). In collaborazione con l’Agenzia Grazia Neri; con il contributo di Canson Infinity; anteprima assoluta. Villa Bottini. ❯ Mario Cravo Neto: L’Eterno Presente. A cura di Giuliana Scimé. Palazzo Guinigi. ❯ Massimo Vitali: Portfolio. Palazzo Guinigi. ❯ Mario Lasalandra: Poeti, Maschere, Attori, Fantasmi. Fotografie 1962-2006. Baluardo di San Regolo sulle Mura Urbane. ❯ Paolo Pellegrin: As I was Dying. In collaborazione con l’Agenzia Contrasto e Corigliano per la Fotografia. Ex Manifattura Tabacchi. ❯ Enzo Cei: Trapianti. In collaborazione con la Fondazione Arpa; anteprima assoluta. Palazzo Guinigi. ❯ Andrew Zuckerman: Creature. In collaborazione con l’Agenzia Contrasto. Palazzo Guinigi. ❯ World Press Photo 2008. (FOTOgraphia, aprile 2008) Palazzo Guinigi.
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❯ AES+F: Last Riot 2. In collaborazione con Ruzicska; anteprima nazionale.
Museo di Villa Guinigi. ❯ Matteo Basilé: The Saints are Coming. In collaborazione con Arte & As-
sociati; anteprima assoluta. Villa Bottini. ❯ Stefano De Luigi: Cinema Mundi. Video istallazione; anteprima naziona-
le. Ex Chiesina dell’Alba. ❯ Diego D’Alessandro e Marco Porta: Pensare Cerchi D’acqua. Video
istallazione, a cura di Luciano Bobba; anteprima assoluta. Baluardo di San Regolo sulle Mura Urbane. ❯ Fotogrammi. Fotografi e fotografia nel cinema. A cura di Maurizio e Filippo Rebuzzini; con il supporto di Sony Italia; anteprima assoluta. Ex Manifattura Tabacchi. ❯ Territoires de Fiction. Video installazione di diversi autori, a cura di Laura Serani, in collaborazione con il Grin (Gruppo Ricercatori Iconografici Nazionale). In occasione del LuccaDigitalPhotoFest 2008 è realizzato un nuovo POM (Petit Objet Multimédia) di Paolo Woods, vincitore del Premio Amilcare Ponchielli 2008; anteprima assoluta. Ex Manifattura Tabacchi. ❯ Mario Daniele: Océan: da Capbreton a Quiberon. Vincitore del LuccaDigitalPhotoContest 2008; anteprima assoluta. Palazzo Guinigi. ❯ Patrizia Savarese: Lo straripamento. Video istallazione; vincitore del LuccaDigitalVideoContest 2008; anteprima assoluta. Ex Manifattura Tabacchi.
grammi. Fotografi e fotografia nel cinema ha anche considerato poco alcuni film, citati in fretta, e addirittura ignorato qualche sceneggiatura e scenografia. Come già precisato, questa non va intesa come compilazione di un casellario enciclopedico; quindi, allo stesso momento, i curatori ribadiscono e rivendicano un punto di vista assolutamente individuale, che, al pari di ogni pensiero, è avvolto nelle nebbie dei pregiudizi personali.
