FOTOgraphia 149 marzo 2009

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Mensile, 5,70 euro, Poste Italiane SpA - Spedizione in abbonamento postale - D.L. 353/2003 (convertito in Legge il 27-02-2004, numero 46), articolo 1, comma 1 - DCB Milano

ANNO XVI - NUMERO 149 - MARZO 2009

Aldo Bonasia ANNI SETTANTA

Yankee Stadium RIEVOCAZIONI D’AMORE

RITRATTO DI UN PAESE


Una fotografia vale solo quanto l’uomo che la strappa alla storia dell’indifferenza. Pino Bertelli su questo numero, a pagina 64

Non è venduta in edicola. Per averla hai una sola possibilità: sottoscrivere l’abbonamento annuale. 12 numeri 57,00 euro Solo in abbonamento Compilare questo coupon (anche in fotocopia), e inviarlo a: Graphia srl, via Zuretti 2a, 20125 Milano MI (02-66713604, fax 02-66981643; graphia@tin.it)

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MISTERO CON COMPETENZA. Del romanzo Jules Verne e il mistero della camera oscura [per la quale si intende la camera obscura, da cui il titolo originario Le Mystère de la Chambre obscure, ovvero lo strumento fotografico delle origini, da non confondere con il locale dove si stampano le copie fotografiche, appunto camera oscura], di Guillaume Prévost, pubblicato in Italia da Sellerio Editore, riferiremo più avanti, approfondendone come nostro solito. In anticipazione, e per la compagnia di oggi, accenniamo soltanto un passaggio del testo. Lo facciamo per sottolineare l’attenzione dell’autore Guillaume Prévost, ricercatore e professore di storia nella regione di Parigi, che trasforma la realtà in fantasia narrativa. Insieme, leggiamo la descrizione dello studio Pelladan, fotografo coinvolto nella vicenda a sfondo poliziesco districata dal giovane Jules Verne: «Per essere una bella facciata, era una bella facciata. Lo studio Pelladan occupava tutto il numero 35 di boulevard des Capucines, tre piani di pietra coronati da un fregio di metallo e vetro, sormontato a sua volta da un enorme sole di maiolica, i cui raggi dorati, muniti di torciere, brillavano anche di notte. Una grossa scritta Pelladan in caratteri inglesi attraversava il palazzo al secondo piano e una folla di amatori si accalcava davanti alle vetrine del piano terra. Ci si meravigliava dei ritratti delle attrici a grandezza naturale nei loro ruoli più importanti -Eugénie Doche nella Signora delle Camelie, Rachel in Fedra, Rose Chéri in Rebecca-, ma anche delle ballerine in tutù, dei cantanti lirici nel Macbeth o nel Barbiere di Siviglia e persino di alcuni uomini politici - proprio come erano nella realtà, quelli: pance benestanti, espressioni soddisfatte, sguardi fiduciosi e decisamente rivolti al futuro». Orbene, questa descrizione calza a pennello allo studio di Nadar, appunto al 35 del parigino boulevard des Capucines (qui sotto), e anche alla sua attività di ritrattista. Dalla realtà alla fantasia.

Cosa attira la nostra attenzione fotografica? Parecchi elementi; nessuno dei quali è significativo di per sé, ma tutti sommati hanno ed esprimono senso.

Copertina

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In allineamento volontario e consapevole alla monografia China. Ritratto di un paese, recentemente pubblicata dall’immancabile Taschen Verlag, di Colonia, proponiamo l’immagine che ne fa da copertina. Fotografia di Zhang Yaxin, uno degli ottantotto autori cinesi coinvolti nel racconto di sessant’anni di Repubblica popolare: balletto da Shajiabang, del 1971, una delle opere celebrative della Rivoluzione Culturale volute dalla moglie di Mao Zedong, Jiang Qing, ai tempi ai vertici politici del mondo culturale cinese. In ricordo del caro amico Domenico Strangio, del quale speriamo di non tradire la memoria, né le speranze e i sogni, da pagina 34 riferiamo di questa edizione libraria, e di altro ancora. A contorno

3 Fumetto Dalla copertina del libriccino Il pullman turistico, dichiaratamente per l’infanzia, l’evocazione di un panda fotografo, che si affaccia a un finestrino, impugnando una compatta utile per le rituali fotoricordo. Illustrato da Flavia Vanoli, il titolo fa parte della collana Con quattro ruote, in confezione libraria caratterizzata; edizione La Coccinella, di Varese, luglio 1999

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7 Editoriale Ovvero! Sia chiaro: nel corso delle nostre esistenze, possiamo raccogliere soprattutto, o forse soltanto, ciò che andiamo cercando, ciò verso cui agiamo, ciò che più ci sta a cuore. Tutto è soggettivo, e prima di altro dobbiamo sempre e solo rispondere a noi stessi

8 Simenon, ma quando? 46

Una volta ancora, e una di più, una clamorosa imprecisione del giornalismo italiano. Questa volta incontriamo un occhiello del quotidiano La Repubblica, che ipotizza la celebrazione del centenario della morte dello scrittore belga Georges Simenon. Casomai, siamo vicini al centenario dalla nascita (1903) e ai venti dalla morte (1989)

10 Notizie Attrezzature, vicende e altre segnalazioni

12 Madre Terra 10

Coinvolgente e appassionate mostra fotografica a tema. Da National Geographic Italia, fotogiornalismo di geografia e natura: centouno immagini eccezionali


MARZO 2009

R , RIFLESSIONI IFLESSIONI, OSSERVAZIONI E COMMENTI OSSERVAZIONI E COMMENTI SULLA FOTOGRAFIA SULLA FOTOGRAFIA

14 Attraversamenti Nikon

Anno XVI - numero 149 - 5,70 euro

A cura di Filippo Rebuzzini, una rassegna di presenze nella sceneggiatura e scenografia cinematografica: dieci film che il distributore Nital visualizza al PhotoShow

DIRETTORE

RESPONSABILE

Maurizio Rebuzzini

IMPAGINAZIONE Gianluca Gigante

18 World Press Photo

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I vincitori dell’edizione 2009 del prestigioso concorso

REDAZIONE Angelo Galantini

FOTOGRAFIE Rouge

22 Reportage

SEGRETERIA

Appunti e attualità del fotogiornalismo internazionale A cura di Lello Piazza

HANNO

Maddalena Fasoli

27 Giudizio Universale Straordinaria documentazione d’arte di Sandro Vannini: il capolavoro di Luca Signorelli in mostra a Orvieto di Lello Piazza

34 Da una Cina all’altra

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Esaustiva monografia fotografica di Taschen Verlag. China. Ritratto di un paese racconta la storia recente della Repubblica popolare. Allargandoci come siamo soliti fare, ne riferiamo nel commosso ricordo del caro amico Domenico Strangio: speranze e sogni sempre vivi di Maurizio Rebuzzini Ricerca iconografica di Ciro Rebuzzini

Redazione, Amministrazione, Abbonamenti: Graphia srl, via Zuretti 2a, 20125 Milano; 02-66713604, fax 02-66981643; graphia@tin.it. ● FOTOgraphia è venduta in abbonamento. ● FOTOgraphia è una pubblicazione mensile di Graphia srl, via Zuretti 2a, 20125 Milano. Registrazione del Tribunale di Milano numero 174 del Primo aprile 1994. Poste Italiane SpA - Spedizione in abbonamento postale - D.L. 353/2003 (convertito in Legge il 27-02-2004, numero 46), articolo 1, comma 1 - DCB Milano.

44 Anni Settanta A cura di Roby Shirer, una mostra ripropone la visione fotografica di Aldo Bonasia, uno dei più attenti fotogiornalisti italiani, prematuramente scomparso di Giovanna Calvenzi

COLLABORATO

Pino Bertelli Antonio Bordoni Giovanna Calvenzi Rinaldo Capra Nadiolinda Loredana Patti Lello Piazza Franco Sergio Rebosio Ciro Rebuzzini Filippo Rebuzzini Sandro Vannini Luca Ventura

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● A garanzia degli abbonati, nel caso la pubblicazione sia pervenuta in spedizione gratuita o a pagamento, l’Editore garantisce la massima riservatezza dei dati forniti dagli abbonati e in suo possesso, fatto diritto, in ogni caso, per l’interessato di richiederne gratuitamente la rettifica o la cancellazione ai sensi della legge 675/96. ● FOTOgraphia Abbonamento 12 numeri 57,00 euro. Abbonamento annuale per l’estero, via ordinaria 114,00 euro; via aerea: Europa 125,00 euro, America, Asia, Africa 180,00 euro, gli altri paesi 200,00 euro. Versamenti: assegno bancario non trasferibile intestato a Graphia srl Milano; vaglia postale a Graphia srl - PT Milano Isola; su Ccp n. 28219202 intestato a Graphia srl, via Zuretti 2a, 20125 Milano; addebiti su carte di credito CartaSì, Visa, MasterCard.

49 Arte trasversale Provocazione o paradosso? Niente di questo: insieme, ma anche separatamente, Cani nell’Arte e Gatti nell’Arte svelano un entusiasmante percorso culturale. È vero

● Nessuna maggiorazione è applicata per i numeri arretrati. ● È consentita la riproduzione di testi e fotografie, magari citando la fonte (ma non è indispensabile, né obbligatorio farlo). ● Manoscritti e fotografie non richiesti non saranno restituiti; l’Editore non è responsabile di eventuali danneggiamenti o smarrimenti.

56 Rievocazioni d’amore Altra provocazione? Forse sì, forse no: considerazioni trasversali a partire dalla demolizione dello Yankee Stadium di New York, tempio del baseball

Fotocomposizione DTP e selezioni litografiche: Rouge, Milano Stampa: Arti Grafiche Salea, Milano

Rivista associata a TIPA

62 Copertina stravolta? Illustrazione della copertina di Se non ti piace, dillo, di Nadiolinda: anche quella che avrebbe potuto essere

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64 John Hoagland Sguardo su un interprete della fotografia della sofferenza di Pino Bertelli

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O

gnuno di noi ha diritto di vivere come crede. Alla resa dei conti, le esistenze che si è soliti considerare migliori si misurano nella e per la generosità di coloro che hanno dato senza aspettare o pretendere tornaconti immediati: ovvero hanno dato, senza conteggiare di ricevere in cambio. Così, in ogni richiamo quotidiano, oltre lo svolgimento dei propri incarichi, dei propri mestieri, ci può essere qualcosa di più: di migliore, in allineamento con quanto appena rilevato e annotato. Tanto per dire, si produce una rivista (per esempio, questa) sia per rincorrere una legittima redditività di impresa, sia per esternare opinioni e considerazioni che possano arricchire gli altri, oltre il solo e sterile valore economico del rapporto originario. Veniamo al sodo. Come ho avuto modo di precisare in diverse occasioni, sono approdato al mondo fotografico in modo casuale (e persino truffaldino, lo confesso), alla fine del 1972, dunque circa trentasette anni fa. Da allora, ho scritto migliaia di pagine, affrontato centinaia di argomenti, analizzato altrettante vicende della fotografia, sia tecnica sia espressiva. Non ho mai scritto per essere ringraziato di averlo fatto, ma, evidentemente, alcuni ringraziamenti fanno anche piacere, e sollecitano a continuare ad agire in una certa direzione. Veniamo al sodo, veramente. Tra tanto quanto scritto in queste decadi, l’articolo che ha prodotto la maggiore quantità di riscontri è lontano dalla referenza fotografica specifica e ufficialmente dedicata. È quello che lo scorso dicembre ho dedicato al ricordo di mio padre, Natale, nel centenario della nascita: appunto, La notte di Natale dal 1908 al 2008. Ringrazio pubblicamente tutti coloro, e sono stati veramente tanti, hanno dato riscontro a quelle parole, con altre parole a loro volta. Essenzialmente, questo riscontro ha un significato che è per se stesso profondo e concreto: ci si è incontrati su emozioni comuni e commozioni condivise, non soltanto condivisibili. Ricordo struggente, e nel contempo doloroso, quello del proprio padre appartiene a ciascuno di noi. Quindi, mi è stato detto, ognuno vorrebbe essere ricordato dai propri figli con i sentimenti e le parole con le quali ho fatto conoscere mio padre. Ripeto e confermo: grazie a tutti coloro che hanno avuto forza e coraggio di allinearsi. È anche attraverso questi riscontri che si percepisce e misura ciò che si sta facendo, ciò che si crede di fare, ciò che compone i tratti di quell’incontro intenso che va oltre i compiti ufficiali e istituzionali del proprio mestiere, che nel mio caso si estende all’incontro generazionale con giovani studenti universitari. Ora, e in chiusura, l’argomento vero. Tra tanto, una sola nota discordante: di chi ha introdotto il princìpio della serenità dei ricordi. Attenzione, sia chiaro: nel corso delle nostre esistenze, possiamo raccogliere soprattutto, oppure soltanto, ciò che andiamo cercando, ciò verso cui agiamo, ciò che più ci sta a cuore. Tutto è soggettivo, e prima di altro dobbiamo sempre e solo rispondere a noi stessi. Maurizio Rebuzzini

In una fotografia del 6 novembre 1935, Natale Rebuzzini, nato la notte di Natale del 1908: cento anni fa.

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SIMENON, MA QUANDO?

N

Niente di personale, in relazione alla mia appassionata ammirazione per Georges Simenon. Tutto di personale, non soltanto tanto di personale, per l’amarezza che ormai accompagna molti dei contatti con il giornalismo italiano (forse troppi). Comunque, prima di rilevare l’ennesima colpevole imperizia e inettitudine giornalistica, da un quotidiano nazionale, dalle sue pagine riservate alla riflessione culturale, così estranee alla concitazione e confusione della cronaca, è obbligatoria una precisazione, che vado subito a compilare. Sebbene per l’apparenza di molti dei nostri rispettivi atteggiamenti, sia spesso assimilato a Lello Piazza, prezioso collaboratore di FOTOgraphia, non soltanto in misura dei suoi contributi giornalistici, non sempre condivido la sua mordacità nel puntualizzare gli errori nei quali incorre la stampa italiana, che per il vero, e a suo onore di sorvegliante, sono sempre effettivamente troppi, sia in quantità sia per qualità. Personalmente, avendone forse più bisogno di lui, spesso tendo più a sorridere che a sdegnarmi: a me, le occasioni di discordia arrivano gratuitamente, senza che sia necessario andare anche a cercarle.

STO CON LELLO PIAZZA Comunque, e con i dovuti distinguo, che ho appena rilevato, concordo pienamente con le considerazioni con le quali Lello Piazza stigmatizza e censura errori/orrori che non sono mai veniali, come fa anche su questo stesso numero, a pagina 22, segnalando una colpevole leggerezza in ambito naturalistico del quotidiano londinese Times. Soprattutto, ma non soltanto, mi allineo sul concetto che rileva come siano gravi gli errori del giornalismo italiano: gravi, in quanto “ideologici”, non tanto per affinità di partito (che pure si manifestano, ma è tutto un altro discorso), ma per ignoranza e superficialità, che si traducono e manifestano in disprezzo dichiarato per il proprio pubblico, i propri lettori.

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Ecco dove, come e perché Lello Piazza ha ragioni da vendere nella sua crociata a difesa e tutela dei “clienti”. Così agendo, di fatto applica uno dei princìpi basilari della democrazia (non abbiamo paura a usare tali termini): appunto la difesa dei più deboli, di qualsivoglia scala gerarchica e graduatoria. Così, qui e ora, sono onorato di accodarmi a lui, dicendo la mia su una questione che mi sta particolarmente a cuore. Ripeto l’attuale incipit, per ribadirlo: «Niente di personale, in relazione alla mia appassionata ammirazione per Georges Simenon. Tutto di personale, non soltanto tanto di personale, per l’amarezza che ormai accompagna molti dei contatti con il giornalismo italiano (forse troppi)».

POVERO SIMENON Domenica otto febbraio, sfogliando La Repubblica, mi imbatto in una doppia pagina che presenta, annunciandola, una mostra dedicata a Georges Simenon (appunto, Mondo Simenon: alcuni dettagli nell’apposito riquadro, sulla pagina accan-

La Repubblica, dell’otto febbraio, con l’errato richiamo al centenario dalla morte di Georges Simenon (e nessuno, in redazione, ha verificato l’esattezza del testo in corpo tipografico consistente e ruolo giornalistico preminente). Se di morte si tratta, gli anni sono venti (4 settembre 1989); vicino ai cento, la data di nascita dello scrittore belga: 13 febbraio 1903.

to). Me ne compiaccio, per molti motivi: prima di tutto, amo così tanto la sua scrittura e le atmosfere che evoca, da aver letto tutti i suoi romanzi, sia quelli con protagonista il commissario Maigret, sia l’amara narrativa che mette a nudo le miserie di molte esistenze (che sto rileggendo con la cadenza delle recenti edizioni Adelphi, assolutamente meglio tradotte rispetto le precedenti Mondadori; FOTOgraphia, febbraio 2000 e luglio 2008); quindi, penso alla soddisfazione di Romolo Ansaldi, già collezionista Leica [che in questa veste, dalle nostre pagine redazionali, nel 1995, animò un avvincente dibattito su una questione di attribuzioni storiche], ma soprattutto a furor di popolo e critica “maggior conoscitore mondiale dell’ope-


ra di Georges Simenon”, che ha fornito all’esposizione Mondo Simenon materiali originari dal suo prezioso archivio; ancora, e poi basta, mi compiaccio perché FOTOgraphia è stata l’unica rivista fotografica italiana ad essersi accorta della combinazione con Georges Simenon anche fotografo, relazionandone e approfondendone lo scorso luglio, con richiamo dalla copertina. Però, diavolo!, con La Repubblica aperta tra le mani, sobbalzo e rimango stupito (se avessi cultura, sarei rimasto basito). In testa alla pagina, il titolo / sottotitolo Viaggio intorno a Simenon / I suoi eroi, al bivio tra noia e tragedia è preceduto da un occhiello esplicativo e introduttivo, elegantemente impaginato con caratteri e colorazioni alternati [pagina accanto]. Leggiamolo/rileggiamolo insieme: «Un convegno e una mostra di memorabilia del più grande collezionista sul tema [Romolo Ansaldi, che poi nell’articolo è citato soltanto per caso e a margine!]. Così in Liguria ci si prepara a festeggiare il centenario della morte del grande scrittore belga. Tra cinema, incontri e una figura che non si può ridurre al padre del suo commissario più famoso». Senza fretta: «Così in Liguria ci si prepara a festeggiare il centenario della morte del grande scrittore belga». Con pazienza: «il centenario della morte».

IN PANNI ALTRUI Ora vesto i panni che sono di diritto di Lello Piazza; spero di interpretarne adeguatamente il personaggio. La doppia pagina in questione non è di cronaca, quindi è presumibilmente lontana dagli affanni che si inseguono sui lanci di agenzia. La doppia pagina in questione fa parte del contenitore culturale della Repubblica, che osiamo pensare realizzato con tempi cadenzati e allungati, estranei alla concitazione del quotidiano vero e proprio. La doppia pagina in questione coinvolge numerose prestazioni d’opera: oltre gli scrittori propriamente tali, una miriade di redattori e correttori. È mai possibile che nel lungo lasso di tempo e nella successione di professionisti nessuno sia stato colto da un dubbio, nessuno abbia pensato a una verifica, non fosse al-

MONDO SIMENON

A

llestito con preziosi materiali provenienti dalla collezione di Romolo Ansaldi, già collezionista Leica e “maggior conoscitore mondiale dell’opera di Georges Simenon” [FOTOgraphia, luglio 2008], Mondo Simenon è un diversificato programma che celebra lo straordinario scrittore belga a venti anni dalla scomparsa (almeno presumiamo che si possa trattare di questo allineamento di date). Sottotitolato L’universo di uno scrittore, l’appuntamento si distribuisce in diverse sedi liguri, sostanzialmente prossime le une alle altre. Inaugurato a metà febbraio, Mondo Simenon si allunga fino al cinque aprile, offrendo una intensa successione e sequenza di eventi. Tutto ruota attorno le mostre promosse dal consorzio turistico Terre di Portofino, mica roba da poco, a Villa San Giacomo e a Villa Nido, nel Parco di Villa Durazzo, a Santa Margherita Ligure: dalla collezione di Romolo Ansaldi, ribadiamo, prime edizioni, fotografie d’epoca, manifesti e locandine di film ricavati dai romanzi di Georges Simenon, documenti e illustrazioni per i volumi. Quindi, convegni, rassegne cinematografiche e altre manifestazioni a Rapallo, Moneglia e Borzonasca (0185-64761; www.terrediportofino.eu).

Dall’opuscolo di presentazione di Mondo Simenon. Non siamo riusciti a ottenere nulla di più e meglio di questo, scaricato in formato Pdf dal sito www.terrediportofino.eu. Per non coincidenza di rispettive disponibilità o tragica coincidenza di rispettive indisponibilità, le nostre prima di tutte, non abbiamo potuto accedere ad altri servizi stampa.

tro che visiva? In sequenza, le mie opinioni: anzitutto, la quantità di scrittori dei quali si può celebrare «il centenario della morte» sono ancora pochini e di personalità letteraria più che classica (diciamo nell’ordine di Alessandro Manzoni e dintorni); quindi, le fotografie a corredo, che accompagnano l’occhiello-maledetto in questione, contornandolo fisicamente, rivelano situazioni del Novecento inoltrato; ancora, vorrei conoscere chi ignora la figura del commissario Maigret (non del capostipite di tutti, l’investigatore Auguste Dupin, nato dalla straordinaria penna di Edgar Allan Poe, e comparso per la prima volta nel 1841, con la pubblicazione sul Graham’s Magazine di The Murders in the Rue Morgue, in Italia I delitti della Rue Morgue o Il delitto della Rue Morgue oppure Duplice delitto nella Rue Morgue); in sovramercato, vorrei conoscere anche il redattore che, leggendo l’occhiello, non è stato colto da alcun dubbio, né sospetto, e non ha investito quindici secondi netti (cronometrati) per una verifica in Wikipedia. Lo vorrei conoscere, per evitarlo: quanto-

meno sul piano professionale. E adesso, viene il bello: di centenari, nemmeno l’ombra! Georges Joseph Christian Simenon è nato a Liegi, in Belgio, il 13 febbraio 1903; e si è spento a Losanna, in Svizzera, il 4 settembre 1989. Se proprio vogliamo un allineamento di date: a fine estate, ricorreranno i venti anni dalla morte. Delle due, una: non “centenario” dalla morte, ma “ventennale”; non centenario dalla “morte”, ma centenario abbondante dalla “nascita”. L’errore, l’incidente è grave, oppure veniale e lieve? È di sostanza, o soltanto di forma? Frega a qualcun altro, oltre a me (e a Lello Piazza)? Altra ripetizione dell’incipit: «Niente di personale, in relazione alla mia appassionata ammirazione per Georges Simenon. Tutto di personale, non soltanto tanto di personale, per l’amarezza che ormai accompagna molti dei contatti con il giornalismo italiano (forse troppi)». Quindi, riprendendo la sequenza appena scandita: l’errore/orrore è grave; è di sostanza; e dovrebbe interessare tutti. Maurizio Rebuzzini

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GRANDANGOLARI ESTREMI. C’è stato un tempo nel quale certa fotografia professionale si è espressa soprattutto con apparecchi a corpi mobili, secondo necessità e intendimenti con costruzione a banco ottico piuttosto che folding (a base ribaltabile). Estesosi nei decenni, fino all’alba dell’acquisizione digitale di immagini, questo stesso tempo è stato altresì scandito da un pertinente rapporto con gli obiettivi utilizzabili, per propria logica a costruzione ottica standard, non modificata, fatto salvo alcune interpretazioni tele: con tiraggio al piano focale inferiore alle rispettive lunghezze focali. In quel tempo, la soglia dei grandangolari non ha potuto scendere sotto valori prestabiliti, allineati sia alla copertura di campo (preferibilmente fino al 4x5 pollici, cioè 10,2x12,7cm) sia all’ingombro minimo delle costruzioni meccaniche. Al giorno d’oggi, ovvero in un altro tempo fotografico, diverso da quelli che lo hanno preceduto, dove e quando ci si deve obbligatoriamente riferire all’impiego di sensori ad acquisizione digitale di immagini di dimensioni sostanzialmente contenute, soprattutto nel riferimento alle pellicole piane grande formato, le focali grandangolari possono esprimersi in valori sistematicamente ridotti nei propri termini. Così, registriamo i nuovi disegni ottici Rodenstock HR Digaron-S 23mm f/5,6 e HR Digaron-W 40mm f/4, che offrono le proprie prestazioni dedicate ed esclusive a quei sistemi meccanici che sanno mettere a frutto i movi-

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menti di accomodamento finalizzati al controllo della prospettiva e estensione della nitidezza (piuttosto che sua contrazione volontaria). Soprattutto, e giocoforza, pensiamo alle interpretazioni dell’italiano Silvestri, che si proiettano sul mercato internazionale dell’odierna fotografia professionale che ancora sa cosa voglia dire regolare i movimenti rotatori di basculaggio e lineari di decentramento. Lezione antica, che non dovremmo lasciare precipitare verso alcun oblio. (Mafer, via Brocchi 22, 20131 Milano; Silvestri Fotocamere, via della Gora 13/5, 50025 Montespertoli).

