FOTOgraphia 147 dicembre 2008

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ANNO XV - NUMERO 147 - DICEMBRE 2008

1908 - 2008 LA NOTTE DI NATALE 1839 - 2009 SETTE GENNAIO


Natale. Lo hanno chiamato Natale, perché è nato la notte del ventiquattro dicembre. Cento anni fa, nel 1908. Maurizio su questo numero, a pagina 8

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31 GENNAIO 1839. Al posto dell’ingrandimento/dettaglio del fumetto che è ormai tradizione dell’avvio di ogni numero di FOTO graphia, in allineamento con i centosettanta anni dal gennaio 1839 di annuncio dei procedimenti fotografici originari, sulla precedente pagina riportiamo la prima pagina della relazione che William Henry Fox Talbot ha svolto il trentuno gennaio, alla Royal Society, di Londra. Qui accanto, in avvio di Sommario, ne riproduciamo il frontespizio: Some account of the Art of Photogenic Drawning. Nel corso del 2009, mese dopo mese, rievocheremo i fatti che si sono freneticamente succeduti in quel lontano 1839; e con l’occasione cercheremo di arricchire le nostre annotazioni con materiali originari. Qui, anticipiamo la traduzione italiana delle prime parole della relazione di Fox Talbot, ai tempi identificato come “Enrico Fox Talbot scudiere”, pubblicata prima della ufficializzazione dei termini del processo di Daguerre, annunciato il sette gennaio e presentato il sedici agosto, al quale è comunque giocoforza riferire la nascita ufficiale della fotografia. A cura di Gaetano Lomazzi, Metodo per eseguire sulla carta il fotogenico disegno rinvenuto dal signor Fox Talbot è stato pubblicato dall’editore milanese Giuseppe Crespi nei primi mesi del 1839. «Nella primavera del 1834 cominciai a mettere in pratica un metodo, che aveva divisato qualche tempo innanzi per impiegare utilmente la curiosissima proprietà, stata da lungo tempo conosciuta dai chimici, che possedeva il nitrato d’argento, principalmente il suo scoloramento quanto era esposto al raggio paonazzo della luce. Questa proprietà mi parve di essere forse capace di un utile applicazione nel seguente modo». E ne riparleremo a breve.

Alla Photokina e ritorno

Copertina In dettaglio, dalla fotografia di Massimo Vitali che illustra la tavola di gennaio del Calendario Epson 2009: Les Menuires grande; 2000 (l’immagine completa è pubblicata a pagina 40). Dei dodici Paesaggi umani riferiamo da pagina 34, allungandoci sulla fotografia di Massimo Vitali, affermato autore contemporaneo

3 Non fumetto, ma parole originarie

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Da pagina 10, ricordiamo che il sette gennaio ricorre il centosettantesimo anniversario dal breve annuncio con il quale François Jean Dominique Arago offrì a Louis Jacques Mandé Daguerre il crisma ufficiale della sua invenzione; così che datiamo la nascita della fotografia (in forma di dagherrotipo) da quel lunedì 7 gennaio 1839. Però, la fotografia come l’abbiamo sempre intesa, e come ancora l’intendiamo (negativo-matrice dal quale ottenere copie multiple, in quantità teoricamente infinita, oggi file digitale), deriva più dal processo inventato da William Henry Fox Talbot (disegno fotogenico, e poi calotipo) che dalla copia unica dagherrotipica. Per questo, riportiamo la prima pagina della relazione svolta dallo stesso William Henry Fox Talbot alla Royal Society, di Londra, il trentuno gennaio, a certificazione della priorità dei propri esperimenti, rispetto i risultati di Daguerre. Qui a lato, la prima traduzione italiana coeva; nei mesi a seguire, nel corso del 2009, proporremo i testi integrali

7 Editoriale Con l’allegato Alla Photokina e ritorno prende avvio FOTOgraphiaLIBRI, edizioni che preannunciano volumi dedicati alla materia. La Fotografia, per l’appunto

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8 La notte di Natale È nato la notte del ventiquattro dicembre, per questo l’hanno chiamato Natale. È nato nel 1908, cento anni fa. È mancato il 24 febbraio 1979, senza aver conosciuto i nipoti Ciro e Filippo. Natale Rebuzzini è mio padre MR

10 7 gennaio 1839-2009 La fotografia compie centosettanta anni. Rievocazione dei primi accadimenti, a partire dall’annuncio di lunedì sette gennaio. Nel corso del 2009, tanti altri richiami

16 Dalla camera obscura Metodo per eseguire sulla carta il fotogenico disegno rinvenuto dal signor Fox Talbot: anastatica Rara photographica di Cesare Saletta, gennaio 1981.

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Inevitabile nel centosettantesimo della fotografia? A partire da Canaletto, la pre-fotografia dei vedutisti del Settecento, le cui minuziose ricostruzioni e prospettive si basano sul sapiente uso della camera obscura


DICEMBRE 2008

R , RIFLESSIONI IFLESSIONI, OSSERVAZIONI E COMMENTI OSSERVAZIONI E COMMENTI SULLA FOTOGRAFIA SULLA FOTOGRAFIA

21 Avrei un sogno Soprattutto nel confronto con le parole che sentiamo dai politici italiani -tutti, senza distinzione di schieramento o colore-, ma non soltanto in tale confronto impari, i discorsi di John McCain e Barack Obama, uno candidato sconfitto, l’altro presidente eletto, sono esempio di onestà intellettuale, spessore culturale e senso civico del dovere (anche verso lo stato e la collettività). Sogniamo di sentire qualcosa di analogo anche in Italia, un giorno, chissà. E poi, abbassando il profilo (ma non è proprio così), vorremmo anche vedere gesti sportivi, come quello che ha esaltato l’uscita dal campo di Alessandro Del Piero, a Madrid

Anno XV - numero 147 - 5,70 euro DIRETTORE

IMPAGINAZIONE Gianluca Gigante

REDAZIONE Angelo Galantini

FOTOGRAFIE Rouge

SEGRETERIA Maddalena Fasoli

HANNO

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24 Reportage Appunti e attualità del fotogiornalismo internazionale A cura di Lello Piazza

28 Morire a vent’anni Tra realtà e finzione, il film Backbeat racconta almeno due storie: l’origine dei Beatles e l’amore tra Astrid Kirchherr (fotografa) e Stu Sutcliffe (Beatles), morto senza aver avuto modo di compiere ventidue anni Ricerca iconografica di Filippo Rebuzzini

RESPONSABILE

Maurizio Rebuzzini

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COLLABORATO

Pino Bertelli Antonio Bordoni Centro Culturale Giovanile di Porta Romana (Milano) Loredana Patti Lello Piazza Franco Sergio Rebosio Ciro Rebuzzini Filippo Rebuzzini Luca Ventura Redazione, Amministrazione, Abbonamenti: Graphia srl, via Zuretti 2a, 20125 Milano; 02-66713604, fax 02-66981643; graphia@tin.it. ● FOTOgraphia è venduta in abbonamento.

34 Paesaggi umani

● FOTOgraphia è una pubblicazione mensile di Graphia srl, via Zuretti 2a, 20125 Milano. Registrazione del Tribunale di Milano numero 174 del Primo aprile 1994. Poste Italiane SpA - Spedizione in abbonamento postale - D.L. 353/2003 (convertito in Legge il 2702-2004, numero 46), articolo 1, comma 1 - DCB Milano.

Dodici immagini di Massimo Vitali, affermato autore contemporaneo, per il Calendario Epson 2009. E poi riflessioni, annotazioni tecniche e osservazioni di Maurizio Rebuzzini

42 Ritorno sul tormento

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A venticinque anni dall’edizione originaria, la monografia Diane Arbus conferma e ribadisce lo smalto di una visione fotografica fondamentale, addirittura di riferimento di Angelo Galantini

● A garanzia degli abbonati, nel caso la pubblicazione sia pervenuta in spedizione gratuita o a pagamento, l’Editore garantisce la massima riservatezza dei dati forniti dagli abbonati e in suo possesso, fatto diritto, in ogni caso, per l’interessato di richiederne gratuitamente la rettifica o la cancellazione ai sensi della legge 675/96. ● FOTOgraphia Abbonamento 12 numeri 57,00 euro. Abbonamento annuale per l’estero, via ordinaria 114,00 euro; via aerea: Europa 125,00 euro, America, Asia, Africa 180,00 euro, gli altri paesi 200,00 euro. Versamenti: assegno bancario non trasferibile intestato a Graphia srl Milano; vaglia postale a Graphia srl - PT Milano Isola; su Ccp n. 28219202 intestato a Graphia srl, via Zuretti 2a, 20125 Milano; addebiti su carte di credito CartaSì, Visa, MasterCard.

50 Sardegna sconosciuta

● Nessuna maggiorazione è applicata per i numeri arretrati. ● È consentita la riproduzione di testi e fotografie, magari citando la fonte (ma non è indispensabile, né obbligatorio farlo). ● Manoscritti e fotografie non richiesti non saranno restituiti; l’Editore non è responsabile di eventuali danneggiamenti o smarrimenti.

Raccolte e divulgate dall’Associazione Culturale Iscandula, di Cagliari, le fotografie riprese negli anni Cinquanta dal danese Andreas Fridolin Weis Bentzon dischiudono le porte di un mondo ormai seppellito di Antonio Bordoni

Fotocomposizione DTP e selezioni litografiche: Rouge, Milano Stampa: Arti Grafiche Salea, Milano

Rivista associata a TIPA

57 Magica fotografia

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Tra arte e fotografia, coinvolgente esperienza di giovani con svantaggio intellettivo. Le tavole dell’Agenda 2009

65 Cindy Sherman Sguardo sull’immagine allo specchio (trionfo della merce) di Pino Bertelli

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A

llegato a questo numero di FOTOgraphia, Alla Photokina e ritorno è un consistente volume nel quale sono raccolte opinioni e riflessioni sollecitate dello svolgimento dell’edizione 2008 della fiera internazionale della fotografia, che da qualche tempo si definisce World of Imaging, perché la sola identificazione alla “fotografia” va ormai stretta a molti operatori del settore. E di questo non ho più voglia di parlare, avendo già commentato in tante occasioni come di “fotografia” si tratti, sempre e comunque; però, accetto di buon grado che ulteriori urgenze impongano altre definizioni, più accattivanti per il pubblico al quale ci si rivolge e dal quale si attendono risposte concrete e tangibili (che si traducono in confortevoli consecuzioni commerciali). L’edizione dei testi estesi e distribuiti all’interno del contenitore libro è stata sollecitata, fino a essere imposta -se vogliamo pensarla così- dalla moltitudine di pensieri e considerazioni che si sono affollati nella mente nei giorni di svolgimento della Photokina, osservata dal punto di vista dell’esperienza quotidiana all’interno del mercato italiano della fotografia, così lontano dalle bellezze che illuminano il palcoscenico internazionale. Causa o effetto, fate voi, nel corso del prossimo anno, e poi oltre, quello che ipotizziamo essere lo spirito che definisce la personalità giornalistica di FOTOgraphia, qualificandone le edizioni mensili, verrà esteso a una preventivata serie di testi e volumi, che esordiscono proprio con l’attuale. In concreto, FOTOgraphiaLIBRI, che inizia con questo primo titolo, darà vita a diverse collane, la prima quali, Sguardi, comincia appunto con Alla Photokina e ritorno. Quindi, monografie illustrate e volumi di sole/tante parole. L’insieme delle (molte) individualità che FOTOgraphia proietta al collettivo del mondo fotografico offrono (presunte) competenze, delle quali siamo fieri e andiamo orgogliosi. Questo stesso insieme, con approfondimenti e visioni originarie, si propone come motivo conduttore dei testi e immagini che raccoglieremo in edizione libraria. Il punto di vista sarà sempre esclusivamente fotografico, anche se pensiamo di occuparci della materia senza tradire lo spirito principe della nostra rivista, che non considera la fotografia come punto di arrivo, ma di partenza: verso altre tante visioni e altri tanti apprendimenti individuali. Tutti da condividere. Alla resa dei conti, il mio è forse un sogno; assolutamente affascinante, ma soltanto un sogno. Però, non ne vorrei e non ne posso fare a meno, e me lo cullo. Già sono in cantiere (in nuce) tante iniziative possibili, per quanto anche improbabili. I conti si debbono fare soprattutto con le capacità finanziarie (che non ho) e il tempo e la serenità esistenziale (che mi mancano in eguale misura). Ne sono consapevole e convinto: ne ho solo la voglia. Ne avrei solo la voglia (e forse, anche le capacità). L’importante è non sottrarsi mai ai propri doveri. Si vedrà! Photokina e ritorno, tanto per cominciare. Maurizio Rebuzzini

Alla Photokina e ritorno dà avvio alle edizioni FOTOgraphiaLIBRI, che si scomporranno in diverse collane: osservazione mirata e qualificata del piccolo-grande mondo della fotografia. Parole e immagini.

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LA NOTTE DI NATALE

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Natale. Lo hanno chiamato Natale, perché è nato la notte del ventiquattro dicembre. Cento anni fa, nel 1908, come gli scrittori Cesare Pavese e Elio Vittorini. Però, lui non ha mai scritto una riga. In ventotto anni durante i quali siamo stati vicini, i miei primi ventotto, non gli ho mai visto una penna tra le mani; le Nazionali Esportazione senza filtro, sì. Non ne fumava molte, ma con gusto. Ricordo perfettamente il gesto quotidiano, finito di mangiare, alzato da tavola, prendere il pacchetto di sigarette sopra la credenza, accenderne una, e uscire di casa per tornare al lavoro. Sono sincero, ricordi non ne ho

molti altri. Rimpianti, sì. Uno potrei averlo risolto in un sogno di questa estate, la notte tra il ventitré e il ventiquattro agosto, ma non è questo il problema. Che, invece, rimane quello della lievità dei ricordi: una mattina nei giardini di piazza della Repubblica, lui stranamente a casa dal lavoro, per convalescenza (ho la coscienza e consapevolezza di non averlo mai visto malato); una sola passeggiata, io bambino, mano nella mano (non mi è difficile sentire ancora la sua, callosa); la sua forte reazione a uno sgarbo condominiale subìto da mia mamma, con me, bambino, sulle spalle; un ceffone, l’u-

Non so se ho conosciuto mio padre. Sul retro di questo suo ritratto, certificato in rilievo “F. Celso, corso XXII marzo 19, Milano”, leggo: «Tina, come un fior nel suo dolce profumo nel mio cuor sei sbocciata. A te questa mia per far che possa essere mai dimenticato». Datata 6 novembre 1935, la dedica richiama l’incontro con Martina, che avrebbe sposato l’8 maggio 1937. È l’unico suo scritto che conosco e del quale abbia mai avuta notizia.

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nico che mi ha mai dato, per il quale sono finito a terra (non volevo mangiare l’uva); alcune sue espressioni, che allora mi erano sgradite, e ora pagherei oro per risentire; le posture, che ancora ritrovo in personaggi che intravedo nella provincia italiana (le braccia conserte, le braccia dietro la schiena, la sigaretta nascosta nell’incavo della mano). E poi? Poi, pochi altri lampi. Che so, le feste di matrimonio delle mie sorelle maggiori Silvana e Nella, il suo modo di tenere le carte, quando giocava a Scala Quaranta (come avrà mai fatto a giocare a Scala tutta la sua vita?, un gioco tanto noioso!; lo ha fatto fino alla fine, addirittura concludendo con una chiusura), le serate nelle quali lo seguivo al lavoro, durante i turni notturni, potendo giocare in un pastificio che offriva più spunti di qualsiasi parco dei divertimenti, qualche festa natalizia, quando tornava dall’osteria in compagnia di amici soli, raccolti tra i tavoli, i suoi occhi, quando, nel dicembre Settantuno, sono partito per il servizio militare. Soprattutto, ho chiara la consapevolezza di una sua certa rassegnazione, non so a cosa dovuta. L’ho conosciuto tardi, quando la sua vita era abbondantemente avviata e incanalata; non ho avuto alcun peso nella sua esistenza (questo non è uno dei miei rimpianti, nessuno dei quali riguarda lui; sono tutti miei). Oggi, non ieri, quando lo avevo a portata di mano, lui ne ha molto nella mia. Non passa giorno che non gli rivolga un pensiero, che non lo chiami a testimonianza delle mie azioni, sperando che qualcosa di ciò che sto facendo sia per lui motivo di orgoglio: anche se non sono mai riuscito a dirgli -non spiegargli, proprio dirgli- verso dove stavo incamminandomi. Natale Rebuzzini è mio padre. È mancato il 24 febbraio 1979, esattamente due mesi dopo aver compiuto settanta anni. L’ho detto: è nato nel 1908, il ventiquattro dicembre. La notte di Natale. Cento anni fa. Maurizio



7 GENNAIO 1839 - 2009

S

Sì, appartengo alla categoria (?) di coloro i quali amano gli anniversari, soprattutto quelli tondi, e mi concentro su quelli della fotografia, anche se in queste stesse pagine sto per divagare un poco, con i richiami al duecentesimo dalla nascita di Edgar Allan Poe, alla cui scrittura si è abbeverata la mia generazione, e al cinquantesimo della rivoluzione cubana, uno degli avvenimenti salienti del Novecento. Quindi, con rispetto e senso del dovere ricordo la breve relazione con la quale l’accademico François Jean Dominique Arago, matematico, fisico e astronomo, ma soprattutto influente uomo politico della Francia del primo Ottocento, offrì a Louis Jacques Mandé Daguerre il crisma ufficiale della sua invenzione. Così che, datiamo la nascita della fotografia (in forma di dagherrotipo) da quel lunedì 7 gennaio 1839 dell’annuncio di Arago all’Académie des Sciences, di Parigi, al quale annuncio sarebbe poi seguita la presentazione del successivo diciannove agosto (ci torneremo). Dunque: 1839-2009 fanno esattamente centosettanta anni, che nei prossimi mesi continueremo a richiamare, allineandoci al possibile con le date dei tanti accadimenti dell’anno nel quale la fotografia è nata. Ha visto la luce! A questo proposito, per diritto di anagrafe, e qualcosa d’altro, non necessariamente di più, ricordo bene quanto tanto fu organizzato in tutto il mondo per i centocinquanta anni della successione di date 1839-1989. In tutto il mondo furono organizzate e svolte imponenti retrospettive storiche, accompagnate da immancabili cataloghi di spessore e profondità. Per non parlare, ancora, delle mo-

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nografie a tema, estese anche a visioni parzializzate. In Italia, in mancanza di mezzi e interlocutori illuminati, le celebrazioni furono oggettivamente sottotono, lasciate soprattutto alla buona volontà di identificati personaggi, che agirono soltanto per propria caparbietà, più che per consenso riconosciuto.

1839-1989 (?) Ricordo con piacere questi autentici sforzi sovrannaturali, e non chiedetemi i nomi (occupano un posto d’onore nella mia memoria), almeno quanto rammento anche la stoltezza di chi, in posizione privilegiata, direttore della Sezione Culturale dell’allora potente Sicof, il Salone Internazionale Cine Foto Ottica e Audiovisivi antesignano dell’attuale PhotoShow, che si sarebbe svolto proprio nella primavera di quel 1989, non fece nulla. Proprio nulla. Lanfranco Colombo, qui il nome-cognome si impone -anche per certificare che non penso sia stato quell’intelligenza lungimirante che vorrebbero far credere recenti rievocazioni di comodo, per lo più pietistiche e interessate-, affermò di non celebrare il centocinquantenario, perché (testuale!, per testimonianza diretta) «la fotografia è stata inventata prima...» (da non credere!). Certo, non tutto si è concentrato in quel sette gennaio, e date conseguenti, e ovviamente ci sono stati studi ed esperimenti cadenzati indietro negli anni, perfino nei decenni. Ma! Ma dobbiamo pure ricondurci a date ufficiali. E comunque, accettando e seguendo la logica secondo la quale “la fotografia sarebbe stata inventata prima”, nulla fu neppure fatto per le ricorrenze delle eliografie di Joseph Nicéphore Niépce, sulla cui primogenitura concordiamo tutti: co-

pia a contatto su lastra di peltro spalmata di bitume di Giudea del ritratto del 1610 del cardinale di Reims Georges d’Amboise (1826, oppure 1822?; tra l’altro, primo esempio di riproduzione fotomeccanica); Veduta dalla finestra di Gras, prima “fotografia” ottenuta per esposizione con camera obscura (1826 o 1827: otto ore di posa). [Per la cronaca, questa eliografia, di Joseph Nicéphore Niépce, di 20,3x16,5cm, che si conteggia come la prima fotografia in assoluto della storia, ritrovata nel 1952 da Helmut Gernsheim, è stata donata alla University of Texas, di Austin, dove è ora conservata in una cornice 25,8x29cm]. È stata altrettanto ignorata la straordinaria figura di John Herschel. Nel 1819, quando molti esperimenti di altri pionieri si infrangevano contro il muro delle superfici che rimanevano sensibili alla luce anche dopo il processo di sviluppo, annerendo miseramente le copie faticosamente ottenute, scoprì la proprietà dell’iposolfito di sodio di sciogliere i sali d’argento (sensibili alla luce): in questo modo, l’immagine sviluppata non è più alterabile dalla luce. Il fissaggio è uno degli elementi fondamentali del processo fotografico, e questa scoperta consentì agli sperimentatori di rendere stabili le immagini realizzate e ottenute con i propri procedimenti.

A CONTORNO Né qui, né ora, né tantomeno nei prossimi mesi, quando continueremo a registrare le date fotografiche che si sono freneticamente succedute in quel fantastico 1839, intendo registrare alcuna delle polemiche che si raccontano in tutte le storie della fotografia, sia in quelle più accreditate -e non sono poche-, sia in quelle più cialtrone, che sono

altrettante, se non già di più. Soltanto, non posso evitare di sottolineare l’assurdità dell’esclamazione sbalordita con la quale il pittore Paul Delaroche accolse il primo dagherrotipo che vide: «Da oggi la pittura è morta!», avrebbe sentenziato; e così hanno registrato tutte le storie. Profezia completamente sbagliata: tanto è vero che dall’invenzione della fotografia, modalità per realizzare automaticamente immagini, senza la dipendenza da alcuna abilità nel disegno, a partire dall’Impressionismo la pittura ha potuto imboccare e percorrere strade nuove, che hanno dato acclamato vigore alla sua stessa espressività artistica. Comunque, rimanendo nel solo ambito originario dell’immagine del vero (della “natura che si fa di sé medesima pittrice”, straordinaria descrizione del processo che più prosaicamente oggi definiamo “fotografia”, e ormai soprattutto “imaging”), l’infelice e infame epitaffio attribuito a Paul Delaroche esprime bene ed esattamente la costernazione diffusasi tra i pittori e gli incisori del tempo, che comprensibilmente temettero di perdere il proprio mezzo di sussistenza, visto e considerato che con il dagherrotipo chiunque avrebbe potuto realizzare in poco tempo ciò che a un artista costava più giornate di lavoro. Difatti, i primi fotografi professionisti furono proprio pittori e incisori convertiti alla novità tecnica.

