Mensile, 5,70 euro, Poste Italiane SpA - Spedizione in abbonamento postale - D.L. 353/2003 (convertito in Legge il 27-02-2004, numero 46), articolo 1, comma 1 - DCB Milano
ANNO XVI - NUMERO 153 - LUGLIO 2009
Altri anniversari EDWIN H. LAND 19 AGOSTO 1839 WOODSTOCK
Stephen Shore LEZIONE DI FOTOGRAFIA
L’UOMO SULLA LUNA
“
Noi viviamo e suscitiamo sentimenti, e i sentimenti se ne vanno. Maurizio Rebuzzini su questo numero, a pagina 33
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ARCHIVIO FOTOGRAPHIA (3)
ALTRA LUNA. Immagine-simbolo della missione Apollo 11, ma soprattutto dell’Uomo sulla Luna (nel quarantesimo anniversario dal 20 luglio 1969, ne riferiamo diffusamente su questo stesso numero, da pagina 26), nel corso degli ultimi quattro decenni, il ritratto di Edwin E. Aldrin Jr in piedi sulla Luna, con l’altro astronauta Neil A. Armstrong che si riflette nella visiera del suo casco, è stato ampiamente usato e abusato. Tra tanto, ha illustrato copertine di relazioni giornalistiche in cronaca; e ancora illustra rievocazioni storiche, quale è la straordinaria monografia MoonFire, della quale riferiamo da pagina ventotto. Non sono mancate anche le alterazioni finalizzate. Qui ne proponiamo due: il rifacimento della copertina dello speciale di Life, che nell’estate 1969 raccontò la missione (a pagina 38 e qui sotto in confronto diretto), con raffinata pulizia dell’immagine, della quale possiamo perfettamente identificare ogni minimo dettaglio; quindi, l’inserimento del celebre coltellino svizzero Victorinox nella mano destra dell’astronauta.
La fotografia dell’ascolto è il tentativo di fissare in uno sguardo, e poi nella macchina fotografica, il cammino della storia. Pino Bertelli; su questo numero, a pagina 65 Propongo l’istituzione di un monumento ideale al reporter ignoto, a quel valoroso cittadino che rischia la vita per procurare la corretta informazione al mondo, proprio come facevano Robert Capa e Larry Burrows e come hanno continuato a fare Christopher Morris e James Nachtwey. Il video sulla morte della ventiseienne Neda Soltani, avvenuta durante le proteste iraniane di piazza contro la rielezione di Mahmoud Ahmadinejad, ha fatto il giro della Terra, grazie a YouTube e Facebook, grandi media che aiutano a diffondere l’informazione e a difendere la democrazia. Lello Piazza; su questo numero, a pagina 18 I giovani crescono, ogni giorno hanno occhi diversi. Vivono una età anche difficile, di chi ha un piede nell’adolescenza e l’altro nella maturità, sospesa tra la voglia di andare e la paura di trovare. Vanno aiutati e difesi, magari anche da se stessi. Maurizio Rebuzzini; su questo numero, a pagina 26
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Ma ormai, si parla così poco di fotografia. Angelo Galantini; su questo numero, a pagina 46
Copertina Impronta di Edwin E. Aldrin Jr sulla Luna: 20 luglio 1969, quarant’anni fa. Da pagina 26, corposa rievocazione dell’allunaggio, con abbondanza di complementi
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3 Fumetto Cartolina illustrata spagnola del 1965. Con fotografia
7 Editoriale Curiose trasversalità, tra anniversari, libri e francobolli
8 Edoardo, il Grande In ricordo di Edoardo Mari, mancato l’undici giugno
10 19 agosto 1839 Presentazione della fotografia, in forma di dagherrotipo
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12 Edwin H. Land (In ritardo) Nel centenario dalla nascita: 7 maggio 1909
16 Alla maniera di 30
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Fotografia come documento, in Prima di mezzanotte Ricerca iconografica di Filippo Rebuzzini
LUGLIO 2009
R , RIFLESSIONI IFLESSIONI, OSSERVAZIONI E COMMENTI OSSERVAZIONI E COMMENTI SULLA FOTOGRAFIA SULLA FOTOGRAFIA
18 Reportage
Anno XVI - numero 153 - 5,70 euro
Appunti e attualità del fotogiornalismo internazionale A cura di Lello Piazza
DIRETTORE
RESPONSABILE
Maurizio Rebuzzini
IMPAGINAZIONE
22 Ritorno a Woodstock
Gianluca Gigante
15-18 agosto 1969: la fine ufficiosa degli anni Sessanta
Angelo Galantini
REDAZIONE
FOTOGRAFIE
26 Stregati dalla Luna
Rouge
20 luglio 1969 - 20 luglio 2009. Una volta ancora, ricordiamo il primo Uomo sulla Luna: nel quarantesimo di Maurizio Rebuzzini Ricerca iconografica di Ciro Rebuzzini
Maddalena Fasoli
SEGRETERIA
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28 E la Luna si avvicinò Straordinaria monografia MoonFire, di Taschen (sempre lui!)