MEDIO TELE. Nuovo nella concezione, con disegno ottico finalizzato alle esigenze e necessità dell’acquisizione digitale di immagini, il Mamiya Sekor AF 150mm f/2,8 IF D è specificamente indicato e riferito alla combinazione con il sistema ZD: corpi macchina di derivazione dal medio formato fotografico (un tempo 4,5x6cm e 6x7cm) e dorsi ZD, utilizzabili anche da altre configurazioni dedicate. Il sistema ottico Mamiya Sekor D riprende e richiama una tradizione ottica che ha stabilito parametri fondamentali e discriminanti della fotografia. Tanto che, ricordiamolo, affonda le proprie radici in una esperienza pluridecennale, che ha accompagnato passo a passo l’evoluzione stessa della fotografia professionale, che si è sempre edificata anche, e spesso soltanto, con interpretazioni Mamiya di avvincente personalità. Ancora e anche in tempi attuali, altrimenti e altrove indirizzati, come non richiamare le

configurazioni portatili 6x9cm (Mamiya Press e derivati), l’efficacia delle reflex 6x7cm monobiettivo (a partire dalla RB67 di buona memoria) e la versatilità delle reflex 4,5x6cm, che ora si presentano in livrea digitale? Insomma, come non riconoscere a Mamiya un ruolo protagonista nella fotografia professionale? L’attuale Mamiya Sekor AF 150mm f/2,8 IF D è definito da un angolo di campo di 26 gradi, che corrisponde all’inquadratura 93mm della fotografia piccolo formato 24x36mm, riferimento d’obbligo; quindi, in termini fotografici, la focale equivalente 174 millimetri con i dorsi ad acquisizione digitale Mamiya ZD corrisponde all’inquadratura 108mm della stessa fotografia 24x36 millimetri. In un disegno di otto lenti divise in sette gruppi, l’impiego di vetri a basso indice di dispersione è finalizzato sia alla più pertinente correzione delle aberrazioni cromatiche residue, sia a una ottimale resa del contrasto e della nitidezza, a ogni distanza di messa a fuoco e su tutta l’immagine, dal centro ai bordi estremi. A fuoco da un metro, con relativo rapporto 0,19x, e area minima coperta 21,8x29,5cm, dispone di un sistema interno di accomodamento, specificato “IF” (Internal Focusing) nella sigla identificatoria, che evita sbilanciamenti di peso e ingombro, semplificando così l’utilizzo anche a mano libera. Diaframma minimo f/22 e diametro filtri 72mm. (Mamiya Trading, via Cesare Pavese 31, 20090 Opera Zerbo MI).

ZOOM STAR. Il sistema ottico SMC Pentax DA* (DA Star) si arricchisce di uno zoom ad escursione focale tutta tele, progettato e realizzato esclusivamente per le reflex digitali Pentax, dunque finalizzato a immagini della più alta qualità possibile. L’SMC Pentax DA* 60-250mm f/4 ED [IF] SDM offre un consistente rapporto di ingrandimento 4x, combinato con una versatile serie di tecnologie avanzate: elementi ottici a basso indice di dispersione (Super-Low Dispersion

e Extra-Low Dispersion, nel codice della casa) e trattamenti ottici proprietari sulle quindici lenti in tredici gruppi assicurano una efficace riproduzione dell’immagine, per fotografie nitide e ad alto contrasto fino ai bordi del campo immagine. Grazie all’impiego di una serie di guarnizioni dedicate, lo zoom è altresì definito da un’affidabile costruzione sigillata, che previene ed evita dannose infiltrazioni di polvere, acqua ed altri contaminanti. Quindi, l’esclusivo sistema Quick-Shift Focus, tecnologia proprietaria, consente il passaggio istantaneo alla messa a fuoco manuale, per intervenire su quanto determinato dal sistema autofocus della reflex in uso. Con reflex Pentax, dotate di sensore di acquisizione digitale di immagini di dimensioni inferiori al fotogramma 24x36mm, lo zoom SMC Pentax DA* 60250mm f/4 ED [IF] SDM realizza inquadrature corrispondenti alla variazione 92-383mm della fotografia tradizionale, coprendo una ampia gamma di focali tele, che lo rendono ideale in numerose applicazioni della fotografia dinamica: da 26,5 a 6,5 gradi di angolo di campo. La generosa apertura relativa f/4 è costante sull’intera escursione, così da consentire di selezionare tempi di otturazione adeguatamente rapidi, oppure agire su una messa a fuoco selettiva, con profondità di campo volontariamente ridotta. Diaframma minimo f/32, a fuoco da 110cm. (Fowa, via Tabacchi 29, 10132 Torino).



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MADRE TERRA do sono stato photo editor di Airone -in origine e un tempo rivista di geografia e natura (oggi scaduta/precipitata a medium di divulgazione della conoscenza di stile pseudo televisivo, quindi becero)-, ho continuato a sostenere che lo stile fotografico del National Geographic, prima, e Airone, poi, ma non in subordine, ha rappresentato e rappresenta uno dei tanti modi efficaci di fare fotogiornalismo, se nella definizione di fotogiornalismo siamo autorizzati a comprendere non solo argomenti che riguardano la guerra o, più in generale, il dolore. Consiglio perciò di visitare questa mostra, dove, e per fortuna, ci sono soprattutto fotografie che celebrano la bellezza e il mistero del nostro pia-

Nuova Zelanda. Un tuatara aggrappato a una roccia al largo della North Island; questo rettile è considerato un fossile vivente.

neta, piuttosto che immagini di luoghi degradati dal conflitto, con le (troppo) voraci esigenze dell’uomo. I fotografi presenti (cinquantotto) sono tutti straordinari, ma ne cito soltanto alcuni, i miei preferiti. Comincio da Frans Lanting, l’olandese americanizzato, che ha un sensibilità e una competenza speciali per gli animali. Poi passo a David Doubilet, il più bravo di tutti sott’acqua, a Bill Allard, un pioniere del reportage geografico, a Jodi Cobb, che ha grande attenzione per le culture aborigene, a Ed Kashi, che sa fotografare nel pericolo, a David Alan Harvey, un fotografo Magnum Photos della grande commedia umana, a Gerd Ludwig, specialista dei paesi dell’Est, a Nick Nichols, FRANS LANTING / NatioNal GeoGraphic

Concordo pienamente con quanto ha affermato Guglielmo Pepe, direttore dell’edizione italiana di National Geographic, a proposito della mostra Madre Terra, visitabile a Roma fino al ventinove marzo, presso il Palazzo delle Esposizioni: «Una mostra fotografica non può offrire soluzioni, né dettare le linee di un programma in difesa della Terra, ma, grazie alla forza delle immagini, può indicare i luoghi nei quali sono più evidenti le gravi conseguenze dei cambiamenti climatici, affinché vengano salvaguardate le bellezze e le biodiversità, la ricchezza dei territori e dei mari, la sopravvivenza delle popolazioni umane e animali». L’ho già scritto altre volte, e qui lo ripeto, ribadendolo: per anni, quan-

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GORDON WILTISIE / NatioNal GeoGraphic

Antartide. Picchi montuosi spuntano sulla distesa innevata della Terra della Regina Maud.

JODI COBB / NatioNal GeoGraphic

Papua Nuova Guinea. Una danzatrice con il corpo ricoperto di cenere, durante il festival Sing-Sing di Goroka.

autore della più straordinaria storia sugli elefanti mai pubblicata (National Geographic, settembre 2008), a Pascal Maitre, l’uomo dell’Africa sub sahariana e centrale, a Norbert Rosing, specialista del Grande Nord, a Michael Yamashita, il fotografo dell’Asia centrale e dell’Oriente, a Christian Ziegler, che si è adattato alle foreste pluviali del Centroamerica e lì realizza i suoi lavori più incredibili. Degli italiani, cito soltanto Stefano Unterthiner, competente naturalista, il più grande (secondo me) dei nostri fotografi di natura [copertina di FOTOgraphia dello scorso febbraio, in rappresentanza del BBC Wildlife Photographer of the Year], e Sandro Santioli, il fotografo del paesaggio. Insomma, una mostra che offre la possibilità di godersi centouno immagini eccezionali, veramente fuori dall’ordinario. Infine, “per dare a Cesare quel che è di Cesare”, ricordo che la mostra Madre Terra è stata realizzata anche grazie al contributo della Unilever, promossa dal Comune di Roma e dall’Azienda Speciale Palaexpo, e prodotta da Zoneattive. L.P. Madre Terra. Fotogiornalismo di geografia e natura da National Geographic Italia. Palazzo delle Esposizioni, via Nazionale 194, 00184 Roma (06-489411; www.palazzoesposizioni.it, info@palazzoesposizioni.it). Fino al 29 marzo.


ATTRAVERSAMENTI NIKON

T

Tra le numerose iniziative che Nital ha organizzato per animare e caratterizzare la propria presenza al Photo Show 2009, la fiera commerciale della fotografia il cui svolgimento ci suggerisce almeno profonde perplessità (esternate anche nella lunga riflessione di Alla Photokina e ritorno, pubblicata dalla nostra casa editrice), sottolineiamo una visione alla quale siamo particolarmente vicini: tanto da dedicarle continui e ripetuti spazi su queste stesse pagine. Una serie di dieci pannelli tematici, riuniti nel contenitore dichiarato Nikon sul grande schermo (eccoci!), riprende e ripropone una cadenza alla quale siamo affezionati, perché rappresenta uno dei più clamorosi tratti distintivi della socialità della fotografia, ovverosia della Fotografia (maiuscola volontaria e consapevole) che si allunga oltre i propri confini istituzionali. Tra l’altro, e tra tanto, la sottolineatura della presenza di Nikon in film di vario genere e diverse date di produzione certifica anche i tratti di una leggenda e un mito che non si esauriscono nel solo ambito degli addetti, per abbracciare il costume e, perché no?, la stessa vita. Così, non ci è difficile riconoscere, e dunque sottolineare, come più, meglio e più approfonditamente di altri marchi fotografici (e non soltanto), quello Nikon è assolutamente trasversale e universale.

AVVINCENTE OSSERVAZIONE Al culmine di una esperienza sostanzialmente matura, e maturata al ritmo di affascinanti mostre già organizzate, il curatore Filippo Rebuzzini, al quale dobbiamo anche l’insieme delle nostre ripetute segnalazioni della presenza della fotografia nel cinema (sceneggiature e scenografie), non si è fatto prendere la mano, e neppure è caduto nella possibile provocazione di una quantità infinita. Invece di un casellario nel quale avrebbe potuto includere centinaia di citazioni, alcune delle quali autenticamente di passaggio (per

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esempio, la Nikon F cromata usata da John Wayne, nei panni del tenente Lon McQ di È una sporca faccenda tenente Parker, di John Struges, del 1974; oppure quella coincidente della recente versione cinematografica di Starsky & Hutch, che compare tra le mani di Owen Wilson, nei panni di Ken Hutchinson), Filippo Rebuzzini ha agito con autentica e ben riposta parsimonia. Dieci film su dieci pannelli, senza alcuna miscellanea di complemento, che avrebbe appunto definito e disegnato soltanto una consistente quantità, sicuramente a scapito della affascinante qualità che ha invece ottenuto e raggiunto. Dieci pannelli con motivo conduttore Nikon allestiti avendo soprattutto cura di individuare fotogrammi meno conosciuti, più insospettabili, accostati tra loro in base a un coincidente e armonioso doppio filo conduttore: la rappresentatività della situazione combinata con una affascinante alternanza cromatica e di tono. Quasi alla maniera della sua precedente esposizione di Fotogrammi.

Blow up; di Michelangelo Antonioni, 1966.

Fotografi e fotografia nel cinema, allestita lo scorso inverno nell’ambito del nutrito programma del LuccaDigitalPhotoFest 2008 [FOTOgraphia, novembre 2008], la casualità delle combinazioni è soltanto apparente: a una osservazione meno superficiale, si percepiscono il ritmo e la cadenza di combinazioni visive estremamente ammalianti. Se proprio va rilevato, dovrebbe essere anche questo il senso e spirito delle proposte che il mondo fotografico indirizza al pubblico generico, rivolgendosi oltre le competenze degli addetti e appassionati di sempre. Se proprio va rilevato, ancora, è soprattutto questo che l’industria fotografica nel proprio insieme deve saper fare, quando realizza programmi espressivi/creativi a promozione della fotografia (con il legittimo intento di migliorare i termini del suo commercio; ancora rimandiamo al succo di Alla Photokina e ritorno, le cui analisi mantengono esattamente quanto promettono di essere: «Riflessioni, Osservazioni e Commenti sulla Fotografia: spunti utili


e proficui sia al comparto tecnicocommerciale sia al mondo della fotografia espressiva e creativa».

DIECI FILM In aggiunta all’esposizione di questi dieci originali, tutti pannelli predisposti con l’ordinata e armoniosa cadenza di tredici fotogrammi ciascuno (uno centrale, geometricamente contornato da dodici laterali di dimensioni proporzionalmente inferiori), possiamo offrire una ulteriore chiave di lettura, distinguendo tra le produzioni cinematografiche che si sono offerte in tempo reale e quelle, diciamola così, retrovisive. Al solito, con ordine, partendo dal film che si conteggia come capostipite, sia della vicenda Nikon nel proprio specifico, sia, soprattutto, della riflessione a tutto tondo sulla foto-

grafia nel proprio complesso. Ovviamente, si comincia con Blow up, di Michelangelo Antonioni, del 1966, che ha rappresentato l’autentica apoteosi della Nikon F (che in quello stesso anno venne anche disegnata come Novak N da Guido Crepax, in Ciao Valentina!; FOTOgraphia, dicembre 2007). Quindi, dopo questa originaria usata dal fotografo Thomas, interpretato da David Hemmings, si incontrano la Nikon F5 che Julia Roberts (Isabel Kelly) utilizza in Nemiche amiche (Stepmom; di Chris Columbus, 1998), la Nikon FM, oppure FE, di Faye Dunaway in Gli occhi di Laura Mars (Eyes of Laura Mars; di Irvin Kershner, 1978) e la Nikkormat FTn di Emma Thompson (Frances) in Ospite d’inverno (The Winther Guest; di Alan Rickman, 1997). A proposito di questa Nikkor-

Nemiche amiche ( Stepmom); di Chris Columbus, 1998. Gli occhi di Laura Mars ( Eyes of Laura Mars); di Irvin Kershner, 1978.

mat, la protagonista del film Frances riflette così: «Vede quello che dico io. Di volta in volta, scopre l’animo delle persone, vede quello che hanno dentro, se si lasciano andare. [...] Se sono fortunata, mi mostrerà anche i loro segreti, li porterà allo scoperto, uno a uno». Diavolo! Dopo di che, le rievocazioni delle guerre del secondo Novecento sono immancabilmente Nikon F e Nikon F Photomic e poi, immediatamente a seguire, Nikon F2. Sopra tutto, Nikon F nelle rievocazioni del Vietnam: Full Metal Jacket (di Stanley Kubrick, 1987), con i soldati fo-

Ospite d’inverno ( The Winther Guest); di Alan Rickman, 1997.

Full Metal Jacket; di Stanley Kubrick, 1987.

We Were Soldiers; di Randall Wallace, 2002.

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Sotto tiro ( Under Fire); di Roger Spottiswoode, 1983. (a sinistra, in alto) Urla del silenzio ( The Killing Fields); di Roland Joffé, 1985.

City of God ( Cidade de Deus); di Fernando Meirelles, 2002.

I ponti di Madison County ( The Bridges of Madison County); di Clint Eastwood, 1995.

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tografi interpretati da Matthew Modine e Kevyn Major Howard, e We Were Soldiers (di Randall Wallace, 2002), con Barry Pepper nei panni del soldato Joe Galloway [FOTO graphia, febbraio 2009]. Slittando un poco in avanti con gli anni, si passa alle Nikon F2 delle guerre in Cambogia e Nicaragua: rispettivamente, Urla del silenzio (The Killing Fields; di Roland Joffé, 1985), con John Malkovich / Alan “Al” Rockoff e Sam Waterson / Sydney H. Schanberg (e nel film ci sta anche una Asahi Pentax Spotmatic nera, usata da Julian Sands, nei panni di Jon Swain), e poi Sotto tiro (Under Fire; di Roger Spottiswoode, 1983), con le affascinanti Nikon F2 nere, anche motorizzate, di Nick Nolte / Russell Price. Ancora Nikon F Photomic, tutta camuffata con nastro isolante nero, in City of God, titolo internazionale dell’originario brasiliano Cidade de Deus (di Fernando Meirelles, 2002): è la macchina fotografica del protagonista Alexandre Rodrigues, nei panni di Buscapé - Rocket. Quindi, chiusura solenne, a conclusione del tragitto avviato altrettanto splendidamente con Blow up, con l’avvincente I ponti di Madison County (The Bridges of Madison County; di Clint Eastwood, 1995). Immancabili Nikon F con evidenti usure tra le mani dello stesso Clint Eastwood, nei panni del fotografo del National Geographic Magazine Robert Kincaid. E di questa combinazione, dalla cui ricostruzione scenica la celebre rivista prese immotivatamente le distanze, abbiamo ampiamente riferito in cronaca, tanti anni fa, nel novembre 1995. Addirittura! M.R. Ricerca iconografica di Filippo Rebuzzini



WORLD PRESS PHOTO

A

Appena prima di andare in macchina con questo numero di FOTOgraphia, riceviamo l’annuncio dei vincitori del World Press Photo 2009, per fotografie scattate nel precedente 2008. Notiamo che l’Italia ha sei fotografi presenti nelle classifiche: tre al primo posto, uno al secondo e due al terzo. Rispettivamente: Davide Monteleone, dell’Agenzia Contrasto, primo nelle General News Stories con un reportage dal Caucaso [a pagina 19]; Carlo Gianferro, dell’Agenzia Postcart, primo nelle Portraits Stories con interni di abitazioni romene; Giulio Di Sturco, dell’Agenzia Grazia Neri, primo nelle Arts and Entertainment Singles con un backstage della settimana della moda, a Nuova Delhi [a pagina 21]; Mattia Insolera, dell’Agenzia Grazia Neri, secondo nelle Daily Life Singles con un matrimonio gay in Spagna; Paolo Verzone, Agence Vu, terzo nelle Sport Features Stories con un viaggio con Michel Platini; Massimo Siragusa, dell’Agenzia Contrasto, terzo nelle Contemporary Issues Stories con un reportage sulle baraccopoli a Messina. World Press Photo of the Year 2008 è stato nominato Anthony Suau, Stati Uniti, del settimanale Time. La sua fotografia premiata ritrae un detective mentre si assicura, pistola in pugno, che gli ex-proprietari di una casa, rovinati dalla crisi dei muti subprime, abbia abbandonato i locali [a destra, in alto]. Qui di seguito i vincitori delle altre categorie dei quali forniamo un so-

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World Press Photo of the Year 2008: Anthony Suau, Usa, Time. Un detective mentre si assicura, pistola in pugno, che gli ex-proprietari di una casa, rovinati dalla crisi dei muti subprime, abbia abbandonato i locali.

Primo premio Spot News Singles: Chen Qinggang, Repubblica popolare cinese, Hangzhou Daily. Terremoto in Cina.

Primo premio General News Singles: Luiz Vasconcelos, Brasile, A Crítica, Zuma Press. Una donna si oppone allo sfratto dalla terra.

lo elenco, riservandoci di tornare sull’argomento in occasione delle due edizioni italiane simultanee delle mostre del World Press Photo 2009: dall’otto al ventotto maggio al Museo di Roma in Trastevere, e dal nove maggio al sette giugno alla Galleria Carla Sozzani di Milano. ❯ Spot News Singles: 1) Chen Qinggang (Repubblica popolare cinese), Hangzhou Daily, terremoto in Cina [qui sopra]; 2) Henk Kruger (Sudafrica), Cape Argus, tentativo di attraversamento del confine tra lo Zimbabwe e il Sudafrica; 3) Gleb Garanich (Ucraina), Reuters, vittima dei bombardamenti in Georgia [FOTOgraphia, novembre 2008]. ❯ Spot News Stories: 1) Walter

Astrada (Argentina), Agence France-Presse, violenze in Kenya; 2) Bo Bor (Repubblica popolare cinese), Reuters, terremoto a Sichuan; 3) Wojciech Grzedzinski (Polonia), Napo Images per Dziennik, conflitto in Georgia. Menzione d’onore) Sebastian D’Souza (India), Mumbai Mirror, attacco alla stazione a Mumbai. ❯ General News Singles: 1) Luiz Vasconcelos (Brasile), A Crítica, Zuma Press, una donna si oppone allo sfratto dalla terra [a sinistra]; 2) Zhao Qing (Repubblica popolare cinese), Shenzhen Economic Daily, dopo il terremoto a Sichuan; 3) Kevin Frayer (Canada) Associated Press, palestinesi si proteggono dai lacrimogeni israeliani a Gaza.


❯ General News Stories: 1) Davide Monteleone (Italia), Contrasto, Abkhazia, Caucaso [a destra]; 2) Lars Lindqvist (Svezia), Dagens Nyheter, conflitto in Georgia; 3) Olivier Laban Mattei (Francia), Agence FrancePresse, dopo il ciclone in Myanmar. ❯ People in the News Singles: 1) Chiba Yasuyoshi (Giappone), Agence France-Presse, conflitti tribali in Kenya [a destra, al centro]; 2) Yannis Kolesidis (Grecia), Reuters, disordini contro il governo ad Atene; 3) Jean Revillard (Svizzera), Rezo.ch, Hachim, immigrato afgano in Grecia. ❯ People in the News Stories: 1) Callie Shell (Usa), Aurora Photos, campagna elettorale di Barack Obama [a destra, in basso]; 2) Justyna Mielnikiewicz (Polonia), per The New York Times, conflitto in Georgia; 3) Philippe Dudouit (Svizzera), Contact Press Images, ribelli Tuareg. ❯ Sport Action Singles: 1) Paul Mohan (Irlanda), Sportsfile, Campionati europei Under 17; 2) Mark Dadswell (Australia), Getty Images, Usain Bolt nella finale dei duecento metri alle Olimpiadi di Pechino; 3) Franck Robichon (Francia), EPA-European Pressphoto Agency, salto triplo alle Olimpiadi di Pechino. ❯ Sport Action Stories: 1) Vincent Laforet (Usa), per Newsweek, tuffatori alle Olimpiadi di Pechino [a pagina 20]; 2) Alexander Taran (Russia), Atlant Media, Campionato mondiale di sambo (arte marziale); 3) Julian Abram Wainwright (Canada), EPAEuropean Pressphoto Agency, tuffatori alle Olimpiadi di Pechino. ❯ Sport Features Singles: 1) Xiaoling Wu (Repubblica popolare cinese), Xinhua News Agency, judo alle Olimpiadi di Pechino; 2) Berthold Steinhilber (Germania), Laif, corsa di mountain bike; 3) Tomasz Gudzowaty (Polonia), Yours Gallery, corse a cavallo per ragazzi in Mongolia. ❯ Sport Features Stories: 1) Zhao Qing (Repubblica popolare cinese), China Youth Daily, Giochi Olimpici in Tv, a Pechino [a pagina 20]; 2) Howard Schatz (Usa), ritratti di pugili prima e dopo l’incontro; 3) Paolo Verzone (Italia), Agence Vu, in viaggio con Michel Platini. ❯ Contemporary Issues Singles: 1) Mashid Mohadjerin (Belgio), Reporters, immigrazione a Lampedusa [a pagina 20]; 2) Guillaume Her-

Primo premio General News Stories: Davide Monteleone, Italia, Agenzia Contrasto. Abkhazia, Caucaso.

Primo premio People in the News Singles: Chiba Yasuyoshi, Giappone, Agence France-Presse. Conflitti tribali in Kenya.

Primo premio People in the News Stories: Callie Shell, Usa, Aurora Photos. Campagna elettorale di Barack Obama.

