FOTOgraphia 150 aprile 2009

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Mensile, 5,70 euro, Poste Italiane SpA - Spedizione in abbonamento postale - D.L. 353/2003 (convertito in Legge il 27-02-2004, numero 46), articolo 1, comma 1 - DCB Milano

ANNO XVI - NUMERO 150 - APRILE 2009

Reportage ANCORA RITRATTI?

E.J. Bellocq STORYVILLE PORTRAITS

CIAO, GIANNI


L’estetica sopravanza spesso, quasi sempre, il soggetto raffigurato, fino a rappresentazioni di straordinaria delicatezza. In una idea, al minimo, la fotografia mette ordine nel disordine originario. Angelo Galantini su questo numero, a pagina 59

Non è venduta in edicola. Per averla hai una sola possibilità: sottoscrivere l’abbonamento annuale. 12 numeri 57,00 euro Solo in abbonamento Compilare questo coupon (anche in fotocopia), e inviarlo a: Graphia srl, via Zuretti 2a, 20125 Milano MI (02-66713604, fax 02-66981643; graphia@tin.it)

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PAPARAZZO DOC. Dal nove maggio, fino al successivo sette giugno, al Museo Nazionale d’Arte Medievale e Moderna della Basilicata, nella Sala Levi del Palazzo Lanfranchi di Matera, in piazza Pascoli, è di scena un avvincente fotocronista statunitense, spesso associato allo stereotipo del paparazzo. Pioniere del genere, con una serie di definite Italian Icons, ovverosia ritratti, posati e istantanee realizzate nel corso dei decenni, lo straordinario Ron Galella ha interpretato lo star system tricolore, nel cui contenitore ha incluso anche personaggi pubblici di origine italiana che hanno avuto successo nel mondo, a partire dagli Stati Uniti. In questo senso, un nome di richiamo sopra tutti: quello di Rudolph Giuliani, classe 1944, nonni di Montecatini Terme, già Procuratore Distrettuale di Manhattan, sindaco di New York dal 1994 al 2001, in corsa per le primarie del Partito repubblicano alle elezioni presidenziali dello scorso anno. All’anagrafe Ronald E. Galella, classe 1931, per tutti semplicemente Rongalella (scriviamolo così), negli ultimi anni il fotografo statunitense è stato elevato di rango, a seguito della recente rivalutazione della cronaca rosa. Sostanziose le sue monografie pubblicate nelle ultime stagioni, tra le quali citiamo le affascinanti No Pictures e Disco Years, entrambe realizzate da PowerHouse Books, di Brooklyn, NY, nel 2008 e 2006, e le partecipazioni a rassegne a tema: un richiamo per tutti alla epocale collettiva Pigozzi and the Paparazzi, nelle autorevoli sale della Helmut Newton Foundation, di Berlino, allestita con fotografie di Jean Pigozzi, Erich Salomon (?), Weegee (?), Ron Galella (appunto), Daniel Angeli, Tazio Secchiaroli e Edward Quinn (FOTOgraphia, ottobre 2008). Ancora, e sempre, va ricordato che la fama di Ron Galella ha consistenti debiti di riconoscenza con le cattive attenzioni che era solito riservargli l’irascibile Marlon Brando, che lo indussero a munirsi di un elmetto da football per protezione, indossato ogni volta che la sua strada si incrociava con quella dell’attore.

La luce dell’ispirazione che traghetta dallo smarrimento può giungere da molto vicino. Chiara Mariani; su questo numero, a pagina 13 Per esprimersi, la fotografia applica una sequenza di princìpi che compongono il proprio linguaggio, anche tecnico, ma soprattutto estetico. Angelo Galantini; su questo numero, a pagina 59 E se anche fosse che i direttori dei giornali e, più a monte, i loro editori, oppongono ostacoli effettivi alla pubblicazione di un buon reportage, penso che occorra resistere, resistere, resistere a questo tentativo di annacquare le verità, raccontando l’ennesimo macello in Africa con i ritratti dei feroci guerrieri tutsi. Lello Piazza; su questo numero, a pagina 22

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Noi vogliamo che il bene comune, come la libertà, si situi al princìpio della storia e le genti possano finalmente conoscere lo stupore e la meraviglia di una vita sconosciuta. Pino Bertelli; su questo numero, a pagina 66

Copertina Gianni Giansanti, uno dei più bravi e attenti fotogiornalisti italiani contemporanei, è prematuramente mancato lo scorso diciotto marzo, a cinquantadue anni di età. Salutandolo commossi, ne ricordiamo la personalità con una intervista alla sua assistente Ada Masella e con testimonianze a complemento. Da pagina 30

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3 Fumetto Dalla copertina dell’antico Paperino Reporter Sportivo, avventura numero 567 dei leggendari Albi della Rosa, del 19 settembre 1965. Ancora uno dei tanti incontri della fotografia nei fumetti e, in particolare, con Paperino

7 Editoriale Oggi come ieri l’altro?! La tecnologia fotografica dei nostri giorni ha curiosi paralleli con quella delle origini: addirittura! Soltanto una osservazione

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8 Decalogo dell’Ordine È fin scontato, ovvio addirittura. Ufficialmente, riferiamo del regolamento in dieci punti stilato dall’Ordine dei Giornalisti della Lombardia in merito (e monito?) alla professione svolta nel campo dei media di viaggi e turismo. In realtà, pensiamo anche al giornalismo che racconta la fotografia, che dovrebbe rispondere e richiamarsi a identici parametri etici e professionali. Tanto è vero che riprendiamo la nota introduttiva di Alla Photokina e ritorno, di Maurizio Rebuzzini, dichiaratamente pubblicato grazie a contributi esterni. Ma!


APRILE 2009

R , RIFLESSIONI IFLESSIONI, OSSERVAZIONI E COMMENTI OSSERVAZIONI E COMMENTI SULLA FOTOGRAFIA SULLA FOTOGRAFIA

10 Notizie

Anno XVI - numero 150 - 5,70 euro

Attrezzature, vicende e altre segnalazioni

DIRETTORE

RESPONSABILE

Maurizio Rebuzzini

12 Un altro Giorno

IMPAGINAZIONE

Seconda tornata (2009) di Un giorno nella vita dell’Italia

REDAZIONE

Gianluca Gigante Angelo Galantini

FOTOGRAFIE

15 Attorno quella Chiave Polaroid 95 e Leica nel film La chiave, di Tinto Brass Ricerca iconografica di Filippo Rebuzzini

Rouge

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SEGRETERIA Maddalena Fasoli

HANNO

20 Ancora ritratto Altre considerazioni sull’abuso di ritratto nel fotoreportage dei nostri giorni. Persino in una rivista di natura

24 GBG in Giallo Il poliziesco Obiettivo sul delitto, di George Harmon Coxe, in una fotografia di Gianni Berengo Gardin. Approfondiamo

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26 Reportage Appunti e attualità del fotogiornalismo internazionale a cura di Lello Piazza

30 Ciao, Gianni Ricordiamo Gianni Giansanti, mancato il diciotto marzo. Intervista alla sua assistente Ada Masella e testimonianze di Chiara Mariani, Grazia Neri e Hubert Henrotte di Lello Piazza

Redazione, Amministrazione, Abbonamenti: Graphia srl, via Zuretti 2a, 20125 Milano; 02-66713604, fax 02-66981643; graphia@tin.it.

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● FOTOgraphia è venduta in abbonamento. ● FOTOgraphia è una pubblicazione mensile di Graphia srl, via Zuretti 2a, 20125 Milano. Registrazione del Tribunale di Milano numero 174 del Primo aprile 1994. Poste Italiane SpA - Spedizione in abbonamento postale - D.L. 353/2003 (convertito in Legge il 27-02-2004, numero 46), articolo 1, comma 1 - DCB Milano. ● A garanzia degli abbonati, nel caso la pubblicazione sia pervenuta in spedizione gratuita o a pagamento, l’Editore garantisce la massima riservatezza dei dati forniti dagli abbonati e in suo possesso, fatto diritto, in ogni caso, per l’interessato di richiederne gratuitamente la rettifica o la cancellazione ai sensi della legge 675/96.

41 Là, contro il Sole Riccardo Di Nasso ha realizzato una fantastica fotografia della Stazione Spaziale in un passaggio davanti al Sole

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46 Storyville Portraits Edizione italiana della monografia di E.J. Bellocq di Maurizio Rebuzzini

54 Il dolore della vita

COLLABORATO

Gianni Berengo Gardin Pino Bertelli Antonio Bordoni Riccardo Di Nasso Hubert Henrotte Chiara Mariani Ada Masella Grazia Neri Loredana Patti Lello Piazza Franco Sergio Rebosio Ciro Rebuzzini Filippo Rebuzzini Luca Ventura

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Riflessioni a partire dal World Press Photo 2009 di Angelo Galantini

● Nessuna maggiorazione è applicata per i numeri arretrati. ● È consentita la riproduzione di testi e fotografie, magari citando la fonte (ma non è indispensabile, né obbligatorio farlo). ● Manoscritti e fotografie non richiesti non saranno restituiti; l’Editore non è responsabile di eventuali danneggiamenti o smarrimenti. Fotocomposizione DTP e selezioni litografiche: Rouge, Milano Stampa: Arti Grafiche Salea, Milano

Rivista associata a TIPA

62 Soprattutto entry-level Pentax K-m: intraprendente reflex di esordio di Antonio Bordoni

64 Guido Giannini Sguardo su un interprete della fotografia di sopravvivenza di Pino Bertelli

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www.tipa.com


Alla Photokina e ritorno Annotazioni dalla Photokina 2008 (World of Imaging), con richiami e riferimenti che non si esauriscono con il solo svolgimento della Photokina

Riflessioni, Osservazioni e Commenti sulla Fotografia: spunti utili e proficui sia al comparto tecnico-commerciale sia al mondo della fotografia espressiva e creativa

Alla Photokina e ritorno dodici pagine, ventinove illustrazioni

Reflex con contorno ventotto pagine, settantuno illustrazioni

Visioni contemporanee venti pagine, quarantotto illustrazioni

I sensi della memoria dieci pagine, ventisette illustrazioni

La città coinvolta dieci pagine, ventisei illustrazioni

E venne il giorno (?) sei pagine, quindici illustrazioni

E tutto attorno, Colonia sei pagine, diciassette illustrazioni

Ricordando Herbert Keppler due pagine, due illustrazioni

Ciò che dice l’anima sei pagine, undici illustrazioni

Sopra tutto, il dovere quattro pagine, otto illustrazioni

• centosessanta pagine • tredici capitoli in consecuzione più uno • trecentoquarantatré illustrazioni

In forma compatta dieci pagine, venticinque illustrazioni

Tanti auguri a voi venti pagine, cinquantadue illustrazioni

Alla Photokina e ritorno di Maurizio Rebuzzini 160 pagine 15x21cm 18,00 euro

F O T O G R A P H I A L I B R I Graphia srl • via Zuretti 2a - 20125 Milano 02-66713604 • graphia@tin.it

Saluti da Colonia sei pagine, nove illustrazioni

Citarsi addosso sette pagine


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ggi come oggi, la tecnologia fotografica applicata sta esprimendo una serie di consecuzioni che vale la spesa sottolineare, in attesa di poterle anche analizzare e approfondire come e per quanto meritano. Paradossalmente, nell’attualità possiamo leggere richiami a condizioni tecniche del passato remoto, addirittura delle origini. Infatti, se (anche) così andiamo a vederla, la tecnologia fotografica dei nostri giorni è ideologicamente coincidente con quella dei decenni intercorsi tra la nascita della fotografia (1839) e la semplificazione introdotta dalla Box Kodak del 1888 (sulle cui consecuzioni ci siamo soffermati in diverse occasioni). Razionalmente, il fotografo di oggi, professionista o non professionista, deve essere competente di tutte le fasi produttive dell’immagine, dall’acquisizione alla gestione, alla stampa su carta o in processo litografico. In questo senso, è tecnicamente allineato con quello delle origini, che a propria volta doveva saper controllare tutti i suoi processi produttivi, a partire addirittura dalla stesa dell’emulsione sensibile alla luce. In definitiva, sono stati pressoché azzerati i contributi esterni del laboratorio di trattamento delle pellicole. Qui non affronto le drammatiche conseguenze economiche di questo crollo verticale, che compete ad altri spazi e altre considerazioni. Più prosaicamente, registro un fatto, una realtà. Giusto su questo deve riflettere l’analisi fenomenologica della fotografia, per elaborare proprie meditazioni ponderate. Cioè, si tratta di disegnare la nuova figura del fotografo di oggi, così diversa da quella del fotografo dell’altro ieri. Allo stesso momento, si affaccia all’orizzonte un altro spunto di riflessione: quello che definisce la tangibile linea di demarcazione tra strumenti professionali e attrezzature non professionali. Immancabilmente, il parallelo torna ancora alle antiche origini, quando e per quanto l’esercizio della fotografia stabiliva campi d’azione discriminanti. Tutto al contrario delle condizioni dei decenni prossimi, quando si realizzarono tangibili avvicinamenti: costi di acquisto a parte, le reflex degli anni dai Settanta ai Novanta erano condivise tra uso professionale e impiego non professionale. Oggi, no: da una parte ci stanno le prestazioni finalizzate all’assolvimento di impegni professionali, dall’altra la miriade di opzioni indirizzate al piacere e alla gratificazione della semplice e sola ripresa fotografica fine a se stessa e al conforto di chi la realizza. Non ci sono dubbi, non dovrebbero essercene: per quanto versatili, le compatte, le reflex bridge (con zoom fisso, sempre più potente), le reflex di profilo medio e basso non vanno oltre la fotoricordo e contorni; mentre, le reflex professionali interpretano magistralmente ogni possibile condizione di utilizzo. Inesorabilmente, non ci sono conclusioni. Se ne deve parlare in tempi e con modi adeguati. E queste poche parole servano soltanto da spunto, per andare a vedere oltre la sola superficie dell’attuale tecnologia fotografica applicata. Maurizio Rebuzzini

In una incisione databile al 1875 circa, una camera oscura portatile dei tempi del collodio umido, tecnologia fotografica della metà dell’Ottocento, che imponeva la competenza tecnica di tutte le procedure (oltre l’estetica del linguaggio fotografico): dalla stesa dell’emulsione all’esposizione, al trattamento della lastra. Il tutto, rileviamolo, da svolgersi in un tempo operativo estremamente ravvicinato, causa l’instabilità assoluta dell’immagine latente.

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DECALOGO DELL’ORDINE

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È noto che le riviste di viaggi e turismo siano le più a rischio (oltre a quelle che si occupano di moda) di pubblicare servizi che hanno un forte “odore” di redazionale pagato: tanto che è recentemente esploso il caso di lusinghieri giudizi giornalistici eno-gastronomici immeritati e immotivati, guidati da interessi privati. È talmente noto che l’Ordine dei Giornalisti della Lombardia ha stilato un regolamento in dieci punti che serve da riferimento (e monito?) per editori, direttori e collaboratori che operano nel campo dei media di viaggi e turismo: per evitare di incorrere in sanzioni disciplinari, i giornalisti (direttori compresi) sono tenuti a seguire questo decalogo di comportamento. Lo proponiamo integralmente.

1 Oggi, gran parte dei viaggi per la stesura dei redazionali vengono sponsorizzati da operatori, enti, istituzioni o catene. Il lettore deve esserne informato, e quindi chi ha reso possibile la realizzazione del viaggio deve essere pubblicamente ringraziato nel contesto dell’articolo, senza relegarne la mera citazione (magari confusa con quella di operatori concorrenti) in fondo al servizio, dove invece, per completezza dell’informazione, saranno elencati altri operatori con quella destinazione “non sponsor” del viaggio. 2 Al reportage non va affiancata la pubblicità di un operatore o un ente in qualche modo interessato a quel servizio. Enti e/o operatori puntano proprio alla “vicinanza” della loro pubblicità al testo che li riguarda. Ma questa vicinanza non solo sconcerta e confonde i lettori, facendo loro pensare che il testo sia influenzato dalla pubblicità, anche quando non è vero. È anche uno degli “indizi”

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sospetti di pubblicità non trasparente, specificamente indicato dall’Autorità garante della concorrenza e del mercato nella relazione sull’attività, del 2007. Ricordiamo ai colleghi che la sponsorizzazione seguita da appoggio pubblicitario contravviene alle regole della deontologia, perché il lavoro del giornalista deve essere sempre indipendente dal testo delle inserzioni. Per evitare anche solo il sospetto di commistione, le pagine di pubblicità di argomento simile vanno poste il più lontano possibile dal testo, o addirittura meglio se fossero spostate in un altro numero della rivista.

3 Gli speciali e gli allegati sono parte integrante di giornali/riviste e non sono cataloghi di pubblicità. Se gli speciali sono realizzati in collaborazione con operatori, enti, istituzioni, realtà locali, compagnie e catene alberghiere (etc) devono distinguersi in modo inequivocabile per impaginazione grafica e stile del carattere dalla normale veste dei redazionali. Se invece si vuole conservare la grafica della testata, i testi devono riportare chiaramente la dizione “informazione pubblicitaria” o similare. Né possono contenere “product placement”, cioè fotografie e testi riguardanti prodotti come auto, motoscafi, barche, accessori, abiti o altri prodotti, non strettamente legati al racconto di viaggio, che possano configurarsi come testi/fotografie pubblicitari. 4 Un capitolo particolare riguarda la gestione dei monografici che, per propria natura, sono prodotti molto costosi. Per la loro realizzazione, le redazioni devono inviare sul posto giornalisti e fotografi. Oggi è invalso l’uso di chiedere l’organizzazione dei viaggio e la

copertura delle spese degli inviati agli enti del turismo e/o agli operatori. Dato l’alto costo dei viaggi, difficile invertire questa tendenza. Ma non devono essere chiesti altri oneri economici agli organizzatori (enti turistici, operatori, etc) interessati alla pubblicazione. In altre parole, gli sponsor non devono sborsare all’editore “oboli” o cifre mascherate dalla dicitura “spese di viaggio”, come risulta spesso facciano per l’interesse che hanno alla pubblicazione. Altrimenti, l’ente sponsor si tramuterebbe in “editore occulto” del monografico, con il rischio di interferenze e potere anche sui contenuti.

5 Il giornalista che si occupa di turismo e di viaggi è giornalista a tutti gli effetti. Quindi, nel rispetto dei princìpi deontologici della professione, ha l’obbligo di verificare le informazioni che gli vengono fornite su temi delicati, come la sicurezza dei voli, la situazione sanitaria e socio-politica delle mete o l’adeguatezza delle strutture, la veridicità dei particolari descrittivi di viaggi e destinazioni. E non deve accettare in modo acritico le informazioni -interessate e a volte distorte- trasmesse da cataloghi, comunicati stampa, siti internet non controllati, pubblicazioni e materiale pubblicitario. 6 La Carta dei doveri del giornalista impone a ogni iscritto a questo Albo di rifiutare pagamenti, elargizioni, vacanze gratuite, trasferte, inviti a viaggi, regali, facilitazioni o prebende da privati o enti a titolo personale: non solo possono condizionare il nostro lavoro, ma possono anche ledere la credibilità e la dignità professionale. Anche nei viaggi e negli educational, l’ospitalità del gior-

nalista non deve prolungarsi oltre il tempo strettamente necessario per l’acquisizione delle informazioni e non deve essere estesa a parenti o amici.

7 L’invito agli educational non impegna il giornalista a scrivere un articolo sul tema trattato e tanto meno lo impegna a toni elogiativi. Per gli organizzatori, l’invito e il viaggio rappresentano un investimento per far conoscere posti e strutture. Quanto ai giornalisti, aderiscono per aggiornamento professionale su argomenti “eventualmente e possibilmente” utilizzabili per reportage, news, rubriche o simili. Il giornalista non deve accettare impegni compromissori scritti, e anzi deve anticipare all’ospite questa propria libertà, chiarendo bene la sua posizione, pronto piuttosto a rinunciare al viaggio. Gli educational non sono una scusa per far viaggiare gratis parenti e amici. 8 Al giornalista freelance che si occupa di uffici stampa è vietato scrivere di destinazioni, alberghi, viaggi di operatori dei quali curi l’immagine e la comunicazione. Né può scrivere di concorrenti delle aziende che il suo ufficio stampa rappresenta. 9 Lettera di incarico o accredito. È abitudine di moltissime direzioni di riviste turistiche non rilasciare ai collaboratori freelance investiti di un incarico -seppure temporaneo e limitato- una lettera che comprovi l’assegnazione di un servizio (il problema è comune a fotografi e giornalisti). Questo crea problemi ai freelance, soprattutto se operano all’estero. La Lettera serve a scoraggiare gli abusi, a garanzia e aiuto del giornalista e fotografo freelance a svolgere il proprio lavoro.


ETICA E DOVERE DEL GIORNALISMO

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eggiamo la nota iniziale, riportata in Alla Photokina e ritorno, di Maurizio Rebuzzini, che nella successione dell’impaginato è pubblicata a pagina sei, immediatamente dopo la certificazione di “grazie a Nital SpA per il supporto” (a pagina cinque, in calce alle tre dediche dell’autore).

Come certificato, Alla Photokina e ritorno è pubblicato grazie al supporto di Nital, distributore di Nikon e altre attrezzature fotografiche. La realizzazione di questo volume è stata aiutata senza alcuna interferenza sui testi, peraltro conosciuti preventivamente soltanto dalla redazione di FOTOgraphia, mensile di riflessione sulla materia dal quale partono queste stesse considerazioni. Delle opinioni espresse e dei commenti collegati e conseguenti è responsabile soltanto l’autore Maurizio Rebuzzini, che, come sempre del resto, ha agito senza alcuna ingerenza esterna. I testi e le illustrazioni che li accompagnano -a partire dall’immagine simbolica in copertina- riflettono esattamente il suo pensiero sulla fotografia, pur non riportando necessariamente tutti i suoi pensieri sulla fotografia. Angelo Galantini

La Lettera d’incarico, che definisce tempi e limiti dello stesso, deve essere firmata dal direttore o da un suo incaricato. In questa potrà essere precisato anche che, se fotografie o/e reportage non saranno giudicati idonei alla pubblicazione, l’assegnazione non costituisce impegno alla pubblicazione. La decisione di pubblicare/pagare o no un servizio è infatti sempre a insindacabile giudizio del direttore. 10 La posizione del direttore è estremamente delicata. Ha il difficile compito di mantenere l’indipendenza della testata, di preservarla dalla “commistione /confusione pubblicità e redazionali” e di difendere il contenuto delle pagine redazionali dalle interferenze dell’ufficio marketing. Non solo. È suo preciso dovere vigilare perché la testata

non sia prodotta in violazione della deontologia professionale: scopiazzature di cartelle stampa senza verifiche personali, non rispetto del diritto d’autore altrui, interessi personali dei redattori e dei collaboratori esterni. Spesso la perdita di copie è il riflesso della perdita di qualità e di “notizie” contenute nelle pubblicazioni. Il direttore della testata deve poter dimostrare di aver fatto ogni sforzo per verificare che i redattori della testata e i collaboratori freelance non abbiano alcun conflitto di interesse nei temi e nelle rubriche loro affidate e abbiano un comportamento corretto per quanto riguarda la deontologia professionale. I direttori sono chiamati a rispondere delle violazioni. Ok per viaggi e turismo! E il resto? Il mercato della fotografia, per esempio? L.P.


EFFICACEMENTE LEGGERA. Sintesi del vasto bagaglio di competenza tecnologica Olympus, la reflex E-620 si presenta come la più piccola e leggera dell’intero comparto commerciale della fotografia dei nostri giorni. Dotata di stabilizzatore di immagine, combina la sofisticazione tecnica richiesta dai professionisti con la semplicità delle funzioni indirizzate altrimenti. Equipaggiata con Twin autofocus a sette punti, la E-620 assicura una messa a fuoco affidabile per sfruttare il sensore QuattroTerzi High-Speed Live MOS, da 12,3 Megapixel. Inoltre, abbinata al monitor LCD Hyper Crystal da 2,7 pollici, ad ampio angolo di visione, la tecnologia Live View facilita la migliore inquadratura dell’immagine. Nella reflex sono incorporati versatili Art Filters, che amplificano la resa creativa delle immagini con l’applicazione di accattivanti effetti al semplice tocco di un tasto. (Polyphoto, via Cesare Pavese 11-13, 20090 Opera Zerbo MI).

COLORE IN RULLO. Il negativo colore Kodak Professional Ektar 100, conteggiato e considerato come quello con la grana più fine al mondo, è ora disponibile anche in confezione a rullo 120, che ribadisce e conferma la grana più fine e omogenea rispetto qualsiasi altra pellicola a colori attualmente in commercio. «Il riscontro ottenuto all’introduzione della pellicola Ektar 100 è stato entusiasmante, e ha dato seguito a molte richieste per renderla disponibile anche in medio formato. Il rullo 120 è largamente adottato in un’ampia

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gamma di applicazioni fotografiche, inclusa la fotografia ad ultra alta risoluzione», ha affermato Mary Jane Hellyar, President, Film, Photofinishing & Entertainment Group ed Executive Vice President, Eastman Kodak Company. «Sia che ci si rivolga a fotografi professionisti o a non professionisti, è primaria la ricerca dell’immagine perfetta. Offrendo la pellicola a colori con la grana più fine al mondo anche nel formato 120, Kodak continua il proprio percorso di lunga durata nella fornitura di strumenti e servizi dedicati ai fotografi che vogliono ottenere immagini estremamente dettagliate e della miglior qualità». Il negativo colore Ektar 100 si adatta a diverse applicazioni pratiche, quali la fotografia naturalistica, di viaggio, di moda e commerciale, dove l’enfasi è sempre posta sulla più pertinente restituzione cromatica. La pellicola da 100 Iso, alta saturazione e colori ultra-vividi, incorpora la Kodak Vision Motion Picture Film Technology, che consente di ottenere una grana fine ineguagliabile. (Kodak, viale Matteotti 62, 20092 Cinisello Balsamo MI).