30 L’altra metà dello Spazio Unione Sovietica e il primo uomo nel Cosmo: Jurji Gagarin
31 Che diamine fai, tu Luna in ciel? Di Piero Raffaelli; da FOTOgraphia, del luglio 1994
32 In anaglifo (3D) Avvincenti interpretazioni tridimensionali di Roberto Beltramini
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34 Programma Apollo Tutto è cominciato con un proclama di John F. Kennedy
37 In ricordo di Laika
HANNO
COLLABORATO
Pino Bertelli Antonio Bordoni Zelda Cheatle Philippe Garner Max George Loredana Patti Lello Piazza Piero Raffaelli Franco Sergio Rebosio Gabriele Renna Ciro Rebuzzini Filippo Rebuzzini Redazione, Amministrazione, Abbonamenti: Graphia srl, via Zuretti 2a, 20125 Milano; 02-66713604; graphia@tin.it.
La cagnetta, vittima dello Spazio, che ha commosso il mondo
38 Rassegna stampa (essenziale) Casellario di settimanali che hanno raccontato Apollo 11
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39 L’Uomo è andato sulla Luna!
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Se così non fosse stato, i sovietici lo avrebbero detto
40 Omaggio dichiarato Campagna celebrativa di Louis Vuitton, con testimonianze
40 Immancabilmente, Hasselblad Documentazione fotografica delle missioni spaziali della Nasa
42 Non sono andati sulla Luna I guai di Apollo 13, anche sceneggiatura cinematografica
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43 Full Moon - Luna
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Affascinante monografia, pubblicata in Italia da Mondadori
45 Fotografia d’estate Cinque appuntamenti: Robert Mapplethorpe, Lucien Hervé, Urss dal 1920 al 1940, Camera Work e Yousuf Karsh
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54 La parola ai giurati / 2 Philippe Garner, Zelda Cheatle e Mark George, dalle giurie del Sony World Photography Award 2009 Interviste di Lello Piazza
