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ANNO XVI - NUMERO 152 - GIUGNO 2009
Polaroid LA SUA MAGIA
Trent’anni DEMETRIO STRATOS VENEZIA ’79
NEL DECENNALE SUMO DI HELMUT NEWTON
“
Comincio a pensare che sia proprio questo il senso di ogni genere di fotografia. Non è detto che una fotografia vi dica qualcosa del suo soggetto. Ma se la osservate attentamente, e siete stati voi a scattarla, vi può rivelare molto su voi stessi. William Bayer (da Il dettaglio) su questo numero, a pagina 32
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SENZA OBIETTIVO! Ancora e anche su questo stesso numero di FOTOgraphia si incontra la fotografia stenopeica, senza obiettivo (in anglosassone “pinhole”). Se ne accenna nel testo a commento e presentazione (?) della nuova reflex Nikon D5000, e a pagina 27 si visualizzano due esempi. In aggiunta e conferma, oltre quanto già annotato nel testo appena citato, rileviamo che le attuali reflex in tecnologia digitale offrono straordinarie opportunità all’interpretazione stenopeica. Anzitutto, registriamo la possibilità di controllare l’inquadratura e composizione dai brillanti monitor dei nostri giorni (tra i quali, quello ad angolazione variabile della Nikon D5000, novità di mercato). Quindi, in clamorosa aggiunta, diamo fiato e senso alla possibilità di realizzare riprese stenopeiche video con audio, che dischiude la porta di ulteriori applicazioni della interpretazione senza obiettivo! [E qui soprassediamo sull’autentica elucubrazione della deviazione verso la scomposizione caleidoscopica, altrettanto recitata con la stessa Nikon D5000: ancora, sia in ripresa fotografica, per l’appunto visualizzata alla stessa pagina 27, sia in video con audio]. Ora, la fotografia stenopeica italiana è censita e classificata in un volume realizzato e pubblicato da Le nuvole: appunto, Pinhole Italia 2009, che subito precisa di considerare Autori, immagini e strumenti della fotografia stenopeica in Italia. A cura di Luigi Cipparrone e Vincenzo Marzocchini, con presentazione di Carlo Emanuele Bugatti, questo casellario è prezioso e indispensabile. Da una parte, l’edizione nobilita un’applicazione creativa che soffre spesso della sua stessa alta personalità espressiva (possibile e potenziale); dall’altra, rivela la vitalità di un discorso fotografico italiano che si muove tra le pieghe dell’ufficialità di ogni giorno. Ancora, a completamento, registriamo una dettagliata bibliografia, che considera sia i titoli specifici sia la presenza della riflessione stenopeica in riviste e pubblicazioni periodiche. Mancanze? Tante! E questo rappresenta la cifra stilistica (si dice spesso così) di un casellario vero e palpitante, così come autentico ed emozionante è spesso lo spirito stenopeico. Spesso, non sempre. Pinhole Italia 2009; a cura di Luigi Cipparrone e Vincenzo Marzocchini, presentazione di Carlo Emanuele Bugatti; Le nuvole, 2009 (via Fratelli Cervi 10, 87100 Cosenza; www.lenuvole.it, info@lenuvole.it); 112 pagine 15x21cm; 22,00 euro.
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Oggi, in un momento di crisi delle case editrici, i premi hanno un ruolo importante per la fotografia, perché permettono al pubblico di venire a conoscenza di grandi lavori, forse dei migliori, che spesso vengono pubblicati solo su due o tre pagine, che ne mortificano il valore e spessore, e dei nuovi linguaggi espressivi, addirittura completamente ignorati dai media. Grazia Neri; su questo numero, a pagina 43 Se volessimo farlo, se intendessimo farlo, c’è qualcosa di cui potremmo farci vanto: ed è quello di non aver mai giudicato nulla e nessuno; casomai, abbiamo soltanto sollecitato a pensare, riflettere e considerare, soprattutto sapendosi calare, ciascuno di noi, nei panni degli altri. Antonio Bordoni; su questo numero, a pagina 23 Con i mezzi operativi messi a disposizione dalla tecnologia digitale, e con Photoshop in particolare, oggigiorno è facile che qualcuno finisca per sentirsi artista, grande fotografo. Ma, per fortuna, mi è facile separare le buone fotografie da quelle cattive. Mary-Ellen Mark; su questo numero, a pagina 43
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Partecipai, osservando e registrando con la fotografia, straordinaria chiave interpretativa di un momento, anche soltanto mio personale, che non è certo passato invano, ma ha lasciato tracce indelebili in ognuno di noi. Maurizio Rebuzzini; su questo numero, a pagina 30 La fotografia è più adatta alla fotografia. Bruce Davidson; su questo numero, a pagina 44
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Copertina Presentazione dell’edizione originaria di Sumo, giovedì 17 giugno 1999 [fotografia di Maurizio Rebuzzini]. Insieme, l’autore Helmut Newton, la curatrice June Newton, sua moglie, e l’editore Benedikt Taschen. La monografia Sumo, di quattrocentosessantaquattro pagine formato poster 50x70cm, per trenta chilogrammi di peso, è conteggiata come la più grande e più costosa produzione libraria del Ventesimo secolo. Oggi, il decennale è celebrato anche con una nuova edizione libraria, oggettivamente standardizzata: sempre a cura di June Newton, un nuovo/altro Sumo di quattrocentottanta pagine 26,7x37,4cm. Da pagina 46
3 Fumetto Dalla copertina di Il mio primo dizionario di inglese, edizione per l’infanzia con riferimento al seguìto personaggio (di richiamo) di Geronimo Stilton; 2006
7 Editoriale 25
Quel Tempo che ci dà infinite possibilità di imparare. Imparare dalla storia, soprattutto dalla propria Storia
GIUGNO 2009
R , RIFLESSIONI IFLESSIONI, OSSERVAZIONI E COMMENTI OSSERVAZIONI E COMMENTI SULLA FOTOGRAFIA SULLA FOTOGRAFIA
8 Altro razzismo (?)
Anno XVI - numero 152 - 5,70 euro
Considerazioni sui Concorsi e i Premi della fotografia
DIRETTORE
RESPONSABILE
Maurizio Rebuzzini
IMPAGINAZIONE
12 Speed Graphic dal 1959 23 giugno 1959: Alfredo Pratelli con Speed Graphic. Gustoso cinquantenario, che anticipa altri anniversari
Gianluca Gigante
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REDAZIONE
Angelo Galantini
FOTOGRAFIE Rouge
14 Incontri fotografici
SEGRETERIA
Maddalena Fasoli
All’interno del film Incontri ravvicinati del terzo tipo Ricerca iconografica di Filippo Rebuzzini
HANNO
18 Reportage Appunti e attualità del fotogiornalismo internazionale A cura di Lello Piazza
23 E reflex sia! Per la Nikon D5000, considerazioni in approfondimento. Valutazioni che scartano a lato i valori oggettivi, per affrontare l’essenza della tecnologia dei giorni nostri
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29 1979 Il Concerto 14 giugno 1979: Concerto per Demetrio Stratos. Trentennale, con richiamo a una azione fotografica
Redazione, Amministrazione, Abbonamenti: Graphia srl, via Zuretti 2a, 20125 Milano; 02-66713604; graphia@tin.it. ● FOTOgraphia è venduta in abbonamento.
34 Quella Fotografia, e questa
● FOTOgraphia è una pubblicazione mensile di Graphia srl, via Zuretti 2a, 20125 Milano. Registrazione del Tribunale di Milano numero 174 del Primo aprile 1994. Poste Italiane SpA - Spedizione in abbonamento postale - D.L. 353/2003 (convertito in Legge il 27-02-2004, numero 46), articolo 1, comma 1 - DCB Milano.
Dal 16 giugno 1979: Venezia ’79 la Fotografia. Trentennale, con sottolineature del Tempo che scorre di Maurizio Rebuzzini
● A garanzia degli abbonati, nel caso la pubblicazione sia pervenuta in spedizione gratuita o a pagamento, l’Editore garantisce la massima riservatezza dei dati forniti dagli abbonati e in suo possesso, fatto diritto, in ogni caso, per l’interessato di richiederne gratuitamente la rettifica o la cancellazione ai sensi della legge 675/96.
42 La parola ai giurati Grazia Neri, Mary-Ellen Mark e Bruce Davidson, dalle giurie del Sony World Photography Award 2009 Interviste di Lello Piazza
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46 Un altro Sumo 17 giugno 1999: il giorno della clamorosa monografia Sumo, di Helmut Newton. Nel decennale, nuova edizione e mostra delle immagini del prezioso volume. A Berlino di Angelo Galantini
66 Parole non dette (?) C’è ancora chi sente la voce, ma non capisce le parole
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57 Quanta magia! La magia della polaroid, al Centro Italiano della Fotografia d’Autore, di Bibbiena: fino all’inizio di settembre. Con annotazioni complementari, a sviluppo immediato di Antonio Bordoni
COLLABORATO
Bruce Davidson Antonio Bordoni Centro Italiano della Fotografia d’Autore Fiaf (Federazione Italiana Associazioni Fotografiche) Mary-Ellen Mark Grazia Neri Loredana Patti Lello Piazza Franco Sergio Rebosio Gabriele Renna Ciro Rebuzzini Filippo Rebuzzini Emilio Tremolada (TremolDada)
Rivista associata a TIPA
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www.tipa.com
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Alla Photokina e ritorno Annotazioni dalla Photokina 2008 (World of Imaging), con richiami e riferimenti che non si esauriscono con il solo svolgimento della Photokina
Riflessioni, Osservazioni e Commenti sulla Fotografia: spunti utili e proficui sia al comparto tecnico-commerciale sia al mondo della fotografia espressiva e creativa
Alla Photokina e ritorno dodici pagine, ventinove illustrazioni
Reflex con contorno ventotto pagine, settantuno illustrazioni
Visioni contemporanee venti pagine, quarantotto illustrazioni
I sensi della memoria dieci pagine, ventisette illustrazioni
La città coinvolta dieci pagine, ventisei illustrazioni
E venne il giorno (?) sei pagine, quindici illustrazioni
E tutto attorno, Colonia sei pagine, diciassette illustrazioni
Ricordando Herbert Keppler due pagine, due illustrazioni
Ciò che dice l’anima sei pagine, undici illustrazioni
Sopra tutto, il dovere quattro pagine, otto illustrazioni
• centosessanta pagine • tredici capitoli in consecuzione più uno • trecentoquarantatré illustrazioni
In forma compatta dieci pagine, venticinque illustrazioni
Tanti auguri a voi venti pagine, cinquantadue illustrazioni
Alla Photokina e ritorno di Maurizio Rebuzzini 160 pagine 15x21cm 18,00 euro
F O T O G R A P H I A L I B R I Graphia srl • via Zuretti 2a - 20125 Milano 02-66713604 • graphia@tin.it
Saluti da Colonia sei pagine, nove illustrazioni
Citarsi addosso sette pagine
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utto sommato, ci avevamo anche creduto. Lo scorso dicembre, abbiamo celebrato i centosettant’anni della fotografia, conteggiati dalla relazione del 7 gennaio 1839, con la quale l’accademico François Jean Dominique Arago, matematico, fisico e astronomo, ma soprattutto influente uomo politico della Francia del primo Ottocento, offrì a Louis Jacques Mandé Daguerre il crisma ufficiale della sua invenzione. Datando la nascita della fotografia (in forma di dagherrotipo) da quell’annuncio all’Académie des Sciences, di Parigi, abbiamo ipotizzato di scandire ulteriori passi di quei primi giorni di Fotografia, nel corso del corrente 2009, sognando di riuscire a farlo. E, invece, in assenza di partner di supporto e sostegno, molto si è esaurito in se stesso. Speriamo non tutto. Davanti, abbiamo ancora un semestre, e qualcosa potrebbe pure accadere, oltre altre ricorrenze più prossime che via via ricordiamo; tanto che, riveliamolo subito, questo numero di FOTOgraphia ne contiene addirittura quattro: un cinquantenario, due trentennali e un decennale. Ma non sono queste quantità, che si allineano con la qualità dei richiami temporali allestiti, a fare la differenza; così come, in anticipazione, non potranno neppure farla le rievocazioni dei quarant’anni dal primo uomo sulla luna (il prossimo luglio) e dei cinquant’anni di Nikon F (meglio, di F Mount), che affronteremo in autunno. La verità è che, senza alcun rammarico né rimpianto, dobbiamo registrare che il mondo attuale della fotografia è poco interessato ai propri richiami storici, che potrebbero dare senso e consistenza anche all’attualità. Noi, almeno, la pensiamo così, ma non troviamo compagnia. Per quanto possiamo essere fermamente convinti che «La storia non può insegnare niente se scegliamo di dimenticarla» (con Anne Perry, da I peccati di Callander Square; Mondadori, 1983), non possiamo indurre altri a pensarla allo stesso modo. In definitiva, saremmo anche convinti che c’è molto che non possiamo insegnare, mentre c’è sempre tanto da imparare. Anche dalla storia, soprattutto dalla propria Storia. Ogni vita cela un mistero, anche quella della fotografia ne potrebbe svelare molti. Incoraggianti per alcuni di noi, le lezioni della Storia sono osservate con diffidenza dai più, che credono soltanto alla contemporaneità. A ciascuno, come spesso diciamo, il proprio. La difficoltà di immedesimarsi in condizioni che non sono nostre sta alla base di tanti equivoci, forse di troppi. E così, restiamo pure dove siamo. Per quanto possibile, in immediata prosecuzione, da parte nostra continueremo a sollecitare alla riflessione a partire da valori che si sono manifestati e affermati nel corso del Tempo. È proprio il rispetto del Tempo che scarta a lato il giudizio severo e il monito assoluto dalla divulgazione che aiuta e sostiene la crescita di ciascuno di noi. Anche parlando, impariamo sempre molto. E continuiamo a parlare. Maurizio Rebuzzini
Chi volesse affrontare e approfondire i primi passi della fotografia in Italia, può farlo con una ottima e preziosa edizione libraria Alinari, che sopravvive all’esposizione di originali, allestita a Firenze e Roma, nel corso del 2003: L’Italia d’Argento. 1839/1859 Storia del dagherrotipo in Italia; a cura di Maria Francesca Bonetti e Monica Maffioli; Alinari, 2003; 276 pagine 24x29cm; 55,00 euro.
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ALTRO RAZZISMO (?)
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Lo confesso subito, prima che nascano equivoci di sorta: non ho condiviso gli entusiasmi per l’elezione di un presidente degli Stati Uniti di colore (spero che la definizione sia politicamente corretta: non ne trovo altre adeguate). Non sto a sottolineare che Barack Obama è un nero tutto sommato accomodante: di bell’aspetto, non è certo l’archetipo della minoranza afroamericana e delle sue problematiche sociali di segregazione (del resto, come ricordammo in tempi opportuni, in celebrazione dei primi cinquanta anni del mensile Playboy, anche la prima Playmate di colore, Jennifer Jackson, Miss marzo 1965, presentava un incarnato analogamente chiaret-
to; FOTOgraphia, luglio 2003). Così come, in allineamento, non entro nel merito di tante altre vicende autenticamente politiche. Soltanto, non mi allineo con il compiacimento generale, perché un presidente degli Stati Uniti è e resta tale e quale: presidente degli Stati Uniti. Alcune personalità possono anche smuovere qualche tematica, ma la sostanza di fondo rimane sempre la stessa: il ruolo che non può non assolvere, i compiti che deve oggettivamente e legittimamente svolgere. Soltanto, con Barack Obama alla Casa Bianca, ora dovremmo essere tutti zittiti: non si può criticare la politica di un presidente... nero. Anche questa, di segno opposto
Primo premio People in the News Stories al World Press Photo 2009: Callie Shell, Usa, Aurora Photos. Campagna elettorale di Barack Obama.
Premio Pulitzer 2009 nella categoria Feature Photography: Damon Winter. Reportage sulla campagna elettorale di Barack Obama, pubblicato dal New York Times.
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alla consuetudine, è una clamorosa forma di razzismo, appunto all’inverso. Non si possono accusare i neri, che vanno regolarmente all’incasso di una condizione sociale tanto avversa, da far guadagnare a tutti loro la santità in Terra. Soltanto il divertente settimanale Cuore, diretto dal sagace Michele Serra, ha avuto il coraggio, anni fa, di esternare un pensiero adeguatamente corretto, civile e legittimo. Una volta accertate le responsabilità e la colpevolezza del giudice statunitense nero Clarence Thomas, accusato di molestie dalla professoressa Anita Hill, titolò che «Grazie al giudice Thomas, finalmente possiamo affermare che anche i neri possono essere stronzi» (o giù di lì, ma il senso è questo). L’appartenere a una minoranza bistrattata, segregata e quanto d’altro, non dà le stigmate della santità: ognuno si guadagna la propria dignità da solo (anche se so bene che per qualcuno è più difficile riuscire a farlo, soprattutto per i neri d’America e qualcun altro).
OBAMA FOTOGRAFATO Bene. Nei mesi scorsi abbiamo registrato e presentato lo svolgimento e i risultati di alcuni premi del fotogiornalismo internazionale. Il discorso Obama è trasversale a molti di questi, sia statunitensi (in modo particolare) sia internazionali (a seguire). Ne richiamiamo due a testimonianza di tanti analoghi: Callie Shell (Usa), Aurora Photos, primo premio nella categoria People in the News Stories del World Press Photo 2009, con un reportage sulla campagna elettorale di Barack Obama [FOTOgraphia, marzo 2009; e qui a sinistra]; Damon Winter (ovviamente, Usa) premio Pulitzer 2009 nella sezione Feature Photography, con un altro reportage sulla campagna elettorale di Barack Obama, pubblicato dal New York Times [FOTOgraphia, maggio 2009; e qui a sinistra, ancora]. Certo, giudichiamo soltanto in base alle fotografie che sono state libe-
Piano di attacco sulla sabbia, confine Chad-Sudan, gennaio 2007, di Stanley Greene (Noor): secondo premio General News Singles al World Press Photo 2008. Da questa immagine, sostanzialmente insignificante se il soggetto non viene rivelato, ripetiamo riflessioni sullo svolgimento dei concorsi fotogiornalistici e dintorni.
Primo premio Arts and Entertainment Stories al World Press Photo 2009: Roger Cremers, Olanda. Visitatori al museo di AuschwitzBirkenau, in Polonia.
ralizzate, in accompagnamento delle note stampa dei due premi, che sono appunto quelle già pubblicate nei due numeri della nostra rivista appena ricordati e replicate oggi. Però, la valutazione non è sbrigativa, né campata per aria, perché dobbiamo ipotizzare che le rispettive organizzazioni abbiano diffuso immagini significative dei relativi reportage, non hanno certamente scelto immagini farloccate. Quindi, basiamo le nostre considerazioni su queste due immagini, che non hanno certo meriti da World Press Photo e Pulitzer, ma! Ma sono dietro-le-quinte di una campagna elettorale epocale per gli Stati Uniti, quella del suo primo presidente nero, con tutto quanto questo significa e significherà in avanti.
REGOLE COMPOSITIVE llungando le considerazioni tra contenuto e forma, che attraversano l’attuale intervento redazionale, testimoniamo di una Aosservazione colta al volo all’inaugurazione della mostra delle fotografie vincitrici al recente Sony World Photography Award 2009, del quale abbiamo ampiamente riferito lo scorso maggio. Di fronte alla serie con la quale lo statunitense David Zimmerman si è imposto nella categoria Fine Art / Paesaggio, ottenendo poi anche l’Iris d’Or come vincitore assoluto, c’è chi ha sbrigato tutto limitando le immagini alla regola della scomposizione geometrica del soggetto, abbecedario dell’inquadratura fotografica. Invece, queste visioni di David Zimmerman non si esauriscono nella propria forma, ma approdano a contenuti sostanziosi. Il fotografo ha realizzato una straordinaria rilevazione dei deserti al sud-ovest del paese. Ambienti di totale ecosistema estremamente fragili, seriamente minacciati da inquinamento atmosferico, inadeguata gestione federale e pressioni per un utilizzo più intensivo, soprattutto turistico. La sua colta documentazione fotografica intende influenzare la conservazione, attraverso la sensibilizzazione del pubblico e delle istituzioni.
Dal punto di vista giornalistico, e fotogiornalistico a ridosso o in allineamento, questo non basta, soprattutto se è raccontato con fotografie che poco hanno di epocale; forse, nulla del tutto. Senza approdare a uno scontro di assoluti che dividono, se dobbiamo esprimere un parallelo, richiamiamo l’intenso reportage di Paul Fusco, che il 6 giugno 1968 seguì il treno che trasportava la bara di Robert Kennedy, assassinato durante la sua campagna elettorale, da New York a Washington. Recentemente raccolto in monografia, il lungo racconto RFK Funeral Train è toccante, emozionante e rappresentativo di un’epoca e di un mondo (non a sé) [FOTOgraphia, luglio 2008].
CONCORSI In allungo, una volta imboccata la strada dei concorsi fotografici internazionali, usciamo dalle strettoie nelle quali ci siamo cacciati, riprendendo nostre precedenti annotazioni, che meritano replica. Ricordiamo ancora una relazione di Lello Piazza, per curiosità pubblicata nello stesso numero dello scorso luglio 2008, appena richiamato. Nel corso di una visita guidata alla mostra del World Press Photo 2008, organizzata a Milano da Canon, sponsor tecnico dell’iniziativa, tra i tanti commenti alle fotografie premiate, ricchi di informazioni e puntuali come sempre, Elena Ceratti, dell’Agenzia Neri, ha precisato anche il funzionamento delle giurie e le regole che si danno. Citato da Lello Piazza, il commento di Elena Ceratti riguardò «una fotografia
di Stanley Greene, dell’Agenzia Noor, nella quale è inquadrato un particolare di un terreno coperto da segni, evidentemente tracciati da una o più dita, e un paio di impronte di suola di scarpa [a sinistra]. Le tracce evocano il modo in cui è stato assalito il villaggio di Furawiya nel Darfur (Sudan occidentale), avvenuto nel 2003. Alla fine di gennaio 2007, il diagramma è stato disegnato da un sopravvissuto a quell’attacco, che Stanley Greene ha incontrato in un campo profughi sul confine con il Chad. Il villaggio fu raso al suolo e furono commesse le solite atrocità nei confronti degli abitanti. Di grande valore emotivo e testimoniale, l’immagine ha vinto il secondo premio nella categoria General News Singles, del World Press Photo 2008. Lello Piazza: «Però, c’è un però. La regola che la giuria adotta è la seguente: viene fatta una prima selezione delle immagini, separando quelle che possono ricevere un premio da quelle che sicuramente non potrebbero vincere. Date le decine di migliaia di fotografie da esaminare (più di ottantamila nell’edizione 2008, per fotografie scattate nel 2007), la scelta avviene con voto rapido, tipo “dentrofuori”, senza discussione. Poi, a seguire, si svolgono le parti successive del giudizio, con ampia e accanita discussione per scegliere i vincitori. «Tutto regolare: questo è il modo di procedere di quasi tutte le giurie. «Ma c’è un particolare: nella prima fase, per accelerare i lavori, non si leggono, né considerano, le di-
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dascalie delle fotografie. Decisione impegnativa, evidentemente. Ma ogni giuria ha il diritto di darsi le regole che ritiene più opportune. «A questo punto la domanda è? Come è passata al secondo turno questa fotografia di Stanley Greene? Senza didascalia, senza propria definizione, l’immagine non suscita alcun interesse. Evidentemente, dal momento che questa fotografia è stata molto pubblicata, i membri della giuria, tutti professionisti del settore, l’hanno riconosciuta e promossa. Allora, altre due riflessioni. «La prima: che senso ha rinunciare alle didascalie, anche se si è solo in una prima “brutale” fase di scelta? Per quanto Henri Cartier-Bresson abbia affermato il diritto delle fotografie di non essere didascalizzate, “Parlino agli occhi e al cuore”, nel fotogiornalismo l’ipotesi di rinunciare alla didascalia mi sembra per lo meno azzardata. Più ragionevolmente, Walter Benjamin ha scritto: “La macchina fotografica diventa sempre più piccola e sempre più capace di afferrare immagini fuggevoli e segrete, il cui effetto di shock blocca nell’osservatore il meccanismo dell’associazione. A questo punto deve intervenire la didascalia, che include la fotografia nell’ambito della letterarizzazione di tutti i rapporti di vita, e senza la quale ogni costruzione fotografica è destinata a rimanere approssimativa”. «Rinunciando alla didascalia si può perdere una fotografia importante. Per quanto riguarda la fotografia di
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Stanley Greene, un ospite del sito di Foto8 (www.foto8.com) ha osservato: “Un’immagine che ha vinto un premio e che senza didascalia è soltanto un insignificante scarabocchio è quella di Stanley Greene, che mostra un piano di battaglia schizzato nella sabbia. Con la didascalia, lo scarabocchio si trasforma in qualcosa di veramente minaccioso, uno sguardo in un genocidio”. «La seconda riflessione sui concorsi fotografici professionali, che temo non troverà nessuno d’accordo: già che ci siamo, perché non abolire addirittura l’anonimato sul nome dell’autore? Io ritengo che non sarei influenzato dal sapere che un certo scatto è di James Nachtwey, Tim Hetherington o Francesco Zizola. Credo che saprei giudicare l’immagine per quello che è, anche se l’autore fosse la Madonna (di Lourdes)». E questo è il lungimirante pensiero di Lello Piazza, in doverosa replica.