TIM HETHERINGTON: BATTLE COMPANY
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Comunque, le sceneggiature e/o scenografie che sono sfuggite dalle maglie dell’attuale passerella, soprattutto perché non sono risultate adatte al percorso allestito e considerato, avranno altre occasioni per essere censite e catalogate: oltre questo racconto, la presenza dei fotografi e della fotografia nel cinema è una narrazione in divenire... in progress. Assolutamente legittime, questa e altre combinazioni analoghe e coincidenti (quali le presenze della fotografia nei fumetti e in filatelia, piuttosto che nella narrativa, alle quali FOTOgraphia riserva sempre concentrate attenzioni) sottintendono un impegno concretamente culturale, sociale e storico, al quale identificati personaggi non rinunciano. Tanto che è obbligatorio concludere riprendendo e ribadendo l’attacco: «Ancora un avvicinamento alla composizione definitiva del racconto della presenza consapevole (o meno) della fotografia al cinema: all’interno delle sue sceneggiature, come tra le pieghe, presto individuate, delle sue scenografie. Esposta e proposta nell’ambito della quarta edizione del LuccaDigitalPhotoFest [...], Fotogrammi. Fotografi e fotografia nel cinema, a cura di Maurizio e Filippo Rebuzzini, riprende e ri-conferma una visione assolutamente specifica e particolare, [...] che dà consistente rilievo alla combinazione della fotografia al cinema (appunto)». Angelo Galantini
MAURIZIO REBUZZINI
CIÒ A DIRE
resente all’interno della rassegna del World Press Photo 2008, nelle sale di Palazzo Guinigi, come vincitore del World Press Photo of the Year 2008, la fotografia dell’anno, al LuccaDigitalPhotoFest 2008 Tim Hetherington espone anche la personale Battle Company, in collaborazione con l’Agenzia Grazia Neri, allestita a Villa Bottini. La mostra è stata realizzata con il contributo di Canson Infinity, produttore di raffinata carta per stampa a getto di inchiostro, peraltro sponsor tecnico dell’intera manifestazione. Anteprima assoluta per l’Italia, Battle Company è il reportage completo dal quale è stata isolata la World Press Photo of the Year 2008: racconta del Secondo Battaglione aviotrasportato della 503esima fanteria americana, impegnata in uno schieramento nella Korengal Valley, provincia di Kunar, Afghanistan. Situata in prossimità della frontiera con il Pakistan, la valle è un epicentro della guerra statunitense contro i militanti dell’Islam. È divenuta infame nel 2005, quando i membri di un gruppo americano di operazioni speciali vi fu intrappolato e tre dei suoi membri vennero uccisi. Un elicottero, mandato con rinforzi, fu ugualmente abbattuto, provocando la morte dei sedici soldati a bordo. «Arrivai nella Korengal Valley nel settembre 2007. In quel periodo, Battle Company ingaggiò centoundici combattimenti contro le forze nemiche. Il mio lavoro si è concentrato sulla piccola base Restrepo, intitolata a Juan Restrepo, medico del Secondo Plotone ucciso durante il primo periodo dello schieramento della Battle Company nella stessa valle». È qui che Tim Hetherington ha scattato la fotografia dell’anno, che continuiamo a menzionare (FOTOgraphia, aprile 2008). Tim Hetherington definisce i dettagli tecnici della sua mostra con Alexia Schrott e Stefano Giubertoni, allo stand Canson Infinity, alla Photokina 2008.
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llo stesso tempo e momento, le fotografie che da anni Emiliano Mancuso raccoglie al sud d’Italia, oggi riunite nella monografia Terre di Sud, pubblicata dalle Edizioni Postcart, appartengono a diversi generi acclamati e riconosciuti, che fanno parte del linguaggio esplicito della comunicazione visiva. Soprattutto, essendo fotografie del vero (dal vero), cioè del reale (dal reale), è giocoforza pensare prima di tutto al reportage, che del resto definisce la personalità professionale dell’autore, freelance nell’Agenzia Grazia Neri di Milano dal 2002. Però, senza esprimere giudizi di merito o graduatorie, è riduttivo isolare e circoscrivere a questo una serie di fotografie che, pur avendo debiti di riconoscenza con la grammatica del reportage, si orientano in modo diverso, rallentando su visioni di profilo e istanti effimeri che non raccontano storie o rappresentano macrocosmi, ma esprimono soprattutto la delicatezza delle esistenze e scavano oltre l’apparenza dell’immagine, fino alle radici profonde della Vita. Così, in definitiva, la raccolta Terre di Sud, che Emiliano Mancuso dedica al nonno (Piero Casotti, che non ha mai conosciuto), facendo altresì suo il titolo di una mostra di suoi paesaggi pittorici, allestita a Taranto, nei primi anni Ottanta, conferma e ribadisce i connotati di quella fotografia che raffigura sì il reale, ma rappresenta sentimenti ed emozioni che si intravedono e