VOCAZIONE MICRO. Negli anni dai Quaranta ai Settanta, con il particolare formato di ripresa 8x11mm, Minox ha prodotto una fortunata serie di sofisticate microcamere, che hanno rappresentato un indispensabile strumento di lavoro per i servizi segreti di mezzo mondo. Celebrato anche dal cinema e dalla letteratura a tema, l’alone di mistero che aleggiava attorno queste microcamere (ideate dal leggendario Walter Zapp), la loro qualità ottica, la loro capacità di riprendere anche nelle situazioni operative più critiche e l’inconfondibile design minimalista e squadrato, hanno molto contribuito a consolidare il consistente “Mito Minox”, che ancora oggi è straordinariamente forte e vivo. Al proposito, registriamo anche un’emissione filatelica estone (mancato nel

IMPERIOSAMENTE ZOOM.

2003, Walter Zapp era nato a Riga, nel 1905), del 1995, commemorativa di cinquant’anni di produzione Minox in Germania. Il mito di queste Spy-Cam rivive oggi in chiave digitale con la Minox DSC (Digital Spy Camera), che riprende il testimone delle microcamere del passato: per l’annuncio-lancio, alla scorsa Photokina 2008, lo stand Minox è stato allestito a tema [qui sotto; License to Shoot: ovvero, di scatto (fotografico) o colpo (d’arma da fuoco)?].

Le dimensioni sono quelle “classiche” (86x29x20mm); l’aspetto, al quale ha collaborato il Design Creative Staff della Volkswagen, è quello di un oggetto che sembra uscire dalla scenografia di un film di James Bond, ma allo stesso tempo non si discosta molto da ciò che la matita di Walter Zapp disegnò più di sessanta anni fa. Oltre che nel sistema di ripresa, la novità sta in un piccolo modulo “di servizio”, che si aggancia su un lato del corpo macchina e consente di avere a disposizione un comodo monitor LCD da 1,5 pollici e un illuminatore-flash a Led per le riprese in condizioni di luce avare (NG 12, a 100 Iso). Il sensore è un C-MOS da 3,2 Megapixel, con interpolazione interna a cinque Megapixel. L’obiettivo è un quattro lenti 8,7mm (42mm equivalente). Oltre a scattare fotografie, è anche possibile riprendere video-clip in formato AVI. (Rinowa, via di Vacciano 6f, 50012 Bagno a Ripoli FI).

Forte di una escursione focale 13,8x, l’universale Sigma 18250mm f/3,5-6,3 DC OS HSM monta l’esclusivo dispositivo Sigma per la riduzione del mosso accidentale. A differenza dei dispositivi anti vibrazione incorporati in molte reflex, la stabilizzazione Hybrid Optical Stabilizer assicura non solo la compensazione del mosso accidentale del corpo macchina, ma permette al fotografo di rendersi conto della correzione direttamente nel mirino. Il suo schema ottico di diciotto lenti in quattordici gruppi comprende anche quattro elementi in vetro SLD (Special Low Dispersion; a basso indice di dispersione) e tre lenti asferiche. Questa combinazione assicura una correzione ottimale delle aberrazioni lungo tutta l’ampia variazione focale grandangolare-tele. Indirizzato a reflex con sensore di dimensioni APS-C, il Sigma 18-250mm f/3,5-6,3 DC OS HSM mette a fuoco da 45cm sull’intera escursione zoom, per un corrispondente rapporto di riproduzione di 1:3,4, che equivale alla quantificazione della fotografia macro, a distanza ravvicinata. Il sistema di messa a fuoco interna elimina la rotazione della lente frontale e permette così l’uso di filtri polarizzatori circolari, del paraluce a petali e degli accessori ottici direzionali. Il trattamento Super Multistrato delle lenti riduce le immagini fantasma nelle riprese in controluce. In baionetta Canon, Nikon, Pentax, Sigma e Sony. (Mamiya Trading, via Cesare Pavese 31, 20090 Opera Zerbo MI).



UN ALTRO GIORNO

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Segnalandosi come uno dei grandi giornali italiani, con un forte impegno nei confronti della fotografia, grazie alla sensibilità del direttore Giuseppe Di Piazza, e del photo editor Chiara Mariani, il Magazine del Corriere della Sera ha doppiato l’iniziativa già realizzata un anno fa [FOTOgraphia, marzo 2008]: incarico assegnato a un certo numero di fotografi (sono stati sessantadue quest’anno, quarantasette alla prima tornata) basati in Italia, per realizzare uno scatto in vari luoghi d’Italia che insieme rappresentassero significativamente un momento nella vita di quel giorno (quattordici gennaio). Quindi, pubblicazione di tutto il lavoro nel numero con data di copertina cinque febbraio: Un giorno nella vita dell’Italia.

I fotografi coinvolti per questa seconda puntata 2009: Roberto Arcari, Pablo Balbontin Arenas, Rino Barillari, Giorgio Barrera, Alessandra Benedetti, Settimio Benedusi, Alberto Bernasconi, Massimo Berruti, Gerald Bruneau, Lorenzo Castore, Francesco Cocco, Elio Colavolpe, Alberto Conti, Giovanni Cozzi, Mauro D’Agati, Marco Dal Maso, Stefano Dal Pozzolo, Alfredo D’Amato, Rocco De Benedictis, Giovanni Del Brenna, Gianluigi Di Napoli, Adelaide Di Nunzio, Alessandro Digaetano, Simone Donati, Patricio Estay, Ettore Ferrari, Andrea Frazzetta, Alessandro Gandolfi, Gianni Giansanti, Alberto Giuliani, Franco Guardascione, Stefano Guindani, Guido Harari, Julian Hargreaves,

ANCORA ALTRI MOMENTI

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ome già fatto lo scorso anno, in presentazione della prima edizione di Un giorno nella vita dell’Italia, del Magazine del Corriere della Sera, commentato in FOTO graphia del marzo 2008, accompagniamo anche l’attuale seconda tornata con la segnalazione del progetto One Moment of The World, realizzato in tre occasioni temporalmente successive, alla metà degli anni Ottanta. Ancora, ricordiamo che si sarebbe dovuto completare il ciclo di inizio delle quattro stagioni dell’emisfero nord della Terra, ma l’iniziativa si è arenata alle prime tre: 21 marzo 1983, 21 giugno 1984 e 23 settembre 1985, le cui fotografie sono state raccolte in altrettante monografie della collana Photovision, tutte pubblicate con il contributo di Olympus. Rispettivamente, quarantacinque, cinquantasette e cinquantatré fotografi di tutto il mondo sono stati invi-

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tati a scattare nella propria città, nel medesimo istante, a un’ora indicata (alle nove o dieci del mattino, ora di New York), in modo che sulle pagine delle rispettive monografie è stato raccolto lo svolgersi di un’intera giornata, tratteggiata dalle differenze di fuso orario. Idealmente, la fotografia si è proposta come mezzo di unione tra i paesi, addirittura mezzo per il raggiungimento di una migliore comprensione tra i popoli. Ora, in aggiunta, pensiamo che con i mezzi finanziari a disposizione di un periodico di successo editoriale remunerativo, come è il Magazine, si possano magari ipotizzare e programmare iniziative fotografiche scandite nel tempo. Per quanto Un giorno nella vita dell’Italia sia nato e cresca a cadenza annuale... perché non sperare che possa affrontare il ciclo delle stagioni? M.R.

Alessandro Imbriaco, Carlos Jones, Fabio Lovino, Emiliano Mancuso, Ada Masella, Alberto Novelli, Franco Origlia, Dario Orlandi, Davide Pambianchi, Stefano Pavesi, Fulvia Pedroni Farassino, Enzo Ranieri, Giada Ripa di Meana, Armando Rotoletti, Riccardo Sanesi, Marta Sarto, Enrica Scalfari, Antonio Scattolon, Annette Schreyer, Massimo Sestini, Monica Silva, Mauro Sioli, Max Solinas, Michela Taeggi, Alessandro Tosatto, Chris Warde Jones, Antonio Zambardino, Francesco Zizola. Accompagniamo questa segnalazione con il bel testo di presentazione di Chiara Mariani: «Di rado, davanti a una fotografia, si considera ciò che non si vede; ovvero lo stato emotivo e la fatica che precedono lo scatto: gli espedienti per accostare un personaggio, le numerose richieste di autorizzazione per accedere a un ente pubblico o privato, lo sforzo fisico per scattare in luoghi impervi, le intemperanze necessarie per raggiungere situazioni illecite, l’affabilità che vince la riluttanza dei soggetti che devono abbandonarsi all’obiettivo. E perché l’esito sia apprezzato è richiesto anche gusto per la composizione, senso della luce e del colore. «Inseguire gli operatori del 118 in elicottero (a Bresso, provincia di Milano), calarsi con imbragature da scassinatore nel Teatro Petruzzelli (Bari) non ancora aperto al pubblico, offrire champagne a Giulio Andreotti (Roma) il giorno del suo novantesimo compleanno, vincere la ritrosia degli ergastolani (Volterra), insinuarsi nel commercio della cocaina (Napoli), documentare la cattura di Giuseppe Setola (Caserta), arrivare a 2900 metri per ritrarre Marco Confortola in azione (Santa Caterina Valfurva), unico superstite dell’incidente sul K2 lo scorso anno, richiede caparbietà, doti seduttive, passione, tecnica, intuito, pazienza, un po’ di follia e senso dell’avventura. «L’Italia che emerge da questi scatti è un Paese nel proprio complesso semplice, laborioso, ripiega-


Seconda edizione di Un giorno nella vita dell’Italia, a un anno di distanza dalla prima dello scorso 2008. Sessantadue i fotografi coinvolti.

to su se stesso. Lo stato d’animo riflessivo che il progetto restituisce non è stato deciso a priori. Certo, la giornata, quattordici gennaio, grigia dalle Alpi alla Sicilia, con l’eccezione della Sardegna, ha molto influito sull’esito, ma da sole, la stagione e la meteorologia non spiegano il clima emotivo generale. Mancano momenti goliardici, ma non gli slanci poetici. Come le baby ballerine di Stefano Pavesi o il “non-luogo” di Gianni Giansanti, che si è lasciato catturare da un soggetto fuori dal tempo: Canale Monterano Antico, sconosciuto insediamento etrusco ricco di riferimenti mitologici, dove il Bernini progettò gli eleganti giochi d’acqua della Fontana del Leone, modello per la più famosa Fontana di Trevi [su questo stesso numero, a pagina 35]. Quasi a lasciar intendere che la luce dell’ispirazione che traghetta dallo smarrimento può giungere da molto vicino. Basta saperla cogliere. Magari con un clic». L.P.

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ATTORNO QUELLA CHIAVE

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Dal nostro punto di vista mirato, oppure viziato, fate voi, il film di Tinto Brass La chiave, del 1983, è ad alto tasso fotografico. Sceneggiata dall’omonimo romanzo del giapponese Junichiro Tanizaki (1886-1965), del 1956, pubblicato in Italia da Mondadori, nel 1971, Kagi in originale, la storia si affida alla fotografia per esprimere una sorta di erotismo decadente. Cioè, e nel concreto, la fotografia è sostanzialmente trasversale alle vicende a sfondo sessuale ed erotico che compongono l’ossatura della trama e dello svolgimento. Ovviamente, con una intenzione ampiamente frequentata e condivisa da molti, l’erotismo visivo, appunto fotografico (dall’emozione della ripresa alle fasi di sviluppo e stampa delle copie), è il condimento che dà sapore, e forse anche significato, alla trasparente complicità tra i protagonisti. In questo senso, oltre ad appartenere al lungo e cadenzato filone dei film erotici del regista veneziano, autentico caposcuola del genere, La chiave è anche uno di quei film che, come molti altri, spesso di profilo basso, hanno appunto raffigurato e messo in scena la combinazione fotografia-sesso, sulla quale ci soffermiamo oggi in un apposito riquadro, pubblicato a pagina 17. Del resto, già il romanzo originario di Junichiro Tanizaki è un libro erotico. Come rileva Davide L. Malesi, scrittore con escursioni nella critica letteraria, La chiave è un testo erotico «Non perché sulle sue pagine abbondino minute e/o appassionanti descrizioni di atti sessuali (che non ci sono proprio); né perché i protagonisti si abbandonino a chissà quali esperienze acrobatiche, sul fronte della sessualità (di volta in volta riusciamo a intuire, più o meno, l’entità e la densità delle trasgressioni compiute dai personaggi) [...]. In La chiave si parla di erotismo non nel senso più “funambolico” o “descrittivo” del termine, bensì nel senso del “complesso delle manifestazioni dell’impulso sessuale sul piano

psicologico, affettivo, comportamentale” (come ci dice il De MauroParavia). Ovvero: in La chiave, questo complesso di manifestazioni domina ogni azione dei protagonisti, ne pervade ogni gesto, insomma ne detta il comportamento. Ciò che i personaggi fanno, lo fanno perché spinti da una molteplicità di impulsi di ordine sessuale. In questo senso, La chiave è un libro terribilmente erotico. [...] Ed è un libro, nella sua brevità, dotato di certe qualità importanti (importanti per un romanzo come questo, mi pare). Cioè: grande attenzione al profilo psicologico dei protagonisti, asciuttezza della lingua (dove spesso i libri erotici, veri o presunti tali, si perdono in barocchismi e ampollosità), un equilibrio del testo pressoché perfetto nel “non dire” piuttosto che nel “dire”: con il risultato che tutto ciò che il libro nasconde diventa intensamente desiderato dal lettore: a riprova (se mai ce ne fosse bisogno) del fatto che in materia d’erotismo, meno si vede e meglio è».

FILM E FOTOGRAFIA Con ambientazione e datazione stravolte rispetto il romanzo originario, il cinematografico La chiave si svolge a Venezia, nei momenti immediatamente precedenti la Seconda guerra mondiale. John Brian Rolfe, detto Nino, anziano professore inglese, intellettuale e fine critico d’arte (interpretato dall’attore Frank Finlay), è sposato con Teresa, non più giovane ma ancora molto bella e avvenente (l’attrice Stefania Sandrelli). Entrambi sono alla ricerca di novità nel proprio rapporto sessuale. Rolfe ha un diario segreto, sulle cui pagine confessa le sensazioni e i desideri che sua moglie gli provoca; un giorno, lascia nel suo studio la chiave (appunto La chiave) che apre il cassetto in cui tiene nascosto il diario nel quale racconta le sue più segrete fantasie erotiche. Teresa trova la chiave, apre il cassetto e comincia avidamente a leggere il diario. La fotografia, ora. Quando Rolfe

Con la Leica, Laszlo Apony (l’attore Franco Branciaroli) fotografa Teresa (Stefania Sandrelli), durante una gita in riva al mare: posa provocatoriamente scomposta, con gonna sollevata sulle gambe per far intravedere fino al reggicalze. Questa è anche l’immagine simbolo del film La chiave.

si rende conto delle attenzioni che Laszlo Apony, il fidanzato della figlia Lisa (rispettivamente interpretati da Franco Branciaroli e Barbara Cupisti), riserva alla propria moglie Teresa, escogita di mostrargliela nuda: appunto in fotografia. Da questo momento e su questa base, in comunità di intenti, Rolfe/Nino e Teresa avviano una serie di eccitanti giochi erotici, che -complice la fotografia- riaccendono nella coppia una grande, estrema sensualità. Tralasciando ora ulteriori considerazioni sul film, che non ci competono, fermiamoci alla/sulla fotografia. Quindi, sorvolando anche affascinanti sequenze in camera oscura, inviolabilmente rappresentata in tono rosso diffuso, che il pubblico generico abbina appunto alla stampa fotografica, richiamiamo soprattutto due situazioni con protagonista la fotografia: una è a sviluppo immediato; l’altra parte da una coreografica Leica a vite e si allunga in avanti.

POLAROID 95 Ovviamente è un errore! Ma non importa nulla, non soltanto poco. Infatti, anche se la fotografia a sviluppo immediato prende ufficialmente avvio con la prima vendita dell’originaria Polaroid Model 95 ai Grandi Magazzini Jordan Marsh, di Boston, Massachusetts, il 26 novembre 1948 (FOTOgraphia, novembre 2008), anni dopo i tempi narrativi di La chiave, di Tinto Brass, il suo inserimento nel film è assolutamente congeniale al racconto, al-

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l’evocazione di situazioni ed emozioni visive conseguenti lo sviluppo fotografico immediato. Insomma, se di questo si tratta, ma non pensiamo che di questo si tratti, è errore assolutamente veniale, quantomeno dal punto di vista narrativo Nel film La chiave, di Tinto Brass, del 1983, la Polaroid 95 originaria viene presentata al protagonista John Brian Rolfe (Frank Finlay) dall’artista Laszlo Apony (Franco Branciaroli), fidanzato della figlia Lisa, che con trasporto gli vanta le prerogative della fotografia a sviluppo immediato, che concretizza in un ritratto posato dello stesso John Brian Rolfe.

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(la Storia si racconta altrove). Tanto più che, interpellato al proposito, il regista Tinto Brass ha potuto vantare un valore aggiunto di profilo più che alto, vertiginoso addirittura. La Polaroid 95 che appare nel film era di proprietà della moglie, Carla Cipriani, sorella di Arrigo, del marchio veneziano di ristorazione, mancata nell’agosto 2006. Si tratta di un apparecchio donato ai Cipriani da Edwin H. Land in persona, durante un suo soggiorno italiano, commosso e appagato dal trattamento ricevuto alla Locanda Cipriani. Dunque, se proprio si dovesse sottolineare soltanto un errore di date, si dovrebbe mitigare ogni pretestuosa severità alla luce dell’origine della Polaroid 95 che compare in La chiave. Nel film, la macchina fotografica, che nella sceneggiatura è vantata come novità assoluta dagli Stati Uniti, viene presentata al protagonista John Brian Rolfe (Frank Finlay) dall’artista Laszlo Apony (Franco Branciaroli), fidanzato della figlia Lisa. In una sequenza nel suo studio, nel quale sono disseminati diversi altri apparecchi fotografici, per lo più di grandi dimensioni, in legno, fino a uno della genìa detta “da terrazza”, imponente nella propria personalità fisica, Laszlo Apony vanta le prerogative della fotografia a sviluppo immediato, che concretizza in un ritratto posato dello stesso John Brian Rolfe. Visualizziamo tutto, sintetizzando i passi cinematografici salienti, in una consecuzione cadenzata pubblicata in questa pagina: dalla presentazione dell’apparecchio all’inquadratura per il ritratto, all’avvio del processo di sviluppo immediato, alla stampa bianconero definitiva. Ora, come è ovvio che sia, questa Polaroid 95 diventa compagna quasi inseparabile del protagonista, che la usa per fotografare la moglie


ROBUSTE OSCENITÀ

C

ome annotato in molte occasioni, soprattutto quando l’argomento della presenza della fotografia al cinema, sceneggiature e scenografie, è affrontato nel proprio complesso, siamo soliti considerare il film di Michelangelo Antonioni Blow up come una sorta di autentico e inviolabile spartiacque: da qui, si possono conteggiare tanti ed eterogenei prima-e-dopo. Tra le molteplici linee demarcatorie, a margine e complemento del commento a La chiave, di Tinto Brass, ne affrontiamo e commentiamo una in particolare. In un tempo di grandi sommovimenti, ma di inquietante interregno espressivo, all’indomani di Blow up, rari furono i fotografi che apparirono sullo schermo in altre vesti che non quelle del sesso. Confondendo l’apparenza con la (tragica) realtà affrontata dal film di Michelangelo Antonioni, del 1966, sceneggiato sulla base del racconto Le bave del diavolo, di Julio Cortázar (in Le armi segrete; Einaudi, 2008), molte furono le pellicole successive al di sotto del limite medio di accettabilità che giocarono la facile carta del fotografo senza scrupoli e privo di morale: «Il fotoamatore è diventato un maniaco sessuale, un appassionato del coito ripreso con la macchina fotografica», rilevava Maurizio Porro su Photo 13 dell’ottobre 1971. Così, registriamo la personalità del giovane playboy di Una storia d’amore, di Michele Lupo (Italia, 1969), che campa seducendo e fotografando belle signore che poi vengono ricattate. Circa lo stesso accade anche in Una lucertola con la pelle di donna, di Lucio Fulci, con Florinda Bolkan e Jean Sorel (Italia, 1971), nel quale si registra anche la variante dell’amore particolare. Invece, Le foto proibite di una signora per bene, di Luciano Ercoli (Italia, 1971), proposero l’aggravante sadica, che però era già stata superata dal ricatto foto-erotico con slittamento verso l’omicidio di Vergogna, schifosi!, del precedente 1969 (con Lino Capolicchio, regia di Mauro Severino). I titoli dei film di questa genìa rivelano subito la propria inconsistenza. Tanto è vero che ricordiamo perfettamente un equivoco di quegli anni, quando l’ottimo Diario di una casalinga inquieta (Diary of a Mad Housewife; Usa, 1970) venne inizialmente veicolato attraverso un canale di sale equivoche; invece, la vicenda con Richard Benjamin non ha nulla di morboso, ma si tratta, più concretamente, di un crudo ritratto della borghesia newyorkese rampante. Con un salto temporale di una quindicina di anni, la fenomenologia porno-fotografica si abbinò successivamente al filone del film pseudo erotico italiano. Nel

Teresa mentre dorme, scoprendone complici nudità: e queste stampe vanno ad arricchire il diario segreto delle sue fantasie erotiche.

LEICA E OLTRE Anche la partecipazione Leica a La chiave è con... errore! Ma non orrore! Ci mancherebbe altro. Di certo è una Leica a vite con Elmar 50mm f/3,5. Essendo nera, dovrebbe essere una Leica III, prodot-

Dovrebbe essere una Leica III, dotata di Elmar 50mm f/3,5. L’aggiunta dell’improbabile mirino-telemetro verticale, superfluo in presenza di telemetro accoppiato all’obiettivo, è soltanto scenografica.

1984, in Fotografando Patrizia, Salvatore Samperi, maestro del cinema di “pruderie”, presentò un sesso raccontato e spiato attraverso il torbido rapporto tra una sensuale donna di successo (Monica Guerritore) e il fratello minore, introverso, ipocondriaco e pornofilo (Lorenzo Lena). Poco dopo, con Le foto di Gioia, del 1987, Lamberto Bava portò sullo schermo un cast di grande richiamo sessuomane: Serena Grandi, (Capucine), Daria Nicoldi e Sabrina Salerno sono al centro di una contorta storia imperniata su una serie di barbari omicidi compiuti nella villa-studio di una piacente proprietaria di una rivista per soli uomini. Questo è pure il motivo conduttore, oppure il pretesto, delle due tornate di Sotto il vestito niente, con le quali Carlo Vanzina, prima (1985), e Dario Piana, poi (1988), hanno raccontato un certo mondo della moda e delle top model, che proprio allora cominciavano a contendere alle attrici internazionali il palcoscenico dello star system. Se possibile, Sotto il vestito niente 2 è addirittura peggiore del film originario, che era stato tratto dall’omonimo pasticciatissimo giallo parapsicologico di Marco Parma (pseudonimo usato da Paolo Pietroni, allora direttore di Max). Comunque, è un vero peccato che Blow up abbia innescato questa volgare escalation, perché in precedenza il sottile tema dell’oscuro rapporto potenzialmente stimolato dalla macchina fotografica e dalle proprie applicazioni aveva sempre trovato una ospitalità cinematografica soprattutto compiacente e garbata. Certo, registriamolo, l’apparizione sullo schermo della prima figura di donna fotografa, in Legittima difesa, di Henri-Georges Clouzot (Quai des Orfèvres; Francia, 1947), si accompagnò con una oscura rappresentazione di un personaggio ambiguo, amorale più che immorale e, novità per il cinema di allora, dedito ad amori omosessuali. Però, bisogna considerare che il regista calcò i toni per sottolineare i pericoli e le nefandezze che si possono commettere sull’onda di un isterismo collettivo, ben noto a chi, come lui, era stato messo al bando (accusato di filonazismo) più per esaltazione e fanatismo che per prove reali. Per cui, le tinte fosche del pessimismo di Clouzot non modificano il giudizio sulla grande stagione del più sereno e corretto accostamento cinematografico tra la fotografia e la propria implicita proprietà indagatrice, magari anche erotica o pseudo tale o garbatamente tale, che si è esteso nei decenni e che non si è lasciato coinvolgere nei facili e banali slittamenti che abbiamo appena commentato, ma che si è mantenuto simpaticamente ammiccante.

ta dal 1933, ma non ci è stato possibile individuare altri elementi inequivocabili di attribuzione e classificazione certe. Dato il doppio bottone di selezione dei tempi di otturazione (sul frontale, quello dei tempi lunghi, da un secondo a 1/20 di secondo, più la posa T), ogni altra versione plausibile è stata ufficialmente realizzata in sola finitura cromata. E non siamo riusciti a distinguere bene il disegno della calotta, che da sé

basterebbe per una conferma. Ma queste sono autentiche quisquiglie. In ogni caso, dove sta l’errore (presunto)? Nella presenza inutile e superflua del mirino-telemetro verticale, necessario soltanto con le Leica prive di accoppiamento al telemetro

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Mentre fa l’amore con Laszlo, Teresa tiene in mano una stampa bianconero della fotografia che lui le ha scattato sulla spiaggia.

del proprio obiettivo di ripresa. Ma! Ma, diavolo, errore da specialisti a parte, questo mirino aggiunto ha una tanta e tale straordinaria presenza scenografica da averne motivata e giustificata la collocazione. Insomma, fa scena. Ovverosia, fa cinema (che non è realtà). E tanto basta. In propria elegante borsa di cuoio, questa Leica a vite è usata da Laszlo Apony (Franco Branciaroli) per fotografare la suocera Teresa (Stefania

(a destra) Il marito Nino si compiace in contemplazione della fotografia che Laszo ha scattato a sua moglie, e poi la colloca nel suo ormai famoso diario, là dove Teresa può compiacersi a propria volta, andando a sfogliarne le pagine: «Teresa I beg you lie to me if you must but tell me you only use him to provoke my lust» (Teresa, ti supplico di mentirmi se devi, ma dimmi che lo usi soltanto per provocare la mia lussuria).