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Primo premio Sport Action Stories: Vincent Laforet, Usa, per Newsweek. Tuffatori alle Olimpiadi di Pechino.

Primo premio Sport Features Stories: Zhao Qing, Repubblica popolare cinese, China Youth Daily. Giochi Olimpici in Tv, a Pechino.

baut (Francia), Oeil Public, forme di schiavitù nella Francia di oggi; 3) Veronique de Viguerie (Francia), Getty Images, memorial per le donne vittime di violenza in Guatemala. Menzione d’onore) Henry Agudelo (Colombia), El Colombiano, homeless a Medellin, Colombia. ❯ Contemporary Issues Stories: 1) Carlos Cazalis (Messico), Corbis, homeless a San Paolo, Brasile [a destra, al centro]; 2) Johan Bävman (Svezia), Sydsvenska Dagbladet, un ragazzo albino in Tanzania; 3) Massimo Siragusa (Italia), Contrasto, baraccopoli a Messina. ❯ Daily Life Singles: 1) Lissette Lemus (El Salvador), El Diario de Hoy, una vittima della violenza di scontri tra bande a El Salvador; 2) Mattia Insolera (Italia), Agenzia Grazia Neri, matrimonio gay in Spagna; 3) Tomasz Wiech (Polonia), Gazeta Wyborcza Kraków, colazione di lavoro. Menzione d’onore) Eraldo Perez (Brasile),

Primo premio Contemporary Issues Stories: Carlos Cazalis, Messico, Corbis. Homeless a San Paolo, Brasile.

Primo premio Daily Life Stories: Brenda Ann Kenneally, Usa, per The New York Times Magazine. Troy, nello stato di New York. Primo premio Contemporary Issues Singles: Mashid Mohadjerin, Belgio, Reporters. Immigrazione a Lampedusa.

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Associated Press, persone intorno al cadavere di Thiago Franklino Lima, in uno slum di Recife, Brasile. ❯ Daily Life Stories: 1) Brenda Ann Kenneally (Usa), per The New York Times Magazine, Troy, nello stato di New York [qui sopra]; 2) Anthony Suau (Usa), Time, crisi economica

negli Stati Uniti; 3) Gen Yamaguchi (Giappone), per The St. Petersburg Times, autismo in famiglia. ❯ Portraits Singles: 1) Yuri Kozyrev (Russia), Noor, Rajiha Jihad Jassim con il figlio Sarhan, Iraq; 2) Jerome Bonnet (Francia), per Libération, Dennis Hopper; 3) Sung


Primo premio Arts and Entertainment Singles: Giulio Di Sturco, Italia, Agenzia Grazia Neri. Backstage della settimana della moda, Nuova Delhi.

Primo premio Arts and Entertainment Stories: Roger Cremers, Olanda. Visitatori al museo di AuschwitzBirkenau, in Polonia.

Primo premio Nature Singles: Carlos F. Gutiérrez, Cile, Patagonia Press. Eruzione del vulcano Chaitén, in Cile.

Nam-Hun (Corea del Sud), giovane novizia tibetana. ❯ Portraits Stories: 1) Carlo Gianferro (Italia), Postcart, interni di abitazioni, Romania; 2) Pep Bonet (Spagna), Noor, transessuali in Honduras; 3) Li Jiejun (Repubblica popolare cinese), New Express Daily, ricostruzione con soldatini di icone fotografiche di guerra. ❯ Arts and Entertainment Singles: 1) Giulio Di Sturco (Italia), Agenzia Grazia Neri, backstage della settimana della moda, Nuova Delhi [a sinistra, in alto]; 2) Jerome Bonnet (Francia), per Le Monde 2, studenti alla scuola di balletto dell’Opéra di Parigi; 3) André Vieira (Brasile), Focus Photo und Presse Agentur, stilista a Luanda, Angola. ❯ Arts and Entertainment Stories: 1) Roger Cremers (Olanda), visitatori al museo di Auschwitz-Birkenau, in Polonia [a sinistra, al centro]; 2) Kacper Kowalski (Polonia), Kosycarz Foto Press, un giorno sulla spiaggia; 3) Jonathan Torgovnik (Germania), per Geo, l’Amato Opera Theater, New York. ❯ Nature Singles: 1) Carlos F. Gutiérrez (Cile), Patagonia Press, eruzione del vulcano Chaitén, in Cile [a sinistra, in basso]; 2) Jeremy Lock (Usa), US Air Force, tempesta di sabbia sulle esercitazioni dell’esercito francese, a Djibuti; 3) Alexey Bushov (Russia), leopardo in caccia, Namibia. ❯ Nature Stories: 1) Steve Winter (Usa), National Geographic Magazine, leopardo delle nevi [già BBC Wildlife Photographer of the Year 2008; FOTOgraphia, febbraio 2009; qui sotto]; 2) Fu Yongjun (Repubblica popolare cinese), Hangzhou City Express, il lago dell’ovest a Hangzhou, Cina; 3) Heidi & Hans-Jürgen Koch (Germania), per Stern, gli occhi degli animali. L.P.

Primo premio Nature Stories: Steve Winter, Usa, National Geographic Magazine. Leopardo delle nevi.

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FERRANIA CAMBIA RUOLO. Dalle pellicole all’energia solare. Nata nel 1917 con il marchio Film (Fabbrica Italiana Lamine Milano), l’azienda originaria è entrata definitivamente nel mercato delle pellicole nel 1927, e nel 1938 ha adottato il marchio Ferrania (nome della città dove ha sede, Ferrania, in provincia di Savona). Una storia lunga quasi cent’anni, dunque, che è terminata ai primi dello scorso dicembre 2008. Fortunatamente non per decretare la morte dell’azienda, ma per farla risorgere a un nuovo modernissimo ruolo, quello di produttore di strumenti per l’energia fotovoltaica. La famiglia Messina, armatori con interessi in vari settori, che, tramite la finanziaria Finemme, controlla il cento per cento del capitale di Ferrania SpA, ha annunciato un investimento iniziale di cento milioni di euro per la trasformazione. Stefano Messina, presidente della finanziaria, ha dichiarato a La Repubblica: «Fino a che sarà possibile, proseguiremo con le attività tradizionali, la pellicola fotografica a colori e ancor di più la chimica fine per la cosmesi e la farmaceutica, ma ci concentreremo soprattutto sulla produzione di celle, moduli e impianti fotovoltaici e sulla realizzazione di una centrale a biomasse, che potrà generare anche teleriscaldamento per il territorio». BULLSHIT SUL CdS. In un delizioso libriccino, Harry Gordon Frankfurt, professore emerito di filosofia morale della Università di Princeton, ricorda che «l’essenza delle stronzate (bullshit) non sta nell’essere false, ma nell’essere finte» (On Bullshit, Princeton University Press, 2005; edizione italiana Stronzate. Un saggio filosofico, Rizzoli, 64 pagine, 6,00 euro) [al centro, in alto]. Per la cronaca, ma soprattutto per invogliare all’acquisto e alla lettura (senza alcun secondo fine), riporto le parole di esordio del libro: «Uno dei tratti salienti della nostra cultura è la quantità di stronzate in circolazione. Tutti lo sanno. Ciascuno di noi dà il proprio contributo». Ecco, dunque, Piero Ostellino farsi maestro della finzione finalizzata. Come? Fingendo che la stampa sia indipendente.

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Questa rubrica riporta notizie che sono appartenute alla cronaca. Però, nel loro richiamo e riferimento molti motivi ci impediscono di essere tempestivi quanto la cronaca richiederebbe. Ciononostante riteniamo giusto proporle, perché siamo convinti che non abbiano perso la propria attualità, e continuino a offrire spunti di riflessione.

On Bullshit, di Harry Gordon Frankfurt, professore emerito di filosofia morale della Università di Princeton (Princeton University Press, 2005). Edizione italiana Stronzate. Un saggio filosofico, Rizzoli, 64 pagine, 6,00 euro

I fatti. C’è uno scandalo per fatture false riguardanti prestazioni cliniche inesistenti, che coinvolge Giampaolo Angelucci, re delle cliniche romane, e suo padre Antonio (senatore del Pdl). Gli Angelucci sono anche gli editori di Libero e del Riformista. Oltre che del reato delle fatture false, il pubblico ministero Giovanni Taglialatela accusa gli Angelucci di utilizzare i propri giornali per fare lobby. Ciò scandalizza Piero Ostellino, che sul Corriere della Sera del sei febbraio scrive: «Non penso che fra i compiti di un giornale ci sia quello di fare il lobbista per gli interessi extra-editoriali del proprio editore. Se l’editore lo chiedesse, sarebbe un pessimo editore e farebbero bene i suoi giornalisti a mandarlo al diavolo; se i giornalisti si piegassero, non farebbero il loro mestiere e sarebbero pessimi giornalisti; entrambi farebbero un danno alla credibilità del giornale. Conosco Antonio Polito (direttore del Riformista) e Vittorio Feltri (direttore di Libero). Due eccellenti giornalisti, con una lunga carriera alle spalle, e due galantuomini. Non ce li vedo a fare i lobbisti per conto di qualcosa che non siano le loro personali convinzioni». E più avanti: «Nella mia lunga vita professionale, qui al Corriere, ho avuto editori “puri” e “impuri”: nessuno ha mai cercato di trasformare noi di via Solferino -che, in ogni caso, come si dice a Milano, lo avremmo mandato a “scopare il mare”- in lobbisti». Dunque, per Piero Ostellino non esistono editori che utilizzano i loro giornali per i propri interessi. Anzi, se per caso li avesse incontrati, li avrebbe mandati a scopare il mare. Ma qualcuno ha per caso visto,

nel 1981, ai tempi della scoperta della Loggia massonica eversiva P2, tanto per fare l’esempio più clamoroso, Bruno Tassan Din (tessera numero 534) o Angelo Rizzoli (numero 532) partire per il mare, per andare a scoparlo? Furono i giudici a mandare i due piduisti “a scopare il mare”, non Piero Ostellino, che forse, a quei tempi, segretamente invitava. Ecco, direi che si potrebbe dare a Piero Ostellino il titolo di “invitatore”. Qualche altro giornalista iscritto alla P2? Francesco Di Bella (numero 655), direttore Corriere della Sera; Massimo Donelli (numero 921), già direttore di Canale 5; Roberto Gervaso (numero 622); Maurizio Costanzo (numero 626). Il piano della Loggia P2 prevedeva di fare lobby, grazie al reclutamento di giornalisti e il controllo dei relativi media: Corriere della Sera, Il Giorno, Il Giornale, La Stampa, Il Resto del Carlino, Il Messaggero, Il Tempo, Roma, Il Mattino, La Gazzetta del Mezzogiorno, Il Giornale di Sicilia, per i quotidiani; quindi, i periodici L’Europeo, L’Espresso, Panorama, Epoca, Oggi, Gente, Famiglia cristiana. E poi, naturalmente, la RAI-TV (le reti di Berlusconi non esistevano ancora). Piero Ostellino non faceva parte della Loggia P2, ma non mi risulta che ritirò la sua firma dal Corriere quando scoppiò lo scandalo, come fecero Enzo Biagi, Alberto Ronchey e Gaetano Scardocchia.

SECONDO NATURA. Anche in Inghilterra si perde competenza sulla natura. Il sei febbraio, sul Times sono state pubblicate fotografie di un gheppio (Falco tinnunculus) che attacca un barbagianni (Tyto alba), scattate da Damian Waters (Drumimages / Connors). Le immagini sono belle e rare, ma, molto probabilmente, il commento è sbagliato [pagina accanto, in alto].


Infatti, il redattore scrive che gheppio e barbagianni stanno combattendo per contendersi prede sul terreno di caccia. Ora, il barbagianni è un rapace notturno e caccia di notte. Altri rapaci notturni, come la civetta delle nevi o l’allocco di Lapponia, che vivono al Nord, dove nella stagione estiva c’è un giorno lunghissimo, cacciano abitualmente anche alla luce del sole. Con quasi assoluta certezza, il barbagianni non stava cacciando, ma migrando. Il gheppio lo ha incrociato e, si sa, i rapaci diurni non riescono a non attaccare un notturno se lo vedono in volo o posato su un ramo. Anni fa, gli inglesi non avrebbero sbagliato un commento così: non ci sono più gli inglesi di una volta.

Times del sei febbraio, con errata interpretazione di fotografie di natura (di Damian Waters / Drumimages / Connors). Correggiamo il commento: non è possibile che gheppio e barbagianni si stiano contendendo una qualsiasi preda. Più semplicemente, combattono tra loro, secondo natura.

GIANNI GIANSANTI A FIRENZE. Lo scorso gennaio, in occasione di Pitti Uomo, a Palazzo Pitti, di Firenze, è stata allestita la mostra Venti italiani che cambiano l’Italia, il più recente reportage di Gianni Giansanti, dedicato a venti lavoratori della nostra società operanti tra pubblica amministrazione, ricerca, attività di volontariato e grandi aziende [a destra]. A cura di Magazine del Corriere della Sera e Io Donna, l’eccellente esposizione è rimasta in cartellone solo nei giorni della moda fiorentina. Purtroppo. Gianni Giansanti è uno dei più grandi e bravi fotogiornalisti italiani [a destra, al centro]. Nasce a Roma nel 1956, e diventa famoso per l’immagine del corpo di Aldo Moro ripresa al momento del suo ritrovamento sulla Renault R4 rossa, in via Caetani, a Roma, il 9 maggio 1978 (copertina di Time). Nel 1981, entra nella agenzia Sygma, di Hubert Henrot-

te, il mago che è riuscito a far diventare Parigi capitale mondiale del fotogiornalismo. A Sygma, per anni, Gianni Giansanti copre la cronaca degli eventi più importanti in Turchia, El Salvador, Guatemala, Libia, Libano, Senegal, Polonia, Grecia e Jugoslavia. Nel 1988, segue per sei mesi papa Giovanni Paolo II nella sua vita quotidiana, e il servizio che realizza gli vale il primo premio nella categoria People in the News al World Press Photo 1988. Allo stesso World Press Photo, un altro premio lo conquista nel 1992, nella categoria Sport per un avvincente reportage sul Palio di Siena. Ancora nel 1992, vince anche un Picture of the Year Award, per le sue immagini della carestia in Somalia. Tra i libri di Gianni Giansanti, segnaliamo Cavalli in Palio (White Star, 1999); Les couleurs de la Passion (1994), dedicato a Ayrton Senna, realizzato con il supporto di Renault Motorsport; Giovanni Paolo II. Ritratto di un pontefice (White Star, 2000); Jacques Villeneuve, A Champion in Pictures (Goldstar Holdings, 1997); Marc Aurel: der Reiter auf dem Kapitol (1999), che documenta il restauro della famosa statua equestre dell’imperatore Marco Aurelio, realizzato con il supporto di Allianz Assicurazioni; Alla scoperta della Camera dei deputati (White Star, 1999), sulla vita quotidiana a Montecitorio; Provincia vo’ cercando (2000), realizzato in coppia con Maurizio Galimberti, su

incarico della Provincia di Alessandria; Semplicemente Del Piero (Logos, 2002); Mondiale in Giallo (Immaginazione Editrice, 2002), sui mondiali di calcio in Corea; Vanishing Africa (White Star, 2004), che narra di un lungo viaggio in Etiopia, attraverso le tribù primitive della valle del fiume Omo, alla ricerca delle origini dell’uomo; Karol Wojtyla (Corriere della Sera, 2005) con testo di Enzo Biagi.

Gianni Giansanti, uno dei più grandi e bravi fotogiornalisti italiani.

Da Venti italiani che cambiano l’Italia, di Gianni Giansanti, reportage esposto in occasione di Pitti Uomo, a Firenze, a cura di Magazine del Corriere della Sera e Io Donna: l’astrofisica Marta Burgay, a Cala Cipolla, in Sardegna.

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La più recente monografia di Gianni Giansanti è di nuovo dedicata a un pontefice: Benedetto XVI. L’alba di un nuovo papato (White Star, 2006), con testo scritto dallo stesso papa. Quindi, anticipiamo l’imminente edizione di Gli ultimi guerrieri africani, ancora con White Star: 216 pagine 34x41,5cm, cartonato con sovraccoperta; 38,00 euro.

BABILONIA A PARTE. A margine dei lavori delle giurie del Sony World Photography Award 2009, seconda edizione del premio internazionale avviato lo scorso anno (FOTOgraphia, giugno 2008), riunitesi a Londra all’inizio di febbraio, è stata allestita una mostra fotografica su Babilonia. Avviato a imporsi come uno dei più importanti riconoscimenti internazionali della fotografia, il Sony World Photography Award, coinvolge giurie di spessore indiscutibile. Per il Fotogiornalismo, hanno selezionato le immagini Sue Steward, giornalista e critico fotografico (Inghilterra); Jurgen Schadeberg, fotografo (Germania); Adrian Evans, di-

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rettore dell’agenzia Panos Pictures (Inghilterra); e Bruce Davidson, fotografo (Stati Uniti). Per la sezione Editorial Market, i giudici sono stati Mark George, agente fotografico (Inghilterra); Arnaud Adida, fondatore della Agence Acte 2 e della Galerie Acte 2 (Francia); Gered Mankowitz, fotografo (Inghilterra); e Grazia Neri (Italia). Ancora, per la categoria Fine Art hanno deciso Zelda Cheatle, curatore di mostre (Inghilterra); Mary-Ellen Mark, fotografa (Stati Uniti); Sarah Moon, fotografa (Francia); e Philippe Garner, responsabile del settore fotografia di Christie’s (Inghilterra). Per il completamento del concorso si riuniranno altre due giurie. Una per segnalare il vincitore del premio speciale dedicato all’ambiente, novità dell’edizione 2009, allestito da Sony in collaborazione con The Prince’s Rainforests Project, organizzazione nata nell’ottobre 2007 sotto gli auspici del principe Carlo d’Inghilterra, con lo scopo di proteggere le foreste pluviali del pianeta, che giocano un ruolo fonda-

(in basso, a sinistra) Al British Museum di Londra, a due passi dal Radisson Bloomsbury Hotel, che ha ospitato le giurie del Sony World Photography Award 2009, all’inizio di febbraio era in cartellone una mostra su Babilonia. Tra tanto materiale, una straordinaria fotografia che raffigura una torre di Babele moderna, realizzata dall’artista americano Julee Holcombe.

Dal The Daily Telegraph del sei febbraio, la notizia che l’Associated Press chiede il pagamento di una royalty e l’indicazione del credito per l’elaborazione di un suo ritratto del presidente Barack Obama, realizzato da Shepard Fairey.

mentale per il contenimento della CO2 e del riscaldamento globale. L’altra riguarda lo Student Focus, riservato agli studenti provenienti da scuole di tutto il mondo. I vincitori saranno annunciati a Cannes, il prossimo aprile. Con l’occasione, rilevo che il Radisson Bloomsbury Hotel, che ha ospitato le giurie, è a due passi dal British Museum di Londra, che nei giorni di valutazione delle fotografie ha avuto in cartellone una piccola, ma ricchissima mostra su Babilonia. La cito perché tra tanto materiale era esposta una straordinaria fotografia che raffigura una torre di Babele moderna, realizzata dall’artista americano Julee Holcombe: ci tengo a condividere il piacere della sua visione [a sinistra, in basso].

OBAMA POSTER. L’agenzia americana di informazione Associated Press chiede il pagamento di una royalty e l’indicazione del credito su centinaia di migliaia di poster e di sticker raffiguranti il volto del presidente statunitense Barack Obama. Il disegno del poster e degli sticker è stato realizzato da Shepard Fairey, uno street-artist residente a Los Angeles, (quasi) ricalcando una fotografia Ap [qui sotto]. Dal suo canto, l’artista si difende affermando di aver trovato questa immagine che lo ha ispirato attraverso Google Images. Ap però non transige, pur garantendo di ricercare una transazione amichevole con Shepard Fairey. Come finirà?


TALENTO FOTOGRAFICO. Il sedici gennaio, presso la sede Fnac di Milano, in via Torino angolo via della Palla, Antonio Zambardino è stato nominato Talento Fotografico Fnac del 2008 [qui sotto]. La giuria era composta da Lorenzo Castore (fotografo), Renata Ferri (photo editor di Io Donna), Annalisa Fumagalli Ceri (Agenzia Prospekt), Martino Marangoni (direttore della Fondazio-

Panoramica dell’insediamento del presidente Barack Obama, realizzata da David Bergman con una Canon PowerShot G10 su un braccio mobile. Il risultato finale è assemblato con un software Gigapan.

Antonio Zambardino è Talento Fotografico Fnac 2008, per Campania’s Changing Face.

ne Studio Marangoni), Alessandra Mauro (direttrice artistica di Contrasto) e Carlo Roberti (direttore del Toscana Photographic Workshop). Il lavoro di Antonio Zambardino, Campania’s Changing Face, rappresenta un viaggio tra gli enormi problemi di una regione che è stata a lungo protagonista delle cronache nella seconda metà dello scorso anno. Ciononostante le sue immagini sono poetiche, addirittura estetizzanti in qualche caso, nonostante la natura esplosiva dei fatti che narrano. Nell’occasione, sono stati assegnati altri due premi. Una menzione speciale del settimanale Io Donna a Irene Rubiano, per il suo progetto Africa Paradise, frutto di una difficile esperienza in Senegal. Come premio, la fotografa realizzerà un reportage che verrà pubblicato (e pagato) da Io Donna. Altro premiato è stato Giovan Battista Lancellotti, per il suo diario in bianconero dal titolo Di padre in figlio: un workshop gratuito al prossimo TPW 2009.

INSEDIAMENTO. Utilizzando un braccio robotizzato, messo a punto dalla Nasa per i veicoli destinati all’esplorazione del suolo di Marte, il fotografo freelance David Bergman ha realizzato una fotografia panoramica estremamente dettagliata del giorno dell’insediamento del presidente Barack Obama. Con una Canon PowerShot G10 ha prodotto è un file Tiff da un giga e mezzo, elaborato con un software dedicato

prodotto dalla società Gigapan. Approssimativamente, la procedura è questa. La compatta viene montata sul braccio robotizzato. Attraverso il software si programma come la struttura deve muoversi per realizzare la panoramica della scena. Quindi, una volta che il braccio si mette in movimento, la Canon PowerShot G10 scatta immagini in sequenza rapida, che poi vengono assemblate dal software nel file finale. Il risultato è sul web, da non perdere: www.gigapan.org/viewGigapanFullscreen.ph p?id=15374 [qui sopra].