percepiscono oltre la superficie apparente dell’inquadratura. In assoluto, sono reportage, come anche non lo sono; sono documentazione, pur non essendola; sono sentimento, se allineiamo il nostro alle intenzioni esplicite dell’autore. Nelle fotografie non ci sono le macroscopiche retoriche del sud d’Italia, e delle cronache che periodicamente lo descrivono, spesso denigrandolo. Queste immagini di Emiliano Mancuso sono dichiaratamente di parte, e perché mai non dovrebbero esserlo? Non raccontano il sud più atteso e banalizzato, e quindi diffidiamo da cercare qui connotazioni etno-geografiche, ma ne sottolineano lo spirito e l’anima. Compito difficile, quello della fotografia che intende rappresentare più di quanto non raffiguri con il proprio linguaggio espressivo. A seguire, riportiamo il testo di presentazione di Grazia Neri, fondatrice e titolare dell’omonima Agenzia, che peraltro rappresenta Emiliano Mancuso nell’ambito del suo impegno professionale, che introduce la monografia Terre di Sud, unitamente a un secondo testo di Domenico Starnone. Proponiamo qui le considerazioni di Il pregio della fotografia semplice. M.R. elville ha scritto in Bartleby lo scrivano: «È così vero, e anche così terribile, che fino a un certo punto il pensiero o la vista dell’infelicità impegnano i nostri migliori sentimenti, ma, in certi casi speciali oltre a un certo punto, non succede più. [...] Per essere sensibile, la pietà non di rado è sofferenza. E quando alla fine si intuisce che tale pietà non si traduce in un efficace soccorso, il senso comune impone all’animo di sbarazzarsene [...]». Questo concetto è anche un mio concetto nel vedere ogni giorno pubblicate, o in agenzia, le fotografie di strazi tremendi, di guerre, di feriti, di dolore, di fame, di miserie, di solitudini abissali, di bambini malnutriti, di ammalati non accuditi e così di seguito. Per questo, aderisco da anni alle fotografie che nostrano semplicemente “come siamo”. Il lavoro di Emiliano Mancuso, che è giunto inaspettatamente sul mio tavolo di agenzia, appartiene a questo filone che mi conquista sempre più. Non ci sono messe in scena, non ci sono forzature nel rappresentare quello che la stampa e i libri raccontano del “Sud” dell’Ita-
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lia e, soprattutto, non sono le fotografie estreme di delitti, di violenza o di modaiola rappresentazione dei giovani, ma un tranquillo, pacato, e proprio per questo significativo, ritratto di condizioni di vita in attesa di una possibile trasformazione. Sfilano davanti ai nostri occhi paesaggi, scene di vita, interni, periferie, ma soprattutto un territorio provato, stanco, deluso dalla politica e dalla crisi economia e ambientale, una popolazione oppressa dalla burocrazia, dalla mancanza di servizi, dal potere nascosto ed elusivo, ma che controlla tutto. Vedo in queste fotografie la sete delle persone di avere dei servizi (salute, scuola, case, assistenza), ma quello che è più evidente è il rischio di una rassegnazione costante: una vita limitata. Una vita da precariato, disillusa del proprio futuro, una sopravvivenza unita, però, a una certa resistenza: la perdita delle tradizioni non avrebbe in cambio nessuna contropartita. Le notizie che sentiamo quotidianamente alla radio, guardando la televisione o leggendo i giornali sono qui riprodotte con semplici scene di vita: ingiustizie sociali, abusi edilizi, la solitudine vissuta sia personalmente sia all’interno della propria
TERRE DI SUD Progetto fotografico che Emiliano Mancuso segue e persegue da anni, la partecipe osservazione del sud d’Italia -Campania, Puglia, Calabria e Sicilia- è ora raccolta in una monografia che conserva l’appassionante ritmo delle immagini. In un mondo nel quale sono sempre richieste definizioni certe e inequivocabili, quasi la fotografia fosse ingrediente da cucina, conservato in barattoli adeguatamente etichettati, non sappiamo, né osiamo specificare, limitandole, queste immagini, trasversali a molte lezioni espressive
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famiglia, sia sul posto di lavoro. Spariti gli ideali sociali, è rimasto poco: come dicevo, appunto qualche tradizione. In queste fotografie non ci sono attori, né politici, né personalità; non ci sono fotomontaggi, né elaborazioni al computer. Sono fotografie vere di una realtà italiana. Basta cinematografare la nostra vita e le città. La semplicità e onestà nella fotografia agisce su di noi molto più di quelle immagini che cercano di venirci incontro o addolcendo o aggravando la situa-
Terre di Sud, di Emiliano Mancuso; introduzioni di Grazia Neri (proposta in queste pagine) e Domenico Starnone; Edizioni Postcart, 2008 (via Faedis 8-10, 00177 Roma; 06-2591030; www.postcart.com, info@postcart.com); 132 pagine 21x28cm; 29,90 euro.