DAGHERROTIPO POLITICO Più avanti, tra poco, registro le reazioni all’annuncio del sette gennaio. In particolare, pur riconoscendo l’ufficialità della data e nascita con il dagherrotipo, non posso ignorare la sacrosanta rivendicazione di William Henry


Fox Talbot, la cui figura è stata recentemente rievocata in FOTOgraphia dello scorso maggio, in occasione della pubblicazione di una convincente monografia di sue immagini. Così come va ricordata la personalità di Hippolyte Bayard, funzionario del ministero delle Finanze francese, un altro degli sperimentatori che hanno agito simultaneamente per lo stesso scopo, ognuno all’oscuro dell’esistenza degli altri. Fu messo da parte dal potere politico e scientifico, altrimenti indirizzato e alleato (con Daguerre). Comunque, Hippolyte Bayard aveva realizzato sia un processo autopositivo (come Daguerre) sia un processo negativo-positivo (come Fox Talbot), entrambi su carta. Ma è proprio il dagherrotipo che detta legge in quelle prime settimane del 1839, all’indomani del fatidico lunedì sette gennaio. Addirittura, è glorificato anche a spese di Niépce, liquidato in fretta come un semplice realizzatore di silhouette che richiedevano lunghe pose, nell’ordine di almeno dodici ore (?!). Forte della propria posizione di prestigio alla Camera dei deputati di Parigi, lo stesso Arago fu capofila di una ben orchestrata pantomima a favore di Daguerre. Soprattutto, poneva l’accento sui brevi tempi di esposizione del suo procedimento, conteggiati in «dieci o dodici minuti con il cattivo tempo invernale. [...] D’estate questo tempo di esposizione può essere ridotto alla metà». Inoltre, sentenziava Arago, «il dagherrotipo non richiede una sola manipolazione che non sia assolutamente facile per chiunque. Non esige conoscenza del disegno [diavolo!] e non dipende da un qualsiasi genere di destrezza naturale. Rispettando poche semplici istruzioni, chiunque può riuscire con certezza a ottenere risultati pari a quelli conseguiti dall’autore dell’invenzione». Così che registriamo che Arago non è mai stato sfiorato dal pensiero che la fotografia, chia-

miamola come la conosciamo, avesse diritto a uno status artistico ed espressivo. Cioè la pensò e descrisse sempre in subordine e supporto ad altro, senza intravvederne possibili personalità espressive proprie e autonome. E in questo modo istruì coloro che poteva condizionare con l’esercizio del suo potere. In ogni caso, Arago ha sempre declinato le possibilità del dagherrotipo all’interno del contesto di progresso scientifico e tecnico del proprio tempo. A questo proposito registro una sua illuminante osservazione, pubblicata sulla Gazzetta Privilegiata di Milano, il venti novembre: «Certo, non è facile al primo apparire di una scoperta prevedere tutti gli usi a cui potrà servire, tutte le applicazioni che si potrà farne. Chi mai ai primi tentativi fatti per usar della potenza del vapore, avrebbe solo immaginato, e la rapidità dei viaggi sulle strade ferrate, e la facilità di navigare contr’acqua, e contro vento, e la innumerevole molteplicità delle macchine, per le quali l’operosità dell’uomo è a mille doppi aumentata». Chiamato alla corte di AragoDaguerre, il chimico e fisico Joseph-Louis Gay-Lussac, già noto e riconosciuto per ricerche sulle proprietà fisiche dei gas (e non per la legge trivialmente alterata dei tempi spensierati della scuola), riferì alla Camera alta francese che il procedimento dagherrotipico «dà origine a una nuova arte in un’antica civiltà, un’arte che potrebbe benissimo inaugurare un’era ed essere preservata come titolo di gloria. [...] Facciamo in modo che resti in evidenza come una splendida prova della protezione che la Camera, anzi l’intero paese, assicurano alle grandi invenzioni». La volata a un consistente riconoscimento economico per Daguerre era partita, e a tirarla sono stati eminenti scienziati. Ancora, Gay-Lussac ribadì l’eccellenza dell’invenzione con una affermazione perentoria, che non poté non suscitare stupore: «Il dagherrotipo rap-

presenta la natura inanimata con un grado di perfezione irraggiungibile dai normali procedimenti del disegno e della pittura, una perfezione uguale a quella della Natura stessa». A Louis Jacques Mandé Daguerre venne corrisposto un vitalizio annuo, affinché la Francia potesse far conoscere «all’umanità questa prodigiosa invenzione» (e ci torneremo nei prossimi mesi, nella successione di rievocazioni del 1839 sul 2009 del centosettantesimo anniversario). Una simile iniziativa non fu certo priva di senso politico; in quel modo, nell’anno del cinquantesimo anniversario della Rivoluzione (1789-1839), lo Stato francese mostrò quanto grande fosse lo spirito d’iniziativa della nazione.

DAGHERROTIPO QUOTIDIANO Immediatamente, e in assenza di vincoli (che invece comprometteranno il cammino del calotipo di William Henry Fox Talbot, detentore del proprio brevetto), in Francia e in tutta Europa vengono avviati svariati laboratori di dagherrotipia, crescendo rapidamente in numero per tutto il decennio dei Quaranta. Di fatto, i prezzi delle prestazioni professionali, considerevolmente inferiori a quelle della pittura, resero il dagherrotipo accessibile a un vasto pubblico. Con tutto, l’accoglienza che l’Accademia delle Belle Arti riserva al dagherrotipo è, invece, piuttosto ostile. La realizzazione apparentemente meccanica delle immagini rompe con il postulato sul quale si fonda tutto l’insegnamento accademico basato sull’imitazione degli antichi maestri. Al contrario, i membri dell’Accademia delle Belle Arti si pronunciano a favore del procedimento messo a punto da Hippolyte Bayard e simile a quello di William Henry Fox Talbot, che stiamo per incontrare: «Agli occhi degli intenditori, i disegni di Bayard rivelano l’aspetto dei disegni degli antichi maestri»,

è l’asserzione ufficiale. Tuttavia, sul finire del 1839, alcuni dagherrotipi sono presentati nell’ambito di mostre d’arte. Nell’autunno di quello stesso anno, a Edimburgo, un dagherrotipo realizzato dall’inventore Daguerre, raffigurante il Jardin des Tuileries, viene esposto nel corso di una mostra nella quale le creazioni artistiche sono alternate e frammiste a oggetti fatti a mano. Nell’ambito della stessa mostra, sono altresì esposti trenta disegni fotogenici di Fox Talbot. A Parigi, durante la mostra dei Prodotti dell’Arte e dell’Industria del 1844, una serie di dagherrotipi è esposta accanto agli strumenti per artisti e alle litografie. In questo modo, la severa e autorevole giuria sancisce l’ingresso del dagherrotipo nella sfera artistica. Tuttavia, l’ammissione della fotografia nella lista delle belle arti procede lentamente. Difatti, bisognerà attendere il 1859 prima che le fotografie su carta, dopo la scomparsa del dagherrotipo, siano mostrate, come le pitture e le sculture, nel corso dei Salon di Parigi.

IN ITALIA Con ardito salto temporale, preciso che l’ufficialità del dagherrotipo in Italia data alla relazione che il fisico Macedonio Melloni, “uno dei quaranta della Società Italiana delle Scienze”, legge alla Reale Accademia delle Scienze di Napoli, nella tornata del dodici novembre, riferendo appunto intorno al dagherrotipo, alla luce della presentazione ufficiale del precedente diciannove agosto. E su questa lettura torneremo a tempo debito, proprio il prossimo novembre (magari con una sorpresa). In date coincidenti, anticipo anche che il primo apparecchio italiano per dagherrotipia è fabbricato a Torino da Enrico Federico Jest, in ottobre. L’otto del mese, si registra il suo primo esperimento: Veduta della Gran Madre di Dio (dagherrotipo oggi custodito e conservato nella Galleria Civica d’Arte Moderna

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del capoluogo piemontese). Di un suo secondo dagherrotipo si ha testimonianza diretta dalla Gazzetta Piemontese dell’undici ottobre: «Noi intanto porgiamo vive grazie al sig. Jest della sua nobile prova, e facciam voti che a questa sola ei non limiti il suo potente intelletto e la sua industre meccanica: imperocché il Daguerrotipo francese è già per lui renduto italiano, e forse per alcuni aspetti superiore al francese medesimo [...] con quella sua veduta così chiara ed esatta, ottenuta in sì pochi momenti [...]. Chi di noi non griderà agli italiani: Coraggio! L’esempio del fisico francese ci inanimi a diuturni sforzi per emularlo». Dal successivo novembre, il milanese Alessandro Duroni importa i primi apparecchi Daguerre-Giroux, in vendita a Parigi dal dieci agosto: 26,7cm di ingombro, in posizione di riposo, e 50,8cm al massimo allungamento; altezza 31,1cm e larghezza 36,8cm; per lastre 16,5x21,6cm; obiettivo costituito da una lente a menisco o piano-convessa di 406mm di lunghezza focale e 83mm di diametro; il diaframma fisso di 23,8mm riduce l’apertura di lavoro all’equivalente dell’attuale diaframma f/17. Prima di tutto questo, regi-

stro cronache giornalistiche. Una prima notizia si legge nella Gazzetta Privilegiata di Milano (quotidiano Coi tipi e a spese di Angiolo Lambertini estensore ed editore), del quindici gennaio. Solo sei giorni dopo la pubblicazione sui giornali di Parigi, la Gazzetta Privilegiata dà una breve notizia sull’invenzione, richiamando un articolo del Moniteur Parisien del nove gennaio, peraltro successivo all’anticipazione della Gazette de France del precedente sei gennaio (uno scoop?, il giorno prima dell’annuncio di Arago). Immediatamente a seguire, si accoda la Gazzetta Privilegiata di Venezia (quotidiano di Tommaso Locatelli), che il diciotto gennaio si rifà allo stesso Moniteur Parisien. Quindi, da febbraio, la notizia dilaga su tutti i quotidiani italiani. Alcuni tengono anche conto e riferiscono del neonato dualismo con l’analoga invenzione di William Henry Fox Talbot. Così, allungandoci in avanti nelle settimane, si incontra una significativa relazione della Gazzetta Piemontese del sei marzo: prima pagina, con occhiello Varietà: Scoperta Daguerre - Carta Talbot; una sorta di polemica sull’invenzione e sulla carta fotogenica. Leggiamo.

Da due o tre mesi in qua i giornali e le accademie, tratto tratto di altro non risuonano che della maravigliosa scoperta del sig. Daguerre parigino, scoperta per mezzo della quale non più l’uomo, ma la natura stessa è fatta di se medesima pittrice, e col semplice apparato conosciuto sotto il nome di camera oscura [obscura], esponendolo ai raggi di un limpido sole ed applicandovi nel fondo un foglio di carta preparata con certo artificio, la prospettiva abbracciata dal campo della lente viene in poco d’ora a tratteggiarsi, nitida, mirabilmente nitida, in chiaro scuro, sopra questa carta misteriosa. A chi conosce alquanto di chimica non occorre aggiungere che la sostanza di cui la carta debb’essere spalmata è una di quelle sulle quali la luce ha un’azione potentissima e che in proporzione della gagliardia dei raggi che le percuotono cambiano il natio loro colore. Finora per altro, mentre a Parigi sostiensi che il trovato è cosa francese, Berna che ell’è invenzione svizzera, in Germania ed in Inghilterra che essa è scoperta alemanna o britannica, il metodo pratico di preparare la mirabil carta spacciava-

EDGAR ALLAN POE: 1809-2009

LIBRARY OF CONGRESS

ichiami e riferimenti esistenziali. Su questo stesso numeRKirchherr ro, a pagina 29, riportiamo una rievocazione di Astrid riguardo i riferimenti culturali della sua generazione, ad Amburgo all’inizio degli anni Sessanta: «Eravamo solo degli adolescenti; la nostra filosofia era di vestirci di nero e incamminarci osservando il mondo attorno con malumore e malinconia. Naturalmente, avevamo un riferimento ben preciso in Sartre. Ci ispirammo agli artisti e agli scrittori francesi, perché erano vicini a noi occidentali, mentre l’Inghilterra era talmente lontana e gli Stati Uniti erano fuori questione. Così provammo a pensare e vivere come gli esistenzialisti francesi». Io non ho la presunzione di rappresentare una generazione. Non rappresento altri

che me stesso, quando rivelo una analoga malinconia giovanile, anche se mi discosto dal malumore. Prima delle scoperte del Sessantotto, ma ancora dopo, uno dei miei riferimenti è stata la letteratura di Edgar Allan Poe, del quale ricorre ora il duecentenario dalla nascita: 19 gennaio 1809-2009 (e morte il 7 ottobre 1849, a quarant’anni). Più avanti, avrei scoperto che Edgar Alla Poe è considerato inventore del giallo psicologico e del racconto poliziesco (il suo Dupin è l’antesignano degli investigatori seriali che sarebbero arrivati dopo). Per intanto, sono cresciuto nutrendomi dei suoi Racconti, dal mistero al terrore, che hanno anche ispirato molte delle identificazioni che ho distribuito attorno a me, a partire dai tanti HopFrog, ranocchi saltatori, incontrati per la via.

Edgar Allan Poe, in un dagherrotipo di W.S. Hartshorn, del 9 novembre 1848.

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si per un segreto, per altro affidato, affine di non perderlo, a due gerofanti dell’accademia francese, i quali dichiarano nel medesimo tempo che il segreto è segreto e non segreto, vale a dire che basta solo il dirne una parola per rivelarlo, divolgarlo, cosmopolizzarlo. Mentre adunque stiamo aspettando questa desiderata propalazione, ecco quello che il Globe inglese del 23 di febbraio dice in piane e semplici parole intorno ad un modo pratico di preparare la carta, alla quale in Londra si dà il nome di fotogenica. «II sig. Talbot ha presentato una carta fotogenica alla società regia di Londra. Ed eccone la preparazione: Egli prende carta da lettere sopraffina, molto compatta e levigata; la intinge in una debole soluzione di sal marino, ed asciutta la soffrega ben bene perché il sale trovisi uniformemente distribuito pel foglio. Sparge quindi sovra una faccia soltanto una soluzione di nitrato d’argento e la fa seccare al fuoco. Questa soluzione non debb’essere satura, ma allungata in sei o sette volte tant’acqua. La carta così rasciutta è in punto per l’uso. Nulla di più perfetto delle immagini di fiori e di frutti che vi si ottengono sopra coll’aiuto della camera oscura [obscura] ad un bel sole d’estate. La luce sbattuta dalle foglie e dai petali ne disegna le più minute nervature. Se la soluzione del sal marino fosse troppo forte (soprattutto se si serbasse la carta alcune settimane prima di adoperarla) l’impressività ne sarebbe notabilmente scemata, talora anche annientata. Ma se vi si stende sopra una nuova soluzione d’argento, la carta acquista proprietà fotogeniche ancora più sorprendenti. La preparazione più volte ripetuta accresce la sensitività della carta alla luce solare. «Per conservar le immagini, il sig. Talbot spalma la pittura


ANCORA ITALIA Tutti i primi articoli sono concordi nell’annunciare e presentare la Grande scoperta, piuttosto che La Camera ottica di Daguerre, o l’Importanza della scoperta di Daguerre. Tra i tanti, ancora una testimonianza diretta, appassionante nella propria declinazione. Leggiamo dal Messaggero Torinese del ventitré febbraio: Il Dagherrotipo, all’interno del quale si possono intravedere i richiami per i quali il direttore Angelo Brofferio avrebbe intitolato Il dagherrotipo: galleria popolare enciclopedica il settimanale di tono progressista e a finalità divulgative da lui avviato il successivo 2 gennaio 1840. II nostro secolo, che già si è arricchito di tante e sì utili scoperte, si è abbellito testé d’un’invenzione più prodigiosa forse di queste, e che occupa attualmente la pubblica atten-

zione. Il sig. Daguerre, abile pittore, e profondo chimico, che già offrì a Parigi le meraviglie del suo Diorama, a forza di perseveranza ottenne questo risultamento. Egli ha composto una vernice nera che si stende sovra una tavola qualunque. Esposta detta tavola ad una viva luce, la terra od il cielo, o l’acqua corrente, il duomo che si perde nelle nuvole, il lastricato, l’impercettibile granello di sabbia, tutte queste cose grandi o piccole, e che sono eguali pel sole s’imprimono in un momento in questa specie di camera oscura [obscura] che conserva tutte le impronte. A tanto non giunsero mai i più grandi maestri. Il sole stesso introdotto questa volta come l’agente onnipossente d’un’arte novella produce tale incredibile lavoro. Or non è più lo sguardo incerto d’un uomo che scopre da lungi l’ombra o la luce, non è più la sua mano tremolante che disegna su mobile carta la scena fuggevole di questo mondo; non è più necessario di passare tre giorni sotto un medesimo punto di cielo per ritrarne appena una dubbia immagine, poiché il prodigio si opera in un momento pronto come il pensiero e rapido come un raggio solare. Le torri della chiesa di Nostra Signora di Parigi hanno ubbidito a Daguerre che un dì le portò con sé, dalla loro pietra fondamentale sino all’esile guglia che s’innalza nell’aria. In questo modo si videro ancor riprodotti i più gran monumenti di quella città, il Louvre, l’Istituto, le Tuileries, il Ponte nuovo, il selciato della Grève, l’acqua della Senna, il cielo che copre santa Genoveffa, e in ciascuno di questi capolavori la stessa inconcepibile perfezione. Ma questa pittura non è uniforme come potrebbe sembrare a prima giunta. Al contrario niuno di questi dipinti eseguiti col medesimo mezzo rassomiglia al precedente: l’o-

ra del giorno, il colore del cielo, la limpidezza dell’aria, il rinesso dell’acqua si riveggono meravigliosamente in siffatti portentosi quadri. Epperciò con una serie di essi creati col Dagherrotipo si vide Parigi illuminata da un caldo raggio di sole, e poscia Parigi sotto un velo di nugoli quando la pioggia cade tristamente goccia a goccia. In questo modo non si ritraggono solo con una fedeltà inesprimibile i particolari dell’oggetto, ma si rappresenta ancor vivamente la luce. Noi giungeremo perciò a distinguere al primo colpo d’occhio il pallido sole di Parigi e l’ardente d’Italia: una fresca valle della Svizzera e il deserto di Saara, il campanile di Firenze e le torri di Notre-Dame col solo aspetto dell’aria in cui s’elevano questi grandiosi monumenti. Ciò che poi ancor più ammirabile si è che impressionata la tenue vernice dal sole o da debole luce, quantunque si esponga da una vivida luce, ella è durevole, inalterabile come un’impressione sull’acciajo. Nella camera oscura [obscura] si riflettono gli oggetti esteriori con una fedeltà senza pari, ma questa non rimanda nulla per se stessa. Essa non è un di-

pinto, ma uno specchio su cui nulla rimane. Immaginiamoci ora che questo specchio abbia conservato l’impronta degli oggetti che vi si sono riflessi, ed avremo un’idea quasi esatta del Dagherrotipo. La luna stessa col suo splendore mobile ed incerto, pallido riflesso del sole, si riflette nello specchio di Daguerre. Quante saranno le applicazioni di questa importante scoperta che sarà forse l’onore del nostro secolo! Sottomettete al microscopio solare l’ala d’una mosca, e il Dagherrotipo cosi possente come quello ve la rappresenterà colle sue dimensioni incommensurabili. Esso vi riprodurrà gli aspetti della natura e dell’arte, come a un dipresso la stampa, i capolavori dello spirito umano. È un’incisione alla capacità di tutti, una matita ubbidiente come il pensiero, uno specchio in cui si fissano le immagini. Il Dagherrotipo sarà compagno inseparabile del viaggiatore, e renderà comuni le più belle opere dell’arte di cui non si hanno che copie a caro prezzo ed infedeli; si avranno i quadri di Raffaello e di Tiziano. In fine esso provvederà a tutti i bisogni dell’arte e ai capricci della vita.

RIVOLUZIONE CUBANA: 1959-2009

A JOSEPH SCHERSCHEL / LIFE

fotogenica di una soluzione d’iodito di potassa, con che formasi un iodito d’argento assolutamente inattaccabile ai raggi del sole; ma l’operazione è molto delicata. Una soluzione troppo forte attaccherebbe le parti più cariche del disegno. «Il sig. Talbot pratica pertanto abitualmente un altro metodo, che consiste nell’immergere il disegno in una forte soluzione di sal marino, asciugarne l’umidità superflua e far seccare la carta. Il disegno cosi lavato e seccato prende, quando lo si espone al sole, una tinta d’un lillà pallido nelle parti bianche, la quale cancellasi tuttavia col tempo. «I disegni conservati coll’iodito sono sempre d’un giallo di primarosa pallidissimo, che avvivasi esposto al fuoco, ma torna al suo color primitivo raffreddandosi. Sir John Herschel ha fatto molti sperimenti di questo trovato servendosi della luce ottenuta colla grande batteria galvanica di Danieli: e se n’è pure occupato sir David Brewster».

vviato con l’attacco alla base militare Moncada, il 26 luglio 1953, dal quale la definizione di Movimento del 26 di luglio, il rovesciamento del dittatore cubano Fulgenzio Batista si è concluso la notte di capodanno del 1959, con la fuga dello stesso Batista e dei suoi complici. Il Primo gennaio di cinquanta anni fa, la milizia popolare guidata da Fidel Castro e Ernesto Che Guevara occupò le città e i punti strategici di Cuba. Qui registriamo soltanto l’anniversario, senza entrare nel merito di alcuna valutazione politica, e senza allungarci su altre vicende, men che meno sulla parabola esistenziale e icono-

grafica di Che Guevara, che abbiamo evocato in altre occasioni, a questa precedenti e da questa separate. Punto, e basta.

Parata e festeggiamenti per la vittoria di Fidel Castro; Cuba, gennaio 1959.

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Il signor Daguerre spera ancora di ottenere il ritratto delle persone; trovata una macchina che renda l’oggetto perfettamente immobile, egli vi dipingerà lo sguardo, l’aggrottar delle ciglia, la menoma ruga della fronte, la menoma ciocca de’ capelli. Il sig. Arago farà in breve una proposizione alle Camere per dare a questo insigne scienziato una ricompensa nazionale.

WILLIAM HENRY FOX TALBOT Liquido in fretta la vicenda dello sfortunato Hippolyte Bayard, tenuto a distanza dal Potere francese che ha abbracciato l’invenzione di Daguerre. Avremo modo di riparlare di lui quando richiameremo l’autoritratto in posa da affogato, del 1840, ironicamente realizzato perché lo Stato francese, complice l’affarista François Jean Dominique Arago, ha finanziato Daguerre e lui è rimasto senza un soldo. L’attenzione si deve quindi spostare sulla figura di William Henry Fox Talbot, alla quale ci siamo richiamati in due occasioni recenti: lo scorso marzo, presentando il saggio Alle origini del fotografico, con il quale Roberto Signorini ha analizzato The Pencil of Nature (1844-46), e il successivo maggio, in occasione della monografia William Henry Fox Talbot, pubblicata da Phaidon Press. All’indomani dell’annuncio con il quale, il 7 gennaio 1839, l’astronomo Dominique François Jean Arago comunicò all’Accademia delle Scienze di Parigi il processo di Louis Jacques Mandé Daguerre, dal quale si conteggia la nascita ufficiale della fotografia, l’inglese William Henry Fox Talbot vanta una legittima priorità “fotografica”. Afferma che già nel precedente 1833 aveva esposto al sole una foglia a contatto con carta imbevuta in soluzione di sale da cucina e nitrato d’argento, ottenendone un disegno bianco su fondo nero, che consideriamo il primo vero “negativo”. Quindi,

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nell’estate 1835, nella propria residenza di Lacock Abbey, nel Wiltshire, dove ora ha sede il museo a lui intitolato, aveva esposto il suo materiale sensibile alla luce (carta al nitrato e cloruro d’argento) con una piccola camera obscura dotata di obiettivo, ottenendo il negativo (di circa 6x6cm) di una finestra. In origine definisce i suoi risultati “disegno fotogenico”, e sarà calotipia quando verrà depositato il brevetto (1841); allo stesso momento, rivela la possibilità di ottenere copie positive in quantità, stampando nuovamente a contatto, carta su carta, il negativo originario. Ecco perché reputiamo William Henry Fox Talbot padre della fotografia così come la intendiamo, stampabile in copie multiple, teoricamente infinite: a differenza (sostanziale!) dalla copia unica del dagherrotipo, sul quale l’immagine si forma sulla sottile e delicata lamina d’argento esposta in ripresa. Il ventinove gennaio, William Henry Fox Talbot scrive una lettera all’accademico François Arago, padrino di Daguerre, nella quale rivendica la priorità dei propri esperimenti; e il successivo trentuno gennaio tiene una relazione sui suoi disegni fotogenici alla Royal Society, dopo che il precedente venticinque Michael Faraday, al quale si deve la scoperta dell’induzione elettromagnetica, li aveva già mostrati ai membri della Royal Institution. Curiosamente, la relazione della seduta del trentuno gennaio precede la pubblicazione del manuale di Daguerre, dell’agosto 1839, in coincidenza con la presentazione ufficiale del diciannove del mese, in una seduta pubblica dell’Accademia delle Scienze di Parigi con le Accademie Francesi delle Belle Arti (Historique et Description des procédés du Daguerréotype et du Diorama, realizzato in parecchie edizioni immediatamente successive e subito tradotto in inglese, tedesco, spagnolo, svedese e italiano), offrendosi come primo au-

tentico testo di “fotografia”. [Una volta ancora ricordiamo che la traduzione italiana Descrizione pratica del nuovo istromento chiamato il daguerrotipo è stata recentemente riproposta in anastatica da Photographica di Perugia, come abbiamo riferito in FOTOgraphia dell’ottobre 2003 e giugno 2007. Quindi, segnaliamo anche l’anastatica dell’originale inglese Some account of the Art of Photogenic Drawning (la prima pagina originaria è riprodotta su questo stesso numero, a pagina 3), appunto relazione della lettura di William Henry Fox Talbot del 31 gennaio 1839, in edizione Rara photographica: centoquattro esemplari numerati, a cura di Cesare Saletta, libraio d’antiquariato a Bologna, del luglio 1980. Infine, segnaliamo anche la relativa traduzione italiana Metodo per eseguire sulla carta il fotogenico disegno rinvenuto dal signor Fox Talbot, a cura di Gaetano Lomazzi, del 1839 (in data sconosciuta, da marzo ad agosto, comunque antecedente l’edizione italiana del manuale di Daguerre), presso l’editore milanese Giuseppe Crespi: ancora in anastatica Rara photographica di Cesare Saletta, del gennaio 1981 (a pagina 4, su questo stesso numero)]. A William Henry Fox Talbot (circa, questa volta) dobbiamo anche il termine “fotografia”. Fusione delle parole greche “phos” (luce) e “grapho” (scrittura), in alternativa alla “eliografia” di Joseph Nicéphore Niépce, e al dagherrotipo (che si riferisce soltanto a se stesso), l’identificazione “fotografia” è declinata per la prima volta da Sir John Herschel in una lettera a Fox Talbot del 28 febbraio 1839. Digressione d’obbligo: figlio di Sir Frederick William Herschel, che nel 1800 scoprì la radiazione infrarossa, come abbiamo già annotato in questa lunga rievocazione, John Herschel è una delle figure discriminanti per la nascita della fotografia, sul cui cammino ci si era avviati già nel corso del Settecento, ottenendo risultati che

annerivano alla luce. È lui che nel 1819 scopre che l’iposolfito di sodio scioglie i sali d’argento, stabilendo così il princìpio del fissaggio dell’immagine fotografica. A completamento, rileviamo anche che nel 1840 lo stesso John Herschel conia i termini “negativo” e “positivo”. Tornando al pionierismo di William Henry Fox Talbot, ricordiamo i perfezionamenti al suo processo originario, con codifica dei princìpi dell’immagine latente delle carte sensibili allo ioduro d’argento, del 1840, e il brevetto del processo calotipico, depositato l’8 febbraio 1841: la cui negativa su carta al nitrato d’argento e ioduro di potassio richiede tempi di esposizione variabili da sessanta a centoventi secondi. Quindi, ribadiamo il valore storico dell’edizione di The Pencil of Nature, il primo libro illustrato con fotografie applicate, avviata nel 1844, all’indomani dell’apertura di uno studio fotografico a Reading, l’attuale Baker street di Londra. E su questo, come già ricordato, abbiamo già ampiamente riferito lo scorso marzo. Soltanto, e ancora, sottolineiamo la personalità di infaticabile ricercatore, ricordando che, nel 1851, sfruttando una potente scintilla elettrica, William Henry Fox Talbot fotografò nitidamente una pagina del Times fissata su una ruota in movimento. Intellettuale attivo nel mondo delle scienze, della matematica (per la cui competenza, dal 1831 fu membro della Royal Society), dell’astronomia, dell’archeologia e della politica (parlamentare dal 1832 al 1834), personalità più importante nel processo che portò all’invenzione della fotografia (non ci stanchiamo di rilevarlo), William Henry Fox Talbot è stato una figura chiave del Diciannovesimo secolo, durante il quale rivolse la propria attenzione allo sviluppo e diffusione degli innovativi processi fotografici, che hanno trasformato la visione del mondo. 1839-2009. Maurizio Rebuzzini



DALLA CAMERA OBSCURA Canaletto: L’ingresso solenne del Conte de Gergy a Palazzo Ducale; olio su tela, 181x259,5cm (San Pietroburgo, Museo Statale Ermitage).