DIRITTI E DOVERI. Lo scorso febbraio, abbiamo commentato gli orripilanti fotomontaggi pubblicati da Il Giornale, sulla guerra di Gaza, frutto di un lavoro molto dilettantesco del quale era facilmente riconoscibile la falsità. Ma le nuove tecnologie permettono di lavorare con un grado di precisione molto superiore e di realizzare delle vere e proprie faking images, immagini false. Per porre ordine in questa nuova e inquietante realtà, da poco più di un anno, l’Ordine dei Giornalisti ha istituito un Gruppo di lavoro sull’attuale realtà multimediale, con lo scopo di stilare La Carta dei diritti e dei doveri dei fotoreporter e dei fotocineoperatori. Chi è interessato a saperne di più può consultare il sito: http://www.odg.it/site/?q=content/insediato-il-gruppo-multimediale-del-consiglio-nazionale. A cura di Lello Piazza

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Alla Photokina e ritorno Annotazioni dalla Photokina 2008 (World of Imaging), con richiami e riferimenti che non si esauriscono con il solo svolgimento della Photokina

Riflessioni, Osservazioni e Commenti sulla Fotografia: spunti utili e proficui sia al comparto tecnico-commerciale sia al mondo della fotografia espressiva e creativa

Alla Photokina e ritorno dodici pagine, ventinove illustrazioni

Reflex con contorno ventotto pagine, settantuno illustrazioni

Visioni contemporanee venti pagine, quarantotto illustrazioni

I sensi della memoria dieci pagine, ventisette illustrazioni

La città coinvolta dieci pagine, ventisei illustrazioni

E venne il giorno (?) sei pagine, quindici illustrazioni

E tutto attorno, Colonia sei pagine, diciassette illustrazioni

Ricordando Herbert Keppler due pagine, due illustrazioni

Ciò che dice l’anima sei pagine, undici illustrazioni

Sopra tutto, il dovere quattro pagine, otto illustrazioni

• centosessanta pagine • tredici capitoli in consecuzione più uno • trecentoquarantatré illustrazioni

In forma compatta dieci pagine, venticinque illustrazioni

Tanti auguri a voi venti pagine, cinquantadue illustrazioni

Alla Photokina e ritorno di Maurizio Rebuzzini 160 pagine 15x21cm 18,00 euro

F O T O G R A P H I A L I B R I Graphia srl • via Zuretti 2a - 20125 Milano 02-66713604 • graphia@tin.it

Saluti da Colonia sei pagine, nove illustrazioni

Citarsi addosso sette pagine


GIUDIZIO

UNIVERSALE

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uesta è una storia che inizia qualche anno fa. O anche mezzo millennio fa. Cominciamo dal momento più lontano. Nel 1499, Luca Signorelli o Luca da Cortona (nato nel 1445 a Cortona, nell’attuale provincia di Arezzo) come Luca d’Egidio di Ventura, allievo di Piero della Francesca, del Verrocchio (Andrea di Francesco di Cione, detto) e del Pollaiolo (Antonio del Pollaiolo o Antonio Benci, detto), viene incaricato di affrescare con temi apocalittici la Cappella di San Brizio del Duomo di Orvieto. Luca Signorelli si indirizza ai temi del Giudizio Universale, e in cinque anni realizza il suo capolavoro. Un capolavoro, va rilevato, che è servito anche a Michelangelo come fonte di ispirazione per il suo Giu-

dizio Universale, realizzato tra il 1536 e il 1541, su incarico di papa Giulio II, che impreziosisce la volta della Cappella Sistina, nella Città del Vaticano. Però, i freschi di Luca Signorelli nel Duomo di Orvieto, antichi di secoli e perfettamente conservati, non sono né famosi, né molto fotografati. Mentre dell’opera di Michelangelo c’è pieno di cartoline e si sono stampati centinaia di libri, il Giudizio del Signorelli si incontra e sfiora soltanto quando, al liceo, si studia la storia dell’arte e ci si dimentica di andarlo a visitare quando si bighellona a cavallo della bassa Toscana e dell’Umbria. Arriviamo ai giorni nostri. A Orvieto vive un’appassionata studiosa, Patrizia Pelorosso, della Cooperativa Cultour (0763-29340; cultour@tiscalinet.it), che

Il Giudizio Universale di Luca Signorelli è affrescato nella Cappella di San Brizio, nel Duomo di Orvieto.

Straordinaria documentazione d’arte di Sandro Vannini, che con la perizia che gli è propria e congeniale ha fotografato l’opera di Luca Signorelli, affrescata nella Cappella di San Brizio, nel Duomo di Orvieto. Stampato in maniera superlativa, con la nuova Epson Stylus Pro 11880 ad alte prestazioni, l’insieme delle sue rappresentazioni fotografiche è esposto nella stessa città umbra: pochi passi per passare, volendolo fare (e lo consigliamo vivamente), dalla interpretazione visiva alla realtà dell’originale. Avvincente esperienza individuale 27


«Torno a Orvieto apposta per ri-vedere gli affreschi alla luce dell’entusiasmo che mi ha contagiato: ne rimango incantato. Situazioni straordinarie, ori preziosi, diavoli verdi, morti che resuscitano, dannati che volano in spalla ai diavoli, un’orgia di santità e dannazione di straordinaria forza espressiva».

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ha dedicato la sua vita al Giudizio e condivide con i visitatori che si affidano alla sua guida, le emozioni, le voci e i segreti custoditi da quelle pitture. Anni fa, Daniela Pasqualin di Epson, appassionata d’arte oltre che di fotografia, anche buona acquarellista, durante una visita professionale a Orvieto incontra Patrizia Pelorosso e si innamora dell’opera del Signorelli [scrivo per conoscenza diretta: in una grigia mattina di primavera, con Maurizio Rebuzzini, diretto-

re di FOTOgraphia, ed è altra vicenda, sono stato testimone oculare di questa autentica folgorazione, che sta alla base di quanto sto per raccontare ancora]. Daniela Pasqualin parla con entusiasmo dell’opera: «Vale un viaggio! Bisognerebbe incaricare un bravo professionista di fotografarla». Anche Patrizia Pelorosso ha bisogno di belle fotografie, non soltanto di istantanee casuali, per pubblicare i suoi studi sul Giudizio.


UNA VOLTA ANCORA, SILVESTRI (E ALTRO)

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ipetiamo l’essenza delle note tecniche già riferite alla documentazione visiva che Sandro Vannini ha realizzato in Egitto, dove ha fotografato il tesoro di Tutankhamun (FOTOgraphia, ottobre 2007). Anche per il Giudizio Universale di Luca Signorelli, nella Cappella di San Brizio del Duomo di Orvieto, issandosi su un’impalcatura mobile alta dieci metri, Sandro Vannini ha fotografato con una Silvestri Bicam II. Alternando le focali secondo necessità, sono stati usati obiettivi appositamente studiati per la fotografia digitale, con otturatore elettronico gestito da una centralina collegata con il computer, da dove è stato guidato lo scatto, sia per la propria componente meccanica (apertura e chiusura programmate dell’otturatore) sia per quella digitale (coordinamento dell’acquisizione in corrispondenza del tempo di otturazione). Per l’acquisizione e memorizzazione delle immagini è stato usato il dorso digitale Imacon Ixpress 528C da ventidue Megapixel, dotato di funzione multiscatto (quattro e sedici), che è anche la sua caratteristica discriminante e qualificante. Illuminazione con quattro lampade Gamma Progetti HMI da 600 watt l’una. Con la raffinata tecnica fotografica adottata da Sandro Vannini, uno dei più quotati e apprezzati fotografi dell’arte (soprattutto egizia) del mondo, si ottengono e raggiungono risultati significativi. Anzitutto, va rilevata la perfetta esposizione del soggetto inquadrato, con equilibrio luminoso su tutta l’inquadratura. Quindi, registriamo la possibilità di arrivare a ingrandimenti di generose dimensioni, che esaltano particolari minimi del soggetto, consentendo di coglierne appieno i pregi e i difetti (eventuali) di lavorazione. Infine, sottolineiamo che si approda sempre a riproduzioni cromaticamente perfette. Questo, per quanto riguarda l’aspetto propriamente e puramente fotografico. In anticipo, ogni progetto fotografico d’arte richiede poi altre doti: contatti, competenza scientifica, rapporti con le autorità che governano e gestiscono il luogo. Tutta materia che fa parte del bagaglio professionale di Sandro Vannini.

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Daniela Pasqualin parla con entusiasmo del Giudizio Universale di Luca Signorelli: «Vale un viaggio! Bisognerebbe incaricare un bravo professionista di fotografarla». Con una configurazione tecnica su base Silvestri, Sandro Vannini ha realizzato una straordinaria documentazione fotografica, esposta al Palazzo dei Sette, di Orvieto, in provincia di Terni, dal sette al ventidue aprile.

Torno a Orvieto apposta per ri-vedere gli affreschi alla luce dell’entusiasmo che mi ha contagiato: ne rimango incantato. Situazioni straordinarie, ori preziosi, diavoli verdi, morti che resuscitano, dannati che volano in spalla ai diavoli, un’orgia di santità e dannazione di straordinaria forza espressiva. Per farla breve... Da allora si è trovato il professionista per le fotografie, Sandro Vannini, di Viterbo, del quale, su queste stesse pagine, abbiamo già presentato l’imponente documentazione del tesoro del faraone Tutankhamun (FOTOgraphia, ottobre 2007). Si è trovato un sistema adatto per stampare le sue fotografie, la maggior parte delle quali pesa più di un gigabyte (riquadro a pagina 32). Si è trovato lo spazio per allestirne una mostra, le sale espositive del prestigioso Palazzo dei Sette, di Orvieto: dal prossimo sette aprile al successivo ventidue (10,00-19,00; 0763-344567). Dopodiché, le imponenti stampe delle fotografie di Sandro Vannini cominceranno un tour italiano. Per le riprese, Sandro Vannini ha utilizzato una configurazione su base Silvestri e obiettivi di diversa lunghezza focale: dall’insieme ai particolari. Per innalzare il punto di vista/ripresa fino al soffitto della Cappella di San Brizio è stata predisposta un’im-

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Immagine esclusiva della facciata del Duomo di Orvieto. Come si sa, addossata alle case che le stanno di fronte, questa facciata è impossibile da fotografare a causa dell’assoluta mancanza di punto di vista fotograficamente possibile. Sandro Vannini ha realizzato la sua fantastica visione componendo un mosaico di trenta scatti singoli, o giù di lì, spostandosi in modo calibrato con il braccio mobile di una gru. A seguire postproduzione dei fotocolor 4x5 pollici.

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STAMPE DI ALTA QUALITÀ (ANCHE FORMALE)

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ome avrebbe detto Massimo Catalano, l’intellettuale viveur di Quelli della Notte, è meglio stampare le fotografie di qualità con stampanti di altrettanta qualità, invece che con stampanti scadenti. Seguendo questa linea filosofica consequenziale, Sandro Vannini ha collaborato con Epson Italia, che ha messo a disposizione la nuova e innovativa Epson Stylus Pro 11880, la prima stampante al mondo di grande formato che integra la tecnologia della testina di stampa Epson Micro Piezo TFP di ultima generazione con gli inchiostri UltraChrome K3 Vivid Magenta. Con questa stampante sono stati realizzati i sessanta metri quadri di ingrandimenti che compongono l’avvincente mostra sul Giudizio Universale di Luca Signorelli. La stampa di dimensioni maggiori misura 1,5x3 metri, alla pratica portata della luce massima della Epson Stylus Pro 11880 di 64 pollici (appunto, qualcosa di più di 1,6 metri). Il set completo di inchiostri comprende nove cartucce: nero Photo, nero Matte, nero Light, nero Light Light, ciano, ciano chiaro, giallo, magenta vivido e magenta vivido chiaro. La stampante ne utilizza otto per volta, selezionando dal nero Matte al nero Photo in base al tipo di carta in uso. Su carta Epson Premium Luster Photo da 260 grammi, le stampe sono state eseguite alla massima risoluzione possibile, cioè 2880x1440dpi. Ci preme infine segnalare che la qualità del lavoro è stata seguìta/eseguita personalmente da Angelo Favini, l’autorevole super tecnico responsabile della sala dimostrativa della sede Epson Italia, a Cinisello Balsamo, alle porte di Milano.

Affrescato nella Cappella di San Brizio, nel Duomo di Orvieto, il Giudizio Universale di Luca Signorelli è stato realizzato dal 1499 al 1504. È un capolavoro che è servito anche a Michelangelo come fonte di ispirazione per il suo Giudizio Universale, realizzato tra il 1536 e il 1541, su incarico di papa Giulio II, che impreziosisce la volta della Cappella Sistina, nella Città del Vaticano.

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palcatura mobile alta dieci metri. Le pitture sono state illuminate con quattro lampade Gamma Progetti HMI da 600 watt l’una. Le inquadrature sono state valutate su un computer Apple MacBook Pro, collegato direttamente al sensore del dorso digitale sulla Silvestri, un Imacon Ixpress 528C multiscatto, da ventidue Megapixel. In definitiva, di esperienza virtù, si tratta della stessa configurazione tecnica con la quale Sandro Vannini ha lavorato nelle tombe egiziane, e della cui efficacia abbiamo già riferito: e ne ripetiamo ancora oggi, nell’apposito riquadro pubblicato a pagina 29. In mostra, oltre le fotografie degli affreschi, viene presentata anche una immagine esclusiva della facciata del Duomo di Orvieto, come nessuna altra precedente fotografia è mai riuscita a visualizzare [a pagina 31]. Lo sappiamo tutti, lo sanno tutti coloro i quali hanno visitato Orvieto: addossata alle case che le stanno di fronte, questa facciata è impossibile da

fotografare a causa della assoluta mancanza di punto di vista fotograficamente possibile. Sandro Vannini ha realizzato la sua fantastica visione, ribadiamo unica nel proprio genere, nel novembre 2004, componendo un mosaico di trenta scatti singoli, o giù di lì, spostandosi in modo calibrato con il braccio mobile di una gru. A seguire, i fotocolor 4x5 pollici sono stati assemblati in postproduzione, con Photoshop: un piccolo capolavoro, del quale siamo tutti grati all’attento fotografo viterbese. Per concludere: le fotografie del Giudizio Universale di Luca Signorelli, con accompagnamento della introduzione al luogo, alla quale ci siamo appena riferiti, sono magnifiche e coinvolgenti. Le stampe pure. La mostra vale un viaggio in Umbria (hai detto poco!?). Inoltre, con una piacevole passeggiata tra le strette strade medievali della città, si può rapidamente passare dalla rappresentazione fotografica di Sandro Vannini all’opera originale, da gustare dal vero: nella Cappella di San Brizio, in Duomo. Lello Piazza Sandro Vannini: Il Giudizio Universale di Luca Signorelli. Sale espositive del Palazzo dei Sette, 05018 Orvieto TR; 0763-344567 (Comune di Orvieto, Ufficio Cultura: 0763-306745). Dal 7 al 22 aprile; 10,00-19,00.



DA UNA CINA Balletto da Shajiabang. Quando il presidente Mao Zedong lanciò la Rivoluzione Culturale Proletaria, la moglie Jiang Qing, ex attrice, si impose nel mondo culturale cinese (in alcune letture, ne diventò despota). Bandisce tutte le opere di Pechino, tranne cinque, che designa come “opere modello”, alle quali affida programmazioni che celebrino i valori della stessa Rivoluzione Culturale.

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ZHANG YAXIN; 1971

A ALL’ALTRA

Corposa sia nella forma sia per i contenuti, la monografia illustrata China. Ritratto di un paese attraversa la storia recente della Repubblica popolare, dalla fine degli anni Quaranta ai nostri giorni. Sulle sue pagine si susseguono fatti e accadimenti che hanno letteralmente stravolto il paese, che nell’arco di una manciata di decenni è passato dall’antichità contadina all’attualità di una potenza economica di primo piano. Volontariamente discosti dalla sua stretta attualità editoriale, evidentemente finalizzata, la scorsa estate, alla combinazione con le Olimpiadi di Pechino, ne riferiamo spaziando anche oltre e di traverso. Nell’amicizia e ricordo di un caro amico scomparso, non pensiamo di tradire antichi sogni, perché sappiamo bene di continuare a tenerli nell’intimo del nostro cuore. Oggi come ieri, in comunione di intenti con Domenico Strangio, crediamo ancora nell’Uomo, che non sta certo nella Cina di oggi, come un tempo abbiamo sperato e pensato. Chissà mai, quando lo incontreremo

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omenico Strangio è stato uno degli incontri più belli e alti della mia vita. Purtroppo, una serie di vicende a me avverse ci ha allontanati per un lungo periodo; è mancato nel maggio 2003, senza che si siano potuti riallacciare i legami dei decenni passati, e ormai trascorsi. A lui, la moglie Elisabetta ha dedicato un sito Internet, www.tempiodelcielo.org, esplicitamente intitolato all’Amore di un uomo per la Cina, nel quale sono raccolti e ordinati i tanti materiali acquisiti negli anni durante i quali la Repubblica popolare ha rappresentato un faro e un esempio per molti, noi tra questi: da visitare, assolutamente! A Domenico Strangio ed Elisabetta Monti mi riferisco esplicitamente in un riquadro pubblicato

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I FOTOGRAFI DI CHINA. RITRATTO DI UN PAESE quadro pubblicato a pagina 42). In consueto ordine alfabetico (alla cinese): Cai Shangxiong, Chen Changfen, Chen Ling, Ricky Chung, Cui Xinhua, Du Xiuxian, Feng Jianguo, Ge Xin , Gu Shoukang, Guo Gai, Guo Tieliu, Han Lei, He Yanguang, Hong Ke, Hou Bo, Hu Yang, Huang Yimin, Ji Lianbo, Jiang Jian, Jiang Shaowu, Jin Cheng, Kou Shanqin, Jason Lee, Lei Yu, Li Lang, Li Nan, Li Zhensheng, Liu Heung Shing, Liu Zheng, Lu Beifeng, Lu Guang, Lü Nan, Lü Xiangyou, Luo

Xiaoyun, Meng Zhaorui, Peng Xiangjie, Qin Wen, Qiu Haiying, Qiu Yan, Ren Wen, Rong Rong & inri, Ru Suichu, Shi Xunfeng, Tang Desheng, Wang Fuchun, Wang Jie, Wang Jinsong, Wang Shilong, Wang Wenlan, Wang Jing, Wei Dezhong, Wei Ruoxun, Wen Jianping, Weng Naiqiang, Wu Jialin, Xiao Quan, Xiao Ye, Xiao Zhuang, Xie Guanghui, Xie Hailong, Xing Danwen, Xu Haifeng, Xu Xiaobing, Yang Shaoming, Yang Shizhong, Yang Yankang, Ying Fukan, Yong He, Yu Deshui, Yu Haibo, Yuan Kezhong, Zeng Nian, Zhang Dali, Zhang Peng, Zhang Xinmin, Zhang Yaxin, Zhao Qunying, Zheng Pingping, Zhou Cao, Zhou Chao, Zhou Yue, Zhu Yan e Zuo Jiazhong.

a pagina 41, nel quale presento la coinvolgente monografia Sulle rive del Fiume Giallo, che sopravvive a una esposizione di documenti storici sulla Cina di Mao Zedong, soprattutto manifesti, ma tanto altro ancora, allestita alla Biblioteca Comunale di Monzuno, in provincia di Bologna, alla fine dello scorso novembre. Però, prima di affrontare l’argomento esplicito di oggi, ovverosia la presentazione dello straordinario casellario fotografico China. Ritratto di un paese, pubblicato dall’immancabile Taschen Verlag, di Colonia, debbo ripetere le mie scuse a Domenico Strangio e al suo ricordo, come già ho espresso nel settembre 2005, a conclusione della presentazione della mostra Impero. Impressioni dalla Cina, di Ja-

mes Whitlow Delano, allora esposta al Palazzo della Triennale di Milano. Mi rivolgo a lui. Domenico, per quanto non possa allinearmi all’intensità dell’affetto di Elisabetta, che onora la tua memoria con mirabili versi di Li Po ( Sempre / ti penso a Chang’an / dove il grillo domestico / d’autunno stride), non interpretare ciò che vado a scrivere sulla Cina come tradimento dei nostri antichi sentimenti. I nostri sogni non possono essere spezzati da nulla di quanto vediamo accadere attorno a noi. I nostri sogni rimangono intatti e inviolabili. Così come è irrinunciabile il senso del dovere sul quale abbiamo anche edificato le nostre rispettive esistenze. E il mio dovere, è oggi quello di giorna-

elezione di accadimenti della Cina dal 1949 al 2008, China. RiSfi (tratratto di un paese è illustrata con immagini di ottantotto fotograi quali Li Zhenseng, del quale ci occupiamo a parte, nel ri-

DU XIUXIAN; 1974

Appena ripreso il suo ruolo di vice primo ministro, Deng Xiaoping siede alla destra di Mao Zedong, nel suo studio a Zhongnanhai. Alla sinistra del presidente siede il responsabile della sua sicurezza personale, Huang Dongxing; mentre sullo sfondo, in piedi, sono schierati i suoi collaboratori.

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LIU HEUNG SHING; 1989 (2)

lista. Abbiamo creduto in un ideale, che ormai è ancora vivo e palpitante soltanto nei nostri cuori. Il mio, batte anche per te. Però, a ben guardare, forse sto per tradirti, tu unico e sincero amico della mia vita. Se così è, non ho il coraggio di chiederti scusa. Il senso del dovere potrebbe (dovrebbe?) interrompersi prima. Molto prima; ora è tardi.

ORMAI, LA CINA È LONTANA Dalla seconda metà dei Sessanta, e per un cospicuo numero di anni (variabili per ciascuno), ciò che accadeva nella Repubblica popolare cinese guidata da Mao Zedong ha illuminato le visioni politiche di molti. Tanto che, l’odiosa identificazione “filocinese” (che non sopportavo allora, figuriamoci oggi) è stata trasversale ai movimenti studenteschi del Sessantotto: in Italia, come nel resto dell’Europa, almeno. In molti abbiamo idealizzato la Rivoluzione Culturale, senza conoscerne i terribili retroscena quotidiani, così lontani da quello spirito di correttezza a tutti i costi che ci definiva e connotava. In contraltare, senza avvicinare la consistenza politica di quell’esperienza, da altri punti di vista, politicamente non coincidenti, quella Cina è stata comunque osservata con ammirazione e devozione da tutti: tanto da essere percepita come una sorta di Disneyland nella quale tutti erano onesti, buoni, sorridenti e proiettati a un luminoso futuro. Ricordo bene le testimonianze dei viaggiatori di allora, pochi e

Pechino, 5 giugno 1989. Una giovane coppia resta in attesa sotto il ponte Jianguomenwai, al margine del quartiere diplomatico della capitale, mentre passano i carri armati dell’Esercito Popolare di Liberazione. A seguito della sommossa studentesca, in città, da fine maggio, era in vigore la legge marziale.

Feriti nel massacro di piazza Tiananmen, dopo che la notte del 3 giugno 1989 l’Esercito Popolare di Liberazione è entrato a Pechino per sedare le proteste giovanili, cominciate a metà aprile, sparando contro la folla.

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ANCORA TASCHEN. IMMANCABILMENTE TASCHEN

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alla collezione di Michael Wolf, per il vero sostanzialmente coincidente con l’ipotetica combinata tra la nostra personale (Maurizio Rebuzzini) e quella di Domenico Strangio, ora raccolta nell’identificazione Archivio Fiume Giallo, presso la Biblioteca Comunale di Vado, in provincia di Bologna, l’immancabile Taschen Verlag ha ricavato la corposa monografia Chinese Propaganda Posters, pubblicata nel 2003, da qualche mese in offerta speciale (9,99 euro, contro i 29,99 originari). La raccolta è esattamente ciò che promette e anticipa di essere: un casellario sui e dei manifesti politici cinesi della lunga stagione maoista, che si è allungata nei decenni, soprattutto a cavallo tra gli anni Sessanta e Settanta.

In questa raccolta, il valore della presentazione dipende in grande misura dalle identificazioni che certificano i soggetti e li commentano (in italiano, spagnolo e portoghese). In questo senso, oltre ad essere più completo delle precedenti monografie che stiamo per evocare, Chinese Propaganda Posters, di Taschen Verlag, ha giusto il merito della attestazione, preziosa per comprendere appieno il fenomeno. Analoga è la catalogazione del già citato Archivio Fiume Giallo, accessibile dal sito www.tempiodelcielo.org; mentre sono state più approssimative le raccolte, anche italiane, pubblicate nei decenni scorsi, a seguito dell’interesse politico verso la Repubblica popolare, come anche in accompagnamento a mostre di originali. E di questi titoli è ricca la nostra biblioteca.

I fiori delle quattro stagioni. Dipinto da Yang Furu; Società di manifesti di Yihui, Shanghai, 1957.

Temprarsi al vento e alla tempesta. Sul bracciale: «Guardia Rossa». Dipinto da Ying Xiaohe e Mu Li; Casa Editrice degli Sport del Popolo, 1976. Chinese Propaganda Posters; dalla collezione di Michael Wolf; testi in italiano (spagnolo e portoghese); Taschen, 2003 (distribuzione: Inter Logos, strada Curtatona 5/2, Località Fossalta, 41100 Modena; 059-412648; www.books.it); 320 pagine 24,5x37cm; 9,99 euro (in promozione).

Vola, Gioventù della nuova Cina! [La donna rappresentata nel quadro è Fee Chang E, che, secondo la mitologia cinese, vive sulla luna con il suo coniglio]. Sul razzo: «Gioventù della Cina n.1». Dipinto da Jin Dingsheng; Centro culturale della città di Qingjiang; Casa Editrice del Popolo, Jiangsu, 1978.