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zione, per influire sui nostri giudizi, o allontanarci dal vero. Questo tipo di immagini dovrebbero riempire i libri scolastici e non le illustrazioni turistiche. Walter Benjamin diceva che l’analfabeta del futuro [il nostro presente] non è quello che non sa leggere, ma quello che non sa fotografare; io aggiungerei che lo è anche chi non sa leggere una fotografia o una immagine, in una società nella quel tutte le informazioni del potere e della cultura dell’informazione sono visive.
Tra queste fotografie, Emiliano Mancuso ha dato un’immagine difficile da scordare: una bambina gioca leggera tra le brutture della città, ma la sua spensieratezza, la sua grazia sembrano dire che la vita continua e che non bisogna lasciarsi abbattere. La libertà di pensiero del fotografo, che non estetizza ma è leggero ed empatico, dona l’incisività del messaggio che intendeva comunicare. Grazia Neri
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Ciò che resta della fotografia non è solo la mediocrità e la fascinazione del suo valore storico, culturale e politico; i visionari della fotografia sociale hanno lavorato ai margini dell’eternità e sono gli ultimi testimoni di un sapere verniciato nelle apparenze, che riduce la conoscenza planetaria a un’ignoranza o a una solitudine di massa devastata dalla “florescenza” del vuoto e dalla “luminanza” del falso. Al fondo della fotografia dell’apparenza c’è l’urgenza del consenso e il reale resta al di qua dell’impero dei segni. Solo l’amore di sé e per il bene sociale rende l’uomo simile agli angeli. Fotografare significa smascherare, minare alle fondamenta le certezze dell’ordine esistente. Significa avviarsi verso il mistero o la magia del reale, fare della visione della realtà lo straordinario come complicità tra i senza voce ed essere messi al bando o impiccati sui banchi dei valori dominanti per aver commesso il reato di estrema lucidità. La meraviglia e lo stupore non hanno bisogno di commenti. «Dio non esiste!, la fotografia sì!», qualche volta, diceva. Non si corregge né s’incensa la fotografia sociale, si rifiuta o si ama. Qualsiasi fotografia è concepita con altrettanta superficialità dell’universo culturale che la suscita.
LA VISIONE DELLA REALTÀ Ci sono angeli sediziosi -come la fotografa americana Ruth Orkin- che, senza darlo troppo a vedere, hanno sfidato l’avvenire della condizione umana data: la sua opera dice che non importa tanto la verità che contiene, quanto l’uso che se ne fa, della fotografia. Ogni verità è solo verità del passato. L’eternità della fotografia sta nel desiderio eternamente deside-
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RUTH ORKIN rato di ciò che è vero e di ciò che è falso testimone del suo tempo. La finitudine della fotografia è un’opera aperta che usa il linguaggio della Terra per dialogare col cielo, e il linguaggio della poesia per portare il cielo in Terra. La Fotografia -come l’amore- si mostra solo alla Fotografia. La fotografia consumerista (non importa se numerica o analogica) ha invaso i saperi e i comportamenti della civiltà dello spettacolo; la ricerca di essere profondi, informati, esperti in tutto rende sempre più difficile imbattersi in un qualche “artista” che ancora sa spezzare il pane con le mani; l’incuriosità dell’inquietudine e la creazione di tutte le forme d’arte è gravida di allarmati brutture etiche ed estetiche. Nessuno più lascia l’opera d’arte per impugnare il coltello o i diritti dell’uomo e annunciare i decessi della consuetudine. I linguaggi tecnologi hanno pervaso ogni forma del comunicare; tuttavia