Sandrelli), durante una gita in riva al mare [a pagina 17]. In posa elegantemente e provocatoriamente scomposta, sollevata la gonna sulle gambe, Teresa lascia intravedere fino al reggicalze [a pagina 15]: e questa è anche l’immagine simbolo del film, usata nelle locandine e nelle confezioni della tramontata videocassetta Vhs e dell’attuale Dvd. A seguire, la copia di questo ritratto provocante, sottilmente erotico, diventa motivo conduttore della vicenda cinematografica che si avvia alla conclusione: la stessa Teresa ne tiene in mano una stampa bianconero mentre fa l’amore con Laszlo [qui, a sinistra], il marito Nino si compiace in contemplazione [a destra, in alto], e poi la colloca nel suo ormai famoso diario [a destra, seconda immagine della sequenza a quattro], là dove Teresa può compiacersi a propria volta, andando a sfogliarne le pagine [a destra, terza immagine]. Sotto la stampa, sulla pagina a righe, cosciente che la moglie sfoglierà il diario e ne leggerà le note, Nino riporta un suo pensiero: «Teresa I beg you lie to me if you must but tell me you only use him to provoke my lust» (Teresa, ti supplico di mentirmi se devi, ma dimmi che lo usi soltanto per provocare la mia lussuria) [a destra, ultima immagine in basso]. Il senso del diario. M.R. Ricerca iconografica di Filippo Rebuzzini



ANCORA RITRATTO

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A proposito di ritratto o, per lo meno, a proposito di quel linguaggio fotografico che io chiamo ritratto (le immagini pubblicate in queste pagine raccontano e spiegano iconograficamente cosa intendo), cito l’intero numero dello scorso ottobre 2008 del prestigioso mensile tedesco Geo: con eccellente varietà di argomenti dedicati alla bellezza nella vita quotidiana, un’edizione monotematica, sorprendentemente uniforme proprio nel linguaggio, ovverosia nel linguaggio delle immagini. I servizi pubblicati sono quindici. Quello di apertura propone alcune specie animali “fotogeniche”, presentate con “ritratti” eseguiti in studio (in questa pagina); il secondo riguarda l’utilizzo in Nuova Guinea delle piume degli uccelli del paradiso per adornare il proprio corpo (pagina accanto), il terzo racconta la bellezza del paesaggio (ancora pagina accanto), il quarto affronta l’attrazione reciproca. Segue un quinto servizio su come l’arte interpreta l’idea dell’uomo che si specchia nel proprio “Io”, che possiamo definire una sorta di rivisitazione moderna del mito di Narciso. Poi ne arrivano altri, fino al totale di quindici, come appena rilevato: uno, il sesto, sulle affascinanti forme di cer-

ti vegetali (ancora pagina accanto), uno sulla bellezza negli anziani (sette), uno sul concetto di makeup a Mumbai, in India (otto), e uno ancora sull’estetica dei manifesti propagandistici nei regimi totalitari (nove). Avanti ancora: un servizio su

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Dal mensile Geo dello scorso ottobre 2008 (a sinistra): ritratti in studio di animali fotogenici.

quanto è bello il cielo (dieci), uno su ciò che piace e non piace ai tedeschi (undici), uno sul lavoro di un pittore (dodici), e poi gli ultimi tre sull’armonia formale di certe simulazioni al computer (tredici), sul fascino di una struttura molecolare (quattordici), e sull’importanza dell’amore di coppia, il quindicesimo e ultimo della lunga cavalcata attorno la bellezza nella vita quotidiana (a pagina 21). Di questi quindici servizi, la maggior parte utilizza il linguaggio del ritratto. Tra tutti, lo fanno decisamente, senza ambiguità, quelli sulle specie animali “fotogeniche” (il primo, in questa pagina), l’utilizzo in Nuova Guinea delle piume degli uccelli del paradiso per adornare il proprio corpo (il secondo, pagina accanto), la bellezza del paesaggio (il terzo, ancora pagina accanto), le forme di certi vegetali (il sesto, sempre pagina accanto) e l’importanza dell’amore di coppia (il quindicesimo, a pagina 21). Potete controllare voi stessi, verificando le riproduzioni dei singoli impaginati, che proponiamo in queste pagine, per ognuno dei quali certifichiamo il servizio di appartenenza. Addirittura, la tecnica con cui è fotografato il paesaggio è quella del


Ancora da Geo dello scorso ottobre 2008, altri tre esempi di reportage di natura risolti con il linguaggio espressivo del ritratto: utilizzo in Nuova Guinea delle piume degli uccelli del paradiso per adornare il proprio corpo (a sinistra), bellezza del paesaggio (a destra, al centro), forme di certi vegetali (a destra).

ritratto. Il paesaggio sembra in posa: mi pare di vederlo, mentre si aggiusta le nubi, ravviva la chioma degli alberi, sistema la riva del mare o la neve che seppellisce gli abeti. Partendo da questo sintomatico esempio di Geo dico la mia a proposito di questa dilagante e dilagata mania del ritratto nel fotogiornalismo. Così esprimendomi, rispondo

anche al bell’intervento di Piero Raffaelli pubblicato da FOTOgraphia lo scorso febbraio [Ci sono ritratti e ritratti], approfondito nelle analisi e considerazioni e condivisibile sia nel percorso sia nelle conclusioni. Piero Raffaelli ha preso spunto da un’insofferenza confessata da JeanFrançois Leroy (direttore e ideatore del festival internazionale di fotogiornalismo Visa pour l’Image, di Perpignan, Francia, del quale ci siamo spesso occupati, sia in anticipazione sia in resoconto): «Sono annoiato da questa mania di fare reportage attraverso il ritratto». Piero Raffaelli chiosa il pensiero di Jean-François Leroy con queste parole: «Il problema della povertà urbana? Un po’ di ritratti di

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E quattro. Ancora un reportage pubblicato su Geo dello scorso ottobre 2008, declinato con dichiarati debiti di riconoscenza al ritratto: importanza dell’amore di coppia.

homeless. La guerra in Iraq? Una galleria di ritratti di marines. Lo tsunami? Ritratti di sopravvissuti che mostrano ritratti di vittime». E quando Jean-François Leroy afferma «I veri fotografi esistono ancora [...]; la crisi è nei media, non nei fotografi», secondo Piero Raffaelli, Jean-François Leroy scopre l’acqua calda. «C’è ritratto e ritratto», afferma. Sono d’accordo con lui che c’è ritratto e ritratto, non posso non esserlo, ma ormai la moda dilaga. Al World Press Photo 2009 [su questo stesso numero, da pagina 54], Carlo Gianferro conquista il pri-

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Altri reportage in forma di ritratto. Carlo Gianferro, dell’Agenzia Postcart, ha conquistato il primo premio nella categoria Portraits Stories al World Press Photo 2009 [su questo stesso numero, da pagina 54] con ritratti di interni di case in Romania (a destra, in alto): va bene, la categoria è ritratto! Ma poi, nella medesima occasione, Massimo Siragusa, dell’Agenzia Contrasto, guadagna il terzo premio nella categoria Contemporary Issues Stories con un servizio sulle baraccopoli di Messina: una serie di ritratti di interni di abitazioni (a destra, al centro). Analogamente, Alessandro Imbriaco, ancora dell’Agenzia Contrasto, ha vinto il Canon Giovani Fotografi 2008 nella categoria Miglior Progetto con “ritratti” di case, di interni o di persone negli interni (a destra, in basso).

mo premio nella categoria Portraits Stories con ritratti di interni di case in Romania (qui sopra): va bene, la categoria è ritratto! Ma poi, Massimo Siragusa guadagna il terzo premio nella categoria Contemporary Issues Stories con un servizio sulle baraccopoli di Messina: una serie di ritratti di interni di abitazioni (qui, a destra). Quindi, spostandoci su un altro premio, questa volta nazionale, Alessandro Imbriaco vince il Canon Giovani Fotografi 2008 nella categoria Miglior Progetto con “ritratti” di case, di interni o di persone negli interni (a destra, in basso). Questo, tanto per richiamare esempi premiati. Ora, anche Piero Raffaelli concorda con Jean-François Leroy sul fatto che «ci sono serie di ritratti che appaiono spesso sui giornali come un “format” usurato, da “Grande Fratello” all’ennesima replica». A mia volta, concordo con Piero Raffaelli che «Jean-François Leroy ha anche torto, perché ci sono delle vistose eccezioni» ai “format” usurati. Del resto, anche il direttore di Visa pour l’Image lo sa, se è vero che, tra le proiezioni che ha “mandato in onda” durante la settimana professionale della scorsa edizione del Festival, la sera di giovedì quattro settembre, c’era una straordinaria collezione di ritratti in bianconero di volti di pescatori del Mare del Nord, di Stephan Vanfleteren. Rimane il fatto che, a mio modesto modo di vedere, questo narrare per ritratti oggi sia diventato un po’ (troppo) di moda; insomma, sia un po’ un conformismo di maniera [per inciso, preciso e ricordo che:

uno, non sono un critico; due, ciò che mi interessa di più nel reportage è l’aspetto giornalistico, anche se non riesco a prescindere dalla qualità della “penna” che fotografa]. E se anche fosse che i direttori dei giornali e, più a monte, i loro editori, oppongono ostacoli effettivi alla pubblicazione di un buon reportage (è ormai noto che la verità intralcia il lavoro del giornalista e pregiudica il gradimento degli inserzionisti), penso che occorra resistere, resistere, resistere a questo tentativo di annacquare le verità, raccontando l’ennesimo macello in Africa con i ritratti dei feroci guerrieri tutsi. Lello Piazza



GBG IN GIALLO

C

Così come, appena possibile, è bene rileggere romanzi letti in anni precedenti, ad altre età e maturazioni, altrettanto legittima è l’analoga rilettura di monografie fotografiche, lasciate sullo scaffale della libreria per anni e anni. Le scoperte e riscoperte sono assolutamente identiche, e ugualmente benefiche. Ne stiamo scrivendo con esatta cognizione di causa, anche se il riKent Murdock, il fotocronista investigatore, è reduce da un servizio per il giornale assieme al collega Stacy, quando questi, al volante della propria auto, viene fatto segno a due spari che vanno a vuoto. Più tardi, Kent, solo nell’appartamento di Stacy, si trova faccia a faccia con una ragazza che lo scambia per l’altro e lo minaccia a mano armata. Passano poche ore, ed ecco Stacy morto stecchito, con sei pallottole in corpo. Chi è stato? Perché l’hanno assassinato? Coraggio, Murdock! Datti da fare. Il giornale si aspetta molto da te... e non solo il giornale, ma anche i lettori che da tempo seguono le tue avventure.

Obiettivo sul delitto, di George Harmon Coxe, nell’edizione I Classici del Giallo inclusa nell’inquadratura di Gianni Berengo Gardin: con Leica (IIc o IIf) e mirino universale.

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ferimento che stiamo per andare a sottolineare è di profilo quantomeno trasversale. Ma! Per un motivo che qui non è il caso approfondire, e neppure segnalare, qualche settimana fa abbiamo riguardato l’edizione Einaudi originaria di Un paese vent’anni dopo, di Gianni Berengo Gardin (e Cesare Zavattini), progettato e realizzato a ridosso del precedente Un paese, di Paul Strand. A parte, in apposito riquadro, riprendiamo i termini di questa serie fotografica.

Concretezza di Un paese vent’anni dopo a parte, quello che oggi, e qui, ci preme sottolineare è che, per un curioso gioco del destino, che ci ha fatti attardare su una delle fotografie della raccolta, a un certo punto abbiamo notato un dettaglio in una inquadratura, sempre ignorato in precedenza. Ai bordi estremi di un ritratto ambientato di un edicolante nel proprio chiosco compare la copertina di un Giallo Mondadori [qui sopra]. Siccome siamo avidi lettori di questi polizie-

Da Un paese vent’anni dopo, di Gianni Berengo Gardin, il taglio della messa in pagina del ritratto ambientato dell’edicolante (a sinistra), che accompagniamo con l’ingrandimento di tutto il negativo (Leica) 24x36mm originario (in alto), che mostra un poco più di copertina del Giallo a richiamo fotografico, che abbiamo rintracciato (in questa pagina).


VENTI E POI ALTRI VENTI (ABBONDANTI) ell’autunno 2002, nella cornice delle celebrazioni del centenario dalla nasciNne libraria ta di Cesare Zavattini, Federico Motta Editore ha proposto una nuova ediziodi Un paese vent’anni dopo, che Gianni Berengo Gardin realizzò nel 1976 insieme allo stesso Zavattini: commossa testimonianza dell’amore che il regista, scrittore, sceneggiatore aveva per la propria città natale, Luzzara, in provincia di Reggio Emilia, piccolo paese adagiato sulle rive del Po. Curiosa è la genesi dell’opera, una delle più significative di Gianni Berengo Gardin. Questo insieme fotografico si riconduce a una precedente serie, realizzata nel 1954-1955 da Paul Strand, intitolata Un paese: ritratto di una Luzzara agricola, contadina e forse un poco lirica (proiettata al passato più che al presente). A metà degli anni Settanta, dall’incontro con Gianni Berengo Gardin, nacque -appuntoUn paese vent’anni dopo, attenta rivisitazione dei luoghi fotografati da Paul Strand. A differenza, e con altra personalità, il lavoro di Gianni Berengo Gardin ha prestato più attenzione alla Luzzara urbana, nella quale ha fotografato gli operai e registrato gli interni delle case. Diverso è stato dunque l’approccio, rispetto a quello di Paul Strand, che, come si è appena osservato, si era soffermato piuttosto sull’aspetto agricolo. Ma i due mondi, agricolo e urbano, si compendiano nei due libri, addirittura consequenziali, come ha annotato lo stesso Cesare Zavattini. A distanza di altri venti anni abbondanti (dia-

mine, come passa il tempo!), la più vicina confezione libraria di Federico Motta Editore, del 2002, ha riproposto le fotografie di Gianni Berengo Gardin in una rinnovata veste grafica. Alla serie originaria, si sono quindi aggiunti ritratti di Zavattini, che Berengo Gardin gli ha scattato nella sua Luzzara. Allo stesso momento, è stato replicato il testo introduttivo originario dello stesso Cesare Zavattini. La storia raccontata è lunga, e tratta di un’Italia nella quale stentiamo a riconoscerci, vent’anni più altri vent’anni dopo (trenta, ormai). Però! Annota Zavattini: «Sarò rimproverato una volta di più che io personalmente ho dato a Luzzara una importanza quasi mitica, che ho troppo privilegiato il mio luogo natale rispetto alle altre parti della Terra. [...] Certo sono parecchie le trappole del cosiddetto campanilismo, specie su carta stampata, ma vent’anni fa mi aiutò Strand e ora Berengo Gardin, nel senso che le loro immagini, anche senza o malgrado il mio sospetto commento, testimoniano che l’agglomerato umano chiamato paese (dalla provincia visto più piccolo, ancora più piccolo dalla regione e piccolissimo dalla nazione) esiste con una sua propria misura, finita e infinita nello stesso tempo». Zavattini/Berengo Gardin. Un paese vent’anni dopo; Federico Motta Editore, 2002; via Branda Castiglioni 7, 20156 Milano (www.mottaeditore.it); 144 pagine 30x26,5cm, cartonato con sovraccoperta; 60,00 euro.

Altro poliziesco a sfondo fotografico dello stesso autore George Harmon Coxe, sempre nella collana dei Classici del Giallo: Al lampo di magnesio, ancora con Leica in copertina: Leica IIIg e mirino universale. Per Kent Murdock, fotografo intraprendente, i guai cominciano al matrimonio di Pat Canning. Quando la sposa gli chiede di fare foto[grafie] della cerimonia, lui casca dalle nuvole. È stupito perché ha sempre conosciuto la fobia della famiglia di Pat per i fotografi.

schi, per pura curiosità abbiamo cercato di individuarne il titolo. Pur parzialmente presente nell’inquadratura, la copertina ha subito rivelato essere quella del numero 171 dei Classici del Giallo: cioè, Obiettivo sul delitto, di George Harmon Coxe, con tanto di Leica (IIc o IIf) e mirino universale illustrata sul fronte. Che bell’incontro! Da parte sua, Gianni Berengo Gardin ci ha inviato una copia bianconero dal negativo originario della fotografia, che nella messa in pagi-

Quando poi vede ciò che contiene il ripostiglio, che gli serve da camera oscura improvvisata, rimane trasecolato... e anche un po’ sgomento. Kent è sempre stato un ottimo amico di Pat e non intende chiamare (come dovrebbe fare) il tenente Bacon, prima che sia finita la cerimonia. Questa presa di posizione lo metterà, purtroppo, in gravi difficoltà non solo con la polizia ma anche con un assassino. Tutto si risolverà, tutto si chiarirà, e soprattutto si rischiarerà il cielo nero di nubi che incombono sulla testa di Kent Murdock.

na sulla monografia è stata moderatamente rifilata per esigenze grafiche [pagina accanto]. Da parte nostra, segnaliamo che lo stesso autore ha scritto anche un altro poliziesco a sfondo fotografico: Al lampo di magnesio, numero 105 dei Classici del Giallo, sempre con Leica in copertina [in questa pagina]. Ancora c’è il mirino universale, ma cambia il modello: Leica IIIg. Quindi, a completamento, note di presentazione di questi due racconti, tanto per stare in (buona) compagnia. M.R.

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SE SEI A TERRA, ALZATI. Voglio cominciare con questa specie di poesia, letta sul muro della Brukman, una fabbrica tessile nel quartiere Balvanera, a Buenos Aires, in Argentina. Scritta da un anonimo, probabilmente nel periodo della crisi argentina del 2002-2003, soprattutto a seguito delle catastrofiche “riforme” del presidente Carlos Saúl Menem, è uno straordinario incitamento a non lasciarsi vincere dal potere o dalla sorte. Se sei perduto, combatti. Come potrà essere fermato chi comprende la sua situazione? I vinti di oggi saranno i vincitori di domani. E “mai” significherà “ora”. ICP INFINITY AWARDS 2009.

EMANUELE LO CASCIO

Nel 1984, l’International Center of Photography ha istituito una serie di premi da assegnare ogni anno a coloro che hanno avuto o che promettono di avere in futuro, una brillante carriera nel campo della fotografia. Nelle categorie The Cornell Capa, Lifetime Achievement e ICP Trustees Award i vincitori sono scelti direttamente dai membri del Consiglio dei Fiduciari, presidente incluso, e da altri membri dello staff. Gli altri vincitori sono invece scelti da uno Comitato nominato a rotazione da una lista di esperti internazionali. I premi dell’edizione 2009, la venticinquesima, saranno consegnati ai

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vincitori martedì dodici maggio, presso il Pier Sixty, nei Chelsea Piers di New York, moli storici sul West Side di Manhattan. Ecco l’elenco completo, all’interno del quale sottolineiamo subito e presto la presenza dell’italiana Letizia Battaglia [a sinistra, in basso; intervista in FOTOgraphia, del febbraio 2008]: Cornell Capa Award: Letizia Battaglia, Palermo; Lifetime Achievement: Annie Leibovitz, New York City (Usa); ICP Trustees Award: Gayle G. Greenhill, New York City (Usa); Young Photographer: Lieko Shiga, Tokyo (Giappone); Publication: Aglaia Konrad, fotografa austriaca che vive a Bruxelles (Belgio), per il libro Desert Cities, dedicato all’applicazione dei princìpi dell’architettura moderna in aree desertiche; Writing: Aveek Sen, Calcutta (India); Art: Rinko Kawauchi, Tokyo (Giappone); Photojournalism: Geert van Kesteren, Amsterdam (Olanda), per Baghdad Calling, un servizio sulla vita quotidiana in Iraq, Siria, Giordania e Turchia nel 2006; Applied/Fashion/Advertising Photography: Tim Walker, Londra (Inghilterra). L’ICP fu fondata da Cornell Capa, fratello di Robert, dopo la morte del fratello e di altri mitici fotogiornalisti, come Werner Bischof, David “Chim” Seymour e Dan Weiner. Il suo scopo è quello di mantenere desta l’attenzione del pubblico sulla fotografia documentaria.

Grazia Neri, fotografata nel suo studio, con gli emblemi dell’onorificenza di Grande Ufficiale della Repubblica italiana.

ria Giuseppina Tarantola (prima donna a essere nominata vicedirettore della Banca d’Italia). Le altre premiate, con il titolo di Commendatore, sono Anna Maria Fecchio Comito (impegno nel volontariato) e Fabiola Giannotti (scienziata, fisica nucleare). Giovanna Fratta (direttore d’orchestra), Mara Galeazzi (prima ballerina al Royal Ballet di Londra) e Anna Laura Prouse (per il suo lavoro a Nassiriya) hanno invece ricevuto il Cavalierato.

WWW COMPIE VENT’ANNI.

GRAZIA NERI GRANDE UFFICIALE. Sabato sette marzo, nel corso di una cerimonia svoltasi nel Salone delle Feste del Quirinale per celebrare l’Otto marzo, Giornata della Donna, il capo dello Stato, Giorgio Napolitano, ha premiato otto «donne brillantemente affermatesi in molteplici attività». Il riconoscimento più prestigioso, Grande Ufficiale, è andato a Emma Castelnuovo (insegnante di matematica che le leggi razziali costrinsero ad abbandonare la scuola di Stato), Grazia Neri (purtroppo segnalata dai quotidiani che ne hanno dato notizia come fotografa! [a destra, in alto]) e Anna Ma-

LELLO PIAZZA

Questa rubrica riporta notizie che sono appartenute alla cronaca. Però, nel loro richiamo e riferimento molti motivi ci impediscono di essere tempestivi quanto la cronaca richiederebbe. Ciononostante riteniamo giusto proporle, perché siamo convinti che non abbiano perso la propria attualità, e continuino a offrire spunti di riflessione.

Letizia Battaglia, che abbiamo intervistato lo scorso febbraio 2008, è stata insignita del Cornell Capa Award nell’ambito degli ICP Infinity Awards 2009, assegnati dall’International Center of Photography, di New York.

Fu il tredici marzo di vent’anni fa esatti, un tredici di marzo che alcuni popoli antichi ritenevano essere il giorno di inizio della primavera. Fu il 13 marzo 1989 che il fisico britannico Tim Berners-Lee presentò al CERN un progetto per rendere più veloce lo scambio di informazioni scientifiche tra ricercatori. Era il progetto del web, la grande ragnatela informatica, indicata con l’acronimo “www”, che tutti conosciamo. Se stessi scrivendo un romanzo di fantascienza, potrei immaginare di aggiungere: fu quello l’inizio di tutti i guai. Ma non è (ancora) così, anche se il web per molti, per esempio per le agenzie fotografiche, ha rappresentato cambiamenti tanto radicali da stravolgere, se non addirittura cancellare, il proprio business. In realtà, qualche sistema di trasmissione esisteva da prima del 1989. Per esempio, nel 1945 un’idea di trasmissione di documenti ipertestuali fu presentata da Vannevar Bush in un articolo nell’Atlantic Monthly relativo a uno strumento chiamato Memex. E nel 1969, la Difesa degli Stati Uniti creò Arpanet, una rete che connette quattro computer. Ecco comunque alcuni numeri del web, che descrivono la situazione attuale: mille miliardi di pagi-


ne web; cento milioni di siti web (il 74 per cento dei quali commerciali). Ancora, utenti (in milioni): Repubblica popolare cinese: 253 (19 per cento della popolazione); Usa: 220 (72,5 per cento); Giappone: 94 (73,8 per cento); India: 60 (5,2 per cento); Germania: 52 (63,8 per cento); Brasile: 50 (26,1 per cento); Italia: 28,3 (48 per cento). Le lingue più utilizzate (sempre in milioni di utenti): inglese 452; cinese 321; spagnolo 122; giapponese 94; francese 73.

LA FOTOGRAFIA PER RIDERE. In giro, c’è evidentemente un sacco di gente che non ha molto da fare, e che può permettersi di produrre messaggi esilaranti, inventando testi, elaborando fotografie o accostandole in modo opportuno, che poi invia in email ad amici che, a propria volta, le rimbalzano ad altri amici in una lunghissima catena, che spesso coinvolge migliaia di persone in tutto il mondo. Ve ne segnalo un paio appena ricevute [qui sotto]: la prima, su un cambiamento sostanziale tra i tempi di George W. Bush e quelli di Barack Obama; la seconda, sul pericolo della manipolazione genetica. Buon divertimento.

preferiamo), l’Italia è un paese civile e il Corriere non è il più importante quotidiano italiano; tre (da discutere), l’Italia è un paese civile, il Corriere è il più importante quotidiano italiano, il fatto equivale a un furto di galline; quattro (bellezza!), l’Italia è un paese parzialmente civile, il Corriere è il più importante quotidiano italiano, ma non si tratta assolutamente della Stampa, bellezza, non della Stampa!

È LA STAMPA, BELLEZZA/2. Supponiamo che in uno stato civile un consulente del presidente del consiglio in carica venga condannato (in primo grado) per aver preso seicentomila dollari dall’azienda privata del presidente stesso per una falsa testimonianza a favore di detto presidente, coinvolto in un processo. Come si comporterebbe il più importante quotidiano del paese civile di fronte all’annuncio della sentenza? Di quante colonne sarebbe il titolo? Invece, in Italia, di fronte a un fatto come quello appena ipotizzato e che è realmente accaduto (condanna dell’avvocato inglese David Mills, pronunciata dal tribunale di Milano il 17 febbraio 2009), il Corriere della Sera ha faticato a mettere la notizia in prima pagina, relegandola in un cantuccio con il minor rilievo possibile, come se si fosse trattato del processo di un ladro di galline della provincia di Lecco [qui sopra]. Che deduzione trarne? Quattro soluzioni possibili: uno (diavolo!), l’Italia non è un paese civile; due (la

Prima pagina del Corriere della Sera dello scorso diciotto febbraio. La notizia della condanna dell’avvocato inglese David Mills nel processo per falsa testimonianza a favore del presidente del consiglio è quantomeno “di spalla”.

REUTERS: PICTURES OF THE YEAR. L’agenzia Reuters ha celebrato il lavoro dei propri fotogiornalisti pubblicando sul suo sito (www. reuters.com/news/pictures/rpSlideshows?articleId=USRTX8VHS#a=1) le centotrentacinque fotografie più significative scattate nel corso del 2008 [qui sotto]. Ci preme segnalare che tra queste fotografie c’è una delle immagini che sono state giudicate sospette in molti blog in giro per il mondo [FOTOgraphia, novembre 2008]. La stessa fotografia ha vinto anche il terzo premio al World Press Photo 2009 nella categoria Spot News Singles [su questo stesso numero, da pagina 54]. Ne è autore l’ucraino Gleb Garanich.

Le Pictures of the Year 2008 dell’agenzia Reuters sul sito dell’agenzia: compresa quella giudicata sospetta in molti blog in giro per il mondo.