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Tra l’entusiasmo generale si apre il Quarto Congresso Nazionale del Popolo [particolare]. Sul foglio che il bambino tiene in mano: «Buone notizie». Studio della sala d’esposizione della provincia di Shandong; Casa Editrice del Popolo, Shandong, 1971.


pra tutto il richiamo d’esordio del film Giù la testa, di Sergio Leone, del 1971, la cui vicenda presentò una particolare interpretazione e visione della rivoluzione messicana del 1917. In negativo (bianco) su fondo nero, i titoli di testa sono preceduti da una successione di parole in progressione scandita, con inevitabile sorpresa finale. Testuale, con cadenza a memoria: La rivoluzione / non è un pranzo di gala, / non è una festa letteraria, / non è un disegno o un ricamo; / non si può fare con tanta eleganza, / con tanta serenità e delicatezza, / con tanta grazia e cortesia. / La rivoluzione è un atto di violenza [, è l’azione LIU HEUNG SHING; 1976

privilegiati, alcuni dei quali interni al mondo della fotografia (commercio e Sezione Culturale del Sicof), e ancora provo brividi freddi lungo la schiena ogni volta che mi tornano in mente le loro parole, che avrebbero voluto essere elogiative, ma venivano declinate soltanto con odiosa insolenza e evidente ignoranza. Mettiamoci il cuore in pace, il trascorrere del tempo mitiga molto, speriamo non tutto. Comunque, la Cina di quarant’anni fa, così tanto ideologizzata, ammaliò sia il mondo politico sia quello culturale. Tra i tanti esempi che possiamo riferire, per dipingere il clima di quel tempo, ricordiamo so-

A Shanghai, due giovani pioniere recitano in una scenetta di denuncia di Jiang Qing, vedova di Mao, sua quarta e ultima moglie, raffigurata in caricatura. All’indomani della scomparsa del presidente, 9 settembre 1976, furono arrestati e imprigionati quattro alti dirigenti del Partito, la cosiddetta Banda dei Quattro: Jiang Qing, Zhang Chunqiao, Yao Wenyuan e Wang Hongwen. Nel 1981, Jiang Qing fu condannata a morte, con sentenza successivamente commutata in ergastolo. È morta nel 1991. [A integrazione, e per pura curiosità, ricordiamo che Jiang Qing è stata appassionata di fotografia; tra le accuse al processo anche quella di spendere molto denaro pubblico per coltivare questa sua passione].

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QIN WEN; 2005

In un affluente superiore del fiume Yangtse, gli abitanti perpetuano l’antica tradizione di spingere le barche controcorrente. Lavorano nudi per proteggere gli abiti dall’usura che costerebbe questa impresa.

implacabile di una classe che abbatte il potere di un’altra classe]. Firma a sorpresa, che allora risultava perfino sconvolgente, oggi indecifrabile dai più e comunque abbondantemente grottesca, ormai mille anni lontana dalle intenzioni originarie: Mao Zedong [per la cronaca e completezza di informazione, citazione da A proposito di un’inchiesta sul movimento contadino nello Hunan; in Opere scelte, volume I]. Il richiamo voluto da Sergio Leone, ribadiamo in clima con il proprio tempo e oggi assolutamente anacronistico, appartiene a quelle letture frettolose e approssimative delle Citazioni dalle opere del presidente Mao, in gergo Libretto Rosso, tradotte in tutte le lingue, che allora circolavano ovunque in migliaia di copie. Bandiera e simbolo della Rivoluzione Culturale cinese, orgogliosamente sventolate in ogni manifestazione di piazza nella Cina di quegli anni, e in replica in ogni manifestazione politica italiana, per lo più le Citazioni sono state affrontate, lette e ripetute quasi fossero una raccolta di convenienti aforismi: ciascuno faceva sua la citazione di comodo alle proprie azioni. Storia antica, ormai.

RACCONTO FOTOGRAFICO Quella Cina non esiste più. Oggi, la Repubblica popolare è una delle grandi potenze del mondo, che agisce sullo scacchiere internazionale né più né meno come le grandi nazioni capitaliste (forse, addirittura peggio: mi riferisco al disprezzo per i dirit-

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China. Ritratto di un paese; nella visione di ottantotto fotografi cinesi, a cura di Liu Heung Shing; testi in italiano (spagnolo e portoghese); Taschen, 2008 (distribuzione: Inter Logos, strada Curtatona 5/2, Località Fossalta, 41100 Modena; 059-412648; www.books.it); 424 pagine 25x34cm, cartonato con sovraccoperta; 39,99 euro.


ti umani). Ufficialmente, la forma interna non è cambiata: il paese è ancora governato e guidato dal Partito comunista. Però, nel concreto, le azioni e proiezioni economiche e finanziarie della Cina di oggi sono sostanzialmente indistinguibili da quelle che disegnano l’attualità politica della Terra. Grande spettacolo di autocelebrazione, i recenti Giochi Olimpici della scorsa estate (Beijing 2008), con contorno e accompagnamento di faraoniche cerimonie di apertura e chiusura, trasmesse in mondovisione, hanno sancito il passaggio e chiuso definitivamente con il passato prossimo del paese, che si è proposto e offerto in una continuità storica che ha deliberatamente ignorato, saltandoli piè pari, i decenni immediatamente successivi alla proclamazione della Repubblica (Primo ottobre 1949), per passare direttamente dall’antichità al presente. Proprio in occasione dell’interesse collettivo che si sarebbe acceso sulla Cina, per concentrarsi anche sui suoi molteplici aspetti (di comodo), l’impareggiabile editore tedesco Taschen Verlag, di Colonia, attualmente uno dei colossi dell’editoria illustrata internazionale, spesso fotografica, ha pubblicato una preziosa monografia a tema (esplicito), che possiamo tranquillamente conteggiare come assolutamente indispensabile alla conoscenza storica recente della Cina. Il titolo diretto, China, si accompagna con l’immediata identificazione del contenuto della consistente monografia: Ritratto di un paese dal 1949 al 2008, nell’edizione che comprende i testi in italiano (edizione trilingue, con spagnolo e portoghese). A cura di Liu Heung Shing -ex fotoreporter di alto valore, per lungo tempo corrispondente dell’Associated Press e Time Magazine, premio Pulitzer 1992, insieme a colleghi, per un servizio sul crollo dell’Unione Sovietica-, la raccolta fotografica è irreprensibile sia per forma sia per contenuto. La forma: 424 pagine 25x34cm, cartonato con sovraccoperta (a soli 39,99 euro, è il caso di puntualizzarlo subito). Il contenuto: un avvincente, convincente e coinvolgente ritratto della Repubblica popolare, della sua gente e della sua storia recente, dal 1949, attraverso fotografie di ottantotto fotografi cinesi, che hanno vissuto in prima persona gli avvenimenti narrati (elenco completo a pagina 36). Personalmente, posso anche non concordare su alcune delle analisi riportate, in ottimi testi introduttivi ai singoli capitoli nei quali il volume è suddiviso e nelle dettagliate lunghe didascalie alle immagini. Ma non è questo il problema, visto che bisogna riconoscere all’opera una identificata straordinaria severità di intenti e risolutezza di svolgimento: fotografie e parole con le quali incontrarsi e confrontarsi senza preclusione alcuna.

FANTASTICO VIAGGIO Come già sottolineato, ma la ripetizione si impone, riunendo nelle sue pagine una vasta selezione di immagini di fotografi cinesi dal 1949, China. Ritratto di un paese realizza un viaggio visivo attraverso la grande Repubblica popolare. Si racconta di decenni combattuti e controversi, in anticipo temporale e diver-

SULLE RIVE DEL FIUME GIALLO

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anifesti e tanti altri materiali della politica cinese degli anni Sessanta e Settanta, dalla raccolta di Domenico Strangio, oggi riunita nell’Archivio Fiume Giallo, presso la Biblioteca Comunale di Vado, in provincia di Bologna (www.tempiodelcielo.org), sono stati allestiti in mostra presso la Biblioteca Comunale di Monzuno, pure nella provincia di Bologna, alla fine dello scorso novembre. Accompagnata da iniziative collaterali, la mostra ha celebrato la figura di Domenico Strangio, mancato nel maggio 2003, il cui amore per la Cina è l’incipit del sito Internet appena ricordato, Il Tempio del Cielo, che riunisce e commenta i tanti documenti della sua raccolta. All’esposizione degli originali sopravvive un ben allestito catalogo. Diversamente da altre attribuzioni analoghe, puntualmente riportate in occasioni di presentazioni e recensioni librarie, in questo caso la certificazione di “ben allestito” ha un valore che va oltre, superandola, l’attestazione dei contenuti. Risolti i quali, qui si respira amore per ciò che è stato fatto, oltre che per la persona alla cui memoria tutto è dedicato (Domenico Strangio, che la moglie Elisabetta ricorda con toccanti versi di Li Po: Sempre / ti penso a Chang’an / dove il grillo domestico / d’autunno stride). Già... amore e cura. In Pensieri diversi, pubblicato in Italia da Adelphi, il filosofo logico austriaco Ludwig Wittgenstein (1889-1951) annota che una quartina di Henry Wadesworth Longfellow, dalla poesia I costruttori, avrebbe potuto servirgli da motto: (nella traduzione di Claudio D’Ettorre) «Ai tempi antichi dell’arte / i costruttori cesellavano con la massima cura / ogni particolare minuto e invisibile / perché gli dèi sono dappertutto». Sulle Rive del Fiume Giallo; manifesti e documenti cinesi degli anni Sessanta e Settanta dalla Raccolta Domenico Strangio, a cura di Elisabetta Monti (Archivio Fiume Giallo; www.tempiodelcielo.org); Biblioteca Comunale di Monzuno, 2008 (via Casaglia 1, 40036 Monzuno BO; 051-6770307; www.comune.monzuno.bologna.it, biblio.monzuno@cosea.bo.it); 112 pagine 21x28cm.

Dal Corriere della Sera, dello scorso ventotto maggio. All’indomani del terribile terremoto del precedente dodici maggio, nella provincia cinese del Sichuan, che ha provocato più di diecimila morti (le cui testimonianze sono presenti anche tra i vincitori di categoria del World Press Photo 2009; su questo stesso numero, da pagina XX), è stata pubblicata una fotografia titolata L’ultimo viaggio: «Uno sguardo al corpo della moglie [morta], per assicurarsi che tutto sia a posto, poi l’ultima corsa in moto fino al villaggio, dove la donna potrà finalmente trovare sepoltura».

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VOCE DELLA DISSIDENZA (?)

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fu messo alla berlina nei locali del giornale e sottoposto a una denuncia pubblica. Inviato in campagna per essere rieducato, ha trascorso due anni di lavori forzati in una “scuola di correzione”. Soltanto nel 1972 ha riottenuto il posto di responsabile del servizio fotografico al quotidiano di Heilongjiang. Da ciò, ma non soltanto per questo, non pubblicabili, mai in precedenza pubblicate, le sue fotografie sono rimaste segrete fino all’alba del Duemila. I “compromettenti” negativi sono stati conservati per trent’anni da Li Zhensheng in un buco scavato nel pavimento del suo alloggio. Le fotografie documentano e rivelano la feroce e incontenibile violenza che si è scatenata in Cina durante la Rivoluzione Culturale. Dal 16 maggio 1966, dal quale si data la stessa Rivoluzione Culturale, alla morte di Mao Zedong (9 settembre 1976), un cataclisma sociale ha sconvolto la Cina, causando centinaia di migliaia di morti. E le fotografie di Li Zhensheng raccontano giusto questo: spettacolarizzazione dei processi pubblici, autocritiche di massa, culto della personalità, adunate di massa, campagne di rieducazione. Ora, e tantomeno qui, non è necessario, né richiesto, l’approfondimento politico e neppure sono utili altre considerazioni e altre voci contrarie a questa lettura e interpretazione. Con distacco clinico, si è soltanto registrata l’ufficialità delle note che hanno accompagnato la mostra e definiscono il volume monografico allineato.

LI ZHENSHENG (4)

urata da Gabriel Bauret e Robert Pledge, due delle più prestigiose firme della fotografia internazionale, con predisposizione alle analisi e riflessioni sul fotogiornalismo, la mostra di centoquaranta immagini del cinese Li Zhensheng, sagacemente intitolata L’odissea di un fotografo cinese nella Rivoluzione Culturale (1966-1976), è stata esposta all’autorevole Palazzo Magnani, di Reggio Emilia, a cavallo tra il 2003 e il 2004. A seguire, queste e altre fotografie, in tutto trecentoventi, sono disponibili nella monografia Red-Color News Soldier, di Phaidon Press, che comprende anche brani di interviste a Li Zhensheng [attenzione, Colore Rosso - Soldato di notizie, in traduzione, era il lasciapassare con il quale Li Zhensheng si muoveva tra le province cinesi negli anni della Rivoluzione Culturale]. Selezione da un corpo fotografico estremamente ricco, in quantità, oltre che per qualità, le fotografie riunite in un percorso omogeneo e consequenziale rappresentano una rara testimonianza visiva della Rivoluzione Culturale, probabilmente l’unica testimonianza. Fotografo del quotidiano di Heilongjiang, del Partito comunista del nordest della Cina, Li Zhensheng, classe 1940, ha vissuto da protagonista le vicende di quei controversi anni cinesi. Censurato per essersi “discostato dalla linea editoriale”, accusato di essere un “nuovo piccolo borghese” e persino un “agente dello straniero”, lo stesso Li Zhensheng è stato travolto dall’incalzare degli avvenimenti. Il 26 dicembre 1968,

Harbin, provincia dell’Heilongjiang, Primo ottobre 1966, anniversario della proclamazione della Repubblica popolare. In occasione della prima Festa Nazionale dopo l’inizio della Rivoluzione Culturale, i bambini delle scuole elementari, che portano fasce rosse, sfilano muniti di lance con nappa rossa.

Harbin, provincia dell’Heilongjiang, 16 luglio 1968. Nuotatori studiano il pensiero di Mao Zedong dalle sue Citazioni, in gergo Libretto Rosso, prima di tuffarsi nel fiume Songhua per festeggiare il secondo anniversario della celebre attraversata del fiume Yangzi da parte del presidente settantatreenne.

Harbin, provincia dell’Heilongjiang, Primo ottobre 1968. Il giorno della Festa Nazionale, la popolazione accompagna una statua di Mao, collocata sul rimorchio di un camion decorato di girasoli, per simboleggiare che il popolo cinese segue il suo Presidente come i fiori si volgono verso il sole.

Harbin, provincia dell’Heilongjiang, 29 agosto 1966. Li Xia, responsabile subalterno del distretto del Suihua, nella periferia di Harbin, e moglie di Li Fanwu, segretario della Provincia del Partito comunista e governatore dell’Heilongjiang, durante la sua denuncia pubblica allo Stadio delle Guardie Rosse.

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DU XIUXIAN; 1973

genza sostanziale con l’attualità della Cina di oggi. Dopo le immancabili introduzioni, che tra l’altro offrono anche i termini del necessario e indispensabile contesto storico, l’intero percorso è adeguatamente scomposto per capitoli tematici, scanditi per decadi, curiosamente autoconclusive: 1949-1959, La nascita di una nuova Cina; 1960-1969, Il grande balzo indietro [caricatura dello slogan maoista del grande balzo in avanti, che rivela lo spirito politico con il quale oggi si legge il passato prossimo della Repubblica popolare]; 1970-1979, Sospetti, tradimenti e follia infinita; 1980-1989, Rock ‘n’ Roll e modernizzazione; 1990-1999, I fatti parlano più delle parole; 2000-oggi, La Cina entra a far parte del mondo. In chiusura, poi e ancora: una Cronologia, una mappa della Cina, brevi biografie degli ottantotto fotografi che hanno realizzato le immagini, una bibliografia e le fonti delle citazioni richiamate. A questo proposito, riferiamo quella finale, che conclude il lungo viaggio, la lunga marcia fotografica per dirla altrimenti, attraverso sei decenni topici della storia cinese, riportata sotto una immagine emblematica (del curatore Liu Heung Shing, del 1981: A Chengdu un uomo cammina per la via riparandosi dietro un ritratto del defunto presidente Mao): «Già quattromila anni prima che noi imparassimo a leggere, i cinesi conoscevano ogni cosa essenziale che oggi ci vantiamo di sapere», Voltaire (1694-1778). Come appena puntualizzato, attraverso la mediazione del suo curatore Liu Heung Shing, l’osservazione storica di China. Ritratto di un paese è politi-

camente critica dell’epopea e azioni guidate da Mao Zedong. In particolare, si allinea alla fase di postCina di Mao, quando e dove il leader cinese Deng Xiaoping esortò i propri concittadini a «cercare la verità dai fatti». Da qui, con crescita esponenziale, la Cina di oggi è una delle protagoniste dell’attuale realtà economica del Ventunesimo secolo. Il processo che ha portato la Cina a navigare dalla periferia a una posizione centrale negli affari del mondo domina il dibattito circa l’Asia, e la stessa Cina in particolare, nel rapporto con il mondo occidentale. Indipendentemente da altro, attraverso la raffigurazione/rappresentazione esplicita propria e caratteristica della fotografia (del suo linguaggio visivo), questa raccolta di immagini mostra come il popolo cinese abbia affrontato le proprie tappe, che il curatore sottolinea essere state di straordinaria difficoltà, quantomeno al tempo di Mao. Quando la scorsa estate si è sontuosamente alzato il sipario sulle Olimpiadi 2008, l’interesse e l’attenzione del mondo intero si sono concentrati su Pechino, che ha rivelato i tratti di una Cina altra, di una Cina attuale che ha abbandonato, e forse anche scordato, le proprie lezioni più recenti. Forza e potere dell’economia. Domenico, il mio ultimo pensiero odierno è ancora per te: l’Uomo, nel quale abbiamo creduto e crediamo ancora e sempre, sta altrove. Chissà mai, quando lo incontreremo. Maurizio Rebuzzini Ricerca iconografica di Ciro Rebuzzini

Il maresciallo Ye Jianying in una località balneare della provincia di Hainan. Ha avuto un ruolo determinante all’indomani della morte di Mao. È lui che arrestato gli alti dirigenti del Partito, che successivamente sono stati identificati e bollati come la Banda dei Quattro. Di fatto, in quell’inizio di ottobre 1976, con questo atto di forza militare, si è chiuso e concluso il caos della Rivoluzione Culturale.

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Clamorosamente messo da parte da molti, ma non da tutti, Aldo Bonasia torna sulla ribalta fotografica italiana con una selezione a cura di Roby Schirer, che si è avvalso della preziosa collaborazione di Davide Bonasia, che ha contribuito molto a valutare i negativi dall’archivio del padre. Nella mostra allestita alla Galleria Bel Vedere, di Milano, e sulle pagine del volume-catalogo che l’accompagna, sopravvivendo all’esposizione dei bianconeri originari, una incessante successione di immagini che rievocano un tempo e un’atmosfera dai quali sono dipesi molti degli accadimenti che il nostro paese ha subìto nei decenni a seguire. Doppia visione, dunque: su una personalità d’autore e un istante della nostra vita collettiva ochi fotografi italiani hanno avuto il coraggio di Aldo Bonasia (1949-1995). Dopo un esordio con la fotografia di moda, si è presto dedicato al reportage; a soli ventitré anni ha fondato l’agenzia DFP (Documents for Press), che dall’inizio dei Settanta e per tutto il decennio si è affermata per una innovativa interpretazione del fotogiornalismo. Le sue fotografie hanno puntualmente registrato i disagi del mondo giovanile, soprattutto nelle sue espressioni più forti, come le manifestazioni di piazza, spesso sfociate in cruenti scontri con le forze di polizia. Le sue sono fotografie diventate celebri, icone riconosciute di quella stagione, tanto da occupare, trent’anni dopo, una intera sezione della mostra Il ’68 e Milano, a cura di Giovanna Calvenzi e Uliano Lucas, allestita al Palazzo della Triennale, nell’estate 1998, alla quale sopravvive un ben allestito volumecatalogo omonimo, pubblicato da Leonardo Arte. Ancora oggi, quelle immagini conservano la drammatica forza che Aldo Bonasia ha raccontato in origine, muovendosi senza apparente paura tra cariche della polizia e molotov dei manifestanti. Nei bianconeri della prima personale milanese (inquietante il sipario che si è chiuso sulla sua fotografia), presentata dalla Galleria Bel Vedere, da metà marzo, non c’è soltanto violenza. La selezione presenta anche raffigurazioni, spesso inedite, che rivelano l’asciutta durezza e una inaspettata dolce ironia con le quali Aldo Bonasia ha raccontato avvenimenti e personaggi degli anni Settanta. Ne consegue un quadro iperrealista che, con la forza esplicita propria della fotografia, rappresenta un periodo cruciale della storia italiana: dopo il (definito) boom economico e i

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lampi del Sessantotto, sono arrivate legittime rivendicazioni operaie, alle quali qualcuno (sappiamo chi) ha contrapposto attentati e terrorismo, innescando e determinando molti percorsi dei decenni successivi, fino ai giorni nostri. La testimonianza fotografica di Aldo Bonasia si è fermata allora: tranne brevi eccezioni, non ha più impugnato la macchina fotografica. Aldo Bonasia è prematuramente mancato nel 1995 [ FOTOgraphia, giugno 1995; e in replica nel riquadro pubblicato a pagina 47]. La mostra Anni Settanta, che ricorda Aldo Bonasia con il rispetto, l’amore e la partecipazione che la sua interrotta parabola esistenziale merita, è curata da Roby Schirer, con la preziosa collaborazione di Davide Bonasia, che ha contribuito molto a selezionare i negativi dall’archivio del padre. Gran parte delle fotografie presentate nell’attuale allestimento sono quelle che lui stesso segnò con un pennarello rosso sui provini a contatto; altre, mai stampate prima di questa occasione, trasmettono punti di vista diversi delle situazioni da lui fotografate. Tutte insieme, queste fotografie si ritrovano nel catalogo Bel Vedere - Electa, che si avvale di testi di Giovanna Calvenzi e Ando Gilardi e del contributo grafico di Maurizio Zanuso. A seguire, il testo di Giovanna Calvenzi. A.G.


SETTANTA A

ldo Bonasia è passato come una meteora nel cielo turbolento ma vitale del fotogiornalismo italiano degli anni Settanta. Anni che vedevano le piazze delle città italiane affollate di giovani e meno giovani che protestavano, che chiedevano, che volevano il possibile e l’impossibile. E che vedevano nascere, direttamente dalla strada, una generazione di giovani fotografi impegnati con il loro lavoro a tentare di “cambiare il mondo”. Anni in cui anche i professionisti erano costretti a porsi degli interrogativi, in qualche modo a schierarsi e a prendere posizione e a vedere al loro fianco uno stuolo di “militanti” che si convertivano velocemente alla fotografia, strumento apparentemente facile per entrare nel cuore dei dibattiti, delle lotte, delle occupazioni. Nelle scuole, nelle fabbriche, nelle case, nei quartieri, come volevano gli slogan, come voleva la realtà sociale del momento. Ripensare a quegli anni e alle tante dichiarate e sottintese speranze oggi fa quasi tenerezza. Il ricordo di Aldo Bonasia è inscindibilmente legato a quei giorni di entusiasmi condivisi, di gioie e di paure, di fervori e di scontri. In ogni situazione, di conflitto o di dibattito, ecco comparire, prevedibile e imprevedibile, la figura sottile di Aldo, i suoi jeans, i suoi stivali da cow boy, le macchine fotografiche

sempre al collo, i capelli scuri e svolazzanti, più veloce di tutti ad arrivare e a scomparire. E poi la sorpresa quando, andando nella sede della DFP, la piccola e combattiva agenzia che aveva creato a soli ventitré anni nel 1973 con un gruppo di amici [Nota qui sotto], si guardavano i suoi provini. Le sue fotografie erano diverse da quelle di tutti gli altri: più aggressive, più intense, sempre dentro le situazioni. Lo vedevi lavorare, ed era un osservatore presente e rapidissimo. Vedevi le sue fotografie, e diventava uno dei protagonisti. Non conosceva la paura. Si infilava rapido fra i manifestanti, davanti alla polizia, sfidava sassi e lacrimogeni, sempre con una sorta di sorriso sghembo, non ho mai capito se ironico o incurante. Non apparteneva a nessuno schieramento politico. Faceva parte del “movimento” con indiscussa autorità ma non militava in nessun gruppo, collocato, per sua natura geneticamente anarchica e ribelle, a fianco di chi lottava, ma soprattutto di chi soffriva. Nel 1976 aveva pubblicato Vivere a Milano, un piccolo libro di quindici immagini con un testo di Nanni Balestrini e con una registrazione di Daniela Turriccia, allora sua compagna e madre di suo

Sgombero del quartiere Gallaratese, Milano; 1974.

NOTA Tra i molti che in quegli anni frequentarono a vario titolo la DFP (Documents for Press): Daniela Turriccia, Roberto Schezen, Walter Battistessa, Marzia Malli, Alberto Roveri, Roby Schirer, Edoardo Fornaciari, Livia Sismondi, Dino Fracchia, Maurizio Zanuso, Tiziano, Alfredo Palumbo, Roberto Carulli, Vittorio De Bari, Toni Thorimbert, Gino Ferri, Marcella Bonasia, Paolo Zappaterra, Giovanna Calvenzi, Gabriele Basilico, Roberto Bruzzo e, da Roma, Dario Bellini, Paola Agosti, Sandro Becchetti, Tano D’Amico, Fausto Giaccone, Franca De Bartolomeis, Tatiano Maiore, Serena Iannicelli, Romano Martinis...