ciascuno è sempre più triste e sempre più solo. Gli apologeti della ragion di Stato governano una massa di rincoglioniti che si lasciano governare, ora dalla sinistra, ora dalla destra, senza un filo di perduta dignità. Laddove la violenza impera, la scelleratezza continua. «L’esercizio del potere non si concilia con il rispetto dell’uomo» (Emil M. Cioran; Fascinazione della cenere, Il notes magico, 2005). La noia dei novelli inquisitori dello spettacolo è mortale, tuttavia ogni generazione innalza idoli ai carnefici, a conferma che la storia dell’umanità è anche storia di adorazioni per falsi profeti, folli e tiranni che l’hanno fatta perire nel ridicolo. È la collera o l’amore della filosofia di strada che lacera i luoghi comuni e riabilita e uma-
nizza l’uomo planetario. Il mondo come volontà e rappresentazione è ancora quello di Schopenhauer, Nietzsche, Stirner e anche di mio padre anarchico. Cioè una favola che per diventare vera deve rovesciare i ceppi dell’ignoranza e della sottomissione: fare dell’indignazione lo stato naturale dell’esistere e dare agli adulatori del mercato dell’arte, come ai ciarlatani della politica e delle fedi monoteiste, la sorte che si meritano; dissertare sulle immagini di Andy Warhol -un esempio di spazzatura dell’arte celebrata- o credere alle imposture di un “buon governo” è come sparare col fucile mitragliatore al canto degli usignoli nei giardini del re... s’ignorano soltanto. Non si dovrebbe istituzionalizzare l’arte e nemmeno la sozzura della politica; si insegna l’arte nell’agorà di una società della bellezza o a casa propria; si abolisce la politica a colpi di ascia, sorridendo, s’intende; le rivoluzioni non servono a nulla, se non a far godere della bellezza il dolore secolare dei popoli. E la fotografia? Che c’entra la fotografia con tutto questo? Nulla, forse. Tanto, probabilmente. Come il terrorismo internazionale non è complice con i piani economici delle multinazionali e le politiche dei governi dei “paesi civilizzati”, c’è sempre una menzogna all’origine di una cattedrale, un centro commerciale o dei campi di sterminio. L’importante è sapere che sotto ogni dogma è sepolto un cadavere. Il domani è frutto di un’attesa che un boia o un capo di Stato ha avvelenato con le proprie parole. Possono comprendere solo ciò che distruggono e sono incapaci di amare la sopravvivenza di un fiore
dopo il crollo delle torri gemelle di New York al tempo dell’impostura. La verità è l’unica cosa che rende liberi. Le scritture fotografiche più consumate sono una sfilata di mediocrità assolute, una successione di banalità imbarazzanti, un avvilimento dell’anima dinanzi alla stupidità del mercimonio delle idee; non c’è forma d’intolleranza, di rudezza ideologica o di stupido proselitismo religioso che non riveli il fondo imbecille dell’entusiasmo. I saperi si accompagnano ai penitenziari della merce, dove è reclusa ogni identità; e un miscuglio indecente di arte, potere e prostituzione alimenta il fanatismo del “mercato globale” di ogni cosa. In ogni uomo si cela un artista, un tiranno o un turista del sesso, e quando si risveglia c’è sempre più bruttezza nel mondo. A volte, basta solo una fotografia per dire che l’ingiustizia non può nulla quando la bellezza insorge sui marciapiedi della Terra. Appunto, Ruth Orkin è una fotografa che ha usato la macchina fotografica come strumento di bellezza, di accoglienza e condivisione sociale. E anche se nessuno può correggere l’ingiustizia di Dio e degli uomini, questa dolce signora americana ha mostrato che il sonno della ragione può essere scosso o acceso soltanto dal sorriso di un bambino.