A

Annunciando la consistente retrospettiva Canaletto. Venezia e i suoi splendori, l’edizione veneta del Corriere della Sera di lunedì venti ottobre si è legittimamente allungata su sedici pagine, riunendo una consistente e convincente serie di articoli a commento [a destra, la prima delle sedici pagine, priva del piede di pubblicità originario]. In particolare, è ovvio che la nostra attenzione abbia apprezzato soprattutto due di questi approfondimenti giornalistici: Lo sguardo e la luce in cento capolavori e Vedute dalla

camera obscura (erroneamente titolata e ripetutamente definita “camera oscura”, identificazione che intende invece il locale della stampa ottico-chimica all’ingranditore: ma non importa) [ancora a destra, la riproduzione dei due articoli]. Sia consapevolmente, quanto soprattutto inconsapevolmente, la visione e costruzione fotografica ha profondi debiti di riconoscenza con questa pittura. Non pensiamo tanto e soltanto alla finalizzazione della camera obscura per la definizione prospettica dei piani (ribadia-

L’edizione veneta del Corriere della Sera di lunedì venti ottobre ha riservato sedici pagine alla mostra Canaletto. Venezia e i suoi splendori, esposta a Treviso fino al prossimo cinque aprile.

Luca Carlevarijs: L’ingresso solenne dell’abate de Pomponne a Palazzo Ducale; olio su tela, 130x260cm (Amsterdam, Rijksmuseum).

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molo: dotata di una vera e propria lente/obiettivo, la camera obscura fu usata da molti pittori come ausilio per il disegno dal vero), quanto proprio allo sguardo e luce, peraltro adeguatamente sottolineati negli articoli giornalistici appena ricordati. Allo stesso modo, richiamando questa pre-fotografia, che si è espressa con minuziosa ricostruzione e restituzione della realtà e del paesaggio (paesaggio urbano, abbiamo cominciato a dire nei decenni più recenti), non ignoriamo, né sottovalutiamo, un altro


debito con la pittura di Caravaggio, alla quale riconosciamo una certa idea di “istantanea” della visione, oltre alla sapiente distribuzione della luce all’interno della composizione: diciamola anche così.

PRE-FOTOGRAFIA Curiosamente, il cerchio che collega e congiunge la pittura dei vedutisti veneziani, a partire da Giovanni Antonio Canal (detto Canaletto; 16971768) e Bernardo Bellotto (17221780), a quella di Caravaggio (Michelangelo Merisi, o Merigi o Amerighi; 1571-1610), estendendosi fino all’espressività della fotografia, all’indomani dell’invenzione di sistemi automatici che permisero alla natura di essere “di se stessa pittrice” (1839: centosettanta anni fa esatti; da pagina 10), si completa con due esposizioni milanesi: Da Canaletto a Tiepo-

Canaletto: Il campo San Giacometto verso Rialto; olio su tela, 95,5x117cm (Dresda, Gemäldegalerie Alte Meister, Staatliche Kunstsammlungen Dresden).

lo, a Palazzo Reale fino all’undici gennaio (catalogo Skira; a pagina 19), e Caravaggio a Milano - La Conversione di Saulo, a Palazzo Marino fino al quattordici dicembre (www.caravaggioamilano.it; ancora catalogo Skira; ancora a pagina 19). In tutti i casi, si tratta di straordinarie opportunità per approfondire la conoscenza diretta con rappresentazioni che hanno influenzato il linguaggio fotografico, e che dovrebbero appartenere al bagaglio di conoscenze e competenze di tutti coloro i quali si occupano di fotografia e realizzano fotografie, sia con connotati professionali sia con intendimenti non professionali. Per vastità, concentrazione e tanto altro ancora (compreso il contorno di una città sicuramente più affascinante dell’attuale aridità sociale di Milano), Canaletto. Venezia e i suoi

«Antonio Canal stordisce universalmente ognuno che ammira le sue opere, perché si vede lucer dentro il Sole» Alessandro Marchesini, pittore veronese, 14 luglio 1725

Canaletto. Venezia e i suoi splendori. Catalogo a cura di Giuseppe Pavanello e Alberto Craievich. Saggi di Giuseppe Pavanello e Alberto Craievich ( Venezia nel prisma dei vedutisti), Michael Levey ( I vedutisti veneziani), André Corboz ( Sulla pretesa obiettività di Canaletto), William L. Barcham ( Il vedutismo), Catherine Whistler ( Vedutismo veneziano e mecenati britannici nel ’700), Adriano Mariuz (Carlevarijs & Canaletto), Alberto Craievich e Giuseppe Pavanello ( Il vedutismo: una fortuna ininterrotta) e Dario Succi ( Venezia nello specchio di rame). Saggi introduttivi alle opere (con schede commentate conclusive) di Gaspar van Wittel, Luca Carlevarijs, Johan Richter, Antonio Stom, Canaletto, Michele Marieschi, Francesco Albotto, Bernardo Canal, Antonio Joli, Jacopo Fabris, Giambattista Cimaroli, Apollonio Domenichini “Il maestro della Langmatt”, Bernardo Bellotto, Gaspare Diziani, Pietro Bellotti, Francesco Tironi, Francesco Guardi. Marsilio Editori, 2008; 130 illustrazioni a colori e 90 in bianconero; 344 pagine 24x29cm; 50,00 euro.

splendori si alza sopra tutto, offrendo al mondo fotografico personalità di valore e livello fuori dall’ordinario: a Ca’ dei Carraresi, a Treviso, fino al prossimo inizio di aprile, con indispensabile catalogo Marsilio Editori, ricco di saggi e testi a complemento, particolarmente utili alla riflessione fotografica (qui sopra). Le cifre identificatorie di questa mostra sono significative per se

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Canaletto: Il campo San Giacometto verso San Giovanni Elemosinario; olio su tela, 119x186cm (Berlino, Staatliche Museen zu Berlin, Gemäldegalerie).

Canaletto: La sagra di San Pietro di Castello; olio su tela, 119x187cm (Berlino, Staatliche Museen zu Berlin, Gemäldegalerie).

stesse, oltre che impressionanti: novanta dipinti e sessanta incisioni, da trentaquattro grandi musei prestatori di tredici paesi. Riprendendo il filo tracciato dall’ormai lontano allestimento di I vedutisti veneziani del

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Settecento, al Palazzo Ducale di Venezia, dal 10 giugno al 15 ottobre 1967 (catalogo di 400 pagine 17,5x22cm), una sfilata di capolavori racconta la vicenda artistica di Canaletto e del Vedutismo venezia-

no, uno dei fenomeni artistici più significativi del Settecento europeo. Con il patrocinio del Ministero per i Beni e le Attività Culturali, del Ministero degli Affari Esteri, della Fondazione Ermitage Italia, della Pro-


vincia di Treviso, della Città di Treviso, promossa da Fondazione Cassamarca e organizzata da Artematica, con il contributo e il patrocinio della Regione Veneto, la mostra è curata da Giuseppe Pavanello e Alberto Craievich, coadiuvati da un comitato scientifico composto dai maggiori esperti a livello internazionale di Canaletto e della pittura veneziana del Settecento, dal 1697 al 1768. Canaletto. Venezia e i suoi splendori presenta centocinquanta opere del caposcuola veneziano e dei maggiori esponenti del vedutismo, quali Luca Carlevarijs, Bernardo Bellotto, Francesco Guardi e Michele Marieschi.

Francesco Guardi: La Piazza di San Marco verso la basilica; olio su tela, 72,4x119,1cm (Londra, The National Gallery). Gaspar van Wittel: Il Molo dal Bacino di San Marco; olio su tela, 98x174cm (Madrid, Museo Nacional del Prado).

DA VENEZIA Nessun luogo, come Venezia, è mai stato tanto raffigurato -e mai lo è stato come nel Settecento- al punto che il soggetto è stato in grado di determinare un genere, quasi fosse nato per celebrare la Città prima della fine della Repubblica millenaria. Giusto per questa ragione la mostra ha come grande protagonista proprio Venezia, tralasciando alcune declinazioni della produzione vedutistica veneta. È Canaletto il fulcro attorno il quale ruota tutta l’esposizione, sia per il suo ruolo egemone, sia per la complessità del suo percorso artistico. A Treviso è raccolta una avvincente e convincente selezione di autori e opere che coprono l’intero arco della sua produzione e che danno un’adeguata immagine del valore delle sue creazioni, così affini alla successiva rappresentazione fotografica, che sarebbe nata nel 1839: con conteggio ufficiale alle fatidiche date di annuncio e presentazione del processo dagherrotipico originario (sette gennaio e diciannove agosto) e considerazione particolare e mirata per le legittime rivendicazioni di William Henry Fox Talbot, il cui processo calotipico è alla base della fotografia così come ancora la intendiamo (negativo-matrice dal quale ottenere copie multiple, oggi file digitale), e Hippolyte Bayard [da pagina 10]. Di suo, Canaletto aveva un modo di lavorare assolutamente personale: usciva in gondola solo durante le giornate di sole alla ricerca del giusto scorcio; la sua esperien-

Da Canaletto a Tiepolo Pittura veneziana del Settecento. Mobili e porcellane dalla collezione Terruzzi. A cura di Annalisa Scarpa; Skira 2008 (www.skira.net); 245 illustrazioni a colori e 232 in bianconero; 352 pagine 24x28cm, 40,00 euro.

La Conversione di Saulo. A cura di Daniela Storti e Valeria Merlini; Skira, 2008 (www.skira.net); 100 illustrazioni a colori e 10 in bianconero, cartonato; 29,00 euro.

za rappresenta un caso eccezionale nella cultura figurativa del Settecento: non inventa il genere della veduta, ma lo ricrea, superando gli esempi dell’olandese Gaspar van Wittel e del friulano Luca Carlevarijs. Profondamente radicato nella tradizione veneziana, e successivamente esteso a una esperienza pittorica che influenzerà la fotografia, e che, ancora in seguito e successione sarà trasformata dalla stessa fotografia, il suo genio visivo eleva il vedutismo a una corrente di gusto caratteristica dell’illuminismo europeo, rivale e concorrente di successo della pittura di storia e figura che, fino al suo arrivo, dominò il panorama pittorico italiano. Tra i capolavori del maestro veneziano, si possono ricordare alcuni dipinti giovanili, spettacolari nell’inquadratura e dall’incredibile valore luministico come Il campo San Giacometto verso Rialto [a pagina 17], concesso dalla Staatliche Gemäldegalerie di Dresda. Quindi, ricordiamo l’imponente dipinto raffigurante L’ingresso solenne del

Conte de Gergy a Palazzo Ducale, dell’Ermitage di San Pietroburgo, le cui dimensioni 181x259,5cm ne fanno un’opera unica [a pagina 16]. Tra le particolarità, vanno ricordati due dipinti che ritornano in Italia dopo quasi trent’anni. Si tratta di due delle quattro vedute eseguite da Canaletto per il mercante tedesco Sigmund Streit, e oggi alla Gemäldegalerie di Berlino, considerati dei capolavori della maturità [pagina accanto]. Insieme a questi non mancano altri quadri squisiti, dal raffinato valore esecutivo, alcuni dei quali esposti quarant’anni fa a palazzo Ducale e altri per la prima volta nel nostro paese. M.R. Canaletto. Venezia e i suoi splendori. Ca’ dei Carraresi, via Palestro 33, 31100 Treviso; 0422-513150 (Artematica, via Fonderia 45, 31100 Treviso; 0422-542854, fax 0422-319061; www.artematica.tv, info@artematica.tv). Fino al 5 aprile 2009; martedì, mercoledì e giovedì 9,00-19,00, venerdì, sabato e domenica 9,00-20,00 (chiuso il 24, 25 e 31 dicembre e il Primo gennaio).

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AVREI UN SOGNO

V

Vorrei sentire e vedere anche in Italia: parole che sono state pronunciate altrove, accadimenti che si sono svolti in altri paesi. Straordinario è stato il discorso pronunciato dal senatore (per lo stato dell’Arizona) John McCain, candidato repubblicano alle elezioni presidenziali 2008, ai propri sostenitori, convenuti nel suo quartier generale di Phoenix, immediatamente dopo la certezza della vittoria del se-

reputazione della nostra nazione e che negavano ad alcuni americani la completa benedizione della cittadinanza americana, che la memoria di ciò ha ancora il potere di ferire. Un secolo fa, l’invito per una cena alla Casa Bianca del presidente Theodore Roosevelt a Booker T. fu considerato come oltraggioso da molti ambienti [nato in schiavitù, il 5 aprile 1856, Booker Taliaferro Washington fu pioniere del sistema educativo statunitense; il 16 ottobre 1901 fu invitato alla Casa Bianca; è mancato il 5 novembre 1911, a cinquantacinque anni]. Oggi, l’America è lontana un mondo dalla crudele e spaventosa bigotteria di quel tempo. Non c’è migliore evidenza di

svolgere compiti non facili. In combinazione, un gesto di sport che si è verificato negli stessi giorni di inizio novembre. Alessandro Del Piero ha lasciato il campo da gioco del Santiago Bernabéu di Madrid applaudito dal pubblico spagnolo, ammirato per la bellezza dei suoi due gol con i quali ha sconfitto la squadra di casa, nientemeno che il leggendario e temibilissimo Real Madrid. M.R.

questo che l’elezione di un nero alla presidenza degli Stati Uniti. Che non ci siano più ragioni che impediscano a nessun americano di onorare la propria cittadinanza in questa, la più grande nazione sulla Terra. Il senatore Obama ha ottenuto una cosa grandiosa per sé e per la sua nazione. Lo applaudo per questo e gli offro la mia più sincera compassione per il fatto che la sua amata nonna non sia vissuta a sufficienza per vedere questo giorno. Però la nostra fede ci assicura che riposa in presenza del nostro creatore, così orgogliosa del buon uomo che ha aiutato a crescere. Il senatore Obama e io abbiamo le nostre differenze e le ab-

PHILIPPE DESMAZES / GRAZIA NERI

CANDIDATO SCONFITTO

Grazie, grazie amici miei. Grazie per essere venuti, in questa bellissima serata dell’Arizona. Amici miei, siamo arrivati alla fine di un lungo viaggio. Il popolo americano ha parlato, e ha parlato chiaramente. Poco fa, ho avuto l’onore di telefonare al senatore Barack Obama per congratularmi con lui. Per congratularmi con lui di essere stato eletto come nuovo presidente della nazione che entrambi amiamo. In una competizione così lunga e così difficile, come è stata questa campagna, il suo successo -da solo- esige il mio rispetto per la sua abilità e perseveranza. Ma il fatto che ci sia riuscito dando ispirazione alla speranza di così tanti milioni di americani, che credevano erroneamente di essere così poco in gioco o di avere una influenza minima sull’elezione di un presidente americano, è qualcosa che io ammiro profondamente e la cui riuscita merita il mio encomio. Questa è una elezione storica, e io riconosco lo speciale significato che ha per i neri e lo speciale orgoglio che deve essere il loro questa notte. Ho sempre pensato che l’America offra un’opportunità a chiunque abbia l’industriosità per afferrarla. Il senatore Obama crede lo stesso. Ma entrambi riconosciamo, a dispetto del lungo tratto percorso dalle vecchie ingiustizie che un tempo macchiavano la

natore democratico (dell’Illinois) Barack Obama, che il prossimo venti gennaio giurerà come quarantaquattresimo presidente degli Stati Uniti d’America. Parole di un candidato sconfitto. Una lezione di civiltà, moralità e cultura politica (ed esistenziale). Un esempio per tutti noi. In accordo, efficace e incisivo anche il discorso di Barack Obama, che dopo gli entusiasmi dei primi minuti ora ha da

Mercoledì cinque novembre, mentre tutto il mondo commentava i risultati delle elezioni presidenziali statunitensi, Alessandro Del Piero ha segnato i due splendidi gol con i quali la Juventus ha liquidato il Real Madrid in casa sua. L’uscita dell’attaccante bianconero dal campo di gioco del Santiago Bernabéu è stato esaltato da una standing ovation dei tifosi locali, ammirati per i suoi gesti atletici del diciassettesimo del primo tempo e ventiduesimo del secondo. Anche in questo caso, una lezione per il nostro paese, per noi.

biamo dibattute; e lui ha prevalso. Non c’è dubbio che queste differenze rimangano. Questi sono momenti difficili per il nostro paese. E io questa notte prometto a lui di fare tutti ciò che è in mio potere per aiutarlo a guidarci attraverso le molte sfide che andremo a incontrare. Raccomando a tutti gli americani che mi hanno sostenuto non solo di unirsi a me nel congratularsi con lui, ma di offrire al nostro prossimo presidente la nostra buona volontà e i più onesti sforzi per scoprire le strade che ci aiutino a trovare i compromessi necessari per stabilire contatti tra le nostre differenze, così da aiutarci a ripristinare la nostra prosperità, difendere la nostra sicurezza in un mondo pericoloso e lasciare ai nostri figli e ai nostri nipoti un paese migliore di quello che abbiamo ereditato. Qualunque siano le nostre differenze, siamo tutti americani. E per favore credetemi quando dico che nessuna comunanza ha avuto un significato maggiore per me, di questa. È normale. È normale, questa notte, essere delusi. Ma domani dobbiamo superare la delusione e lavorare insieme per fare sì che il nostro paese ricominci a progredire. Abbiamo lottato, abbiamo lottato con tutta la nostra forza. E anche se non ce l’abbiamo fatta, il fallimento è mio, non vostro. Sono così profondamente grato a tutti voi per il grande ono-

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re del vostro sostegno e per tutto ciò che avete fatto per me. Avrei sperato in un risultato diverso, amici. La strada era difficile fin dall’inizio, ma il vostro sostegno e la vostra amicizia non è mai venuta a mancare: non posso esprimere in modo adeguato il mio profondo debito per voi. Sono grato in particolare a mia moglie Cindy, ai miei figli, alla mia cara madre e a tutta la mia famiglia, e ai tanti vecchi e cari amici che mi hanno accompagnato attraverso i tanti alti e bassi di questa lunga campagna. Sono sempre stato un uomo fortunato, ma mai così tanto che per l’amore e l’incoraggiamento che mi avete dato. Sapete, le campagne elettorali sono spesso più dure per le famiglie dei candidati che per il candidato stesso, ed è stato vero in questa campagna. Tutto ciò che posso offrire come compensazione è il mio amore e la mia gratitudine, e la promessa che i prossimi anni saranno più tranquilli. Ovviamente, sono anche molto grato alla governatrice Sarah Palin, una delle migliori attiviste (elettorali) che abbia mai visto, e una impressionante nuova voce nel nostro partito al servizio delle riforme e dei princìpi che sono sempre stati la nostra forza; suo marito Todd e i loro stupendi cinque figli per la loro instancabile dedizione alla nostra causa, e per il coraggio e la generosità mostrate nella durezza e nella confusione di una campagna presidenziale. Guardiamo con estremo interesse al suo futuro servizio per l’Alaska, per il Partito Repubblicano e per il nostro paese. A tutti i compagni della mia campagna, da Rick Davis, Steve Schmidt e Mark Salter, fino all’ultimo volontario che ha lottato duramente e valentemente mese dopo mese, in quella che in alcune circostanze è sembrata la campagna più combattuta dei tempi moderni, grazie davvero. Un’elezione persa non

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conterà mai, più del privilegio della vostra fede e amicizia. Non so, non so, cosa avremmo potuto fare di più per provare a vincere questa elezione. Lascerò questa valutazione ad altri. Tutti i candidati fanno degli errori, e io sicuramente ho fatto la mia parte di questi. Ma non passerò un solo momento in futuro per rimpiangere ciò che sarebbe potuto essere. Questa campagna è stata e sarà il più grande onore della mia vita, e il mio cuore è pieno di nient’altro che gratitudine per questa esperienza, e per il popolo americano che mi ha concesso questa tribuna prima di decidere che il senatore Obama e il mio vecchio amico Joe Biden avrebbero avuto l’onore di guidarci per i prossimi quattro anni. Non sarei un americano degno di questo nome se mi lamentassi con la sorte che mi ha concesso lo straordinario privilegio di servire questo paese per mezzo secolo. Oggi ero candidato per il più alto ufficio della nazione che amo così tanto. E stanotte rimango al suo servizio. Ciò è un benedizione sufficiente per chiunque, e ringrazio il popolo dell’Arizona per avermi accordato questa possibilità. Questa notte, più che in ogni altra notte, conservo nel cuore nient’altro che amore per questo paese e per tutti i suoi cittadini, che abbiano sostenuto me o il senatore Obama. Che abbiano sostenuto me o Obama. Auguro le migliori cose all’uomo che era il mio avversario e che sarà il mio presidente. E chiedo a tutti gli americani, come ho spesso fatto durante questa campagna, di non disperare delle nostre presenti difficoltà, ma di credere -semprenella promessa della grandezza dell’America. Perché niente è inevitabile, qui. Gli americani non si dànno mai per vinti. Noi non ci arrendiamo mai. Noi non ci nascondiamo mai alla storia. Facciamo la storia.