ANCORA ALTRO Allo stesso tempo e modo: al World Press Photo 2009, per fotografie scattate lo scorso 2008, come è stata giudicata alla prima selezione rapida la fotografia dell’olandese Roger Cremers, che si è poi affermata nella categoria Arts and Entertainment Stories [a pagina 9]? Se non si ha la (pre)informazione che si tratta di visitatori al museo del campo di sterminio nazista di Auschwitz-Birkenau, in Polonia, si rischia di liquidare in fretta questa
Leopardo delle nevi ( Panthera uncia), uno degli animali più elusivi e in pericolo di estinzione della fauna mondiale. Riprese nell’Hemis High Altitude National Park, in Ladakh, India, queste fotografie dello statunitense Steve Winter sono valse il titolo di BBC Wildlife Photographer of the Year 2008 [ FOTOgraphia, febbraio 2009]. Quindi, l’intero reportage si è affermato nella categoria Nature Stories del World Press Photo 2009 [ FOTOgraphia, marzo 2009]. Per ottenere le fotografie sono stati necessari dieci mesi di osservazioni delle abitudini dell’animale e vari tentativi. Ma per il grande pubblico sono soltanto fotografie in esterni di un grosso gatto.
banale inquadratura di due signori di spalle, entrambi in tuta rossa, che fotografano/filmano un edificio, oggettivamente anonimo. E non è tutto. Bisogna anche entrare nella parte degli altri, apprezzando le valutazioni della giuria del Wildlife Photographer of the Year, il più prestigioso concorso di fotografia naturalistica del mondo, del quale abbiamo riferito lo scorso febbraio, ma considerando legittime anche le osservazioni dei visitatori del sito Internet, nessuno dei quali ha minimamente preso in alcuna considerazione la fotografia vincitrice, successivamente premiata anche nella categoria Nature Stories del World Press Photo 2009. La giuria, le giurie in questo caso, sanno quanto sia difficile avvicinare e fotografare il leopardo delle nevi (Panthera uncia), uno degli animali più elusivi e in pericolo di estinzione della fauna mondiale. Mentre per il pubblico, può apparire la semplice fotografia di un grosso gatto. Per realizzare il suo servizio, pubblicato poi da National Geographic Magazine, lo statunitense Steve Winter ha impiegato dieci mesi di osservazioni delle abitudini dell’animale e organizzato diversi tentativi [in questa pagina]. Quindi, più che meritati sia il BBC Wildlife Photographer of the Year 2008 sia l’affermazione di categoria al World Press Photo 2009. Ma la domanda di fondo rimane: come ha passato le prime fasi di selezione, quelle teoricamente anonime? Insomma, prevenzioni fotografiche in forma di altro razzismo e di appartenenza al proprio mondo sono argomenti che andrebbero dibattuti. Ma, in definitiva, a chi frega ancora qualcosa? M.R.
SPEED GRAPHIC DAL1959
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Precedendo qui una consistente serie di anniversari ricordati e celebrati nelle pagine di questo numero di FOTOgraphia, tanto da definirne e disegnarne una curiosa particolarità redazionale, segnaliamo un affascinante cinquantenario, che anticipa la passerella. Conteggiati dal 23 giugno 1959, questi cinquant’anni sono ricordati prima dei trenta dal Concerto per Demetrio Stratos, da pagina 29, con richiamo a una azione fotografica del tempo, gli stessi trenta da Venezia ’79 la Fotografia, da pagina 34, la cui rievocazione ruota soprattutto attorno la vivace personalità ed esuberanza di Emilio Tremolada, ai tempi anche TremolDada, e i dieci dall’edizione originaria di Sumo, di Helmut Newton, da pagina 46, per la cui ricorrenza l’editore Taschen Verlag ha altresì predisposto un’edizione libraria sostanzialmente standardizzata. Questi cinquant’anni iniziali di un intenso numero di FOTOgraphia, che propone anche altro, oltre le ricorrenze appena rammentate, scartano a lato l’ufficialità della data, per evocare a propria volta un allineamento fotografico. Quello di e con Alfredo Pratelli, ai tempi fotocronista e in seguito abile interprete della sala di posa, che sarebbe stato anche tra i fondatori dell’Afip, l’Associazione Fotografi Italiani Professionisti che tanto peso ha avuto nella definizione della professionalità fotografica nel nostro paese (avremo spazio e modo per parlarne e riparlarne). Ora, dal nostro punto di vista, a un tempo mirato e viziato, non ci interessa tanto l’occasione ufficiale del ventitré giugno di cinquant’anni fa, che releghiamo in chiusura, quanto la certificazione della presenza di Alfredo Pratelli tra i fotocronisti che accolsero la visita di Stato del presidente francese Charles De Gaulle. Lo testimonia una fotografia del tempo, con Alfredo Pratelli in primo piano, a destra dell’inquadratura, accanto ai corazzieri di scorta d’onore dell’automobile presidenziale. Tra le mani, Alfredo Pratelli ha una Speed
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Graphic con tanto di flash a lampadina, che -da tempo in disuso- oggi fa bella mostra di sé nell’arredamento della sua casa milanese. Da lì, la Speed Graphic non è più uscita. Soltanto questa estate, in deroga a un ferreo princìpio di Alfredo Pratelli, la Speed Graphic lascerà temporalmente la mensola dalla quale controlla l’ingresso dell’appartamento. Sabato diciotto luglio, accompagnerà la solenne inaugurazio-
ne della mostra The Weegee Portfolio, che dà lustro al programma di RoveretoImmagini 2009 con l’esposizione di una delle due copie ancora integre e complete della tiratura originaria di ventisei esemplari andata distrutta in seguito a un malaugurato allagamento (l’altra è di proprietà del MoMA di New York, l’altisonante Museum of Modern Art!). Nelle settimane a seguire, fino a domenica trenta agosto, sarà accostata
scenograficamente alle quarantacinque fotografie di Weegee, stampate in carta baritata 40x50cm da Sid Kaplan, che definiscono il percorso di uno dei grandi autori del Novecento. Appunto, inviolabilmente collegato sia alla Speed Graphic sia all’immancabile sigaro tra i denti (FOTOgraphia, settembre 2008). Con l’occasione, una precisazione d’obbligo: il denso programma di RoveretoImmagini 2009, che comprende mostre, dibattiti, incontri e altre tante visioni fotografiche, è una iniziativa della neonata associazione Paspartù fotografia arte cultura (presso Fotomoderna Lino Volani, via Tartarotti 11, 38068 Rovereto TN;
23 giugno 1959, cinquant’anni fa. Visita a Milano del presidente francese Charles De Gaulle. A destra dell’inquadratura, in primo piano, Alfredo Pratelli con Speed Graphic (e poi ulteriore evidenziazione). Noi celebriamo questo cinquantenario; quello politico appartiene ad altri territori, a noi estranei.
IL GRONCHI ROSA
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arliamone: il Gronchi rosa, uno dei francobolli più rari della filatelia italiana, e non soltanto, fu emesso il 3 aprile 1961, per accompagnare il viaggio del presidente della Repubblica Giovanni Gronchi in Sudamerica. Il corso di validità legale sarebbe iniziato il successivo sei aprile, data di partenza del presidente. Del valore nominale di 205 lire e di colore rosa (appunto), il francobollo riporta una carta geografica del Sudamerica e fa parte di una serie di tre dedicati agli stati visitati: Argentina (170 lire), Uruguay (185 lire) e Perù (205 lire). In particolare, il Gronchi rosa evidenzia il Perù, ma ne indica i confini in modo errato, facendo riferimento ai confini precedenti la guerra con l’Ecuador, del 1941-42. Questo errore suscitò le immediate proteste del governo peruviano, per il fatto che i confini errati escludevano l’area amazzonica, la cui sovranità era contestata dall’Ecuador. L’errore derivò dall’uso di un vecchio atlante geografico da parte del disegnatore, Roberto Mura. La distribuzione del francobollo fu immediatamente sospesa, dopo la vendita iniziale di oltre settantamila esemplari (70.625). Le Poste tentarono di eliminare i francobolli, anche quelli già venduti. Si ordinò di coprire con una versione corretta (di colore grigio) gli esemplari già affrancati e spediti, intercettando la corrispondenza in una grandiosa operazione-lampo. Però, alcuni esemplari sfuggirono all’operazione, diventando così il pezzo più ambito dai collezionisti filatelici italiani. La quotazione attuale è estremamente variabile, ma è nell’ordine di circa mille euro per il francobollo nuovo con la gomma integra e di circa cinquecento euro per i francobolli senza gomma, che provengono dalle affrancature delle buste intercettate e ricoperte con il “205 grigio”. Le buste con il Gronchi rosa ricoperto hanno una valutazione di mercato compresa tra seicento e novecento euro, variabile a seconda della qualità e conservazione della busta. Per quei pochissimi valori che invece sono sfuggiti alle ricerche degli ufficiali postali e hanno viaggiato (e sono quindi regolarmente timbrati), si raggiungono quotazioni ragguardevoli, che possono arrivare anche a trentamila euro se sono stati imbarcati sull’aereo del presidente Gronchi nel suo viaggio verso l’America Latina.
www.paspartu.eu, info@paspartu.eu). Ancora, la citata inaugurazione della mostra The Weegee Portfolio, con accompagnamento di Speed Graphic (di Alfredo Pratelli), prevede una conferenza a tema del nostro direttore, Maurizio Rebuzzini, sulla cui disciplina di restare vincolato a un tema (proposto) non siamo disposti a scommettere. In conclusione, per dovere di cronaca, precisiamo che la visita milanese del presidente francese Charles De Gaulle, appunto martedì 23 giugno 1959, ricordò il ruolo che l’esercito francese ebbe, cento anni prima, nel 1859, nelle azioni che culminarono con l’Unità nazionale italiana del successivo 1861. De Gaulle fu accolto dall’allora presidente italiano Giovanni Gronchi, il terzo della Repubblica, eletto il 29 aprile 1955 (al quarto scrutinio, con seicentocinquantotto voti su ottocentotrentatré), passato alla storia per la combinazione con uno dei francobolli più rari della filatelia italiana, del quale riferiamo a parte. A.G.
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INCONTRI FOTOGRAFICI Il film Incontri ravvicinati del terzo tipo, di Steven Spielberg, del 1977, racchiude un sostanzioso concentrato di richiami fotografici. All’inizio del film, la fotografia è impiegata per stabilire un passaggio temporale: quando in un deserto vengono ritrovati gli aerei di una squadriglia militare misteriosamente scomparsa alla fine degli anni Quaranta, sono le fotografie accanto ai comandi che stabiliscono l’intervallo di Tempo trascorso.
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Se proprio vogliamo vederla così, e in effetti lo vogliamo, oltre i tanti valori cinematografici e sociali, Incontri ravvicinati del terzo tipo (Close Encounters of the Third Kind; 1977), di Steven Spielberg, regista e sceneggiatore, racchiude anche un sostanzioso concentrato di vicende e richiami fotografici. Curiosamente, rispetto altre segnalazioni e considerazioni, puntualmente riferite su queste stesse pagine, possiamo affermare e conteggiare che si tratta di annotazioni, per così dire, in sequenza. Infatti, l’osservazione mirata si basa su cadenze che si evolvono nel corso della scena cinematografica. A margine del contatto epocale con extraterrestri in visita sul nostro pianeta, la fotografia è motivo costante di accompagnamento. Prima di tutto, c’è una fotografia attesa e prevedibile. È quella delle reflex tra le mani dell’équipe guidata e diretta dallo scienziato francese
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(a destra, in alto) Fotografia di evocazione. Il comandante Claude Lacombe (François Truffaut) mostra una serie di ritratti a Roy Neary (Richard Dreyfuss), chiedendogli di individuare persone a lui note. Roy Neary riconosce Jillian Guiler (Melinda Dillon). Nel finale, quando gli extraterrestri restituiscono i rapiti nel corso dei decenni, sono i loro ritratti d’epoca che stabiliscono i collegamenti (appunto) temporali.
Claude Lacombe (interpretato dal regista François Truffaut, apprezzato cameo), a capo del progetto governativo internazionale di indagine su fatti misteriosi, non attribuibili a nulla di terreno; ed è soprattutto quella delle dotazioni motorizzate Nikon e Hasselblad, che, al momento (finale) del contatto, appunto l’incontro del Terzo tipo, registrano e documentano ciò che sta accadendo. Quindi, dal nostro punto di vista altrimenti educato e indirizzato, c’è una fotografia inattesa e imprevedibile. In anticipo su quanto stiamo per considerare, c’è la visualizzazione di una medio formato Koni-Omega (per il vero, Rapid Omega 100), affascinante meteora della tecnologia fotografica degli anni Sessanta-Settanta, assolutamente sconosciuta ai più. Ancora, c’è una lezione di inserimento sicuro del caricatore Instamatic in una Kodak semplificata. E poi, non possiamo soprassedere sulla comparsa, nelle scene conclusive del film, di una Pocket Instamatic e una elegante compatta Rollei 35. Allo stesso tempo, per mille motivi, soprassediamo consapevolmente sull’uso di una Kodak Instant (a sviluppo immediato: straordinario capitolo della storia degli apparecchi fotografici degli anni Settanta e immediati seguiti), tra le mani dei figli del protagonista Richard Dreyfuss, nei panni del confuso Roy Neary.
FOTOGRAFIE In Incontri ravvicinati del terzo tipo sono soprattutto tre i momenti nei quali la fotografia, nel senso di copie stampate, svolge un proprio ruolo discriminante. Senza le intenzioni che stiamo per attribuire e considerare, dal nostro punto di vista mirato, già all’inizio del film, la fotografia è impiegata per stabilire un passaggio temporale. Così facendo, lo sottolineiamo, la stessa fotografia svolge uno dei propri compiti/ruoli istituzionali e lessicali (come possiamo osservare soltanto noi tutti, che ci occupiamo di fotografia andando oltre le
superfici e apparenze manifeste). Quando in un deserto vengono ritrovati gli aerei di una squadriglia militare misteriosamente scomparsa alla fine degli anni Quaranta, sono proprio le fotografie accanto ai comandi che, prima di altri riscontri ufficiali, stabiliscono l’intervallo di Tempo trascorso [a sinistra]. Eccola qui, la Fotografia, in maiuscola consapevole e volontaria, come spesso rileviamo e riveliamo, che appunto supera Tempo, e anche Spazio, per portare la mente e le emozioni indietro negli anni, nei decenni. Eccola qui, la Fotografia che è appunto tale: Fotografia del ricordo. Ancora, è Fotografia dell’evocazione la situazione nella quale, in indagine sui motivi che hanno spinto anonime persone a confluire, da tutta la nazione, in un luogo particolare, che gli extraterrestri visitatori hanno indicato come punto di contatto, ufficialmente noto solo alla squadra
Sequenza serrata di cambio dell’obiettivo Nikkor su reflex Nikon, sull’elicottero che si avvicina alla petroliera sovietica Cotopaxi, fatta ritrovare dagli extraterrestri nel deserto. Immediatamente a seguire, le riprese fotografiche dall’elicottero e poi a terra.
(a destra) Contatto con gli extraterrestri, alla fine di Incontri ravvicinati del terzo tipo. Due situazioni fotografiche simultanee. Una, relativa alla parata di reflex Nikon e Hasselblad, motorizzate e automatizzate, che scattano in continuo, ruotando sistematicamente da destra a sinistra. L’altra, rivela che un tecnico della squadra operativa si è fatto cogliere dall’emozione e scatta fotoricordo in proprio, con una Kodak Pocket Instamatic.
CLASSIFICAZIONE HYNEK
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el variegato mondo degli ufologi, che credono (o magari soltanto sperano) in un possibile contatto con intelligenze extraterrestri -e su questo argomento soprassediamo, perché non pertinente-, è in uso applicare una base comune di classificazione, per definire in modo plausibilmente scientifico i fenomeni osservati. Questa classificazione è definita Hynek, dal nome dell’astrofisico statunitense di origine ceca Josef Allen Hynek, consulente del Blue Book Project dell’aeronautica militare degli Stati Uniti, finalizzato a studiare gli oggetti volanti non identificati (Ufo - Unidentified Flying Object o Unknown Flying Object), soprattutto nel territorio nazionale. La classificazione è scandita in sei passaggi successivi, in relazione all’avvistamento: tre a distanza e tre ravvicinati. ❯ Luci Notturne: osservazioni di fenomeni aerei anomali ad alta quota, effettuate di notte. ❯ Dischi diurni: osservazioni di fenomeni aerei anomali ad alta quota, effettuate di giorno. ❯ Radarici: osservazioni di fenomeni aerei anomali, effettuate sia tramite apparecchiature radar sia visualmente. ❯ Incontri Ravvicinati del primo tipo: osservazioni di oggetti volanti anomali, effettuate a una distanza tanto ravvicinata da consentire al testimone di distinguerne alcuni particolari. ❯ Incontri Ravvicinati del secondo tipo: osservazioni di oggetti volanti anomali, effettuate a distanza molto ravvicinata, con interazione dell’oggetto stesso con l’ambiente o il testimone. ❯ Incontri Ravvicinati del terzo tipo: osservazioni di oggetti volanti anomali, effettuate a distanza molto ravvicinata nelle quali, oltre all’oggetto, vengono osservati esseri viventi intelligenti collegabili.
governativa di ricerca, il comandante Claude Lacombe (François Truffaut) mostra una serie di ritratti a Roy Neary (Richard Dreyfuss). Si vogliono stabilire eventuali contatti tra le persone, e Roy Neary riconosce Jillian Guiler (interpretata dall’attrice Melinda Dillon), peraltro madre del piccolo Barry (Cary Guffey), rapito dagli stessi extraterrestri [pagina accanto, a destra, in alto]. In collegamento ideale con l’inizio del film, con il già citato ritrovamento della squadriglia di aerei perduti nel passato remoto, nel finale, quando gli extraterrestri restituiscono i rapiti nel corso dei decenni, che si ri-presentano alle proprie rispettive età del tempo, come se per loro gli anni non fossero trascorsi («Einstein aveva ragione», rileva uno degli addetti del progetto governativo), sono ancora i ritratti d’epoca che stabiliscono i collegamenti (appunto) temporali [pagina accanto, a destra, in basso].
mento squisitamente professionale. Soprattutto per chi, come noi, vive la fotografia è affascinante la sequenza serrata di cambio dell’obiettivo Nikkor su reflex Nikon, sull’elicottero che si avvicina alla petroliera sovietica Cotopaxi, abbandonata dagli extraterrestri nel deserto; oppure, ed è lo stesso, fatta ritrovare nel deserto. Immediatamente a seguire, le riprese fotografiche dall’elicottero e poi a terra [a sinistra]. A seguire, nel finale, là dove stiamo per sottolineare l’impiego di una
MACCHINE FOTOGRAFICHE Da qui, passiamo al secondo dei due capitoli fotografici che abbiamo individuato e isolato dalla scenografia, non sceneggiatura, del film Incontri ravvicinati del terzo tipo. Come anticipato, liquidiamo subito ciò che è oggettivamente inevitabile che ci sia: l’approccio e condi-
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Pocket Instamatic, è più che straordinaria la parata di reflex Nikon e Hasselblad, motorizzate e automatizzate, con diversi magazzini portapellicola, immancabilmente nere, che scattano in continuo, ruotando sistematicamente da destra a sinistra, al momento del contatto con gli extraterrestri, quando l’imponente astronave madre si libra nell’aria e poi atterra davanti alla postazione terrestre [a pagina 15]. Sempre professionale, seppure in citazione di nicchia, è l’apparizione di una Koni-Omega, nello specifico una Rapid Omega 100, del 1975 (il film è del 1977), sempre nelle scene nel deserto, quando si rintraccia e recupera la petroliera Cotopaxi, ennesimo indizio di contatto lasciato dagli extraterrestri [qui sopra]. Richiamo di nicchia, diciamo, perché su questa genìa di apparecchi per esposizioni 6x7cm non si è mai accesa alcuna luce della ribalta. Per la cronaca, si è trattato di una collaborazione fotografica tra la giapponese Konica e la statunitense Omega, finalizzata al mercato interno americano: pratici, versatili ed efficaci apparecchi per fotogiornalismo. A completamento, come anticipato, nel film Incontri ravvicinati del terzo tipo ci sono anche momenti fotografici assolutamente non professionali, assolutamente da fotoricordo. Ancora in ordine, sempre con visualizzazione in sequenza: ribadiamolo, autentico motivo conduttore della fotografia in questa scenografia cinematografica. Anzitutto, è più che lodevole la si-
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Visibilmente emozionato, Roy Neary (Richard Dreyfuss) cerca di inserire il caricatore di pellicola nella propria Kodak Instamatic. Per la fretta, sbaglia verso, cerca di chiudere il dorso, ma non ci riesce, perché il dorso si chiude solo se e quando il caricatore di pellicola è posizionato in modo corretto. Roy Neary rovescia la posizione e tutto funziona alla perfezione. (a sinistra) Rapid Omega 100, citazione di nicchia nelle scene nel deserto, quando si rintraccia e recupera la petroliera Cotopaxi.