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Scontri a Milano; anni Settanta. (in alto) Assalto alla sede del Movimento Sociale Italiano, in via Mancini, a Milano; 1975.

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figlio Davide. Solo quindici fotografie, dal 1969 al 1975, che con estrema forza iconica raccontavano il disagio e la disperazione della città: gli scontri con la polizia, la morte di Giannino Zibecchi, una rapina in piazza Cadorna, lo sgombero dell’Università Statale, la tomba di Giuseppe Pinelli, lo sgombero delle case occupate al Gallaratese e quindi, come ultima drammatica immagine, la droga. In un’intervista del 1982 [Giovanna Calvenzi, Gli anni della droga, in Il Fotografo, Mondadori, gen-

naio 1982] aveva dichiarato: «I miei interessi politici coincidevano con quello che in quel momento serviva ai giornali, così lavoravo molto e le mie fotografie si vendevano. Poi, quasi come conclusione logica dell’immagine del “fotografo d’assalto” che mi ero creato mio malgrado, ho provato a fotografare la guerra e sono partito per Cipro. Avevo paura, ma volevo dimostrare a me stesso che ce l’avrei fatta». La sfida con se stesso rimarrà sempre e comunque il nodo centrale della sua esistenza, inconfessato spesso, se non a posteriori. Nel 1977 chiude l’agenzia. I tempi stanno cambiando. Nel 1978 riassume in L’io in divisa. Immagini per un’analisi sociale (con un testo estratto da L’Enciclopedia di Polizia, di Luigi Salerno) molte delle fotografie sulle forze dell’ordine che aveva realizzato nel corso dei dieci anni precedenti. Nella stessa intervista ricordava: «Per anni mi sono considerato un loro avversario, li fronteggiavo e fotografavo dagli schieramenti opposti. Eppure non mi hanno mai picchiato: nel confronto diretto non ho mai avuto di fronte un poliziotto o un carabiniere, ma un meridionale come me, che capivo e con cui potevo dialogare». Lo stesso anno lascia Milano per Pantelleria, alla ricerca di altri climi, di quella che lui stesso definiva “una vita più abitabile”.


QUELL’APRILE 1995 Aldo Bonasia ha aggiunto al suo ultimo gesto il valore delle dadelle commemorazioni periodiche. Grande reporter degli anni allungatisi Ttrate,ragicamente, le speranze dei Sessanta e le confusioni ideologiche dei Settanta, sempre in prima linea dove la cronaca italiana odorava già di storia sociale, Aldo Bonasia si è tolto la vita alla vigilia di quel venticinque aprile del quale si è celebrato il significativo cinquantenario. Chi le ha potute o volute ricordare, le commemorazioni di fine aprile 1995 sono state molteplici. Soprattutto, la mente è tornata ai giorni di vent’anni fa, quando la parola fine concluse la guerra in Vietnam (e io mi ricordo bene la manifestazione del Primo maggio 1975, a ridosso della vittoria vietcong: il titolo a nove colonne dell’Unità, l’enorme bandiera nord vietnamita sventolata con rinnovato orgoglio, la felicità di tanti: Aldo Bonasia, tra questi). Ci eravamo incontrati, macchine fotografiche tra le mani, anche qualche settimana prima, in corso Ventidue marzo, dove di lì a qualche minuto un camion dei carabinieri avrebbe ucciso Giannino Zibecchi. Lui era rimasto da quelle parti, dove riprese alcune delle più forti immagini del conflitto sociale di quegli anni. Elaborando questo crudele girotondo di date e ricorrenze, Aldo Bonasia ha concluso la sua parabola esistenziale volontariamente. Due righe nella cronaca cittadina, e tutto è finito, come se quarantasei anni di vita possono essere cancellati così, semplicemente aprendo il gas. Ma Aldo Bonasia era già morto. Non possiamo fare finta di non averlo saputo, noi che gli siamo stati vicini nelle fasi conclusive della sua tormentata esistenza. Ha pagato a caro prezzo tutte le proprie convinzioni, gli errori e le speranze. La vita non gli ha mai risparmiato nulla, fino a quando gli ha presentato un conto ormai insaldabile. Alla fine, possiamo anche dire che Aldo Bonasia non è sopravvissuto a se stesso, credendo di poter guardare la vita in faccia, forte della sola onestà delle sue intenzioni. Anche se non avesse compiuto il gesto estremo, lo avremmo dovuto salutare presto: lo sapevamo noi che gli stavamo ancora accanto, e lo sapeva lui, che comunque osava parlare di progetti da realizzare nel tempo. In un tempo che sicuramente non gli restava. E non è questo che oggi mi rattrista, quanto mi irrita che un’altra sentenza di morte era già stata emessa dal mondo fotografico con un anticipo che oggi odora di cinica inclemenza.

La sua parabola creativa potrebbe concludersi qui, dopo dieci anni di lavoro frenetico, quotidiano, affamato. Dopo Pantelleria le sue fotografie diventano altro. Cerca, all’inizio degli anni Ottanta, di mettere ordine nella sua relazione con il mostro del momento, suo mostro privato e mostro sociale: l’eroina. Aldo, osservatore disincantato e partecipe di ogni eversione, da anni seguiva il fenomeno. Nel 1977 aveva realizzato una straziante sequenza di un tossicomane milanese che scriveva sui muri “Bucare ci piace lasciateci morire in pace”. Nel 1980 realizza una serie di immagini di una giovane donna che, ed è lui che parla, «rappresentano il mio tentativo di superare una visione sociale del problema dell’eroina e di conoscere da vicino le persone che ne sono coinvolte: in queste fotografie emerge la donna, il suo rapporto con la droga, i suoi gesti quotidiani, inevitabili ma non per questo meno drammatici». Dopo il 1982 di lui si perdono le tracce. Qualche lettera da lontano, ritorni milanesi con una dichiarata e improbabile voglia di ricominciare, poi una telefonata, nel 1995. Rimangono i ricordi di chi lo ha visto correre nelle piazze, veloce ed elegante, all’inseguimento di se stesso. Di chi ha imparato da lui a “vedere” e il rimpianto per il suo passaggio troppo veloce sulla scena della fotografia e della vita. Rimangono le sue fotografie, capaci per

Prima di togliersi la vita, Aldo Bonasia era sparito da tempo dalla memoria fotografica collettiva. La sua figura era già stata rimossa, come se il suo impegno non fosse mai esistito; addirittura, le sue immagini non compaiono mai nelle raccolte che raccontano le vicende italiane che lo videro testimone attento e capace. L’antagonismo tra colleghi ha portato anche a questo: all’oblio. Non è stato facile trovare segnali recenti dell’impegno fotografico di Aldo Bonasia. Riuscendo a farlo, sorridiamoci sopra, ma c’è nulla che sia successivo alla sua apparizione alla Sezione Culturale del Sicof 1981, dove partecipò al progetto Fotografia anno zero di Ando Gilardi. Recentemente mi aveva esternato il suo rammarico per il clima di questi nostri tempi attuali, nel quale la curiosità e la voglia di capire (anche attraverso il mezzo fotografico) pare stia venendo sempre meno. In quell’occasione rimpianse gli entusiasmi del passato; di un’epoca nella quale bastavano minime scintille per accendere grandi fuochi. Fu allora che ricordò la sua partenza per l’Olanda, all’alba del fatidico Sessantotto, dove si recò per documentare l’esperienza dei Provos (chi se li ricorda?), delle biciclette bianche, del sogno di una società diversa: fu quello uno dei suoi primi servizi professionali. Pareva che i decenni non fossero passati, e Aldo Bonasia si stava impegnando in un progetto di incontri sulla Fotografia sociale (i cui termini abbiamo riassunto più di una volta nello spazio redazionale della nostra FOTOagenda). Stava mettendo assieme materiale con grande scrupolo. Frequentava il mio spazio di lavoro per consultare libri e riviste. Scambiavamo opinioni, e le parole scorrevano in libertà: fino a risvegliare ricordi da tempo sopiti. Recentemente, mi aveva chiesto un libro in prestito. Non riuscii a trovarlo, e insieme scherzammo sulla mia mania di creare sempre nuovi ordini che all’inizio sembrano logici e che poi finiscono per scombinare la sequenza sugli scaffali della libreria. Poi l’avevo trovato, quel libro, ed ora ho in studio una busta a suo nome, che non è stata ritirata; e che resterà sempre lì. Per quanto possa valere, è il mio modo di ricordarlo. Maurizio Rebuzzini (Editoriale in FOTOgraphia del giugno 1995 ) Quattordici anni dopo, la busta è ancora oggi al suo posto di allora.

sempre di restituirci la sua voglia disperata di raccontare le sue esperienze vissute fino in fondo. Giovanna Calvenzi

M.R.

Guerra di Cipro; 1974.

Aldo Bonasia: Anni Settanta. A cura di Roby Schirer. Galleria Bel Vedere, via Santa Maria Valle 5, 20123 Milano; 02-45472468; www.belvedereonlus.it, info@belvedereonlus.it. Dal 19 marzo al 30 aprile; martedì-domenica 13,00-20,00. Catalogo Bel Vedere - Electa; testi di Giovanna Calvenzi e Ando Gilardi; 75 fotografie; 104 pagine 23x25cm; 30,00 euro.

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Cani nell’Arte, di Stefano Zuffi; 2008; 350 illustrazioni; 360 pagine 23x23cm, cartonato con sovraccoperta; 29,90 euro. Gatti nell’Arte, di Stefano Zuffi; 2007; 400 illustrazioni; 360 pagine 23x23cm, cartonato con sovraccoperta; 29,90 euro. Sassi Editore, viale Roma 122b, 36015 Schio VI; 0445-539051, fax 0445-531664; www.sassieditore.it, info@sassieditore.it.

S

iamo sinceri, la questione è estremamente dibattuta, oltre che intrigante. Tanto che il prestigioso Life se ne è occupato in un numero speciale dell’ottobre 1994, durante la sua seconda stagione editoriale ufficiale, quella a cadenza mensile, andata in onda dal 1978 al 2000 (FOTO graphia, maggio e giugno 2007). Ripetiamo la domanda/disputa alla quale Life ebbe il coraggio giornalistico di dedicare un suo intero numero, con richiamo in copertina [a pagina 54]. Con sulle spalle il cane Eddie, che lo accompagnava nella seguìta serie televisiva Frasier, nata dalle costole di Cheers (in Italia, Cin cin: undici stagioni, dal 30 settembre 1982 al 20 maggio 1993), l’attore Kelsey Grammer evocò l’argomento di una inchiesta di sostanza, tra l’altro illustrata con ritratti di autore, di Harry Benson, uno dei più quotati e affermati fotografi del genere: «Why We Love Cats More Than Dogs (and vice versa)». Ovvero: «Perché amiamo i gatti più dei cani (e viceversa)». Quindi, il gioco degli opposti fu sottolineato dalla copertina della rivista (sempre Life), che l’attore tiene tra le mani, che illustra un gatto e recita «Why We Love Dogs More Than Cats (and vice versa)» / «Perché amiamo i cani più dei gatti (e viceversa)». Ora, se di questo si tratta, la questione è presto riassunta: oltre gli amanti degli animali sui generis, ai quali vanno bene tutti, pare che esistano persone

che fanno bandiera dei propri gusti e orientamenti, comportandosi come tifosi di calcio. Il derby è subito identificato: cinefili contro gattofili e viceversa. Dopo di che, sappiamo di frange sparse, che si comportano per convenienza: amanti dei gatti che tengono con sé un cane, perché più ubbidiente e governabile; al contrario, amanti dei cani, che ripiegano sul gatto, perché meno esigente e impegnativo.

Apparentemente lontane, soltanto apparentemente lontane, da una autentica sessione didattica sulla storia dell’arte, che affrontano di profilo e traverso, con il pretesto dichiarato di temi a soggetto esplicito, le due intense e corpose monografie Cani nell’Arte e Gatti nell’Arte rivelano i connotati di una entusiasmante sessione pratica per conoscere e capire l’evoluzione storica dell’espressione artistica. A ciascuno, la sua (come spesso invitiamo), oppure entrambe: le due raccolte si propongono come eccezionali lezioni d’arte. Riferendosi a soggetti identificati attirano l’attenzione che accompagna l’amore (cieco) per gli animali e sollecitano la concentrazione di ognuno

ARTE TRASVERSALE

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STEFANO ZUFFI ilanese, classe 1961, storico dell’arte, Stefano Zuffi è specializzato in museologia e museografia. Collabora con muM sei, istituzioni e associazioni nell’allestimento di mostre e nella realizzazione di progetti culturali. È autore di saggi e studi specialistici e volumi di divulgazione culturale, con particolare attenzione all’arte rinascimentale e barocca, tradotti e distribuiti in tutto il mondo (www.stefanozuffi.it). Per marzo, è annunciato il suo più recente testo: Il Mondo dipinto. 25 capolavori dall’antichità ai giorni nostri raccontano la loro storia (Feltrinelli). In ordine cronologico, segnaliamo i titoli pubblicati nel 2008: Grande atlante della pittura dal Mille al Duemila (Mondadori Electa), Caravaggio (Mondadori Electa), Tiziano (Mondadori Electa), Le donne che amano sono pericolose (Rizzoli), Amore ed erotismo (Mondadori Electa). Ancora, tra i suoi titoli di maggiore successo ricordiamo La pittura italiana (con Francesca Castria Marchetti; 1997, nuova edizione 2005; Mondadori Electa), Lo specchio infranto. Gli ultimi anni di Rembrandt (Longanesi, 2006), Dürer (Mondadori Electa, 2000), Arte a Venezia. Splendore, monumenti e capolavori della Serenissima (Leonardo Arte, 1999), Episodi e personaggi del Vangelo - Episodi e personaggi dell’Antico Testamento (Artbox Bibbia; Mondadori Electa, 2005), Il Cinquecento (Mondadori Electa, 2005). Oltre i due titoli Cani nell’Arte e Gatti nell’Arte, dai quali siamo partiti oggi e sui quali ci siamo soffermati, deviando il percorso (come spesso facciamo), per Sassi Editore nel 2005 ha pubblicato Veneto; arte, architettura e paesaggio (con Luca e Dino Sassi). In qualità di consulente scientifico si occupa della realizzazione di collane editoriali di grande diffusione. In qualità di consulente scientifico-editoriale di Mondadori Electa, Stefano Zuffi è responsabile di collane molto note, come gli ArtBook, e curatore della collana I Dizionari dell’Arte, avviata nel 2002, nel cui ambito sono pubblicati alcuni dei titoli appena menzionati. Ancora, è responsabile culturale dell’Associazione Amici di Brera e membro del consiglio dell’Associazione Amici del Poldi Pezzoli.

MONOGRAFIE D’ARTE Senza prendere posizione, ma allineandosi con entrambe le fazioni possibili, l’attento Sassi Editore, di Schio, in provincia di Vicenza, alza clamorosamente il tiro, offrendo a ciascuno schieramento un piatto prelibato, da gustare nella pace e serenità dei propri spazi esistenziali, per confortarsi nelle proprie passioni e inclinazioni. Senza inutili giri di parole, ma approdando subito al sodo, Cani nell’Arte e Gatti nell’Arte (in ordine alfabetico, sia chiaro) sono preziose e affascinanti monografie che collocano gli animali

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Gatto e anatre [particolare]; arte romana; circa seconda metà del II secolo aC; mosaico da Pompei, 53x53,5cm.

Pinturicchio (Bernardino di Betto, detto): Il ritorno di Ulisse (o Penelope con i corteggiatori) [particolare]; circa 1509; affresco staccato, 125,5x152cm.

in un ambito che, di fatto!, ne racconta anche e soprattutto il costume attraverso i secoli. Entrambi a cura di Stefano Zuffi, classe 1961, apprezzato storico dell’arte con curriculum di tutto rispetto [pagina accanto], i due volumi svolgono infiniti compiti e elaborano altrettanti ruoli. Se siamo alla ricerca di ulteriori motivazioni, oltre il richiamo principale ai Cani e Gatti, facciamo tesoro dell’attraversamento trasversale della storia dell’Arte, che è affascinante nella forma tanto quanto coinvolgente nel contenuto. Diciamola così: con il pretesto dei

soggetti di riferimento, appunto i Cani e i Gatti, che a molti potrebbero già bastare, l’autore Stefano Zuffi prende per mano il lettore e lo accompagna attraverso i secoli, le espressioni e le evoluzioni del linguaggio artistico (soprattutto pittorico). Sagge parole accompagnano efficaci illustrazioni (tali anche nelle dimensioni delle riproduzioni e nelle relative qualità di stampa litografica), e insieme parole e immagini non si limitano al soggetto esplicito, ma disegnano e definiscono l’arte nel proprio insieme e complesso. In definitiva, per come la pensiamo sui tempi e modi dell’attenzione, sullo spirito dell’apprendimento e sulla didattica, non si tratta più di una pedante lezione teorica, ma di una entusiasmante sessione pratica che, sulla concreta sollecitazione di un interesse dichiarato (ribadiamolo ancora una volta, Cani e Gatti), finisce per raggiungere mente e cuore, arricchendo il lettore di cognizioni di straordinario valore e spessore.

OLTRE L’APPARENZA Allestite in consecuzione cronologica, dall’antichità alle manifestazioni dell’arte contemporanea, come appena annotato, con il pretesto dei soggetti a richiamo, Cani nell’Arte e Gatti nell’Arte si propongono come eccezionali e irrinunciabili lezioni sulla storia dell’arte. Riferendosi a soggetti identificati at-

Mummia di gatto; arte egizio-romana; I secolo aC; altezza 46cm.

(pagina accanto) Ventaglio con scene di caccia allo struzzo; arte egizia del Nuovo Regno; dalla tomba del faraone Tutankhamun (1370-1352 aC); legno e lamina d’oro. Mummia di cane; arte egizia, Bassa Epoca; VII-IV secolo aC; altezza 37cm. Sandro Botticelli (Sandro Filipepi, detto): La novella di Nastagio degli Onesti; 1482-1483; olio su tavola, 84x142cm.

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Jan van Eyck: I coniugi Arnolfini; 1434; olio su tavola, 82,2x60cm.

Vittore Carpaccio: Due dame veneziane [particolare]; circa 1490-1495; tempera e olio su tavola; 94x64cm.

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tirano l’attenzione che accompagna l’amore (cieco?) per gli animali e sollecitano la concentrazione. Se ci è concesso un paragone, a parte l’interesse che può essere degli addetti al lavoro, molte storie dell’arte sono di una noia tanto profonda da allontanare lettori possibili e potenziali. A differenza e al contrario, l’azione congiunta di Sassi Editore e Stefano Zuffi è meritoria perché cancella subito l’ipotesi di noia, per ammaliare il pubblico. Ancora in similitudine, molte storie dell’arte si presentano come guide telefoniche, la cui lettura è peraltro infruttuosa; Cani nell’Arte e Gatti nell’Arte si offrono come pratiche agende di indirizzi, all’interno delle quali rintracciare recapiti utili e proficui. Dopo di che, opinione più che individuale, che dunque non eleviamo di rango oltre questo, riscontriamo come e quanto queste chiavi privilegiate di lettura possano anche non concludersi in se stesse, ma estendersi in avanti o di lato. Cioè stimolino in ciascun lettore la curiosità della scoperta e del percorso personale verso altre direzioni. Ovverosia sollecitino il piacere di superare le ufficialità, scavalcare le sole apparenze, per arrivare in mondi fantastici di visioni entusiasmanti: l’opera


FOTOGRAFIA DA CANI (NON GATTI) in fotografia si dice “cane”, si pensa subito a due personalità di spicQrircico:uando a ciascuno, il proprio ordine mentale. È evidente che stiamo per rifea Elliott Erwitt e William Wegman. Al contrario. Nel caso di William Wegman, classe 1942, è inevitabile riferirsi alle numerose serie posate con i suoi cani Weimaraner, ovvero bracchi di Weimar, a partire dall’originario Man Ray, con il quale ha esordito all’inizio degli anni Ottanta (e nel 1985, quel cane capostipite è stato ribattezzato Fay Ray, derivazione dall’attrice Fay Wray, l’icona Ann Darrow del King Kong originario, del 1933). Si passa da fotografie di ricerca, anche in polaroid, soprattutto polaroid 50x60cm, alle fiabe interpretate, alla remunerativa pubblicità. Ma, soprattutto, si approda al mondo dell’arte, con quotazioni in ascesa vertiginosa e acquisizioni da parte di Gallerie e Musei di primo piano. Per Elliott Erwitt, classe 1928, tra tanto altro LuccaDigitalPhotoAward 2007 [FOTOgraphia, novembre 2007], l’evocazione della miriade di cani fotografati in tutto il mondo è addirittura trasversale alla Storia della fotografia, quantomeno di quella sostanzialmente prossima. Tra tante monografie a tema, richiamiamo qui l’edizione italiana Vita da Cani, del 2004, che Phaidon ha tradotto (ma i testi si riducono a niente) dall’originario Dog Dogs, conservandone la rilegatura a “mattone”: cinquecento fotografie; 512 pagine 12x18cm; 12,95 euro. Su un piano diverso, non ce ne voglia per questa distinzione, che non intende affatto essere graduatoria, tra tanti altri attraversamenti fotografici di cani, ci preme ricordare ancora quelli del bravo Gabriele Caproni, classe 1966, toscano a tutti gli effetti, che racconta l’esistenza di semplici cani che accompagnano la vita dei propri padroni. Come abbiamo sottolineato in una presentazione redazionale del maggio 2007, apprezziamo soprattutto che si tratta di cani che rimangono inviolabilmente tali, e non sono osservati e fotografati per la compiacenza di eventuali concessioni ad altri loro comportamenti. Le fotografie di Gabriele Caproni osservano e documentano la vita dei cani nel rispetto della legittima personalità animale. La sua è una lezione condivisa di etica, stile (anche fotografico) e abilità (anche fotografica). Ancora indietro, nella Storia, evochiamo i cani di Eadweard Muybridge (18301904), dalle tavole di Animal Locomotion o Animals in Motion. E sempre in clima storico, con passaggio nell’arte pittorica, dal punto di vista fotografico con-

testiamo il movimento delle zampe nere su fondo bianco del futurista Giacomo Balla (1871-1958), peraltro adeguatamente presentato nella monografia Cani nell’Arte, oggi soggetto. Il Dinamismo di un cane al guinzaglio, del 1912, di Giacomo Balla, è visivamente impossibile. Con l’occhio fisiologico il movimento si percepisce soltanto su fondo scuro: come hanno sempre dimostrato gli esperimenti di tutti i fotografi del movimento, da Eadweard Muybridge, appena ricordato, a Étienne-Jules Marey (1830-1904) e Thomas Cowperthwait Eakins (18441916), fino a Harold Eugene “Doc” Edgerton (1903-1990). Chiediamo scusa, ma dei gatti non ci viene in mente nulla, a parte le fotoricordo personali di Yuri, Ugo e Trino (tre femmine, i cui nomi causarono loro tragicomiche crisi di identità), della fine degli anni Settanta, e quelle attuali di Ciccio il Gatto, che, salvato (da Loredana Patti) da morte certa, alla quale l’avevano condannato altrui scelleratezze, ora condivide la nostra vita. Ovviamente, con strafottenza e impertinenza. È un gatto, diamine, e si sente il padrone di casa.

Una unica illustrazione (gli altri autori citati sono tanto pubblicati da appartenere alla memoria collettiva della fotografia): richiamiamo l’apertura dell’articolo-portfolio con il quale, nel maggio 2007, presentammo una selezione di fotografie di cani del toscano Gabriele Caproni (in attesa di monografia).

Utagawa Kuniyoshi: Donna con gatto in braccio; 1852; xilografia colorata, 36,7x24,8cm.

Tintoretto (Jacopo Robusti, detto): Ultima cena [particolare]; 1590-1592; olio su tela, 375,9x576cm.

d’arte non più osservata e percepita per il proprio insieme complessivo, ma attraverso la somma (non certo algebrica) delle sue componenti, dei suoi dettagli, dei suoi rimandi. Così che, improvvisamente, davanti agli occhi si dischiude un mondo nuovo, composto non soltanto dalle imposizioni ufficiali ac-

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Francis Barraud: pubblicità dei fonografi Victor; 1910; litografia a colori pubblicata sulla rivista The Theatre.

Théophile Alexandre Steinlen: manifesto per la riapertura del cabaret Le chat noir; 1896; litografia a colori, 91x61cm. Pompeo Girolamo Batoni: Thomas William Coke (1754-1842), poi primo conte di Leicester; 1774; olio su tela, 245,8x170,3cm.