LA VISIONE DELLA REALTÀ DI RUTH ORKIN Un’annotazione a margine. Ruth Orkin era l’unica figlia di Mary Rubi, attrice del cinema muto, e Samuel Orkin. La prima infanzia (1920-1930) la passa Los Angeles. A soli dieci anni le fu regalata la prima macchina fotografica, e un paio di anni dopo era abile a sviluppare e stampare le proprie foto-
grafie. L’altra passione di Ruth Orkin è stato il cinema. Come tante bambine americane, collezionava autografi degli attori più famosi e a ventuno anni cominciò a lavorare per gli studi della MGM. La cosa finì subito, perché l’unione cinematografica hollywoodiana non accettava donne a fare lavori che sembrava dovessero competere solo agli uomini. Nel 1943, Ruth Orkin si trasferisce a New York. La notte fotografa nei locali notturni, nei bar, nelle strade delle periferie metropolitane; il giorno lavora sulla ritrattistica infantile e inizia a collaborare con giornali e riviste come Life, Look, Horizon e Ladies’ Home Journal. Si avvicina con sempre più tenerezza al ritratto, e le sue immagini di musicisti esprimono non solo la possibile commissione, ma anche la fascinazione della diversità che si trascolora in
«Fotografare vuol dire tenere nel più grande rispetto se stessi e il soggetto. [...] Fotografare è mettere sulla stessa linea di mira la mente, l’occhio e il cuore» Henri Cartier-Bresson poetica dell’eversione, alla maniera dei migliori film noir. Ruth Orkin prende a viaggiare; porta la sua macchina fotografica in giro per l’Europa. Nel 1953, firma il montaggio del film The Little Fugitive, del quale è stata anche cosceneggiatrice e coregista [Nota 1]. Ufficialmente, il film è attribuito a Morris Engel, con il quale si sposa poco dopo, rimanendogli accanto fino alla sua (di lei) morte, avve-
NOTA 1) The Little Fugitive (Il piccolo fuggitivo, 1953), di Morris Engel, Ray Ashley e Ruth Orkin, è una delle grandi opere/manifesto del New American Cinema, una specie di film-deriva che ha mostrato la bellezza e l’autenticità di un disagio infantile in forma di poesia. «La nostra Nouvelle Vague non sarebbe mai nata, se non fosse stato per l’americano Morris Engel, che con il suo The Little Fugitive ci indicò la strada della produzione indipendente» (François Truffaut). The Little Fugitive fu girato con una cinepresa portatile, adattata da Morris Engel per stare “addosso” al ragazzo del film (Richie Andrusco, nella parte di Joey Norton); è costato trentamila dollari, quanto la colazione del cane Lassie a Hollywood. A Brooklyn, la madre del piccolo Joey deve uscire di casa e affida il ragazzino (sette anni) al fratello maggiore Lennie (interpretato da Richard Brewster). I fratelli giocano con un fucile; crudelmente e cinicamente, Lennie fa credere a Joey di essere stato ucciso. Joey fugge, vagabonda sui marciapiedi della città, si perde in mezzo alla folla del Luna Park di Coney Island, raccoglie bottiglie vuote sulla spiaggia, racimola qualche soldo, mangia dolcetti, fa centro al tiro a segno, gioca a baseball, va a cavallo. Il giorno dopo, l’uomo che affitta i cavallini (interpretato da Jay Williams) lo riporta a casa. In The Little Fugitive, la realtà della vita quotidiana è colta sul fatto. La macchina da presa figura il dolore che diventa svagatezza, gioia, sopravvivenza. Joey è il crogiuolo dell’“infinitudine” dell’amore e della “pietà” denudata dei suoi orpelli sacrali, e con la disinvoltura dei poeti di strada passa dall’inadempienza dell’esilio e della clandestinità forzata e dalla fuga verso la libertà all’amore ritrovato. Il montaggio è epico, innovativo; e conferisce al film l’armonia di una partitura musicale visiva. La fotografia (bianconero) è straordinaria, va al di là del documentario, e tutto ciò che appare sullo schermo si trascolora in emozione. Joey è una sorta di “angelo” del non-dove, che vive sospeso tra il fantastico e il sensibile, che ha la percezione e la dignità del corpo, che è messaggero di anime innamorate che si allontanano dalle scaturigine del male e ricorda che ciascuno è protagonista della propria felicità. Nel 1953, The Little Fugitive ebbe una nomination all’Oscar per il soggetto (Ray Ashley, Joseph Burstyn, Morris Engel, Ruth Orkin); vinse il Leone d’Argento alla Quattordicesima Mostra del Cinema di Venezia (ex-aequo con I vitelloni, Moulin Rouge, I racconti della luna pallida d’agosto, Sadko e Teresa Raquin). Per una volta non asservita ai mercenari del consenso, nel 1954 la critica italiana gli assegnò il Nastro d’Argento per il miglior film straniero.