TOM KENNEDY DIMISSIONARIO. Mi si conceda di segnalare

Fotografie per ridere, che circolano in posta elettronica: il pericolo della manipolazione genetica e un cambiamento sostanziale tra i tempi di George W. Bush e quelli di Barack Obama.

una notizia che riguarda un amico, già photo editor del National Geographic per anni, spinto poi a lasciare la Society in un periodo di buie lotte per il potere. Via dal National, Tom Kennedy approdò al Washington Post, come photo editor, e finì per diventare il responsabile del sito web del quotidiano (www.washingtonpost.com), un sito che ha vinto numerosi premi. Ora, dodici anni dopo il suo arrivo, se ne va e punta ad avere un posto di docente di multimedia in una istituzione accademica.

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TORMENTONE SAN VALENTINO. Con un bell’articolo a firma Anais Ginori, La Repubblica del quattordici febbraio (è ovvio) ha segnalato il fenomeno che si ripete ogni anno, in occasione della festa di san Valentino, nell’atelier di Francine Deroudille Doisneau, a Montrouge, periferia sud di Parigi: centinaia di richieste di ogni tipo per copriletto, puzzle, taccuini, calendari, tende da doccia con impresso “Il bacio” di Robert Doisneau, una delle immagini più famose (e discusse) della storia della fotografia [qui sopra]. Dall’articolo, riprendo la dichiarazione di Francine alla giornalista di Repubblica: «Rifiutiamo quasi sistematicamente ogni richiesta. Stiamo cercando di porre fine al merchandising. Mio padre era un artista, anzi si definiva un “artigiano”. Certamente, non un commerciante».

La storia della fotografia è nota. Lo scatto è avvenuto nel marzo 1950, a Parigi, di fronte all’Hôtel del Ville (che non è un albergo, ma il municipio). Due innamorati si baciano mentre camminano, una candid picture straordinaria, originariamente pubblicata in un servizio di Life, che peraltro riservò l’apertura a un altro bacio, relegando questo in una pagina illustrata assieme altri quattro [qui sopra]. Annotiamo ancora che all’inizio del Duemila, la stessa fotografia è stata garbatamente reinterpretata in una campagna Peugeot, stampa e televisione (FOTO graphia, maggio 2000). Però, anni dopo, molte coppie si riconoscono in quel bacio e cerca-

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La Repubblica del quattordici febbraio ha segnalato il fenomeno che si ripete ogni anno in occasione della festa di san Valentino: la richiesta della fotografia del bacio di fronte all’Hôtel del Ville di Parigi, di Robert Doisneau, per operazioni di merchandising.

Due pagine del servizio che nel 1950 Life ha dedicato a Parigi “città di amanti”, illustrato con fotografie di baci realizzate da Robert Doisneau. Quello diventato più celebre non fu usato per l’apertura, ma relegato assieme altri quattro.

Il sito web di Jupiter.

no di portare Robert Doisneau in tribunale, per ricavarne pretestuosi risarcimenti economici. Il fotografo è costretto ad ammettere che i due ragazzi nel ritratto sono amici suoi e non due persone colte al volo per strada. Non una candid picture, dunque, ma staged photography. Conoscevo Robert Doisneau e non credo affatto a questa versione: secondo me l’ha raccontata per togliersi dai piedi i postulanti. La fotografia è sicuramente “rubata”. E quei due innamorati non hanno né nome né cognome: sono uno dei tanti archetipi di tutti gli innamorati del mondo che, “colti dall’estro e da nobil natura”, si baciano improvvisamente per strada. Vorrei poi aggiungere che definire quel bacio il più famoso “french kiss” della storia è una imprecisione. I frequentatori di postriboli sanno che il french kiss è altro.

LIBERA CONCORRENZA ALL’OPERA? All’inizio di quest’anno, per novantasei milioni di dollari, Getty Images ha completato l’acquisizione di Jupiterimages (quarta agenzia al mondo in termini di fatturato; FOTOgraphia, ottobre 2008 [qui sotto, il sito web]). I dirigenti di Getty si apprestano ora a intervenire con pesanti tagli sul personale del loro nuovo acquisto. Non si sono detti neppure in grado di precisare quali degli uffici statunitensi di Jupiter rimarranno aperti. Hanno comunque assicurato che il marchio Jupiterimages non morirà. È la seconda volta che Getty Image acquista un concorrente e poi licenzia parte del personale. È già accaduto nel 2007, con l’agenzia Mediavast.

GIORNALI: IL GRANDE CRACK. Riportiamo integralmente l’articolo Rizzoli-Corriere, Sole, Espresso-Repubblica, Stampa: non si salva nessuno, a firma Bruno Perini, apparso su Il Manifesto del nove marzo [prima di farlo, saluto l’autore, compagno di classe all’Elementare Galvani, di Milano (M.R.)]. «Nessuno vuole fare il primo passo verso la dichiarazione dello stato di crisi. E tanto meno c’è chi ha voglia di diffondere le orrende cifre di vendita e di fatturato pubblicitario. Ma la crisi che incombe sui grandi gruppi editoriali italiani è ormai uno spettro che si aggira per i consigli d’amministrazione di Rcs e Sole 24 ore, Mondadori e gruppo Espresso, Stampa e Giornale, Libero e gruppo Riffeser, Messaggero e gruppo Mediaset. È come una bomba a orologeria, che potrebbe scoppiare da un momento all’altro. Nessuno ne è esente, nessuno può gioire dei guai del concorrente. «Ci sono pesi diversi, ma la miccia ormai è accesa e a quanto sembra la deflagrazione non toccherà, come sta avvenendo in queste ore con l’Unità, soltanto i medi e piccoli giornali di sinistra, ma tutta la grande stampa. «Il male oscuro riguarda soprattutto la pubblicità, ma ad incidere sulla crisi in prima fila c’è Internet, ormai concorrente della carta stampata, e poi il crollo del marketing che si reggeva sui prodotti collaterali, come libri, cd, dvd e altro. Le imprese italiane o rinunciano a spendere quattrini in pubblicità o quando va bene decidono mese per mese se acquistare spazi pubblicitari, non consentendo così ai gruppi editoriali di programmare costi e investimenti e di stilare budget di medio periodo. «D’altronde basta guardare le cifre diffuse ieri da Prima online, il sito Internet del mensile Prima Comunicazione, per capire in quale guaio si trovino i giornali. Sono cifre impressionanti, che parlano da sole. «Nel gennaio 2009 c’è stata una pesante flessione del fatturato pubblicitario sulla stampa, che ha registrato, rispetto allo stesso mese del 2008, una discesa del 25 per cento. È quanto emerge dai dati dell’Osservatorio stampa Fcp-Federazione concessionarie di pubblicità


sull’andamento del mercato pubblicitario di quotidiani e periodici a gennaio scorso. I quotidiani in generale hanno registrato una diminuzione di fatturato del meno 25 per cento e una diminuzione degli spazi del meno 15 per cento. «I quotidiani a pagamento hanno registrato un andamento uguale a quello dei quotidiani in generale, mentre i quotidiani Free Press hanno segnato andamenti in calo a fatturato (meno 28 per cento) e a spazio (meno 18 per cento). «I periodici in generale hanno registrato un fatturato in diminuzione rispetto allo stesso mese del 2008 del 26 per cento e un calo degli spazi (meno 19 per cento). I settimanali hanno ottenuto delle variazioni negative sia a fatturato (meno 32 per cento) sia a spazio (meno 22 per cento). Per i mensili si registra una diminuzione di fatturato del 22 per cento e un calo degli spazi del 17 per cento. Le “altre periodicità” hanno riportato una flessione sia del fatturato (meno 13 per cento) sia dello spazio (meno 15 per cento). Il guaio è che secondo gli esperti, come per la crisi economica e finanziaria che sta devastando il pianeta, siamo soltanto all’inizio. «Con queste cifre lo stato di crisi è lo sbocco naturale, ma questo è soltanto il quadro aggregato. Se dai dati aggregati si passa ai singoli gruppi, il crollo è ancora più pesante. Non ci sono ancora dati ufficiali, ma i rumors parlano di crolli di fatturato pubblicitario per Rcs e Mondadori che si aggirano sul 60 per cento. «Un po’ meno peggio per il gruppo Espresso, che avrebbe lasciato sul campo il 35 per cento. Un po’ meglio per il gruppo Il Sole 24 ore, che gode dell’alto numero di abbonati e che comunque registrerebbe un calo del fatturato complessivo superiore al 20 per cento. Ci sono anche alcune eccezioni: per esempio, l’agenzia Radiocor, controllata dal Sole 24 ore, ha registrato un aumento dei ricavi superiore al 20 per cento, ma per il resto la situazione è davvero drammatica. «Nessuno vuole esporsi senza che lo facciano anche gli altri. In via Solferino, per esempio, si attendono da un momento all’altro dichiarazioni in merito alla crisi del gruppo Rcs Mediagroup, ma per evidenti

ragioni di carattere concorrenziale e di immagine, Rcs, come d’altronde il gruppo Mondadori, non vuole dichiarare lo stato di crisi in solitudine. Con il risultato assai insidioso che se la crisi venisse dichiarata da tutti i gruppi contemporaneamente l’istituto previdenziale dei giornalisti, Inpgi, rischierebbe il collasso. «Malgrado la cautela, i segni della crisi sono evidenti: i collaboratori si sono visti decurtare i compensi del 25 per cento al Sole 24 ore, mentre al gruppo Espresso è già cominciata la trattativa ad personam per le dimissioni incentivate. Una procedura sotterranea, che si è messa in moto in tutti i gruppi editoriali e che nelle prossime settimane farà emergere una crisi conclamata dagli esiti del tutto incerti».

MALE ANCHE NEGLI USA. Il ventisette febbraio si sono definitivamente fermate le rotative del Rocky Mountain News, quotidiano leader di Denver, Colorado, Usa [qui sotto, la prima pagina dell’ultimo numero]. Sotto la direzione del photo editor Janet Reeves, lo staff del Rocky ha vinto il Pulitzer nella categoria Breaking News nel 2000 e nel 2003. Nel 2006, Todd Heisler, dello staff fotografi, ha vinto il Pulitzer nella categoria Feature Photography. Todd Heisler ha poi lasciato il Rocky per il New York Times. Preston Gannaway, un altro fotografo del Rocky che ha vinto il Pulitzer nel 2008, sempre nella categoria Feature Photography, ha recentemente lasciato il giornale per il Virginian-Pilot, di Norfolk (Virginia, Usa). Il quotidiano è di proprietà di E.W. Scripps Co, un gigante nel settore

dei media (www.scripps.com), con centotrenta anni di storia alle spalle. Rich Boehne, che ne è presidente, aveva dichiarato in vendita il giornale a dicembre 2008, ma nessun compratore credibile si è presentato per rilevarlo. Rich Boehne ha dichiarato: «Il Rocky Mountain, a lungo il più importante giornale di Denver, chiude vittima dei cambiamenti che stanno colpendo l’editoria e della difficile situazione economica». Da qui a due mesi, il Rocky Mountain avrebbe compiuto centocinquanta anni.

ALTRI GIORNALI SULL’ORLO DEL FALLIMENTO. Lo scorso febbraio, The Philadelphia Inquirer e The Philadelphia Daily News hanno avviato una particolare procedura di fallimento. Tale procedura dovrebbe consentire ai due giornali di affrontare con una pianificazione adeguata il problema della ristrutturazione del debito (trecentonovanta milioni di dollari). Secondo una dichiarazione dell’editore, ci sarebbe invece denaro sufficiente per proseguire nell’ordinaria amministrazione. Il precedente gennaio, gli stessi due quotidiani hanno licenziato diversi fotografi dello staff. Il negozio Ritz Camera Centers, al 1385 di Towncenter Mall, a Boca Raton, in Florida, Stati Uniti.

NEGOZIANTI SULL’ORLO DEL FALLIMENTO. Secondo un lancio

Dalla prima pagina del primo numero del Rocky Mountain News, quasi centocinquanta anni fa, la testata utilizzata nella prima pagina dell’ultimo.

dell’agenzia Reuters, Ritz Camera Centers, la più importante catena americana di vendita di materiale fotografico, avrebbe aperto una procedura fallimentare. Secondo il curatore fallimentare, una delle ragioni della crisi sarebbe il crollo dei ricavi nei processi di photo-finishing. Ritz Camera Centers, che opera sotto diversi marchi, tra i quali Ritz Camera, Wolf Camera, Kits Cameras, Inkley’s e The Camera Shops, gestisce circa novecento punti di vendita in tutto il paese [qui sopra]. A cura di Lello Piazza

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Gianni Giansanti, uno dei più bravi e attenti fotogiornalisti italiani contemporanei, è mancato lo scorso diciotto marzo. La notizia della sua scomparsa è stata data dai quotidiani nazionali e internazionali il successivo diciannove. Per una curiosa combinazione di date, lo stesso diciannove marzo è stato il trentunesimo anniversario dalla pubblicazione sui quotidiani della prima fotografia dell’onorevole Aldo Moro, prigioniero delle Brigate Rosse. E la proiezione internazionale di Gianni Giansanti è inviolabilmente legata alla fotografia del ritrovamento del cadavere dello statista, in via Caetani, a Roma, nel bagagliaio di una Renault R4 rossa. Da quella fotografia, scattata quando aveva ventuno anni, che ha fatto il giro del mondo, è cominciata la carriera fotogiornalistica di Gianni Giansanti, bruscamente interrotta da un male che lo ha sconfitto, a cinquantadue anni di età. Lo ricordiamo con una intervista alla sua assistente Ada Masella e con testimonianze a complemento: ne parlano Chiara Mariani, photo editor del Magazine del Corriere della Sera, Grazia Neri, fondatrice dell’omonima Agenzia, Lello Piazza, attento osservatore e fustigatore del fotogiornalismo internazionale, Hubert Henrotte, fondatore e padre padrone di Sygma, una delle più importanti agenzie fotogiornalistiche dei nostri tempi 30

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iao Ada. Tu hai vissuto per dieci anni in studio con Gianni, lo hai seguìto in molti reportage in giro per il mondo, e vorrei che tu ce lo presentassi. Come lo hai conosciuto? È stato tanti anni fa. Studiavo lettere all’università, e contemporaneamente frequentavo l’Istituto Eu-


GIANNI ropeo di Design, dove seguivo i corsi di fotografia. Poi ho abbandonato l’università per lo IED. Allora, volevi già diventare fotografa! Non è che ci sperassi tanto. Mi piaceva molto la fotografia, sia scattare sia vivere le immagini scattate da altri. Frequentavo un laboratorio di stampa bianconero, presso il quale sviluppavo e stampavo le mie fotografie. In laboratorio mi dissero che c’e-

ra un fotografo bravissimo, che io conoscevo di nome e fama, che stava tornando da Parigi e voleva aprire un suo studio a Roma. Mi hanno presentato Gianni Giansanti a una mostra di Luciano Viti. Quanto tempo fa? Giusto dieci anni fa. Avevo appena terminato lo IED. Gli dissi che ero interessata a vedere come funzionava la fotografia. Gianni stava partendo per la

Le didascalie alle fotografie di Gianni Giansanti sono di Ada Masella, la sua assistente, che in queste pagine testimonia con una intervista rilasciata a Lello Piazza.

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«Olimpiadi di Atlanta, 1996: a Gianni piaceva lo sport e riusciva a coglierne la parte umana. La giamaicana Marlene Ottey guarda incredula la sua avversaria Marie-Jose Perec, che l’ha appena battuta nella finale dei duecento metri».

Cambogia e mi disse: «Quando torno, magari ci sentiamo, puoi venire in studio da me e dare uno sguardo. Però, solo qualche giorno, perché io preferisco lavorare da solo». Avevo iniziato a vedere come funzionava l’attività quotidiana, dal computer all’archiviazione delle fotografie. Dopo una settimana mi ha detto: «Da lunedì, se ti va, puoi venire qui tutti i giorni, e cominciare a lavorare con me». È andata così. Quanti anni avevi? Ho finito l’università a ventidue anni e a ventitré ho conosciuto Gianni.

Cosa ha significato lavorare con lui? In questi anni lo hai seguìto in tutti i suoi lavori. L’ho seguìto sempre, tranne -per motivi logistici e organizzativi- in alcune gare automobilistiche di Formula Uno e nei viaggi del papa. Gianni era uno che non ti lasciava mai in pace. E questo, soprattutto ai miei esordi, era bellissimo. Già alle sette del mattino mandava messaggi del tipo: «Non starai dormendo ancora!». Con lui, bisognava essere sempre all’erta. Non si fermava mai, e costringeva anche me a non fermarmi mai. Non penso possa esistere un fotografo che ti può

LA SUA AGENZIA FRANCESE. IL PRIMO DELLA CLASSE

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oleva che tutto fosse sempre perfetto. Meticolosità nel proprio lavoro, rarissima in un fotografo; rispetto per gli altri e per gli impegni presi: era questa la linea di condotta che ha mantenuto fino alla fine. Per le sue immagini impeccabili, sia per l’inquadratura sia per la luce, per le sue scelte, per il rigore e l’attenzione che metteva nel curare le proprie pubblicazioni, Gianni Giansanti è stato un uomo eccezionale nel mondo della fotografia. Ci lascia un’opera immensa, che durerà nel tempo. Ma noi abbiamo perso un amico, una persona come non ne ho conosciute molte nella mia carriera e ancor meno tra i fotografi. Ed è stato

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eccezionale per il suo comportamento irreprensibile, la gentilezza, la generosità e l’onestà, doti così rare di questi tempi. Inoltre, era bello, intelligente, non fumava e non beveva. Perché ha meritato questa scomparsa, così improvvisa e insopportabile? Non riusciamo più a capire. Ho lavorato con lui all’agenzia Sygma per venticinque anni, in mezzo a centinaia di altri fotografi. Era il numero uno, di gran lunga il migliore ed è lui ad andarsene per primo. Allora grazie, Gianni, per tutto quello che ci hai donato. Hubert Henrotte (fondatore di Sygma)


HA RACCONTATO STORIE fotografie di Gianni Giansanti non ci sono orizzonti storNha maiti,ellenoncercato ci sono neppure sfuocati o mossi creativi. Gianni non ispirazione nel fotografare i propri soggetti in modo “arbitrario”. E non ha mai chiesto di entrare alla Magnum Photos. Eppure, Gianni Giansanti è uno dei più grandi fotogiornalisti che l’Italia abbia mai avuto. Le sue immagini raccontano storie, utilizzando il lessico e la sintassi del linguaggio di tutti i giorni. A volte, le sue fotografie mi ricordano certe poesie di Garcia Lorca e mi parlano direttamente, mi stupiscono, come capita quando leggo “i fiumi di Granada scendono dalla neve al grano” o “passaron quattro cavalieri, sopra cavalle andaluse, con vesti d’azzurro e verde, con lunghi mantelli scuri”. Come dire che anche con un linguaggio molto semplice si possono evocare immagini fulminanti. Forse questo accostamento della fotografia alla poesia potrà sembrare un po’ forzato. Ma così penso, che la fotografia così funzioni, perché, spesso, in uno scatto, c’è tutto l’accaduto, esattamente come avviene nella poesia che, a volte, racconta una verità in tre brevissimi versi. FOTOgraphia ha appena parlato di Gianni Giansanti, lo scorso marzo, presentando una sua bella mostra di Firenze. Sapevamo che era da tempo molto malato, ma non pensavamo che la malattia avesse così fretta di portarselo via. Non vedevo Gianni da un anno, anche se, nel frattempo, ci eravamo sentiti per telefono. La sua voce non lasciava trapelare nulla di grave, il suo umore neppure. Fui con Gianni a Montepulciano, a giugno dello scorso anno. Venne a parlare agli studenti di un workshop dedicato alla professione e alla passione in fotografia. Aveva portato le sue idee di comunicatore, aveva spiegato l’importanza di associare alla fotografia il nuovo linguaggio del video. Aveva trasmesso a tutti la sua energia e il suo ottimismo. Unico segno di qualcosa che non andava erano due stampelle con i manici blu elettrico. Quando alla sera di sabato ci fu la cena di benvenuto, e si dovette camminare un po’ su e giù per le strade di Montepulciano, per raggiungere il ristorante, non fece una piega: via, davanti a tutti, chiacchierando di fotografia mentre smanettava con le stampelle. Allora, Gianni era ancora un omone pieno di energie, nonostante la brutta malattia l’avesse già duramente provato. Ma recentemente le cose si erano aggravate e, alla fine, il corpo di Davide non ce l’ha fatta contro un maligno Golia. Solo il corpo però, perché lo spirito di Gianni è ancora vivo e continua a parlarci attraverso le sue fotografie. Lello Piazza

insegnare più di Gianni. Potevo anche limitarmi a guardarlo lavorare, senza che lui dicesse niente. Ho imparato lo stesso. Vederlo muoversi, vederlo organizzare... Era già un’esperienza. Poi, a un certo punto, vedevi che cominciava a fotografare... È stato bellissimo. Hai qualche episodio in particolare da raccontare, qualche aneddoto? Tantissimi. Quando eravamo in Africa, per esempio. Ci è capitato di tutto. Animali in tenda, punture. Gianni non perdeva mai la calma. Ma di fronte a un problema l’ultima cosa che gli passava per la testa era che ci si dovesse fermare e rinviare il programma. Bisognava invece continuare a lavorare, sempre. Altri aneddoti? Non so. Per esempio, Gianni non

amava compiacersi. Eravamo in Tibet, per il capodanno tibetano. A un certo punto incontriamo un fotografo -situazione che ci è capitata spesso-, che comincia a vantarsi “io lavoro per questo, pubblico su quello”. Gianni ascoltava in silenzio. Quando l’altro gli ha chiesto “anche tu sei fotografo?”, Gianni gli ha risposto con semplicità: sì, anch’io faccio fotografie. Poi si è andati avanti a parlare, e ognuno ha continuato a raccontare fatti della propria vita. Piano piano, è spuntato fuori, casualmente e senza particolare enfasi, quello che Gianni aveva fatto, le copertine di Time, il lavoro con il papa, i libri. Immancabilmente, lo stupore del fotografo si è espresso con una domanda: ma tu chi sei? E Gianni ha risposto: Gianni Giansanti. E allora quell’altro: ah, ecco, adesso capisco, ti conosco di nome! Gianni si comportava ogni volta come se fosse all’inizio della propria carriera. Non faceva pesare il suo curriculum, e prima che rivelasse le sue doti ci voleva una lunghissima chiacchierata. Gianni non amava esibirsi. Sul lavoro era molto umile -anche se nella vita magari no-, e non pensava certo di essere più bravo di altri fotografi che lavoravano accanto a lui. In Tibet, cominciarono a manifestarsi i primi problemi di salute: aveva preso una storta a una caviglia, e abbiamo creduto che fosse tutto lì; neanche lontanamente abbiamo immaginato che potesse essere un segnale di qualche cosa di più nascosto, di più grave. Con la caviglia che gli faceva male, inseguiva di corsa, zoppicando, i monaci tibetani durante le processione del capodanno. E pur zoppicando è riuscito a essere più veloce degli altri. C’è stata un’altra dote di Gianni che gli ha facilitato il lavoro: il suo intuito. In India, per esempio, dove siamo andati per il Kumba Mela, abbiamo visto che c’era il funerale di un sadu. Subito lo abbiamo seguìto. Eravamo in tre o quattro fotografi. Non c’era neppure un inviato del National Geographic, che pure era venuto per coprire in forze tutti gli aspetti della manifestazione. A un certo punto, quando stanno mettendo il corpo del sadu su una barca per far proseguire la processione sul Gange, gli altri fotografi che erano con noi si sono bloccati e non sapevano come proseguire. Gianni è stato più veloce di tutti, e ha trovato immediatamen-

«9 maggio 1978: il ritrovamento del cadavere dell’onorevole Aldo Moro, nel bagagliaio della Renault R4 rossa abbandonata dalle Brigate Rosse in via Caetani, a Roma. Con questa fotografia epocale, Gianni inizia la sua carriera fotogiornalistica, e qualcuno ha pensato a un colpo di fortuna [copertina di Time del ventidue maggio; qui sotto]. Eppure, in quei concitati giorni, molti fotografi erano accampati nel centro di Roma, in attesa di una conclusione annunciata e prevista. Gianni fu abile nell’inseguire le volanti della polizia, a correre dall’altro lato di via Caetani, per infilarsi in un varco dopo aver visto che stavano chiudendo la strada dal lato di Botteghe Oscure, ad avere la prontezza di chiedere ospitalità in una casa di sconosciuti, per fotografare dall’alto».

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«Papa Wojtyla in rosso. Gianni adorava i colori, soprattutto il rosso, e riusciva a renderli sempre vivi e in alcuni casi struggenti».

«La fotografia di papa Benedetto XVI alla quale mi sono riferita nell’intervista. Gianni è stato l’unico a vederla così e “ambientare” il papa tra le colonne della Basilica di San Pietro».

«Sono cresciuta con Gianni. A ventitré anni ero una ragazzina viziata, e lui mi ha insegnato moltissimo. Mi ha insegnato a svolgere e affrontare ogni impegno con grande cura, perciò qualunque cosa farò dovrò cercare di farla sempre molto bene: tutto dovrà essere perfetto. Non sarà facile».

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Un ritratto che mi ha scattato Gianni, in studio.

Il papa con un’espressione più sorridente del solito e addolcita dai fiori rosa (per il Magazine del Corriere della Sera).