Anche Jillian Guiler (Melinda Dillon) cede alla rituale fotoricordo. Con una elegante Rollei 35 fotografa la partenza di Roy Neary (Richard Dreyfuss), che gli extraterrestri accolgono sulla propria astronave.
tuazione nella quale un emozionato Roy Neary (Richard Dreyfuss) cerca di inserire il caricatore di pellicola nella propria Kodak Instamatic. Per la fretta, sbaglia verso, cerca di chiudere il dorso, ma non ci riesce, perché, come qualcuno si ricorda, l’epocale introduzione delle Instamatic sul mercato fotografico mondiale si basò soprattutto sulle sicurezze di impiego, a prova di utenti più che inesperti, incapaci addirittura. Così,
il dorso si chiude solo se e quando il caricatore di pellicola, 126 in gergo e codice, è posizionato in modo corretto. Roy Neary, rovescia la posizione e tutto funziona alla perfezione [a centro pagina]. A seguire, a fine film, nella celebre sequenza cinematografica del contatto fisico con gli extraterrestri, motivo e senso dell’intera sceneggiatura, intravediamo un tecnico della squadra operativa che si fa cogliere dall’emozione e scatta fotoricordo in proprio, con una Kodak Pocket Instamatic, facendo capolino tra le Nikon e Hasselblad automatizzate di documentazione ufficiale [ancora a pagina 15]. Anche Jillian Guiler (l’attrice Melinda Dillon, coprotagonista del film) cede alla rituale fotoricordo. Con una elegante Rollei 35 fotografa la partenza di Roy Neary, che gli extraterrestri accolgono sulla propria astronave [qui sotto]. In definitiva, una consistente serie di incontri fotografici a margine e contorno di quello che il film ipotizza essere quello definitivo e fondamentale con entità extraterrestri. L’incontro del Terzo tipo. M.R. Ricerca iconografica di Filippo Rebuzzini
Anche se non scatta fotografie, il giornalista italiano svolge un lavoro prezioso e ho voluto dargliene atto.
È MANCATO HUGH VAN ES.
PATROCINIO UNESCO. A maggio, a monografia Il Dono, di Giorgia Fiorio, ha ricevuto il patrocinio Unesco come importante contributo alla salvaguardia del patrimonio immateriale dell’umanità. La serie fotografica è il risultato di un progetto che ha impegnato la fotografa italiana per quasi dieci anni. In tutto questo tempo, Giorgia Fiorio ha raccolto una vasta documentazione visiva sulla spiritualità dell’Uomo, visitando luoghi normalmente inaccessibili, assistendo a riti misteriosi, viaggiando attraverso numerose nazioni e incontrando molti popoli [qui sopra]. A cura dall’editore Peliti Associati, di Roma, la monografia è stata realizzata in coedizione internazionale con Editions Actes Sud (Francia), Edition Braus (Germania) e Apeiron (Grecia): con testi di Gabriel Bauret, Daniele Del Giudice e Giorgia Fiorio; 232 pagine 29x24cm; centotrentotto fotografie bianconero stampate in tricromia; 49,00 euro. GIORNALISTA DI PENNA. Per una volta segnalo un premio a un giornalista di penna, che ammiro. Il nove maggio, l’associazione dei giornalisti tedeschi ha assegnato il Premio per la libertà di stampa a Marco Travaglio.
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Ricordate l’immagine simbolo della disfatta americana in Vietnam? Quella colonna umana che cerca di salire su un elicottero in partenza dal tetto dell’edificio nel quale alloggiava il personale dei servizi segreti americani, e che la propaganda Usa continuò invece a presentarci per lunghissimo tempo come il tetto dell’ambasciata? Era il 29 aprile 1975. Appostato nelle vicinanze, il fotogiornalista olandese Hugh Van Es, in missione per l’Upi (United Press International), per la quale aveva coperto sette anni di guerra in Vietnam, scatta una fotografia indimenticabile, che fa immediatamente il giro del mondo [qui sotto]. Hugh Van Es, che dopo la caduta di Saigon viveva a Hong Kong, è morto lo scorso quindici maggio nella città adottiva, al Queen Mary Hospital, dove era stato ricoverato per un infarto.
La visione di Berlino di Gianluca Santoni affermatasi nel concorso fotografico tedesco finalizzato al turismo.
(a sinistra) Patrocinio Unesco a Il Dono, di Giorgia Fiorio (Peliti Associati, 2008): vasta documentazione visiva sulla spiritualità dell’Uomo; progetto elaborato in dieci anni. 29 aprile 1975. La fotografia di Hugh Van Es (Upi) che è diventata immagine-simbolo della disfatta americana in Vietnam.
Irisz Lukács si sono rispettivamente aggiudicati il secondo e il terzo premio, di tremila e duemila euro. Le fotografie selezionate sono state riunite nella mostra Istantanee della Germania, che verrà esposta in venti paesi. Gianluca Santoni è nato a Viareggio, in provincia di Lucca, nel 1963. Il suo primo reportage è stato pubblicato nel 1989 da L’Illustrazione Italiana. La sua specialità è la fotografia di viaggio; ha collaborato e collabora regolarmente con riviste come Bell’Europa, In Viaggio, Meridiani, Traveller e Bell’Italia. Oltre a questo premio recente, ha ricevuto altri riconoscimenti, tra i quali il Fuji Euro Press Photo Award Italia, nel 2005, il Bronze Award all’Orvieto Festival 2006 e la Special Mention FAO Award per l’International Year of Rice, nel 2004.
LYNSEY ADDARIO FERITA. Sabato nove maggio, l’automobile che stava riportando dal campo rifugiati di Mardan (Pakistan) verso la capitale del paese la bravissima fotogiornalista Lynsey Addario (on assignement per il New York Times) e un altro famoso fotoreporter, Teru Kuwayama (on assignement per Newsweek), è stata coinvolta in un grave incidente stradale. L’autista, Raza Khan, è morto; mentre i due fotogiornalisti sono stati ricoverati in condizioni non preoccupanti in un ospedale di Islamabad. Al momento dell’incidente, Teru Kuwayama era seduto di fianco all’autista e non aveva le cinture al-
FOTOGRAFIA TURISTICA. Nell’ambito delle iniziative per il Ventesimo anniversario della caduta del Muro, l’Ente Nazionale Germanico per il Turismo (Engt) ha indetto un Concorso fotografico internazionale sul tema 2009: 20° anniversario della caduta del Muro - Germania, un’affascinante meta turistica. Sponsor principale dell’iniziativa, il gruppo assicurativo HanseMerkur. Al Concorso hanno partecipato trentuno fotogiornalisti, provenienti da venti paesi: con fotografie realizzate durante viaggi stampa individuali a Berlino, dal settembre 2008 al gennaio 2009. I premi sono stato consegnati l’undici maggio. L’italiano Gianluca Santoni ha vinto il primo premio (cinquemila euro) [a destra, in alto]; lo spagnolo Eduardo Grund e l’ungherese
Dal reportage sui militari americani in Afghanistan realizzato lo scorso anno da Lynsey Addario, che è rimasta ferita in un incidente automobilistico.
Questa rubrica riporta notizie che sono appartenute alla cronaca. Però, nel loro richiamo e riferimento molti motivi ci impediscono di essere tempestivi quanto la cronaca richiederebbe. Ciononostante riteniamo giusto proporle, perché siamo convinti che non abbiano perso la propria attualità, e continuino a offrire spunti di riflessione. lacciate, mentre Lynsey Addario dormiva sul sedile posteriore. Ricordo che lo scorso anno, Lynsey Addario ha realizzato uno dei più bei reportage sui militari americani in Afghanistan [pagina accanto, in basso], al quale, nell’edizione 2008 del World Press Photo, è stato preferito, a mio giudizio inspiegabilmente, il lavoro di Tim Hetherington, sempre sull’Afghanistan [FOTOgraphia, aprile 2008]. Oltre all’affermazione nel 2008 Getty Images Grant for Editorial Photography, Lynsey Addario fa parte della squadra di giornalisti del New York Times che ha vinto il premio Pulitzer 2009 per il reportage internazionale.
FREEDOM OF THE PRESS 2008. Questo importante rapporto è l’unico a fare il punto, ogni anno, sulla libertà di informazione nel mondo. Gli interessati non solo possono consultare il sito www.freedomhouse.org, dal quale scaricare la versione completa, ma possono anche iscriversi alla associazione Freedom House (che lo elabora), sostenendola magari con una donazione: l’offerta è libera. Per dare l’idea dell’humus culturale nel quale, nel 1941, è stata creata
La BBC richiede fotografie e video per il proprio Sito: naturalmente in forma gratuita.
Freedom of the Press 2008: unico rapporto a fare il punto, ogni anno, sulla libertà di informazione nel mondo (www. freedomhouse.org). L’Italia è passata dalla categoria dei paesi liberi a quella dei parzialmente liberi. Freedom of the Press 2008: sintesi percentuali della libertà di informazione nel mondo, per paesi e popolazione.
Freedom House, ricordiamo che tra i fondatori c’era Eleanor Roosevelt, moglie del presidente statunitense Franklin Delano Roosevelt, l’inventore del New Deal, piano che fu risolutivo per il superamento della Depressione del 1929. Sempre per sottolineare l’ampio respiro culturale dell’America di quei decenni, ricordiamo anche che all’interno del New Deal fu istituita e operò la Farm Security Administration (Fsa), incaricata di un immenso progetto fotografico che aveva lo scopo di documentare visivamente gli aspetti della povertà indotta dalla grande crisi. Come è noto, con la Fsa collaborarono fotografi come Walker Evans, Dorothea Lange, Russell Lee, Arthur Rothstein, Ben Shahn, John Vachon, Marion Post Wolcott e Gordon Parks (unico nero della compagine). Ritornando al Freedom of the Press 2008, ricordo che i risultati contenuti sono frutto di una indagine capillare sullo stato dell’informazione in centonovantacinque paesi. La situazione, nota il rapporto, indica una tendenza in continuo, anche se lieve, peggioramento. Per esempio, nel 2008, tre paesi, Hong Kong Special Administrative Region, Israele e Italia, sono passati da liberi a parzialmente liberi. Rimando alle illustrazioni qui a sinistra, nelle quali sono sintetizzati i dati pubblicati. Si osserva che, se in termini di numero di paesi, il trentasei percento sono considerati “liberi”, in termini di numero di abitanti del pianeta Terra, solo il diciassette percento può usufruire di libera informazione. Concludo, osservando che, nella classifica Freedom of the Press 2008, l’Italia passa dal sessantacinquesimo posto del precedente rapporto al settantatreesimo, dietro paesi come Sudafrica, Ghana, Mali. Anche altri paesi occidentali non stanno bene: Spagna, quarantanovesimo posto; Francia, trentottottesimo; Austria, trentatreesimo; Stati Uniti, ventisettesimo; Germania, diciottesimo. I paesi occidentali più liberi sono, al solito, quelli del Nord Europa: Islanda, primo; Finlandia e Norvegia, secondi a pari merito; Danimarca e Svezia, quarti a pari merito.
SÌ, È PROPRIO LA BBC. Qui a destra visualizziamo una delle pagine
del sito della BBC, all’indirizzo http: //news.bbc.co.uk/2/hi/in_pictures/ default.stm. Ecco cosa chiede la prestigiosa emittente inglese (e meno male che c’è: se volete sapere veramente qualcosa del mondo seguite i suoi notiziari). Chiede immagini e video: gratis naturalmente. È il vizietto più praticato oggi dagli editori. Sull’utilizzo di queste fotografie richiamiamo un esempio, in un’altra immagine qui sopra. Così, Two pingeons with one stone (due piccioni con una fava): gratificano qualche non professionista appassionato di fotografia, e si confezionano le loro pagine web, e probabilmente non solo quelle. Gratis. Peccato mortale? No, no, è così che va il mondo oggi. E ci sono delle ragioni oggettive, lasciatemelo dire, perché ciò può accadere. Queste ragioni consistono nella quantità enorme, infinita, di fotografie, anche di ottima qualità, che si possono trovare molto facilmente sul mercato: grazie a Internet. A cura di Lello Piazza
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ENTUSIASMI (COMMERCIALI?) Personalmente, abbiamo avuto tra le mani la nuova Nikon D5000 in una occasione particolare e speciale, svolta dal distributore italiano Nital, che ha organizzato un viaggio di presentazione a Shanghai e Pechino, nella Repubblica popolare cine-
se (?), coinvolgendo un folto gruppo di fotonegozianti e i redattori delle riviste fotografiche italiane; appunto, noi tra questi. In questo modo, oltre i valori oggettivi che sono stati presentati (dall’équipe tecnica Nital che ruota attorno l’esuberante Beppe Maio), ognuno ha avuto tempo, modo, tranquillità, serenità e opportunità per valutare sul campo le prerogative tecniche che la reflex propone e vanta. Attorno a noi, abbiamo respirato tanto entusiasmo e osservato sinceri compiacimenti. Nei panni di clienti potenziali, data l’occasione, coincidente nei modi di uso, i fotonegozianti hanno sperimentato e ritrovato eccitazioni ed ebbrezze che dovrebbero caratterizzare ancora e sempre il comparto commerciale della fotografia. A questo proposito, riprendendo anche opinioni espresse nel delirio narrativo di Alla Photokina e ritorno, scritto da Maurizio Rebuzzini e pubblicato a margine e complemento di FOTOgraphia, richiamiamo l’attenzione su una condizione che consideriamo discriminante e discriminatoria per il mercato della fotografia. Una volta ancora, e una di più, testuale (dal capitolo Reflex con contorno, il secondo dei tredici più uno totali): «Nella continua sottolineatura che l’applicazione fotografica, soprattutto nella dimensione e veste di hobby individuale, è assolutamente diversa da ogni altra esperienza ed
MAURIZIO REBUZZINI
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uante tante domande impone l’attuale tecnologia applicata alla fotografia? Quante risposte si dovrebbero dare, andando oltre la superficie apparente, che registra soprattutto (e a volte soltanto) la sequenza di caratteristiche tecniche? È curioso rilevarlo; è curioso che lo rileviamo noi, anche perché, così facendo, andiamo magari a confermare nei propri pregiudizi assoluti coloro i quali hanno bollato le nostre pagine con l’infamia della “nostalgia”, della filosofia eterea e non accettazione della realtà dei nostri giorni. Vero niente! Se volessimo farlo, se intendessimo farlo, c’è qualcosa di cui potremmo farci vanto: ed è quello di non aver mai giudicato nulla e nessuno; casomai, abbiamo soltanto sollecitato a pensare, riflettere e considerare, soprattutto sapendosi calare, ciascuno di noi, nei panni degli altri. Così, al pari di ogni configurazione fotografica dei nostri giorni, l’ennesima nuova reflex Nikon, che approda oggi alla identificazione D5000, non può proprio essere commentata in riferimento alle sue sole ufficialità, espresse con cifre che ne stabiliscono valori oggettivi. Tra le mani degli utenti, le reflex del nostro tempo sono qualcosa di diverso (e spesso migliore, non fingiamo di pensare altro) rispetto le proposizioni tecniche del passato, anche soltanto prossimo, non necessariamente remoto. Per cui, indipendentemente dai pixel, che pure contano, e di altri termini attuali, è la finalizzazione delle singole funzioni che fa ancora l’inevitabile differenza.
Shanghai: visita turistica al Giardino del Mandarino Yu. Sotto la pioggia, con ombrelli griffati (pura piaggeria?).
Nikon D5000: 12,3 Megapixel, monitor LCD ad angolazione variabile, possibilità di effettuare riprese video HD. E tanto altro ancora da sollecitare, presentare e condividere (soprattutto con il pubblico potenziale).
La tecnologia fotografica dei nostri giorni è talmente reale e tanto concreta da meritare qualcosa di più, non soltanto di diverso, dalla semplice enunciazione di una consecuzione di caratteristiche tecniche. Con l’occasione della nuova reflex Nikon D5000, indirizzata e rivolta a un pubblico adeguatamente ampio (non certo selettivo, né per prezzo di acquisto/vendita, né per configurazione operativa), spendiamo parole in libertà assoluta. Non osservazioni qualsiasi, ma invito a riflettere sulle condizioni che si esprimono in pertinente equilibrio tra dotazioni tecniche e proiezione commerciale. Ci piace immaginare che questo sia anche uno dei compiti del giornalismo di settore
E REFLEX SIA!
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PROSPETTIVE FOTOGRAFICHE INFINITE ontraddistinta da una versatile combinazione di caratteristiche, tra le quali la possibilità di effettuare riprese video HD (ormai inevitabile), la nuova reflex Nikon D5000 da 12,3 Megapixel offre un monitor LCD ad angolazione variabile. A un tempo, affermazione di princìpio e indicazione di possibilità espressive innovative. A ciascuno, le proprie. Grazie alle numerose funzioni di modifica dell’immagine incorporate, all’ampia gamma di modalità Scena, al sensore CMOS da 12,3 Megapixel effettivi e alla sensibilità elevata (che si allunga da 200 a 3200 Iso equivalenti, espandibile ancora a 100 e 6400 Iso equivalenti, per l’utilizzo in diverse condizioni di illuminazione), la Nikon D5000 consente risultati fotografici formalmente ineccepibili, raggiunti e ottenuti in maniera estremamente semplice. L’innovativo monitor LCD da 2,7 pollici e 230.000 pixel, ad angolazione variabile, può spostarsi di novanta gradi verso il basso e ruotare di centottanta gradi. In modalità Live View, consente di effettuare le riprese da angolazioni nuove e accattivanti, senza alcuna difficoltà. Per esempio, in situazioni concitate, grazie alla Nikon D5000 è possibile avere una visuale chiara al di sopra della folla; oppure, se si devono riprendere immagini vicino a terra, è sufficiente regolare l’angolazione del monitor per avere la migliore visualizzazione del soggetto. Naturalmente, è possibile chiudere il monitor, rivolgendolo verso il dorso della reflex, per proteggerlo, o regolarlo in posizione standard per riprese normali, utilizzando il mirino.
Ovviamente, è possibile chiudere il monitor LCD ad angolazione variabile, rivolgendolo verso il dorso della Nikon D5000, per proteggerlo, o regolarlo in posizione standard per riprese normali, utilizzando il mirino.
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espressione del tempo libero -diversa, in quanto migliore, perché gratificante: esercizio attivo e non passivo, creativo e non statico-, la fotografia reflex configura la manifestazione alta e massima della fatidica combinazione tra strumenti e relativa finalizzazione. Soltanto con apparecchi reflex, adattabili a ogni esigenza e necessità della ripresa fotografica, si possono ottenere risultati superlativi, capaci di sollecitare la creatività individuale e, allo stesso momento, di assolverla, risolvendola. La gamma degli obiettivi intercambiabili è disegnata e scandita proprio per questo: per consentire di affrontare e interpretare al meglio ogni soggetto possibile e potenziale. Dai flash elettronici a ogni altro complemento che amplifica le capacità di utilizzo, oppure semplifica l’impiego dello stesso apparecchio fotografico reflex, gli accessori dedicati sono così indispensabili, e fonte di gratificazione (ripeto), da rappresentare quello straordinario
MAURIZIO REBUZZINI
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prolungamento tecnico che è altresì conteggiato da alcuni (con occhi agli scontrini di cassa) come benefico per le proprie redditività di impresa».
PER ESPERIENZA Nei giorni cinesi di metà aprile, anche noi ci siamo allineati alla fotoricordo che definisce e caratterizza i termini commerciali della fotografia. Allo stesso momento, non abbiamo certo messo da parte quell’idea in più che siamo convinti ci appartenga: dunque, per quanto fotoricordo, esercizio consapevole della fotografia, per raccontare e condividere. La Nikon D5000 si è messa a nostra disposizione, non è successo il contrario: questa è una delle linee di demarcazione che definiscono la tecnologia digitale dei nostri giorni, che di fatto si fa da parte, nel momento stesso nel quale offre e propone prestazioni di profilo alto, ma soprattutto personalizzabile. Ovviamente, lontani ed estranei a queste intenzioni, non abbiamo confezionato alcun test, di quelli che definiscono altre personalità giornalistiche (a ciascuno, la propria). Molto più semplicemente, ne abbiamo sfruttate alcune prerogative. Soltanto alcune. Nei panni del turista, quale siamo stati, in automatismo di esposizione programmato non abbiamo perso alcun ricordo di viaggio, agendo sull’escursione dell’obiettivo standard in dotazione, l’agile zoom AFS DX Nikkor 18-55mm f/3,5-5,6G VR, che non accampa pretese oltre la propria variazione focale e l’apertura relativa adeguatamente confortevole. Ancora, e di più, per dare risalto com-
positivo ad elementi espressivi dell’inquadratura, ci siamo spostati sugli automatismi che danno priorità ai tempi di otturazione, piuttosto che al diaframma. Niente possiamo dire sulle modalità Scena, che ormai sono moltiplicate esponenzialmente, prevedendo tante variabili e situazioni (per gusto individuale, abbiamo apprezzato l’icona del gattino, che simboleggia le condizioni di fotografia di animali domestici: quali saranno i parametri operativi?). Non possiamo neppure aggiungere nulla di nostro a commento delle possibilità di programmazione e correzione on-camera, che stanno crescendo altrettanto esponenzialmente. Soltanto, per quanto l’abbiamo avvicinato con estrema diffidenza, pensando a ciò che possiamo realizzare in postproduzione al compu-
ter (la solita arroganza), testimoniamo dell’efficace semplicità della correzione delle distorsioni sul file appena acquisito. È sicuramente più utile di quanto si potrebbe credere a prima vista. In riferimento all’impatto potenziale sul pubblico, registriamo anche l’efficienza della ripresa video, già presente sulla Nikon D90 dello scorso inverno, altresì impreziosita dal monitor orientabile. Diamine: proprio questa combinazione è eccellente. Finché la ripresa video con apparecchi reflex non apparterrà alla conoscenza di tutti, si possono realizzare candid camera di soggetti che, inconsapevoli, attendono lo scatto fotografico. Lo diciamo, pensando ai due bambini di Pechino che hanno fatto gli scemi, ovvero se stessi, aspettando lo scatto: consentendoci così di riprendere un filmato assolutamente avvincente. Il resto della nostra esperienza non conta, perché non fa alcun testo. Lo confessiamo, con una certa ritrosia (ma non vergogna): abbiamo piegato la Nikon D5000 oltre i confini standard dell’uso comune, applicando la consueta prosopopea e boria che definisce e caratterizza chi crede di essere migliore e più geniale di altri. Forse non siamo proprio così, ma il risultato non cambia: quindi, nessun commento sul no-
LIVE VIEW E D-MOVIE
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otografia e video: l’accesso alla funzione Live View mediante un solo pulsante consente di visualizzare e comporre la ripresa, o il filmato, sul monitor LCD ad angolazione variabile, per ottenere un’inquadratura ottimale della scena presa in considerazione. Per rendere ancor più semplice lo scatto, impostata in Live View, la Nikon D5000 offre quattro modalità autofocus: ❯ Priorità AF al volto rileva automaticamente fino a cinque volti in una scena (in una inquadratura); ❯ AF ad area estesa offre un’ampia area autofocus, per riprese ottimali con l’opzione Mano libera; ❯ AF ad area normale permette una precisione di messa a fuoco ideale su punti specifici, per risultati eccellenti quando si utilizza un treppiedi o un punto di appoggio stabile; ❯ AF a inseguimento del soggetto blocca automaticamente la messa a fuoco su un soggetto prescelto, mantenendola anche se e quando esce momentaneamente dall’inquadratura.