60 Che bella lezione!
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Fotocomposizione DTP e selezioni litografiche: Rouge, Milano Stampa: Arti Grafiche Salea, Milano
Rivista associata a TIPA
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Riflessioni di Stephen Shore sul linguaggio fotografico
64 Gianni Giansanti Sguardo sulla fotografia della contemporaneità di Pino Bertelli
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www.tipa.com
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Alla Photokina e ritorno Annotazioni dalla Photokina 2008 (World of Imaging), con richiami e riferimenti che non si esauriscono con il solo svolgimento della Photokina
Riflessioni, Osservazioni e Commenti sulla Fotografia: spunti utili e proficui sia al comparto tecnico-commerciale sia al mondo della fotografia espressiva e creativa
Alla Photokina e ritorno dodici pagine, ventinove illustrazioni
Reflex con contorno ventotto pagine, settantuno illustrazioni
Visioni contemporanee venti pagine, quarantotto illustrazioni
I sensi della memoria dieci pagine, ventisette illustrazioni
La città coinvolta dieci pagine, ventisei illustrazioni
E venne il giorno (?) sei pagine, quindici illustrazioni
E tutto attorno, Colonia sei pagine, diciassette illustrazioni
Ricordando Herbert Keppler due pagine, due illustrazioni
Ciò che dice l’anima sei pagine, undici illustrazioni
Sopra tutto, il dovere quattro pagine, otto illustrazioni
• centosessanta pagine • tredici capitoli in consecuzione più uno • trecentoquarantatré illustrazioni
In forma compatta dieci pagine, venticinque illustrazioni
Tanti auguri a voi venti pagine, cinquantadue illustrazioni
Alla Photokina e ritorno di Maurizio Rebuzzini 160 pagine 15x21cm 18,00 euro
F O T O G R A P H I A L I B R I Graphia srl • via Zuretti 2a - 20125 Milano 02-66713604 • graphia@tin.it
Saluti da Colonia sei pagine, nove illustrazioni
Citarsi addosso sette pagine
ARCHIVIO FOTOGRAPHIA
S
correndo, sfogliando questo numero di FOTOgraphia potrebbe/dovrebbe balzare all’occhio almeno una delle trasversalità che lo percorrono: quella dei francobolli dedicati alla fotografia, o richiamati a qualcosa che compone i tratti della fotografia, che nel nostro modo di intendere e vivere la materia è parte integrante delle socialità che definiamo parallele. Così, riveliamolo subito, la filatelia sta in compagnia della presenza della fotografia nei fumetti, nel cinema e nella letteratura: altrettante presenze costanti, o quasi, delle nostre pagine. Trasversalità, ce ne sono altre: sopra tutto, gli anniversari, peraltro consistentemente presenti anche sul nostro scorso numero di giugno. Oggi, è la volta del centenario dalla nascita di Edwin H. Land (in ritardo temporale; da pagina 12), dei centosettanta della fotografia (da pagina 10) e dei quarant’anni da Woodstock (da pagina 22), per non parlare degli altrettanti quaranta dell’allunaggio di Apollo 11, distribuiti su ben diciotto pagine, da ventisei, con paginone centrale e copertina di richiamo. A seguire, abbiamo volontariamente ignorato un altro quarantesimo: quello dell’8 agosto 1969, dell’attraversamento sulle strisce pedonali di Abbey Road, a Londra, dei quattro Beatles (ci sono bastati i quaranta da Sgt. Pepper, del giugno 2007). Anche i libri scandiscono il passo di questa edizione; ma non è una novità, perché di libri parliamo e scriviamo sempre: sia come soggetti espliciti (per esempio l’avvincente Lezione di fotografia, di Stephen Shore, da pagina 60), sia a complemento, da un richiamo a margine di Woodstock ai titoli che si allungano sullo Spazio, a cataloghi di mostre, a tanto altro ancora. Ma la filatelia è strisciante tra le pagine, pur senza volere essere in alcuna misura protagonista. Così, a integrazione e finitura di tanti argomenti, si incontrano il francobollo celebrativo del Festival di Woodstock, a pagina 23, sette emissioni che hanno ricordato il sacrificio della cagnetta Laika, a pagina 37, il francobollo svedese che raffigura un’Hasselblad sul petto dell’astronauta Alan L. Bean, a pagina 41, la busta filatelica di Apollo 13, a pagina 42, e il foglio filatelico canadese che in tre valori ha commemorato il centenario dalla nascita del fotografo Yousuf Karsh, a pagina 52. Perché e come questi francobolli sono fotografici? Per alcuni, espliciti nei propri soggetti, la risposta è evidente. Per altri, meno diretta e non certo scontata. Quindi, è doveroso ricordare una volta ancora, dopo averlo già fatto in altre occasioni a questa precedenti, che noi indaghiamo e classifichiamo le socialità della fotografia senza preclusioni, né confini. Le ricerchiamo ovunque; dopo aver avviato casellari, li compiliamo con ogni individuazione e scoperta. Per l’appunto, i francobolli appartengono a questa genìa, che si dirama anche in deviazioni di percorso che reputiamo necessarie: e tra queste c’è proprio il capitolo dello Spazio e contorni. Non servono altre spiegazioni, mai giustificazioni, perché lo spirito è sempre lo stesso. Inviolabilmente, la fotografia come punto di partenza, non di arrivo. Maurizio Rebuzzini
Il ritratto di Edwin E. Aldrin Jr in piedi sulla Luna, con l’altro astronauta Neil A. Armstrong che si riflette nella visiera del suo casco, immagine-simbolo di Apollo 11, ma, soprattutto, dell’Uomo sulla Luna, è un’altra delle odierne trasversalità. Per quanto l’abbiamo accuratamente evitato, è presente sulle copertine di molte edizioni che evochiamo, da riviste a monografie, e dà lustro e prestigio all’affascinante MoonFire, che l’editore tedesco Taschen ha realizzato nel quarantesimo anniversario (da pagina 28). Giocoforza incrociare qui due trasversalità, segnalando una emissione filatelica polacca del 1989, nel ventennale, appunto illustrata con l’immancabile ritratto di Buzz Aldrin.