La Via Crucis, al Colosseo.


te un’altra barca per seguire questo feretro navigante. È riuscito a organizzare il tutto in un baleno, nonostante stesse già male. E su quella barca ha ospitato anche gli altri tre fotografi, che, altrimenti, sarebbero rimasti sulla riva. Per ottenere la fotografia, Gianni trovava sempre una strada e riusciva a trovarla prima degli altri. La fotografia per lui era tutto... No, non si può dire tutto. Fuori della professione c’erano gli affetti, la sua famiglia, sua moglie Anna e i figli Greta e Andrea. Ma la fotografia riempiva completamente la sua vita professionale, e di questo non si stancava mai: del resto, non poteva stancarsi, perché faceva sempre cose nuove. Gianni non aveva “specializzazioni”: non era solo un ritrattista, o un fotografo di news, o di reportage, o di sport. Ha sempre affrontato tutto, con il

massimo della versatilità. Era curioso, e non si vergognava di dover ancora imparare qualcosa, anzi. Non si era fermato a un solo aspetto della fotografia. Amava sperimentare costantemente. Quando cominciò, era ancora studente. Si diede due anni di tempo. «Lavorerò per comperarmi la macchina fotografica». Aveva diciotto, forse diciannove anni. A ventun anni ha scattato la famosa foto del cadavere di Aldo Moro, in via Caetani. A quel tempo, vivere da protagonista la cronaca di Roma gli deve essere sembrato affascinante. Ma presto non gli è bastato più. Allora, si è dedicato anche ai reportage di viaggio. Poi, va bene il reportage di viaggio, ma gli piaceva anche lo sport. Quindi, ha cominciato anche a seguire lo sport. Dunque, la fotografia non è che fosse tutto, ma è stata invece qualcosa che non sarebbe finita mai,

Copertine temporalmente coincidenti di Time, con ritratti eseguiti da Gianni Giansanti: papa Wojtyla e papa Ratzinger.

«La fotografia per Un Giorno nella Vita dell’Italia, del Magazine del Corriere della Sera di quest’anno [su questo stesso numero, da pagina 12]: sembra un quadro di un paesaggista del Settecento, sembra il pastore Oak in Via dalla Pazza Folla, c’è la bellezza dell’Italia rurale che ancora esiste nel 2009, la sottolineatura di un luogo conosciuto da pochi: le rovine di un castello progettato da Bernini».

Pippo Inzaghi: il primo servizio iniziato da Gianni e finito da me.

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«Un operaio al lavoro al Colosseo. Gianni faceva così: si arrampicava ovunque, non aveva paura, e riusciva sempre ad ambientare il lavoro dell’uomo in cornici spettacolari».

nella quale poteva sperimentare costantemente alla ricerca di aspetti nuovi. Lui mi diceva: non bisogna mai tirarsi indietro. «Se a un certo punto mi dicessero: vai a fotografare sui fondali sottomarini, io seguirei un corso di sub [tra l’altro, aveva iniziato a frequentarne uno qualche anno fa], comprerei l’attrezzatura necessaria e imparerei a fotografare in immersione. Se dovessi arrampicarmi su una montagna, seguirei una scuola di alpinismo, ma non rinuncerei a scattare quelle fotografie». Non si stancava mai della fotografia, non era sicuramente neanche soltanto un lavoro: era la sua vita che si rinnovava in continuazione. Gianni era anche moderno e attuale: il suo

TESTIMONE DELLA STORIA CONTEMPORANEA

H

o conosciuto Gianni Giansanti all’inizio della sua carriera. È stato uno dei migliori fotografi di Sygma e della mia agenzia. La morte precoce di un fotogiornalista eccezionale, che ha sempre rispettato l’etica del fotogiornalista e non ha mai fatto compromessi nella sua professione, rispettando sia le persone fotografate sia il pubblico che le avrebbe guardate. Da fotografo di grande attualità è diventato grande ritrattista. Scherzando, un giorno gli dissi che i suoi ritratti erano molto belli. «Sì, ma amo il reportage», mi rispose. Ma si possono fare tutti e due, conclusi io. Ed ecco i suoi ritratti, cominciando da quello di Italo Calvino, che mi è carissimo e rappresenta una delle fotografie più pubblicate. Il suo lavoro esteso su papa Wojtyla è diventato mitico. Gianni ha vissuto la malattia con una forza rara. Cercava sempre di rassicurarci, anche quando gli esami erano negativi. Ci lascia fotografie straordinarie, che saranno sicuramente una testimonianza storica dei nostri avvenimenti. Grazia Neri (fondatrice dell’omonima Agenzia)

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spostamento verso il video dimostra che aveva una grande sensibilità per i cambiamenti. Per esempio, quando consegnavate i servizi al Magazine del Corriere della Sera, aggiungevate sempre un commento video, a volte un dietro le quinte, che finiva sul sito web del quotidiano. Sì, quello lo abbiamo fatto fin quando abbiamo potuto. Poi... Comunque credo che Gianni sia stato il primo in Italia a fornire questo genere di servizio. Aveva iniziato a girare video già con alcuni viaggi del papa, verso la fine degli anni Novanta. Poi l’idea ha preso corpo definitivo con il calendario dei calciatori. Effettivamente, il backstage video -che ho girato io, ma l’idea e la regia sono sue- è stato trasmesso da molte televisioni. Visto che questa iniziativa aveva funzionato, continuammo. Gianni sapeva che c’era una differenza tra le immagini fotografiche (fisse) e il movimento (video), e per uno che aveva sempre scattato fotografie non è stato facile sdoppiare la propria creatività. Ma per lui l’approccio era completamente intuitivo. Riusciva a mettere da parte tutto il suo essere fotografo, si dedicava al movimento e riusciva a girare. Oltretutto, montava da sé anche i video, e così il suo lavoro era completo. Sì, spesso i fotografi fanno fatica a passare al video: manca loro non tanto il concetto delle immagini in sequenza, ma il princìpio che il momento non è composto da un solo attimo, poi debbono capire le esigenze del montaggio, così diverso dall’editing di foto-


La scomparsa di Gianni Giansanti è stata ampiamente commemorata dalla stampa internazionale: un paio di eccezioni a parte, più e meglio di quanto abbia fatto quella nazionale. Qui sottolineiamo il link che gli è stato riservato sul sito di Time Magazine (www.time.com), con allestimento di un compendioso portfolio di immagini. A seguire, proponiamo le tre doppie pagine-testimonianza del Magazine del Corriere della Sera, con il quale Gianni Giansanti aveva stabilito un rapporto professionale privilegiato. In chiusura, la nota della Stampa, a firma di Marco Belpoliti, tra l’altro autore di un convincente saggio sulle fotografie del rapimento dell’onorevole Aldo Moro ( La foto di Moro; I sassi nottetempo, 2008). Gianni Giansanti 1956 - 2009

Una vita a scatti

Il fotografo che volò lontano DI

CHIARA MARIANI

G ianni Giansanti non c’è più. Romano, 52 anni, fotografo di fama internazionale, amico insostituibile. Ci piace ricordarlo com’era, prima che la malattia lo assalisse tre anni fa con violenza inaudita, quando irrompeva in redazione con l’impeto e la sicurezza giustificati dalla sua fisicità, intelligenza, intuizione, talento e dalla sua etica inscalfibile. Rifuggiva dal pettegolezzo, Gianni, e questo lo sapevano bene tutti coloro che si offrivano consapevolmente al suo obiettivo: Giovanni Paolo II, Ayrton Senna, lo stilista Valentino, Jacques Villeneuve, Italo Calvino, Mstislav Rostropovich, Renzo Piano... Può dormire sonni tranquilli Alessandro Del Piero. Con lui Gianni fece un intero libro, per questo fu invitato anche al suo matrimonio ma come promesso nessuno, neanche chi scrive e che ha sempre goduto del privilegio di condividere la sua produzione in anteprima, ha mai visto neppure uno scatto. Lui dei suoi personaggi si innamorava. Tre i World Press Photo vinti e nel 1993 fu l’America a incoronarlo Photographer of the year per il suo servizio sulla Somalia. Ci commuove pensare che la foto del ritrovamento di Aldo Moro la scattò all’età di 21 anni e che il libro che ritrae Wojtyla già pontefice in privato lo realizzò a 30. «Santità, voi siete un mecenate», disse candidamente al pontefice più fotogenico e mediatico della storia. Con questi scoop volò lontano e noi con lui. LO SCOOP DI ALDO MORO 1978: il ritrovamento del cadavere di Aldo Moro nel baule della Renault 4. La foto del ventunenne Gianni Giansanti fece il giro del mondo 24 | MAGAZINE

Gianni Giansanti 1956 - 2009

Il suo lavoro per il Magazine

Un uomo dalla luce giusta DI

ANTONIO D’ORRICO

«V uoi mettere la Garbatella con Trastevere? E questi sarebbero i veri bucatini alla gricia? Queste le vere puntarelle? Stasera ti porto io a Trastevere, a mangiare la vera gricia... Allora come foto di apertura che ne dici del bar dei Cesaroni? Però dobbiamo farla alle sei, sei e mezza di sera, perché è l’ora giusta ma dura un attimo. La farei come quella di Cinecittà, te la ricordi? Piperno lo sta scrivendo il nuovo romanzo? Ti ricordi quel giorno a casa sua? Che signore! No, guido io. Qui ci venivo in motoretta da ragazzino per una ragazzina, venivo da Monte Mario, chilometri. Ricordati, alle sei dobbiamo stare davanti ai Cesaroni. Lascia, tanto queste stampelle cadono sempre. Sono le bozze del mio libro, vediamole in macchina non mi va di portarle in giro: qui cominciano a tagliare il baule della Renault, ecco si vede per la prima volta Moro. Vedi quella testolina? È la moglie di Moro. Me ne sono accorto mesi dopo, guardando i negativi, che lei era venuta in via Fani appena dopo la strage... Le stampelle dove le ho messe? No, sto meglio, ne esco, vedrai, ne esco... Via che sono quasi lei sei, andiamo se no perdiamo la luce». Gianni Giansanti era il “mio” fotografo. L’ultimo servizio l’abbiamo fatto un mese fa alla Garbatella. Era sempre giusto, come la sua luce.

WOJTYLA PRIVATO 1986: papa Wojtyla fotografato da Giansanti nella sua stanza da letto in Vaticano. Ne nacque un libro di immagini memorabili sulla vita privata del Pontefice 26 | MAGAZINE

Gianni Giansanti 1956 - 2009

La sua agenzia francese

Il primo della classe DI

HUBERT HENROTTE

V oleva che tutto fosse sempre perfetto. Meticolosità nel proprio lavoro, rarissima in un fotografo; rispetto per gli altri e per gli impegni presi: era questa la linea di condotta che ha mantenuto fino alla fine. Per le sue immagini impeccabili, sia per l’inquadratura che per la luce, per le sue scelte, per il rigore e l’attenzione che metteva nel curare le proprie pubblicazioni è stato un uomo eccezionale nel mondo della fotografia. Ci lascia un’opera immensa che durerà nel tempo. Ma noi abbiamo perso un amico, una persona come non ne ho conosciute molte nella mia carriera e ancor meno fra i fotografi. Ed è stato eccezionale per il suo comportamento irreprensibile, la gentilezza, la generosità e l’onestà, così rari di questi tempi. Inoltre, era bello, intelligente, non fumava e non beveva. Perché ha meritato questa scomparsa, così improvvisa e insopportabile? Non riusciamo più a capire. Ho lavorato con lui all’agenzia Sygma per venticinque anni, in mezzo a centinaia di altri fotografi. Era il numero uno, di gran lunga il migliore ed è lui ad andarsene per primo. Allora grazie, Gianni, per tutto quello che ci hai donato.

I DANNATI DELLA SOMALIA 1993: la carestia in Somalia. L’America incoronò Gianni Giansanti photographer of the year per questo servizio sul paese africano martoriato dalla fame 28 | MAGAZINE

MAGAZINE


«L’insegnante di danza in una Accademia militare in Russia, 1990. Gianni adorava questa fotografia (io no): mi diceva che non capivo la bellezza di vedere i militari russi, che terrorizzavano il mondo, imparare a ballare sotto i ritratti di Marx e Lenin».

grafia; infine, sono completamente digiuni della combinazione audio. Certo, l’audio è importantissimo. Gianni diceva: «Ti puoi impegnare allo spasimo, ma se non hai una colonna sonora buona, non hai niente, il lavoro fatto è da buttare». Per lui l’audio non è stato la colonna sonora che puoi sempre aggiungere dopo; è proprio il parlato della gente o i suoni dei luoghi. Cioè, l’audio in ripresa. Facevamo sempre diverse prove microfoni prima di partire.

Seguendo Gianni sei diventata professionista: per esempio, ho visto la tua fotografia nel Giorno della Vita dell’Italia, pubblicata dal Magazine del Corriere della Sera. Come sarà adesso il tuo futuro? È ancora presto perché possa averne un’idea. Immagino che starò molto male quando tornerò a fotografare, consapevole che Gianni non c’è più. Mi piacerebbe continuare a lavorare senza rimanere paralizzata dall’idea della sua mancanza. Veramente non so, sono ancora molto triste. Ve-

UNA VITA A SCATTI. IL FOTOGRAFO CHE VOLÒ LONTANO

G

ianni Giansanti non c’è più. Romano, cinquantadue anni, fotografo di fama internazionale, amico insostituibile. Ci piace ricordarlo com’era, prima che la malattia lo assalisse, tre anni fa, con violenza inaudita, quando irrompeva in redazione con l’impeto e la sicurezza giustificati dalla sua fisicità, intelligenza, intuizione, talento e dalla sua etica inscalfibile. Rifuggiva dal pettegolezzo, Gianni, e questo lo sapevano bene tutti coloro che si offrivano consapevolmente al suo obiettivo: Giovanni Paolo II, Ayrton Senna, lo stilista Valentino, Jacques Villeneuve, Italo Calvino, Mstislav Rostropovich, Renzo Piano... Può dormire sonni tranquilli Alessandro Del Piero. Con lui, Gianni fece un intero libro; per questo fu invitato anche al suo matrimonio, ma -come promesso- nessuno, neanche chi scrive e

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che ha sempre goduto del privilegio di condividere la sua produzione in anteprima, ha mai visto neppure uno scatto. Lui, dei suoi personaggi si innamorava. Tre i World Press Photo vinti, e nel 1993 furono gli Stati Uniti a incoronarlo Photographer of the Year per il suo servizio sulla Somalia. Ci commuove pensare che la fotografia del ritrovamento di Aldo Moro la scattò all’età di ventuno anni e che il libro che ritrae Wojtyla già pontefice in privato lo realizzò a trenta. «Santità, voi siete un mecenate», disse candidamente al pontefice più fotogenico e mediatico della storia. Con questi scoop volò lontano e noi con lui. Chiara Mariani (photo editor del Magazine del Corriere della Sera)


dremo. Io sono cresciuta con lui. A ventitré anni ero una ragazzina viziata, e lui mi ha insegnato moltissimo. Mi ha insegnato a svolgere e affrontare ogni impegno con grande cura, perciò qualunque cosa farò, dal mandare una mail a scattare una fotografia, a registrare un video, poi a montarlo, a parlare con la gente, a produrre un servizio, dovrò cercare di farla sempre molto bene, come mi ha insegnato lui: tutto dovrà essere perfetto. Non sarà facile. Non vorrei essere accusato di conformismo, ma in questa ricerca di perfezionismo Gianni era poco “italiano”. Qui da noi prevale l’improvvisazione, magari anche geniale, ma sempre improvvisazione. Gianni aveva la duplice capacità di essere contemporaneamente geniale e preciso. Del resto, Hubert Henrotte ha rilevato che lui era il migliore dei suoi fotografi. Bene, Ada ti ringrazio, io avrei finito. Posso aggiungere ancora una cosa, che mi preme che si sappia. Tra le fotografie che sto per inviarti ce n’è una che non è importantissima. Si tratta di una Pasqua di Benedetto XVI. L’idea che Gianni fosse migliore è dimostrata anche dal fatto che in una situazione nella quale i fotografi erano confinati in postazioni fisse, cioè erano tutti nella stessa condizione, con gli stessi obiettivi, intuitivamente verrebbe da pensare che tutti avrebbero dovuto realizzare fotogra-

fie molto simili tra loro. In quelle situazioni Gianni era l’unico, ma veramente l’unico, che puntualmente realizzava inquadrature da doppia pagina. Magari si spostava di poco, oppure aspettava un momento che aveva già intuito. Ed era pronto per quello che aveva immaginato, senza mai stravolgere la realtà [a pagina 34]. Aveva un dono. Sì, riusciva a capire immediatamente cosa stesse per accadere, anche senza sapere niente. Per esempio, c’è una fotografia che ha realizzato per la mostra di Firenze, in occasione di Pitti Uomo, a Palazzo Pitti, Venti italiani che cambiano l’Italia, della quale avete riferito [FOTOgraphia, marzo 2009]. A un certo momento, siamo arrivati dal vicesindaco di Mercato San Severino, Giovanni Romano. Abbiamo parlato di tutt’altro, di raccolta differenziata. Poi Gianni ha scattato il ritratto del sindaco, piccolino, con una bandiera in mano, in una posa molto solenne. Successivamente, parlando con la gente, molti ci hanno chiesto: ma come ha fatto a capire il sindaco così in fretta, a capire che è una persona che crede molto al proprio ruolo, forse troppo? Lui riusciva immediatamente a capire come stavano le cose, senza aggiungere niente di artificiale. Soprattutto senza appesantire con effetti, soltanto perché qualcuno crede che “faccia artistico”. Intervista di Lello Piazza

«Reportage su Carlo Marcelletti a Baghdad. Questa fotografia mi piace molto, perché so che si è trattato di un reportage duro, difficile; bambini molto malati che venivano operati, molti sono morti. Eppure, in questa fotografia il dolore e la tragedia sono appena accennati, c’è tutta la delicatezza di Gianni nel trattare il dolore: molto rispetto, senza renderlo sensazionale».

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LÀ CONTRO IL SOLE Con perizia e abilità, il toscano Riccardo Di Nasso ha realizzato una fantastica fotografia della Stazione Spaziale Internazionale, che ruota attorno la Terra, in un suo passaggio davanti al Sole. Intervista-racconto della procedura, oltre che delle motivazioni di fondo

N

on avevo mai pensato che si potessero realizzare, da terra, immagini di un satellite artificiale orbitante, utilizzando strumenti ottici alla portata di tutti. Quando ho scoperto le fotografie della Stazione Spaziale che ruota intorno al nostro pianeta, realizzate da Riccardo Di Nasso, sono rimasto profondamente colpito. Oltretutto, nelle fotografie si scorge “distintamente” lo Space Shuttle Atlantis lì attraccato. Grazie a Giuseppe (Beppe) Maio, arcinoto esperto Nital/Nikon della fotografia digitale (e di altro ancora), ho ottenuto le coordinate telefoniche di Riccardo Di Nasso e l’ho chiamato, per farmi spiega-

re come diavolo fosse riuscito a realizzare quegli scatti. «Da molti anni sognavo questa fotografia -mi risponde-, e continuavo a pensarci. Mi interesso di fotografia astronomica, e non solo di quella, da lunga data. Nell’estate 2004 sono riuscito a fotografare Venere nel suo passaggio davanti al Sole, utilizzando una Coolpix 5700 montata su un piccolo telescopio [a pagina 43]. È stata un’esperienza talmente emozionante, da far maturare l’idea e ipotesi di realizzare altre fotografie di oggetti la cui traiettoria attraversasse lo spazio tra la Terra e il Sole. Non solo corpi celesti, pensai, ma anche satelliti artificiali, costruiti dall’uomo, magari con equipaggio a bordo, come la Stazione Spaziale Internazionale».

Riccardo Di Nasso ha realizzato questa fotografia del passaggio della Stazione Spaziale Internazionale davanti al Sole il 16 febbraio 2008 (alla ISS è ancorato lo Space Shuttle Atlantis): UT / Universal Time 11:11:58,6; N 43° 56’ 39,7”, E 10° 21’ 23,4”. Nikon D300 con Sky-Watcher 100 ED Pro Series 900mm f/9.

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DA WIKIPEDIA

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iportiamo da Wikipedia, il testo di presentazione e i dati tecnici di identificazione della Stazione Spaziale Internazionale. In questo ordine. La Stazione Spaziale Internazionale (International Space Station o ISS) rappresenta un avamposto permanente della presenza umana nello spazio; è abitata continuativamente dal 2 novembre 2000, da almeno due astronauti. Da allora, l’equipaggio è stato sostituito più volte, con cadenza semestrale. Segue i programmi Skylab (statunitense) e Mir (russo). La ISS è un progetto congiunto di cinque agenzie spaziali, canadese (CSA), europea (ESA), giapponese (JAXA, già NASDA), russa (RKA) e statunitense (NASA). L’Agência Espacial Brasileira (AEB Brasile) partecipa tramite un contratto separato con la NASA. Anche l’Agenzia Spaziale Italiana, similmente, partecipa tramite un contratto separato per diverse attività, pur essendo coinvolta anche come membro ESA, della quale l’Italia è un membro fondatore. La Stazione Spaziale si trova in una orbita attorno alla Terra a un’altitudine di circa 350km, in quella che viene normalmente definita LEO (Low Earth Orbit, orbita terrestre bassa). L’altezza dell’orbita può variare di qualche chilometro a seconda della resistenza atmosferica. L’orbita ha un periodo di circa novantadue minuti. È servita principalmente dagli Space Shuttle, dalla Sojuz, dalla Progress, e dall’ATV, il cui primo aggancio è avvenuto il 3 aprile 2008. Al momento, la Stazione ha la capacità di ospitare un equipaggio di tre persone; la recente missione Shuttle STS-126 ha trasportato l’equipaggiamento per ospitare sei persone. Fino all’Expedition 13, tutti i membri (permanenti) dell’equipaggio provenivano dal programma spaziale americano o russo. Con l’Expedition 13 è salito a bordo della Stazione Thomas Reiter, astronauta ESA proveniente dalla Germania. L’ISS è stata visitata da molti altri astronauti, un certo numero dei quali di altri paesi (e da due turisti spaziali).

Equipaggio: tre persone fisse dal 21 luglio 2006 Perigeo: 352,8km Apogeo: 354,2km Periodo orbitale: 91,61 minuti Inclinazione: 51,64 gradi Orbite al giorno: 15,72 Altitudine persa al giorno: 100m circa Velocità media: 27.685,7km/h Massa: 284.402kg Massa del combustibile: 4076kg circa Volume abitabile: 358 metri cubi circa Temperatura: 24,8 gradi circa Giorni in orbita (a fine marzo): 3650 Rivoluzioni (a fine marzo): 57.309 Distanza percorsa (a fine marzo): 2.305.747.382km circa

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Siete in molti a coltivare un desiderio fotografico tanto particolare? «Navigando su Internet ho scoperto che, dal 2001, alcuni astro-imager, non molti per la verità, si erano lanciati nel tentativo di realizzare scatti della Stazione di passaggio davanti al Sole, ma anche davanti alla Luna. Potete immaginarvi come e quanto non sia un’impresa semplice. Davanti al Sole, la Stazione, nella propria orbita, rimane solo ottanta centesimi di secondo e ancora più breve è il suo passaggio davanti alla Luna. Infatti, la Stazione viaggia a una velocità di circa 28.000km l’ora! «La maggior parte dei miei concorrenti (colleghi?) ha utilizzato una webcam o una videocamera da venti/trenta fotogrammi al secondo. Hanno usato queste attrezzature per ottenere più fotogrammi del soggetto. Infatti, se si pensa alla frequenza standard di una videocamera, pari a ventiquattro fotogrammi al secondo (cioè circa uno ogni quattro centesimi di secondo), l’oggetto di passaggio potrebbe potenzialmente apparire su venti fotogrammi. «Però, con questa tecnica si ottengono immagini di bassa risoluzione, quella del sensore della videocamera. «Siccome a me piacciono le complicazioni, ho provato con una macchina fotografica digitale, con la quale è sì più difficile centrare il soggetto, ma la qualità delle fotografie ottenute è incomparabilmente migliore». Immagino che non sia affatto facile capire in quale istante e a quale latitudine si può verificare l’incontro con il soggetto. Senza contare, poi, che il momento deve essere di giorno e non ci devono essere nubi. E poi, come si fa a tracciare esattamente il transito? «Sulla Rete esistono tanti programmi per questo scopo. Oltre a quello che si trova sul sito ufficiale della NASA (www.nasa.com), consiglio quello molto potente e preciso di www.calsky.com, che è il vero riferimento per tutti i cacciatori di transiti. «Al programma si forniscono le coordinate del sito osservativo che si vuole, e si aspetta che venga inviata una email con tutte le effemeridi del transito: giorno, ora, posizione Gps, distanza dal sito osservativo. Vengono passati anche tutti i dati relativi alla Stazione Spaziale e si visualizza una finestra nella quale, su una mappa, è tracciato il percorso lungo il quale sarà possibile vedere il transito della Stazione davanti al Sole. «A me sarebbe andata bene anche la segnalazione di un luogo non molto vicino a casa, visto e considerato che ho sempre percorso tanta strada per fotografare eclissi, altri transiti, aurore e via dicendo». Nonostante questo aiuto, mi immagino che non sia semplice portare a successo tutta l’operazione... «No, certo. Tutto deve essere preventivamente provato e riprovato con cura e attenzione. «I miei primi tentativi sono stati inconcluden-


L’ATTREZZATURA DI RICCARDO DI NASSO

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eflex Nikon D300, con scatto remoto Nikon MC-36, dotata di tubo ottico rifrattore apocromatico Sky-Watcher 100ED Pro Series diametro 100mm, con focale 900mm f/9, che con la D300 si convertono in 1350mm per il sensore di acquisizione di dimensioni inferiori al fotogramma tradizionale 24x36mm. Con questa configurazione, si ha tutto il circolo solare perfettamente rappresentato nel fotogramma, che lo registra con un apposito filtro solare autocostruito [qui sotto, a destra]. Riccardo Di Nasso ha utilizzato un foglio di alluminio specifico della ditta tedesca Baader Planetarium (www.baader-planetarium.com), assai nota nell’ambito dell’astronomia: il migliore, per resistenza meccanica e resa fotografica. Il foglio è stato collocato, a sandwich, tra due cartoncini neri precedentemente sagomati, e applicato a un tubo, sempre autocostruito con il solito cartoncino ne-

ro, collocato in testa allo strumento, come un cappuccio. Il raccordo al telescopio è un comune anello T2 per Nikon, di semplice reperimento, al quale è stato applicato un ulteriore raccordo in alluminio a doppia filettatura: T2, da una parte, e per strumenti con foro da due pollici, dall’altra. Come già precisato, questa configurazione equivale a una focale di 1350mm, ovviamente priva di autofocus. Anche se potrebbe essere possibile scattare con il solo treppiedi, la elevata velocità della rotazione terrestre obbligherebbe a ruotare adeguatamente tutto lo strumento per inseguire il movimento del Sole. Per questo, è assolutamente preferibile una montatura dedicata (un trascinatore stellare), orientata perfettamente e sincronizzata con il movimento del Sole, in modo che l’astro rimanga sempre nel mirino.

ti: una volta mancai il punto di ripresa, un’altra, per un banale errore nel sistemare gli orologi, arrivai in ritardo sull’ora stabilita e, infine, un paio di volte commisi altri errori di messa a fuoco e sequenza di scatto. «Perciò, nei giorni che hanno preceduto l’incontro decisivo ho provato tutto ogni quattro ore. Questo perché attraccata alla Stazione c’era lo Space Shuttle Atlantis, che con la sua massa provocava di continuo piccoli cambiamenti nell’orbita, anche se solo di pochi gradi. «Ho visto cambiare più volte il corridoio nel quale sarebbe stato visibile il transito. Addirittura, si spostava anche l’orario del passaggio. Ogni giorno, ho controllato tutte le informazioni disponibili, la fascia in cui si vede il transito (Centerline), l’orario (UT / Universal Time), la mappa del cielo centrata sul transito (Closet Point) e la mappa topografica (Map) di come arrivare al luogo giusto a terra, aiutandomi con il Gps e Google Earth. «Il momento tanto atteso si è verificato sabato mattina 16 febbraio 2008. «È ancora mattina presto quando ricontrollo tutto per l’ennesima volta. Controllo ancora alle dieci e trenta. Ormai mi rimane poco tempo, meno di un’ora per raggiungere il luogo della ripresa, montare tutto e scattare. Salto in macchina. Osservo il vento, che sta aumentando di intensità: una preoccupazione in più, perché avrebbero potuto cambiare le condizioni atmosferiche, che per il momento erano buone. Tra l’altro, il vento avrebbe potuto causare problemi alla stabilità del lungo strumento ottico che stavo per usare. Puoi immaginarti la tensione.