Impostata in Live View, attraverso la funzione D-Movie (con audio), la Nikon D5000 permette di realizzare filmati Motion-Jpeg in diversi formati, a ventiquattro fotogrammi al secondo. Per una riproduzione di alta qualità su HDTV, dotata di uscita HDMI, la D5000 produce filmati a 1280x720 pixel; gli utenti che invece desiderano visualizzare le proprie riprese su monitor di computer, o caricarle su siti Web, possono registrare nel formato 640x424 pixel oppure 320x216 pixel. Dal momento che il sensore della reflex Nikon D5000 ha un’ampiezza maggiore rispetto quella di una normale videocamera, i filmati presentano una migliore qualità dell’immagine e disturbi minimi, anche a sensibilità Iso elevate. Inoltre, la compatibilità della D5000 con gli obiettivi Nikkor AF-S e AF-I, coniugata alla possibilità di utilizzare le impostazioni Picture Control a inizio ripresa, apre una serie infinita di opportunità per esprimere al meglio il proprio estro.
L’innovativo monitor LCD da 2,7 pollici e 230.000 pixel, ad angolazione variabile, può spostarsi di novanta gradi verso il basso e ruotare di centottanta gradi. In modalità Live View, consente di effettuare le riprese da angolazioni nuove e accattivanti, senza alcuna difficoltà.
(al centro) Ingresso della fabbrica Nikon di Wuxi, nella provincia di Shanghai, che occupa quattromila addetti, guidati da uno staff manageriale giapponese (sul fondo, il gruppo di fotonegozianti italiani, invitati dal distributore Nital). Qui si producono compatte e componenti per le reflex; per il futuro, sono previste linee dedicate alla fabbricazione di reflex.
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SHANGHAI: MUSEO DEL PARTITO COMUNISTA PECHINO: CITTÀ PROIBITA
❯ Sensore di acquisizione digitale di immagini CMOS formato DX, da 12,3 Megapixel. ❯ Registrazione video in High Definition. ❯ Connettività HDTV diretta, tramite il collegamento HDMI integrato (High Definition Multimedia Interface). ❯ Sensibilità da 200 a 3200 Iso equivalenti, estendibile fino a 100 e 6400 Iso equivalenti. ❯ Velocità di scatto fino a quattro fotogrammi al secondo. ❯ Ampio e brillante monitor LCD da 2,7 pollici, ad angolazione variabile (90 gradi verso il basso e rotazione di 180 gradi). ❯ Sistema di elaborazione delle immagini Nikon Expeed, tecnologia proprietaria. ❯ Modalità di ripresa Live View, ad attivazione semplificata. ❯ Diciannove efficaci modalità Scena; sistema di riconoscimento Scena integrato con il sistema di rilevamento volti. ❯ D-Lighting attivo, ancora tecnologia proprietaria. ❯ Autofocus a undici punti, con modulo autofocus Multi-CAM 1000. ❯ Sistema di controlli immagine (Picture Control). ❯ Fotoritocco on-camera, con parametri estesi di intervento. ❯ Duplice sistema di riduzione della polvere dal sensore CMOS di acquisizione. ❯ Nuovo modo di scatto silenzioso, che riduce il rumore dello specchio per scattare in silenzio. ❯ Compatibilità totale con tutti gli obiettivi Nikkor AF-S e AF-I e con il Sistema di illuminazione Creativa Nikon CLS. ❯ Batteria di lunga durata, per una consistente autonomia di impiego.
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PECHINO: AREA 798 (DISTRETTO DI ARTE CONTEMPORANEA
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ABBECEDARIO NIKON D5000
stro uso di un caleidoscopio (acquistato in un mercatino di Shanghai, il primo giorno) davanti all’obiettivo, e soprassediamo anche sulle riprese con il foro stenopeico al posto dello zoom standard (per il quale sottolineiamo soltanto almeno due particolarità, peraltro utili a coloro i quali si muovono in questo particolare spazio espressivo: il controllo dell’inquadratura sul brillante monitor! e la possibilità di registrare video stenopeici con audio!). Per quanto possiamo vantare di aver agito con consistente progettualità, estranea al solo appagamento dell’esercizio/gesto atletico della scomposizione caleidoscopica (anche in video) e della interpretazione stenopeica (anche video), siamo consapevoli che si tratti di autentiche “elucubrazioni”, non condivisibili. Quantomeno in riferimento al più consueto commercio della fotografia. Ma non è detto!
ALTRE ESPERIENZE Quante opzioni offre la Nikon D5000, quante opzioni offrono le reflex dei nostri giorni! Ancora dal delirio di Alla Photokina e ritorno:
MAURIZIO REBUZZINI (4)
«Bisogna vendere reflex! Con declinazione conseguente: bisogna acquistare reflex! Questa è (sarebbe) una parola d’ordine irrinunciabile per l’intero mercato della fotografia. Infatti, come sappiamo bene tutti, soltanto la fotografia reflex si accompagna con consecuzioni che sono opportune all’intero comparto commerciale, nel momento stesso nel quale è adeguata alla massima soddisfazione e versatilità della ripresa. Dunque, in un colpo solo, la gratificazione del cliente utilizzatore si allinea con il possibile e potenziale incremento
dei volumi e delle redditività commerciali. Bene!». Abbiamo mostrato la Nikon D5000 a persone che sono transitate per la redazione, per lo più giovani (non certo altro discorso). Ognuno ha diretto la propria attenzione in modo individuale. Per esempio, c’è chi ha subito apprezzato la possibilità di registrazione e archiviazione simultanea di file compressi Jpeg e grezzi Raw, fino a ieri alla portata di configurazioni reflex di altro lignaggio. Ancora, chi ha subito applicato la ripresa temporizzata, per registrare il sorgere del sole in una sequenza serrata di fotogrammi in stile “passo uno”. Altri si sono fatti conquistare dal monitor orientabile. In assoluto, tutti hanno approfondito le prestazioni che dipendono dalla corretta finalizzazione delle caratteristiche tecniche. In una parola, sul campo, invitati al dialogo e orientandolo... quante tante osservazioni e quale coinvolgimento! Diversamente dai modi sbrigativi, che troppo spesso definiscono il commercio della fotografia, penalizzandolo, qualche parola, commenti pacati e tranquillità di intenti hanno fatto una sostanziosa differenza. Per concludere, a giro tondo dall’incipit con il quale abbiamo esordito. Quante tante domande impone l’attuale tecnologia applicata alla fotografia? Quante risposte si dovrebbero dare, andando oltre la superficie apparente, che registra soprattutto (e a volte soltanto) la sequenza di caratteristiche tecniche? C’è di che rifletterne. Antonio Bordoni
Pure e semplici elucubrazioni (dalle quali prendere le distanze?): foro stenopeico e caleidoscopio con Nikon D5000. (pagina accanto) Fotoricordo cinesi, tre delle quali fotoricordo di fotoricordo.
La funzione Live View della Nikon D5000 consente di visualizzare e comporre la ripresa fotografica, o il filmato, sul monitor LCD ad angolazione variabile.
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entomila spettatori: questo è il conteggio ufficiale degli spettatori che la sera di giovedì 14 giugno 1979 hanno assistito al concerto per Demetrio Stratos, che dalle intenzioni originarie per raccogliere fondi a sostegno delle terapie mediche alle quali si era sottoposto negli Stati Uniti, si trasformò in omaggio alla sua memoria. Il cantante venne a mancare a New York, la notte del tredici. La cifra tonda di centomila spettatori è forse ottimista, data anche la capienza non tanto estesa del luogo; in tutti i casi, è indicativa: soprattutto dell’affetto e passione che allora, trent’anni fa (mille anni fa?), si potevano coinvolgere in progetti, come questo, che non si limitavano alla propria ufficialità, ma alludevano ad altro, lasciando intendere impegni personali a tutto tondo. In quella lontana stagione, più lontana di quanto possano misu-
Trent’anni fa, il 14 giugno 1979, all’Arena Civica di Milano fu organizzato un concerto di cantautori per raccogliere fondi a sostegno delle terapie mediche per curare Demetrio Stratos. Per una beffa del destino, una di quelle che segnano il ritmo delle esistenze, la leucemia dirompente che aveva colpito il cantante (in una accezione ampia o forse restrittiva) ebbe il sopravvento poche ore prima. Così, quel concerto, che per molti è Il Concerto, si trasformò in omaggio
1979 IL CONCERTO
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DEMETRIO STRATOS
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ella propria sede milanese, Radio Popolare, nota emittente di antiche e profonde origini nel Movimento (degli anni Settanta), ha dedicato il proprio Auditorium a Demetrio Stratos. Purtroppo, come spesso accade, il richiamo ha finito per offuscare il ricordo della persona che si sarebbe voluta elevare a memoria. Spesso, quasi sempre, quando una strada o un’istituzione viene intitolata, la commemorazione si avvia verso l’oblio: approda a un’assenza di tempo, che confonde assieme figure che paiono non essere mai esistite, senza soluzione di continuità da Giovanni Pascoli a Eugenio Montale, da Giacomo Leopardi a Cesare Pavese, da Virgilio (Publio Virgilio Marone) a Giuseppe Di Vittorio, da Luigi Einaudi a Albe Steiner. Sappiamo di molti, non sprovveduti, che non sanno chi è Demetrio Stratos, pur sentendolo evocare quotidianamente da Radio Popolare, quando presenta eventi che si svolgono nell’Auditorium. Non sapere non è un male inguaribile; non sapere sta alla base della conoscenza: a sollecitazione, basta informarsi. Se una Radio intitola un proprio spazio a un personaggio, ci vuole poco a verificarne la biografia e i meriti. Nato Efstratios Demetriou, il 22 aprile 1945, Demetrio Stratos arriva in Italia nel 1962, per studiare Architettura. Appassionato musicista, nel 1967 entra a far parte dei Ribelli, gruppo di accompagnamento di Adriano Celentano, con escursioni in proprio (segnaliamo il brano-simbolo Pugni chiusi ). È qui che si fa notare la voce profonda di Demetrio Stratos, dotata di una estensione vocale impressionante. Lasciati i Ribelli nel 1970, dopo esperienze soliste, con Giulio Capiozzo, nel 1972, crea gli Area, che si propongono come International Popular Group. Avvicinatosi alla filosofia del compositore statunitense John Cage, dal 1975, Demetrio Stratos eleva le proprie capacità vocali a senso compiuto, in una ipotesi di musicologia comparata. Colpito da leucemia dirompente, muore a New York il 13 giugno 1979, poche ore prima del Concerto milanese organizzato per sostenerne le cure mediche (www.demetriostratos.it).
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rare i trent’anni trascorsi (1979-2009), a partire da pretesti originari, come la musica, in questo caso specifico, si approdava sempre ad altro di più: soprattutto a un coinvolgimento sociale che oggi ci permette di considerare quella di allora come la “meglio gioventù” (con Pier Paolo Pasolini). Io ero presente a quel Concerto, consueta maiuscola consapevole e volontaria. In un tempo nel quale molti osservavano attraverso la lente esplicativa della fotografia, ciascuno a proprio modo, sono stato coinvolto oltre la semplice presenza fisica. Partecipai, osservando e registrando con la fotografia -appunto-, straordinaria chiave interpretativa di un momento, anche soltanto mio personale, che non è certo passato invano, ma ha lasciato tracce indelebili in ognuno di noi: e per me stesso, ne sono più che consapevole e convinto. Ricordo perfettamente i pensieri di quel giovedì mattina, prima di sapere che il concerto della sera si sarebbe trasformato in omaggio, a poche ore dalla scomparsa di Demetrio Stratos, la cui forte personalità musicale avrebbe fatto convergere all’Arena Civica di Milano una qualificata quantità e qualità di cantautori e pubblico. Sono ancora vive le riflessioni di allora, che non avevano alcuna intenzione di indirizzarmi alla documentazione del concerto in quanto tale (altri simili se n’erano già svolti, altrettanti ce ne sarebbero stati ancora), ma mi proietta-
rono altrimenti. In particolare, mi affascinavano il senso del luogo e della partecipazione. Così, arrivai all’Arena Civica di buonora, in sostanzioso anticipo sul programma, fissato dalle otto di sera. Per le mie intenzioni, avevo con me una reflex Asahi Pentax Spotmatic, qualche obiettivo, e un treppiedi. Dal palco già montato, e in attesa degli esecutori della serata, inquadrai il prato antistante e gli spalti sul fondo, con l’inconfondibile arco di ingresso (inconfondibile almeno per i milanesi; io sono milanese). Senza mai verificare cosa accadesse all’interno dell’inquadratura fissa, dalle cinque del pomeriggio, per un’ora abbondante, ho realizzato una sequenza cadenzata di immagini che registrarono soltanto ciò che stava accadendo in attesa del Concerto. In archivio, oggi ho recuperato quattro buste di negativi bianconero, ognuno di trentasei pose identiche nell’inquadratura e composizione, che scandiscono un proprio ritmo, quasi musicale. Non è tanto significativa la registrazione dello scorrere del tempo, con lo spazio riservato al pubblico che man mano va riempiendosi, prima sul prato e poi verso gli spalti. Ancora oggi è affascinante e avvincente il passaggio casuale di persone, l’andirivieni senza meta o scopo (?), il vuoto che rimane tale a lungo, il senso dell’euforia ed entusiasmo. Quindi, nello scorrere successivo dei decenni, che ci portano a osservare indietro di trent’anni esatti,
Non voglio esagerare, né attribuire alle mie fotografie valori sovrastanti, che certamente non hanno. Ma sulla presenza o assenza del fotografo dalle proprie inquadrature e composizioni (che con la sequenza del Concerto per Demetrio Stratos puntualizzano soprattutto la presenza del fotografo) rimando alla Verifica 2 di Ugo Mulas: L’operazione fotografica / Autoritratto per Lee Friedlander. È qui che Ugo Mulas riflette appunto sull’assenza del fotografo dalla propria azione esplicita: «La macchina fotografica cancella il viso del fotografo, perché è all’altezza dell’occhio e nasconde i tratti del volto. [...] Un mezzo che mi esclude mentre più sono presente» [e non si tratta solo di barriera del mezzo, ma di ben altro ancora]. Quindi, sempre dalle Verifiche, c’è anche la numero 3: Il tempo fotografico / A J. Kounellis («Foto[grafia] dopo foto[grafia], mentre l’immagine resta immobile, perché sono sempre rimasto nello stesso punto»). E ogni Verifica di Ugo Mulas è, comunque, una riflessione sostanziale sull’azione della fotografia. Ancora oggi, magari soprattutto oggi. M.R.
potremmo anche e ancora aggiungere l’azione del Tempo, che ha convertito la cronaca originaria (seppure consapevolmente interpretata) in documentazione e memoria nel futuro (ovvero, presente). Posture, modi, abbigliamenti e tanto altro ancora di un’epoca che è certamente più distante da oggi di quanto non possano misurarlo i trent’anni trascorsi: l’ho già rilevato, e qui lo ribadisco ancora. Dalla lunga sequenza, che si estende in quasi centocinquanta scatti, oggi isoliamo alcuni fotogrammi, che presentiamo in queste pagine. La lettura che proponiamo è almeno doppia. Da una parte, come abbiamo rilevato fino a questo punto, registriamo la cadenza fotografica così come l’abbiamo appena raccontata. Dall’altra, e tra le righe, andiamo a leg-
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IL CONCERTO
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ubblicato in trentatré giri all’indomani del proprio svolgimento, l’album 1979 il concerto. Omaggio a Demetrio Stratos è stato rieditato recentemente, in occasione del trentennale. In collaborazione con Rai Trade, la casa discografica Cramps Records ha realizzato un box contenente due CD audio con diciassette motivi registrati dal vivo all’Arena Civica di Milano il 14 giugno 1979, un Dvd con commenti e interviste agli artisti, dopo trent’anni, e una monografia di quaranta pagine illustrate, con la prefazione di Renato Marengo e i commenti in esclusiva di Gianni Sassi. Frutto di una collaborazione tra più cantautori dell’epoca, l’album vanta la partecipazione di musicisti di alto valore e degli stessi Area, il gruppo fondato da Demetrio Stratos, che eseguirono due motivi strumentali, in apertura e chiusura del concerto. Ottima testimonianza della musica italiana di quel tempo, la raccolta fornisce un’ampia gamma di generi musicali, partendo dal primo punk dei Kaos Rock, passando dalla fusion dei Venegoni & Co, per arrivare al rock demenziale, sottoforma di poesia provocatoria, degli indimenticabili Skiantos. Nel dettaglio. CD 1: Kaos Rock, Basta basta; Area, Danz(A)nello; Francesco Guccini, Canzone per un’amica; Eugenio Finardi, Hold on; Roberto Ciotti, Shake it ; Venegoni & Co, Coesione; Angelo Branduardi, Il funerale; Carnascialia, Europa minor ; Adriano Bassi e Italo Lo Vetere, Nero sul bianco. CD 2: Antonello Venditti, Bomba o non bomba; Skiantos, Ehi Sbarbo, hey, Buba Loris, come faccio a farmi fare; Gaetano Liguori e Tullio De Piscopo, Tarantella del vibrione; Giancarlo Cardini, Novelletta e Solfeggio parlante per voce sola; Roberto Vecchioni, Figlia; Banco del Mutuo Soccorso, E mi viene da pensare; Area, L’Internazionale.
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gere anche al di là della superficie apparente dell’immagine. Curiosamente, l’attuale riproposizione fotografica rivela altro oltre il proprio soggetto esplicito. In pratica, svela una delle caratteristiche fondanti e discriminanti della stessa Fotografia, e ancora la maiuscola è consapevole e volontaria. Quando osservo le fotografie che ho scattato, che riprendo in mano anche a distanza di tempo, e in occasioni successive, fino a studiarle a fondo, spesso approdo a una conclusione inviolabile. Molte volte, queste fotografie non si limitano al solo soggetto, ma mi rivelano qualcosa di me. Individuano momenti della mia vita, che sottolineano. Con William Bayer, da Il dettaglio (Blind Side, 1989; Mondadori, 1996; nei Gialli Mondadori dal 1997): «Comincio a pensare che sia proprio questo il senso di ogni genere di fotografia. Non è detto che una fotografia vi dica qualcosa del suo soggetto. Ma se la osservate attentamente, e siete stati voi a scattarla, vi può rivelare molto su voi stessi». Maurizio Rebuzzini Curiosamente, all’indomani del Concerto di giovedì quattordici giugno, la fotografia italiana registrò un suo appuntamento epocale: sabato sedici fu inaugurato il denso programma di Venezia ’79 la Fotografia, rimasto in cartellone fino al successivo sedici settembre. Per quest’altro trentennale (1979-2009), rimandiamo alle pagine immediatamente a seguire.
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QUELLA FO Non scherziamo. In un ricordo allineato con Emilio Tremolada, abbandoniamo il clima molesto che trent’anni fa accompagnò la serie di venticinque mostre che composero il consistente programma di Venezia ’79 la Fotografia, in cartellone da metà giugno a metà settembre. In una travolgente quantità, una affascinante qualità permise il contatto diretto con immagini che hanno scritto capitoli fondamentali della Storia della fotografia. Se ne potessero avere altri di questi programmi. Esclamativo
Venezia ’79 la Fotografia: Fondamenta delle Zattere, uno degli spazi espositivi occupati dal consistente programma di venticinque mostre [Maurizio Rebuzzini con Asahi Pentax Spotmatic F, altrove definita SP F, e Leica M2].
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EMILIO TREMOLADA
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mmediatamente dopo aver puntualizzato che Venezia ’79 la Fotografia, nel cui programma fu coinvolto personalmente, per placare gli animi più bollenti del tempo, ne stiamo per riferire, fu «una operazione finalmente sostenuta da un organismo pubblico, l’Assessorato alla Cultura del Comune», il noto critico e storico Italo Zannier esagera un poco. Addirittura, conteggia che «Per la fotografia fu il più grande evento mondiale del secolo» (da La fotografia in mostra, in http://predella.arte.unipi.it/predella16/ZANNIER.htm). Conosco troppo bene Italo Zannier, con il quale ho può volte incrociato il mio cammino fotografico, per non riconoscere in queste parole un intendimento adeguatamente paradossale, quasi provocatorio: con indirizzo al mondo degli addetti. Certo, non ho dubbi in proposito, ancora oggi, come non he ho avuti trent’anni fa, in cronaca. Effettivamente Venezia ’79 la Fotografia, in cartellone dal diciassette giugno, con solenni inaugurazioni sabato sedici, al successivo sedici settembre, fu un avvincente e convincente concentrato, che diede impulso a un vibrante discorso espositivo e museale della stessa fotografia, attivando «le prime esposizioni storiche, con un intento esaustivo d’indagine filologica, sulla fotografia italiana dell’Ottocento e sulla fotografia pittorica, tra Firenze e Venezia; uno studio fondamentale, che aprì a successive integrazioni e correzioni», sempre da e con Italo Zannier. Certamente, fu un programma che tracciò linee basilari di analisi e proposizione espositiva, che disvelarono come osservare e proporre al pubblico efficaci visioni d’autore, movimenti e generi della fotografia che attraversa i decenni e scavalca i secoli. Tanto che già all’epoca mi dissociai dalle prese di
posizione tignose, di personaggi importuni e capricciosi, che contestarono a piene mani la manifestazione, soprattutto colpevole di essere assolutamente e inviolabilmente americanocentrica (peccato soltanto veniale, se e quando si attiva l’intelligenza, piuttosto che l’inutile risentimento). Infatti, fu coordinata e realizzata dall’International Center of Photography, di New York (altresì titolare di alcune delle mostre del programma), efficace e potente macchina da guerra, a
OTOGRAFIA
E QUESTA
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ARCHIVIO ROUGE
Emilio Tremolada, alias TremolDada [Nikon F nera e Gossen Lunasix 3], e Maurizio Rebuzzini sul battello per raggiungere Fondamenta delle Zattere.
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quel tempo diretta da Cornell Capa, che l’ha fondata nel 1974, in ideale prosecuzione dell’International Fund for Concerned Photography, che aveva creato nel precedente 1966, in memoria del fratello Robert. Per la cronaca (di oggi), l’Icp produce, organizza e veicola straordinarie esposizioni fotografiche, d’autore o collettive, che vengono esportate in tutto il mondo (www.icp.org): per dire, fino al prossimo venti settembre, nella sede newyorkese, al 1133 dell’Avenue of the Americas, angolo 43rd street, è allestita la consistente retrospettiva Avedon Fashion 1944-2000 (con imponente catalogo di trecentosettantadue pagine; 85,00 dollari). In ricordo del passato, rileviamo ufficialmente che in ordine con quel tempo, anche confuso, della fine dei Settanta, ognuno disse la sua, sempre al negativo e accampando per lo più rilevazioni almeno pretestuose: la fiera di chi si sentiva escluso, dovendone peraltro esserlo (escluso). E giustamente. A diretta conseguenza, il cartello originario dell’Icp fu integrato soprattutto da e con una sezione nazionale aggiunta, per l’appunto Venezia ’79 la Fotografia - Fotografia italiana contemporanea, a cura di Italo Zannier (eccoci!) e catalogo autonomo, adeguatamente approfondito rispetto la presenza in quello complessivo. Comunque, rileviamo con rammarico che entrambi i cataloghi sono penalizzati da riproduzioni litografiche di bassa qualità formale (e, per conseguenza, espressiva?): rispettivamente, 56 e 404 pagine 22x24cm; Electa Editrice. Così, og-
gettivamente assente dal percorso principale allestito dall’Icp, fatto salvo modeste presenze casualmente distribuite qui e là, la fotografia italiana del secondo Novecento rientrò per la porta di servizio nell’imponente manifestazione internazionale.