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EDOARDO, IL GRANDE
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Non ricordo esattamente la data. Se servisse farlo, potrei agevolmente consultare l’archivio dei negativi, e risalire senza alcuna difficoltà a quei giorni d’inverno di circa venticinque anni fa. Non serve farlo, e lascio scorrere ricordi liberi, senza burocrazie, senza verifiche: da soli bastano a se stessi e al mio attuale pensare a un amico appena scomparso. A un amico con il quale ho condiviso alcuni tragitti che ci hanno incrociati e che, a propria volta, si sono incontrati con vicende contemporanee della fotografia italiana. Edoardo Mari ci ha lasciati in punta di piedi, lo scorso undici giugno. Se n’è andato da solo, avvolto nelle tenebre di quella solitudine volontaria, per quanto indotta, che ne ha definito gli ultimi anni, caratterizzandoli addirittura. Era amareggiato, deluso da aspettative nelle quali si era ostinato a credere, ma che, siamo sinceri, avevano più i connotati dell’utopia che della probabilità. Ne abbiamo parlato più volte, soltanto per telefono, perché ormai non era più incline agli incontri. Doveva essere inseguito, e non ho mai demorso; non ho mai dato peso ai suoi rifiuti, alle sue insolenze... e ho continuato a sollecitarlo, a inseguirlo. Non ho mai assecondato le sue rimostranze della fine, lo ripeto, invitandolo a godersi ciò che era stata la sua vita e che, in conclusione, aveva definito il tragitto della sua esistenza, della quale stava vivendo i frutti: ma che te ne importa, lo rimproveravo; hai vissuto come hai voluto, spesso sopra le righe, ed ora devi sorridere di tutto questo, e assaporare la gioia per tutto quello che c’è stato. Oggi, queste parole non contano più, semmai possono aver contato qualcosa quando ci parlavamo. Ora e qui: onore al merito e al ricordo di Edoardo Mari, che se n’è andato così come ha vissuto. Una volta ancora, l’ultima e definitiva, sopra le righe. Per cui, riprendendo da capo, non ricordo esattamente la data, ma ho ben chiari lo svolgimento e il momento. Incontrati, ci si era incontra-
ti spesso, prima di quell’occasione, che successivamente avremmo considerato discriminante. Dalla sua vertiginosa altezza di fotografo di grande successo, e altrettanto grande contraddizione esistenziale, perfino classista (chi non lo è?), certamente lui non mi aveva mai visto. Neppure sapeva che ero stato tra gli invitati alla faraonica inaugurazione del suo ennesimo studio, nel dicembre 1973, in via Montevideo, a Milano, allestito con una profusione di lussi e dispendi degni del più esclusivo degli Emirati Arabi. Qualche settimana prima di ciò che sto per ricordare -per tornare al piacevole inizio di una solida e sincera amicizia-, c’era stata la presentazione di una nuova emulsione Kodak. Difficile dirlo oggi, impossibile a molti crederlo, ma la sensibilità Ektachrome da 200 Asa in pellicola piana dischiudeva allora scenari fotografici in precedenza soltanto sognati. Le relazioni ufficiali furono seguite da un intervento di Edoardo Mari, eccoci, che presentò sue realizzazioni, appunto agevolate da quei 200 Asa, adeguatamente superiori ai 64 Asa standard. Tale “alta” sensibilità gli aveva consentito di fotografa-
Ricordo di un ricordo (precedente): venticinque anni fa, o giù di lì. A cena con Carl Koch, fondatore della Sinar e ideatore della Norma originaria, dopo aver rievocato la presentazione nel suo studio milanese di piazza Sant’Ambrogio, Edoardo Mari si impegnò in una analisi delle proprietà e finalità dei movimenti dei piani degli apparecchi grande formato a banco ottico, indirizzati al controllo della prospettiva e della nitidezza. Venticinque anni fa? Forse, mille.