nuta il 16 gennaio 1985: sarà una collaboratrice preziosa della sua regia anche per Lovers and Lollipops (1956). Hanno due figli, Andy e Mary. La bella americana non è mai entrata nel mercantilizio della fotografia, e anche quando ha meno opportunità di fare le fotografie che vuole, riesce a cogliere grandi immagini del quotidiano dalla finestra della sua casa di New York,
pubblicate in due importanti raccolte, A World Through My Window (1978) e More Pictures From My Window (1983). Per ciò che valgono certi riconoscimenti, le sue note dicono che nel 1959 Ruth Orkin fu nominata tra The Ten Top Women Photographers in the U.S., dall’associazione di categoria Professional Photographers of America. Come appena detto, nel gennaio 1985 muore di cancro, nel suo appartamento di New York. Ruth Orkin è stata un’interprete eccezionale della fotografia sociale e documentaria. Fece parte di quel coraggioso gruppo di fotografi che dette vita alla Photo League, un’organizzazione affermatasi a New York, che dal 1936 al 1951 si è battuta per educare e diffondere i valori etici ed estetici della fotografia d’impegno civile [Nota 2].
NOTA 2) Come sappiamo, o dovremmo sapere, la Photo League [incontrata tra le pieghe della lunga cavalcata su Weegee, dello scorso settembre] è stata un’associazione artistica dell’avanguardia internazionale, che si è occupata di cinema documentario e fotografia sociale. Il movimento nacque in Germania, negli anni Venti, e si diffuse in Europa e negli Stati Uniti. Proprio qui, sollecitate da Berenice Abbott e Paul Strand, si affermarono idee e ipotesi autonome di costituire una comunicazione cine/fotografica progressista (di sinistra?), non piegata alle forche del mercato imposto dalle grandi testate e dalle case statunitensi di produzione cinematografica. Si sarebbe trattato di realizzare film documentari, immagini, educazione alla vita che andassero in sostegno agli scioperi, alle dimostrazioni, alle manifestazioni pubbliche delle classi operaie statunitensi dell’epoca. Per quanto riguarda i fotografi, il loro lavoro si concentrò sulla documentazione del modo di vivere dei lavoratori, e le loro fotografie si contrapposero alla filosofia estetizzante della fotografia pittorialista di nudi, paesaggi, nature morte e dintorni. La Photo League newyorkese si è mantenuta con i finanziamenti provenienti dalle quote associative, ha attivato una scuola di fotografia (aperta a professionisti e dilettanti), e allestito uno spazio espositivo; a completamento, ha pubblicato il periodico Photo Notes. Dalla sua fondazione fino al suo tramonto forzato e imposto (dal 1936 al 1951), i fotografi della Photo League hanno organizzato gruppi di lavoro che sono andati nelle strade della città, nelle case dei sobborghi e immersi nella vita quotidiana di New York, esprimendo un fare-fotografia nel quale l’uomo è stato davvero il protagonista della propria storia. Inoltre, furono organizzate e svolte mostre e conferenze, con profondi contributi di estetica della realtà. Ancora oggi, molti fotografi che si occupano di fotodocumentazione o antropologia della fotografia sono debitori a questi non dimenticati autori della ribellione o della disobbedienza. Nel 1951, la Photo League apparve nella “lista nera” delle organizzazioni sovversive anti-americane e i giannizzeri del maccartismo decretarono e imposero il suo scioglimento. In italiano, è disponibile la monografia Photo League. New York 1936-1951, a cura di Naomi Rosenblum e Enrica Viganò; Il Ramo d’Oro Editore, 2001 (via Amedeo Duca d’Aosta 6, 34123 Trieste; www.ilramodoroeditore.it, info@ilramodoroeditore.it); 60 illustrazioni; 144 pagine 24x30cm; 31,00 euro.