Grazie, Dio vi benedica e Dio benedica l’America. Grazie, grazie davvero. John McCain

ELETTO PRESIDENTE Ciao, Chicago. Se c’è qualcuno lì fuori che ancora dubita che l’America sia un paese dove tutto è possibile; che ancora si chiede se il sogno dei nostri padri fondatori è vivo ai nostri tempi; che ancora mette in dubbio il potere della nostra democrazia: questa notte è la vostra risposta. È la risposta delle code che si allungavano intorno alle scuole e alle chiese in numeri che questa nazione non aveva mai visto, della gente che ha aspettato tre e quattro ore, molti per la prima volta nella vita, perché credevano che questa volta dovesse essere diverso, che le loro voci potessero fare la differenza. È la risposta che viene dai giovani e dagli anziani, dai ricchi e dai poveri, democratici e repubblicani, neri, bianchi, ispanici, asiatici, indigeni americani, gay, eterosessuali, disabili e no. Gli americani hanno mandato un messaggio al mondo: non siamo mai stati solo una lista di individui o una lista di stati rossi e stati blu. Siamo, e sempre saremo, gli Stati Uniti d’America. È la risposta che ha guidato quelli che si sono sentiti dire per tanto tempo di essere cinici e spaventati e dubbiosi su quello che possiamo ottenere, mettendo le loro mani sull’arco della storia e piegandolo una volta di più alla speranza di un giorno migliore. C’è voluto molto a venire, ma stanotte, per quello che abbiamo fatto in questo giorno in questa elezione in questo momento cruciale, il cambiamento è arrivato in America. Poco fa, stasera, ho ricevuto una bellissima telefonata dal senatore McCain. Il senatore Mc Cain ha combattuto lungamente e duramente in questa campagna e ha combattuto anche più lungamente e duramente per il paese che ama. Ha sopportato sacrifici per l’America

che la maggioranza di noi neanche possono immaginare. Siamo tutti migliori per i servigi resi da questo coraggioso, altruista leader. Mi congratulo con lui e mi congratulo col governatore Palin per quello che sono riusciti a fare. E aspetto con ansia di lavorare con loro per rinnovare la promessa della nazione nei mesi a venire. Voglio ringraziare il mio compagno in questo viaggio, un uomo che ha fatto campagna dal cuore e ha parlato per gli uomini e le donne con cui è cresciuto nelle strade di Scranton, e con cui è andato in treno verso casa nel Delaware, il vicepresidente eletto degli Stati Uniti, Joe Biden. E non sarei qui stasera senza il sostegno incrollabile della mia migliore amica degli ultimi sedici anni, la roccia della nostra famiglia, l’amore della mia vita, la prossima first lady del paese... Michelle Obama. [...] Ma soprattutto, non dimenticherò mai a chi appartiene davvero questa vittoria. Appartiene a voi. Appartiene a voi. Non sono mai stato il candidato più probabile per questo incarico. Non abbiamo cominciato con molti soldi o molti sostegni. La nostra campagna non è nata nei corridoi di Washington. È iniziata nei cortili di Des Moines e nei salotti di Concord e sui portici di Charleston. È stata costruita da uomini e donne che lavorano che hanno tirato fuori i pochi risparmi che avevano per donare cinque, dieci, cinquanta dollari alla causa. Ha tratto forza dai giovani che hanno rifiutato il mito dell’apatia della loro generazione; che hanno lasciato le case e le famiglie per lavori che davano loro pochi soldi e ancor meno sonno. Ha tratto forza dai non più giovani, che hanno affrontato il freddo intenso e il caldo afoso per bussare alle porte di assoluti sconosciuti, e dai milioni di americani che si sono offerti volontari e hanno organizzato e dimostrato che oltre due secoli


dopo, un governo della gente, dalla gente e per la gente non è scomparso dalla Terra. Questa è la vostra vittoria. E so che non l’avete fatto solo per vincere le elezioni. E so che non l’avete fatto per me. L’avete fatto perché capite l’enormità del compito di fronte a noi: mentre celebriamo stanotte, sappiamo che le sfide che ci porterà domani sono le più grandi della nostra epoca: due guerre, un pianeta a rischio, la peggior crisi finanziaria da un secolo. Anche mentre siamo qui stasera sappiamo che ci sono coraggiosi americani che si svegliano nei deserti dell’Iraq e tra le montagne dell’Afghanistan per rischiare le loro vite per noi. Ci sono madri e padri che restano svegli quando i bambini dormono e si chiedono come pagheranno il mutuo o le parcelle del medico o come risparmieranno abbastanza per mandarli all’università. C’è una nuova energia da sfruttare, nuovi lavori da creare, nuove scuole da costruire, minacce da affrontare, alleanze da riparare. La strada davanti a noi sarà lunga. La salita sarà ripida. Forse non ci arriveremo in un anno o nemmeno in un mandato. Ma, America, non ho mai nutrito tanta speranza come stanotte che ci arriveremo. Ve lo prometto: noi come popolo ci arriveremo. Ci saranno ricadute e false partenze. Ci sono molti che non saranno d’accordo con tutte le decisioni e le politiche che seguirò da presidente. E sappiamo che il governo non può risolvere ogni problema. Ma sarò sempre onesto con voi sulle sfide che affrontiamo. Vi ascolterò, soprattutto quando non saremo d’accordo. E soprattutto vi chiederò di partecipare nell’opera di rifare questo paese, nell’unico modo in cui l’abbiamo fatto in America per duecentoventuno anni, pezzo a pezzo, mattone dopo mattone, mano callosa su mano callosa. Quello che è cominciato ventuno mesi fa nel profondo del-

l’inverno non può finire in questa notte d’autunno. Da sola questa vittoria non è il cambiamento che vogliamo. E non potrà succedere se torniamo alle cose com’erano. Non può succedere senza di voi, senza un nuovo spirito di servizio, un nuovo spirito di sacrificio. Quindi, richiamiamo un nuovo spirito di patriottismo, di responsabilità, nel quale ognuno di noi si decide a partecipare e lavorare più duro e a badare non solo a se stesso ma agli altri. Ricordiamoci che se questa crisi finanziaria ci ha insegnato qualcosa, è che non è possibile che Wall street prosperi mentre Main street (la gente comune) soffre. In questo paese cresciamo o affondiamo come una nazione sola e un popolo solo. Resistiamo alla tentazione di ricadere nelle stesse divisioni e nelle stesse meschinità e immaturità che hanno avvelenato così a lungo la nostra politica. Ricordiamoci che ci fu un uomo di questo stato che per primo portò la bandiera del Partito Repubblicano alla Casa Bianca, un partito fondato sui valori della fiducia in se stessi e delle libertà individuali e dell’unità nazionale. Sono valori che tutti condividiamo. E se il Partito Democratico stanotte ha ottenuto una grande vittoria, lo facciamo con umiltà e determinazione per sanare le spaccature che hanno frenato il nostro progresso. Come Lincoln disse a una nazione ben più spaccata della nostra, non siamo nemici ma amici. Le emozioni possono forzare ma non devono spezzare i legami dell’affetto. E a quegli americani dei quali devo ancora conquistare l’appoggio: non avrò ottenuto il vostro voto stasera ma sento le vostre voci. Mi serve il vostro aiuto. E sarò anche il vostro presidente. E a tutti coloro che guardano stasera al di là delle nostre spiagge, dai parlamenti e dai palazzi, a quelli che si raccolgono intorno alle radio negli angoli dimenticati del mondo; le nostre storie sono diverse, ma

condividiamo lo stesso destino; una nuova alba della leadership americana è a portata di mano. A quelli... A quelli che vorrebbero distruggere il mondo: vi sconfiggeremo. A quelli che cercano pace e sicurezza: vi sosteniamo. E a tutti coloro che si sono chiesti se il faro dell’America brilla ancora: stanotte abbiamo dimostrato una volta di più che la vera forza del nostro paese non viene della potenza delle nostre armi o dalle dimensioni della nostra ricchezza, ma dal potere perpetuo dei nostri ideali: democrazia, libertà, possibilità, speranza incrollabile. È questa la vera forza dell’America: che l’America sa cambiare. La nostra unione può essere migliorata. Quel che abbiamo già ottenuto ci dà speranza per quel che possiamo e dobbiamo ottenere domani. Questa elezione ha visto molte prime, molte storie che saranno raccontate per generazioni. Ma una che ho in mente stasera riguarda una donna che ha votato a Atlanta. Somiglia molto ai milioni di altri che si sono messi in fila per far sentire la propria voce in questa elezione, a parte un fatto: Ann Nixon Cooper ha centosei anni. È nata appena una generazione dopo la schiavitù, quando non c’erano automobili in strada né aerei in cielo; quando una come lei non poteva votare per due ragioni: perché è donna e per il colore della sua pelle. E stasera penso a tutto quello che ha visto nel suo secolo in America: i dolori e la speranza, la lotta e il progresso, le volte che ci hanno detto che non potevamo, e la gente che è andata avanti col credo americano: sì che possiamo. In un momento nel quale le voci delle donne venivano fatte tacere e le loro speranze distrutte, lei è vissuta fino a vederle alzarsi in piedi e prendere la scheda. Sì, possiamo. Quando c’era solo disperazione nella polvere e la depressione in tutto il paese, ha visto una nazione che sconfiggeva la

paura stessa con un New Deal, nuovi lavori, un nuovo senso di scopo comune. Sì, possiamo. Quando le bombe sono cadute sul nostro Porto [Pearl Harbor] e la tirannia minacciava il mondo, lei era lì a testimoniare una generazione che si elevava all’eroismo e una democrazia che veniva salvata: sì, possiamo. Lei c’era per gli autobus a Montgomery, gli idranti a Birmingham, un ponte a Selma, e un predicatore di Atlanta che disse a un popolo che “We Shall Overcome”, “noi ce la faremo”. Sì, possiamo. Un uomo ha camminato sulla Luna, un muro è caduto a Berlino, un mondo è stato messo in rete dalla nostra scienza e dalla nostra fantasia. E quest’anno, in questa elezione, lei ha messo il dito su uno schermo e ha votato, perché dopo centosei anni in America, attraverso i tempi migliori e le ore più buie, lei sa come l’America può cambiare. Sì, possiamo. America, abbiamo fatto tanta strada. Abbiamo visto tanto. Ma c’è ancora tanto da fare. Stasera chiediamoci: se i nostri figli dovessero vivere fino a vedere il prossimo secolo, se le mie figlie fossero così fortunate da vivere tanto quanto Ann Nixon Cooper, che cambiamenti vedranno? Che progressi avremo fatto? Questa è la nostra opportunità di rispondere. Questo è il nostro momento per ridare alla nostra gente il lavoro e aprire porte dell’opportunità ai nostri bambini, per ridare la prosperità e promuovere la causa della pace; per reclamare il sogno americano e riaffermare quella volontà fondamentale, che di tanti, siamo uno; che finché abbiamo respiro, abbiamo speranza. E se troviamo davanti a noi il cinismo e i dubbi e chi ci dice che non possiamo, risponderemo con quel credo senza tempo che riassume l’intero spirito di un popolo: sì, possiamo. Grazie. Dio vi benedica. E dio benedica gli Stati Uniti d’America. Barack Obama

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gettuale. Porterò come esempi alcuni lavori che nel mio percorso hanno avuto un significato particolare, in quanto occasione di scambio, indagine, o rovesciamento del ruolo tradizionale del fotografo di architettura, così come viene recepito».

GABRIELE BASILICO PER ABITARE. All’attenzione per la fotografia del mensile Abitare, diretto da Stefano Boeri, abbiamo già dato merito in FOTOgraphia del dicembre 2007. Ora torniamo sull’argomento segnalando la prima puntata di un ciclo di lezioni di fotografia di architettura tenute da Gabriele Basilico, apparsa sul numero 486, dello scorso ottobre (qui sopra). Riportiamo, illuminante, la premessa dello stesso Gabriele Basilico alla prima puntata: «Il contenuto di queste lezioni non sarà né teorico, né pratico; anzi, più che lezioni vorrei fossero racconti, testimonianze, incontri un po’ speciali con l’architettura, nei quali la fotografia -pur assolvendo completamente la propria funzione documentaria sulle opere degli architetti- si è dimostrata utile per approfondire il dialogo sulla cultura pro-

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Abitare pubblica lezioni di fotografia di architettura di Gabriele Basilico.

Dal 2004 al 2007, il settimanale Life è stato pubblicato in supplemento domenicale di quotidiani statunitensi. A breve, la sua versione in Rete.

LIFE.COM. La prestigiosa testata statunitense, che ha tristemente chiuso i battenti all’inizio del 2007, dopo essere stata declassata a inserto gratuito domenicale di molti quotidiani Usa (FOTOgraphia, maggio 2007), si sta preparando per essere rilanciata come sito web dedicato al grande pubblico. Lo scorso ventitré settembre, il presidente di Life, Andrew Blau, ha annunciato che a partire dal primo quadrimestre 2009 saranno disponibili su Internet sei milioni di immagini dall’archivio storico della rivista. A queste, si aggiungeranno circa tremila immagini al giorno dagli archivi di Getty Images, che copriranno gli avvenimenti di cronaca per le news, lo sport e lo spettacolo. Il sito sarà organizzato per argomenti, per riferimenti geografici e per data, e disporrà di un motore di ricerca adeguato. È previsto che i ricavi vengano dalla pubblicità, dall’ecommerce e dalla possibilità di vendere libri realizzati espressamente su richiesta dei clienti. Andrew Blau ha anche affermato che è previsto uno spazio nel quale potranno essere caricate le immagini del pubblico. Risulterà comunque molto chiara la distinzione tra quest’area e il resto del sito. Su LIFE.com le immagini saranno disponibili a una risoluzione media, che permetterà a chiunque di ottenere una copia di qualità decente con la stampante di casa. Le fotografie saranno contraddistinte da un watermark, che non è ancora chiaro come apparirà nella stampa. È anche previsto che chiunque possa organizzarsi una propria collezione di fotografie online, che potrà essere condivisa con altri attraverso un servizio simile a Facebook. Questo sito rappresenta la pagina più recente della lunga storia di Life. Come settimanale, dal 1936 al 1972, la testata ha pubblicato alcuni dei reportage più gloriosi della storia del fotogiornalismo. Successivamente, dal

Questa rubrica riporta notizie che sono appartenute alla cronaca. Però, nel loro richiamo e riferimento molti motivi ci impediscono di essere tempestivi quanto la cronaca richiederebbe. Ciononostante riteniamo giusto proporle, perché siamo convinti che non abbiano perso la propria attualità, e continuino a offrire spunti di riflessione. 1978 al 2000, Life ha continuato come mensile, e dal 2004 al 2007 è stata trasformata in supplemento domenicale per quotidiani (a sinistra, in basso). Oltre a questo, il marchio Life è ancora e sempre utilizzato dalla casa editrice Time Inc come brand nella pubblicazione di libri e edizioni illustrate tematiche.

INFOSNACKING. Questa espressione significa “spiluccare notizie”. Per praticare l’infosnacking occorre saltare in continuazione da un sito web alla radio, dal telefonino alla tv, da un giornale a un podcast, senza un filo logico, ma solo seguendo l’ispirazione del momento. E alla fine, credo, senza essersi informati su nulla. Frequentata soprattutto dai giovani statunitensi, l’infosnacking mette in crisi i quotidiani e, più in generale, la stampa americana. Perché a causa sua i lettori diminuiscono, le tirature anche e gli introiti pubblicitari pure. Quindi, panico. Nel suo più recente libro, The Vanishing Newspaper: Saving Journalism in the Information Age, Philip Meyer, uno degli studiosi più seri dell’editoria americana, fissa nel 2043 la morte dei quotidiani. Bill Keller, direttore del New York Times, promette che il quotidiano sarà presente solo sul web tra meno di due anni e l’Economist vaticizza la morte di testate prestigiose che si dovrebbe verificare tra breve. Un fatto è accertato: è in corso un massiccio spostamento della pubblicità dalla carta stampata al web, e si sa che senza pubblicità non si fanno i giornali. Anche la tecnologia rema contro la sopravvivenza della carta stampata. A settembre, Plastic Logic, di Mountain View, California, ha annunciato il prossimo ingresso sul mercato (primi sei mesi del 2009) di uno schermo di plastica elettronica dello spessore di pochi millimetri, ad altissima


definizione, leggerissimo, in grado di leggere documenti Microsoft Word, Excel e PowerPoint, file Adobe Pdf e riviste, giornali e libri elettronici, oltre che collegarsi al web. Questo sarà il nuovo giornale, e ci sono già editori pronti: probabilmente, il San Francisco Chronicle sarà il primo quotidiano su e-paper.

(a destra) Chiara Mariani con Françoise e Douglas Kirkland alla cerimonia dei Lucie Award 2008.

L’area Press Clippings del sito Taschen Verlag è aggiornata in tempo pressoché reale. Congratulazioni!

DOWNLOAD. Non lavoriamo, né scriviamo, né agiamo per essere ringraziati. Ma i ringraziamenti fanno anche piacere, soprattutto perché sono rari, tanto da poter essere contati, in quasi quaranta anni di giornalismo, con le dita di una sola mano. Quando presentiamo sue edizioni, Taschen Verlag ringrazia sempre. Ma non è ancora questo il problema. In un paese, come la Germania, di altra cultura, nel quale il dovere viene prima del diritto e nel quale ciascuno fa (bene) il proprio dovere, dieci minuti dopo i ringraziamenti, nell’area Press Clippings del sito Taschen è pubblicato il Pdf dell’articolo, con richiamo all’edizione della quale si tratta (qui sopra). A differenza, dai siti degli editori italiani, peraltro compilati con sostanziale approssimazione, estesa persino alle schede di presentazione dei volumi (!), è problematico ricavare indicazioni certe e certificate. Però è sempre chiaro il percorso d’acquisto diretto, anche con sconti, che di fatto penalizzano l’attività professionale legittima dei librai.

CONTRO LA VIOLENZA SULLE DONNE. Basta che si tocchi un tema “di sinistra”, che subito i “benpensanti” scatenano le proprie proteste adducendo motivazioni strampalate. Questo mi rammarica per due motivi: il primo riguarda il fatto che per spiegare la stupidità di uno scontro sono costretto a scomodare le definizioni “di sinistra” e “ben-

Manifesto per la Giornata mondiale contro la violenza sulle donne, realizzato con una fotografia di Ruggero Rosfer, censurato dall’assessore milanese all’Arredo, Decoro Urbano e Verde Maurizio Cadeo.

pensanti”, definizioni che dovrebbero aver perso ogni attualità. Per ricordare al pubblico la Giornata mondiale contro la violenza sulle donne, il venticinque novembre un innocente manifesto, realizzato da ArnoldWorldwide Italy con una fotografia di Ruggero Rosfer per il Gruppo Fabbrica Eos (qui sotto), avrebbe dovuto essere affisso in cinquecento esemplari sui muri di Milano. Dopo aver accordato il permesso, gli uffici comunali hanno passato la bozza del soggetto a Maurizio Cadeo, assessore all’Arredo, Decoro Urbano e Verde, in quota An. «Sono saltato sulla sedia -ha tuonato l’assessore-, perché questa immagine offende la tradizione cristiana. Non so se ho gli strumenti per impedirne l’affissione, ma ci proverò». Il secondo motivo di rammarico riguarda il fatto che Maurizio Cadeo c’è riuscito. Certo, le donne non fanno simpatia ai benpensanti, poi crocifiggerne una, che idea, si offende Gesù! Solo lui ha diritto alla crocifissione. Mi scuso per avervi ricordato questa notizia, che certamente è già nota a tutti. L’ho fatto solo per tenere viva la memoria di uno dei tanti fatti gravi che riguardano la libertà di espressione, i diritti delle donne, la civiltà. Resistere, resistere, resistere! Resistere anche alla stupidità.

CHIARA MARIANI AI LUCIE AWARD. Del Lucie Award alla carriera, assegnato a Gianni Berengo Gardin, abbiamo riferito, anticipandolo, lo scorso ottobre. Qui registriamo la nomination di Chiara Mariani, photo editor del Magazine del Corriere della Sera, nella categoria Picture Editor of the Year. Gli altri nominati sono stati Simon Barnett (Newsweek), Steve Fine (Sports Illustrated), Alice Gabriner (a capo dei Picture Editor di Time Magazine) e Michele McNally (New York Times), che è poi risultata vincitrice. L’inserimento di Chiara Mariani tra i migliori photo editor del mondo rimane un fatto di grande rilievo, soprattutto perché in questo concorso non si entra proponendo la propria candidatura, ma soltanto grazie a segnalazione di fotografi, giornalisti e colleghi. «Non mi è mai importato niente dei premi -ci ha confessato Chiara Mariani- ma poi sei lì, al Lincoln Center di New York, nel gotha della fotografia mondiale e, per un momento, ti importa solo di vincere». Essere stati lì è già una vittoria. Chi è Chiara Mariani (qui sopra, alla cerimonia dei Lucie Award con Françoise e Douglas Kirkland)? Una laurea in Lingue e letterature straniere, con una tesi in storia contemporanea, ha iniziato la sua carriera professionale presso l’Agenzia Grazia Neri: quattro anni al reparto video, poi sei anni nel settore fotografia, vera e propria università per tanti photo editor che oggi lavorano in molte testate italiane. Nel 2000, lascia l’Agenzia per il giornalismo: prima è

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CLAUDIO GALLONE

ALTRO PREMIO. Il venti dicembre, al giornalista e fotografo Claudio Gallone viene consegnato il Premio alla Stampa del concorso Giornalisti e Società: la professione giornalistica al servizio dell’uomo, indetto dall’Unione Stampa Cattolica Italiana (Ucsi). Il premio è offerto dalla Conferenza Episcopale del Triveneto. Claudio Gallone è premiato per una serie di reportage fotografici con relativo testo pubblicati nel corso del 2008 sul settimanale Oggi: Io lotto contro l’inferno, sul carcere di Policharky, in Afghanistan; Il cuore italiano batte per i bimbi del Kosovo (qui sopra) e Grazie Italia torneremo a sorridere, sulla missione chirurgica in Georgia nei primi giorni successivi alla guerra lampo. «Ma il premio più grande -ci ha rivelato Claudio Gallone- è stata la notizia, data dal comando italiano Nato, che in seguito al servizio pubblicato sul Kosovo, in un solo mese hanno potuto far operare in Italia centocinque bambini molto gravi, grazie alla disponibilità offerta da organizzazioni e famiglie italiane che hanno letto il reportage». Claudio Gallone alterna il lavoro di creative editor per Capital alla passione per il reportage di guerra.

CZECH PRESS PHOTO 2008. Si è conclusa a Praga la quattordicesima edizione del premio fotogiornalistico organizzato dalla Repubbli-

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ca Ceca. La giuria era formata da Claude Andreini, fotografo, Belgio (residente a Portogruaro, in provincia di Venezia); Ruth Eichhorn, photo editor GEO, Germania; Kristian Feigelson, professore di Cinema e Media, Università della Sorbona, Parigi; Amanda Hopkinson, curatore di mostre e professore universitario, Gran Bretagna; Peter Korniss, fotografo, Ungheria; Sergei Maximishin, fotografo, Russia; Grazia Neri, presidente dell’Agenzia Grazia Neri, Italia; Marian Pauer, giornalista, Slovacchia; Andrej Reiser, fotografo dell’agenzia Bilderberg, Repubblica Ceca; Jiří Stivín, musicista, regista e fotografo, Repubblica Ceca e dal sottoscritto. Lo scorso luglio, abbiamo riferito della precedente edizione 2007, qui ricordiamo che il concorso è riservato a fotogiornalisti che risiedono nella Repubblica Ceca. Fotografo dell’anno è stato nominato David W. Cerny (Reuters), per la sua immagine di un colossale incidente automobilistico avvenuto il venti marzo sull’autostrada D1, nella Repubblica Ceca (qui sotto). Degli altri numerosi premi riferiremo sul prossimo numero.

FOTO SCIENTIFICA DELL’ANNO. La prestigiosa rivista Science ha assegnato la palma della fotografia scientifica più bella del 2008 a La foresta di cristallo, di Mario De Stefano, ricercatore del Dipartimento di Scienze Ambientali dell’Università Federico II di Napoli. La fotografia premiata è stata realizzata con un microscopio elettronico a scansione (in alto, a destra). Laureato con lode in Scienze Biologiche, Mario De Stefano è un esperto di livello internazionale di biologia delle alghe. Autore di oltre tren-

MARIO DE STEFANO

stata photo editor a D-La Repubblica delle Donne; da marzo 2004 ricopre lo stesso incarico per Corriere della Sera Magazine. Ha tradotto dal russo saggi pubblicati su La Repubblica e ha partecipato a seminari organizzati dal TPW. Abbiamo già parlato di lei, quando abbiamo presentato Un giorno nella vita dell’Italia (FOTOgraphia, marzo 2008).

Diatomee, microalghe unicellulari verdi che raggiungono la dimensione di un milionesimo di metro. Le diatomee producono il quaranta per cento dell’ossigeno totale nell’atmosfera.

Fotografia di David W. Cerny (Reuters): Czech Press Photo 2008. (a sinistra) In Kosovo sopravvivono le comunità Rae, zingari stanziali di origine Rom Ashkali Egiziani: vivono accanto alle discariche, dove recuperano indumenti e cibi guasti.

tacinque articoli scientifici e tre libri, è considerato uno specialista di fotografia al microscopio elettronico. In un periodo nel quale infuriano le polemiche sulla qualità dei nostri ricercatori e dei nostri docenti universitari, al contrario, questo premio testimonia dell’esistenza di punti di eccellenza nella nostra Università. Capito Mariastella Gelmini?

FALLISCE DIGITAL RAILROAD. Improvvisamente, lo scorso trenta ottobre, dai siti di molte importanti agenzie fotografiche internazionali, come Ipn Stock, VII Photo, Noor, Redux, New York Times, Grazia Neri, De Agostini Picture Library, Bruce Coleman Usa, Learning Pictures, Woodfall Wild Images, e anche da quelli di molti fotografi è risultato impossibile scaricare fotografie in alta risoluzione, e poco dopo si è chiuso pure l’accesso. Che è successo? Digital Railroad, una compagnia statunitense della Silicon Valley, che si era affermata a livello internazionale offrendo a fotografi e agenzie la possibilità di avere un sito per la vendita online della fotografie, ha fatto bancarotta. Così, senza nessun preavviso. Si mormora che in pochi anni la compagnia abbia bruciato almeno venti milioni di dollari (circa quindici milioni di euro al cambio attuale). Qualche preavviso ai clienti? Sì, meno di ventiquattro ore. È il primo devastante disastro che arriva dalla nuova tecnologia digitale. Un paio di settimane di blocco delle vendite, prima che si potesse porre rimedio, trovando un nuovo provider. a cura di Lello Piazza


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ASTRID KIRCHHERR

MORIRE A (in alto) Backbeat, in Italia Backbeat Tutti hanno bisogno di amore, è il film di Iain Softley (Inghilterra e Germania, 1994) che racconta la storia d’amore tra la fotografa tedesca Astrid Kirchherr e Stu Sutcliffe, che lasciò i Beatles per rimanere ad Amburgo con lei. Gli attori Sheryl Lee e Stephen Dorff sono adeguatamente allineati alle personalità che interpretano, a margine dei primi passi dei Fab Four, in anticipo temporale sulla loro autentica esplosione planetaria. Stu Sutcliffe è mancato il 10 aprile 1962, senza aver avuto modo di compiere ventidue anni.