’79 LA FOTOGRAFIA Tra personali e collettive di genere e/o movimento, tra storia e attualità, Venezia ’79 la Fotografia si distribuì su venticinque mostre, inclusa la sezione della Fotografia italiana contemporanea, alla quale abbiamo appena accennato. Gli allestimenti impegnarono sostanziosi spazi espositivi di Venezia, dalle sale della Biennale a quelle del Museo Correr, offrendo, anche in catalogo, un panorama sostanzialmente esaustivo della storia della fotografia mondiale, dall’Ottocento al contemporaneo. Ribadiamo: come tutte le Storie, anche questa fu in qualche modo e misura parziale, non soltanto dal punto di vista americanocentrico. Però, sia chiaro e assodato: tutte le Storie della fotografia sono faziose e influenzate da visioni e osservazioni personali e individuali. Nessun demerito, ma una sola e semplice constatazione. Catalogo tra le mani, torniamo con il ricordo a quei giorni, fantastici ed emozionanti, e riusciamo ancora a rabbrividire; con immutato piacere. Forse con piacere ancora superiore a quello dell’estate del 1979, trent’anni fa. Fatta salva la sostanziale e sostanziosa differenza tra l’osservazione dal vivo del-
TREMOLDADA
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attina di sabato 16 giugno 1979. Appuntamento alla Stazione Centrale di Milano con Emilio Tremolada, oggi straordinario professionista specializzato nella fotografia di oggetti di design e arredamento e nello still life, ieri l’altro anche convincente agitatore di acque (www.emiliotremolada.it). Alla testa del treno per Venezia, dove stavamo andando per le inaugurazioni di Venezia ’79 la Fotografia, lui arriva e si presenta con un ingombrante pannellone 70x100cm, arrotolato sotto il braccio. Non ne fa parola, e una volta in piazza San Marco, lo affigge su una colonna in prossimità delle sale dove si sarebbe svolta la cerimonia di apertura del programma fotografico. Attorno, si raccoglie una certa folla, attraversata da sincero interesse per la proposta che, con firma TremolDada a nome di un ipotizzato Collettivo FuturDadaista de Sangagee (?), Emilio Tremolada aveva espresso a chiare lettere: appuntamento alle fatidiche cinque della sera, per picconare la piazza in modo da far sprofondare Venezia nella propria Laguna.
MAURIZIO REBUZZINI (3)
le stampe originarie, in impeccabili allestimenti scenici, e la riproduzione sulle pagine di una monografia, la commozione non si è per nulla sopita. Già l’elenco delle mostre è appetitoso, immaginatevi l’intero svolgimento, che non ha avuto molti eguali nei decenni a seguire (in Italia, soprattutto). Ripercorriamolo insieme, sottolineando i tanti e qualificati contributi alle singole produzioni. ❯ Lewis W. Hine: (1874-1940) a cura di Barbara Head Millstein per il Brooklyn Museum, di New York; curatori esterni Walter e Naomi Rosenblum [Sguardo su, di Pino Bertelli, in FOTOgraphia dell’ottobre 2005]. Le immagini più emblematiche della produzione dell’autore, dal 1904 al 1940. ❯ Francesco Paolo Michetti: (1851-1929) a cura di Marina Miraglia e Daniela Palazzoli. Soprattutto, sottolineatura dei rapporti tra fotografia e pittura. ❯ Eugène Atget: (1856-1927) a cura di Pierre Gassmann; organizzazione e stampa Pictorial Service, di Parigi; lastre originali concesse dalla Photothèque des Archives des monuments historiques, di Parigi [Sguardo su, di Pino Bertelli, in FOTOgraphia del dicembre 2003]. Cinquanta fotografie scelte da Romeo Martinez tra quattromila lastre. ❯ Il conte Primoli: (Giuseppe Napoleone Primoli, 1851-1927) a cura di Daniela Palazzoli; stampe di Oscar Savio da negativi concessi dalla Fondazione Primoli, di Roma. Prima rassegna esaustiva sull’opera dell’acuto osservatore, non professionista, attivo alla fine dell’Ottocento. ❯ Collezione Alfred Stieglitz: a cura di Weston Naef. Cento fotografie che hanno illustrato esaurientemente il clima della Photo Secession statunitense. Incontro fantastico. ❯ Alfred Stieglitz: (1864-1946) per concessione della Zabriskie Gallery, di New York e Parigi. Cinquanta immagini che hanno visualizzato le esperienze salienti dell’attività fotografica di una personalità determinante per la cultura contemporanea statunitense. ❯ Edward Weston: (1886-1958) a cura di Kathy Kelsey Foley per il Dayton Art Institute, di Dayton, Ohio. Cinquanta fotografie che l’autore ha regalato alla sorella May, in diverse occasioni. ❯ Tina Modotti: (1896-1942) a cura di Megi Pepeu; per concessione di Vittorio Vidali [Sguardo su, di Pino Bertelli, in FOTOgraphia del settembre 2001]. In ottantacinque fotografie, il percorso creativo dell’autorevole autrice. ❯ La collezione Wagstaff : a cura di Jane Livingston; in collaborazione tra la Concoran Gallery of Art, di Washington, e Sam Wagstaff. Duecento fotografie dalla collezione di Sam Wagstaff, allestite su un doppio binario: quello della documentazione storica e della qualità oggettiva delle immagini allineato con quello della sottolineatura del raffinato gusto del collezionista. ❯ Robert Capa: (1913-1954) a cura di Cornell Capa; vice curatore Edith Capa; direttore della mostra William A. Ewing; supervisore organizzativo Ron Cayen; supervisore allestimenti Steve Rooney [Sguardo su, di Pino Bertelli, in FOTOgraphia del luglio 2003]. Ovviamente, una consecuzione serra-
Interesse per la proposta di Emilio Tremolada, in chiave TremolDada, di far sprofondare Venezia nella propria Laguna: in occasione dell’inaugurazione di Venezia ’79 la Fotografia, sabato sedici giugno. Anche Rosellina Burri Bischof, già vedova di Werner Bischof e allora moglie di René Burri, poi mancata nel gennaio 1986, si interessò alla proposta di Emilio Tremolada (TremolDada).
ta di classici del fotogiornalismo del Novecento, a cavallo della Seconda guerra mondiale. ❯ Henri Cartier-Bresson: (1908-2004) a cura di Robert Delpire per l’International Center of Photography; direttore esecutivo Cornell Capa; direttore della mostra William A. Ewing; supervisore organizzativo Ron Cayen; supervisore allestimenti Steve Rooney [Sguardo su, di Pino Bertelli, in FOTO graphia del novembre 2001]. Centottantacinque fotografie selezionate dall’autore. ❯ Eugene Smith: (1918-1978) organizzata da Eugene Smith, con la collaborazione di Sherry Suris; veicolazione a cura del W. Eugene Smith Memorial Fund (esecutore testamentario John G. Morris); dagli archivi conservati al Center for Creative Photography dell’University of Arizona, di Tucson, dove il fotografo ha insegnato fino alla sua morte [Sguardo su, di Pino Bertelli, in FOTOgraphia del maggio 2003]. Settantacinque fotografie che fissarono i termini del fotogiornalismo contemporaneo. ❯ Images des Hommes: realizzata dal gruppo
Dal catalogo di Venezia ’79 la Fotografia (Electa Editrice; 404 pagine 22x24cm): «Le schede bio-bibliografiche delle mostre si devono a Italo Zannier e Vittorio Sgarbi, ad esclusione [...]». Non dovremmo essere lontani dal vero, quando ipotizziamo che si possa trattare della prima uscita pubblica di Vittorio Sgarbi all’indomani della laurea in Filosofia, con specializzazione in Storia dell’arte.
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ITALIA E ITALIANI
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roprio la visione americanocentrica originaria dell’International Center of Photography, di New York, fu uno dei bersagli dei detrattori del programma di Venezia ’79 la Fotografia, appunto governato e gestito in prima persona dalla già potente organizzazione statunitense, creata da Cornell Capa nel 1974. Così, a completamento, sia per placare gli animi sia per onorare l’ospitalità, l’idea di partenza fu prima di tutto integrata con due retrospettive italiane, di Francesco Paolo Michetti e del conte Primoli, rispettivamente affidate a Marina Miraglia e Daniela Palazzoli e alla sola Daniela Palazzoli. In corner, fu anche preordinata una visione sulla Fotografia italiana contemporanea, curata da Italo Zannier, della quale riferiamo nel testo centrale. Altrimenti, l’Italia sarebbe stata sostanzialmente marginale, più che marginale: limitata alla figura di Tina Modotti, che di italiano ha solo la nascita, ed è di tutt’altra formazione e cultura, e a presenze nelle collettive Images des Hommes (Mario Giacomelli), The Land (Mario Giacomelli, ancora, Gianni Berengo Gardin e Giorgio Lotti), Paesaggi effimeri: immagini di danza (Simone Forti, italiano solo di nascita) e Fotografia europea contemporanea (Marialba Russo).
Images, con la collaborazione del Ministero della Cultura Francese in Belgio. Ventidue fotografi europei, tra i quali l’italiano Mario Giacomelli, interpretano la condizione dell’Uomo. ❯ The Land: fotografie scelte da Bill Brandt; a cura di Mark Haworth-Booth; organizzazione Victoria & Albert Museum, di Londra. Immagine del paesaggio attraverso la lettura fotografica di quarantasei autori significativi del Novecento (cinquanta fotografie); tra questi, gli italiani Gianni Berengo Gardin, Mario Giacomelli e Giorgio Lotti. ❯ Paesaggi effimeri: immagini di danza: prodotta dall’International Center of Photography; direttore esecutivo Cornell Capa; vice curatore Ruth Silverman; direttore della mostra William A. Ewing; supervisore organizzativo Ron Cayen; supervisore allestimenti Steve Rooney. Visione dall’Ottocento alla fotografia contemporanea; centocinquanta fotografie di centocinque autori, tra i quali l’italoamericano Simone Forti. ❯ L’occhio dello spettatore: il mondo del colore: su concessione della National Retinitis Pigmentosa Foundation. Ventuno tra i più celebri fotografi del secondo Novecento, che si sono dedicati con particolare impegno all’espressività visiva del colore.
❯ Hecho en Latino America: prodotta dal Consejo de Fotografia mexicano. Trecento fotografie di centoquarantotto autori latino-americani, impegnati nell’analisi sociologica e nella sperimentazione sul linguaggio fotografico; rilevante testimonianza dell’attività fotografica del Sudamerica: cinque autori argentini, quaranta brasiliani, uno cileno, sei colombiani, dodici cubani, cinquantanove messicani, uno panamense, quattro peruviani, due portoricani, uno salvadoregno, dieci residenti negli Stati Uniti, due uruguaiani e cinque venezuelani. ❯ Autoritratto: Giappone: prodotta dall’International Center of Photography; direttore esecutivo Cornell Capa; curatore esterno Shoji Yamagishi; vice curatore Kyoto Yamagishi; direttore della mostra William A. Ewing; coordinatore della mostra Yurkio Kuchiki; supervisore organizzativo Ron Cayen; supervisore allestimenti Steve Rooney. Esposizione realizzata nell’ambito del programma Japan Today: cammino storico della cultura fotografica in Giappone, dal dopoguerra. Diciotto autori, con prime apparizioni italiane di Nobuyoshi Araki, Daidoh Moriyama, Shomei Tomatsu, Shoji Ueda... e non solo. ❯ Weegee: (1899-1968) prodotta dall’International Center of Photography; curatore esterno John Coplans; vice curatore Ron Cayen; direttore esecutivo Cornell Capa; direttore della mostra William A. Ewing; supervisore allestimenti Steve Rooney [Sguardo su, di Pino Bertelli, in FOTOgraphia del febbraio 2006]. Cento fotografie selezionate ed esposte per la prima volta, non soltanto in Italia. La produzione del celebre autore, estesa dalla fine degli anni Trenta fino ai Sessanta inoltrati, presentata da Louis Stettner, che il precedente 1977 curò la prima monografia di centododici immagini, semplicemente intitolata Weegee (Alfred A. Knopf, New York). ❯ Robert Frank: (1924) a cura di Paul Katz; fotografie concesse dalla Lunn Gallery, di Washington [Sguardo su, di Pino Bertelli, in FOTOgraphia del marzo 2006]. Centocinquanta fotografie rappresentative della particolare visione dell’autore. ❯ Diane Arbus : (1923-1971) a cura di Marvin Israel e Doon Arbus per l’International Center of
MA ANCHE COMBATTIMENTO
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erché non ci allineiamo con Italo Zannier, al quale vanno sempre e comunque il nostro rispetto e riconoscimento di valore, quando afferma che, limitatamente ai nostri orizzonti, Venezia ’79 la Fotografia «fu il più grande evento mondiale del secolo»? (in apertura di articolo, a pagina 34). Almeno per due motivi, senza gerarchia tra loro. Anzitutto, siamo personalmente distanti dagli assoluti. Infatti, ognuno di noi può credere di conoscere “il più grande imbecille” della Terra, e poi, giorno dopo giorno, viene smentito dalla vita, durante la quale ne incontra di sempre più imbecilli. Quindi, nel concreto, e a parte i richiami giornalistici popolari, che con leggerezza evocano ripetutamente il matrimonio del secolo, la rapina del secolo, la partita del secolo,
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lo specifico della fotografia ha offerto infiniti riferimenti meritevoli di considerazione superlativa. Tra tanti esempi possibili, e ciascuno può aggiungere proprie chiavi interpretative personali, nel solo ambito italiano, non possiamo ignorare, né tantomeno sottovalutare, l’epocale Combattimento per un’immagine, incontro tra Fotografi e pittori ideato da Daniela Palazzoli e Luigi Carluccio, presentato alla Galleria Civica d’Arte Moderna, di Torino, nella primavera 1973. Ancora oggi, anche qui catalogo tra le mani (370 intense pagine 21,5x23,5cm), il percorso è avvincente ed entusiasmante. Ancora oggi, una straordinaria lezione di Storia della fotografia, in questo caso in combinazione con la pittura, della quale c’è chi ha saputo fare tesoro e dalla quale c’è chi ha saputo trarre insegnamenti. Noi, tra i tanti.
ARCHIVIO ROUGE
Photography; direttore esecutivo Cornell Capa; direttore della mostra William A. Ewing; supervisore allestimenti Steve Rooney; supervisore organizzativo Ron Cayen [Sguardo su, di Pino Bertelli, in FOTOgraphia dell’ottobre 2001]. Settantacinque fotografie emblematiche, realizzate nell’arco di un decennio, immediatamente precedente il suicidio dell’autrice (prima fotografa ad aver varcato i confini che fino allora avevano tenuto la fotografia distante e separata dall’espressione dell’arte, con una personale allestita alla selettiva Biennale di Venezia, dove, nel 1972, rappresentò -postuma- il proprio paese). Ritratto critico e impietoso della società americana. ❯ Esplorazione di un mezzo: la collezione Polaroid: fotografie scelte da Allan Porter. Quattro sezioni visualizzarono la creatività della fotografia a sviluppo immediato [il fronte italiano contemporaneo, su questo stesso numero, da pagina 57]: Gli inizi, Bianco-nero, Il colore, I contemporanei. ❯ Fotografi americani contemporanei: prodotta dall’International Center of Photography; curatori Cornell Capa, Renato Danese, James Enyeart e Anne Tucker; direttore della mostra William A. Ewing; supervisore organizzativo Ron Cayen; supervisore allestimenti Steve Rooney. Con dieci immagini ciascuno, dodici fotografi significativi e rappresentativi di una scuola capace di far tesoro delle diversità di visione e interpretazione. Altresì capace di arricchirsi delle poetiche individuali.
❯ Fotografia europea contemporanea: a cura di Sue Davis, Jean-Claude Lemagny, Daniela Palazzoli e Allan Porter; coordinamento di Daniela Palazzoli. Dodici fotografi, tra i quali l’italiana Marialba Russo.
Emilio Tremolada e Maurizio Rebuzzini [con Leica M2] alla mostra di Robert Capa.
FOTOGRAFIA ITALIANA Paese ospite, l’Italia ha potuto allestire una selezione nazionale, che ha portato a venticinque il totale delle mostre presentate nell’ambito di Venezia ’79 la Fotografia. Come già anticipato, la selezione Fotografia italiana contemporanea fu curata da Italo Zannier. Ripetiamolo ancora: oltre la presenza nel catalogo generale e complessivo, venne realizzato anche un catalogo autonomo, di approfondimento (appunto, Venezia ’79 la Fotografia Fotografia italiana contemporanea, di cinquantasei pagine 22x24cm; Electa Editrice). La collettiva presentò quarantaquattro autori, individuati tra coloro i quali hanno caratterizzato efficacemente il percorso della fotografia italiana dal 1945. Allora non entrammo in merito delle scelte, ovverosia delle presenze e (clamorose) assenze. Neppure oggi lo facciamo, riconoscendo sempre la legittimità delle visioni individuali dei curatori che, ribadiamolo, definiscono i tratti di ogni racconto storico, per propria personalità inviolabilmente parziale. A ciascuno, le proprie (parzialità). In tutti i casi, quattrocento fotografie, sicuramente tante, probabilmente troppe, spaziarono attraverso i generi e le applicazioni della fotografia italiana all’alba degli anni Ottanta.
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A CONTI FATTI
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ertamente, la qualità di qualsivoglia proposta culturale si misura con parametri che tengano soprattutto conto, o forse anche soltanto conto, della stessa qualità. Appunto. La quantità, come pure altri formalismi complementari (allestimento, cornici e fate voi), dovrebbe essere ininfluente sulla qualità. Però, a completamento della rievocazione del programma di Venezia ’79 la Fotografia, in cartellone da metà giugno a metà settembre di trent’anni fa, anche i numeri possono aggiungere qualcosa, e offrire altra unità di misura, aggiuntiva. Dunque, venticinque mostre. E poi, ancora, duemilacentoquaranta fotografie certe (2140), che possono diventare quasi tremila, cioè duemilanovecentocinquanta (2950), andando a riempire razionalmente le non certificazioni ufficiali. Nel dettaglio.
Mostra Fotografie certe Fotografie ipotizzate Lewis W. Hine ••••••••••••••••••••••••••••••••••••••••••••••• 75 Francesco Paolo Michetti ••••••••••••••••••••••••••••••••••••••• 75 Eugène Atget ••••••••••••••••••••••••••••• 50 Il conte Primoli •••••••••••••••••••••••••••••••••••••••••••••• 75 Collezione Alfred Stieglitz ••••••••••••••••••• 100 Alfred Stieglitz •••••••••••••••••••••••••••• 50 Edward Weston ••••••••••••••••••••••••••• 50 Tina Modotti ••••••••••••••••••••••••••••• 85 La collezione Wagstaff ••••••••••••••••••••• 200 Robert Capa •••••••••••••••••••••••••••••••••••••••••••••••• 75 Henri Cartier-Bresson •••••••••••••••••••••• 185 Eugene Smith •••••••••••••••••••••••••••• 75 Images des Hommes •••••••••••••••••••••••••••••••••••••••••• 50 The Land •••••••••••••••••••••••••••••••• 50 Paesaggi effimeri: immagini di danza •••••••••• 150 L’occhio dello spettatore: il mondo del colore ••••••••••••••••••••••••• 60 Hecho en Latino America ••••••••••••••••••• 300 Autoritratto: Giappone •••••••••••••••••••••••••••••••••••••••• 180 Weegee •••••••••••••••••••••••••••••••• 100 Robert Frank •••••••••••••••••••••••••••• 150 Diane Arbus ••••••••••••••••••••••••••••• 75 Esplorazione di un mezzo: la collezione Polaroid ••••••••••••••••••••• 100 Fotografi americani contemporanei ••••••••••• 120 Fotografia europea contemporanea •••••••••••••••••••••••••••••• 120 Fotografia italiana contemporanea •••••••••••• 400 TOTALE (fotografie certe) 2.140 IPOTESI 810 TOTALE (con fotografie ipotizzate) 2.950
Ombre in Fondamenta delle Zattere: a sinistra Emilio Tremolada (TremolDada), a destra Maurizio Rebuzzini, in autoritratto.
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In rigoroso ordine alfabetico, li richiamiamo: Gabriele Basilico, Walter Battistessa, Gianni Berengo Gardin, Romano Cagnoni, Marcella Campagnano, Lisetta Carmi, Vincenzo Carrese, Mimmo Castellano, Elisabetta Catalano, Giuseppe Cavalli, Carla Cerati, Cesare Colombo, Mario Cresci, Luigi Crocenzi, Mario De Biasi, Pietro Donzelli, Mario Finocchiaro, Franco Fontana, Luigi Ghirri, Mario Giacomelli, Paolo Gioli, Gianfranco Gorgoni, Franco Grignani, Guido Guidi, Mimmo Jodice, Ferruccio Leiss, Giorgio Lotti, Paola Mattioli, Pietro Francesco Mele, Pepi Merisio, Nino Migliori, Paolo Monti, Ugo Mulas, Luca Patella, Federico Patellani, Tino Petrelli, Fulvio Roiter, Roberto Salbitani, Chiara Samugheo, Ferdinando Scianna, Tazio Secchiaroli, Oliviero Toscani, Franco Vaccari e Luigi Veronesi. Se dovesse ripresentarsi oggi, la Fotografia italiana contemporanea si discosterebbe certamente dalla visione di trent’anni fa, anche a parità di cu-
ratore, figuriamoci con altri curatori. Tanto che, se andiamo a confrontare percorsi analoghi, compilati altrove in questi anni, compaiono altri nomi e vengono puntualizzate altre personalità. Non si tratta tanto di soprassedere sulle eventuali meteore, che sono svanite dopo una effimera stagione, e neppure sull’aggiornamento al primo decennio del Duemila, quanto, più concretamente, di riconoscere la possibilità di considerazioni e riconsiderazioni, anche retrospettive, soprattutto retrospettive, che cambiano con il tempo e l’esperienza (anche degli stessi curatori). Insomma, come tutto nella vita: autori che vengono e vanno, senza soluzione di continuità.