re le setole di uno spazzolino da denti, inquadrate con ingrandimento sostanzioso. Potendo emettere meno lampi multipli di quelli che sarebbero occorsi a 64 Asa, Edoardo Mari riuscì a ottenere una nitidezza adeguata, appunto non compromessa da emissioni flash in quantità più che doppia, con quanto ne sarebbe conseguito a causa del microspostamento dell’aria. Ceduti a Kodak, quei fotocolor 13x18cm furono concessi a una rivista professionale che realizzavo allora, all’alba degli anni Ottanta. In consecuzione, avendo visto pubblicate le sue fotografie, Edoardo Mari ebbe a richiederne compenso. Allontanando da me le responsabilità di quella gestione economica, lo indirizzai a Kodak, in veste di suo interlocutore legittimo. Da parola a parola, lui insistette per incontrarci, a tempi brevissimi, addirittura l’indomani: la sua vita è sempre stata definita da urgenze che non potevano essere rimandate. Io avevo altri impegni, altri programmi, lo avvertii, e comunque per qualche giorno sarei stato lontano da Milano, dovendo recarmi in visita alla fabbrica Sinar, di Feuerthalen, all’e-
(*) Grande in tutto: in ciò che conta, ma anche in quanto non ha importanza. Grandezza che ha disegnato tutta la vita di Edoardo Mari.
stremo nord della Svizzera, sul confine con la Germania. «Vengo anch’io», replicò pronto; e fissammo un appuntamento per l’indomani mattina, sul presto, alla testa del binario del treno per la Svizzera: «Mi farò riconoscere con una rosa rossa infilata nel Corriere della Sera», replicai in ironia alla sua richiesta di dettagli [allora, ci davamo rigorosamente del “lei”]. Confermo, riprendendo da ciò che ho già scritto: io lo avrei riconosciuto, ed ero perfettamente consapevole che «dalla sua vertiginosa altezza di fotografo di grande successo, lui non mi aveva mai visto»: lui professionista affermato, cresciuto e consolidatosi in anni di (oggi non comprensibile) inviolabile classismo, io poco più che trentenne redattore di riviste fotografiche (e qualcosa d’altro, ma non conta). L’ho visto arrivare. Mi sono avvicinato: «La rosa non l’ho trovata -gli ho detto-, ma il Corriere è quello di stamattina». Così è nata la nostra ami-
cizia, che mi ha imposto di non risparmiargli quelle osservazioni che gli accadimenti hanno suscitato: essere amici non significa diventare ciechi e sordi, non comporta complicità colpevoli e inutili, esige franchezza e trasparenza, condimenti indispensabili all’amore reciproco. Basta, non c’è altro da aggiungere. Non serve aggiungere altro. Un amico mi ha lasciato. Un grande fotografo è scomparso. Una personalità contraddittoria e combattuta se n’è andata. Soltanto, ancora un richiamo e una nota amaramente dolorosa (professionale, questa). Un richiamo: una volta arrivati a Feuerthalen, quella tarda mattinata d’inverno di circa venticinque anni fa, preavvertita la fabbrica che sarei stato in compagnia di Edoardo Mari, trovammo un messaggio di Carl Koch, fondatore della Sinar, da tempo defilato dalla sua gestione (e nel frattempo mancato, il 23 dicembre 2005;
FOTOgraphia, febbraio 2006), che ci invitava per cena. In quell’occasione, Carl Koch ritornò a quando, all’alba degli anni Cinquanta, aveva presentato la sua originaria Sinar Norma presso lo studio milanese di Edoardo Mari, che aveva così fortemente contribuito al suo successo tecnicocommerciale dei decenni a seguire. Una nota dolorosa: in assenza di istituzioni, di intelligenze disinteressate, di concretezze culturali, che fine farà l’archivio di Edoardo Mari? Chi conserverà memoria della sua straordinaria parabola professionale? Chi trasmetterà ai giovani il senso e sapore di un’esperienza più che eccezionale? Con questo, ti saluto per l’ultima volta, amico. È curioso che la vita ci abbia fatti incontrare, permettendoci di avere stima uno dell’altro: tu ed io, così distanti e divergenti in tutto. Tu ed io, così vicini nel riconoscere l’amore, quando lo incontriamo. Ciao. Maurizio