Henri Rousseau il Doganiere (Le Douanier): Ritratto di Pierre Loti; circa 1891; olio su tela, 62x52cm.

Life, ottobre 1994: «Why We Love Cats More Than Dogs (and vice versa)».

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cademiche, ma reso vivo e vibrante dalla singola capacità di percepire il contorno e dintorno. In prosecuzione e consecuzione inevitabile alla affascinante lezione di stile di Cani nell’Arte e Gatti nell’Arte, che ci hanno dischiuso porte delle quali ignoravamo l’esistenza, quanto mi piacerebbe, nella mia vita, aver dato per quanto ho ricevuto; quanto vorrei aver offerto ad altri per quanto mi hanno donato; quanto vorrei aver suggerito punti di vista almeno coincidenti con quelli che mi sono stati indicati (e tutti questi sono anche compiti dei libri, delle letture e degli incontri esistenziali).

Anni fa, decenni fa, accompagnando i miei figli a un Carosello Equestre dei Carabinieri, culminato nella tradizionale carica a cavallo, mi impegnai per far apprezzare loro la straordinarietà degli esercizi svolti, molti dei quali assolutamente entusiasmanti (con occhio di adulto). Entrando in arena, i due squadroni di Carabinieri, uno su cavalli di mantello grigio, l’altro su cavalli di mantello baio, erano stati accompagnati da un cane-mascotte (un Carlino), con finimenti analoghi a quelli degli stessi cavalli. Dopo più di un’ora di trambusto e acrobazie, Ciro, preoccupato, mi chiese candidamente «dov’è il cane?». Pura poesia. Occupato dal tutto, non avevo percepito la parte. Soprattutto questa è vita. Maurizio Rebuzzini.



RIEVOCAZIONI MAURIZIO REBUZZINI

Non per paradosso, e neppure provocazione, osiamo interpretare il fenomeno editoriale che sta accompagnando la demolizione dello Yankee Stadium di New York come lezione di... democrazia. La stessa che manca al nostro paese, povero di rapporti stato-cittadino, di rispetto verso i cittadini (e i clienti), di capacità di rivolgersi all’esterno/agli altri con garbo e responsabilità. Oltre la registrazione della nascita di un consistente filone librario, spesso illustrato, con intenzioni esplicite allunghiamo la lettura oltre la superficie apparente delle cose, per andare a una loro matrice ideologica e filosofica. Una volta ancora, all’amore

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omenica ventuno settembre, a chiusura della Regular Season 2008, durante la quale gli Yankees di New York non sono riusciti a emergere oltre metà classifica, non accedendo così alle finali che avrebbero portato alle World Series di ottobre, che hanno impegnato i Philadelphia Phillies (della National League), vincitori contro i Tampa Bay Rays (della American League), si è disputata l’ultima partita nello storico Yankee Stadium, del quale, il giorno dopo, è iniziato lo smantellamento. A parte la personale passione per il baseball, soprattutto americano (quello vero), la demolizione dello Yankee Stadium traccia una nota indelebile nella storia degli Stati Uniti, tanto giovani da conteggiare questi avvenimenti, altrove marginali, come discriminanti. Se servisse farlo, possiamo richiamare l’evocazione che nel cinematografico L’uomo dei sogni, cult generazionale (in origine Field of Dreams, di Phil Alden Robinson, del 1989, dal romanzo Shoe-

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D’AMORE less Joe, di W.P. Kinsella), ricorda l’Ebbets Field dei Brooklyn Dodgers, analogamente demolito dopo l’ultima partita del 24 settembre 1957 (contro i Pittsburgh Pirates), prima del trasferimento della squadra a Los Angeles. Ancora, e poi basta, lo stesso Ebbets Field è richiamato nei dialoghi di Blue in the Faces, di Paul Auster e Wayne Wang, del 1995, affascinante continuazione-conclusione di Smoke [FOTOgraphia, novembre 2003].

YANKEE STADIUM Come annotato, lo Yankee Stadium di New York, nel Bronx, all’incrocio tra la 161st street e River Avenue, rappresenta un frammento assolutamente significativo della storia americana. Per quanto riguarda il baseball, dal 1923 ha ospitato le imprese degli Yankees, la squadra più titolata degli Stati Uniti (ventisei World Series vinte, l’ultima nel 2000; trentanove World Series disputate, l’ultima nel 2003: nella particolare classi-

fica, precedono i St. Louis Cardinals, con dieci vittorie nelle World Series). Per quanto riguarda il costume, è noto che lo Yankee Stadium fu edificato per ospitare i tanti tifosi richiamati dalle imprese di Babe Ruth, il più grande di tutti, prelevato dai Boston Red Sox, il 3 gennaio 1920. Per quanto riguarda lo sport (e il suo costume, ancora), è stato teatro delle straordinarie prestazioni di Joe DiMaggio, Lou Gehrig, Yogi Berra, Mickey Mantle (i cui numeri di casacca sono stati tutti ritirati, come quello di Babe Ruth). Per quanto riguarda altro, oltre tanti diversi appuntamenti dello sport, tra i quali l’incontro di pugilato tra Muhammad Ali e Ken Norton (28 settembre 1976), lo Yankee Stadium ha ospitato i raduni, con relativa celebrazione di messa solenne, di tre papi: Paolo VI, 4 ottobre 1965; Giovanni Paolo II, 2 ottobre 1979 (e nel 1969 da Cardinale); Benedetto XVI, 20 aprile 2008.

Agosto 1997. Tramonto sullo Yankee Stadium in panoramica a obiettivo rotante. Indimenticabile!

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BABE RUTH, IL BAMBINO

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ato George Herman Ruth, a Baltimora, il 6 febbraio 1895, detto Babe Ruth, il più leggendario tra i giocatori di baseball di tutti i tempi è noto anche con il soprannome, in italiano (!), “The Bambino”. Segnato da una adolescenza difficile -i genitori lo portarono in un istituto religioso, dove ve lo avrebbero dimenticato (vicenda ben raccontata nel cinematografico The Babe, del 1992, in Italia The Babe - La leggenda, con un credibile John Goodman)-, Babe Ruth ha segnato gli anni Venti del baseball americano. Oltre i suoi gesti sportivi, li stiamo per rievocare, fu noto per la sua particolare predisposizione verso i bambini, tanto che la Little League di baseball è intitolata al suo nome, appunto Babe Ruth League. La sua fama di giocatore è soprattutto legata alla forza in battuta, in fase di attacco. Oltre le migliaia di battute valide, il suo curriculum segnala settecentoquattordici fuori campo: record dal 1935, che ha resistito fino alle più moderne imprese di Hank Aaron della metà dei Settanta (quando si disputavano molte più partite a stagione, va rilevato). Mancino formidabile in battuta, e destro nella scrittura, Babe Ruth ha spedito settecentoquattordici volte la pallina oltre la recinzione che delimita il terreno di gioco, a più di centoventi metri dal box di battuta. Babe Ruth uscì di scena nel 1935, dopo ventuno anni di attività. Tornò allo Yankee Stadium, lo stadio che venne costruito proprio per ospitare i tanti sportivi che volevano assistere alle sue gesta, lo stadio teatro delle sue memorabili imprese, il 13 giugno 1948, per una partita di addio: allo sport e alla vita. Come ricordano i testimoni, fu un pomeriggio di grande commozione generale. Tutti erano coscienti di avere di fronte un uomo atrocemente minato dallo spietato tumore che un paio di mesi più tardi, il sedici agosto, lo avrebbe definitivamente vinto; tutti sapevano che questa sarebbe stata l’ultima apparizione pubblica di Babe Ruth. Tra le tante fotografie scattate quel giorno, una ha vinto l’ambìto premio Pulitzer; lei pure appartiene ormai al mito. Dalla fine. Un caldo giorno d’estate, uscendo come ogni altro giorno dall’ascensore che si era fermato al quinto piano del N.Y. Herald Tribune, il fotografo Nat Fein intuì che nell’aria c’era qualcosa di diverso. Nella stanza della cronaca locale, sua moglie Lois stava chiacchierando con il picture editor Richard Crandell. A casa, pensò, va tutto bene, e allora? Semplice: «Nat, ho una sorpresa per te», disse Richard Crandell. «Hai vinto il premio Pulitzer per la tua fotografia di Babe Ruth». È una storia da raccontare, ripensando alla lugubre giornata che aveva tenuto New York in apprensione Il momento è struggente. È l’addio di Babe Ruth, il più grande di tutti, al suo pubblico: 13 giugno 1948, ultima partita celebrativa. Questa fotografia di Nat Fein, per il N.Y. Herald Tribune, ha vinto il premio Pulitzer del 1948.

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per un cielo grigio che minacciava pioggia. In quel pomeriggio del 13 giugno 1948, Babe Ruth, palesemente malato, uscì dalla buca degli Yankees e si avviò lentamente verso il box del battitore, a casa base. Una banda musicale accompagnò i suoi passi, mentre, con gesto spontaneo estremamente commovente, l’intera squadra degli Yankees si era schierata per onorare il suo più leggendario giocatore, nel giorno dell’addio. Babe Ruth avanzava, e nessuno poteva confondere la sua imponente figura con le larghe spalle incurvate, mentre si appoggiava sulla mazza per sostenersi. Gli spettatori si alzarono rispettosamente in piedi (oggigiorno, questo cerimoniale viene organizzato e diretto, allora no). I tifosi resero omaggio a un uomo che per vent’anni era stato l’idolo di migliaia di persone, fino a diventare il simbolo stesso della vera sportività. Venticinque fotografi erano presenti per documentare la cerimonia del Babe Ruth Day. Come tutti, Nat Fein fotografò quanto stava succedendo, ma sentiva

che nessuno scatto effettuato era adeguato all’avvenimento, nessuno lo raccontava. Staccatosi dal gruppo dei fotoreporter, Nat Fein si portò dietro il box di battuta. Mentre la banda suonava e Babe Ruth salutava per l’ultima volta il suo pubblico, vide l’immagine che da sola era la sintesi dell’intera giornata. La casacca con il numero “3” sulla schiena non sarebbe stata più usata dagli Yankees, e da quel punto di vista l’inquadratura era pronta: la composizione si era accomodata da sé, con Babe Ruth che si toglie il berretto e si inchina agli spalti. Nat Fein si ricordò una delle esortazioni del picture editor Richard Crandell, che spesso raccomandava di scattare senza flash, quando la luce naturale fosse appena sufficiente. Secondo il picture editor, la luce del giorno avrebbe creato l’atmosfera della fotografia. In quella giornata grigia, Nat Fein impostò il diaframma a f/5,6 e regolò l’otturatore della sua Speed Graphic a 1/25 di secondo: scattò senza flash.


Per quanto riguarda la fotografia, nostro territorio comune e di incontro, registriamo che la demolizione annunciata -che peraltro anticipa quella dell’altro stadio newyorkese del baseball, lo Shea Stadium dei Mets, nel Queens, al 12.601 di Roosevelt Avenue, inaugurato nell’aprile 1964- ha avviato una consistente serie di monografie celebrative, la maggior parte delle quali ampiamente illustrate: e sono queste il soggetto della nostra attuale attenzione.

LEZIONE DI DEMOCRAZIA Pur anagraficamente giovane di qualche mese, la bibliografia commemorativa dello Yankee Stadium è già quantitativamente consistente. Per le cernite qualitative, nel contenuto e nella forma di accompagnamento, si dovrà aspettare ancora del tempo; quando il clamore dei primi giorni di emozioni si sarà attenuato, fino ad esaurirsi del tutto, potremo tirare le somme: e qualcuno lo farà anche. Intanto, sulla tenera commozione delle prime ore, registriamo il fenomeno bibliografico, riferendoci in particolare a sette titoli (magnifici?) sui quali ab-

biamo indirizzato la nostra concentrazione e le nostre considerazioni collegate. In stretto ordine temporale, sono i primi titoli pubblicati, all’alba della fine dello scorso settembre, ai quali tanti altri hanno fatto seguito nelle settimane a seguire, e ancora molti di più sono stati già annunciati. Comunque, dal nostro punto di vista fotografico, mirato nelle intenzioni e limitato nelle rilevazioni (come è giusto e legittimo che sia), questi sette titoli rappresentano la proverbiale “parte per il tutto”: compongono già i tratti di un casellario destinato a ingigantirsi nei numeri, come appena annotato, e perfezionarsi nei contenuti, come è inevitabile che avvenga. Dunque, in anticipo temporale su ogni altra analisi che potrà definire i confini e le personalità del fenomeno ora soltanto annunciato, offriamo subito quel contributo fotografico che ci pare indispensabile, per il quale (contributo) stiamo anche per estendere osservazioni e riflessioni: come è nostra abitudine fare; e come è stato fatto, su un’altra linea di pensiero con Alla Photokina e ritorno, saggio sulla fotografia dei nostri giorni ispirato dallo svolgimento della Photokina 2008, ma non limitato a questo (in allegato a FOTOgraphia dello scorso dicembre e presentato in FOTOgraphia del successivo febbraio). Invertiamo l’ordine dei fattori, senza peraltro alterare il risultato. Partiamo dalla conclusione, per certi versi anche amara. In una realtà, come è quella statunitense, dove si manifesta anche una sana curiosità per i propri fenomeni di costume, adeguatamente coltivati e coccolati, la demolizione di uno stadio di baseball, elevato a icona della nazione, dà vita e luogo a molteplici rievocazioni librarie, tutte guidate dal cuore. Certo, non siamo così ingenui da non considerare l’aspetto affaristico delle singole edizioni, ma neppure siamo tanto cinici da non valutare l’adeguato rapporto prezzo-sentimento: per una quantità di dollari sempre legittima e abbordabile, in relazione e dipendenza alle stesse edizioni, non si acquistano soltanto pagine, ma ognuno può arricchirsi, volendolo fare, di parole e sentimenti senza prezzo. Con Nadar: «Preferire l’onore al profitto è il mezzo più sicuro per ottenere il profitto con onore» (da Quando ero fotografo, nella traduzione di Stefano Santuari, a cura di Michele Rago; Editori Riuniti, 1982). In un certo senso allineati con questo aforisma di Nadar, peraltro semplice e universale (tanto da essere scontato, perfino banalotto), quanto sconosciuto ai più, ognuno per sé e tutti insieme, i titoli che stiamo per richiamare vanno ben oltre le convenienze di redditività di impresa dei singoli editori, e si allungano fino a quell’accrescimento individuale verso il quale tutto dovrebbe essere indirizzato: se ci basta, questa soltanto potrebbe essere già ragione più che sufficiente per guardare con ammirazione al fenomeno librario che accompagna la demolizione e cancellazione dello Yankee Stadium di New York. Così che, con non celata invidia rivolgiamo il nostro sguardo oltreoceano, per osservare una condizione sociale ed esistenziale, come è quella statunitense,

Memories of Yankee Stadium, di Scott Pitoniak; Triumph Books; 240 pagine 11x17,5cm, cartonato; 19,95 dollari. Appassionata ricostruzione di fatti ed eventi che hanno avuto per protagonista il celebre stadio. Soltanto parole.

The 50 Greatest Yankee Games, di Cecilia Tan; John Wiley & Sons; 278 pagine 15,5x23,3cm; 14,95 dollari. Le cinquanta più belle partite di baseball disputate dagli Yankees, alcune delle quali in trasferta. Soltanto parole.

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per quanto contraddittoria e discussa, così densa di democrazia. La stessa che manca al nostro paese, povero di rapporti stato-cittadino, di rispetto verso i cittadini (e i clienti), di capacità di rivolgersi all’esterno/agli altri con garbo e responsabilità. Non esageriamo, quando dietro questa manciata di libri individuiamo e sottolineiamo questo: semplicemente, allunghiamo la lettura oltre la superficie apparente delle cose, per andare a una loro matrice ideologica e filosofica. Il resto, come spesso accade, può anche essere mancia. A Yankee Century, di Harvey Frommer; Berkley Book; 430 pagine 19x23cm; 17,00 dollari. Rigoroso saggio dell’autore della The New York Yankee Encyclopedia: i cento anni della squadra. Immagini a margine.

Yankees Century, di Glenn Stout; Hougton Mifflin Company; 478 pagine 22,5x26,5cm, cartonato con sovraccoperta; 40,00 dollari. I cento anni degli Yankees, soprattutto per immagini.

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SETTE TITOLI (PER ESEMPIO) Per curiosa coincidenza/divergenza, i primi sette titoli pubblicati a ridosso della demolizione dello Yankee Stadium di New York, icona nazionale, tempio del baseball, palcoscenico di straordinarie imprese di sport, hanno nulla in comune uno con l’altro. Addirittura, ognuno può essere individuato e codificato come capostipite di una categoria autonoma del fenomeno librario complessivo; fino al punto che ciascun titolo dà avvio a genìe presto identificate, all’interno delle quali si conteggeranno e classificheranno i titoli a seguire, che già sono quantitativamente copiosi (per l’eventuale analisi delle rispettive qualità, che non ci interessano né competono, si dovrà aspettare tempo, e attendere che qualcuno abbia modo di impegnarsi in tale casellario). Due dei sette titoli sono di sole parole; come stiamo per vedere, altri sono soprattutto di parole e altri ancora ampiamente illustrati. ❯ Memories of Yankee Stadium, di Scott Pitoniak (Triumph Books; 240 pagine 11x17,5cm, cartonato; 19,95 dollari), si offre e propone come appassionata ricostruzione di fatti ed eventi che hanno avuto per protagonista il celebre stadio: appunto, memorie/ricordi dello Yankee Stadium. Tra sequenze cronologiche e rievocazioni di personaggi, una testimonianza romanzata, che si allunga anche sugli accadimenti estranei allo sport, e al baseball in particolare, che si sono svolti sul suo manto erboso. Dando tutto, forse troppo, per scontato, ovvero presumendo di rivolgersi a un pubblico di addetti e conoscitori, l’autore sorvola su alcuni aspetti quotidiani, che invece potrebbero risultare curiosi e affascinanti per chi arriva da lontano: noi, per esempio. A completamento, ricordiamo dunque che a metà partita, allo Yankee Stadium, la tradizionale pulizia del campo, che avviene in ogni stadio del baseball, era svolta come uno spettacolino di intrattenimento del pubblico, con gli addetti che si muovevano sul diamante a

passo di danza, in armonia con i motivi trasmessi da potenti altoparlanti. ❯ The 50 Greatest Yankee Games, di Cecilia Tan (John Wiley & Sons; 278 pagine 15,5x23,3cm; 14,95 dollari), sposta dichiaratamente il punto di vista, peraltro esplicito nel titolo: le cinquanta più belle partite di baseball disputate dagli Yankees, alcune delle quali in trasferta. Pur pubblicato nel 2005, rientra nella nostra catalogazione odierna proprio in relazione alla sua particolare prospettiva: a un tempo oggettiva e soggettiva, a un tempo testimonianza diretta e racconto di ricordi altrui. Appassionata di baseball, tanto che il suo sito www.ceciliatan.com comprende la sezione Why I Like Baseball, perché amo il baseball (in libera traduzione, interpretata), dalla quale si accede a una consistente serie di articoli e rilanci a libri monotematici. Giovane d’anagrafe, che comunque non rivela, come appena annotato, Cecilia Tan racconta in proprio e per differita: testimone diretta delle partite dalla fine degli anni Settanta (lo deduciamo), è interprete di memorie altrui per quanto riguarda quelle retrodatate. Addirittura, a partire dalla prima evocata nel libro, del 10 ottobre 1904, quando gli Yankees (non ancora allo Yankee Stadium) ospitarono i nemici di sempre: i Boston Red Sox, che nel recente 2003 hanno strappato loro le World Series, in una rocambolesca successione di partite, che hanno sfatato la celebre “Maledizione del Bambino”, l’anatema lanciato da Babe Ruth, ceduto appunto agli odiati Yankees, che è pesato sulla squadra di Boston per ben ottantatré anni! Ognuna delle cinquanta partite raccontate da Cecilia Tan è preceduta da un breve sommario, che si propone come chiave di lettura e interpretazione, che rievoca e sottolinea le gesta di Babe Ruth, Joe DiMaggio, Mickey Mantle e tante altre icone del baseball. Avvincente, ed è tutto! ❯ A Yankee Century, di Harvey Frommer, autore anche dell’autorevole The New York Yankee Encyclopedia (Berkley Book; 430 pagine 19x23cm; 17,00 dollari), è un saggio rigoroso nella forma e nei contenuti: racconta i cento anni della squadra. In questo caso, l’amore che attraversa tutti i titoli qui commentati, tanto da averci fatto sottolineare proprio questo comune denominatore, fa capolino tra le righe di un testo rigorosamente “scientifico” e giornalistico. Pare asciutto e clinico, ma non è affatto vero: perché la passione popolare per il baseball (che potrebbe allinearsi idealmente con quella, nostra, per il ciclismo: il calcio è tutt’altra questione, alterata dal tifo e insudiciata da alcuni dei suoi protagonisti) non può resistere alle professioni di fede, peraltro riscontrabili anche nei film che di baseball raccontano, o sul baseball hanno costruito la propria sceneggiatura. Del resto, il centenario di una squadra merita attenzione ed esige amore: altrimenti, è un’altra storia. Basta pensare, con amarezza, alle rievocazioni dei cento anni di Milan e Inter, declinate in Italia con coincidenti arroganze. L’indulgenza dei sentimenti è altra vicenda, che spetta soltanto agli eletti di animo.


Yankees Century, di Glenn Stout (Hougton Mifflin Company; 478 pagine 22,5x26,5cm, cartonato con sovraccoperta; 40,00 dollari), non si sovrappone in alcun modo al titolo simile/identico precedente. Per quanto raccontino esattamente la stessa vicenda, questi cento anni degli Yankees affidano l’evocazione di emozioni e partecipazioni soprattutto alle immagini: dunque, è una monografia (ampiamente) illustrata, tanto da certificare ufficialmente ruolo e competenza di un curatore fotografico, Richard A. Johnson. Le parole di accompagnamento sono tante, non certo troppe, ma la cadenza del racconto è fotografica: con quanto e per quanto le immagini lascino sognare e permettano ai ricordi di volare lungo il binario loro dedicato. Ed è a questo che spesso ci richiamiamo. ❯ Yankee Stadium. A Tribute, di Les Krantz (Harper Entertainment; 176 pagine 21,5x23cm, cartonato con sovraccoperta; 29,95 dollari), si richiama esplicitamente allo stadio, al quale dedica un tributo di ottantacinque anni di ricordi: dal 1923 di origine al 2008 di demolizione. Anche in questo caso, il piatto forte è costituito da immagini, nell’ambito delle quali -lo confessiamo esplicitamente- ci allineiamo più ai bianconeri storici, quelli dei sogni, piuttosto che al più recente colore. Diavolo: alla fin fine siamo più ferrati sul passato remoto, che su quello prossimo! Perché? Lo sappiamo bene, perché. Comunque, il libro è confezionato con un Dvd che riunisce e presenta filmati delle gesta epiche dei giocatori che hanno scritto la leggenda degli Yankees. Attenzione, però, che per vederlo bisogna dedicare un lettore alla Regione statunitense, e poi non si torna indietro. Ma ne vale la pena. ❯ 101 Reasons to Love the Yankees, di Ron Green Jr (Stewart, Tabori & Chang; 120 pagine 12,5x12,5cm, cartonato con sovraccoperta; 14,95 dollari), va giù piatto e diretto. Centouno ragioni per amare gli Yankees enfatizzano sia i gesti atletici dei giocatori sui quali si è edificata la Leggenda, sia considerazioni parallele e complementari: dal logotipo ai record... alle pinstripes. Già... le pinstripes: le righine che da più di cento anni rappresentano la nota caratteristica delle divise delle partite in casa, allo Yankee Stadium, ❯

dal 1923. Tanto che, una ventina di anni fa, una banca newyorkese realizzò un annuncio pubblicitario in affissione stradale con la casacca numero cinque, uno dei numeri ritirati, quello di Joe DiMaggio. L’headline recitava che la banca aveva cura dei pinstripes dei clienti (presumiamo termine gergale riferito alla gestione dei conti bancari) così come Joe (soltanto “Joe”, tanto basta) aveva cura delle sue. Già... le divise. A parte le semplificazioni degli ultimi tempi, durante i quali sono state banalizzate rispetto il passato, annotiamo una curiosità, riscontrabile nei film che riguardano il baseball. Quando la squadra gioca in casa, sulla casacca bianca è indicato il nome di fantasia (fatta eccezione per gli Yankees, che presentano la caratteristica “NY” incrociata). Quando la squadra gioca in trasferta, sostituisce la casacca bianca con una casacca grigia, con indicazione della città di provenienza. ❯ Yankee Stadium. The Official Retrospective, di Mark Vancil e Alfred Santasiere III (Pocket Books; 232 pagine 30,5x25,5cm, cartonato con sovraccoperta; 50,00 dollari), è una imponente monografia illustrata che racconta cosa è accaduto nello stadio nei suoi ottantacinque anni di storia. Poche parole, in didascalia e nelle introduzioni, e largo alle immagini: di sport, costume e altro; per esempio, papa Paolo VI che vi celebra una messa solenne il 4 ottobre 1965, come abbiamo già ricordato. Alla maniera dei grandi illustrati, appariscenti più di quanto riescano ad essere emozionanti, una retrospettiva ufficiale che completa il ciclo dei possibili punti di vista dell’anima: come abbiamo sottolineato e rilevato. E poi, ancora e anche, oltre i cento anni di Yankees e gli ottantacinque di Yankee Stadium, centosettanta di baseball (coetaneo della fotografia: 1839-2009). Il baseball esprime uno spirito autenticamente popolare, perché è come una brava mamma. Severa, ma generosa. Come dovrebbe essere, sempre, lo sport. Maurizio Rebuzzini

Yankee Stadium. A Tribute, di Les Krantz; Harper Entertainment; 176 pagine 21,5x23cm, cartonato con sovraccoperta; 29,95 dollari. Ottantacinque anni di ricordi: dal 1923 di origine al 2008 di demolizione. Soprattutto per immagini.