ECCOCI! In chiusura, confermiamo l’opinione attuale di Italo Zannier, evocata in apertura. Sì, c’è motivo per affermare che Venezia ’79 la Fotografia «fu il più grande evento mondiale del secolo». Forse “secolo” è troppo, però non è sbagliato ipotizzare “un grande evento mondiale”, ma soprattutto italiano. Pur con gli infiniti e molteplici distinguo che ciascuno di noi può avviare e introdurre, non possiamo non attribuire un valore sovrastante al programma allora coordinato dall’International Center of Photography, di New York, che non solo «diede impulso a un vibrante discorso espositivo e museale della stessa fotografia» (autocitazione dalle prime righe di questo lungo intervento redazionale), ma fu addirittura didattico. Ancora in autocitazione «tracciò linee basilari di analisi e proposizione espositiva, che disvelarono come osservare e proporre al pubblico efficaci visioni d’autore, movimenti e generi della fotografia che attraversa i decenni e scavalca i secoli». Da questa straordinaria lezione di trent’anni fa possiamo conteggiare ciò che si è successivamente fatto in Italia per analizzare e presentare la fotografia, da quella in attualità temporale e concettuale a quella storica. E non è certo poco. Maurizio Rebuzzini Curiosamente, trent’anni fa, il denso programma di Venezia ’79 la Fotografia, rimasto in cartellone fino al sedici settembre, partì sabato sedici giugno. Nella nostra rievocazione, questa data sta a immediato ridosso del Concerto per Demetrio Stratos, di giovedì quattordici, del quale abbiamo raccontato nelle pagine appena precedenti.
LA GIURIA. FOTOGRAFIA DI LELLO PIAZZA (SONY a900, FISHEYE 16mm f/2,8)
LA PAROLA
Riprendendo il titolo di un film di Sidney Lumet, del 1957, la sua prima regia cinematografica, in originale 12 Angry Men, torniamo allo svolgimento del prestigioso e autorevole Sony World Photography Award 2009, del quale abbiamo riferito in cronaca, lo scorso maggio. Nei giorni nei quali le giurie hanno affrontato il proprio impegno, Lello Piazza ha incontrato i giurati, sollecitandoli e indirizzandoli verso temi discriminanti della fotografia dei nostri giorni. A integrazione e complemento del Premio, che ha già sottolineato vicende complementari, parallele e trasversali, ulteriori punti di vista autorevoli, che aggiungono altro. Tanto altro. A puntate, a partire da questa prima
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ll’inizio di febbraio, in occasione di una visita a mio figlio Niccolò, che vive a Londra da più di dieci anni, ho avuto l’opportunità e fortuna di assistere a parte dei lavori delle giurie della seconda edizione del Sony World Photography Award [del quale abbiamo riferito in FOTOgraphia dello scorso maggio, quando anticipammo anche la pubblicazione di queste interviste, in numeri successivi della rivista]. Grazie all’aiuto di Astrid Merget, direttrice del Premio, ho realizzato interviste degne di attenzione con alcuni dei componenti delle stesse giurie, per le quali sono stato vincolato a non riferirne prima della relazione sui vincitori, appunto presentata un mese fa. Come, anticipato la pubblicazione di queste interviste viene
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distribuita su più numeri di FOTOgraphia, a partire da questo, dove incontriamo subito Grazia Neri, fondatrice dell’omonima agenzia, che alla fine dello scorso anno, dopo oltre quarant’anni di guida, ha lasciato il passo al figlio Michele, per dedicarsi a iniziative svincolate da impegni contingenti con il mercato [FOTOgraphia, febbraio 2009]. Immediatamente a seguire: la fotogiornalista Mary-Ellen Mark, una delle personalità mitiche della storia americana della fotografia; e il fotografo Bruce Davidson, pure statunitense (Magnum Photos), che non vedevo da molti anni e del quale ho molto ammirato i lavori su New York, in particolare quello su Central Park, peraltro esposto a Cannes, a ridosso delle manifestazioni collaterali alla consegna dei Sony World Photography Award 2009.
AI GIURATI Mary-Ellen Mark
(giuria Sony World Photography Award 2009 / Commercial) Subito in riferimento all’occasione. Cos’ha di particolare questa giuria rispetto alle altre alle quali hai partecipato? «Naturalmente, tutti i miei colleghi giudici sono stati scelti tra i migliori esperti al mondo. Una differenza importante che posso notare è che in questo Concorso è stato introdotto un settore che quasi mai viene preso in considerazione in altre competizioni analoghe, la fotografia Commercial: pubblicità, moda e tutta la comunicazione che avviene per promuovere un prodotto o un’azienda attraverso la fotografia. Nel concreto, è un settore che permette ai fotografi di vivere agevolmente, pur continuando a muoversi in altri settori, come il sociale, la cronaca di guerra o la fotografia di viaggio». Cosa pensi del fatto che Sony utilizza un grande evento culturale annuale, come questo Award, per promuovere il proprio marchio nel mercato fotografico? «Credo che abbia compiuto un’ottima scelta. Se una galleria fotografica, o un’importante istituzione culturale, organizza una mostra, difficilmente i media che la recensiscono richiamano diffusamente gli (eventuali) sponsor. Se invece, come accade in questo premio Sony, e in quello italiano che Canon riserva ai giovani, l’evento prende il nome dallo stesso sponsor, i media non possono fare a meno di menzionarlo. «Oggi, in un momento di crisi delle case editrici, i premi hanno un ruolo importante per la fotografia, perché permettono al pubblico di venire a conoscenza di grandi lavori, forse dei migliori, che spesso vengono pubblicati solo su due o tre pagine, che ne mortificano il valore e spessore, e dei nuovi linguaggi espressivi, addirittura completamente ignorati dai media. «Perciò, penso che una grande azienda di rilevanza mondiale, come è Sony, abbia fatto benissimo a istituire un proprio premio fotografico. Ancora, esprimo i miei complimenti per aver aggiunto in questa seconda edizione anche un settore dedicato alla natura, The Prince’s Rainforests Project Award».
(giuria Sony World Photography Award 2009 / Fine Art) Ciao Mary-Ellen, grazie per il tuo tempo. Dimmi, perché hai accettato di far parte di questa giuria? Che cosa ti aspetti da questo Premio? «Mi piace partecipare alle giurie, perché è solo guardando tante fotografie che puoi capire quelle che funzionano e che continueranno a funzionare. Anche prima di diventare fotografa, ho sempre guardato più immagini che potevo. «Nella categoria nella quale sono giudice [fotografia Fine Art ] ho visionato lavori molti diversi l’uno dall’altro; per esempio, lavori concettuali e fotografia di paesaggio, due generi ai quali non sono abituata. Così, posso imparare guardando queste fotografie. E sforzarmi di capire quando un paesaggio funziona oppure no, quando è significativo, bello o rappresenta semplicemente un’interpretazione dell’autore. E come sia importante in una fotografia il punto di vista di chi ha scattato. «Guardando queste migliaia di immagini, continuo a imparare. «Un altro motivo per cui sono venuta è che l’occasione mi dà modo di incontrare persone che non vedevo da tempo e conoscerne di nuove. È molto eccitante». Tra i concorrenti, hai visto qualcosa di notevole? «Per la verità, ho visto tantissime fotografie che, a mio giudizio, sono più pretenziose che belle: con i mezzi operativi messi a disposizione dalla tecnologia digitale, e con Photoshop in particolare, oggigiorno è facile che qualcuno finisca per sentirsi artista, grande fotografo. Ma, per fortuna, mi è facile separare le buone fotografie da quelle cattive, e sono sempre d’accordo anche con gli altri giurati. Nessuno scontro a causa di un giudizio; tra noi c’è accordo totale». Pensi che la fotografia sia più adatta al reportage o al lavoro artistico? «Detesto fare ed esprimere distinzioni tra una fotografia che è utilizzata a fini giornalistici e un’altra catalogata a fini artistici. Per spiegarmi, faccio l’esempio di Larry Burrows, che è stato un grande fotografo [è morto in Laos, ai margini della guerra in Vietnam, il 10 febbraio 1971, quando l’elicottero dal quale fotografava è stato abbattuto; Nota qui sotto]. Ricordi? Ha lavorato a lungo in Vietnam e la sua celebre fotografia del soldato ferito è vera e autentica arte. Infatti, evoca tutta una varietà di emozioni come fa l’arte: per questo è arte.
MARY-ELLEN MARK E GRAZIA NERI. FOTOGRAFIA DI LELLO PIAZZA (SONY a900, FISHEYE 16mm f/2,8)
Grazia Neri
NOTA Qualche fonte storica attribuisce a Larry Burrows, ai tempi diciottenne tecnico di laboratorio nella sede londinese di Life, la responsabilità dell’errore di trattamento dei rullini di Bob Capa dello sbarco in Normandia, il D-Day, 6 giugno 1944, dai quali si salvarono soltanto pochi fotogrammi iniziali. Nel suo Sguardi sul ’900. Cinquant’anni di fotogiornalismo (pessimo adattamento del titolo originario Get the Picture: A Personal History of Photojournalism, verosimilmente Procurati la fotografia / Portami la fotografia: una storia personale del fotogiornalismo [FOTOgraphia, dicembre 2000]), John G. Morris non conferma questa versione; anzi assolve Larry Burrows da ogni colpa. Editor fotografico di Life da Londra durante la Seconda guerra mondiale, John G. Morris fu testimone oculare di quel momento, che nel suo libro evoca con emozione. Dunque, sarebbe il caso di attenersi al suo racconto... se non che, le leggende metropolitane sono affascinanti e anche dure a morire; tanto che la carriera fotografica del bravo Larry Burrows, tragicamente interrotta, continua a essere condita con la vicenda di Bob Capa.
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Bruce Davidson (giuria Sony World Photography Award 2009 / Photojournalism and Documentary) Ciao Bruce. Da tempo ho in serbo una domanda: ti ritieni un fotogiornalista o ti senti qualcos’altro? «Puoi definirmi e chiamarmi fotogiornalista, se vuoi; ma fotogiornalista significa che pubblichi sui giornali, e i giornali oggi non esistono più. Non mi va neppure di essere definito fotoreporter. Io sono semplicemente un fotografo. «Non ho nulla contro il fotogiornalismo, ma l’unica etichetta che accetto è quella di fotografo». Secondo te, c’è qualche differenza tra documentary photography e fotogiornalismo? «No, no; io penso che le etichette non significhino nulla. C’è solo il fotografo. Proprio adesso sto lavorando sul paesaggio. Ciò non fa di me un fotografo di paesaggio. Le mie fotografie di Central Park non sono soltanto la natura di un luogo, ma anche uno studio sulla luce nel parco, sui chiari e le ombre, con lo scopo di fare sì che la gente, quando osserva le mie fotografie, esclami: “Oh, guarda, questo non l’avevo proprio notato”. «Talvolta, quando chiedo ai miei studenti come si giudicano, rispondono: siamo fine art photographer. Allora, io replico: io non sono un fine art photographer, sono soltanto un fine photographer. Ecco quello che sono». Bruce, ho appena chiesto a Mary-Ellen Mark se, secondo lei, la fotografia è più adatta alle news o all’arte. Tu che ne dici? «La fotografia è più adatta alla fotografia. Vedi, non ci sono regole facili. Quello che oggi definiamo arte, potrebbe non esserlo più domani. Ciò che distingue gli esseri umani dagli altri esseri viventi è l’arroganza. È proprio l’arroganza che spinge qualcuno ad attribuire e attribuirsi etichette. «Ripeto: l’unica etichetta che accetto è quella di fotografo, che sta continuamente esplorando la vita e se stesso, e che sta continuamente ponendosi domande e cercandone le risposte». Forse sono schiavo delle etichette, ma mi sembri più un filosofo che un fotografo. «A nostro modo, siamo tutti filosofi. I migliori filosofi che conosco sono i taxisti di New York. Ho studiato filosofia da giovane,
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BRUCE DAVIDSON. FOTOGRAFIA DI LELLO PIAZZA (SONY a900, FISHEYE 16mm f/2,8)
«Perciò non amo la distinzione tra art photography e documentary photography. Quando scatto una fotografia non penso che “sto realizzando una immagine artistica”. Semplicemente, può darsi che mi accorga che sto scattando una grande fotografia o che almeno stia cercando di scattarla [queste sensazioni di pelle appartengono a tutti coloro che fotografano allineando il cuore con il cervello, in parodia dell’allineamento analogo teorizzato da Henri Cartier-Bresson]. È difficile scattare grandi fotografie. Una fotografia è arte se è una grande fotografia, sia che si tratti di fotogiornalismo, di paesaggio o di una interpretazione concettuale». Hai ragione. Ma non trovi sorprendente che le cose siano cambiate? Un tempo, i collezionisti d’arte compravano quadri dove difficilmente c’era una notizia raffigurata, un momento storico, salvo i grandi quadri delle battaglie navali o avvenimenti simili. Oggi, un collezionista compera spesso fotogiornalismo, Robert Frank, Henri Cartier-Bresson, Don McCullin... «Sì, è strano. Forse dipende dal tipo di collezionista: c’è chi vuole acquistare una fotografia solo perché è una bella “figura”, c’è invece chi è collezionista di momenti. Un buon collezionista deve comunque saper scegliere grandi fotografie».
ma non credo di essere un filosofo. Credo invece di pensare in modo filosofico. Ci sono temi che meritano di essere esplorati e ai quali bisogna tentare di dare una risposta. «Ma non tutto ha una risposta». Perché hai accettato di fare parte di questa giuria? Cosa ti aspetti da questa esperienza? «In questi giorni ho esaminato centinaia di fotografie, di giovani fotografi, che raccontano di terribili situazioni in Africa, India, Medio Oriente, dove c’è fame, Aids e altre terribili condizioni. Questi giovani vanno lì, rischiano la vita, e scattano fotografie. Così ci permettono di avere un’idea del mondo reale, degli aspetti del mondo che non puoi vedere in televisione e, meno che meno, sui newsmagazine. Per me, è molto importante essere esposto alle realtà che raccontano attraverso i loro lavori. «Sono qui, e imparo molto da questi lavori. E non sono un filosofo. Sono un osservatore. Per me è importante osservare, comunicare. In questo periodo sto lavorando nei dintorni di Los Angeles, sulla natura. Central Park è stato il mio punto di partenza. C’è qualcosa in qualche parte del mio cervello che mi dice che devo occuparmi della natura, del mondo organico. «Improvvisamente tutti hanno scoperto che c’è un grande mondo verde intorno a noi. Forse è la paura del global warming [riscaldamento globale]. Non so se il global warming è colpa dell’uomo o dipende da qualche altra causa, ma certo vedo i segni di questo riscaldamento nel paesaggio che sto fotografando. Perciò, ritengo che questa mia ricerca sia importante. «Ma mi hai chiesto perché sono qui. Sono qui perché mi piace Astrid Merget, il modo con cui organizza gli eventi: è così coinvolta, appassionata di fotografia! «Penso che sia molto bello che Sony si faccia carico di un Premio così autorevole. «Ti confesso, però, che sono qui anche perché mi piace molto l’idea di andare a Cannes, con mia moglie, per la notte dei Premi». Interviste di Lello Piazza La parola ai giurati / 1. A seguire, nei prossimi numeri: Zelda Cheatle, gallerista, Inghilterra, e Philippe Garner, responsabile della fotografia della casa d’aste Christie’s, Inghilterra, dalla giuria Fine Art del Sony World Photography Award 2009; Sue Steward, Inghilterra, critica e photo editor, Inghilterra, e Adrian Evans, direttore di Panos Pictures, Inghilterra, dalla giuria Photojournalism and Documentary; Mark George, agente di fotografi, Inghilterra, dalla giuria Commercial; Astrid Merget, Inghilterra, direttrice del Sony World Photography Award.
UN ALTRO S U M O A dieci anni dall’edizione originaria in dimensioni poster 50x70cm, l’editore tedesco Taschen Verlag celebra la ricorrenza con una nuova versione della monografia Sumo, di Helmut Newton, in confezione sostanzialmente standardizzata. Ai consistenti valori che si riconoscono alla prima interpretazione, si aggiunge l’effettiva possibilità di visione di un percorso fotografico tra i più significativi del secondo Novecento e, in legittima proiezione, della Storia della fotografia
Helmut Newton Sumo; a cura di June Newton; Taschen, 2009 (distribuzione: Inter Logos, strada Curtatona 5/2, Località Fossalta, 41100 Modena; 059-412648; www.books.it); 394 fotografie; 480 pagine 26,7x37,4cm, cartonato con sovraccoperta; 100,00 euro.
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VILLA D’ESTE, LAGO DI COMO; 1975
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sattamente dieci anni fa, giovedì diciassette giugno, a margine di Art Basel, considerata a pieno diritto la fiera d’arte moderna e contemporanea più grande del mondo, sia per numero di espositori sia per importanza delle offerte, il tedesco Taschen Verlag presentò un’edizione libraria autenticamente epocale, che ha fatto epoca e scuola. Con una cerimonia della quale offriamo testimonianza (noi c’eravamo! [a pagina 52]), presso il Restaurant Atlantis, in centro città, fu annunciata l’imminente pubblicazione di Sumo, di Helmut Newton, monografia di quattrocentosessantaquattro pagine formato poster 50x70cm! A conti fatti, la più grande e più costosa produzione libraria del Ventesimo secolo. Nei mesi immediatamente a seguire, a cavallo di decennio, secolo e millennio, con cadenza programmata, vennero messe in commercio le diecimila copie numerate previste in tiratura, tutte personalizzate dalla firma autografa di Helmut Newton nella prima pagina di frontespizio, là dove, lo rileviamo con non celato orgoglio, nello specimen di prova in nostro possesso, noi possiamo vantare la doppia firma dell’autore e dell’editore [a pagina 48]. All’origine, l’imponente monografia, confezio-
nata con un tavolino-supporto disegnato da Philippe Starck (valore aggiunto non indifferente), è stata venduta a due milioni e mezzo di lire; oggi, è quotata diecimila euro. La raccolta torna di prepotente attualità a dieci anni di distanza dalla sua edizione originaria. Infatti, per celebrarne il decennale (appunto), è stata realizzata una nuova edizione, definiamola così, popolare, che ne riprende i termini esatti, in una dimensione libraria oggettivamente standardizzata: sempre a cura di June Newton, nata Browne, la moglie del fotografo, nota soprattutto con lo pseudonimo fotografico di Alice Springs, un nuovo/altro Sumo di quattrocentottanta pagine 26,7x37,4cm, venduto a cento euro (e questa nuova monografia Sumo rappresenta se stessa, avendo perso il riferimento a dimensioni fisicamente esuberanti).
PER L’APPUNTO, SUMO
Come appena rilevato, Sumo, di Helmut Newton, è stato un libro epocale: almeno per due motivi. Anzitutto, ripetiamolo, è stata la più costosa produzione libraria del Ventesimo secolo, conteggiando soltanto le edizioni destinate alla distribuzione tradizionale attraverso comuni librerie. Ai tempi, si è parlato di dieci milioni di marchi tedeschi dell’epoca, equivalenti a oltre cinque milioni e centomila euro attuali (5.112.918,81 euro); oltre cinquecento euro a copia (511,29 euro). E questi valori si inseriscono in una realtà che negli ultimi decenni ha segnalato considerevoli edizioni librarie della fotografia, come ha puntualmente rilevato il fotografo Martin Parr, in veste di raffinato bibliografo, nei due volumi del casellario The Photobook: A History, compilato a quattro mani con Gerry Badger,
In queste pagine, presentiamo cinque fotografie dalla monografia Sumo, di Helmut Newton, a cura della moglie June (che in fotografia è conosciuta anche con lo pseudonimo di Alice Springs). A dieci anni dall’edizione originaria in formato poster 50x70cm, da cui il titolo Sumo, l’editore tedesco Taschen Verlag ne ha realizzata una nuova confezione sostanzialmente standardizzata 26,7x37,4cm.
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ALICE SPRINGS
Là dove le diecimila copie in tiratura dell’originaria edizione di Sumo sono personalizzate dalla firma autografa di Helmut Newton, nella prima pagina di frontespizio, nello specimen di prova in nostro possesso, noi possiamo vantare la doppia firma dell’autore e dell’editore.
Colonia, Germania, giugno 1999. Benedikt Taschen, l’editore, e Helmut Newton, l’autore, con una delle prime copie di Sumo, nel giardino della sede della casa editrice. La produzione di Sumo stata un incubo anche per il team che ha realizzato la monografia originaria; tra loro: Petra Franz (prima a sinistra), che è riuscita a raccogliere le firme di tutti sulla copia numero Uno, Veronica Weller (quarta da sinistra), efficiente responsabile per le relazioni pubbliche, Horst Neuzner (sesto da sinistra, vicino alla finestra) e Pedro Lisboa (primo a destra), responsabili della produzione. In primo piano, seduti, i protagonisti: June Newton, curatrice di Sumo, e Helmut Newton, il celebre autore.
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IL LIBRO FOTOGRAFICO Come appena annotato, negli ultimi decenni, il libro fotografico ha vissuto una propria luminosa stagione, per l’appunto ottimamente analizzata e commentata da Martin Parr, con Gerry Badger, nel già ricordato The Photobook: A History, di Phaidon Press, che in due volumi ripercorre la storia del libro fotografico, appunto, dalle proprie origini ai no-
JENNY CAPITAIN, PENSION DORIAN, BERLINO; 1977
Come approfondiamo nel testo, dieci anni fa, nel 1999, l’edizione originaria di Sumo, di Helmut Newton, a cura di June Newton, realizzata da Taschen Verlag in formato poster di quattrocentosessantaquattro pagine 50x70cm (!), per trenta chili di peso, si segnalò come la più grande e più costosa produzione libraria del Ventesimo secolo: ai tempi, si è parlato di dieci milioni di marchi tedeschi dell’epoca, equivalenti a oltre cinque milioni e centomila euro attuali (5.112.918,81 euro); oltre cinquecento euro a copia (511,29 euro). Diecimila copie numerate e firmate da Helmut Newton nella prima pagina di frontespizio, in confezione con un tavolino-supporto disegnato da Philippe Starck; prezzo originario due milioni e mezzo di lire; oggi, l’imponente monografia è quotata diecimila euro.
pubblicati dall’attento Phaidon Press, sul quale torneremo più avanti. Quindi, ha fatto scuola. A seguire, altri editori si sono cimentati in iniziative simili, e lo stesso Taschen Verlag ha poi proseguito lungo la strada tracciata, proponendo analoghe edizioni oggettivamente elitarie: tanti e variegati i titoli che si sono susseguiti in questi dieci anni. Le quattrocentosessantaquattro pagine 50x70cm dell’originario Sumo, in rilegatura ovviamente cartonata, approdano a un peso complessivo colossale di circa trenta chili: certamente un record, ma anche ispirazione per il titolo, dalla disciplina di lotta giapponese. Il contenuto è presto rivelato, nella propria ovvietà: compendiosa selezione di trecentonovantaquattro immagini, compresi molti inediti, che coprono ogni aspetto della carriera di Helmut Newton -mancato all’inizio del 2004 (FOTOgraphia, febbraio 2005)-, dalla moda, che ha ispirato generazioni di fotografi, agli intriganti nudi, ai clinici ritratti dello star system. A dieci anni di distanza, e nella celebrazione di questo decennale, non si registra soltanto la nuova edizione libraria in dimensioni abbordabili 26,7x 37,4cm, alla quale ci siamo appena riferiti [Attenzione: 26,7x37,4cm sono conteggiate “dimensioni abbordabili” soltanto in confronto alle originarie 50x70cm; in realtà, definiscono un’edizione sostanziosa e preziosa, anche nelle proprie dimensioni fisiche; stiamo parlando di una monografia assolutamente importante]. C’è ancora qualcosa di più: per la prima volta, le trecentonovantaquattro fotografie di Sumo sono esposte in mostra. Dal quattro giugno al prossimo trentuno gennaio, in una scenografia dal ritmo incessante, le fotografie sono presentate alla Helmut Newton Foundation, di Berlino, in Germania: Jebenstrasse 2; 0049-30-31864856; www.helmutnewton-foundation.org, info@helmut-newton-foundation.org; dalle 10,00 alle 18,00, giovedì fino alle 22,00 [a pagina 51]. In combinazione con le fotografie di Sumo, nelle stesse date, la Foundation presenta anche un’altra selezione in qualche modo e misura collegata: Three boys from Pasadena racconta l’attualità professionale ed espressiva di tre studenti dell’Art Center of Design di Pasadena, in California, che nel 1979, trent’anni fa, entrarono in contatto con Helmut Newton, frequentandone un seminario e rimanendovi influenzati, tanto da diventare per un certo periodo suoi assistenti. Ancora a cura di June Newton, i tre ragazzi di Pasadena, Mark Arbeit, George Holz e Just Loomis, sono presentati con venticinque immagini ciascuno.