19 AGOSTO 1839
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Come commentato lo scorso giugno, in Editoriale, in questi ultimi mesi non tutto è andato come avremmo voluto che andasse, come avevamo sperato che avrebbe potuto essere. Così, volente o nolente, contravvenendo una promessa, sulla rivista non abbiamo scandito i tempi che, centosettanta anni fa esatti, accompagnarono i primi passi della Fotografia: a partire dalla relazione con la quale l’accademico François Jean Dominique Arago, matematico, fisico e astronomo, ma soprattutto influente uomo politico della Francia del primo Ottocento, offrì a Louis Jacques Mandé Daguerre il crisma ufficiale della sua invenzione. Da cui, come ricordato lo scorso dicembre, datiamo la nascita della fotografia (in forma di dagherrotipo) dal lunedì 7 gennaio 1839 dell’annuncio di Arago all’Académie des Sciences, di Parigi. La comunicazione originaria è stata poi seguìta dalla presentazione ufficiale del successivo diciannove agosto, che scandisce il ritmo di un odierno centosettantesimo anniversario. Tra le due date, tanto è successo, ma non abbiamo potuto sillabarlo, come invece avremmo voluto fare, avendone soltanto le intenzioni, ma non i mezzi economici. Mettiamoci il cuore in pace. Soltanto, riprendiamo almeno tre elementi fondamentali e discriminanti. Anzitutto, all’indomani dell’annuncio del sette gennaio, si registra la sacrosanta rivendicazione di priorità scientifica di William Henry Fox Talbot (ventinove gennaio, con una lettera inviata ad Arago), il cui processo positivo-negativo sta alla base della fotografia, così come l’abbiamo sempre intesa, e ancora l’intendiamo (il dagherrotipo si è presto esaurito in se stesso). Quindi, va ricordata la personalità di Hippolyte Bayard, sfortunato funzionario del ministero delle Finanze francese, un altro degli sperimentatori che hanno agito simultaneamente per lo stesso scopo, ognuno all’oscuro dell’esistenza de-
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gli altri. Fu messo da parte dal potere politico e scientifico, altrimenti indirizzato e alleato (con Daguerre). Comunque, Hippolyte Bayard aveva realizzato sia un processo autopositivo (come Daguerre), sia un processo negativo-positivo (come Fox Talbot), entrambi su carta. Infine, il ventotto febbraio, in una lettera a Fox Talbot, per la prima volta, John Herschel ha usato e declinato il termine “fotografia”. Con l’occasione, ricordiamo anche e soprat-
Il 10 agosto 1939, a Parigi, la vendita originaria degli apparecchi per dagherrotipia prodotti da Alphonse Giroux e dai Susse Fréres si accompagnava con l’indispensabile manuale d’uso redatto a cura di Daguerre. Prontamente tradotto in italiano, questo testo può essere considerato il primigenio di una lunga storia. Nell’autunno di sei anni fa, Photographica ne ha realizzata una edizione anastatica: Descrizione pratica del nuovo istromento chiamato il daguerrotipo, della quale a tempo debito abbiamo dato tempestiva notizia (in FOTOgraphia, dell’ottobre 2003). Se ancora disponibili, e tentare non nuoce, le quaranta pagine 14,6x20,8cm di questa apprezzata retrovisione costano soltanto dieci euro (!): Photographica (di Francesco Gaggini), via Guardabassi 11, 06123 Perugia; 075-5727819.