«A dieci metri dal punto stabilito, una piccolissima piazzola sulle sponde del lago di Massaciuccoli [in provincia di Lucca, vicino all’omonima frazione del comune di Massarosa], inizio a rallentare l’automobile, senza perdere di vista, con la coda dell’occhio, l’orologio: mancano undici minuti, e devo sistemare tutto! «Anzitutto, piazzo un orologio con grosse cifre ben visibili, che segnalano l’inesorabile esaurirsi del tempo che mi rimane. Mentre sistemo il supporto, le batterie, il telescopio con la macchina fotografica, si avvicinano dei cani del vicinato che iniziano ad abbaiare. Un anziano, poco distante,

(da sinistra) Collegamento in alluminio tra l’anello T2 e il tubo astronomico. Il telescopio utilizzato da Riccardo Di Nasso. La Nikon D300 montata sul telescopio. Il filtro solare autocostruito da Riccardo Di Nasso.

Con una Nikon Coolpix 5700, montata su un piccolo telescopio, nell’estate 2004 Riccardo Di Nasso ha fotografato Venere nel suo passaggio davanti al Sole.

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Negli ultimi anni, Nikon è stata presente a bordo della Stazione Spaziale Internazionale, in dotazione agli astronauti che si sono alternati a bordo.

ASTRO-IMAGER

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iccardo Di Nasso nasce a Pisa, il 5 agosto 1965. La sua passione per il viaggio lo porta in giro per l’Europa già all’età di sedici anni. Più tardi, trascorre lunghi soggiorni in America Latina, Giappone, Africa, e Stati Uniti. Vive e lavora per molti mesi a New York; poi torna in Italia. La sua voglia di evadere non lo abbandona mai. La sua passione, l’esperienza in campo informatico e la sua forte curiosità per le nuove tecnologie lo spingono a sperimentare e sperimentarsi nel campo dell’immagine. Inizia così a dedicarsi alla fotografia digitale e alla computer art. Vince diversi concorsi fotografici e artistici, come la Biennale dei Giovani Artisti e l’International Air Brush Show. Espone in diverse città italiane, sia in collettive, sia in mostre personali che suscitano notevole interesse. Tra i suoi lavori ricordiamo Digitratti, Forks, Impercettibili Passati, Il Teatro dell’essenziale, Manipolazioni, Extasy e G8 quel sabato. Scrive articoli per riviste del settore e collabora con Nital/Nikon. Da poco, si è inaugurato il sito www.astro.riccardodinasso.it. Segnaliamo la prossima mostra fotografica personale, Pisa sotto le Stelle, nel quadro delle celebrazioni per l’Anno Galileiano: Cine Foto Ottica Giovanni Allegrini, Borgo stretto 49, 46100 Pisa; dal 6 al 27 giugno.

L’astronauta Jeffrey N. Williams durante l’Expedition 13, circondato da reflex Nikon. Ancora Jeffrey N. Williams, con reflex Nikon e 800mm.

Il cosmonauta russo Yuri Ivanovich Malenchenko e due Nikon sistemate a parete.

La caldera di Dendi, in Etiopia, fotografata dalla Stazione Spaziale Internazionale con l’800mm.

Fotografia scattata il 28 ottobre 2008, durante l’Expedition 18, con Nikon D2x e 400mm.

Fotografia scattata durante l’Expedition 17, con Nikon D2x e 28mm.

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mi grida: “bimbo, oh che combini con quel coso? un si vedono mia le stelle di giorno...”. «Non gli do ascolto: sono molto concentrato su quello che devo fare. Per mancanza di tempo, installo la montatura senza staffa di stabilizzazione, non metto nemmeno in bolla, faccio l’allineamento al nord a occhio, niente cercatore, puntamento manuale, tubo ottico, filtro solare, raccordo, scatto remoto e Nikon D300. «Nell’ultimo minuto, sistemo la messa a fuoco (non ci sono macchie solari, quindi cerco il fuoco sui bordi del Sole) e faccio due scatti di prova. Incrocio le dita perché temo il micromosso. «Quando mancano dieci secondi, stranamente la tensione mi abbandona e mi preparo a godere del brevissimo spettacolo. A quel punto, faccio partire la mia raffica di scatti. In meno di un secondo, vedo la Stazione Spaziale con accanto l’Altantis sfrecciare a circa 28.000 km orari attraverso la diagonale del Sole». Bravò, come dicono i francesi, una fotografia assolutamente eccezionale! Lello Piazza



STORYVILLE A

ssolutamente e inviolabilmente sconosciuto in vita, E.J. Bellocq (Ernest James Bellocq o John Ernest Joseph Bellocq?, 1873-1949) deve la propria acquisita notorietà a Lee Friedlander, noto e celebrato fotografo americano, esponente di spicco della corrente della nuova oggettività affermatasi a partire dagli anni Sessanta: prima negli Stati Uniti e poi in tutto il mondo. Proprio Lee Friedlander scoprì il lavoro di E.J. Bellocq, e nel 1966 acquistò ottantanove lastre in vetro di ritratti di prostitute di New Orleans, databili attorno al 1912, e allestì la rassegna retrospettiva intitolata Storyville Portraits, esposta al Museum of Modern Art, di New York, nel 1970. Per lungo tempo, fino al 1996 (stiamo per vedere), il ben allestito catalogo realizzato in quella occasione è stato l’unico libro che consegnava E.J. Bellocq alla storia della fotografia: sulle sue pagine, trentaquattro ritratti erano preceduti da un eccellente, quanto curioso, testo critico, che val la pena sottolineare ancora (soprattutto oggi, alla luce della sua edizione italiana, alla quale stiamo per approdare). Immediatamente successiva a una prefazione dello stesso Lee Friedlander e a una nota del curatore John Szarkowski, una discussione improbabile ma possibile precedeva la sequenza delle tavole. Alla maniera delle indimenticate Interviste impossibili radiofoniche dell’inizio degli anni Settanta, questo testo libero ipotizzò un dibattito che non ha mai avuto luogo nella realtà. Lee

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Abscondita ha pubblicato una coraggiosa, quanto straordinaria, edizione italiana della monografia di E.J. Bellocq, che rappresenta uno degli autentici capisaldi della storia della fotografia e della sua cultura. Cinquantadue ritratti di prostitute del quartiere a luce rossa di New Orleans, realizzati all’inizio del Novecento, sono introdotti da un appassionante testo di Susan Sontag. Ribadiamo e confermiamo: parole e immagini fondamentali per la conoscenza individuale del linguaggio espressivo della fotografia


PORTRAITS Friedlander ha immaginato di parlare con personaggi diversi, completamente slegati tra loro, ma prossimi alla parabola esistenziale di E.J. Bellocq: due fotografi di New Orleans (Dan Leyrer e Joe Sanarens, quest’ultimo anche suonatore di banjo), uno scrittore (Al Rose), due suonatori di jazz (il cornettista Johnny Wiggs e il musicista e storico del jazz Bill Russell) e una prostituta dell’inizio del secolo (Adele, soggetto di molti ritratti di E.J. Bellocq) dicono la loro sull’argomento. I materiali oggettivi sui quali Lee Friedlander ha costruito l’ipotetica discussione sono stati ampiamente manipolati, mescolati e cambiati nella propria sequenza originaria. In ogni caso, sono state rispettate le intenzioni e le opinioni dei partecipanti. Del resto, Lee Friedlander non è certo all’oscuro del sottile legame che unisce ogni autore alle proprie immagini. Tant’è che quando parla della vicenda di E.J. Bellocq precisa anche l’attenzione con la quale lui stesso ha condotto l’intera operazione.

NOTE A MARGINE Leggiamo dalla prefazione a Storyville Portraits, del 1970, nella traduzione di Giulia Alfieri della recente edizione italiana, pubblicata da Abscondita, alla quale alla fine approderemo. «Larry Borenstein possiede un infallibile istinto che lo porta a circondarsi di cose rare e meravigliose. Le lastre di Bellocq erano uno dei suoi tesori, e quella notte stessa [nel 1958], dopo che i suonatori se ne erano andati, Larry me le mostrò. [...]

«Nel 1966, decisi di chiedere a Larry se fosse disposto a vendermi le lastre o a prestarmele per realizzarne delle buone stampe. Accettò di venderle, e quando tornai a casa incominciai il lavoro di stampa. «Scoprii ben presto che non potevo usare il mio consueto metodo, perché le lastre non erano compatibili con la carta al bromuro. La gamma tonale era troppo limitata persino con la gradazione più morbida. Alcune ricerche mi condussero alla scoperta di una tecnica di stampa molto diffusa al volgere del secolo, che impiegava la carta aristotipica, che possiede un’intrinseca qualità autocoprente [tecnica di stampa definita P.O.P. (Printing Out Paper), qualificata da una caratteristica di automascheratura]. Con questo metodo le lastre venivano esposte [a contatto], al di sopra della carta aristotipica, alla luce diretta del sole per un periodo di tempo variabile da tre ore a sette giorni, in base alla densità della lastra e alla qualità della luce. Poi, la carta veniva messa a bagno in una soluzione di cloruro d’oro. Il fissaggio e il lavaggio erano fatti nel modo consueto, ma con estrema cautela, perché l’emulsione nell’aristotipia è particolarmente delicata. «Questo metodo, perseguito con pazienza e costanza, produsse una serie completa di ottantanove stampe che corrispondevano alla mia idea di come avrebbero dovuto essere. Poiché non avevo mai visto una stampa fatta dallo stesso Bellocq, dovetti fidarmi del mio gusto, sperando di non tradire le sue intenzioni».

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SULLO SCHERMO Fotografo commerciale che ha lavorato a New Orleans a cavallo della Prima guerra mondiale, E.J. Bellocq ha probabilmente esteso la propria intera parabola professionale tra il 1895 e i primi anni Quaranta del Novecento, fotografando soprattutto motori e turbine per navi. Le ottantanove lastre di ritratti di prostitute del quartiere di Storyville furono rinvenute nel suo studio dopo la sua morte. Come appena annotato, sono state datate al 1912 circa. Per quanto è dato sapere, questo fondo costituisce l’unico frammento del suo lavoro che sia sopravvissuto. Ed è il materiale visivo sul quale il regista francese Louis Malle si è basato per co-

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E.J. Bellocq. Storyville Portraits. Riproduzioni dalle lastre originali di Lee Friedlander; a cura di John Szarkowski. Introduzione di Susan Sontag; traduzione di Giulia Alfieri. Abscondita, 2009 (via Manin 13, 20121 Milano); 52 fotografie; 104 pagine 20x28,5cm; 24,00 euro.


struire la storia raccontata in Pretty Baby, suo primo film americano, del 1978. La vicenda è ambientata appunto a Storyville, quartiere a luce rossa di New Orleans; e tutto ruota attorno la figura di una dodicenne Brooke Shields (Violet), la cui inconsistenza recitativa è seconda solo alla povertà del film. Più efficace è la presenza sullo schermo di Susan Sarandon, che interpreta una delle prostitute che vengono fotografate da un evanescente Bellocq: interpretato da un Keith Carradine uguale a se stesso (come sempre), ma questa volta in ordine con le esigenze di copione, al quale serviva una figura eterea che facesse da spalla alla ragazzina offerta al voyeurismo popolare (il bel Keith Carradine è comunque fisicamente diverso da E.J. Bellocq, descritto da chi l’ha conosciuto come un “nano idrocefalo, ignorato dalla gente”). Per quanto le fotografie originali di E.J. Bellocq siano risultate utili alla scenografia, bisogna annotare che la sceneggiatura di Pretty Baby, firmata da Polly Platt, ha maggiori debiti di riconoscenza con le Memorie di una maîtresse americana, di Nell Kimball (pubblicate in Italia da Adelphi). I dialoghi del film e il sapore che condisce tutte le piccole storie di bordello sembrano uscire direttamente dalle pagine del libro. Ma a noi, ancora in anticipo sull’edizione libraria italiana alla quale stiamo avvicinandoci, interessa soprattutto la figura del fotografo. E.J. Bellocq entra in scena nelle prime sequenze del film, del quale attraversa il racconto complessivo; in successione, il fotografo parla prima con la tenutaria di un bordello, Mama Mosebery (l’attrice Mae Mercer), e poi con la prostituta Hattie (Susan Sarandon). «Mi chiamo Bellocq. Sto cercando madame Livingstone; mi può ricevere?...». «Sì accomodi pure, monsieur Bellocq. [...] Santo cielo, lei è nel luogo sbagliato monsieur. La nostra attività non è comperare...». «Madame, forse conosce il mio nome... Faccio fotografie, nel quartiere, da molto tempo».

Il film Pretty Baby (di Louis Malle; Usa, 1978) si ispira alle fotografie scattate da E.J. Bellocq nei bordelli di New Orleans, nel 1912 circa. Il fotografo è interpretato da Keith Carradine. Susan Sarandon è la prostituta Hattie; l’esordiente Brooke Shields la bambina Violet.

«[...] Solo che non è l’ora giusta. Le mie ragazze dormono tutte a quest’ora. Lavorano fino a tardi, sa. Sono le dieci del mattino, monsieur...». «Ho bisogno della luce del sole. Questa è l’ora migliore per me... Quella signorina lì, andrebbe bene». «Io gestisco un buon bordello all’antica, monsieur! E lei è troppo scalcagnato per me! Fotografie?... Di che diavolo di roba si tratta?... Io non ricevo gente dai gusti strani. Se cerca qualcosa di diverso, le assicuro che può trovarne fin che ne vuole, qui a New Orleans». «Madame, la prego, non mi parli di New Orleans! Sono vissuto qui tutta la vita!». «Le domando scusa, monsieur». «Sono disposto a pagare la sua perdita di tempo». «Gradisce un bicchierino di assenzio?». «Madame, la luce... Vorrei approfittarne...». «Ah, già, la luce; avevo dimenticato. Vada pure dalla nostra Hattie. È molto brava, sa; farà tutto quello che lei vorrà». [...] «Dica, vuole che mi spogli adesso?...». «No, no... Lei mi piace così com’è». «Mi vuole così?... Spettinata, nemmeno lavata?!...». «Sì, sì. Grazie». (continua a pagina 52)

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CON PINO BERTELLI su, di Pino Bertelli, del dicembre 2005, appunto dedicato a ErDnestallo Sguardo James Bellocq (o John Ernest Joseph Bellocq, secondo altre fonti). elle storie della fotografia, anche le più accreditate (come quella di Beaumont Neper esempio), non si parla di E.J. Bellocq (Ernest James), e anche nella sagNgistica,whall, specie quella italiana, questo bastardo dell’immagine denudata non è tenuto in grande considerazione. Ci basta l’amorevolezza e la lungimiranza con la quale ne scrive Susan Sontag [introduzione a Bellocq. Photographs from Storyville, the Red Light District of New Orleans; Jonathan Cape, 1996]. Le notizie su Bellocq sono parche, quando non sono infondate. Gli addetti ai lavori lo citano, ma nessuno (o quasi) lo ama. Noi lo stimiamo senza riserve. Ci piacciano quelle puttane che fotografava, con istintivo senso del piacere, a New Orleans, nel 1912: sono riprese in grande pregio estetico; sembrano madri di famiglia, quanto le madri di Brassaï o di Diane Arbus appaiono puttane. «La tua fotografia è, per chi sa veramente vederla, una registrazione della tua vita», diceva Paul Strand. Ogni fotografia è un “autoritratto”, dunque. La fotografia non solo contiene il respiro di un’epoca, ma ne dà anche un’interpretazione.

DELLA FOTOGRAFIA DI BORDELLO A partire da come si affabula una fotografia, si comprende da che parte stai. Infatti, fotografare vuol dire appropriarsi di qualcosa che sta di fronte alla macchina fotografica e stabilire una relazione con quanto è scippato al reale. Si può amare il soggetto trattato (come Bellocq) o usarlo come monito o propaganda di repressione sociale (come i corpi ammazzati dei comunardi, allineati nelle casse di legno, in “bella posa” per i fotografi della polizia parigina o per le “carte de visite” di André Adolphe Eugène Disdéri, nel 1871). Il fotografo custodisce lo sguardo, come il muto la parola; l’uno e l’altro sono depositari dell’invisibile, dell’indicibile, custodi e passatori del vero. Diciamolo subito: la scrittura fotografica di Bellocq non ha niente a che fare con altre “visioni del corpo”, catechizzato nel “nudo d’artista” alla maniera di Alice Boughton, Clarence H. White, Émile Joachim Costant Puyo, Alfred Stieglitz, Anne W. Brigman o Alice Austen. Né, tantomeno, Bellocq è affascinato dalle abbacinazioni (non importa se omosessuali) del “segno” che compongono l’elencario foto-

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grafico di Wilhelm von Gloeden, Thomas Eakins, Gustave Le Gray o Julien Vallou De Villeneuve. Questi sono piccoli esercizi di estetica “nobiliare” o, quantomeno, operazioni simboliche (molto citate, sovente a sproposito, o cucite addosso all’artista da critici, galleristi, docenti universitari), che “usano” la fotografia come mimesi di un’arte che è puro kitsch o falsificazione di una realtà violata o predata o semplicemente estetizzante e quindi inoffensiva, che ha molto a che vedere con la propria sessualità e poco riguarda la fotografia. La fotografia di bordello ha maestri indiscussi, qualche volta illustri, come insegnano la Storia della fotografia pornografica, di Ando Gilardi [Bruno Mondadori, 2002], o Le lacrime di Eros, di Georges Bataille [Bollati Boringhieri, 2004]. Le immagini pornografiche di autori anonimi, quelle della fotografia giudiziaria o i ritratti di puttane con i cazzi in bocca che sorridono ai propri clienti mostrano spesso una cura, un’attenzione, una pratica dello sguardo che “buca” l’immediato e il consueto. Ci sono dei dagherrotipi di nudo ripresi a metà dell’Ottocento rimasti insuperati. La donna (con la maschera o senza) assume spesso un atteggiamento altero, quasi a sfidare, con il proprio corpo spogliato o profanato, le convenzioni sociali. Il ritratto di una ragazzina prostituta (Marietta, detta “del Frate”), firmato da Ludovico Tuminello alla metà dell’Ottocento (che possiamo vedere nella Storia della fotografia pornografica, di Ando Gilardi), è un capolavoro assoluto della fotografia di bordello, e sotto un certo taglio costruttivo, plastico, scritturale resta tra le figurazioni più notevoli della ritrattistica d’ogni tempo. IL BASTARDO DELLA FOTOGRAFIA E.J. Bellocq è nato (a New York, forse) nel 1873 ed è scomparso nel 1949, lasciando dietro di sé una scia di mistero e meno di cento fotografie che lo alzano a maestro dell’immagine nuda, ma non profeta (come viene di solito letto) di quell’elementare versione pornografica consumata ovunque, perfino nelle case del proletariato che gioca in Borsa insieme ai propri padroni (i ricavi, le debite conoscenze e ladrerie non sono le stesse, s’intende). Non è che la fotografia pornografica ci stizza, né va a solleticare i nostri pruriti sessuali insoddisfatti; l’iconologia pornografica di banale “cattività” ci annoia quanto il discorso sui piani finanziari di un primo ministro in parlamento. L’erotismo che brucia il cuore e muove le passioni è un’altra cosa, come la verità


CON PINO BERTELLI politica tradita o camuffata s’incendia nelle pieghe dell’esistenza o lì muore. Il salotto immaginifico del (divin) marchese de Sade [Donathien-Alphonse-François], Il giardino di Afrodite di Franz von Bayros, le piccole scene amorose di Pierre Louys, i tropici osceni di Henry Miller o le bambine incantate di Lewis Carroll ci commuovono fino alle lacrime o al sorriso più complice. In principio era l’amore, poi soltanto i limiti trasgrediti secondo i codici e i saperi dei valori permessi. Il trionfo della seduzione fa parte delle soluzioni terminali (come la merce, i sacramenti o l’olocausto) e nei godimenti subliminali che invoca c’è l’eccedenza della produzione. La congiura dei segni è completa. L’oscenità di tutto ciò che è consumabile in fretta e a poco prezzo marca anche un avvenire senza limiti, dove tutto è possibile perché niente è vero. Di Bellocq, il bastardo della fotografia. Pare abbia lavorato dal 1895 al 1940, in qualità di fotografo commerciale. Non c’importa molto se poi questo sia vero, quello che conta è il pacco di lastre fotografiche che ha lasciato a qualcuno e poi sono finite nelle mani di Larry Borenstein. Nel 1966, il fotografo Lee Friedlander acquista le immagini di Bellocq. Sono ottantanove ritratti di prostitute di Storyville, il quartiere a luce rossa di New Orleans. Lee Friedlander le stampa con particolare attenzione per una mostra organizzata dal MoMA di New York, nel 1970, ed è subito poesia. La bellezza di molte di queste icone del peccato è imperdonabile. Qui il godimento visuale non è un cerimoniale finemente estetico soltanto, è un’energia etica che cerca il proprio fine nella regalità dell’anima maculata da un quotidiano non proprio bello, forse. A leggere oltre la posa -la ragazza quasi accucciata su una specie di amaca, che guarda con malinconia il fotografo, lasciando la propria nudità ad esprimere la fanciullezza smarrita; o quella con la maschera nera e le calze nere che si abbandona sul divano, in una visione erotica senza ritegni; o, più ancora, quella di bianco vestita, avvolta in una pelliccia bianca e seduta su uno sgabello come una regina della strada- si colgono i ricami, le trame, i canti di favole sessuali liberate di ogni orpello contrattuale. Detto in altro modo, la risolutezza dell’inquadratura, la sapienza della luce o la tenerezza palpabile del fotografo sono specchio di un momento di grazia, che lascia negli occhi di chi vuole la bellezza estrema dell’opera d’arte. La scrittura fotografica di Bellocq dispiega lo straordinario in ogni ritratto e il risultato tecnico ed espressivo è inusuale anche ai tempi nostri. Bellocq si avvicina alle ragazze discinte con insolente semplicità e mostra anche un certo coinvolgimento con i

soggetti ripresi. C’è, però, accoglienza, comprensione, partecipazione e non sappiamo, o forse non c’importa sapere, se il fotografo era non solo il confidente, l’artista o il cliente di quelle puttane che fissa sulle lastre in modo sublime. Il suo fare-fotografia va al di là del commercio o della gratitudine sessuale, e si colloca fuori dalle sollecitazioni voyeuristiche, desideranti o pattuite che gli vengono attribuite. Bellocq è un nichilista morale o filosofo di un paganesimo da scomunica, in aperto contrasto con la dittatura dell’ordinario. In margine all’intolleranza o all’indifferenza generalizzata, elabora una ritrattistica fotografica di alto valore esegetico, e a leggere in profondità le sue belle puttane si riconosce la gaia scienza di liberazione di un immaginale che è cruda verità e incredibile amore per la “diversità” o, più semplicemente, per vite di donne perdute che restituiscono amore a uomini più perduti di loro. L’opera di un fotografo ha senso solo se è fatta “contro” l’impero delle regole. Il conformismo uccide ogni forma di creatività e finisce per annientare la poesia, come la vita di un uomo. Le fotografie seduttive di Bellocq distruggono ogni ordine divino e fanno dei corpi desideranti la fine di tutte le ortodossie e i clericalismi imposti dalla formazione spirituale dei legittimi poteri. «L’interrogazione crea. La risposta uccide» (Edmond Jabès). La Fotografia è morta nel mercimonio e per la risposta servente, alla quale si è genuflessa per trenta denari e un posto in società. La fotografia bastarda di Bellocq non vuole essere tollerata, ma sostenuta o rifiutata. Si tollera quello che si detesta o non si ama. Quando lo si considera pericoloso alla morale corrente, si avvolge nel silenzio paludato, si celebra nei chiostri degli affari o s’incarta nella museografia del vuoto a perdere. Fare di un filosofo un bandito è tipico delle chiese, delle sinagoghe o dei governi occidentali; i mercanti e i cerimonieri in ogni cosa vengono dopo. Il tempo della fotografia sta tutto in uno sguardo, e in questo senso la fotografia di Bellocq si spalanca sul tramonto degli oracoli e mostra che c’è grandezza solo nella poetica dell’oblio. Conquistati dalla bellezza dell’opera di Bellocq, vogliamo ricordare ancora che c’è un tempo per seminare e un tempo per falciare. Lo stesso tempo della Fotografia nella quale respira l’eternità. Pino Bertelli (30 volte settembre 2005)

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(continua da pagina 49)

EDIZIONE ITALIANA All’inizio dell’anno, è arrivata in libreria l’edizione italiana di Storyville Portraits, di E.J. Bellocq, che l’editore Abscondita ha pubblicato nella propria collana illustrata Mnemosyne (secondo titolo, dopo l’avvio con Frida Kahlo. Biografia per immagini, dello scorso autunno). Nonostante il titolo, che ripete quello statunitense del 1970, come già rilevato realizzato dal Museum of Modern Art, di New York, la monografia Abscondita si riferisce a una altra edizione. Ovvero, riprende i contenuti della raccolta Bellocq. Photographs from Storyville, the Red Light District of New Orleans, realizzata nel 1996 dal londinese Jonathan Cape. Dall’originario Storyville Portraits è stata ereditata soltanto la forma editoriale in brossura, diversa dalla preziosità della confezione cartonata con sovraccoperta dell’elegante e costosa pubblicazione inglese (improponibile al pubblico italiano: già pubblicare E.J. Bellocq è atto di puro coraggio... quindi, non esageriamo!). Comunque, la monografia italiana deriva da quella inglese: cinquantadue ritratti (contro i trentaquattro pubblicati dal MoMA), prefazione di Lee Friedlander (del 1970), nota di John Szarkowski e discussione a sette, con Lee Friedlander a fare da moderatore (in questa edizione, pubblicata dopo la sequenza delle fotografie). Quindi, dulcis in fundo, Storyville Portraits di Abscondita offre e propone anche l’approfondita introduzione di Susan Sontag, che fu scritta proprio per l’edizione inglese di origine. Per quanto serva sottolinearlo una volta ancora, e una di più, oltre le tante già riportate sulle nostre pagine, è proprio sui e con i

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più concentrati testi sulla fotografia che ciascuno di noi può educare la propria competenza e conoscenza dei meandri dell’immagine. E i testi di Susan Sontag sono sempre illuminanti, addirittura folgoranti. Sentite come esordisce, e non andiamo oltre, per non sciupare la piacevole sorpresa che ognuno può gustare in lettura individuale: «Prima di ogni altra cosa va detto che le immagini sono indimenticabili - al più alto livello dell’arte fotografica». Ben stampate in un bianconero ricco di passaggi tonali e definito da un adeguato contrasto litografico, le fotografie di E.J. Bellocq proposte da Abscondita sono formalmente diverse da quelle presentate nelle due raccolte di riferimento (una statunitense, del 1970, l’altra inglese, del 1996). La differenza sta proprio nella riproduzione in bianconero, diversa da quella intonata seppia che ha definito e caratterizzato le altre edizioni librarie. Non per paradosso, è proprio la nitidezza del bianconero che permette di gustare e assaporare questi ritratti in un modo che sfugge dalle altre pagine. Non siamo lontani dal vero quando immaginiamo l’intonazione seppia probabilmente più fedele alle intenzioni originarie dell’autore E.J. Bellocq, e alle tecniche fotografiche del suo tempo, ma non è tanto il contenuto filologico che oggi e qui ci interessa, quanto l’autentica percezione della delicatezza dell’incessante sequenza di ritratti di prostitute di cento anni fa. In questo bianconero sono esaltati i termini della lettura fotografica: posture, ambienti, atteggiamenti e ogni dettaglio ciascuno voglia evidenziare. Non osiamo sperare che l’edizione italiana sia stata guidata da queste intenzioni, che appartengono al dibattito tra addetti, ma curiosamente a ciò è approdata, arricchendo la bibliografia latente della storia della fotografia -ovvero, della conoscenza della fotografia, della competenza della fotografia, della cultura dell’immagine e della comunicazione visiva- di un’edizione non soltanto utile, quanto addirittura sostanziale. Maurizio Rebuzzini



World Press Photo of the Year 2008: Anthony Suau, Usa, Time. Un detective mentre si assicura che gli ex-proprietari di una casa, rovinati dalla crisi dei mutui subprime, abbiano abbandonato i locali.