SUMO E TRE RAGAZZI DA PASADENA sposte per la prima volta alla Helmut Newton Foundation, di Berlino, in Germania, le trecentonovantaquattro fotografie di Sumo si accompagnano con un’altra selezione in qualche modo e misura collegata: Three boys from Pasadena racconta l’attualità professionale ed espressiva di tre studenti dell’Art Center of Design di Pasadena, in California, che nel 1979, trent’anni fa, entrarono in contatto con Helmut Newton, stringendo con lui e la moglie una salda amicizia. Ancora a cura di June Newton, accanto l’autorevole celebrazione del decennale dell’edizione libraria originaria (ed epocale) di Sumo, i tre ragazzi di Pasadena, Mark Arbeit, George Holz e Just Loomis, sono presentati con venticinque immagini ciascuno (www.threeboysfrompasadena.com). Spesso, le fotografie di Mark Arbeit sono formalmente inusuali. Nelle sue elaborazioni decostruite, a partire da stampe polaroid, rivela l’altro, il rovescio dell’immagine fotografica e della sua creazione. Nelle sue interpretazioni arbitrarie richiama passaggi sperimentali della storia della fotografia di nudo, dal surrealismo ad altre mediazioni espressive. In aggiunta ai suoi assignment per ritratti di personaggi dello spettacolo, George Holz osserva e interpreta la figura femminile. Alcune sue immagini stilizzate evocano visioni dai primi film di Fritz Lang, mentre altre sono declinate altrimenti, senza richiami riscontrabili. La reciproca attrazione sessuale, spesso evidente nelle sue fotografie, riconduce a una fusione mistica delA dieci anni di distanza, l’Uomo nella Natura. Visioni senza tempo, nudi naturali, a vole nella celebrazione te disegnati da ombre raffinate, che attraversano il corpo. del decennale dall’edizione originaria di Sumo Nel suo osservare la vita quotidiana americana, Just Loomis applica una rilevazione clinica, diretta e disadorna. In bian- (in formato poster 50x70cm), le trecentonovantaquattro conero e a colori, raffigura volti di giovani cameriere, skate- fotografie della monografia boarder o passanti che rivediamo come se ci girassimo, per sono esposte in mostra. Dal quattro giugno strada. Ancora, progetti autonomi, nati dall’esperienza fotoal trentuno gennaio, grafica per riviste di moda e bellezza. Sembra nulla, ma quealla Helmut Newton sti incontri visivi con sconosciuti rivelano aspetti e momenti che, Foundation, di Berlino, in Germania. giorno dopo giorno, disegnano le esistenze.
JEAN-PAUL RAABE (3)
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A cura di June Newton: Sumo (trecentonovantaquattro fotografie: celebrazione del decennale dell’edizione originaria della monografia, in formato poster 50x70cm) e Three boys from Pasadena (venticinque fotografie ciascuno: Mark Arbeit, George Holz e Just Loomis). Helmut Newton Foundation, Jebenstrasse 2, D-10623 Berlin, Germania; 0049-30-31864856; www.helmut-newton-foundation.org, info@helmut-newton-foundation.org. Dal 4 giugno al 31 gennaio 2010; 10,00-18,00, giovedì fino alle 22,00.
June Newton, moglie di Helmut, fotograficamente conosciuta con lo pseudonimo di Alice Springs, ha curato sia le edizioni della monografia Sumo, sia l’esposizione alla Foundation delle sue trecentonovantaquattro fotografie. Così come ha curato la selezione accompagnatrice di Three boys from Pasadena.
JEAN-PAUL RAABE (2)
GUNILLA BERGSTROM, PARIGI; 1976
stri giorni. Se si volesse essere imbecilli, e non vogliamo di certo esserlo (imbecilli), ma qualcuno lo è stato (imbecille), si potrebbero contestare le scelte e le cadenze individuate dai due qualificati autori. Si potrebbe rimproverare loro qualche inserimento, e lamentare eventuali dimenticanze. Ma non è proprio il caso, perché questi The Photobook: A History, nei rispettivi Volume I e Volume II in collegamento e consecuzione, compongono uno dei casellari fondamentali della cultura fotografica. E possiamo affermare lo stesso, rivelando di sapere esattamente di cosa stiamo parlando, per altre retrovisioni analoghe, di altrettanto valore e spessore, oltre che proficua utilità, compilate da altri punti di vista geografici, rispettivamente Stati Uniti, Spagna e Germania. Ricordiamo gli efficaci The Book of 101 Books - Seminal Photographic Books of the Twentieth Century,a cura di Andrew Roth, del 2001 (volume-catalogo di una mostra di originali), Fotografía Pública - Photography in Print 1919-1939, a cura del Museo Nacional Centro de Arte Reina Sofía, di Madrid, del 1999 (ancora e altro volume-catalogo di una mostra di originali), e Das Lexikon der Fotografen 1900 bis heute, a cura di Hans-Michael Koetzle, del 2002. Tutte monografie facilmente recuperabili attraverso i consueti circuiti dell’editoria internazionale, ormai alla portata di Internet e contorni. Oltre a questo, rileviamo come un numero sempre maggiore di collezionisti si sia indirizzato alla raccolta bibliografica, e alcuni titoli storici hanno così raggiunto quotazioni vertiginose. Allo stesso tempo, in attualità, tutte le manifestazioni pubbliche della fotografia, non sempre quelle italiane, si accompagnano a opportuni bookstore (per quanto odiamo l’abuso di termini inglesi, qui ci pare adeguato); in coincidenza di intenti, rare sono le esposizioni ormai prive di catalogo che sopravvive all’allestimento originario (anche se, a causa della confusione tra proprietà dei mezzi produttivi e capacità di usarli, la qualità editoriale e redazionale non è sempre all’altezza). In questo senso, ribadiamo l’unicità e originalità dell’edizione di Sumo, che dieci anni fa ha letteralmente sconvolto il mondo editoriale, che in precedenza aveva riferito i propri conti soltanto a sogni di tirature vertiginose. Al proposito, sempre dal fronte delle monografie fotografiche, nello specifico para-fotografiche, va ricordato Sex, che nel 1992 agitò le acque. Al di fuori del mondo fotografico, raramente si cita il fotografo autore, Steven Meisel, e in assoluto si richiama sempre e soltanto il soggetto raffigurato in tutte le sue pagine, sola o con compagnie varie: Madonna, al tempo di una delle sue innumerevoli trasformazioni. Realizzato dalla statunitense Warner Books, e venduto per infinite edizioni nazionali (in Italia, Mondadori), Sex fu un clamoroso successo editoriale. Ai tempi, tra i corridoi della Buchmesse, di Francoforte, in Germania, circolarono piccanti rumors; in particolare, si parlò di una tiratura di oltre un milione di copie dell’edizione originaria, alla quale aggiungere quelle nazionali. Ovviamente, queste cifre si devono (continua a pagina 55)
George Holz, Just Loomis e Mark Arbeit: i tre ragazzi da Pasadena, in mostra alla Helmut Newton Foundation, di Berlino, in Germania.
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MAURIZIO REBUZZINI (7)
DOMESTIC NUDE IX, THE REDHEAD, LOS ANGELES; 1992
Dieci anni fa, giovedì 17 giugno 1999, a margine dell’autorevole Art Basel, la più grande fiera d’arte moderna e contemporanea del mondo, l’editore Benedikt Taschen, l’autore Helmut Newton e la curatrice June Newton annunciarono la straordinaria edizione di Sumo: in dimensioni poster 50x70cm. La facciata del Restaurant Atlantis, nel centro di Basilea, Svizzera, fu addobbata con un vertiginoso ingrandimento dell’immagine di copertina. Qui testimoniamo del rituale taglio dell’ingresso/entrata e della festa di presentazione.
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CATHERINE DENEUVE, NOUVEL OBSERVATEUR, PARIGI; 1983
ANCORA SUMO Tornando a Sumo, onore e merito all’editore Benedikt Taschen, che convinse Helmut Newton della plausibilità dell’iniziativa, e le banche che lo sostennero della possibile e potenziale redditività di impresa. Mai, prima di Sumo, la fotografia era approdata a tanto: e questo, se vogliamo aggiungerlo ai meriti già attribuiti, è un altro valore esclusivo di questa fantastica edizione. Tanto che è proprio l’esclusività e particolarità dell’edizione che ha finito per sopravanzare tutto e tutti. Prima dell’attuale esposizione delle fotografie della monografia alla Helmut Newton Foundation, appena ricordata, mai ci si è riferiti al contenuto del libro, mai sono state presentate e commentate le immagini; sempre e soltanto si è parlato e scritto di Sumo, come fenomeno e avvenimento. Invece, e al contrario, le pagine di Sumo rivelano della fotografia di Helmut Newton più di quanto hanno fatto le sue precedenti raccolte, dalla prima, folgorante, White Women, del 1976, a Big Nudes, del 1981, record di tiratura con centomila copie stampate e vendute, a World Without Men, del 1984, alle edizioni del periodico Helmut Newton’s Illustrated. Quindi, la combinazione tra la mostra di Berlino e la nuova edizione Taschen 26,7x37,4cm, più facilmente consultabile, preziosa edizione che non deve soffrire del richiamo all’originaria, rimette in circolazione l’autentico casellario di una vita fotografica tra le più significative del secondo Novecento e, in legittima proiezione, della Storia della fotografia. Abile provocatore, capace di cogliere gli umori del pubblico e sconvolgerne i canoni visivi, il capace Helmut Newton ha attraversato i decenni dalla fine dei Sessanta segnando passi e ritmi che hanno influenzato la fotografia contemporanea. Sapendolo fare, ripensiamo all’impatto che ha avuto, all’inizio dei Settanta, in un clima sociale che dobbiamo tradurre a chi non c’era, la fotografia per la moda di due donne che si baciano appassionatamente, una nuda e l’altra in smoking. E da qui, tante sono le frontiere e barriere che Helmut Newton ha superato con la sua fotografia, spostando in avanti (?) lo stesso concetto di “buon gusto”. Volenti o nolenti, ha realizzato una incessante e impressionante quantità e qualità di icone del Ventesimo secolo. Non importano gli allineamenti individuali, i distinguo personali (i nostri, tra i tanti): ciò è, e va riconosciuto. E la forma libraria è quella che dà pieno merito a tanta fotografia, altrimenti dispersa sulle pagine dei periodici sui quali è pubblicata originariamente. Eccolo, il senso e valore delle monografie ben allestite e ottimamente curate, oltre che adeguatamente prodotte. Angelo Galantini
MRS. NEWTON
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une Newton, moglie del celebre fotografo Helmut, tra tanto altro curatrice di Sumo, la monografia nelle sue due versioni e la mostra alla Foundation, di Berlino, in Germania, è soprattutto conosciuta con lo pseudonimo fotografico di Alice Springs. È sempre stata l’ombra di Helmut Newton, svolgendo ruoli di primo piano in tutto il suo consistente percorso creativo ed espressivo, che si è allungato sui decenni, dalla fine dei Sessanta. Dalle quinte, June Newton/Alice Springs è salita sulla ribalta con la monografia Mrs. Newton, anche questa pubblicata dall’immancabile Taschen Verlag. Si tratta di una autentica autobiografia illustrata, con testo in inglese, che accompagna il lettore in un viaggio straordinario, dalla sua infanzia in Australia alla comunione di intenti ed esistenza con Helmut Newton, tra i set e la vita randagia tra gli Stati Uniti e l’Europa. Le fotografie che scandiscono il Tempo e la Vita della coppia definiscono l’autentica anima del libro, e rappresentano la chiave di lettura del racconto. Sulle pagine, si susseguono e inseguono gustose scene familiari e ritratti delle personalità incontrate e incrociate, tra pubblico e privato: Yves Saint Laurent, Gore Vidal, Balthus, Robert Mapplethorpe, Brassaï, Nicole Kidman e Angelica Houston, per citarne alcune. Irrinunciabile diario di una esistenza sopra le righe, trasversale alla fotografia contemporanea, osservata dal proprio interno e spesso scritta in proprio. Intenso e coinvolgente viaggio attraverso i decenni del secondo Novecento. Nata June Browne, a Melbourne, in Australia, nel 1923, prima di diventare June Newton (e, a diretta conseguenza, Alice Springs), è stata attrice nel suo paese, con il nome di June Brunell, per distinguersi da una possibile omonimia con un’altra attrice, June Brown. Nel 1956, ha ricevuto l’Erik Kuttner Award come migliore attrice teatrale. Ha sposato il fotografo Helmut Newton nel 1948, ed è passata alla fotografia, appunto con lo pseudonimo di Alice Springs. Mrs. Newton; testi in inglese; Taschen, 2004 (distribuzione: Inter Logos, strada Curtatona 5/2, 41100 Modena; 059-412648; www.books.it); 264 pagine 21x29,3cm, cartonato con sovraccoperta; 29,99 euro. Prima del matrimonio con Helmut Newton, avvenuto nel 1948, June Browne, classe 1923, ha recitato in teatro con il nome di June Brunell: nei panni di Giovanna d’Arco, al Princess Theatre, di Melbourne; con Richard Pratt in una produzione di Bus Stop, all’Union Repertory Theatre. Anni Settanta: la coppia Newton a Parigi e un anniversario di matrimonio. EDDIE BROFFERIO
(continua da pagina 51) alla popolarità di Madonna e al suo dichiarato gioco erotico esplicito, che, cosce spesso divaricate, nulla lasciò al sogno o all’immaginazione; ovvero, questi valori non hanno alcun rapporto con le tirature delle monografie fotografiche vere e proprie.
Autoritratto allo specchio, con Helmut Newton, a Ramatuelle. June Newton (Alice Springs) ha fotografato il marito Helmut, l’editore Benedikt Taschen e il celebre mercante d’arte Simon de Pury alle due del mattino, dopo una sessione d’asta, nel bar del Vier Jahreszeiten, di Berlino.
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QUANTA MAGIA! C hiariamolo subito, e altrettanto presto sgombriamo il campo dagli equivoci. Nel presentare e commentare l’ottima selezione La magia della polaroid, come anticipato lo scorso mese allestita nelle avvincenti sale del Centro Italiano della Fotografia d’Autore, di Bibbiena, in provincia di Arezzo, non entriamo nella vicenda aziendale e produttiva Polaroid. Non raccogliamo alcuno dei tanti rumors dei nostri giorni, e neppure assecondiamo nessuna delle fantasiose speculazioni che attraversano il passaparola, esprimendosi soprattutto in Rete. Punto. Invece, registriamo soltanto l’allestimento della selezione raccolta e presentata per conto della Fiaf, l’autorevole Federazione Italiana Associazioni Fotografiche, che da tempo ha allargato le proprie intenzioni originarie e antiche, arrivando a classificare e codificare fenomeni fotografici italiani altrove ignorati: valore, prestigio, influenza e credibilità di chi ha saputo attraversare i decenni, affermando inviolati princìpi di continuità. Quindi, ulteriore precisazione d’obbligo, anche in questo caso, il nostro commento è comprensivo di digressioni complementari al tema, che in qualche modo vanno a completare.
MAGIA DELLA POLAROID In cartellone a Bibbiena, in provincia di Arezzo, dal sei giugno al successivo sei settembre, come specifica nel proprio titolo, la selezione La magia della polaroid, a cura di Claudio Pastrone, è un attraversamento dell’espressività della fotografia a sviluppo immediato, così come si è manifestata nel nostro paese. Magistralmente sottotitolata Gli Autori italiani interpretano il mito, la mostra è allestita all’interno del Centro Italiano della Fotografia d’Autore, diretto dallo stesso Claudio Pastrone. Come già rilevato, in anticipo, lo scorso maggio, e la ripetizione si impone, appropriati allestimenti scenici fanno tesoro della straordinaria location (la forma, per il contenuto): l’ex Casa Mandamentale del comune toscano, nel capoluogo del verde Casenti-
Esposta al Centro Italiano della Fotografia d’Autore, di Bibbiena, in provincia di Arezzo, spazio museale gestito e governato dalla Fiaf (Federazione Italiana Associazioni Fotografiche), la selezione La magia della polaroid racconta una trasversalità italiana all’espressione creativa, in equilibrio tra professione e ricerca. Avvincente e convincente percorso retrospettivo e contemporaneo unico nel proprio genere, che stabilisce un punto fermo nella classificazione, analisi e storicizzazione della fotografia polaroid nel nostro paese Moleskine del Gruppo Polaser, che partecipa a La magia della polaroid con l’installazione Viaggio nell’anima: avvincente progetto che ha impegnato ventidue autori [le prime testimonianze dirette nella doppia pagina gestita in proprio dal Gruppo, su questo numero, da pagina 20].
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Gian Paolo Barbieri: Seychelles, 1984 (Polaroid 55). Giovanni Gastel: Kodak; Parigi, 1994; modella Steeve (Polaroid 8x10 pollici).
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no, a sessanta chilometri da Firenze, un edificio ottocentesco appositamente ristrutturato per soddisfare le nuove esigenze di uso (FOTOgraphia, maggio 2005). In mostra, creatività fotografica a trecentosessanta gradi, in pertinente equilibrio tra professione (soprattutto moda e ritratto) e ricerca espressiva (senza soluzione di continuità). In mostra, un percorso retrospettivo e contemporaneo unico nel proprio genere, che stabilisce un punto fermo nella classificazione, analisi e storicizzazione della fotografia polaroid nel nostro paese, fino a comporre i tratti di autentico casellario creativo, che arriva nel momento nel quale il discorso polaroid è in bilico tra gli splendori del passato, anche soltanto prossimo, le incertezze del presente e le incognite del futuro. Plauso e applauso alla Fiaf, l’attenta Federazione Italiana Associazioni Fotografiche, presieduta da Fulvio Merlak, che ribadisce uno dei propri ruoli discriminanti: quello di saper guardare, per vedere; ovverosia per condividere esperienze e storie con coloro i quali affrontano il discorso fotografico con entusiasmo e passione, indipendentemente dalle redditività di impresa. La magia della polaroid è una mostra-sintesi che ci voleva, e che fino a oggi è mancata, in un paese nel quale lo spreco di parole inutili sta diventando più che imbarazzante, inquietante addirittura. Al-
l’esatto contrario, per questa mostra non abbiamo ancora sentito commenti appropriati: e questo costituisce la sua unità di misura, non solo la cifra stilistica (come si recita nelle critiche più dotte), che si eleva sopra la mediocrità delle manifestazioni fotografiche italiane per le quali si consumano e sprecano lodi e considerazioni prezzolate. Bravi (uomini della Fiaf): continuate per la vostra strada, senza cercare quei consensi di modo e maniera che servono soltanto a giustificare l’ingiustificabile. No, e all’opposto: La magia della polaroid si presenta da sé e con quanto offre al visitatore, e poi raccoglie nell’opportuno numero monografico di Riflessioni, periodico Fiaf di approfondimento, che ne fa da catalogo: sessantaquattro pagine 23,5x33,2cm, ampiamente e sapientemente illustrate. Proprio questo catalogo ripercorre esattamente il ritmo dell’allestimento scenico, rendendosi così utile sia a coloro i quali hanno visitato l’esposizione (in ricordo e memoria) sia a chi deve, giocoforza, limitarsi a questa documentazione per interposta situazione (in evocazione e tempistica).
AUTORI E MITO Attorno il mito della polaroid sono stati versati fiumi di inchiostro. Tutti ne hanno scritto, e dal nostro modesto punto di vista anche FOTOgraphia ha fatto la propria parte: affrontando sia il linguaggio espressivo della fotografia a sviluppo immediato, sia appetitosi retroscena della lunga parabola tecnica e commerciale, addirittura a partire dal racconto delle origini (sopra tutto, nel febbraio 1997 e 2007, rispettivamente in occasione dei cinquanta e sessanta anni dalla leggendaria presentazione pubblica del 21 febbraio 1947, dalla quale è nato tutto, e ancora nel novembre 2008, quando abbiamo celebrato i sessanta anni dalla vendita originaria della prima Polaroid Model 95, il 26 novembre 1948, ai grandi magazzini Jordan Marsh,
PER SAPERNE DI PIÙ
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Una sola citazione, dalla Bibliografia ragionata a cura di Beppe Bolchi: The Polaroid Book, selezione dalla Polaroid Collection; a cura di Steve Crist, con il contributo di Barbara Hitchcock; testi in italiano, spagnolo e portoghese; Taschen, 2005; 400 pagine 17,5x21,5cm, cartonato, in confezione dedicata
di Boston, Massachusetts). Non sarebbe necessario scrivere altro, non c’è più nulla da aggiungere. Soltanto, in occasione della selezione La magia della polaroid (casellario?, anche in richiamo al luogo di esposizione, già Casa Mandamentale), è opportuno soffermarsi sugli Autori italiani che hanno interpretato il mito. Ovviamente, non ci occupiamo di tutti gli autori, ma ci soffermiamo soltanto su alcuni: ovvero, a differenza di convenienze che impoveriscono il giornalismo fotografico italiano, non compiliamo alcun elenco della spesa. Altrettanto ovviamente, non ci nascondiamo dietro una delle solite scuse di comodo: non selezioniamo per oggettivi limiti di spazio (che non ci sono mai), ma per intenzioni assolutamente e inviolabilmente soggettive. Prima di tutti, e sopra tutti, richiamiamo la perso-
Un solo richiamo da The Polaroid Book, così come ci impone il Cuore: Weegee, fotografato da Philippe Halsman, nel 1961, con pellicola Polaroid Type 53. HALSMAN ESTATE
eppe Bolchi, presente a La magia della polaroid con una propria sezione volontariamente didattica delle possibili manipolazioni del materiale e con un seminario propedeutico conclusivo, sabato cinque settembre, non è solo un raffinato interprete della fotografia a sviluppo immediato, che declina anche con il foro stenopeico (FOTO graphia, aprile 2008). È anche un attento cultore della materia. Sulle pagine del numero quattordici del periodico Fiaf Riflessioni, monografia che fa da catalogo alla mostra di Bibbiena, è riportata una sua concreta disamina del fenomeno polaroid, comprensiva di una Bibliografia ragionata di titoli che fanno da corona alla sua creatività. Tra manuali tecnici, quale è, per esempio, Polaroid - Instant Innovations: Creative Uses for Polaroids Films, del 1992, storiografie, sopra tutte la biografia Edwin H. Land e la Polaroid, di Peter C. Wensberg, del 1987, evocata in diverse occasioni celebrative anche sulla nostra rivista (FOTOgraphia, febbraio 1997, febbraio 2007 e novembre 2008), e monografie d’autore, per le quali corre l’obbligo citare l’intramontabile Carlo Mollino, Beppe Bolchi riporta un elenco eterogeneo, quanto esaustivo. Certamente, come ben sa anche il curatore, non si tratta di una bibliografia completa, ma ragionata. Dunque, non una banale lista della spesa, espressione più volte richiamata in queste stesse pagine, ma una autentica guida. Altri titoli se ne possono aggiungere, ma il senso non cambia. Una volta ancora, e una di più: Magia della polaroid. Se servisse sottolinearlo. Ribadendolo!
e personalizzata simil Polaroid; 29,99 euro / edizione Taschen 25, 2008; 352 pagine 17,5x21,7cm, cartonato con sovraccoperta; 9,99 euro. Entrambi: distribuzione Inter Logos, strada Curtatona 5/2, Località Fossalta, 41100 Modena; 059-412648; www.books.it.
nalità di Gian Paolo Barbieri, che personalmente consideriamo una delle più consistenti personalità della fotografia a cavallo del Millennio (a volte ci sbilanciamo fino a conteggiare “la più consistente personalità”), esercitata sia nella professione nell’ambito della moda, sia nella ricerca espressiva e creativa individuale (FOTOgraphia, settembre 2007). Anche in questo caso, Gian Paolo Barbieri rivela la sua straordinaria classe e la sua irrinunciabile serenità di intenti, che non hanno bisogno di sovrastrati artificiosi: per La magia della polaroid non ha fornito stampe bianconero, da negativi Type 55, impreziosite dall’abilità in camera oscura di Patrizio Parolini, da tempo stampatore di fiducia e riferimento. Per La magia della polaroid ha consegnato preziose copie bianconero originarie, in formato 4x5 pollici. Sì, proprio il prodotto
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Marzio De Santis: NoordKastelBrug (da Polaroid 55, con foro stenopeico).