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ll’anagrafe Stuart Fergusson Victor Sutcliffe, Stu Sutcliffe è mancato ad Amburgo il 10 aprile 1962, senza aver avuto modo di compiere ventidue anni; era nato il 23 giugno 1940. Dalla cronaca alla storia, oggi è ricordato come promettente pittore, e le opere che ha lasciato sono apprezzate, ammirate e, per quanto valga rilevarlo,

A ASTRID KIRCHHERR (6)

Nel film Backbeat, Astrid Kirchherr entra in scena anche con un suo autoritratto esposto in un locale notturno di Amburgo. Ricostruzione scenografica e realtà; appunto: Autoritratto, del 1960.

Tra realtà e immaginazione, Backbeat è un film che racconta almeno due storie: l’origine dei Beatles, tra i bassifondi di Amburgo, nel 1960, e l’amore tra Astrid Kirchherr e Stu Sutcliffe. Morto senza aver avuto modo di compiere ventidue anni

quotate (www.stuartsutcliffeart.com). Ancora dalla cronaca alla storia, Stu Sutcliffe è stato anche un modesto chitarrista basso, modesto per propria ammissione. Amico di John Lennon, suo compagno all’Art College di Liverpool, insieme a Paul McCartney, George Harrison e Pete Best (successivamente sostituito alla batteria da Ringo Starr), fece parte della prima formazione dei Beatles.


VENT’ANNI Astrid Kirchherr ha conosciuto quelli che sarebbero diventati i Beatles nella seconda metà del 1960, ai tempi del loro primo ingaggio ad Amburgo, dove suonavano in un locale di infimo ordine, nel quartiere di St. Pauli. Si considerava esistenzialista, al cui movimento si era avvicinata, ventenne, alla fine degli anni Cinquanta. A questo proposito, in una intervista rilasciata alla stazione radio della Bbc, sabato 26 agosto 1995, in occasione della rievocazione On The Beat, affermò che «Eravamo solo degli adolescenti; la nostra filosofia era di vestirci di nero e incamminarci osservando il mondo attorno con malumore e malinconia. Naturalmente, avevamo un riferimento ben preciso in Sartre. Ci ispirammo agli artisti e agli scrittori francesi, perché erano vicini a noi occidentali, mentre l’Inghilterra era talmente lontana e gli Stati Uniti erano fuori questione. Così provammo a pensare e a vivere come gli esistenzialisti francesi. [...] Noi perseguivamo la libertà, volevamo essere diversi e provammo ad essere distaccati, scettici». Il film Backbeat è pervaso da questa filosofia.

Il 16 agosto 1960, data storica della musica rock, partì insieme agli altri quattro Beatles e ad amici di contorno per Amburgo, in Germania, dove il gruppo aveva ottenuto un ingaggio per suonare in uno dei locali sulla Reeperbahn, la strada del quartiere di St. Pauli, centro della vita notturna e della prostituzione legalizzata. Proprietario di più locali, tra i quali il Kaiserkeller, dove i cinque di Liverpool avrebbero suonato tra uno strip e l’altro, alternandosi ad ulteriori attrazioni di identico profilo, Bruno Koschmider non rimase certo impressionato dai futuri Beatles: «Erano vestiti malissimo: camicie di poco prezzo e pantaloni per nulla puliti. Avevano sporche anche le unghie», ha raccontato a Philip Norman, autore di una delle storie più credibili dei Beatles, dove si rintracciano rievocazioni verosimili, non inquinate da interpretazioni di maniera (Shout!, 1981; edizione italiana coeva, nella traduzione di Michele Lo Buono, per Mondadori). Da capo, Stu Sutcliffe è morto a vent’anni, e con lui ha perso parte della sua vita, per molto tempo tutta la

Catalogo autografato di una mostra di Astrid Kirchherr alla Govinda Gallery, di Washington, che la rappresenta e che ha proiettato le sue fotografie nel mercato della fotografia contemporanea. Nel novembre 1960, all’indomani del loro primo incontro nel locale dove si esibivano, i Beatles furono fotografati da Astrid Kirchherr a Der Dom, il parco di Amburgo dove c’era un luna-park. Posarono con le loro chitarre e col tamburo militare di Pete Best (il batterista che successivamente sarebbe stato sostituito da Ringo Starr) vicino ai carrozzoni del luna-park e sull’ampio cofano di un trattore. John aveva la sua nuova chitarra Rickenbacker e il mancino Paul la vecchia Club 40 (di John), che teneva con il battipenna capovolto. Dai bianconero originari alla ricostruzione cinematografica.

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© ASTRID KIRCHHERR ASTRID KIRCHHERR

Stu Sutcliffe nella fototessera di un suo documento di identificazione e giocoso ritratto realizzato con Astrid Kirchherr in una cabina automatica [ FOTOgraphia, ottobre 2005].

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sua vita, anche Astrid Kirchherr, di due anni più “vecchia”, per la quale il giovane scozzese, nato a Edimburgo, lasciò i Beatles, per rimanere ad Amburgo.

BACKBEAT Proprio questo amore, fino al triste epilogo, è il filo conduttore del film Backbeat, che in Italia si è accompagnato con un sottotitolo esplicativo, quanto banalizzato: Backbeat - Tutti hanno bisogno di amore. Firmata da Michael Thomas e Iain Softley, anche regista, la sceneggiatura è circoscritta ai due anni iniziali dei Beatles, che avviarono la propria folgorante parabola con le serate di Amburgo. Non si va oltre, non si approda alla beatlesmania, che sarebbe esplosa di lì a qualche settimana, per limitare le luci della ribalta alla storia di Stu e Astrid, che sullo schermo sono interpretati da Stephen Dorff e Sheryl Lee, fisicamente assolutamente somiglianti e compresi nella leggenda che avvolge la storia originaria. Allo stesso modo, nel film non si attribuiscono a Astrid Kirchherr due grandi meriti, che invece ha avuto: quelli di aver delineato la pettinatura a caschetto e disegnato il taglio di abito/divisa (con giacca priva di colletto), autentici marchi di fabbrica dei Fab Four delle origini. La sceneggiatura ha ritoccato un poco anche la sua personalità fotografica, in relazione alla quale su queste pagine ci occupiamo del film. Sullo schermo, e in Dvd, Astrid Kirchherr si propone come fotografa già in attività, e per questo è introdotta da un autoritratto esposto in un locale notturno [a pagina 28, l’accostamento tra la ricostruzione cinematografica e l’originale]. Nella realtà, era assistente di Reinhart Wolf, uno dei capisaldi della fotografia del secondo Novecento (lo scorso settembre abbiamo richiamato la sua monografia New York ), che aveva avuto come tutor nel corso di fotografia seguìto alla Meisterschule di Amburgo. Dal nostro particolare punto di vista, riconosciamo a Backbeat - Tutti hanno bisogno di amore di aver dato spazio alla combinazione con la fotografia di Astrid Kirchherr, che ha avuto l’onore (storico?) di realizzare i primi ritratti autenticamente tali dei Beatles/Pre-Beatles: posati in studio o per strada, che oggi sono celebrati da attenzioni mercantili. Qui corre l’obbligo precisare che la stessa Astrid Kirchherr, dopo decenni di esilio volontario, peraltro registrato dal puntuale Shout!, di Philip Norman (infarcito di errori di definizione e identificazione di nomi propri: anche in originale?, non sappiamo), ha spolverato le sue fotografie di allora, che dagli anni Novanta sono state esposte in mostre e allestite in monografie illustrate. Tra l’altro, e in richiamo al nostro titolo odierno, ci fa piacere che sia rinata dalla sepoltura intenzionalmente perseguita all’indomani della morte dell’amato Stu Sutcliffe. Registriamo, quindi, che Astrid Kirchherr è rappresentata dalla Govinda Gallery di Washington (1227 34th Street NW; 001-2023331180, fax 001-202-6250440; www.govindagallery.com) [a pagina 29, un catalogo autografato, presso la quale, nel giugno 1994, in coincidenza con l’uscita nelle sale del film Backbeat, ha avviato la propria rinascita, con la mostra Liverpool


ASTRID KIRCHHERR

Days, le cui immagini sono state raccolte in volume da Genesis Publications. Successivamente, la stessa casa editrice inglese ha curato anche le monografie Golden Dreams (1996), Hamburg Days (1999), con Klaus Voormann (che meriterebbe un capitolo a sé, a partire da questa stessa vicenda oggi raccontata) e When We Was Fab (2003).

MAURIZIO

E

FILIPPO REBUZZINI, ALLA MANIERA DI FOTOGRAMMI. FOTOGRAFI

E FOTOGRAFIA NEL CINEMA

LIVE (PER DIRE) Fotografia nel cinema: combinazione spesso ospitata su queste nostre pagine. Così, registriamo che la realtà della sessione di posa in un parcheggio di carrozzoni da luna-park, del novembre 1960, della quale si era a conoscenza, rivive nella ricostruzione cinematografica di Backbeat - Tutti hanno bisogno di amore. L’affascinante sequenza passa dai volti dei Beatles alla loro proiezione nel mirino della Rolleicord, alle fasi di sviluppo della copia bianconero, alla stampa tra le mani dei musicisti inglesi [a pagina 28]. E poi, ancora, il film si allunga e attarda su altre sessioni fotografiche, con ritratti posati del solo Stu Sutcliffe [a pagina 32]. Leggiamo da Shout!, di Philip Norman, sottotitolato La vera storia dei Beatles (dalla prima edizione negli Oscar Mondadori, del novembre 1981). Quando alla fine Astrid acconsentì ad andare al Kaiserkeller, Stu e Klaus Voormann erano diventati buoni amici. Klaus la portò lì una sera, vestita con la sua giacca nera di pelle da exi, il viso pallido, i capelli cortissimi e spettralmente fredda. Quando i Beatles cominciarono a suonare, anche lei ne fu conquistata, istantaneamente. «Mi innamorai di Stuart quella stessa notte. Era molto piccolo, ma perfetto in ogni suo lineamento. Molto pallido, ma tanto, tanto bello. Era come un personaggio di un racconto di Edgar Allan Poe». A propria volta, i Beatles erano lusingati dall’interesse di questa ragazza delicata, bellissima, dagli occhi spettrali, così diversa dalle solite frequentatrici della Freiheit. E furono ancora più lusingati quando, con le sue poche parole di inglese, Astrid chiese se poteva fotografarli. Si incontrò, il giorno dopo, con tutti e cinque al Reeperbahn e li portò a Der Dom, il parco cittadino, dove c’era un luna-park che veniva ad Amburgo due volte l’anno. Astrid li mise in posa, con le loro chitarre e col tamburo militare di Pete Best, vicino a uno dei carrozzoni del luna-park, poi sull’ampio cofano di un trattore. Poiché John aveva ormai la sua nuova chitarra Rickenbacker, Paul si era fatto prestare il vecchio modello Club 40, reggendolo, ancora una volta, con il battipenna capovolto [appunto, a pagina 28]. Oltre alle costose macchine fotografiche e alla giacca di pelle, Astrid aveva una piccola automobile personale. Finito di scattare le fotografie, la ragazza invitò i cinque Beatles a prendere il tè a casa sua, ad Altona. Pete Best rifiutò, dicendo di dover andare a comprare delle pelli nuove per i tamburi della sua batteria. Gli altri quattro si stiparono in men che non si dica intorno alla ragazza. «Conobbero mia madre, che ne rimase profonda-

Doppia esposizione di Stu Sutcliffe, realizzata da Astrid Kirchherr nel 1961.

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I titoli di coda di Backbeat scorrono su una sequenza che non fa parte del film. In riva all’oceano, Astrid Kirchherr fotografa i Beatles. In sovraimpressione, l’annotazione della morte di Stu Sutcliffe, il 10 aprile 1962, per emorragia cerebrale, senza aver avuto modo di compiere ventidue anni.

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mente impressionata, così come lo ero stata io. Appena li vide, volle dare loro da mangiare». Astrid li portò di sopra, nello studio bianco e nero che aveva progettato personalmente. Loro rimasero a bocca aperta, vedendo il tavolo col piano di vetro e le lenzuola di raso nero del letto. Rimasero lì seduti, al lume di candela, bevendo tè e mangiando panini al prosciutto. «Avrei voluto parlare con loro, ma a quel tempo conoscevo solo qualche parola d’inglese. John sembrava duro, cinico, sarcastico, ma anche qualcosa di più. Paul sorrideva... sorrideva sempre ed era diplomatico. George non era che un ragazzino con i capelli alti e le orecchie a sventola. Disse che non sapeva che la Germania avesse panini al prosciutto. «Volevo parlare con Stuart. Cercai di chiedergli se potevo fargli il ritratto, ma lui non capiva. Sapevo che avrei dovuto per forza chiedere a Klaus di aiutarmi a parlare meglio in inglese». Il piacere di essere fotografati da una bellissima ragazza tedesca dai capelli biondi non fu nulla rispetto a quello provato alla vista delle fotografie stesse, che non erano le solite istantanee scattate dalla prima persona di passaggio, in genere nel momento meno adatto possibile. Si trattava di stampe di formato grande e a grana grossa, fatte apparire, come per incanto, dalle nicchie della stanza di raso nero, e mostravano i Beatles così come loro non si erano mai immaginati prima. L’obiettivo di Astrid, infatti, aveva colto quell’aspetto di loro che attirava intellettuali come Klaus e lei: il paradosso di teddy boy con la faccia da bambini; di pretesa durezza e di indistinguibile candore onniprotettivo. Le massicce e pesanti macchine del luna-park, su cui sedevano, sembravano simboleggiare il loro lieve ma fiducioso posarsi sulla vita adulta. John, con il suo colletto rialzato, che stringeva con forza la sua nuova Rickenbacker; Paul, inclinato, scontento di una chitarra scartata da un altro; George, così in-

fantile; Pete Best, così riservato, un po’ di lato: ogni immagine aveva in sé la propria vera profezia. In una fotografia, Stu Sutcliffe gira le spalle agli altri, il lungo braccio della chitarra è rivolto a terra. Questa fu la prima di molte sedute fotografiche con Astrid nelle settimane che seguirono. Ogni volta lei li metteva in posa, con o senza chitarra, sullo sfondo di qualche parte dell’Amburgo industriale: le banchine o lo scalo di smistamento delle ferrovie. Era prodiga di copie di fotografie e di inviti a pranzo a casa sua. «Preparavo loro tutte le cose inglesi di cui sentivano la mancanza: uova strapazzate e patatine fritte». Intanto, con l’aiuto di Klaus Voormann, il suo inglese continuava sempre a migliorare. Al Kaiserkeller, una parte del pubblico era ormai costituita da exi portati da Astrid e da Klaus. Diventò di moda, tra loro, vestirsi, come i rockers, di pelle e con i jeans attillati. La musica dei Beatles apparteneva alla stessa conversione intellettuale. Ben presto gli exi ebbero i loro tavoli riservati vicino al palcoscenico. E sempre tra loro sedeva, con Klaus Voormann o da sola, la ragazza che non seguiva nessuna moda se non la propria, in attesa del momento in cui, a notte inoltrata, John e Paul si facevano da parte e si faceva avanti Stu Sutcliffe, con il suo pesante basso, per cantare la ballata di Elvis Love Me Tender. Morire a vent’anni. M.R. Ricerca iconografica di Filippo Rebuzzini

ASTRID KIRCHHERR (4)

Soprattutto, Astrid Kirchherr realizzò numerosi ritratti di Stu Sutcliffe, del quale si era innamorata, contraccambiata. Ancora, dalla realtà alla ricostruzione cinematografica.



PAESAGGI U


OTTOBRE: FIRENZE

VIA VIA;

1998

UMANI

Il Calendario Epson 2009, il nono dell’edizione avviata nel 2001, è illustrato con dodici fotografie di Massimo Vitali: al solito copie originali 24x30cm prodotte con stampanti Epson, incollate sulle tavole mensili. Con l’occasione, riprendiamo i termini della fotografia di un autore italiano contemporaneo proiettato nel panorama internazionale della fotografia d’arte: riflessioni, annotazioni tecniche e osservazioni trasversali

C

onosco Massimo Vitali da decenni, da prima che intraprendesse la strada espressiva che sta percorrendo da una dozzina di anni, e che presentammo, ai propri albori, in FOTOgraphia del dicembre 1995: Spiagge italiane, in anticipo temporale sulle celebrazioni che lo hanno proiettato nel panorama internazionale della fotografia contemporanea d’autore. In questo senso, dopo l’esposizione alla Galleria Cons Arc, di Chiasso, in Svizzera, tra la fine del 1995 e l’inizio del 1996 -probabilmente la prima uscita pubblica-, si considera pietra miliare la monografia originaria Beach & Disco, di Steidl Verlag, del 1999, dalla quale possiamo datare che tutto sia anche cominciato. Massimo Vitali, classe 1944, è approdato a questa attuale visione fotografica, che stiamo per richiamare con l’occasione del Calendario Epson 2009, al culmine di lunghe e approfondite esperienze professionali. Non sorprenda, quindi, che la sua attuale espressività sia intimamente legata a una solida intermediazione tecnica e ad antichi e nobili riferimenti lessicali. Queste immagini esprimono un grande sentimento e sono in ordine con la garbata sensibilità esistenziale del loro autore, che tratta con il medesimo rispetto i materiali, gli strumenti e i soggetti che prende a pretesto, rappresentandoli con gesto di forte personalità visiva.

(OGGI) PRE-EPSON

FEBBRAIO: DUNE

SENZA SOLE;

2001

Prima di altre osservazioni, è doveroso precisare che la riproduzione litografica sulle pagine della rivista non rende alcun merito alle fotografie di Massimo Vitali. Gli splendidi ingrandimenti


2004 NIGHT;

LUGLIO: ROSIGNANO

NOVE EDIZIONI (DIECI, NEL 2010) vviato nel 2001, con immagini di Giorgio Lotti, che è stato seguìto da altri otto autori italiani contemporanei, fino a Massimo Vitali per il 2009, quello Epson si è affermato come il Calendario: e qui commentiamo la Maiuscola consapevole e volontaria. Per quanto rientri nel novero delle edizioni d’arte illustrate, estranee alla identificazione di date, che lasciamo al calendario detto “olandese”, in versione con o senza santi, questo Epson ha il valore aggiunto di segnalare particolari e convincenti interpretazioni della fotografia italiana: Giorgio Lotti, Franco Fontana, Mario De Biasi, Giovanni Gastel, Mimmo Jodice, Ferdinando Scianna, Gian Paolo Barbieri, Gianni Berengo Gardin e, in stretta attualità, Massimo Vitali. Quindi, è Calendario, avendo imposto i connotati di una edizione raffinata, oltre che colta. In tiratura limitata di milletrecento copie numerate, è un autentico manufatto impreziosito da stampe originali incollate sulle tavole mensili. In stretta attualità tecnica, le quindicimilaseicento stampe fotografiche 24x30cm dei Paesaggi umani di Massimo Vitali, del Calendario Epson 2009, sono state realizzate con Epson Stylus Pro 4880: ne sono occorse tre, in produzione simultanea presso la fotolito Prestampa Topcolor, per una bobina immaginaria di carta fotografica Epson Premium Luster di cinque chilometri di lunghezza e ventitré litri di inchiostro. Ancora: sessanta giorni di lavoro per stampare le tavole, preparare i dorsi, applicare le stampe sulle pagine e assemblare i calendari (realizzato tutto da Punto Offset, su progetto creativo Trait d’Union, la società di comunicazione che ha realizzato la veste grafica).

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MARZO: PIC-NIC ALLÉE; 2000

A

di generose dimensioni, ottenuti da negativi colore 11x14 pollici e 8x10 pollici (27,9x35,6cm e 20,4x25,4cm!), vivono soprattutto come originali fotografici destinati al circuito della fotografia d’autore. Il loro splendore formale, specchio di una lucentezza di contenuti, appartiene giusto alle singole opere, che in riproduzione sulle pagine della rivista presentano e offrono


SGUARDI DALL’ALTO

D

ato il contenitore “rivista specializzata” (con ampia interpretazione), non si possono presentare le opere fotografiche di Massimo Vitali senza commentare il metodo con il quale, e grazie al quale, le ottiene. La lezione è antica, tant’è che questo sguardo partecipe e nello stesso tempo estraniato dalla realtà, apparecchiato con un punto di vista alto, va fatto risalire alle regole prospettiche sintetizzate nel Rinascimento. In particolare ci si deve obbligatoriamente riferire alla codificazione della scena teatrale espressa da Sebastiano Serlio (nel suo Secondo libro della prospettiva, del 1545), che per primo stabilì il punto di vista privilegiato del principe: a una certa distanza dal palco, e soprattutto a cinque metri e mezzo di altezza. La prospettiva teatrale parte da lì, e ovviamente il principe era l’unico che vedeva bene tutta la scenografia e che godeva appieno di ogni dettaglio scenico. Attraverso il microcosmo dei riti del tempo libero, a partire dalle spiagge originarie, anche Massimo Vitali osserva il mondo dall’alto: e questo dà alle sue inquadrature e composizioni un senso di benevola autorità; la stessa del principe, peraltro assolutamente diversa dalle crude visioni di quegli autori che sono soliti imporre all’osservatore il proprio stato d’animo acrimonioso e la propria cinica severità di intenti. Lui pure lavora da quei cinque metri e mezzo di altezza caratteristici della prospettiva teatrale del Rinascimento. Questo sarà anche un punto di vista in qualche misura imposto dalla necessità di disporre i movimenti di basculaggio degli apparecchi grande formato 11x14 pollici e 8x10 pollici (27,9x35,6cm e 20,4x25,4cm!) che usa, finalizzati come sempre alla massima estensione della nitidezza, favorita dalla distribuzione di un confortevole piano di messa a fuoco; ma è soprattutto una visione e prospettiva che libera la composizione fotografica da ogni fastidio fisico provocato dal contatto diretto e tangibile con il soggetto e la situazione. Come il principe rinascimentale, e come gli operatori Alinari dell’Ottocento, che pure guardavano l’architettura urbana dall’alto, dall’altezza anche Massimo Vitali può notare che qualcosa non va, ma è magnanimo e può aspettare che il teatrino che si manifesta sul vetro smerigliato si disponga in modo coerentemente adatto alla rappresentazione desiderata. Il vetro smerigliato diventa un palcoscenico entro il quale le figure finiscono sempre per combinarsi in modo armonico. Dall’alto, sulla robusta piattaforma di un esclusivo treppiedi-impalcatura (del quale ci occupiamo in un apposito riquadro pubblicato a pagina 38, là dove presentiamo dietro-le-quinte esemplificativi), Massimo Vitali allestisce la propria sessio-

SETTEMBRE: DONNA TIROLESE; 2002

DICEMBRE: VENEZIA CORIANDOLI; 2007

ne fotografica con una nobile Deardorff 11x14 pollici in legno (FOTOgraphia, maggio 1998), alternativamente usata a pieno formato oppure con il dorso di riduzione 8x10 pollici. Gli obiettivi sono di focale lunga, in modo da stabilire una consistente area di stacco e separazione con il reale. Tutto ciò che vuole esprimere, Massimo Vitali se lo figura interiormente, fino al momento decisivo dell’intero processo di realizzazione dell’immagine, prima dell’attimo nel quale scatta: a un sessantesimo di secondo, o giù di lì, più decenni di esperienza visiva. È sempre imbarazzante scomodare personaggi, ma in questo caso ci pare assolutamente necessario ricordare ciò che ha rilevato/rivelato il tedesco Reinhart Wolf, una delle più autorevoli personalità fotografiche del nostro tempo, immaturamente scomparso nel 1990 (ricordato in FOTOgraphia dello scorso settembre 2008, in relazione al progetto New York, e citato ancora su questo numero, a margine di altre considerazioni, a pagina 30). A proposito dell’utilizzo del grande formato 8x10 pollici per le inquadrature dei castelli di Spagna e delle facciate dei palazzi di New York (che furono definite come una tacita reazione all’istantanea, un ragionamento contro la casualità in favore di immagini a lungo meditate e accuratamente rifinite, contro il fracasso per la quiete), Reinhart Wolf affermò che «l’immagine che si forma sul vetro smerigliato degli apparecchi fotografici grande formato è più sincera di quella che appare nei mirini delle macchine più piccole. La prima occhiata all’inquadratura è il momento della verità. L’inquadratura che io ho definito, in quel momento definisce me». Infine, una domanda è lecita, anche se può rimanere sospesa: è il fotografo che sceglie il proprio mezzo espressivo, oppure si tratta di due coerenti personalità che finiscono inevitabilmente per incontrarsi? Fatto sta che l’intensa intimità di molti lavori, come questo di Massimo Vitali, dipende anche da una complicità di intenti psicologici tra l’autore e la propria ordinata infrastruttura tecnica, capìta e rispettata. Il rito della sessione fotografica di Massimo Vitali esprime giusto questo. Pare quasi che lui collabori con i propri strumenti più che forzarli verso una costruzione impersonale. Si può osservare come Massimo Vitali dispone mirabilmente i singoli elementi; il ritmo delle fasi operative sembra calmo, quasi placido. Quando inserisce lo châssis, oppure solleva il volet, li afferra e sistema con cura. Dunque, la sua è una fotografia felice, non tanto in misura del proprio dominio sull’infrastruttura che la genera, ma, più profondamente, in misura di una equilibrata convivenza con i soggetti che rappresenta nell’inquadratura.