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C

omplice l’edizione dedicata di FOTOgraphia, che nel febbraio 2006 ha riassunto e raccontato i primi cinquant’anni di World Press Photo, dal 1955 di origine, allestendo anche una visualizzazione delle quarantasette World Press Photo of the Year (il premio non è stato assegnato nel 1959, 1961 e 1970), la declinazione del dolore è risultata

evidente nella cadenza delle fotografie dell’anno, che si sono succedute dall’inizio dei Sessanta: morte, distruzione, tragedia, guerre. E poi, ancora, altra morte, altre distruzioni, tragedie e guerre. Puntualmente, la World Press Photo of the Year 2008, dello statunitense Anthony Suau, anticipata lo scorso marzo e riproposta qui sotto, ribadisce e conferma: il soggetto al centro della inquadratura, ripre-

IL DOLORE


so di profilo, pistola in pugno, in un passo di danza che ne sottolinea l’andatura circospetta, più che prudente, è un ufficiale del dipartimento della Contea di Cuyahoga, che attua lo sgombero di una casa a Cleveland, nell’Ohio, Stati Uniti. È in azione in una abitazione (devastata nell’arredamento) di una famiglia rovinata dalla crisi dei mutui subprime: sta accompagnando, appoggiandolo, uno sfratto esecutivo per

Ogni edizione del prestigioso World Press Photo, a tutti gli effetti il più accreditato concorso del fotogiornalismo internazionale, al quale fanno da contorno altri tanti premi che non sempre riescono a superare confini e intendimenti nazionali, impone la medesima amara considerazione. Dopo qualche assestamento di partenza, giusto limitati ai primi anni di edizione, diciamo fino alla quarta del 1958, la World Press Photo of the Year ha sottolineato soprattutto la fotografia del dolore, della sofferenza, spesso della morte. Altrettanto si può dire delle fotografie premiate nelle categorie del fotogiornalismo che segue le vicende del mondo. Quindi, con l’occasione della tradizionale doppia esposizione simultanea italiana della mostra itinerante delle fotografie vincitrici e segnalate (dall’otto al ventotto maggio al Museo di Roma in Trastevere e dal nove maggio al successivo sette giugno alla Galleria Carla Sozzani di Milano), confermiamo questa osservazione, ormai endemica. Allo stesso momento, ci auguriamo che altri concorsi fotografici internazionali, specifici del fotogiornalismo o inclusivi di categorie di fotogiornalismo, si muovano altrimenti: perché, per quanto il dolore e la tragedia siano effettivamente discriminanti dei nostri tempi, non sono certo soggetti assoluti e inderogabili. E il fotogiornalismo ha anche tanto altro da raccontare, per documentare l’attualità della vita: senza cadere nel banale, ma conservando un profilo alto e coinvolgente. Nessuno resti indifferente

DELLA VITA

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Primo premio Spot News Singles: Chen Qinggang, Repubblica popolare cinese, Hangzhou Daily. Terremoto in Cina.

Terzo premio Spot News Stories: Wojciech Grzedzinski, Polonia, Napo Images per Dziennik. Conflitto in Georgia.

pignoramento dei beni a seguito di ipoteca. Gli ufficiali, i detective, hanno il compito di assicurarsi che nella casa non si trovino armi, e che i residenti abbiano effettivamente lasciato l’abitazione. Non guerra di armi ed eserciti contrapposti, ma guerra “civile”, di carte bollate, soldi trafugati, risparmi rapinati. Guerra di capitale, di ricchi e poveri (impoveriti), di banche e istituti finanziari (a proposito, già all’alba degli anni Cinquanta, il drammaturgo e filosofo tedesco Berthold Brecht aveva rilevato che non è tanto criminale rapinare le banche, quanto fondarle). La fotografia vincitrice è stata scattata nel marzo 2008; è parte di un servizio commissionato da Time Magazine, al quale è stato altresì assegnato il secondo premio nella categoria Daily Life Stories. La presidente di giuria MaryAnne Golon ha commentato: «La forza di questa immagine sta nei suoi contrasti. Assomiglia alla classica fotografia di un conflitto, ma invece è lo sfratto di persone da una casa per pignoramento. Come se la guerra, in senso tradizionale, fosse penetrata nelle case della gente comune, incapace di pagare i propri debiti».

Comunque, e in triste conferma, ancora la World Press Photo of the Year 2008 si sofferma (e attarda?) sul dolore della vita: questa volta di vite sconvolte nella propria quotidianità apparentemente sicura e serena, con le pareti domestiche che smettono di essere conforto della famiglia, per trasformarsi in simbolo concreto e tangibile di una sconfitta esistenziale, di una disfatta... in casa propria.

FOTOREPORTAGE OGGI Questa è la (nostra) rilevazione sovrastante, di confezione. Quindi, nel proprio insieme, e indipendentemente dai soggetti premiati, il World Press Photo rappresenta sempre e comunque lo stato del fotogior-

NON TUTTO È ORO

C

ome certificato e specificato dove necessario, il servizio di Anthony Suau (secondo premio Daily Life Stories), dal quale è stata isolata la World Press Photo of the Year, è stato commissionato da Time Magazine (Anthony Suau è Contract Photographer per il Time da circa venti anni). Il settimanale lo aveva mandato a Cleveland, in Ohio, per documentare gli effetti della crisi dei mutui subprime sulla città. Time non ha pubblicato quelle fotografie sul magazine (cartaceo), ma solo sul suo proprio sito www.time.com. Per le fotografie di Anthony Suau c’è stato un ritorno di interesse alla luce della vittoria al World Press Photo. In un’intervista rilasciata ad Amsterdam, dopo l’annuncio dei premi, il fotoreporter ha dichiarato di essere molto preoccupato per la crisi economica: nei primi due mesi dell’anno ha avuto un solo assegnato e, ha aggiunto, se va avanti così potrebbe essere indotto a cambiare lavoro!

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nalismo dei nostri giorni, che poi, all’inizio di settembre, si interroga sui propri contenuti e le relative prospettive in occasione del prestigioso festival Visa pour l’Image, di Perpignan, nei Pirenei francesi. Per questa lettura, complementare alla segnalazione completa dei vincitori nelle dieci categorie tematiche, ciascuna scomposta tra immagine singola e reportage completo (Singles e Stories, appunto), che riportiamo a pagina 59, in apposito riquadro, sono indispensabili anche valori burocratici oggettivi. All’edizione 2009 del World Press Photo, relativa a fotografie scattate nel precedente 2008, hanno partecipato cinquemilacinquecentootto fotografi, provenienti da centoventiquattro paesi (5508 fotografi, da 124 paesi), con un incremento di quasi il dieci per cento rispetto l’edizione 2008: per l’esattezza, più 9,7 per cento. Più consistente l’incremento di immagini inviate: novantaseimiladuecentosessantotto (96.268), contro le ottantamilacinquecentotrentasei della scorsa edizione (80.536): pari a un incremento del 19,5 per cento. E siamo alla soglia delle centomila fotografie, che sicuramente sarà superata all’appuntamento del prossimo 2010. Magari complici le Olimpiadi di Pechino 2008, ma anche tragedie accadute in Oriente, le partecipazioni dall’Asia hanno conteggiato un incremento del quattordici per cento rispetto lo scorso anno. Repubblica popolare cinese e India i paesi più rappresentati, rispettivamente con quattrocentonovanta (rispetto ai quattrocento della scorsa edizione) e duecentootto partecipanti (centosessantacinque nel 2008). Come da tradizione, è stata forte la rappresentanza di fotografi europei, tra i quali si segnala la significativa presenza di italiani, con trecentosei autori rispetto i duecentocinquantuno del 2008, e polacchi, pas-

sati da ottantuno a centoquattro partecipanti. Nella selezione finale sono stati premiati sessantadue fotografi, provenienti da ventisette paesi: Argentina, Australia, Belgio, Brasile, Canada, Cile, Repubblica popolare cinese, Colombia, Corea del Sud, Francia, El Salvador, Germania, Giappone, Grecia, India, Irlanda, Italia, Olanda, Messico, Polonia, Russia, Sudafrica, Spagna, Stati Uniti, Svezia, Svizzera e Ucraina. Sottolineiamo ancora, dopo averlo già riferito lo scorso mese, che l’Italia ha sei fotografi presenti nelle classifiche: tre al primo posto, uno al secondo e due al terzo. Rispettivamente: Davide Monteleone, dell’Agenzia Contrasto, primo nelle General News Stories con un reportage dal Caucaso; Carlo Gianferro, dell’Agenzia Postcart, primo nelle Portraits Stories con interni di abitazioni romene [su questo stesso numero, a pagina 22]; Giulio Di Sturco, dell’Agenzia Grazia Neri, primo nelle Arts and Entertainment Singles con un backstage della settimana della moda, a Nuova Delhi; Mattia Insolera, dell’Agenzia Grazia Neri, secondo nelle Daily Life Singles con un matrimonio gay in Spagna; Paolo Verzone, Agence Vu, terzo nelle Sport Features Stories con un viaggio con

Terzo premio General News Stories: Olivier Laban Mattei, Francia, Agence France-Presse. Dopo il ciclone in Myanmar.

Primo premio Contemporary Issues Singles: Mashid Mohadjerin, Belgio, Reporters. Immigrazione a Lampedusa.

Primo premio Daily Life Stories: Brenda Ann Kenneally, Usa, per The New York Times Magazine. Troy, nello stato di New York.

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Secondo premio Sports Action Singles: Mark Dadswell, Australia, Getty Images. Usain Bolt nella finale dei duecento metri alle Olimpiadi di Pechino.

Michel Platini; Massimo Siragusa, dell’Agenzia Contrasto, terzo nelle Contemporary Issues Stories con un reportage sulle baraccopoli a Messina [ancora su questo stesso numero, a pagina 22]. In assoluto cifre sostanziose, che definiscono quantomeno un certo fervore del fotogiornalismo quotidiano; per quanto riguarda l’Italia, l’orgoglio e onore di sei attestazioni di merito.

LUCE DEL FOTOGIORNALISMO Ma questi, riferiti fin qui, sono solo elementi burocratici, per tanti versi necessari, sicuramente non sufficienti. Infatti, quantificano soltanto il come, senza dire molto dei perché. Volendolo fare, nell’evoluzione dei tempi, potremmo andare a leggere qualcosa anche dalla burocrazia, segnalando l’attuale presenza di realtà geografiche moderne, sia in giuria sia tra i paesi di provenienza dei fotografi premiati. Ci riferiamo all’oriente, del quale abbiamo appena certificato, come anche alle nuove repubbliche dell’Europa orientale, che qualche anno fa, prima del nuovo ordine del mondo (diciamola così), erano assenti dalla vita dell’emisfero occidentale, pur esprimendo realtà sociali, politiche e culturali di spessore e peso. In questo senso, nota parallela, andrebbero riviste anche le storiografie della fotografia, sempre e comunque limitate all’area (appunto) occidentale del mondo. Per quanto altre esperienze espressive non siano state in alcuna misura influenti sul movimento complessivo del pensiero fotografico, hanno comunque manifestato autonomie creative e interpretative delle quali si dovrebbe tener con-

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to, alle quali si dovrebbe offrire visibilità e analisi. Ma anche questo, è tutto un altro discorso. Per quanto siano tentatrici le sollecitazioni ad affrontare il complesso delle considerazioni fotografiche, via via ispirate nei passaggi di pensiero, non è mai opportuno né consigliato allargarsi oltre il tema prefisso. In questo caso, si tratta di concentrarsi a quanto sollecita e sottolinea lo svolgimento annuale del qualificato e prestigioso World Press Photo. Nel farlo, è giocoforza sottolineare, prima di altro, come la personalità implicita ed esplicita della fotografia giornalistica sia diversa da altre applicazioni del linguaggio visivo (dalla moda alla pubblicità, dalla ricerca ai diversi aspetti del professionismo e del più sereno, ma concentrato, non professionismo). Istituzionalmente, il fotogiornalismo è il racconto della vita, che dalla cronaca si proietta nella storia della società, delle nazioni, della gente. Quindi, per quanto sia adeguato farlo, ricordiamo che nell’ambito del giornalismo, l’editoria internazionale sta da tempo declinando espressioni visive di altra origine (rimarcate in molti percorsi critici di testi contemporanei, alcuni dei quali già affrontati da FOTOgraphia). Allo stesso momento, rileviamo anche questo, il fotoreportage ha prestato il proprio linguaggio ad altri: alla moda, alla documentazione, alla pubblicità. Però, circoscrivendo le considerazioni, il fotogiornalismo si esprime prima di tutto in cronaca, lo ripetiamo. A seguire, sulla sostanza dei propri valori formali e di contenuto, lo svolgimento dell’esistenza assegna alla cronaca compiti di altro racconto, che appunto diventa storia.


FORMA DEL CONTENUTO

Per esprimersi, la fotografia applica una sequenza di princìpi che compongono il proprio linguaggio, anche tecnico, ma soprattutto estetico. Lo stesso fa il fotogiornalismo, che non può prescindere dalla grammatica e dal lessico della fotografia in toto, e che si deve incontrare e sintonizzare sulle ulteriori esigenze e necessità della propria veicolazione attraverso i canali della stampa periodica. Da cui, la differenziata e consecutiva/conseguente applicazione di professionismi, abilità e capacità porta a una confezio-

ne artificiosa dell’immagine: riconosciamolo. Tanto che l’estetica sopravanza spesso, quasi sempre, il soggetto raffigurato, fino a rappresentazioni di straordinaria delicatezza. In una idea, al minimo, la fotografia mette ordine nel disordine originario. Ebbene, per quanto il World Press Photo sia diviso in molteplici categorie, che approdano anche a confortevoli leggerezze della vita (lo sport e la natura, per dirne due), come abbiamo più volte annotato, il suo segno caratteristico, il suo marchio puntualizza soprattutto la tragedia della vita. Lo fa, ec-

WORLD PRESS PHOTO 2009 (SUL 2008)

A

ll’edizione 2009 del World Press Photo, relativa a fotografie scattate nel precedente 2008, hanno partecipato cinquemilacinquecentootto fotografi, provenienti da centoventiquattro paesi (5508 fotografi, da 124 paesi), con un incremento di quasi il dieci per cento rispetto l’edizione 2008: per l’esattezza, più

World Press Photo of the Year 2008: Anthony Suau (Usa), per Time Magazine; ventisei marzo, crisi economica negli Stati Uniti. L’ufficiale Robert Kole mentre si assicura, pistola in pugno, che gli exproprietari di una casa, rovinati dalla crisi dei mutui subprime, abbiano abbandonato i locali. Spot News Singles: 1) Chen Qinggang (Repubblica popolare cinese), Hangzhou Daily, terremoto in Cina [a pagina 56]; 2) Henk Kruger (Sudafrica), Cape Argus, tentativo di attraversamento del confine tra lo Zimbabwe e il Sudafrica; 3) Gleb Garanich (Ucraina), Reuters, vittima dei bombardamenti in Georgia [FOTOgraphia, novembre 2008]. Spot News Stories: 1) Walter Astrada (Argentina), Agence France-Presse, violenze in Kenya; 2) Bo Bor (Repubblica popolare cinese), Reuters, terremoto a Sichuan; 3) Wojciech Grzedzinski (Polonia), Napo Images per Dziennik, conflitto in Georgia [a pagina 56]. Menzione d’onore) Sebastian D’Souza (India), Mumbai Mirror, attacco alla stazione a Mumbai. General News Singles: 1) Luiz Vasconcelos (Brasile), A Crítica, Zuma Press, una donna si oppone allo sfratto dalla terra; 2) Zhao Qing (Repubblica popolare cinese), Shenzhen Economic Daily, dopo il terremoto a Sichuan; 3) Kevin Frayer (Canada) Associated Press, palestinesi si proteggono dai lacrimogeni israeliani a Gaza. General News Stories: 1) Davide Monteleone (Italia), Contrasto, Abkhazia, Caucaso; 2) Lars Lindqvist (Svezia), Dagens Nyheter, conflitto in Georgia; 3) Olivier Laban Mattei (Francia), Agence FrancePresse, dopo il ciclone in Myanmar [a pagina 57]. People in the News Singles: 1) Chiba Yasuyoshi (Giappone), Agence France-Presse, conflitti tribali in Kenya; 2) Yannis Kolesidis (Grecia), Reuters, disordini contro il governo ad Atene; 3) Jean Revillard (Svizzera), Rezo.ch, Hachim, immigrato afgano in Grecia. People in the News Stories: 1) Callie Shell (Usa), Aurora Photos, campagna elettorale di Barack Obama; 2) Justyna Mielnikiewicz (Polonia), per The New York Times, conflitto in Georgia; 3) Philippe Dudouit (Svizzera), Contact Press Images, ribelli Tuareg. Sport Action Singles: 1) Paul Mohan (Irlanda),

9,7 per cento. Più consistente l’incremento di immagini inviate: novantaseimiladuecentosessantotto (96.268), contro le ottantamilacinquecentotrentasei della scorsa edizione (80.536): per un incremento del 19,5 per cento. Sono stati premiati sessantadue fotografi, provenienti da ventisette paesi; sei gli italiani.

Sportsfile, Campionati europei Under 17; 2) Mark Dadswell (Australia), Getty Images, Usain Bolt nella finale dei duecento metri alle Olimpiadi di Pechino [a pagina 58]; 3) Franck Robichon (Francia), EPA-European Pressphoto Agency, salto triplo alle Olimpiadi di Pechino. Sport Action Stories: 1) Vincent Laforet (Usa), per Newsweek, tuffatori alle Olimpiadi di Pechino; 2) Alexander Taran (Russia), Atlant Media, Campionato mondiale di sambo (arte marziale); 3) Julian Abram Wainwright (Canada), EPA-European Pressphoto Agency, tuffatori alle Olimpiadi di Pechino. Sport Features Singles: 1) Xiaoling Wu (Repubblica popolare cinese), Xinhua News Agency, judo alle Olimpiadi di Pechino; 2) Berthold Steinhilber (Germania), Laif, corsa di mountain bike; 3) Tomasz Gudzowaty (Polonia), Yours Gallery, corse a cavallo per ragazzi in Mongolia [a pagina 61]. Sport Features Stories: 1) Zhao Qing (Repubblica popolare cinese), China Youth Daily, Giochi Olimpici in Tv, a Pechino; 2) Howard Schatz (Usa), ritratti di pugili prima e dopo l’incontro; 3) Paolo Verzone (Italia), Agence Vu, in viaggio con Michel Platini. Contemporary Issues Singles: 1) Mashid Mohadjerin (Belgio), Reporters, immigrazione a Lampedusa [a pagina 56]; 2) Guillaume Herbaut (Francia), Oeil Public, forme di schiavitù nella Francia di oggi; 3) Veronique de Viguerie (Francia), Getty Images, memorial per le donne vittime di violenza in Guatemala. Menzione d’onore) Henry Agudelo (Colombia), El Colombiano, homeless a Medellin, Colombia. Contemporary Issues Stories: 1) Carlos Cazalis (Messico), Corbis, homeless a San Paolo, Brasile; 2) Johan Bävman (Svezia), Sydsvenska Dagbladet, un ragazzo albino in Tanzania; 3) Massimo Siragusa (Italia), Contrasto, baraccopoli a Messina [a pagina 22]. Daily Life Singles: 1) Lissette Lemus (El Salvador), El Diario de Hoy, una vittima della violenza di scontri tra bande a El Salvador; 2) Mattia Insolera (Italia), Agenzia Grazia Neri, matrimonio gay in Spagna; 3) Tomasz Wiech (Polonia), Gazeta Wyborcza Kraków, colazione di lavoro [a pagina 60]. Menzione d’onore) Eraldo Perez (Brasile), Associated Press, persone intorno al cadavere di Thiago Franklino Li-

ma, in uno slum di Recife, Brasile. Daily Life Stories: 1) Brenda Ann Kenneally (Usa), per The New York Times Magazine, Troy, nello stato di New York [a pagina 57]; 2) Anthony Suau (Usa), Time, crisi economica negli Stati Uniti; 3) Gen Yamaguchi (Giappone), per The St. Petersburg Times, autismo in famiglia. Portraits Singles: 1) Yuri Kozyrev (Russia), Noor, Rajiha Jihad Jassim con il figlio Sarhan, Iraq; 2) Jerome Bonnet (Francia), per Libération, Dennis Hopper [a pagina 60]; 3) Sung Nam-Hun (Corea del Sud), giovane novizia tibetana. Portraits Stories: 1) Carlo Gianferro (Italia), Postcart, interni di abitazioni, Romania [a pagina 22]; 2) Pep Bonet (Spagna), Noor, transessuali in Honduras [a pagina 60]; 3) Li Jiejun (Repubblica popolare cinese), New Express Daily, ricostruzione con soldatini di icone fotografiche di guerra. Arts and Entertainment Singles: 1) Giulio Di Sturco (Italia), Agenzia Grazia Neri, backstage della settimana della moda, Nuova Delhi; 2) Jerome Bonnet (Francia), per Le Monde 2, studenti alla scuola di balletto dell’Opéra di Parigi; 3) André Vieira (Brasile), Focus Photo und Presse Agentur, stilista a Luanda, Angola. Arts and Entertainment Stories: 1) Roger Cremers (Olanda), visitatori al museo di Auschwitz-Birkenau, in Polonia; 2) Kacper Kowalski (Polonia), Kosycarz Foto Press, un giorno sulla spiaggia; 3) Jonathan Torgovnik (Germania), per Geo, l’Amato Opera Theater, New York. Nature Singles: 1) Carlos F. Gutiérrez (Cile), Patagonia Press, eruzione del vulcano Chaitén, in Cile; 2) Jeremy Lock (Usa), US Air Force, tempesta di sabbia sulle esercitazioni dell’esercito francese, a Djibuti; 3) Alexey Bushov (Russia), leopardo in caccia, Namibia. Nature Stories: 1) Steve Winter (Usa), National Geographic Magazine, leopardo delle nevi [già BBC Wildlife Photographer of the Year 2008; FOTOgraphia, febbraio 2009]; 2) Fu Yongjun (Repubblica popolare cinese), Hangzhou City Express, il lago dell’ovest a Hangzhou, Cina; 3) Heidi & Hans-Jürgen Koch (Germania), per Stern, gli occhi degli animali.

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(in basso) Secondo premio Portraits Singles: Jerome Bonnet, Francia, per Libération. Dennis Hopper.