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Tra quanti non ebbero timore di mettere il proprio nome e la propria creatività al servizio della verità non prostituita ai lacci del potere, ricordiamo Berenice Abbott, Alexander Alland, Marynn Ausubel, Nancy Bulkeley, Rudy Burckhardt, Vivian Cherry, Bernard Cole, Ann Cooper, Robert Disraeli, Arnold Eagle, Eliot Elisofon, Morris Engel, Harold Feinstein, George Gilbert, Sid Grossman, Lewis W. Hine, Morris Huberland, Consuelo Kanaga, Seymour Kattelson, Sid Kerner, Arthur Leipzig, Gabriella Langendorf, Rebecca Lepkoff, Jack Lessinger, Sol Libsohn, Jerome Liebling, Sam Mahl, Barbara Morgan, Ruth Orkin (appunto), Marion Palfi, Bea Pancoast, David Robbins, Walter Rosenblum, Rae Russell, Joe Schwartz, Ann Zane Shanks, Lee Sievan, Aaron Siskind, W. Eugene Smith, Louis Stettner, Erika Stone, Lou Stoumen, Elizabeth Timberman, Weegee (Arthur Fellig), Dan Weiner, Sandra Weiner, Bill Witt, Ida Wyman, Max Yavno. Tutti sapevano che per poter afferrare il futuro occorreva denudare il presente delle imposture e simulazioni politiche; le loro opere chiedevano il diritto alla libertà, che è semplice-
mente avere il diritto di essere uomini in mezzo agli uomini. Sapevano che la libertà, ogni libertà, risiede nell’atto o nell’insubordinazione che ci fa liberi. No, nessuno è libero dove si nasconde, ma soltanto là dove dice la mia parola è no!, qualsiasi sia la ragione per la quale qualcuno si erge a depositario della verità unica. La visione della realtà di Ruth Orkin emerge anche dalla pregevole fotografia scattata a Firenze nel 1951, American Girl in Italy, e divenuta uno dei poster più ricercati da appendere nei salotti borghesi e proletari di tutto il mondo. Questa immagine-icona di Ruth Orkin è una “ricostruzione” perfetta del reale, tuttavia siamo nei pressi del “frammento di costume” e non nell’imperfezione della tragicità o della banalità calpestata dell’esistenza. I poeti orfici scendono fino agli inferi per cercare la propria anima, lo fanno solo per amore e se ne fregano dei demoni e dei mercanti di ogni mondo; sono loro che lasciano le tracce di un’umanità smarrita e anche una fotografia non eccelsa, come American Girl in Italy, può contenere la sapienza e l’intima felicità di un tempo cercato ai confini della vita e della morte.
La fotografia è memoria che ci dà sostegno e ricordo che ci spaventa, e fuori dall’età dell’acconsentimento solo gli spiriti liberi prenderanno coscienza della propria nudità e della propria bellezza. La grandezza espressiva di Ruth Orkin la troviamo nella gaiezza dell’infanzia liberata nelle strade e perfino nel grande ritratto di Robert Capa, un po’ “avvinazzato” al bancone di un bar; le sue immagini esprimono una vitalità del segno e contengono sempre un dolore o un “profumo” d’oblio. Sono iconografie sognanti, buttate lì, sul volto della storia, a mostrare quando lo sguardo si fa parola, dialogo e diviene passaggio verso l’accoglienza, la dignità, il rispetto di un uomo e quindi di un popolo. Non sono tanto le sue fotografie di “stelle dello spettacolo” (Marlon Brando, Orson Welles, Spencer Tracy, Lana Turner, Kirk Douglas, Doris Day, Humphrey Bogart, Alfred Hitchcock...) che ci attanagliano alla gola, quanto la bellezza malinconica, struggente, segreta delle immagini di New York (anche a colori) riprese dalla sua finestra, e più ancora la singolarità, tutta al femminile, dell’eidetica infantile: i
bambini, specie le bambine, fotografati da Ruth Orkin sono icone di bellezza incontaminata e i loro volti, i loro sorrisi, i loro gesti sono un coagulo di verità e libertà, inconcepibili l’una senza l’altra. Sono fiori di uno stesso amore. Le scritture fotografiche di Ruth Orkin crescono dietro il muro dell’incomprensione e della cultura mercantile: per coglierle e amarle occorre rompere le pietre dell’indifferenza. Il suo fare-fotografia segna una contaminazione col mondo, e siccome ciascuna immagine è unica e irripetibile si richiama all’essenza della vita e rifiuta l’ereditarietà del destino imposto. Le sue fotografie aiutano a ritrovare la strada verso la bellezza, per non morire d’ingiustizia. Fotografare significa non conoscere altro che la sacralità delle passioni del cuore e la verità dell’immaginazione. Possiamo (potremmo) anche ammirare coloro che trovano la fine del dolore e il riconoscimento della loro arte, tuttavia restiamo accanto a chi non ha incontrato né l’una né l’altro. Che la fotografia sia con voi. Pino Bertelli (Piombino, 12 volte settembre 2008)