soltanto la loro apparenza, che rimanda ad altra sostanza. Questo affascinante e avvincente progetto di Massimo Vitali, che dalle originarie Spiagge italiane si è poi spostato in altre manifestazioni evidenti del tempo libero (appunto, Beach & Disco, che Steidl ha raccolto nella monografia già citata), sconfinando poi ancora oltre, ha preso avvio nell’estate 1994, quando è

stato realizzato un primo scatto sul litorale di Pietrasanta. Già nelle intenzioni di partenza, le spiagge hanno costituito un insieme omogeneo: come abbiamo appena annotato, subito ipotizzato in proiezione verso un più vasto corpus di “tempo libero”. Però, a ben guardare, la spiaggia ha finito per prevalere su molto, imponendosi soprattutto in virtù della propria

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AGOSTO: PAPEETE BEACH; 2004

spontanea serenità caratteristica, che non si incontra in alcun altro luogo verso cui Massimo Vitali si è incamminato. Quasi a dire che nell’insieme della vita da spiaggia matura una sorta di autenticità unica: la gente pare più vera qui che altrove. Il tragitto fotografico che ha portato Massimo Vitali alla mirabile sintesi visiva del piccolo mondo della spiaggia, adottato come simbolo del tempo libero, a propria volta metafora di più generali condizioni esistenziali, è partito da lontano. L’inizio va addirittura ricercato nel reportage sociale della seconda metà degli anni Sessanta, e le tappe intermedie segnalano poi l’impegno professionale di Massimo Vitali nel cinema e nella visione panoramica a obiettivo rotante, che alla fine degli Ottanta ha segnato il suo autorevole ingresso nella fotografia di ricerca, ovvero d’autore: impeccabile è stata la mostra di stampe bianconero di grandi dimensioni allestita alla Casa di Cultura Italiana di Colonia l’autunno 1994, in contemporanea con lo svolgimento della Photokina. Diversamente dal fotogiornalismo politico di quarant’anni fa (e il tempo scorre inesorabile), e differentemente dalla rappresentazione orbicolare dell’obiettivo rotante, la più attuale fotografia di Massimo Vitali è svolta con uno scrupolo tecnico e una attenzione applicata con i quali e sui quali è stato edificato un linguaggio espressivo autonomo e innovativo. Per quanto è vero che il posto unico occupato dall’uomo nella natura sia soprattutto dovuto alla sua capacità di fabbricare utensili, e quindi di modellare la natura stessa, l’impegno in fotografia di Massimo Vitali è stato costruito sul pertinente e perfetto connubio tra antichi insegnamenti di rappresentazione visiva e

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Per realizzare un punto di vista alto, stabile e sicuro, Massimo Vitali ha costruito un apposito treppiedi-impalcatura. Realizzata dopo una precedente versione di altra tecnologia applicata, l’attuale configurazione in Carbonio consente la ripresa da cinque metri abbondanti di altezza e dispone di una piattaforma sulla quale possono agire due persone.

moderni strumenti di raffigurazione, che approfondiamo nell’apposito riquadro pubblicato a pagina 37.

(OGGI) EPSON 2009 In curiosa sintonia di date con il Portfolio, esposto nell’ambito del LuccaDigitalPhotoFest 2008, e il Premio Fondazione Arpa, che gli è stato consegnato la sera del ventinove novembre, all’inter-


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APRILE: PIAZZA DI SPAGNA; 2007

GIUGNO: ANIMALETTI; 2004


MAGGIO: CALAFURIA; 2003

NOVEMBRE: OISTDUNKIRKE; 2001

TUTTO ATTORNO

no dello stesso contenitore (FOTOgraphia, novembre 2008), con Paesaggi umani, Massimo Vitali è l’autore che illustra il Calendario Epson 2009: con Maiuscola consapevole e volontaria, come commentiamo nel riquadro pubblicato a pagina 36. Alla nona edizione del suo Calendario, anche quest’anno Epson incontra e sposa la fotografia italiana d’autore, una volta ancora interpretata con tecnologia di stampa a getto di inchiostro e materiali dedicati: milletrecento esemplari di straordinaria qualità formale, allineata alle emozioni che suscitano le immagini che si alternano sulle dodici tavole mensili. «Sono soddisfatto quando la lettura delle mie fotografie è complessa o contraddittoria, e sono curioso fino al limite del voyeurismo, affascinato dal comportamento degli individui, pur senza cercare di comprenderne il significato», ha rilevato Massimo Vitali, introducendo questa edizione, per propria natura rivolta e indirizzata a un pubblico diverso da quello delle sue mostre e monografie. «Il mio intervento è neutro, non faccio che registrare: attendo che qualcosa mi accada davanti, perché ciò che succede definisce l’immagine. L’esperienza fotografica diventa una pratica aperta per un’esperienza del mondo». I Paesaggi umani del Calendario Epson 2009 alternano

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GRANDE;

GENNAIO: LES MENUIRES

urata da Gerry Badger, apprezzato storico internazionale (del quale ricordiamo almeno altri tre volumi, i due The Photobook: History, con Martin Parr, e Five Great Documentary Photographers, con Mary Pezner e Mark Durden), The Genius of Photography è un fantastico percorso attraverso i decenni definiti e disegnati dalla Fotografia. Il sottotitolo è esplicito: How photography has changed our lives, ovvero come la fotografia a cambiato le nostre vite. L’edizione libraria raccoglie le sei puntate di un programma televisivo prodotto dalla Bbc e venduto in molti paesi, per ora non in Italia. Ma, soprattutto, tra le tante fotografie prese in considerazione, la copertina è illustrata con una delle spiagge di Massimo Vitali: appunto, genius of photography. Ancora, insieme a Harvey Benge, lo stesso Gerry Badger è coautore di una A Short History of Photography, uno dei percorsi più minimali tra quanti hanno raccontato la storia della fotografia, in questo caso storia breve. In buona compagnia, con Camogli, 2006 (che per altro l’autore attribuito non riconosce come sua fotografia!?), Massimo Vitali è uno dei quaranta autori considerati, che all’interno della monografia non sono mai indicati: l’alfabetico in copertina fa da sommario all’edizione libraria (appunto, minimale).

2000

C

spiagge (ne abbiamo già riferito), città e persone osservate in momenti di vita quotidiana, con una interpretazione personalissima dell’immagine, che valorizza i particolari compositivi esaltando o desaturando i relativi elementi cromatici. Il risultato è sempre quello di un’immagine ad altissima risoluzione, che a poco a poco, dopo riletture consequenziali, fa scoprire dettagli sempre nuovi. È la presenza di una variegata umanità che rende unica ogni fotografia di Massimo Vitali. Dai riti delle spiagge (ancora e sempre) alla moltitudine festante in piazza San Marco, a Venezia, la notte di Capodanno 2007 (ovviamente, tavola di dicembre). E poi: Papeete Beach (2004) propone l’unica spiaggia dove si balla sui lettini, con una quantità indescrivibile di persone che a Milano Marittima si muovono a suon di musica e riempiono tutto lo spazio dell’inquadratura (agosto); quindi, Donna tirolese (2002) è stata scattata durante un concerto estivo in alta Val di Fassa, raffigurato da e con presenze rarefatte (settembre). Massimo Vitali si unisce agli autori italiani che lo hanno preceduto, firmando le precedenti edizioni del Calendario Epson: 2001, Giorgio Lotti; 2002, Franco Fontana; 2003, Mario De Biasi (FOTOgraphia, dicembre 2002); 2004, Giovanni Gastel (FOTOgraphia, dicembre 2003); 2005, Mimmo Jodice; 2006, Ferdinando Scianna (FOTOgraphia, febbraio 2006); 2007, Gian Paolo Barbieri; 2008, Gianni Berengo Gardin. L’attuale operazione 2009 ripete i connotati avviati nove anni fa: tiratura di milletrecento copie, dodici tavole mensili con stampe fotografiche in originale realizzate con Epson Stylus Pro 4880 su carta fotografica Epson Premium Luster (per un totale di ben quindicimilaseicento stampe), incollate manualmente una a una per realizzare un Calendario che è sintesi tra tecnologia ultramoderna e lavoro artigianale di alto livello. Maurizio Rebuzzini



RITORNOF SUL A venticinque anni dall’edizione originaria e a oltre trentacinque dalla scomparsa dell’autrice, la monografia Diane Arbus, proposta in edizione italiana da Photology, conferma e ribadisce lo smalto di una visione fotografica che compone i tratti di una mediazione fondamentale, addirittura di riferimento

Diane Arbus. Edizione del venticinquesimo anniversario; Photology, 2008 (via della Moscova 25, 20121 Milano; 02-6595285; www.photology.com, photology@photology.com); 184 pagine 23x28cm, cartonato con sovraccoperta; 59,00 euro; distribuzione RCS Libri. In copertina: Gemelle identiche (Identical twins), Roselle, NJ; 1967.

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igura di spicco della storia espressiva della fotografia, la statunitense Diane Arbus ha manifestato una personalità creativa quantomeno controversa e sofferta. Lei stessa ne è stata vittima, morendo suicida nell’estate 1971, a quarantotto anni. Certamente, è una autrice con la quale ogni possibile storia della fotografia deve fare i propri conti, condividendone la visione ossessiva, oppure prendendone le distanze, ma mai ignorandola. Come la sua vita, anche la morte di propria mano è stata oscura. Tra le tante annotazioni che sono state riferite, attribuite ad amici e fotografi a lei vicini (avanti tutti, Richard Avedon), c’è sempre la mancanza di messaggio di addio o spiegazione, fatto salvo un biglietto che la fotografa Lisette Model, che le fu accanto negli ultimi momenti, asserisce di aver ricevuto, e del quale ha sempre rifiutato di divulgare il contenuto. Nata Nemerov, nel 1923, in una ricca famiglia ebrea di New York, proprietaria della catena di pelliccerie Russek’s, fondata dal nonno materno emigrato dalla Polonia nel 1880, Diane Arbus ha vissuto sulla propria persona le ansie e contraddizioni di una generazione. Prima fotografa (statunitense) ad aver varcato i confini che trent’anni fa tenevano la fotografia distante e separata dall’espressione dell’arte, con una personale allestita alla (allora) selettiva Biennale di Venezia, dove nel 1972 rappresentò (postuma) il proprio paese, Diane Arbus si impose all’attenzione internazionale nel 1967, partecipando con trenta immagini alla fantastica selezione New Documents, presentata al Museum of Modern Art di New York, con la quale il curatore John Szarkowski stabilì i termini della nuova fotografia contemporanea (nella collettiva, anche Lee Friedlander e Garry Winogrand). Secondo Patricia Bosworth, che ha compilato una approfondita biografia, appunto Diane Arbus. Una biografia (Serra e Riva Editori, 1987, alla quale stiamo per riferirci, riprendendone i passi conclusivi), quella esposizione fu «un trionfo, che rese celebre Diane Arbus, ma ne accelerò anche il declino emotivo; l’artista temeva che la propria opera fosse fraintesa e, soprattutto, soffriva le nuove aspettative che il successo generava intorno a lei». [Con l’occasione, annotiamo la recente riedizione Diane Arbus. Vita e morte di un genio della fotografia, pubblicata da Rizzoli alla fine del 2006, in coda al film Fur. Un ritratto immaginario di Diane Arbus, del quale riferiamo in un apposito riquadro, pubblicato a pagina 45: nuovo titolo più appetibile da un pubblico di taglio


TORMENTO consapevolmente pettegolo (350 pagine 14x21,5cm; 18,50 euro; con fascetta esterna aggiuntiva “da questo libro il film Fur con Nicole Kidman”). Appunto].

IL SUICIDIO

Ragazzo con paglietta in attesa di marciare in un corteo a favore della guerra (Boy with a straw hat waiting to march in a pro-war parade), New York City; 1967.

THE ESTATE

OF

DIANE ARBUS

Leggiamo da Diane Arbus. Una biografia, di Patricia Bosworth (traduzione di Maria Pace Ottieri).

[Il ventisei luglio] Quella mattina Diane aveva fatto scivolare sotto la porta di Andra Samuelson una stampa della maschera della morte di Kandinsky. Andra gliel’aveva chiesta, ma Diane non aspettò di sapere se era in casa. Più tardi, fece colazione alla Russian Tea Room con Bea Feitler. Aveva accettato un lavo-

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DIANE ARBUS OF

THE ESTATE

Giovane famiglia di Brooklyn in partenza per una gita domenicale (A young Brooklyn family going for a Sunday outing), New York City; 1966.

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ro da Bud Owett per fotografie di pubblicità per il New York Times, e Owett dice che andò un momento al suo tavolo per parlarne. Il fotografo Walter Silver la incontrò per strada: «Aveva in mano una bandiera. Disse che stava per prendersi l’influenza. Disse anche che stava pensando di andarsene da New York. Le intimai di non dire sciocchezze». Il ventisette luglio il telefono suonò a lungo nell’appartamento di Diane. Peter Schlesinger continuò a chiamare per avere la conferma di una sua partecipazione a un simposio di fotografia che aveva organizzato per quella settimana e che lei

avrebbe dovuto dirigere. Anche Marvin Israel chiamò invano varie volte. Il ventotto luglio andò a Westbeth [l’edificio nel quale abitava Diane Arbus]. La trovò morta, i polsi tagliati, sdraiata su un fianco, nella vasca da bagno vuota. Aveva i pantaloni e una camicetta, il corpo era già «in stato di decomposizione». Sulla scrivania, il suo diario era aperto sul giorno ventisei luglio e per traverso erano scarabocchiate le parole: «l’ultima cena». Non venne trovato nessun altro messaggio, ma Lisette Model dice di aver ricevuto un biglietto di cui rifiuta di divulgare il contenuto. Circolò anche una voce secondo cui Diane avrebbe preparato


TERRIBILE TRASPOSIZIONE CINEMATOGRAFICA

S

oprattutto nel circuito fotografico, nell’autunno 2006 ha destato scalpore il film Fur. Un ritratto immaginario di Diane Arbus, presentato e lanciato con grande clamore al Primo Festival del Cinema di Roma, che inaugurò venerdì tredici ottobre, una settimana prima di arrivare ufficialmente nelle sale, dal successivo venti ottobre. Come ne riferimmo in cronaca, in FOTOgraphia del novembre 2006, Fur ha richiamato l’attenzione dei media prima di altro, e soprattutto, per la protagonista Nicole Kidman, attrice da prima pagina nella cronaca rosa internazionale. Su un’altra lunghezza d’onda, il mondo fotografico è stato invece attirato dalla trama annunciata, peraltro anticipata e sottolineata nel titolo. Firmato dal regista Steven Shainberg, che nel 2002 fu acclamato per la direzione dell’affascinante Secretary, nonostante il richiamo esplicito, Fur. Un ritratto immaginario di Diane Arbus è un film niente affatto fotografico. Infatti, per quanto Patricia Bosworth, autrice della Biografia che richiamiamo nel corpo centrale dell’attuale intervento redazionale, sia tra i co-produttori della pellicola, la sceneggiatura di Erin Cressida Wilson non ha alcun debito di riconoscenza con il suo testo. Semmai, rileviamolo, Fur. Un ritratto immaginario di Diane Arbus si è limitato, non soltanto attardato, sull’ossessione della fotografa per i definiti “freaks” (nota qui accanto), soggetto esplicito, addirittura unico, della sua concentrata parabola visiva. Se proprio vogliamo, il film descrive la formazione dell’espressione artistica (fotografica) di Diane Arbus, indipendente dall’avvio di una professione nell’ambito della moda e pubblicità a fianco del marito Allan [per la cronaca, Allan Arbus lasciò la fotografia commerciale, per intraprendere una carriera di attore: lo troviamo soprattutto in serie televisive, con marginali apparizioni sul grande schermo]. In particolare, più esplicitamente di come raccontato nella Biografia, il film sottolinea la ribellione interna a una condizione perbenista familiare, e ai relativi obblighi di casta. Dopo di che, dovere di botteghino a parte, siamo stati personalmente stupiti dalla scelta di Nicole Kidman: ci saremmo aspettati una Diane Arbus meno fascinosa, meno leggera e più compresa nella propria triste esasperazione.

NOTA. Ricordiamo che “freaks”, che identifica i fenomeni fisici le cui anomalie sono state messe a frutto nei circhi e spettacoli itineranti di fine Ottocento e inizio Novecento, è un termine che ha diversi significati, tra i quali il riferimento che la cultura statunitense underground ha coniato per coloro i quali non si adeguano alle regole della società (cosiddetta) civile. Nel proprio intendimento originario, indica persone con particolari mostruosità e deformità fisiche, tali da collocarle in contesti estranei alla vita sociale quotidiana. Etimologicamente, ci si riferisce al film Freaks, del 1932: un horror del regista Tod Browning, che accese le luci della ribalta su una serie di personaggi da “corte dei miracoli” (che si ripete nel cinematografico Fur. Un ritratto immaginario di Diane Arbus). A questo proposito, è obbligatorio ricordare che si tratta di un film che la stessa Diane Arbus è andata ossessivamente a vedere decine di volte, dopo che l’amico Emile de Antonio, detto semplicemente De, la portò a una prima proiezione al New York Theater, nell’Upper West Side. Annota Patricia Bosworth nella Biografia: «Era affascinata dal fatto che i mostri, nel film, non fossero immaginari, ma reali: persone minuscole, dementi, nani l’avevano sempre eccitata, stimolata, ossessionata perché sfidavano le convenzioni».

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DICE PINO BERTELLI

A

utore del saggio su Diane Arbus Della fotografia trasgressiva. Dall’estetica dei “freaks” all’etica della ribellione, Pino Bertelli è una delle (poche) firme di FOTOgraphia. Ribadiamo: poche, ma qualificate. Con forza di contenuti, i suoi Sguardi su concludono ogni numero della rivista, o quasi. Anzitutto, in accompagnamento alla presentazione dell’attuale ri-edizione della monografia Diane Arbus, pubblicata da Photology, riportiamo i dati identificativi del testo appena ricordato: Della fotografia trasgressiva. Dall’estetica dei “freaks” all’etica della ribellione; NdA, 2006, 128 pagine 21x20,5cm; 13,00 euro (ma anche: TraccEdizioni, 1994; 100 pagine 17x24cm). Quindi, riprendiamo lo Sguardo su Diane Arbus, originariamente pubblicato in FOTOgraphia dell’ottobre 2001.

D

iane Nemerov Arbus è l’angelo o il mito della fotografia maledetta. Le sue immagini, ormai celebri, di nani, handicappati, “freaks”, omosessuali, puttane... hanno contribuito a ridefinire il confine tra la “normalità” e la “devianza”, tra la ghettizzazione e l’accettazione, tra la fine della paura e la politica della bellezza. Il suo fare-fotografia è stato, forse, la più alta poetica o scrittura iconografica della nostra epoca. Il fascino inquietante della sua opera nasconde tenerezze infinite e genialità corrosive, che nulla o poco hanno a che fare con il fotogiornalismo rampante degli anni Cinquanta/Sessanta. Diane Arbus ha fotografato l’infelicità e l’ingiustizia degli esclusi, dei senza voce e di tutti gli esseri estremizzati. Le sue immagini di strada sono così profondamente antiche o moderne da non avere più età. Diane Arbus nasce da un famiglia ebrea aristocratica, nei “ghetti dorati” di New York nel 1923. Sono proprietari dei grandi magazzini Russek’s, in Fifth Avenue. Ha un’infanzia affettiva difficile con i genitori e un grande legame d’amore con il fratello, il poeta Howard Nemerov. Si sposa a diciotto anni, con Allan Arbus, un fattorino dei magazzini Russek’s, e negli anni Cinquanta raggiungono insieme un certo successo come fotografi di moda. Lavorano per le maggiori riviste del settore e le loro fotografie sono sovente pubblicate da Vogue e Glamour. Ma Diane Arbus vede altro nella macchina fotografica e lascia la mondanità e la notorietà. DELLA FOTOGRAFIA “FREAKS” Nel 1958 va a studiare la “Fotografia” con Lisette Model, un’intrigante pacifista, ritenuta troppo sinistrorsa e poco affidabile dalla “buona borghesia” newyorkese, che la inizia all’avventura o al viaggio atemporale della fotografia trasversale. Con lei apprende che «la fotografia è quello che sappiamo e quello che non sappiamo» (Lisette Model). La fotografia ha ampliato la capacità visiva, intuitiva

e culturale del mondo, ma in forme, linguaggi, surrealtà che non sempre siamo in grado di comprendere. C’è una grande differenza tra ciò che vede l’occhio e ciò che vede la macchina fotografica. Il passaggio dalle tre alle due dimensioni è infatti il luogo dove nasce la poesia della fotografia o dove muore. A trentotto anni, Diane Arbus comincia a fotografare veramente, e se Henri Cartier-Bresson ha teorizzato una fotografia di rapina e ha illuminato le percezioni del cuore e quell’altrove senza fine come pochi, Diane Arbus è riuscita a cogliere l’attimo decisivo nella posa e oltre la posa. I suoi sono stati «gli occhi più istintivi della storia della fotografia« (Lisette Model). A vedere in profondità le immagini sgangherate di Diane Arbus, per esempio Il bambino con la bomba giocattolo, si coglie una filosofia dello stupore o della tristezza dell’infanzia che si spinge là fin dove il desiderio dei quasi adatti può penetrare. «Sono nata per salire la scala della rispettabilità borghese e da allora ho cercato di arrampicarmi verso il basso, il più rapidamente possibile», ha dichiarato. È l’ignoranza dell’amore che rende le persone stupide. E l’amore è l’ombra del disincanto o l’immaginale sconosciuto dell’individuo. Diane Arbus è stata una figura rivoluzionaria e solitaria nella fotografia contemporanea, ma è riuscita a trasformare il convenzionale e il grottesco in emozio-

la macchina fotografica e il cavalletto [treppiedi] per fotografarsi morire. Quando arrivarono la polizia e il magistrato, tuttavia, non c’era traccia di macchina né di pellicola. [...] Appena lo seppe, Richard Avedon lasciò quello che stava facendo e prese il primo volo per Parigi. Voleva essere lui a dire a Doon che la madre si era uccisa. A Westbeth gli inquilini intanto discutevano del suicidio di Diane. Subito dopo cominciarono a litigare tra loro per chi avrebbe occupato l’appartamento. «Era uno dei più grandi dell’edificio», dice un commediografo. «E aveva una vista magnifica» [anche questa è New York]. Al funerale di Diane al Frank Campell, tra la Ottantesima e Madison Avenue, c’era poca gente. [...] Durante il rito funebre, [Richard] Avedon mormorò: «Vorrei poter essere un vero artista, come Diane!» e Frederick Eberstadt sussurrò in risposta, «Oh no, non devi volerlo».

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[Il fratello] Howard fece l’elogio funebre, breve. [Howard Nemerov è uno dei più famosi poeti americani del Novecento] Scrisse poi una poesia per Diane, ristampata, da allora, molte volte. A D., morta per propria mano Cara, io mi domando se prima della fine Hai mai pensato a un gioco da bambini Io so che lo conosci e ci hai giocato Che hai corso lungo il muro di un giardino Come fosse un crinale di montagna Erto sulla nevosa oscurità che si perdeva Da entrambi i lati, in baratri profondi. E quando l’equilibrio ti è mancato Hai saltato, temendo di cadere e ti sei detta Per un istante solo: forse è così morire. Era un’altra vita. Tu te ne sei andata E più non giochi al gioco degli adulti In equilibrio sul crinale, al buio Corri e non guardi in basso Né salti per paura di cadere.