Terzo premio Daily Life Singles: Thomasz Wiech, Polonia, Gazeta Wyborcza Kraków. Colazione di lavoro.

coci!, con immagini di straordinaria eleganza visiva. Insomma, ogni dodici mesi, il World Press Photo mette ciascuno di noi con le spalle al muro. Ci dobbiamo incontrare, misurare addirittura, con l’estetica del dolore, del dramma e della tragedia. Una volta ancora è obbligatorio ricordare la straordinaria riflessione di Susan Sontag, scomparsa alla fine del 2004 (FOTOgraphia, febbraio 2005), che l’italiano Mondadori ha pubblicato traducendone alla lettera il titolo originario: Davanti al dolore degli altri (Oscar Mondadori; 7,40 euro: saggio da non perdere). È inevitabile sintonizzarsi sulla lunghezza d’onda della fantastica sociologa, così attenta al discorso del linguaggio fotografico, già in precedenza affrontato nel testo fondamentale Sulla fotografia, che Einaudi ha pubblicato in edizioni successive, dal 1977. Dalla guerra civile spagnola al fatidico Undici settembre, passando attraverso tanti altri conflitti dei nostri giorni (troppi, per il vero), in Davanti al

dolore degli altri Susan Sontag esprime una acuta riflessione sul modo nel quale le immagini di morte e dolore, appunto ingredienti immancabili del World Press Photo, influenzino la percezione generale della realtà. Quindi, aggiunge che su queste immagini si forma l’opinione comune, che induce a contrastare i conflitti bellici o ad appoggiarli. Ma, ahinoi, tanta estetica fotografica finisce anche per tracciare i connotati di un dolore che non è sempre tale, e non è solo orrore, ma diventa, riconosciamolo, formalmente... bello da vedere. Ovviamente, l’operazione va decodificata. Chi si ferma all’estetica, corre rischi in questo senso. Coloro i quali, noi addetti tra questi, distinguono la realtà dalla propria raffigurazione e rappresentazione fotografica possono compiere un passo avanti. Cioè possono assegnare alla fotografia il proprio ruolo, che spesso abbiamo definito “specchio critico”, riprendendo proprio l’espressione che nel 1996 ha accompagnato la sintesi dei primi quarant’anni di World Press Photo. Dall’introduzione di Sebastião Salgado a This Critical Mirror (a cura di Stephen Mayers; Thames & Hudson, 1996): «Il miracolo delle fotografie, della fotografia in generale, è che possono essere trasmesse a chiunque senza bisogno di una traduzione. Sono la più pura espressione dell’umanità, il suo linguaggio universale e il suo specchio critico. Dobbiamo cercare di non sfuggire a ciò che vediamo riflesso in questo specchio. Dobbiamo accettarlo e rispettarlo, in modo da poter prendere parte all’evoluzione della società, e al suo processo di cambiamento». Insomma, le fotografie raccontano la vita, non sono la vita, sia chiaro!

WPP DAL 1955 Per tutto questo è opportuno, oltre che fortemente necessario, che coloro i quali sanno leggere

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Terzo premio Sport Features Singles: Thomasz Gudzowaty, Polonia, Yours Gallery. Corse a cavallo per ragazzi in Mongolia.

dentro l’immagine, dietro e oltre l’apparenza superficiale della sua “bella” forma, si impegnino continuamente nell’evangelizzazione. A parte tante altre implicazioni individuali, ma anche professionali, la fotografia non deve essere vissuta come un fine, ma un mezzo di fantastica comunicazione. Il fotoreportage ha questo dichiarato compito istituzionale, al quale non deve, né può, venire meno. Deve raccontare e coinvolgere, appassionare ed emozionare, far conoscere e pensare. Deve raggiungere la mente, passando attraverso il cuore. A volte, poi, come rivelano molte delle fotografia sottolineate dal World Press Photo, a partire dalla celebrata fotografia dell’anno, che da tanto tempo è soprattutto a soggetto tragico (la tragedia della vita?), può anche passare per una scorciatoia. Può colpire direttamente in pancia, procurando un dolore individuale certamente lontano da quello originario, perché più lieve e nella propria sostanza intellettuale. Ma deve far pensare al dolore degli altri. Anno dopo anno è anche questa la lezione del World Press Photo, celebrata dall’allestimento in mostra delle fotografie premiate, raccolte anche in volumi ben confezionati (in mostra, tre tradizionali appuntamenti italiani: due simultanei, al Museo di Roma in Trastevere di Roma e alla Galleria Carla Sozzani di Milano; l’altro d’inverno, al LuccaDigital PhotoFest ). Ma, non dimentichiamolo, anno dopo anno la lezione del World Press Photo è anche più alta: ribadisce e conferma il ruolo istituzionale della fotografia, ovvero della comunicazione visiva. Per l’attuale edizione 2009 (sul 2008), una osservazione si alza sopra tutte: pur sottolineando aspetti tragici di esistenza, riferiti soprattutto alle conse-

guenze delle guerre e del nuovo ordine del mondo (a questa dizione dobbiamo allinearci), anche quest’anno -come accade da qualche edizione- la guerra in quanto tale è sostanzialmente assente, seppure la sua presenza rimanga incombente. Ma i pugni nello stomaco non mancano proprio, a testimonianza di un ruolo discriminante del fotogiornalismo. Come abbiamo già fatto in molte altre occasioni, mai in troppe, concludiamo con ciò che osservò Edward Steichen, in occasione del suo novantesimo compleanno (nel 1969, quattro anni prima della sua scomparsa): «[Quando cominciai a interessarmi di fotografia, credevo che fosse il massimo. Volevo che venisse riconosciuta come una delle belle arti. Oggi non me ne importa un accidente di tutto questo.] La missione della fotografia è quella di spiegare l’uomo all’uomo e ogni uomo a se stesso». Nessuno resti indifferente! Angelo Galantini

(pagina accanto, al centro) Secondo premio Portraits Stories: Pep Bonet, Spagna, Noor. Transessuali in Honduras.

World Press Photo: Fotografia e giornalismo (le immagini premiate nel 2009). Catalogo pubblicato da Contrasto (www.contrasto.it). ❯ Museo di Roma in Trastevere, piazza Sant’Egidio 1b, 00153 Roma; 06-5813717; www.museodiromaintrastevere.it. Dall’8 al 28 maggio; martedì-domenica 10,00-20,00. A cura dell’Agenzia Contrasto. ❯ Galleria Carla Sozzani, corso Como 10, 20154 Milano; 02-653531; www.galleriacarlasozzani.org, info@galleriacarlasozzani.com. Dal 9 maggio al 7 giugno; lunedì 15,30-19,30, martedì-domenica 10,30-19,30, mercoledì e giovedì fino alle 21,00. A cura dell’Agenzia Grazia Neri. ❯ Al LuccaDigitalPhotoFest 2009; tra novembre e dicembre (date da stabilire). Associazione Toscana Arti Fotografiche, via Guidiccioni 188, 55100 Lucca; 0583-5899215; www.ldpf.it, info@ldpf.it.

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SOPRATTUTTO ENTRY-LEVEL T

utti i vantaggi della fotografia reflex dei nostri giorni, inevitabilmente in forma soltanto digitale, si combinano con la facilità operativa di una costruzione compatta: con sensore CCD di acquisizione digitale di immagini da 10,2 Megapixel,

la nuova Pentax K-m definisce l’attuale standard di riferimento nella categoria delle reflex entry-level. Per quanto serva ancora rilevarlo, dopo averlo già fatto in tante occasioni precedenti, è proprio la fotografia reflex che fa la differenza; e le dotazioni entry-level, con prezzo di acquisto conve-

La reflex Pentax K-m, che si colloca alla base del proprio sistema digitale, punta alla leggerezza e alla facilità operativa. Una interpretazione tecnica che dà vitalità al comparto reflex, così discriminante per l’intero mercato commerciale, ed è un fatto, ma soprattutto per il più consapevole esercizio della stessa ripresa fotografica: ed è un altro fatto, che ci sta più a cuore niente, consentono a un pubblico potenzialmente ampio di accedere al mondo reflex, con quanto ne può conseguire in seguito e in aggiunta: obiettivi intercambiabili, flash, accessori e evoluzione convinta verso dotazioni più impegnative. Grazie all’impiego di materiale plastico per l’involucro esterno e la baionetta, l’attuale Pentax K-m pesa soltanto cinquecentoventicinque grammi (525g, che diventano

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790g con lo zoom standard SMC Pentax DA-L 18-55mm f/3,5-5,6). Concepita per affiancarsi alla K200D, da tempo sul mercato, in un corpo macchina convenientemente più compatto, la K-m offre le elevate prestazioni tecniche associate alla qualità Pentax, a partire dall’Autofocus a cinque punti (Safox VIII). Avendo come chiaro riferimento il target ricercato del prodotto -cioè utenti entry-level che passano dalla compatta alla reflex-, il suo funzionamento è semplificato al massimo. La Pentax K-m dispone del sistema proprietario Dust Removal (DR), del sistema optomagnetico di stabilizzazione dell’immagine Shake Reduction (SR; fino a quattro stop di aggiustamento), altrettanto tecnologia proprietaria, che agisce direttamente sul sensore CCD di acquisizione, ampia varietà di programmi Picture, anteprima digitale e svariate altre funzioni evolute già apprezzate dagli utenti delle attuali e precedenti reflex Pentax di categoria superiore: tra le quali, sensibilità da 100 a 3200 Iso equivalenti, monitor da 2,7 pollici, con Wide-view (230.000 pixel e angolo di visione fino a 170 gradi), sedici programmi Picture e sette filtri digitali. La Pentax K-m è una reflex senza complicazioni e particolarmente leggera, adatta per quanti apprezzano il peso contenuto, e a loro indirizzata. È fornita esclusivamente in kit coi nuovi zoom SMC Pentax DA-L, ma naturalmente accetta ogni obiettivo del sistema ottico, compresa la recente gamma SDM con autofocus AF a ultrasuoni. Ancora, e a com-

SOPRA TUTTO, REFLEX isogna vendere reflex! Con declinazione conseguente: biBd’ordine sogna acquistare reflex! Questa è (sarebbe) una parola irrinunciabile per l’intero mercato della fotografia. Infatti, come sappiamo bene tutti, soltanto la fotografia reflex si accompagna con consecuzioni che sono opportune all’intero comparto commerciale, nel momento stesso nel quale è adeguata alla massima soddisfazione e versatilità della ripresa. Dunque, in un colpo solo, la gratificazione del cliente utilizzatore si allinea con il possibile e potenziale incremento dei volumi e delle redditività commerciali. Bene! Da una parte, si registra la qualità della fotografia reflex e la varietà delle sue opportunità di impiego, con obiettivi intercambiabili e accessori dedicati. Dall’altra, sono proprio gli accessori aggiunti e aggiungibili che sollecitano acquisti/vendite assolutamente necessari/necessarie alla lunga filiera commerciale, che dall’importazione si allunga verso la distribuzione, raggiungendo il fotonegoziante che sta a contatto diretto con il pubblico. Nella continua sottolineatura che l’applicazione fotografica, soprattutto nella dimensione e veste di hobby indivi-

plemento, registriamo persino una edizione limitata di questa reflex entry-level, a un tempo particolare ed accattivante. Dopo la finitura ricoperta di cristalli Swarovski, la Pentax K-m si presenta anche in un’insolita variante bianca (proprio bianca, non cromata; pagina accanto). Questa particolare livrea è proposta in due kit esclusivi, con uno o

duale, è assolutamente diversa da ogni altra esperienza ed espressione del tempo libero -diversa, in quanto migliore, perché gratificante: esercizio attivo e non passivo, creativo e non statico-, la fotografia reflex configura la manifestazione alta e massima della fatidica combinazione tra strumenti e relativa finalizzazione. Soltanto con apparecchi reflex, adattabili a ogni esigenza e necessità della ripresa fotografica, si possono ottenere risultati superlativi, capaci di sollecitare la creatività individuale e, allo stesso momento, di assolverla, risolvendola. La gamma degli obiettivi intercambiabili è disegnata e scandita proprio per questo: per consentire di affrontare e interpretare al meglio ogni soggetto possibile e potenziale. Dai flash elettronici a ogni altro complemento che amplifica le capacità di utilizzo, oppure semplifica l’impiego dello stesso apparecchio fotografico reflex, gli accessori dedicati sono così indispensabili, e fonte di gratificazione (ripetiamo), da rappresentare quello straordinario prolungamento tecnico che è altresì conteggiato da alcuni (con occhi agli scontrini di cassa) come benefico per le proprie redditività di impresa.

due zoom, altrettanto in montura bianca: Pentax K-m White Lens Kit, con zoom SMC Pentax DA-L 18-55mm f/3,5-5,6, e Pentax K-m White Double Zoom Kit, con anche l’SMC Pentax DA-L 50-200mm f/45,6. (Fowa, via Tabacchi 29, 10132 Torino). Antonio Bordoni

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GUIDO GIANNINI

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Qualsiasi idiota può fare una fotografia, ma soltanto un artista può fare della Fotografia una favola vera. Il fine principale della fotografia dominante o mercantile (analogica o numerica, fa lo stesso) è l’organizzazione della banalità e la diffusione della sterilizzazione delle idee di resistenza o sovversive (non solo del linguaggio fotografico) che smascherano il commercio o il disfacimento dei valori culturali esposti e diffusi nella società dello spettacolo. La bellezza di tutta la fotografia che ha valore autentico è nella poesia a venire. Lo sguardo che accarezza è anche lo sguardo che abolisce la rassegnazione e dice che non c’è più bisogno né di patria né di dio; contro l’isteria da bottegai della propria epoca, ogni forma di resistenza è legittima. La società mercantile-spettacolare ha permeato i bisogni, i desideri, i sogni dei propri sostenitori/elettori tristi. L’estensione del dominio dell’utopia capitale ha prodotto l’uomo economizzato e un neoanalfabetismo delle coscienze, che coincide con il tempo della sopravvivenza. Il totalitarismo delle democrazie forti, come dei comunismi al potere, è al fondo dell’istupidimento generalizzato, e la rabbia degli oppressi è ormai sottomessa agli indici terroristici delle Borse internazionali. Le guerre, le catastrofi ambientali, i crimini contro i diritti umani commessi dai governi delle democrazie spettacolari o dai fascismi rossi (Russia, Cina, Vietnam...) sono orchestrati da caste, oligarchie, cosche mafiose; e ovunque il condizionamento, la repressione, la violenza sono l’espressione di una feticizzazione dello Stato di diritto: il passaggio dalla società di controllo o disciplinare allo Stato au-

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toritario è scontato e previsto. Non c’è niente di fronte alla caduta degli oracoli che non sia la pratica eversiva dei piaceri; occorre interrogarsi non tanto su come organizzare lo Stato, quanto se debba mai esistere uno Stato. Lo “stato minimo” auspicato da pensatori libertari, come Henry D. Thoreau, Hannah Arendt e Michel Onfray, non è un’utopia, è una necessità. Soltanto le resistenze e le insurrezioni di coscienze educate alla bellezza porteranno alla caduta della barbarie.

SULLA FOTOGRAFIA DI RESISTENZA

Sul fronte della creatività sganciata dai riconoscimenti dei ruoli o dei saperi mai traditi, la fotografia di resistenza si esprime con l’affabulazione dell’immaginale che non media tra l’uomo e il mondo, ma interroga o decifra il dolore di questo uomo, in questo mondo. Mediocre è la fotografia che non ha più nulla da dire oltre se stessa. Tutto ciò che non illustra l’eccellenza o l’indissolubilità del modello dominante accende i fuochi ereticali dell’insorgenza poetica e provoca il rigetto sociale. Guido Giannini, fotoreporter napoletano, ha da poco compiuto settantotto anni. Ancora attivo nelle strade dei poveri, è un testimone o un lampadiere libertario di quell’arcipelago di ribelli all’ordine costituito che è riuscito a figurare una sorta di fotografia di resistenza. Usa la macchina fotografica come un grimaldello: nelle immagini che cattura di “soppiatto”, o forse sarebbe meglio dire a “volo d’angelo”, c’è il senso del magico o del gioco, e il suo gesto fotografico porta in sé un’aura di condivisione, accoglienza, fraternità; è la bellezza del vero che si fa beffe del bene e

del male e non promette riconoscenze e debiti verso alcuno. Prendere atto dell’accadere fotografico come smascheramento del falso di ogni potere, vuol dire rivendicare secoli di oppressione. Guido Giannini è artista discreto, quasi appartato. Non fotografa celebrità, non frequenta salotti ”buoni”, non si incensa in conventicole intellettuali di ogni sorta: «Io sono anarchico -dice-, non ho mai votato». E questo non è un pregio da poco, per uno che fa della fotografia di strada il princìpio di ogni libertà. Se non si è liberi lì, nella strada, non si è liberi da nessuna parte. Guido Giannini inizia a fotografare la gente della sua città (Napoli), nel 1956, con una Agfa a soffietto. È un regalo di uno zio venuto dall’America (un classico). Le prime fotografie le pubblica nel 1958, sulla rivista Documento Sud, diretta da Luigi (Luca) Castellano. Nel 1960, inizia l’attività di fotoreporter per il settimanale Il Mondo, diretto da Mario Pannunzio. La sua scrittura fotografica è subito attenta alle immagini di strada; le sue immagini figurano gli ultimi, gli emarginati, gli indifesi, e mai si staccherà da questa visione di sopravvivenza. Cammina per le strade di Napoli, fotografa ciò che gli capita di vedere e coglie nelle periferie i volti dimenticati di tutti i Sud della Terra. È difficile campare di fotografia, specie se si è fuori dal giro che “conta”, così -per non andare “a padrone”-, il “fotografo dei poveri” fa vari mestieri (meccanico-elettricista, liutaio, libraio, commesso in farmacia, impiegato in un banco di pegni, guardiano notturno; apre anche un negozio di giocattoli, che chiama La città del Sole), poi lascia tutto e torna alla fo-

tografia, che non ha mai abbandonato. Come fotografo indipendente, alla metà degli anni Settanta collabora con La voce della Campania, quindicinale (del Pci) diretto da Michele Santoro. Vende le sue fotografie direttamente ai giornali, senza avvalersi di agenzie, né intermediari. Non accetta di pubblicare per testate che non firmano l’autore delle immagini. Lavora per Stern, Il Mattino, Il Manifesto, L’Unità, Avvenire, Il Messaggero, Rassegna Sindacale, Corriere del Mezzogiorno, La Repubblica; allestisce numerose mostre personali e partecipa ad altrettante collettive; pubblica libri di notevole presa del reale (tra questi, ci piace ricordare Sopravvivenza Sopravvivenze, 1986; Immagini allo specchio, 1993; Luoghi d’autore, 1995; Le miniere di Tufo, 2001; Letture, 2007). Le sue fotografie hanno illustrato libri, dischi e manifesti. Hanno scritto di lui Luigi Compagnone, Nicola Pagliara, Ermanno Rea, Raffaele Messina, Gerardo Pedicini, Fabrizia Ramondino; i maestri che hanno ispirato la sua fotografia sono Henri Cartier-Bresson, Robert “Bob” Capa, Tina Modotti, Uliano Lucas. Come fotocronista della realtà napoletana si sente vicino a Caio Garrubba, i fratelli Nicola e Antonio Sansone, Salvatore Di Vilio, Peppe Alario, Lello Mazzacane. Per noi, le fotoscritture di Guido Giannini sono anche altro: trascendono i riferimenti culturali verso i quali lui dice di riconoscersi, e le sue fotografie sono spesso preziosi frammenti di vita, pietre focaie o sacche di resistenza che si oppongono all’indifferenza di un mondo devastato. La fotografia di resistenza di Guido Giannini è a tutti gli effetti una controstoria della socie-


tà consumerista e senza diritti per grandi pezzi di popolo; è una catenaria di volti, segni, storie vissute dalla parte dei deboli, degli sfruttati, dei diversi: di tutti coloro che devono inventarsi l’esistenza, giorno dopo giorno, e possono contare solo sulla propria dignità (ferita) di esseri umani. Il formulario delle immagini (industriali) è lì, sulla scorza della storia, e gli uomini vivono in funzione delle immagini che sono state create per la loro domesticazione; talvolta, certe icone di crudele sofferenza riescono a “toccare” anime sensibili e suscitare impeti di disobbedienza civile.

SULLA FOTOGRAFIA DI SOPRAVVIVENZA

La fotografia si fa con i piedi. La fotografia di sopravvivenza è un universo fotografico poco conosciuto o praticato male. Il significato delle immagini è un’epifania, sempre. Le immagini sono l’evento che lega l’uomo al mondo, o non sono nulla. Decifrare le immagini significa disvelare il falso o denunciare il sopruso e insinuarsi tra la dittatura del gusto e il gusto della trasgressione. Le religioni monoteiste, il marxismo ortodosso o le democrazie dello spettacolo hanno inventato il tempo della genuflessione e della punizione, ed esortato a credere che le immagini -come i mitisono sacre. Le divinità degli escrementi disseminati sugli scranni dei governi riconducono all’ingiustizia sociale e il delirio del giudizio universale continua a perpetuare servi. Le fotoscritture di Guido Giannini sono modi di vedere, segni indisciplinati che interrogano la realtà. Il fotografo napoletano legge il vero che accade davanti ai suoi occhi, e lo racconta alla sua maniera: di fronte alla sua macchina fotografica si dipana una piccola umanità di diseredati, emarginati, violati, e la secchezza o la selvatichezza delle sue immagini scavalca i confini del linguaggio fotografico corrente. Il

suo talento nasce da un’inclinazione, quella di una filosofia libertaria, di amore dell’uomo per l’uomo e repulsione contro tutti i poteri costituiti. A leggere con attenzione le iconografie del margine (ma non marginali) di Guido Giannini possiamo vedere la bellezza tutta intera che riesce a coglie-

si tratti di quello imposto da un sistema o del proprio controllo su se stessi. L’incontrollabile e la saggezza sono rinchiusi in una stessa cella, dietro la stessa porta della disperazione assoluta (John Berger, in Modi di vedere, a cura di Maria Nadotti, Bollati Boringhieri, 2004). Tutto vero. La fotografia di so-

«Noi pensiamo anzitutto che occorra cambiare il mondo. Vogliamo il cambiamento più liberatore della società e della vita in cui siamo rinchiusi. Sappiamo che questo cambiamento è possibile con azioni appropriate. Il nostro compito è precisamente l’impiego di certi mezzi d’azione e la scoperta di nuovi, più facilmente riconoscibili nel campo della cultura e dei costumi, ma applicati nella prospettiva di un’interazione di tutti i mutamenti rivoluzionari» Guy Debord re nelle maschere, nei corpi, nei gesti di sopravvivenza dei poveri tra i poveri. Guido Giannini fotografa gli ultimi come persone, non come rifiuti della società, e mette in relazione il destino individuale con il destino storico. «Quando raggiungono il limite estremo della disperazione, gli esseri umani trovano la saggezza, oppure sfuggono a ogni controllo, che

pravvivenza (non solo di Guido Giannini) si situa tra le scritture fotografiche degli sconfitti, non dei vinti. Tuttavia, i vincitori non hanno scampo, perché la loro ragione nasce sulla canna del fucile, mentre l’utopia di libertà degli sconfitti sgorga dalle stanze del cuore. La violenza della fotografia seriale (quella più masticata o circuitata dalle riviste specializ-

zate, per intenderci) anticipa i proclami dei politici e i carri armati. I mass-media, le chiese, i piani neocolonialisti dei governi minacciano e sorvegliano; l’efferatezza delle immagini spalma sul dolore degli altri secoli di prostrazione, e intere comunità indesiderate migrano verso l’ignoto. La speranza è il centro del mondo, e guida il loro cammino, ma il mondo che li accoglie è per molti una galera: e quando la speranza muore o viene uccisa, il destino che li cementa è la solitudine e l’esclusione dalla partecipazione attiva della società. Le fotografie di Guido Giannini “cantano” la strada: vecchiette che suonano il violino, uomini sovraccarichi di pesi, straccivendoli “futuristi”, gente senza casa né aiuti, tutti sopravvivono come possono alla dannazione nella quale li ha relegati la civiltà dello spreco. C’è tenerezza nelle sue immagini, c’è senso di accoglienza e senso del rifugio. Specie in quelle in bianconero si nota l’attenzione al particolare, ai segni del consueto, alla figurazione del rispetto di quelli meno fortunati e in qualche modo dei più “pericolosi”, perché sovente il loro disagio esprime un disagio più largo, un disagio più celato, e la loro pelle segnata dall’esclusione è anche un atto di accusa contro la menzogna della globalizzazione dei mercati e delle idee, approntata dal nuovo ordine economico-politico. «È necessario costruire un mondo nuovo, un mondo capace di contenere molti mondi, capace di contenere tutti i mondi» (Subcomandante Insurgente Marcos). Camminare verso questa epifania laica vuol dire esprimere l’amore verso il prossimo. Il rovesciamento di prospettiva di un mondo rovesciato è reperibile non solo nella forma, nello stile o nel vocabolario, ma anche e soprattutto nell’abbandono di ogni trascendenza religiosa, politica, culturale, senza eccezioni.

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Usare la conoscenza come un’arma, vuol dire passare alla decostruzione dei saperi imposti dalle teocrazie dell’incenso e delle armi, e mostrare la finitezza della sovversione non sospetta. «Rovesciare la gioia eterna dell’imbecille felice!» (Michael Onfray). Rompere l’epoca dei divieti e dell’omologazione e incitare alla liberazione dell’immaginazione. I predatori dal volto umano hanno facce conosciute: non resta che chiedere loro conto di tutto il sangue e la miseria che hanno versato e prodotto e, quando occorra, fare bella mostra di come sanno vivere e morire al processo sulla disumanità della loro storia. Le immagini di Guido Giannini esprimono una coscienza storica ferita e non rimuovono le cause. Anzi, le scavano fuori dal miserabilismo d’autore o dal fo-

toamatorismo d’accatto. C’è una filosofia della strada in queste icone della povertà estrema, che decifra sopraffazioni e cadute esistenziali; tuttavia, Guido Giannini non pratica l’estetica del modello “caritatevole” o “buonista”: la sua fotografia consiliarista lo porta a interrogare i rovesciamenti del politico e sostenere che le opere d’arte più difficili sono il bene e la bellezza dei popoli. La felicità è una creazione/poetica dell’intelligenza. Della bellezza, noi abbiamo conosciuto soltanto l’impostura, l’aguzzino di Stato piuttosto che l’eroe senza patria. Noi vogliamo che il bene comune, come la libertà, si situi al princìpio della storia e le genti possano finalmente conoscere lo stupore e la meraviglia di una vita sconosciuta. Pino Bertelli (10 volte febbraio 2009)


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