GODBYE MR LITTMAN
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ontrariamente a quanto affermato lo scorso maggio, quando anticipammo, promettendolo, un approfondimento sulla linea fotografica Littman 45 Single, in un certo modo, oggi soprassediamo. Passiamo la mano. In origine, pensavamo di riferirne in consecuzione alle fenomenologie polaroid, nella cui lettura trasversale, in amicizia e sincera ammirazione, avremmo iscritto William Littman nel novero di coloro i quali, smettendo di sentire il cervello, ascoltano l’anima. Così come Maurizio Rebuzzini ha annotato nel suo delirante Alla Photokina e ritorno (Graphia, 2008; centosessanta pagine 15x21cm; 18,00 euro), questi personaggi sono la nostra migliore compagnia: Vincenzo Silvestri, Yoshiyuki Akutagawa, Dr. Gilde, Keith Canham. William Littman, no. Ipotizza che quanto abbiamo scritto sarebbe falso e denigratorio della sua produzione, che avrebbe marginali debiti di riconoscenza con gli antichi apparecchi Polaroid sui quali si basa. Esige che si precisi come la produzione Littman 45 Single sia autonoma e indipendente, in relazione alle raffinate combinazioni di correzione del parallasse, dotazioni ottiche e altro ancora. Non avremmo certificato nulla di diverso. Né di meno. Confermiamo la nostra ammirazione e stima, il nostro apprezzamento... ma non vogliamo averne a che fare. Ciascuno, se vuole farlo, approfondisca da sé. Noi non intendiamo presentare alcun apparecchio, certificare di alcun possessore, annotare nessun aneddoto gratificante. Punto. Dal delirante Alla Photokina e ritorno. Personaggi e situazioni che sono la nostra migliore compagnia. Ciò che dice l’anima: «smettere di sentire il cervello per ascoltare l’anima». Noi rimaniamo con chi combatte al nostro fianco: con coraggio e determinazione.
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originario dello scatto, anticipatorio delle successive magistrali interpretazioni del negativo recuperato alla stampa tradizionale su carta baritata [a pagina 58]. Che emozione, che vibrazione, davanti a questi elaborati, così modesti nella propria fragile apparenza formale, così intensi oltre la superficie apparente della incorporea copia bianconero polaroid 55! Su altra scala formale, che approda al bianconero e al colore a sviluppo immediato 8x10 pollici (ufficialmente 20,4x25,4cm), la palpitazione si ripete nell’incontro con le fotografie di Giovanni Gastel, che ha affidato alla mediazione polaroid la propria moda [ancora a pagina 58]. I toni del bianconero e i cromatismi del colore sono inconfondibili, quanto riconoscibili (oltre che riconosciuti da chi ne sa interpretare le prerogative). Hanno punti in comune con altre mediazioni fotografiche, da pellicola tradizionale, ma soprattutto rivelano espressività autonome e personali: quelle che hanno sempre definito il linguaggio della fotografia a sviluppo immediato, oltre la proprietà fondante del processo che si risolve in una manciata di secondi. Gian Paolo Barbieri e Giovanni Gastel esprimo-
no la declinazione in chiave professionale. In un certo senso, è sostanzialmente analoga la presenza di Beppe Bolchi, che ha fornito alla Magia della polaroid una efficace catalogazione di manipolazioni dei materiali: una sorta di abbecedario illustrato che non si limita al proprio compito istituzionale, che è appunto quello didattico, ma alza il tono con una serie di interpretazioni di contenuto (oltre la forma). Quindi, lo stesso Beppe Bolchi svolge un seminario propedeutico, sabato cinque settembre, a conclusione della lunga esposizione.
MITO ARBITRARIO Ovviamente, non si potrebbe commentare alcuna creatività polaroid tralasciando la personalità espressiva di Maurizio Galimberti, celebrato autore contemporaneo. Provocatoriamente, oggi e qui lo facciamo, cioè soprassediamo su Maurizio Galimberti, che troppo spesso vampirizza ogni altra creatività polaroid con l’esuberanza e mordacità sia dei suoi avvincenti mosaici, sia dei suoi interventi dadaisti (lo afferma lui) sulle copie colore negli istanti della loro apparizione. Niente di personale, sia chiarito subito, e neppure non apprezzamento di questa fotografia, ma! Ma spazio a quelle creatività che rischierebbero di essere meno considerate. Analogamente, le molteplici esperienze di Nino Migliori, autore di spicco, hanno attraversato sia i materiali a sviluppo immediato che si sono susseguiti nei decenni, sia richiami e riferimenti di costume e didattici (e proprio il discorso di educazione e didattica, con scolari e non soltanto, è stato uno dei momenti alti della sua fotografia polaroid). Addirittura, la personalità di Nino Migliori definisce il filo conduttore dell’affascinante rievocazione con la quale Achille Abramo Saporiti, per lungo tempo responsabile
della comunicazione di Polaroid Italia e anfitrione delle interpretazioni creative della fotografia a sviluppo immediato, anticiperà la cerimonia di inaugurazione di La magia della polaroid, sabato sei giugno. Nell’ambito delle espressioni arbitrarie, sia in manipolazione consapevole dei materiali, sia in applicazioni altrimenti interpretate, ricordiamo alcune personalità sopra le altre. Non ci riferiamo agli autori presenti come tali, in mostre personali (nella mostra complessiva), ma richiamiamo chi fa parte della collettiva che attraversa il tempo e le interpretazioni. Nello spirito del sapore di verità che abbiamo individuato nelle loro rispettive azioni polaroid, li menzioniamo senza graduatoria, ma così come ci vengono in mente. In modo casuale... ma non è vero. Affascinante la fotografia con foro stenopeico, pinhole, di Marzio De Santis, che nobilita un gesto, ap-
Mario Beltrambini: Ossidazione, dalla serie Nelle oasi del vuoto; 2006 (da Polaroid 55, con foro stenopeico).
Carlo Braschi: Atr#1 (da Polacolor 669). Stefano Malfetti: Omaggio a Klimt (da Polaroid Image).
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LA POLAROID CHE NON C’È (E NON PUÒ ESSERCI)
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vvero, ribadiamo, non può proprio esserci, pur essendo la polaroid socialmente più importante della storia contemporanea italiana (starà in qualche incartamento giudiziario): quella (e poi quelle) dell’onorevole Aldo Moro, presidente della Democrazia cristiana, prigioniero delle Brigate Rosse. Ai tempi, con Peppo Mojana alla comunicazione Polaroid Italia, ci furono anche polemiche tignose, riguardo una espressione di un Telegiornale, che avrebbe affermato che non si poteva stabilire se lo statista aveva subìto sevizie, non riuscendo a distinguere presunte ecchimosi con “i difetti tipici della fotografia polaroid”. Testuale, o quasi. Lasciando perdere questa dietrologia, della quale prendiamo soltanto atto, ricordiamo che i giornali italiani pubblicarono la prima fotografia di Aldo Moro prigioniero la mattina di domenica 19 marzo 1978, tre giorni dopo il rapimento del precedente giovedì sedici [qui sotto, a sinistra]. A trent’anni di distanza dai fatti, l’analisi di quella fotografia, alla quale ne fece seguito la seconda del ventuno aprile, che certificò che l’onorevole era ancora in vita [ancora qui sotto, a destra], è stata compilata da Marco Belpoliti, qualificato giornalista della Stampa, di Torino. Pubblicate da I sassi nottetempo, le rilevazioni di La foto di Moro sono approfondite, documentate e fondamentali: dalla fotografia, dalle fotografie, approdano a valori sociali e di costume. Infatti, tragedia a parte, la fotografia non è mai un fine, ma è spesso un punto di partenza. Senza chiudersi in alcuna strettoia, Marco Belpoliti richiama considerazioni delle quali fare prezioso tesoro. La foto di Moro, di Marco Belpoliti; I sassi nottetempo, 2008 (via Zanardelli 34, 00186 Roma; www.edizioninottetempo.it; nottetempo@edizioninottetempo.it); 44 pagine 10,5x14,7cm; 3,00 euro. 19 marzo 1978: la polaroid dell’onorevole Aldo Moro, prigioniero delle Brigate Rosse. Nella prima pagina di La Repubblica, il titolo «Moro è vivo, ecco la foto». 21 aprile 1978: seconda polaroid di Aldo Moro, che certifica che è ancora in vita. Altra prima pagina di La Repubblica, con titolo dai toni allarmati.
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Pino Valgimigli: Le Mur de Gainsbourg (da Polaroid Image).
(pagina accanto) Carla Ponti: Rivelazione (da Polaroid Image). Luigi Vegini: Polafiore 26 (da Polaroid 669).
punto quello della fotografia senza obiettivo, troppo spesso mortificato da odiosità formali che non hanno nulla di intelligente. Qui è vero esattamente il contrario, e non possiamo che rallegrarci [a pagina 60]. Ancora, ci allineiamo all’Omaggio a Klimt, di Stefano Malfetti, bravo sia nella riproposizione sia nell’affermazione della propria personalità d’autore [a pagina 61]. Lo stesso, ancora e in altri modi, a propria volta personali, riconosciamo sia ai fiori di Carlo Braschi sia al foro stenopeico, ancora, di Mario Beltrambini [rispettivamente, Atr#1 e Ossidazione / Nelle oasi del vuoto, a pagina 61]. E poi, evochiamo la Rivelazione, di Carla Ponti, il Polafiore 26, di Luigi Vegini [entrambi, pagina accanto] e Le Mur de Gainsbourg, di Pino Valgimigli [qui sopra]. Due personali, ancora, ri-propongono autori che hanno agito in una stagione lontana, e poi si sono incamminati per altre avventure fotografiche. A merito, e fortunatamente!, La magia della polaroid ne dà testimonianza. Pensiamo a William Masetti e Fulvio Fulchiati, che alla metà degli anni Ottanta hanno illuminato l’astrattismo fotografico, semplifichiamola così, con interpretazioni a dir poco emozionanti, che nello scorrere dei decenni (più di quanti le pagine del Calendario ne possano rivelare) non hanno perso nulla del proprio smalto originario [rispettivamente, qui a destra e a pagina 64].
Non abbiamo riferito di tutti, non abbiamo compilato una insipida lista della spesa. Nessuno (?) è assente da questa presentazione per demerito, ma ribadiamo di essere stati guidati da intenzioni e preconcetti personali riguardo l’espressività fotografica.
William Masetti: Grace (da Polaroid SX-70).
GRUPPO POLASER Sulle nostre pagine, dallo scorso maggio, il Gruppo Polaser occupa uno spazio redazionale autonomo. Oltre la partecipazione di alcuni dei suoi esponenti alla collettiva che attraversa i modi e i linguaggi del-
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RITROVATE!
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ound è una associazione statunitense che si propone di dare visibilità a documenti della vita quotidiana recuperati dall’oblio e dalla spazzatura: 3455 Charing Cross Road, Ann Arbor, MI 48108-1811, Usa; www.foundmagazine.com. Pubblica un periodico Found Magazine monografico a tema, in forma di libro (per lo più novantasei pagine 21x27,5cm); ha realizzato anche libri, che riguardano diversi argomenti. Tra questi, segnaliamo il titolo Polaroids, di polaroid ritrovate per strada: ognuna certificata con luogo e data dello stesso ritrovamento. Affascinante! E non aggiungiamo altro. Non serve farlo. Found - Polaroids; a cura di Jason Bitner; Quack!Media, 2006 (320 South Main street, Suite A, Ann Arbor, MI 48104, Usa); 194 pagine 16,5x16,7cm, cartonato con sovraccoperta; oggi quotato da 46,99 dollari.
Ritrovata Ritrovata Ritrovata Ritrovata da Susan Granados. da Meredith Roys. da Maisie Wilhelm. da Steven E. Pav.
Fulvio Fulchiati: Nudescape; 1986 (da Polaroid SX-70).
la fotografia a sviluppo immediato, Polaser partecipa a La magia della polaroid con l’installazione Viaggio nell’anima. Come specificato nella doppia pagina a loro disposizione, e da loro gestita in proprio, nella quale sono riportate testimonianze di alcuni autori [su questo numero, da pagina 20], Viag-
gio nell’anima si distribuisce su ventidue taccuini Moleskine, una valigia vintage anni Cinquanta e la fotografia di un grande orologio. Nato nell’autunno 2007, e durato nove mesi, il progetto è successivamente maturato nell’installazione realizzata a misura degli spazi espositivi del Centro Italiano della Fotografia d’Autore. È un viaggio lungo sessanta anni, le decadi dell’azienda Polaroid. Il Gruppo Polaser ha collegato il Viaggio nell’anima a quello della Polaroid, da cui la valigia, che rappresenta l’icona del viaggio; una valigia sulla quale, in progress, ogni visitatore della mostra può lasciare il segno della propria presenza, del proprio “viaggio”, applicandovi una propria polaroid. Poi, l’orologio, che scandisce il tempo del Viaggio nell’anima; infine, la Moleskine, il leggendario taccuino con la copertina nera trattenuta da un elastico, usato dagli artisti e intellettuali europei degli ultimi due secoli. Nelle Moleskine del Gruppo Polaser, ogni autore ha riportato pensieri, riflessioni, versi, racconti, disegni, schizzi e... naturalmente polaroid. Dalla collettiva al Gruppo Polaser, e poi alle esposizioni personali, La magia della polaroid compone un casellario fondamentale e irrinunciabile, lo ripetiamo, ribadendolo. Una mostra che potrebbe fare anche la differenza, se soltanto qualcosa potesse ancora farla (la differenza) nell’apatia del nostro mondo fotografico italiano. Opinione personale. Antonio Bordoni La magia della polaroid; a cura di Claudio Pastrone per conto della Fiaf (Federazione Italiana Associazioni Fotografiche; presidente Fulvio Merlak). Centro Italiano della Fotografia d’Autore, via delle Monache 2, 52011 Bibbiena AR; 0575-536943; www.centrofotografia.org, info@centrofotografia.org. Dal 6 giugno al 6 settembre; lunedì 15,30-18,30, da martedì a sabato 9,30-12,30 e 15,30-18,30, domenica 10,00-12,30.
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PAROLE NON DETTE (?)
S
Sono un pessimo utilizzatore di tecnologie attuali. Non ne sto distante per motivi ideologici e nostalgici, ci mancherebbe altro, ma, più semplicemente, non ne sento alcun bisogno. Utilitaristicamente, faccio uso della Rete soltanto se, quando e per quanto ne ho effettiva necessità. Quindi, non sono tempestivo su quanto mi è capitato di incontrare per caso questa mattina, di primavera 2009 inoltrata. Preciso la data, perché sto per riferirmi a annotazioni temporalmente precedenti, che ignoravo fino a stamani. Nel Blog del fotografo Massimo Prizzon, che credo di non conoscere, leggo una curiosa interpretazione di mie opinioni, riportate in un Editoriale che ho scritto per il settimanale FotoNotiziario, rivolto ai fotonegozianti, di metà dello scorso giugno 2008. La rivista è datata quindici giugno e le note che sto per richiamare sono state compilate il successivo ventisei. Come rileva Massimo Prizzon, il citato Editoriale «riporta una notizia che pare abbia fatto discutere». Testuale, dal Blog: «E resto a bocca aperta: da un lato, per la sorpresa di fronte a quello che la tecnologia può fare [può fare molto di più e diverso]; dall’altro, per lo sconcerto di fronte a ciò che questo implica per la stessa dignità della fotografia e dei fotografi professionisti [vero niente!]. «La notizia è questa (cito Maurizio Rebuzzini): “La recente tecnologia Sony della attribuzione volontaria del sorriso al soggetto che non sorride, tra le funzioni on-camera della nuova linea di compatte digitali Cyber-shot W ha fatto discutere”. «Non c’è da meravigliarsene. C’è forse da meravigliarsi un po’ di più del fatto che Maurizio Rebuzzini, osservatore solitamente acuto della realtà del nostro settore [?], giudichi tanto positi-
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vamente questa innovazione da arrivare a scrivere, peraltro dopo aver sottolineato i dubbi, gli imbarazzi e le perplessità di molta stampa e di diversi critici: “Altrove, capaci osservatori della socialità della fotografia hanno sottolineato un valore sovrastante, interpretato in chiave assolutamente positiva: per la prima volta, nella propria lunga e differenziata storia, la tecnologia fotografica non si rivolge al solo uso degli strumenti, via via semplificato e perfezionato, ma all’assolvimento del soggetto. E la differenza non è poca” [lo confermo, e vanto l’originalità di questo mio ragionamento]. «E prosegue: “non per sentito dire, ma per effettive conoscenza e competenza, sottolineo come questa funzione sia straordinaria, efficace e avvincente per la propria capacità di coinvolgimento” [osservazione rivolta al commercio fotografico]. «Che la tecnologia sia arrivata a tanto è certamente argomento che personalmente mi lascia a bocca aperta, come dicevo [...]. Che la tecnologia sia arrivata a tanto, però, mi pare che sia anche argomento che non può che preoccupare chi ama davvero la fotografia (digitale o analogica che sia). Se è infatti accettabile che il grande pubblico dei “fotografi della domenica” possa divertirsi a usare questa funzione, ben diverso mi pare l’argomento riferito a chi fotografa per arte o professione (o per arte e professione). «Sappiamo tutti bene, noi fotografi, quanto complessa sia l’arte del ritratto. Quanto sia impregnata di psicologia, oltre che di tecnica. Quanto sia fondata sulla capacità di creare empatia, di costruire una relazione, di entrare nell’anima del soggetto fotografato. E sappiamo anche bene che non è sempre un sorriso a fare un bel ritratto: anzi, a
volte è proprio la sua assenza [e chi ha mai pensato il contrario?]. «E allora? Allora mi pare che in questo caso la tecnologia spinga verso un appiattimento della capacità espressiva dei fotografi e dei risultati che se ne potranno ottenere [e chi ha mai affermato il contrario / 2?]». Diavolo! So di non essere un permaloso. Quindi, non rifletto perché presunta parte in causa, e non mi sento tale, ma per ribadire un concetto che nulla c’entra con l’espressività del ritratto fotografico, della quale sono perfettamente consapevole [ritorno a specificare di essere anche docente a incarico di Storia della Fotografia alla Facoltà di Lettere e Filosofia, dell’Università Cattolica del Sacro Cuore, sede di Brescia]. Anche rileggendo oggi quanto scritto un anno fa, indirizzandomi ai fotonegozianti, che peraltro ho declinato in termini analoghi anche in FOTOgraphia, rivolgendomi ad altri interlocutori, e ripeto e ribadisco anche in occasione di incontri pubblici, non intravedo nulla che riguarda il linguaggio fotografico. Anzi, in tutte le occasioni ritrovo la specifica che queste nuove applicazioni non hanno alcun debito di riconoscenza con la storia evolutiva degli apparecchi fotografici, ma dipendono più che altro da una semplificazione della fotografia dei nostri giorni: la cui socialità è evidentemente un’altra. Non giudico se è peggiore o migliore, semplicemente registro la sua diversità. E ne prendo atto, sollecitando in questa direzione la riflessione complessiva. Lontana da me l’idea di applaudire a tutto questo, come rilevato in altro contesto, diverso da quello (che presumevo essere) di addetti al lavoro, capaci di comprendere le parole e i concetti, appunto sollecitati a
valutare qualcosa che sta oltre la superficie e interessa chi dibatte attorno la fotografia, ragionandone senza pregiudizi selettivi e distruttivi. Così, cito dall’articolo La macchina che fotografa solo sorrisi, di Roberto Rizzo, pubblicato sul Corriere della Sera del 24 aprile 2008. Il giornalista ha riferito mie opinioni: la tecnologia del sorriso forzato «nulla ha a che fare con la fotografia», ho affermato. Ancora avanti, l’articolo prosegue così: «Questi apparecchi sono figli del telefonino che fa le foto[grafie]. Oggi si scatta tanto per scattare. Non costa niente, le immagini non vengono più stampate, ma questa trovata del sorriso è un vero paradosso». Si spieghi: «È come se nella scrittura, nei libri o negli articoli di giornale, ci fossero solo frasi piacevoli per il lettore ed epiloghi a lieto fine». Invece? «La fotografia è altra cosa». Il suo è un giudizio da purista ma le foto[grafie] le fanno tutti, non solo i professionisti. Comprensibile che si voglia la fotoricordo al massimo delle possibilità: «Ma qui siamo alla deformazione della realtà». Per un sorriso? «La macchina fotografica aveva una funzione sociale che è andata perduta. E, da oggetto magico, è diventato un apparecchio senza fascino». Insomma, è chiaro che dobbiamo sempre dibattere senza scontri di assoluti che dividono? Che dobbiamo uscire dalle strettoie nelle quali una mal interpretata nostalgia ci ha cacciati? Che non dobbiamo mai schematizzare? Che non serve più essere sbrigativi? Nella parte degli altri, come le associazioni di categoria, di una delle quali Massimo Prizzon afferma di essere socio, non invitano certo a immedesimarsi: le parole siano concilianti e intelligenti. Maurizio Rebuzzini
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