DICE PINO BERTELLI ne. L’immaginazione della realtà era più forte dell’iconologia del consenso e il cinema o le favole di Alice nel paese delle meraviglie, Il mago di Oz, lo studio di Carl G. Jung, le letture di Kafka, Emily Dickinson, Louis-Ferdinand Céline, gli acquerelli di Grosz la portarono verso quella fotografia del margine che tagliava fuori la rapacità, l’ipocrisia o l’ingiustizia deposti nei valori dominanti. Fotografava la disperazione più cupa per raggiungere una gaia scienza della seduzione. Infrangeva così la notte della fotografia mercantile. Andava contro l’educazione che l’umanità si è data. Aveva compreso che la felicità dell’utopia è avere una stanza tutta per sé dove l’indecenza dell’intelligenza continua a partorire sogni e stelle danzanti. L’ANGELO DELLA FOTOGRAFIA MALEDETTA Nella visione radicale di Diane Arbus sono evidenti le tracce espressive di grandi fotografi o iconosclasti dell’immagine bella, come Brassaï, Weegee, Walker Evans, Robert Frank e August Sander; ma ciò che la chiamava fuori di ogni scuola e da ogni maestro era il senso profondo della pietas o della nobiltà del proprio sguardo di fronte ai soggetti. Che si trattasse di folli, emarginati o di solerti patrioti del “grande paese”... per lei ciò che contava era l’espressione profonda della propria condizione umana. Diane Arbus fotografava i perdenti della Terra e quando portava le cartelle con le proprie immagini crude alle gallerie o ai giornali, gli art director la cacciavano o la ignoravano, perché le sue icone del dolore venivano giudicate di “infimo ordine” e non pubblicabili o non abbastanza artistiche da essere presentate al pubblico. Diane Arbus conosceva l’orrore o lo splendore della carne, e come Imogene Cunningham, Dorothea Lange e Tina Modotti sapeva che «la fotografia è un segreto intorno a un segreto, più rivela e meno lascia capire... la fotografia è l’arte della frazione di secondo» (Diane Arbus). Le fotografie che non suscitano nessuna emozione non valgono nulla. I migliori fotografi sono sovente persone fuori dalle righe o indesiderabili dagli esegeti della cultura dello spettacolare integrato. Diane Arbus è la fotografa dell’infelicità. O, meglio, è l’espressione dell’infelicità che diviene vita quotidiana. Negli anni Sessanta, Diane Arbus è presente nelle manifestazioni contro la guerra nel Vietnam, nelle marce per i diritti civili (anche a quelle di liberazione degli omosessuali) e nelle battaglie contro la fame nel mondo. Conduce una vita randagia. Sperimenta droghe, amori lesbici, turbolenze esistenziali. Walker Evans vede in lei una cacciatrice di anime e sostiene che l’audacia delle sue fotografie contiene l’ingenuità del diavolo. Diane Arbus porta la propria macchina fotografica nei bordelli, nei ghetti, nelle strade, nei giardini pubblici, mette i soggetti in posa (come un ritrattista) e poi riempie quella fissità apparente, in una graffiante istantanea che fa del tempo dell’indicibile il tem-

Con l’occasione, dopo la traduzione, proponiamo il testo originario, così come è stata pubblicato e ripubblicato in numerose antologie di Howard Nemerov. To D-, Dead by Her Own Hand My dear, I wonder if before the end You ever thought about a children’s gameI’m sure you must have played it too-in which You ran along a narrow garden wall Pretending it to be a mountain ledge So steep a snowy darkness fell away On either side to deeps invisible; And when you felt your balance being lost You jumped because you feared to fall, and thought For only an instant: That was when I died. That was a life ago. And now you’ve gone, Who would no longer play the grown-ups’ game Where, balanced on the ledge above the dark, You go on running and you don’t look down, Nor ever jump because you fear to fall.

po della conoscenza. Un uso egualitario dell’esistenza. Il linguaggio fotografico di Diane Arbus raggiunge un’arte della trasgressione non equivocabile o sospetta nella mostra fotografica New Documents, allestita al MoMA, Museum of Modern Art di New York, che si aprì nel marzo 1967. Il disorientamento di pubblico e critica fu forte. Non tutti avevano compreso che la fotografia maledetta di Diane Arbus aveva spazzato via tutta la fotografia documentaristica tradizionale e proponeva un nuovo modo di scrivere con la luce, cioè di instaurare un rapporto di collaborazione e consapevolezza tra il soggetto e il fotografo. Il momento della fotografia era il tempo dell’angelo o la danza del gatto selvaggio, cioè il tempo nel quale fotografo e soggetto divengono qualcosa di unico e danno vita a un’immagine che è anche autobiografia, interscambio, deriva di accoglienza e reciprocità che travalica l’immediato e la retorica dei bisogni. Quella impressa nella pellicola da Diane Arbus è una teorica della malinconia dell’angelo ribelle, incentrata sui temi del Doppio, dell’Altro, della Tentazione e della Seduzione come ribellione luciferina che si scaglia contro ogni dogma e reinventa una politica della differenza dove l’etica o la poesia definisce la politica (e non viceversa). Gli attimi nudi della fotografia così fatta la portano a riflettere sul mondo e sull’uomo, ma non per interpretarlo, quanto per esaminare come l’uomo vive in questo mondo. L’imperfezione estetica o il disagio in cui l’umana imperfezione, catturata alla realtà da Diane Arbus, nasce dall’idea affabulativa dell’artista: «È importante realizzare brutte fotografie, sono proprio le brutte fotografie che rappresentano quello che non si è mai fatto prima. [...] A volte guardare nel mirino è come guardare in un caleidoscopio, lo scuoti ma può capitare che non tutto se ne vada via. [...] Cerco di fare del mio meglio per dare unità alle cose [...] la poesia, l’ironia, la fantasia, è tutto mischiato in una sola cosa» (Diane Arbus). Come è noto, tutte le opere d’arte più singolari sono in principio dirompenti, incomprese o derise, prima di diventare patrimonio della cultura comune. Il genio di Diane Arbus ha rotto con tutte le scuole, le prassi o narcisismi della scrittura fotografica come aneddoto sulla diversità o apologia della celebrazione tecnica. Ha mostrato che più un fotografo è lo stile delle proprie fotografie e più sarà universale. Il 26 luglio 1971, Diane Arbus si dà la morte. Viene trovata con i polsi tagliati nella vasca da bagno vuota. Nel proprio diario, aperto sul giorno ventisei luglio, scritte in modo obliquo, aveva lasciato le parole: «l’ultima cena». Il genio ha inizio sempre col dolore. Pino Bertelli (Una volta ottobre 2000)

RI-EDIZIONE

Raffinata e concreta galleria milanese, proiettata verso il palcoscenico internazionale del mercato della fotografia d’autore, Photology propone oggi l’edizione italiana della monografia fondamentale di Diane Arbus, nel venticinquesimo anniversario dell’originaria del 1982, peraltro successiva a una del 1972, moderatamente diversa. In simultanea alla riedizione statunitense, di Aperture, di New York, l’attuale Diane Arbus conserva l’impianto editoriale allestito dal pittore Marvin Israel (1924-1984), amico e collega della fotografa, e Doon Arbus, una delle figlie, che agirono nel rispetto delle opere e del modo con il quale l’autrice giudicava la propria fotografia e di come voleva che venisse recepita. Rispetto l’edizione originaria del 1982, realizzata con l’aiuto di John Szarkowski, Lisette Model, Richard Avedon, Neil Selkirk, Sudie Trazoff e Sidney Rapoport, si registra la selezione litografica di Robert Hennessey da una nuova serie di

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DIANE ARBUS OF

THE ESTATE

Donna con veletta in Fifth Avenue (Woman with a veil on Fifth Avenue), New York City; 1968.

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stampe fotografiche prodotte (ancora) da Neil Selkirk, concesse dalla Robert Miller Gallery, di New York (524west 26th street). La serie di ottanta fotografie, ottimamente riprodotte, francamente meglio dell’edizione del 1982, è introdotta da un testo trascritto da una serie di lezioni tenute da Diane Arbus nel 1971, da interviste con Studs Terkel e Ann Ray Martin, di Newsweek, e da scritti dell’artista. In definitiva, si tratta della ri-proposta di uno dei classici della storia (bibliografica) della fotografia, una monografia tra le fondamentali dell’espressione visiva contemporanea. Nel quarto di secolo

trascorso dalla loro prima raccolta, e nei trentacinque abbondanti dalla scomparsa di Diane Arbus, l’impatto di questa fotografia non si è certo affievolito. Forse, è addirittura vero l’esatto contrario. Queste immagini hanno l’indiscutibile potere di penetrare la psiche individuale con tutta la forza di un incontro personale, capace altresì di trasformare il modo in cui si osserva il mondo e le persone che lo abitano. Non parole perse, quelle di Diane Arbus, ma sguardo crudo, mai cinico, sulla realtà. La stessa che troppo spesso cerchiamo di ignorare. Angelo Galantini



SARDEGNA

Il suonatore di launeddas Antonio Lara con la moglie, davanti al patio della loro casa. Villaputzu, 2 marzo 1958. Pastori sardi che mostrano degli oggetti. Mamoiada, maggio 1958. Felice Pili suona davanti alla sua abitazione. Sul muro, una cesta e una nassa per pescare. All’ingresso, il suo deschetto di calzolaio. Santa Giusta, estate 1955.

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enza tempo? Tempi remoti? A parte il fatto che la percezione e considerazione del Tempo, concediamoci la Maiuscola, è sensazione assolutamente individuale, tanto che il conteggio degli anni dipende da mille fattori e altrettante esperienze personali, oltre che dall’anagrafe di ciascuno di noi, innegabilmente, le pagine della monografia Nimbus evocano visioni e situazioni che paiono perse nel buio della notte. Abiti, posture e momenti richiamano una società quantomeno antica. Invece, queste fotografie riprese in Sardegna dall’antropologo e musicologo danese Andreas Fridolin Weis Bentzon (1936-1972) non sono così e tanto retrodatate: sono state riprese dal 1955 al 1962, durante lunghi soggiorni nell’isola, nella quale l’autorevole intellettuale ha studiato in modo organico e moderno, primo a farlo, le launeddas, lo strumento musicale originario e caratteristico della Sardegna [a margine, precisiamo che le launeddas sono uno strumento musicale policalamo ad ancia battente; si tratta di strumento musicale di origini antichissime, in grado di produrre polifonia: è costrui-

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to utilizzando diversi tipi di canne, ed è suonato con la tecnica della respirazione circolare]. Così che, rileviamolo prontamente, Andreas Fridolin Weis Bentzon non è (stato) un fotografo secondo le convenzioni generalmente stabilite; fotografando a margine dei propri studi musicali, e a integrazione visiva degli stessi, è stato fotografo nell’autentico significato e valore del termine e definizione. L’antichità che traspare oggi dalle sue immagini, oggi con gli standard visivi odierni, richiama lontane considerazioni sociali; prima tra tutte quella espressa da Pier Paolo Pasolini in uno dei suoi Scritti corsari, che dalle originarie pagine del Corriere della Sera sono stati successivamente raccolti in volume. Ricordiamo bene come e quanto, all’alba degli anni Settanta (!), Pier Paolo Pasolini rile-


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DANIMARCA, ASSESSORATO ALLA CULTURA DEL COMUNE

DI

CAGLIARI (3)

SCONOSCIUTA

vò l’abbattimento di identità locali indotto dall’omologazione televisiva, tanto che, già allora, figuriamoci oggi, le strade di Bolzano presentavano le medesime vetrine di quelle di Catania, così come l’abbigliamento e le aspirazioni dei giovani trentini coincidevano con quelle dei coetanei siciliani. In passato, le forbici della vita hanno espresso identità oggi sconosciute (al proposito, torniamo pure alla nostra precedente riflessione, in allineamento a questa odierna, sulle Identità incerte di un individuato fotoreportage dei nostri giorni; FOTOgraphia, settembre 2007). Oggi, queste stesse forbici si allargano soltanto se e per quanto consideriamo il divario finanziario che distingue le attuali classi sociali: divise più che mai, anche se l’apparenza rivela illusorie omogeneità superficiali.

I tempi corrono, si inseguono. I cambiamenti sono straordinariamente rapidi. Tanto che una manciata di anni basta oggi per tracciare indelebili solchi tra passato e presente. Tradizioni e socialità che si sono conservate per decenni, secoli addirittura, sono state spazzate via dall’umiliante vento della modernità e unificazione. Ancora prima di pensare a una sorta di globalizzazione, guardiamoci attorno, restiamo vicini a casa nostra. Raccolte e divulgate dall’Associazione Culturale Iscandula, di Cagliari, le fotografie antropologiche riprese negli anni Cinquanta dal danese Andreas Fridolin Weis Bentzon dischiudono le porte di un mondo ormai seppellito 51


© ISCANDULA / CORTESIA MUSEO DI DANIMARCA, ASSESSORATO ALLA CULTURA DEL COMUNE DI CAGLIARI (5)

Peppino Deiala dà dimostrazione di passi del ballo sardo. Cabras, dicembre 1957. Il banditore Sonalla. Cabras, aprile 1958. Pastori che cantano in coro dopo la tosatura. Mamoiada, 12 maggio 1958.

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ANTROPOLOGIA FOTOGRAFICA

Con spontaneità, che oggi apprezziamo e della quale ci facciamo ricchi, Andreas Fridolin Weis Bentzon ha applicato in Sardegna uno stilema fotografico presto identificato e subito annotato: quello dell’antropologia visiva, che diventa preziosa testimonianza nel tempo. Così, oggi possiamo osservare attraverso uno specchio retrovisore estremamente chiaro, brillante e, quindi, denso di significati. Raramente, il professionismo fotografico si esprime in questa concreta maniera, perché le impellenze del mestiere paiono spingere e indirizzare altrimenti. A memoria, concedendoci l’esercizio del ricordo, possiamo citare soltanto pochi esempi analoghi, modesti per quantità ma straordinari per qualità. Come non riferirci alle rappresentazioni delle scuole italiane all’indomani della Seconda guerra mondiale, che alla fine degli anni Quaranta (nel 1948?) il non dimenticato Tino Petrelli realizzò per la Publifoto? Come non accostare le sgangherate stanze di piccoli paesi del sud all’autorevolezza accademica delle aule degli istituti privati milanesi dell’epoca? E poi, ancora, la Lucania e Scanno di Henri Cartier-Bresson, reportage originariamente pubblicati dal tedesco Du; l’agropontino, la Toscana e Matera visti da David (Chim) Seymour. Ma, soprattutto, la stessa Sardegna del tempo di Andreas Fridolin Weis Bentzon fotografata da Franco Pinna (sardo di nascita, e quindi tra i due modi di fotografare possiamo rilevare sottili differenze originarie). E la Sardegna di quegli anni è anche quella fotografata da Pablo Volta. A volte, questi fotografi si sono accompagnati con intellettuali del tempo -tre nomi, sopra tutti:

Nimbus. La Sardegna nelle fotografie di Andreas Fridolin Weis Bentzon; a cura di Dante Olianas, Uliano Lucas e Tatiana Agliani; Iscandula, 2007 (via Santa Croce 6, 09124 Cagliari; 070 -822610; siscandula@tiscali.it); 140 pagine 23,5x22,5cm, cartonato; 30,00 euro.


Idillio simulato tra Giovanni Lai e la sua fidanzata. Donigala Fenugheddu, 8 gennaio 1958.

Tre maschere. Ottana, carnevale 1958.

Emilio Sereni, Carlo Levi e Rocco Scotellaro-, in modo da affrontare la fantomatica questione meridionale con un impegno che non si limitasse a un volo alto, a un’ulteriore invasione di terreno, ma si allineasse alle radici che il tempo ha sedimentato e rafforzato. Però, se facciamo i conti oggi, la fotografia non ha consapevolmente partecipato agli straordinari movimenti culturali che hanno animato il sud di quegli anni, lasciando casomai il ruolo al cinema, che ha visualizzato con la propria efficacia situazioni e socialità caratteristiche.

NIMBUS Con tutto, dimenticate per decenni e oggi riscattate alle luci della ribalta (seppure di una ribalta per e di addetti), le fotografie di Andreas Fridolin Weis Bentzon sono state allestite in una esposizione itinerante, per ora all’interno dell’isola, e in un efficace volume. Come già riscontrato, realizzata dall’Associazione Culturale Iscandula, di Cagliari, l’intera operazione è stata curata da Dante Olianas, Uliano Lucas e Tatiana Agliani, insieme a Espen Waehle, Maria Antonietta Mongiu, Giorgio Pellegrini e Placido Cherchi autori del consistente corpo di testi che introduce le fotografie di Nimbus. In questi testi, ognuno condivide con il pubblico una lettura di parte, che allinea le

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CAGLIARI (3) DI

DANIMARCA, ASSESSORATO ALLA CULTURA DEL COMUNE DI

© ISCANDULA / CORTESIA MUSEO

Cottura del pane. La spianata messa nel forno per la prima volta si gonfia. La ragazza a sinistra divide la spianata gonfia in due pezzi, che poi vengono rimessi nel forno. Prima della cottura, la ragazza al centro toglie una delle spianate dal panno che l’avvolge. La ragazza a destra accudisce al forno. Mamoiada, maggio 1958.

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immagini all’insieme di esperienze personali: alla fine, ne scaturisce un armonioso suono d’orchestra, ricco di acuti dei solisti. In particolare, segnaliamo sia Fotografie della Sardegna pervase di musicalità, del socioantropologo norvegese Espen Waehle, comunque esperto di fotografia, sia Una tradizione in movimento: la questione meridionale e la Sardegna nelle fotografie di Andreas Fridolin Weis Bentzon, di Tatiana Agliani, esperta di fotogiornalismo e fotografia quale strumento di analisi dell’evoluzione della mentalità collettiva (tante le sue pubblicazioni), e Uliano Lucas, fotoreporter di spicco e storico del fotogiornalismo in Italia (FOTOgraphia, ottobre 2006; Sguardo su, di Pino Bertelli, nel marzo 2008). L’edizione libraria di Nimbus è equamente scomposta in parole, delle autorevoli firme appena ricordate, e immagini. La combinazione è confortevole e non se ne potrebbe fare a meno, perché c’è tan-


Andreas Fridolin Weis Bentzon registra Antonio Lara. Fotogramma del film Is Launeddas, la musica dei Sardi. Villaputzu, estate 1962.

to da dire e approfondire su questo modo di fotografare (rigorosamente nella composizione quadrata della Rolleicord, consentiamoci l’annotazione), che innalza l’immagine dall’effimero alla Storia. Da tempo, l’Associazione Culturale Iscandula riserva particolari proprie energie ai documenti e materiali che l’antropologo danese Andreas Fridolin Weis Bentzon ha raccolto in Sardegna nel corso delle sue ricerche sulla musica tradizionale dell’isola, dove soggiornò a lungo, a più riprese, tra il 1953 e il 1969. Dopo il film documentario (presentato nel 1998 e recentemente consegnato alle tracce di un Dvd arricchito di nuove immagini e contenuti) e i due volumi (più CD) dedicati alle launeddas (2002), e dopo la monografia (libro e CD) sulla poesia e la musica di Ortacesus (2006), come annotato, l’attuale Nimbus è incentrato sulle fotografie che Andreas Fridolin Weis Bentzon ha scattato durante le sue spedizioni in Sardegna tra il 1955 e il 1962, dai diciannove ai ventisei anni di età. Spiegazione del titolo: Nimbus è il marchio di fabbrica della motocicletta con la quale lo studioso danese, all’epoca ventunenne, sbarcò in Sardegna, nel dicembre del 1957, dopo aver attraversato l’Europa viaggiando da Copenaghen, per la sua prima ricerca sul campo. Era una vecchia moto di seconda mano, comprata con i soldi guadagnati suonan-

do nella jazz band del fratello, Adrian Bentzon. Una moto con sidecar, appositamente modificato: l’abitacolo era stato sostituito da una imponente cassa di legno, nella quale erano stipati i bagagli e le attrezzature indispensabili per le sue ricerche. Tra queste, una Rolleicord, con la quale ha scattato le fotografie che ora Iscandula consegna alle pagine di questa avvincente e affascinante monografia: case, villaggi, volti della Sardegna di mezzo secolo fa, che rivivono grazie all’appassionata opera di un raffinato e colto intellettuale, per quanto giovane fosse. Il volume raccoglie sessantasette fotografie, selezionate tra le oltre duecentocinquanta che Dante Olianas -fondatore dell’Associazione, traduttore dei testi sulla Sardegna di Andreas Fridolin Weis Bentzon (noti all’estero e, in precedenza, ignorati in Italia), promotore di una Fondazione intitolata allo studioso danese- ha rintracciato e recuperato nelle collezioni di Storia Danese Moderna del Museo Nazionale di Danimarca (Nationalmuseet), grazie all’aiuto di Hens V. Andersen, amico di Andreas Fridolin Weis Bentzon e archivista del settore. Oltre i testi appena ricordati, il volume comprende anche una pertinente cronologia, curata da Aristide Murru, amico e collaboratore di Andreas Fridolin Weis Bentzon. Antonio Bordoni

Serenata davanti alla casa di una ragazza. La scena è stata ricostruita per essere filmata, nel villaggio di San Salvatore, ancora spopolato da quando, nei primi anni del Sedicesimo secolo, gli abitanti lo abbandonarono per sfuggire alle frequenti incursioni dei Saraceni. Il villaggio si rianima ogni anno, quando gli abitanti di Cabras, che dista circa quindici chilometri, vi si trasferiscono per il novenario che precede la festa del Santo, la prima domenica di settembre. Cabras (San Salvatore), estate 1962.

Donna di Pabillonis che vende vasellame di coccio. Nel sacco dentro la cesta è riposto il grano, usato come moneta di scambio. Santa Giusta, 6 dicembre 1957.

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C

inque anni fa, quasi sei ormai, in un tempo nel quale si era anche sperato di avviare una proficua combinazione tra industria fotografica e promozione dell’immagine (non soltanto cultura asettica, ma sua proiezione potenziale sui consumi e il consolidamento del mercato), abbiamo avuto modo di dare spazio e visibilità a un’esperienza svolta dai ragazzi del Circolo Culturale Giovanile di Porta Romana Onlus (di Milano). Inserita nel programma espositivo Tecnica e Creatività, di ventisei mostre del PhotoFestival che a Milano accompagnò il PhotoShow 2003, l’allestimento di Magica fotografia visualizzò una avvincente esperienza di Maurizio Galimberti con giovani con svantaggio intellettivo.

Tra i propri meriti, la fotografia può anche vantare quello di aiutare la collocazione nella società di chi la vive con svantaggio, qualsiasi questo sia. Interpretazione personale dell’arte neoclassica, recitata e animata dai ragazzi del Circolo Culturale Giovanile di Porta Romana, a Milano, per l’illustrazione della propria Agenda 2009. Coinvolgente esperienza di giovani con svantaggio intellettivo Interpretazione della Pietà vaticana, di Michelangelo (1499).

M AGICA FOTOGRAFIA

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Interpretazione di Apollo e Dafne, di Gian Lorenzo Bernini (1621-1623).

Interpretazione di Paolina Borghese (Paolina Bonaparte), di Antonio Canova (1805-1808).

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Non serve, né importa rimpiangere i presupposti disattesi di quel programma fotografico, curato da Tita Beretta, Giulio Forti e Maurizio Rebuzzini, che fu anche raccontato in FOTOgraphia del marzo 2003, in un numero della rivista che ne fece da catalogo. Nell’attualità della segnalazione dell’Agenda 2009 dello stesso Circolo Culturale è soltanto utile richiamare i termini con i quali allora presentammo la mostra Magica fotografia (esposta alla Libreria Tikkun), i cui princìpi si ripetono oggi. Leggiamo: «Esperienza didattica di Maurizio Galimberti con i ragazzi del Circolo Culturale Giovanile di Porta Romana Onlus. Abbinata a una rassegna di opere pittoriche (Acqua, coordinata da Franco Spiazzi), l’esposizione presenta lavori fotografici di giovani con svantaggio intellettivo. La combinazione delle mostre sollecita la diffusione di cultura, scambio, integrazione tra persone che possono incontrarsi con facilità e semplicità, appunto attorno temi espressivi quali la pittura e la fotografia. «Con sapienza e partecipazione, i coordinatori Franco Spiazzi, alla seconda esperienza con il Circolo, e Maurizio Galimberti hanno condotto i giovani verso apprendimenti di tecniche non facili. Allo stesso momento, con il proprio lavoro e impegno, i giovani del


Circolo offrono spunti per riflettere sulla condizione delle persone e sui propri rapporti. «In questo senso, la fotografia a sviluppo immediato si è rivelata strumento di straordinario dialogo, a un tempo aperto a soluzioni creative e disponibile a interpretazioni personali, prontamente verificate e confrontate in tempo reale. In questo ambito, la fotografia ha messo da parte ogni proprio possibile personalismo, per rendersi disponibile ad (altre) decifrazioni individuali».

AGENDA 2009 Una volta ancora, e una di più, i giovani del Circolo incontrano la fotografia in occasione dell’attuale Agenda 2009. Una volta ancora, e una di più, i giovani del Circolo sono protagonisti di una vicenda fotografica. Raccontiamola. Oltre l’assolvimento della propria ufficialità, con la sequenza delle pagine dei trecentosessantacinque giorni dell’anno, l’Agenda comprende una serie di dodici illustrazioni complementari, distribuite

lungo i mesi. Si tratta di fotografie che offrono una interpretazione personale dell’arte neoclassica, recitata e animata dagli stessi giovani del Circolo, che hanno posato ispirandosi a opere ampiamente note e conosciute. Realizzati nell’ambito familiare, gli scatti originari di Tina di Toma e Simona Pellegatta sono stati successivamente elaborati al computer da Luca Merli, al quale va l’indiscutibile merito di aver dato spessore e profondità a queste autentiche recite mimate. Fantastico risultato!, i cui connotati sono stati peraltro estesi alle pagine dell’Agenda, che non hanno potuto essere banalmente bianche, ma hanno ripreso l’intonazione di fondo delle stesse fotografie, che idealmente proseguono e completano (progettazione grafica Lifesaver). Visionate da Denis Curti, critico fotografico e personalità di spicco del panorama culturale della fotografia italiana, che ha altresì contribuito con un testo introduttivo, le immagini hanno ulteriori debiti di riconoscenza. Prima di altro, registriamo che il definito “Laboratorio di posa” (acconciature, co-

Interpretazione di Saffo abbandonata, di Giovanni Dupré (1857).