101 Reasons to Love the Yankees, di Ron Green Jr; Stewart, Tabori & Chang; 120 pagine 12,5x12,5cm, cartonato con sovraccoperta; 14,95 dollari. Dai gesti atletici dei giocatori a considerazioni parallele e complementari. Molte le parole, marginali le immagini.

Yankee Stadium. The Official Retrospective, di Mark Vancil e Alfred Santasiere III; Pocket Books; 232 pagine 30,5x25,5cm, cartonato con sovraccoperta; 50,00 dollari. Imponente monografia illustrata che racconta cosa è accaduto nello stadio nei suoi ottantacinque anni di storia. Poche parole, e largo alle immagini.

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COPERTINA STRAVOLTA?

S

Sulle pagine del settimanale Grazia, Nadiolinda (all’anagrafe Nadia Busato, da Brescia, classe 1979; www. nadiolinda.it) firma la rubrica Il sesso ai tempi dell’happy hour, le cui osservazioni e rivelazioni si sono allungate sulla raccolta Se non ti piace, dillo (con sottotitolo allineato Il sesso ai tempi dell’happy hour, appunto), che Mondadori ha pubblicato esattamente un anno fa, all’inizio della primavera 2008. Con uno slittamento di date, che presuppone un (nostro) interesse approfondito e non una segnalazione di convenienza, arriviamo a parlarne, scrivendone, per una combinazione fotografica che riguarda l’illustrazione di copertina; però, attenzione, anche le pagine del libro meritano la nostra attuale attenzione. Forse, a ben guardare, possiamo accostare le due vicende, declinandole per una identificata conseguenza e consecuzione. Subito l’illustrazione di copertina, che visualizziamo sulla pagina accanto. Da una fotografia di Rinaldo Capra, a propria volta bresciano, rileviamolo, l’art director Giacomo Callo, che da decenni firma le copertine dei libri Mondadori, ha combinato un progetto grafico di Giuseppe Sartorio. Guardiamola assieme, la copertina: su un affascinante dettaglio di corpo femminile (diciamo “affascinante” per l’eleganza che spesso guida le nostre parole e definizioni), un bicchiere da cocktail pensiamo che sia questo, ma lo deduciamo per intuito e per sentito dire, non per competenza diretta-

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completa la descrizione esplicita dell’argomento affrontato e svolto dal testo: è evidente, Il sesso ai tempi dell’happy hour. Lapalissiano: dopo l’happy hour, e a sua conseguenza spesso inevitabile (l’abbiamo scoperto leggendo questo Se non ti piace, dillo), si approda all’intimità ravvicinata, evocata dallo slip rosso. A proposito, il corpo raffigurato, nella franchezza della posizione, è quello dell’autrice Nadiolinda. Non riveliamo nulla di nascosto o segreto, perché la certificazione è riportata proprio sul risvolto di copertina, appena prima del credito del fotografo e immediatamente dopo la presentazione del contenuto del libro. Così che, se proprio ci piace pensarla anche in questo modo, le parole scritte si personificano nell’evocazione e richiamo di questo ritratto esplicito dell’autrice (interpretiamolo anche in questo modo). In definitiva, il richiamo dell’illustrazione in copertina è decisamente didascalico: dall’argomento alla sua rappresentazione più diretta possibi-

le, quantomeno per la garbata esposizione in libreria. Eventuali altri voli pindarici e individuali sono lasciati alla fantasia individuale. Però, a seguire, abbiamo saputo che la proposta originaria dell’autrice era stata provocatoriamente diversa, cioè coniugata in altro modo, che ora

Dalla serie degli scatti originari di Rinaldo Capra: l’autrice Nadiolinda con simbologie maschili.


GABRIELE TAMANZA (6)

andiamo a raccontare. Complice il fotografo Rinaldo Capra, professionista della sala di posa e della pubblicità con poliedriche interpretazioni (www.rinaldocapra.com), Nadiolinda ha posato per combinazioni visive di altro profilo: sicuramente meno diretto, ma altrettanto certamente più intriganti, almeno dal punto di vista di chi, noi tra questi, frequentano e conoscono dettagli e sfumature dell’espressione fotografica. Il bicchiere da happy hour (e dintorni) è stato collocato in postproduzione in sostituzione delle più allegre combinazioni originariamente elaborate e realizzate da Nadiolinda e Rinaldo Capra. Come rivela il

Backstage del set di Rinaldo Capra per la copertina della testimonianza Se non ti piace, dillo, di Nadiolinda.

Se non ti piace, dillo - Il sesso ai tempi dell’happy hour, di Nadiolinda; Mondadori, 2008; 228 pagine 13,7x21,5cm; 14,00 euro.

backstage che in questa pagina accompagna le nostre rilevazioni (e rivelazioni), la sfida visiva era stata declinata altrimenti, con una giocosa alternanza e combinazione tra l’avvincente realtà del corpo femminile (che è rimasto) e il cambio di passo di soldatini in pose autenticamente maschie (sostituiti). Diavolo! Siccome Se non ti piace, dillo, espressione topica dell’approccio da happy hour, si presenta e offre come autentica inchiesta sul campo del rimorchiare dei nostri tempi (inchiesta magari poco sistematica, ma sicuramente molto sul campo, è specificato), questa sfida visiva tra donna al naturale (sufficientemente al naturale) e uomo stereotipato sarebbe stata di straordinario e affascinante impatto. Certamente, sarebbe stata ininfluente sulle vendite del libro, nessuna copia in meno e nessuna in più; però, e al contempo, avrebbe definito meglio l’argomento trattato: con ciascuno al proprio posto. Da cui, è inevitabile, riferire del contenuto (scritto alla maniera di precedenti esperienze letterarie, tutto al minuscolo, compresi gli inizi delle frasi e i termini che seguono il punto). Si parla soprattutto di sesso. L’autrice dice di aver parlato solo di questo; ma in realtà, attraverso il punto di vista privilegiato del sesso, capace di richiamare un poco tutti, Nadiolinda ha scritto di debolezze, meschinità, grandezze e generosità che fanno parte della vita. Purtroppo, non sono frequentate e manifestate in eguale misura e con la stessa consapevolezza. Purtroppo, le sue parole rivelano con chiarezza i lati meno nobili della personalità maschile (da cui la

combinazione preventivata di lei nuda e disponibile, forse, con soldatini inanimati di maschi stereotipati). Purtroppo, le sue parole non possono avere l’autorevolezza di prove. Ma gli indizi ci bastano. Domanda finale, alla quale peraltro risponde uno dei capitoli del libro: perché alla resa dei conti, molte donne, troppe, finiscono sempre per innamorarsi degli stronzi? Probabilmente, è inevitabile e nella natura, come la notte che segue sempre il giorno (con Jimmy Fontana: E il giorno verrà). M.R.

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JOHN HOAGLAND

T

Tra la fotografia e il nulla, scelgo la fotografia. Quando fotografi un uomo, una donna o un bambino, fotografi anche l’anima che hanno dentro. La grande fotografia pone domande più che offrire risposte. Il campo della fotografia della bellezza è disseminato d’addii, e ogni fotografia è un’immagine del mondo ritrovata. Ciò che ogni giorno ci uccide -diceva un saggio passato per i camini di Auschwitz- non è la morte del pensiero, è l’avvilente mediocrità di una civiltà in decomposizione.

SULLA POLITICA DELLA FOTOGRAFIA A ritroso. Il Maggio 1968 è stato una rivolta planetaria, un’onda lunga o un’orda libertaria, che a partire dalla scuola, dalle fabbriche, da padri e figli che volevano conquistare un’esistenza più giusta e più umana... è riuscita a disvelare l’inadeguatezza, la volgarità, la disgregazione dei “vecchi regimi” che avevano prodotto Auschwitz, la bomba atomica, la Kolyma e la società dello spettacolo; lo spirito del Maggio si è contrapposto alla mentalità autoritaria che governava i popoli e innescava uno dei più inarginabili crolli di potere che la storia abbia mai conosciuto. La generazione della gioia si è opposta alla falsità dei valori dominanti e ha minato alle fondamenta tutte le mitologie sul buon governo. La battaglia delle idee non è mai finita, e nelle strade dell’italietta parassitaria del terzo millennio, le giovani generazioni stanno riprendendo molto di quella vampata di libertà che ha scosso il mondo, e sembrano mostrare ai fantocci della sinistra e ai fascisti insediati in parlamento che i “disertori della politica” possono fare a meno di loro. E verrà il tempo che una nuova “rivoluzione gioiosa” mostrerà i propri sorrisi e stringerà

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ancora i pugni contro il cielo per fa cadere la verità in terra. Correte ragazzi, correte... il vecchio mondo è già morto davanti alla vostra straordinaria bellezza. Né fiori sui fucili, né patrie nel cuore: ogni bandiera e ogni altare sono sporchi di sangue innocente. La disobbedienza civile è un mezzo per dire no!, ora; e per non obbedire mai più! Ogni mezzo necessario a delegittimare questi bastardi della politica è buono. Una democrazia degli “affari sporchi”, delle mafie, delle camorre, che pretende di regnare impunita sulla comunità sottomessa, non può durare; l’inquietudine delle differenze è alle porte; l’insurrezione dell’intelligenza non vuole più padroni, e il tempo del sole di Maggio sembra essersi acceso negli occhi di molti. Il regno della mercanzia trema, le banche affondano, i popoli dei Sud della Terra sono trucidati nelle guerre. Più di duemila anni di “civiltà” non hanno prodotto che violenze, devastazioni, genocidi; i “nuovi barbari” sono i governi delle grandi potenze, i terrorismi delle religioni monoteiste, l’universo sanguinario comunista e le strategie saprofite delle cosche multinazionali. La differenza tra gli dèi del mercato e lo sterminio sistematico è tutta nell’indice di gradimento delle borse internazionali. I ricchi diventano sempre più ricchi, i poveri sempre più impoveriti. I nuovi tiranni non vanno combattuti, non importa sconfiggerli con le loro stesse armi e versare il loro stesso sangue... si sconfiggono da soli, basta che le genti cessino di obbedire. Non date ai cesari! Alla maniera di Étienne de La Boétie, rompete i legami della servitù volontaria e vedrete che il regime al quale è stata tolta la base, frana nel letamaio dal quale è venuto [ai curiosi di novelle utopie sovversive e di ri-

baltamenti dell’ordine costituito, rimandiamo a Étienne de La Boétie, Discorso sulla servitù volontaria, Jaca Book, 1979, nella traduzione di Luigi Geninazzi dell’originario Discours sur la servitude volontaire]. Groucho Marx, filosofo del cinema utopico, diceva, «di qualunque cosa si tratti, io sono contro» (citazione a memoria). Amare la fotografia vuol dire volare su un’altra stella. La fotografia è la continuazione della politica con altri mezzi. La fotografia politica si oppone alla morale da padroni e pone la politica al servizio dell’etica e della poesia. L’odissea della coscienza politica della fotografia conta i propri morti contro l’artificio dell’ideologia e dell’economia globale che legittimano la filosofia della miseria del capitale sacralizzato nelle merci. L’uguaglianza delle tirannie istituzionali garantisce il discredito e il profitto... esclude interi popoli dalla ripartizione dei beni comuni a favore del pensiero unidimensionale dei poteri forti. Il capitalismo finanziario mondializzato è una farsa, e il buon senso di un’epoca è annunciato nelle rivolte planetarie delle giovani generazioni. La lotta per la libertà in nome della libertà mette fine a un lutto prolungato; e quando la situazione è insopportabile, le anime belle della rivoluzione amorosa cominciano a ballare nelle strade. L’ora di ricreazione è finita, che la festa cominci!

SULLA FOTOGRAFIA DELLA SOFFERENZA La grande fotografia è scritta nelle stelle, vola nel vento della libertà; e anche se il vento non sa leggere, porta la fotografia della sofferenza a cavalluccio dell’immaginario. Una fotografia vale solo quanto l’uomo che la strappa alla storia dell’indiffe-

renza. La fotografia comanda, ma non obbedisce. Per i testimoni della fotografia sociale ci sono catene che vanno spezzate, e al di qua di ogni responsabilità c’è la solidarietà e la fraternità che rivendicano in fieri il diritto di amare e essere amati. Innanzitutto, una fotografia è una pratica di bellezza, e mostra che le parole cambiano quando cambiano gli sguardi: per la verità non ci sono eclissi.

DI JOHN HOAGLAND O DELLA FOTOGRAFIA DELLA SOFFERENZA Frammenti di una vita vissuta con la morte negli occhi e la luce nel cuore. John Hoagland nasce a San Diego, in California, negli Stati Uniti, il 15 giugno 1947, e viene assassinato in Salvador, il 16 marzo 1984. Nel corso della guerra nel Vietnam, è obiettore di coscienza; dopo l’assassinio di Martin Luther King [4 aprile 1968], è tra i fondatori del comitato Tuesday the Ninth, in difesa dei diritti civili dei neri. Inizia a realizzare video, e nel 1970, a Los Angeles, registra gli scontri tra la polizia e i manifestanti contro la guerra. Nel 1979, è fotoreporter in Nicaragua, a fianco della rivoluzione sandinista, lavora per l’Associated Press. Nel 1980, firma un contratto con Newsweek e parte per El Salvador (lavora anche per le agenzie Upi e GammaLiaison). Viene ferito più volte. La destra al potere lo vuole eliminare. I suoi reportage sono scomodi. La polizia lo arresta e lo invita a lasciare il paese, perché è ritenuto un “comunista”. Il 16 marzo 1984, nel corso della battaglia di Suchimoto, viene ucciso da una raffica di mitragliatrice, una M-60, di fabbricazione statunitense. John Hoagland aveva sposato una salvadoregna, e il centroamerica era


ormai divenuta la sua Terra. La scrittura fotografica di John Hoagland è ateologica, apofanica, eversiva, anche. È priva di religione, di patria, di nazione: è una fotografia della sofferenza, che lavora per la comunità, per il diritto alla vita, per la liberazione delle differenze. Le sue immagini nominano il dolore e suscitano l’appartenenza, l’indignazione e il grido; diventano “segni” della sovversione e aprono un varco nei simulacri del benessere. La fotografia moltiplica i suoi specchi, la violenza dei governi e il mercimonio dei saperi: li polverizza. John Hoagland è stato un fotoreporter in dissenso con i disastri delle guerre. Disapprova i potenti che le fanno e per questo porta la sua macchina fotografica in Nicaragua, Libano e Salvador. Le sue immagini dai fronti della speranza o della rivolta non lo renderanno

mai famoso; tuttavia, attraverso le sue scarne fotografie, i più avvertiti nel campo dell’immagine fotografica indipendente comprendono bene che si muore sereni soltanto quando non si hanno più ragioni a disposizione per continuare a perpetuare crimini di Stato. «Io non credo all’oggettività. Tutti hanno un punto di vista. Voglio dire che non mi presterò a fare propaganda per nessuno», John Hoagland diceva. Sapeva che nell’impero dei media, l’obiettività o l’innocenza sono miti istituzionalizzati e aborriva l’ingannevole illusione dell’oggettività del più forte. Nel suo avvincente saggio sulla politica della fotografia, David Levi Strauss ricorda con l’amarezza del vero l’opera di John Hoagland, si affranca alle analisi sulla semantica della comunicazione di Roland Barthes e, a ragione, sostiene che non è

molto appropriato parlare di civiltà dell’immagine nei termini “positivi” che se ne parla, perché i cardini della struttura informativa sono la grande menzogna della parola, che rende gli uomini degli inguaribili bambini. «Persino i telegiornali sono perlopiù non visivi, per la maggior parte consistono di “mezzi busti” che leggono dei testi. Sulla carta stampata, titoli, occhielli, didascalie e testi servono tutti a risolvere l’innata ambiguità delle fotografie e a eliminare il principale paradosso fotografico, che deriva dalla combinazione di modelli di significazione iconografici e simbolici. Il costrutto è lì per dirci ciò che stiamo guardando e cosa significa» (David Levi Strauss, Politica della fotografia; Postmedia Books, 2007). I media lavorano per eliminare l’insolenza degli sguardi liberati da ogni forma di anomia e il dolore degli altri che viene dis-

pensato in ogni strumento di comunicazione non è che il credito, la propaganda o la cronaca al servizio della ragione di Stato. La crudeltà umana e l’umana barbarie entrano nelle gallerie d’arte, nei musei, nelle università impoverite di ogni emozione. Fotografare la realtà o l’informazione sul disagio dei popoli (secondo una cultura dell’oltraggio e dell’ostaggio) non consente un dissenso reale, e tutto quanto si trasforma in ordinario intrattenimento. «I cittadini della modernità, consumatori di violenza sotto forma di spettacolo, esperti della prossimità priva di rischi, imparano a guardare con cinismo alla possibilità di essere sinceri. C’è chi farebbe di tutto per evitare di commuoversi. È molto più facile rivendicare, dalla propria poltrona, lontano dal pericolo, una posizione di superiorità. Del resto, chi deride lo

Alla mia nazione Non popolo arabo, non popolo balcanico, non popolo antico ma nazione vivente, ma nazione europea: e cosa sei? Terra di infanti, affamati, corrotti, governanti impiegati di agrari, prefetti codini, avvocatucci unti di brillantina e i piedi sporchi, funzionari liberali carogne come gli zii bigotti, una caserma, un seminario, una spiaggia libera, un casino! Milioni di piccoli borghesi come milioni di porci pascolano sospingendosi sotto gli illesi palazzotti, tra case coloniali scrostate ormai come chiese. Proprio perché tu sei esistita, ora non esisti, proprio perché fosti cosciente, sei incosciente. E solo perché sei cattolica, non puoi pensare che il tuo male è tutto il male: colpa di ogni male. Sprofonda in questo tuo bel mare, libera il mondo. Pier Paolo Pasolini ( La religione del mio tempo, 1959)

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sforzo di coloro che rendono testimonianza di un conflitto, definendolo turismo di guerra, esprime un giudizio ormai così diffuso da aver contagiato anche la discussione sulla fotografia di guerra come professione» (Susan Sontag, Davanti al dolore degli altri; Mondadori, 2003). I figli di puttana hanno facce conosciute e intercambiabili, e là dove imperversa il peggio, cioè nella televisione, fanno autocelebrazione e professione d’ingannare in nome del mercato globale. La realtà politica è sempre da un’altra parte e ovunque i giannizzeri del potere sparano alla schiena ai movimenti rivoluzionari. La fotografia di John Hoagland è una scrittura frattale del vero, che non solo è riuscita a mostrare i terrori della guerra, ma contiene anche le speranze di pace e libertà dei popoli in-

sorti. In questo senso, la fotografia d’impegno civile è una forma di comunicazione che può aiutare a formare, in modo diverso, la storia dell’uomo. Le immagini di John Hoagland non sono fotogiornalismo di trincea o sequenze cariche di verità scomode: soltanto... sono icone della desolazione, dell’abbandono, dell’ingiustizia scippate al declino delle democrazie autoritarie e contro la crescita del neo-colonialismo. L’iconografia di John Hoagland è attenta alla violazione dei corpi, ma non li sacrifica per il conseguimento dello spettacolare integrato, abituale nelle richieste dei media. In El Salvador, quando si trova davanti ai corpi disseppelliti, martoriati, mutilati delle mani, di quattro suore americane (una era laica) coperte (amorevolmente) da un telo di cotone bianco (erano sta-

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te violentate, poi uccise dai “battaglioni della morte”), John Hoagland mostra in un angolo del fotogramma, una piccola folla di testimoni, qualcuno inginocchiato a pregare. Evita ogni sorta di atrocità, e quello che restituisce al lettore non è solo la compassione per un assassinio impunito, ma nella memoria della vita offesa fissa la denuncia di una complicità insopportabile. David Levi Strauss s’indigna non poco quando analizza le fotografie di John Hoagland pubblicate da Newsweek. La redazione non trova di meglio che contrapporre le sue immagini alla pubblicità di una nuova marca di sigarette (che prende l’intera pagina e così ingoia il servizio sulle missionarie uccise), così che la redazione si assume «il compito di distorcere il significato degli eventi» (ancora da Politica della fotografia) e azzera i contenuti di queste fotografie straordinarie. Lo sappiamo: dal modo in cui viene utilizzata, ogni immagine è svuotata (può essere svuotata) della propria forza di verità o poesia. Sovente, la cultura dei media tradisce i contenuti delle immagini e in larga misura contribuisce alla domesticazione delle masse. Le fotografie di John Hoagland esprimono quel senso dell’imperfezione che fa di un fotografo un poeta e di un poeta un seminatore di dolente bellezza. I corpi dei ribelli massacrati, la paura degli insorti accartocciati in una buca o la stupidità in divisa dei soldati armati dalla politica guerrafondaia di Ronald Reagan sono fotoscritture di John Hoagland e dicono che la fotografia è luogo d’incontro o di dissenso: il fotografo o è spettatore inerte o è testimone di angherie e violenze orchestrate da interessi economici che si giocano sui tavoli della politica. Anche il cinema, e in maniera piuttosto insolita, si è occupato della filosofia e dell’impegno civile di John Hoagland, non soltanto come fotografo. I film che lo ricordano sono Sotto tiro, di

Roger Spottiswoode (1983), e Salvador, di Oliver Stone (1986). Proprio Salvador è un piccolo capolavoro di cinema sganciato dal botteghino: dice le cose come stanno, chi sono i rapaci, chi gli avvolti, chi i ribelli; con un certo garbo, dice anche che la lingua degli esclusi è quella del fucile, e la civiltà di massa è carica di odio verso i poveri più poveri della Terra. Il necrologio di John Hoagland, pubblicato da Newsweek il 26 marzo 1984, segna anche la grandezza del suo lavoro. La pagina è composta da tre fotografie e poche parole di ricordo del fotografo. Nella prima, in alto, si vedono dei giovani guerriglieri che avanzano sul fianco di una collina erbosa, ripresi nella propria splendida dignità; la seconda immagine, a sinistra, è una distesa di rivoluzionari ammazzati dai soldati e allineati sotto un portico, dove sono esposti come monito (in fondo all’inquadratura, qualcuno prega); la terza visualizza una anziana salvadoregna che fugge dalle atrocità dei governativi e porta con sé un quadro di Gesù Cristo. John Hoagland è tutto in queste fotografie, in queste immagini di pietà e resurrezione laica. La sua lezione magistrale di saggezza etica, o di epica dell’utopia, è una lucerna che continua a bruciare e illuminare il luogo desolato dell’economia politica e dei suoi programmi di guerra che annunciano i domani del niente. Chiedi alla fotografia. La verità ci attraversa la pelle ed è a disposizione di destini irriducibili. La fotografia della sofferenza di John Hoagland è nel cuore del pensiero libertario e continua dire che il potere è il male e impedisce l’uguaglianza dei godimenti. Alla lunga, una morale della dolcezza, dell’amicizia e della fraternità avrà la meglio, perché l’avvenire dei ribaltamenti di prospettiva nella storia è il divenire rivoluzionario degli uomini. Pino Bertelli (4 volte dicembre 2008)




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