(a pagina 60) Interpretazione del David, di Michelangelo (1501-1504).

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stumi e scenografie) è stato condotto da Tina di Toma e Tiziana Polli. E, soprattutto, richiamiamo le interpretazioni delle sculture, che hanno impegnato i ragazzi del Circolo Culturale Giovanile di Porta Romana: Matteo Ambrosini, Bartolomeo De Liso, Giovanni Lubrano, Federica Milesi, Paolo Orefice, Sonia Planta, Cinzia Quarta, Carlotta Sganga, Martina Tomba e Valentina Villa.

GRANDE CUORE

Agenda 2009 del Circolo Culturale Giovanile di Porta Romana Onlus (corso Lodi 5, 20135 Milano; 02-55012453, anche fax; www.handicapcultura.it, handicapcultura@libero.it). In copertina, particolare della fotografia che interpreta Le Tre Grazie, di Antonio Canova (1813-1816). In interno, interpretazione di Danzatrice con le mani sui fianchi, sempre di Antonio Canova (1812).

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Una volta ancora, e una di più, Magica fotografia. Una fotografia che tra i propri meriti può anche vantare quello di aiutare la collocazione nella società di chi la vive con svantaggio, qualsiasi questo sia. Da qui, per estensione e completamento, approdiamo a una delle aree di dialogo con i propri allievi di Maurizio Rebuzzini, peraltro direttore di FOTOgraphia, ma qui in veste di docente a incarico di Storia della Fotografia presso la Facoltà di Lettere e Filosofia all’Università Cattolica del Sacro Cuore, sede di Brescia. Risolti gli ambiti didattici e accademici, all’interno dell’Aula Virtuale della docenza (da www.unicatt.it), Nostra piccola vita, nostro grande cuore raccoglie quella che possiamo definire condivisione di parole, espresse a margine della fotografia, nello spirito di (ancora) «aiutare la collocazione nella società». Testuale, in estratto: «In questa sezione inserisco argomenti e testi che penso sia importante conoscere. [...] La fotografia, nostro territorio comune e di incontro, non è mai un punto di arrivo, ma deve esserlo di partenza. Arricchiamoci delle parole che sentiamo, e riserviamo loro un posto nel nostro cuore. Parole, letture e riflessioni che sono buone compagnie per le nostre (le vostre) escursioni nel mondo. Insieme, impariamo ad assaporare parole e linguaggio (anche fotografico, sia chiaro). Qualunque altra opinione contraria avete potuto sentire al proposito, parole e idee possono cambiare il mondo, anche solo il nostro personale. Non leggiamo, scriviamo e fotografiamo (e non ci occupiamo di fotografia) perché è bello farlo. Noi leggiamo, scriviamo e fotografiamo perché siamo vivi, membri della razza umana; e la razza umana è piena di passione. «Attorno a noi si manifestano professioni nobili, concretamente necessarie al nostro sostentamento. Ma la poesia... la bellezza... il romanticismo... l’amore... la fotografia... sono queste le cose che ci tengono in vita. [...] Così come le fotografie che stiamo incontrando nel giardino per il quale ci siamo incamminati nella nostra osservazione della Storia sono fiori da cogliere, anche le parole che sentiamo possono arricchirci più e meglio di quanto (non) possano farlo i denari. Non cerchiamo parole che facciano la differenza della nostra vita, ma forse le incontreremo». La fotografia non ha certo cambiato radicalmente la vita dei ragazzi del Circolo Culturale Giovanile di Porta Romana. Sicuramente ha alleggerito il loro carico esistenziale. Ed è già molto. Magica fotografia. Angelo Galantini


SONDAGGIO EUROPEO TIPA 2009 Sondaggio europeo tra i lettori delle riviste associate alla Technical Image Press Association LA VOSTRA OPINIONE VALE Ogni due anni, TIPA rileva e valuta le opinioni e tendenze dei lettori delle riviste associate. Partecipare al sondaggio significa fornire importanti informazioni, che -raccolte ed analizzate da un team professionalesaranno offerte alle maggiori industrie del settore, sempre interessate a conoscere le opinioni di utenti leader. Tra tutti i lettori delle riviste TIPA partecipanti al Sondaggio europeo 2009 saranno estratte a sorte le quattro reflex digitali* insignite dai TIPA Awards 2008. Inoltre, posticipiamo di cinque mesi la data di scadenza dell’abbonamento dei primi cinquanta lettori di FOTOgraphia che invieranno la scheda. *solo corpo; estrazione presso uno studio notarile; eventuali tasse o imposte sono a carico del vincitore. Reflex digitale professionale

Nikon D3

TRA TUTTI I PARTECIPANTI AL SONDAGGIO EUROPEO TIPA 2009 IN PALIO LE QUATTRO REFLEX PREMIATE CON I TIPA AWARDS 2008 Reflex digitale expert

Nikon D300

Reflex digitale advanced Reflex digitale entry-level

Canon Eos 450D

Sony Îą200

Le reflex sono visualizzate complete di obiettivo per motivi puramente estetici


SONDAGGIO EUROPEO TIPA 2009 COMPILA IL QUESTIONARIO (ANCHE IN FOTOCOPIA) E INVIALO PER POSTA O E-MAIL. OLTRE A PARTECIPARE ALL’ESTRAZIONE DI UNA DELLE QUATTRO REFLEX DIGITALI* PREMIATE CON I TIPA AWARDS 2008, AI PRIMI CINQUANTA QUESTIONARI RICEVUTI LA DATA DI SCADENZA DELL’ABBONAMENTO A FOTOgraphia SARÀ POSTICIPATA DI CINQUE MESI. *solo corpo; estrazione presso uno studio notarile; eventuali tasse o imposte sono a carico del vincitore.

01 Scatto fotografie ❏ Da professionista ❏ Da utente professionale (libero professionista: architettura, designer, altro) ❏ Da semi-professionista

02 Principalmente, agisco nella fotografia professionale di (sono possibili più risposte) ❏ Fotogiornalismo ❏ Ritratto e figura

❏ ❏ ❏ ❏ ❏ ❏ ❏ ❏

Moda e stile di vita Food Automobili (e motori) Industria Scienza Fine Art Documentazione Altro

08 Ottengo FOTOgraphia In abbonamento Come saggio promozionale La leggo quando altri l’hanno già letta

❏ ❏ ❏ ❏

Altrimenti

09 Sfoglio o leggo i numeri di FOTOgraphia circa ............... volte

03 Generalmente scatto con Apparecchi medio formato con dorso digitale Reflex con sensore digitale a pieno formato Reflex con sensore digitale di dimensioni inferiori In formato grezzo RAW In formato compresso Jpeg

07 FOTOgraphia pubblica dieci numeri all’anno (ed è in solo abbonamento postale) Ne leggo ............... numeri all’anno Questa è la prima volta che la leggo ❏

sempre

spesso

di rado

mai

❏ ❏ ❏ ❏ ❏

❏ ❏ ❏ ❏ ❏

❏ ❏ ❏ ❏ ❏

❏ ❏ ❏ ❏ ❏

10 Di ciascun numero di FOTOgraphia leggo Tutte o quasi tutte le pagine Circa tre quarti della rivista Circa la metà della rivista Circa un quarto della rivista Solo alcune pagine della rivista

❏ ❏ ❏ ❏ ❏

11 Sfoglio o leggo ogni numero di FOTOgraphia circa ............... volte

12 Oltre a me, altre ............... persone leggono FOTOgraphia 04 Ogni mese, stampo o faccio stampare copie fotografiche Per mio archivio personale approssimativamente ............... stampe Per i clienti o mostre approssimativamente ............... stampe Approssimativamente, il ............... per cento delle stampe sono di dimensioni superiori all’A4 Approssimativamente, il ............... per cento delle stampe sono realizzate da un laboratorio professionale

13 Giudico FOTOgraphia in questo modo

05 Realizzo le stampe in questo modo Stampo in proprio la maggior parte delle copie Possiedo una stampante in formato A3 o superiore Stampo principalmente in inkjet Stampo principalmente con inchiostri a pigmenti Frequentemente, stampo su carta Baryta Frequentemente, uso altri tipi di carta Fine Art Dispongo di un RIP (Raster Image Processor)

no

❏ ❏ ❏ ❏ ❏ ❏ ❏

❏ ❏ ❏ ❏ ❏ ❏ ❏

06 Le mie informazioni sui prodotti fotografici le ottengo regolarmente da (sono possibili più risposte) 1 Riviste di fotografia ❏ 2 Riviste di computer ❏ 3 Riviste di tecnica varia (fotodigitale/video/audio) ❏ 4 Dal mio negoziante ❏ 5 Alle fiere specializzate ❏ 6 Dai dépliant dei prodotti ❏ 7 Da Internet ❏ Comunque, mi fido di più della fonte numero ...............

FOTOgraphia è Un’importante rivista di fotografia Fonte di ispirazione (riflessione) Di grande aiuto pratico Molto attendibile e competente Dà ottimi consigli per l’acquisto di attrezzatura Dà ottimi consigli per l’acquisto di accessori Rende il mercato fotografico più trasparente Se FOTOgraphia non ci fosse, mi mancherebbe

da completamente vero

❏ ❏ ❏ ❏ ❏ ❏ ❏ ❏

14 Nei prossimi ventiquattro mesi intendo acquistare Reflex digitale Apparecchio digitale medio formato Sistema digitale grande formato Dorso digitale Scanner Stampante A4 o inferiore Stampante A3 o A3+ Stampante A2 o superiore Obiettivi intercambiabili Sistema di gestione colore Monitor grafico Software fotografico e grafico Videoproiettore Moduli di memoria Luci da studio Treppiedi

❏ ❏ ❏ ❏ ❏ ❏ ❏ ❏

❏ ❏ ❏ ❏ ❏ ❏ ❏ ❏ ❏ ❏ ❏ ❏ ❏ ❏ ❏ ❏

a non vero

❏ ❏ ❏ ❏ ❏ ❏ ❏ ❏

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15 Per la gestione della mia attività (investimenti in attrezzature e spese per materiali di consumo e laboratorio), lo scorso anno ho speso circa ............... euro

18 Se ci fosse visiterei il sito di FOTOgraphia sì ❏ no ❏

16 Leggo la pubblicità che appare su FOTOgraphia sempre ❏ spesso ❏

19 A conseguenza potrei considerare il contenuto del sito sì ❏ no ❏

di rado

17 Per me la pubblicità che appare su FOTOgraphia

mai

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a non vero

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Ha un valore informativo Mi ha spinto a fare un acquisto

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20 Informazioni personali Sono maschio Ho ............... anni

femmina

Grazie per aver partecipato al SONDAGGIO EUROPEO TIPA 2009

TIPA (Technical Image Press Association) è un’associazione non-profit registrata in Spagna. Fanno parte di TIPA ventisei riviste fotografiche europee associate, di dieci paesi: Réponses Photo (Francia); Digit!, Foto Hits, InPho Imaging & Business, Photographie, PhotoPresse e ProfiFoto (Germania); Photobusiness e Photographos (Grecia); Digital Photo, Practical Photography, Professional Photographer e Which Digital Camera (Inghilterra); Fotografia Reflex e FOTOgraphia (Italia); Fotografie F+D, FotoVisie e P/F - Professionele Fotografie (Olanda); Foto (Polonia); Arte Fotografico, Diorama, Foto/Ventas Digital, FV / Foto Video Actualidad e La Fotografia Actual (Spagna); FOTOintern (Svizzera); Digitális Fotó Magazin (Ungheria).

PER LA PRIVACY, L’AREA TRATTEGGIATA CON I DATI PERSONALI VERRÀ SEPARATA AL RICEVIMENTO SE NON VOLETE RITAGLIARE QUESTE PAGINE, FOTOCOPIATE LE DUE FACCIATE Potete evitare di fornire i vostri dati (che comunque non saranno forniti a terzi). Però, in questo modo rinunciate alla possibilità di ottenere il prolungamento gratuito dell’abbonamento omaggio e a partecipare all’estrazione di una delle quattro reflex. L’anonimato è garantito, perché questa parte del questionario verrà separata dalle risposte. Elaborati dall’istituto WIP di

Colonia, i risultati saranno pubblicati sul sito tipa.com, su FOTOgraphia e su Fotografia Reflex, e presentati all’industria fotografica il prossimo giugno, in occasione della cerimonia di consegna dei TIPA Awards 2009. L’estrazione delle quattro reflex avverrà entro marzo 2009, presso uno studio notarile a Düsseldorf, in Germania (attenzione: eventuali tasse o imposte sono a cari-

COMPILAZIONE FACOLTATIVA (rinunciando all’estrazione dei premi) nome

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FOTOgraphia Sondaggio TIPA via Zuretti 2a 20125 MILANO MI

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graphia@tin.it



L

CINDY SHERMAN

La fotografia non è immaginabile senza il romanzo autobiografico che la accorda. Tutto cade in fotografia perché niente è vero nella vita reale, forse. Nella desolazione espressiva della “fotografia d’arte”, la realtà dell’immaginario muore nell’autoreferenziale e ai vertici del mercato globale il dogma è questo: Non c’è altro Dio all’infuori di me! Il meraviglioso sistema del mercimonio delle immagini (di qualsiasi tipologia di immagine o “segno”, Internet incluso), raccoglie consensi ampi e consente a turbe di fanatici dell’aura fotografica di calpestare l’incanto del vero e smerciare il banale come forma d’arte. André Adolphe Eugène Disdéri è rivisitato e innalzato nel prontuario del sapere fotografico e Gaspar-Félix Tournachon, detto Nadar, dimenticato e lasciato a marcire nei sottoscala della storia. Proprio lui, quello che aveva detto: «La fotografia è una scoperta meravigliosa, una scienza che avvince le intelligenze più elette, un’arte che aguzza gli spiriti più sagaci - e la cui applicazione è alla portata dell’ultimo degli imbecilli. Quello che non s’impara... è il senso della luce». La fotografia è fatta della stessa materia di cui sono fatti i sogni.

L’IMMAGINE ALLO SPECCHIO E IL TRIONFO DELLA MERCE

In tutta la sua elegia del (proprio) corpo, la fotografia dello specchio di Cindy Sherman sembra dire che ognuno è dannato, e a questa società della catastrofe può sopravvivere o morire solo nell’immagine di sé, esplorando il proprio corpo. Tuttavia, nel fondo di questo esasperato narcisismo, Cindy Sherman, che fotografa se stessa nello “specchio” della macchina fotografica, esprime anche l’apoteosi della propria guitteria e così le-

gittima il secolo dell’apparenza e dell’economia cannibalesca della politica innervata nelle democrazie dello spettacolo. Senza scomodare Freud, Jung, Lacan o il reverendo Lewis Carroll, che di specchi dell’anima s’intendono molto, senza accezioni, la mercificazione dei corpi defrauda della propria identità l’uomo, la donna, l’umanità intera e lo specchio/immagine di sé soltanto diviene una

della merce viene dopo. Quando ciascuno comprende che la fotografia è la continuazione della politica con altri mezzi e si fa complice della morale di padroni che impera nel mondo. In un primo momento, Cindy Sherman si dedica alla pittura, lavora su immagini di giornali, riviste, fotografie; si accorge presto che la cultura popolare dei mass-media è fonte di curiosità e interesse, e che non è poi tan-

«La fotografia possiede già il sogno di un tempo nel quale l’utopia del pane (che si spezza e non si taglia...) è sulla tavola di tutti; non ha che da possedere la coscienza per viverlo fino in fondo» Anonimo toscano nuova religione e trasfigura ogni soggetto in merce. Cindy Sherman nasce nel 1954 a Glen Ridge, nel New Jersey, e cresce nelle periferie di New York, a Long Island, dicono le sue note biografiche. Studia arte alla Suny (State University of New York), a Buffalo, ed è respinta all’esame di fotografia per insufficienze tecniche nelle fasi di camera oscura. Tutto ciò però non è male; dimostra una certa intelligenza della ragazza. La fotografia non si insegna, si può solo farla, e sono poche le sollecitazioni che spingono qualcuno verso la fotografia: o la voglia sfrenata di fare i soldi, finire in televisione e frequentare le puttane della “buona società” o, a seconda delle passioni e turbolenze generazionali, per evitare di finire in galera. Il trionfo della barbarie o

to difficile essere compresi da galleristi e pubblico. Scopre così l’autoespressione e dicono che nei suoi autoritratti riesce a far coincidere l’arte concettuale con la fotografia personale. La giovane fotografa ha le idee chiare: «Quando andavo a scuola stavo cominciando a essere disgustata dalla considerazione religiosa e sacrale dell’arte, e volevo fare qualcosa che chiunque per strada potesse apprezzare». Nel 1975, scatta la prima delle sue Serie. Ritrae se stessa in diversi personaggi (clown o bambina, fa lo stesso) e suscita subito un certo interesse nell’ambiente artistico. L’anno successivo si laurea e si trasferisce a New York. Nel 1981, espone alla Kitchen Gallery e intanto lavora a quelle auto-immagini (Untitled Film Stills) che la renderanno famosa ovun-

que. Da allora il successo è travolgente. Lei è sempre interprete di se stessa, anche se i ruoli mutano. La noia è profonda, il consenso dilagante. Tra il 1983 e il 1994 si occupa anche di moda, ma non lascia traccia di grande nobiltà dell’immagine “colta”, ed è forse un merito. Nel 1995 riceve l’ambìto riconoscimento da parte del “grande apparato” artistico newyorkese e il MoMA acquista per un milione di dollari le sessantanove fotografie di Untitled Film Stills, che saranno esposte nel suo tempio. Tra gli sponsor c’è anche Madonna, che -come sappiamo- di mercantilismo della musica se ne intende: il gusto delle sue immagini o i film che ha interpretato non sembrano raggiungere livelli estetici di un qualche interesse (che non sia una beffa economica). Nel 1997, Cindy Sherman dirige Office Killer, una commedia horror piuttosto convenzionale, ignorata dal pubblico (che non significa nulla) e accolta con clamore da qualche critico indirizzato (e questo significa molto). Cindy Sherman vive a New York, giustamente consacrata dalla cultura dominante; lì continua a sfornare la sua arte concettuale e negli ultimi anni sembra sia stata folgorata sulla strada del Surrealismo. Gli stereotipi allo specchio, disseminati in Centerfolds or Horizontal (1981, per la rivista Artforum), Pink Robes (1981), Disasters (1986-1989), Sex Pictures (1992) e History Portraits (1989-1990), non sono opere che lavorano sulla decostruzione dell’immagine, né hanno un valore comunicativo che evolve il linguaggio visuale o contaminano la “ritrattistica classica”, come è stato scritto. Vero niente. Le auto/fotografie di Cindy Sherman decantano il performante, l’oggetto della fascina-

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zione, la doppia astrazione artista/soggetto e la simulazione riverbera nel simulacro di un mondo a perdere; la differenza tra schermo e immagine contiene la scomparsa di ogni forma d’alterità. All’improvviso, l’abisso della fotografia si popola di fantasmi di falsa resistenza e d’insubordinazione celebrata che vogliono debuttare cominciando dal sofà. I fotografi fanno la propria storia e spetta loro farlo consapevolmente. Coloro che vogliono la libertà senza imparare a vivere, come a morire, dimostrano di non meritarla.

L’IMMAGINE ALLO SPECCHIO L’auto/immagine allo specchio di Cindy Sherman figura una catenaria di soggetti che ripresentano in forma di “santino” o quotidianità desacralizzata il tempo dell’illusione. Qui i corpi, i territori, gli affetti sono chiamati a confrontarsi con l’arte concettuale del dispositivo fotografico; e costruiscono sì nuovi spazi, relazioni, poetiche altre della realtà, tuttavia non producono né intaccano i legami sociali, politici, etici come luoghi del conflitto aperto, ma anzi smaterializzano la potenza dei corpi come tensione espressiva affabulata contro le

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relazioni di diserzione dal tempo presente. La fotografia dello specchio non “canta” gli uomini e le loro utopie, ma le merci e le loro piccole passioni. La coscienza dell’artista/spettatore è prigioniera di un universo banalizzato, delimitato dallo specchio/spettacolo dietro il quale è stata deposta la sua esistenza e la sua arte, non conosce più se non lettori fittizi che la intrattengono nell’esposizione mercantile e nella politica della loro riproduzione consumata: in tutta la sua estensione omologante, lo spettacolo è il segno/ specchio della vita quotidiana. In questo senso, la produzione artistica di Cindy Sherman mette in scena la falsa via d’uscita di un autismo generalizzato e immagazzinato nei gazebi dell’ordine costituito. Le sue esibizioni iconografiche, certo gustose, ironiche e qualche volta graffianti -non importa se in bianconero o colorate-, contengono senza dubbio un certo fascino dell’inconsueto, ma sono molto distanti dalle stagioni irriverenti e libertarie dell’opera Surrealista nel proprio insieme. Le fotografie/specchio di Cindy Sherman hanno poco a che fare anche con gli strappi

del profondo della psicanalisi e vanno ad istituire invece una sorta di album di famiglia che sfocia nel grottesco o nella commedia di costume. Così la sposa, la bambola, la diva, la serva o la signora dabbene... restano icone ben confezionate e fortemente connotate nell’arte di straniamento della fotografa che sostituisce il reale con forme fantastiche e diviene idealizzazione della “diversità” e teoria generale del consenso. Il carattere del feticismo, ricordiamolo, è lo spettacolo dei “segni” che cementa ogni forma di vivenza nei rapporti di produzione mercantili. «Lo spettacolo non è un insieme di immagini, ma un rapporto sociale tra individui, mediato dalle immagini» (Guy Debord). Lo spettacolo imperante è allo stesso tempo il risultato e il progetto dei modi di produzione, consumazione e soggezione della società esistente. Il cuore messo a nudo della fotografia non nasce dai fiori del male di Charles Baudelaire, come si potrebbe sospettare, o dal maldestro contrabbando di fucili di Jean Nicolas Arthur Rimbaud, come qualcuno avrebbe l’ardire di pensare, e inoltre sostenere che la “stagione all’inferno” della fotografia sia ormai cosa da lebbrosi dell’immagine sociale. C’è una mistica fotografica del mercantile e una fiorente attività sinistrorsa delle scritture fotografiche che continuano a fondare il proprio successo e consenso sui miti valoriali di sangue vestiti: Lavoro-Famiglia-Patria. In molti si oppongono a quella minoranza di poeti senza livrea che lavorano sull’orlo degli inferni sociali e chiedono il rispetti dei diritti umani, l’uguaglianza dei godimenti e fanno del genio collerico della disobbedienza il reincanto del mondo e il viatico per la ricerca della felicità. Per chi, come noi, è stato allevato nella pubblica via, ogni forma di autorità è intollerabile, ogni sorta di sottomissione insostenibile, ogni servitù volontaria impraticabile. In questo senso ci

è impossibile amare tutti gli incantesimi espressivi del narcisismo; non siamo abbacinati dalle opere truccate al bello dell’artista impegnato, né siamo coglioni che credono alla politica dell’impostura, che fa del parlamento un bordello senza muri, dove ciascuno fa professione d’inganno e di abuso contro i propri elettori; il prete poi, che fa della conversione una vera e propria opera di predazione dei poveri più poveri della Terra, ci è più estraneo del boia di Londra

(lui almeno sapeva impiccare ladri, puttane e poeti del libero spirito con quel filo di classe che si addice agli aguzzini che hanno studiato almeno un po’ nei collegi dei salesiani o nei giardini dei re). Dalle scuole pubbliche ci escono solo poveri, emarginati e ribelli... tutta gente che non tiene in grande considerazione né Dio né il Padrone. Immaginare la bellezza aurorale delle costellazioni non ha cambiato certo il nascere e morire delle stelle, né ha svelato il mistero del nero nel quale sprofondano. Ciò che ha mutato lo stato di cose esistenti è stato il modo di leggere il cielo di notte e comprendere che la bellezza e il profumo del biancospino possono influenzare il destino delle costellazioni. Questo per dire che nella galassia della fotografia non c’è stato un inverno senza aver visto cadere un mito, né una primavera nella quale non siano nate altre folgoranti meteore, né un movimento di dissidenti a tutto che non sia stato soppresso per mancanza di coraggio. Il tempo dei poeti dello stupore e della meraviglia è nato con la nascita della fotografia; anche il tempo degli schiavi e dei padroni con la sacralità dell’arte trasmutata in merce, lo stesso tempo. La grande fotografia, la fotografia degli immortali, muove le montagne dell’indifferenza. Qualche volta le conquista e rende migliore l’umanità. Pino Bertelli (5 volte ottobre 2008)




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