tutto che l’invenzione di quel mezzo attraverso il quale “la natura si fa di sé medesima pittrice”, appunto la fotografia, ha straordinari debiti di riconoscenza proprio con John Herschel, che nel 1819 scoprì che l’iposolfito di sodio scioglie i sali d’argento. Il fissaggio, così come l’abbiamo poi sempre finalizzato, fu fondamentale per le sperimentazioni dell’azione della luce su materiali sensibili, che in precedenza si vanificavano dopo il solo sviluppo.
CALDO AGOSTO/1 In allineamento temporale con l’estate 1839, di centosettanta anni fa, e oltre altre date riassunte nell’apposito riquadro pubblicato qui a destra, evochiamo ora i caldi giorni di metà agosto: una data è assoluta, il diciannove del mese (a seguire); un’altra è anticipatoria. In successione. Sabato dieci agosto, François Simon Alphonse Giroux (Au Coq Honoré, dal 1799 al civico 7 della rue du Coq St Honoré, a Parigi: da forniture per artisti a mobili e accessori di arredamento), parente della moglie di Daguerre, inizia a vendere l’apparecchio per dagherrotipia con proprio marchio, sua garanzia e firma di Daguerre. Questo primo apparecchio fotografico ufficialmente disponibile per l’acquisto è lungo ben 26,7cm, quando chiuso, e si estende fino a 50,8cm, al massimo allungamento; all’altezza di 31,1cm, corrisponde una larghezza di 36,8cm; per lastre full plate 16,4x21,6cm; obiettivo costituito da una lente a menisco o piano-convessa di 406mm di lunghezza focale e 83mm di diametro; il diaframma fisso di 23,8mm riduce l’apertura di lavoro all’equivalente del diaframma f/17. Come ricordato nel giugno 2007, in occasione della cronaca del rocambolesco e fortunato ritrovamento, si è sempre saputo che negli stessi giorni di metà agosto, sempre in anticipo sulla presentazione pubblica del diciannove, a Parigi era disponibile un’altra versione di apparecchio per dagherrotipia, del tutto identico a quello di Giroux, del quale si sono perse le tracce per decenni: fino alla primavera 2007, quando è stato rinvenuto un esemplare dei Susse Fréres (eccolo qui, il secondo modello: dei fratelli Susse, 31 place de la Bourse). In tutto e per tutto identico a quello di Giroux, ha un valore storico e collezionistico oggi ben superiore, in quanto pezzo unico; mentre di quello di Giroux ne sono noti almeno una dozzina di esemplari, conservati in musei internazionali. Tanto che, è stato aggiudicato in una sessione d’asta a 588.613,00 euro (per i dettagli e altre considerazioni, rimandiamo al citato numero di FOTOgraphia, del giugno 2007).
1839: DATE FONDAMENTALI
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ll’indomani dell’annuncio di François Arago, del sette gennaio, dal quale datiamo la nascita della fotografia, in forma di dagherrotipo, si registrano date discriminanti, oltre quelle evocate nel testo. ❯ 20 gennaio (Parigi): Hippolyte Bayard migliora la sua tecnica della ripresa positiva diretta su carta. ❯ 25 gennaio (Londra): Michael Faraday, al quale si deve la scoperta dell’induzione elettromagnetica, mostra ai membri della Royal Institution i disegni fotogenici di Fox Talbot. ❯ 31 gennaio (Londra): William Henry Fox Talbot tiene una relazione sui suoi disegni fotogenici alla Royal Society. ❯ 9 marzo (Monaco): La tecnica di Fox Talbot giunge all’Accademia delle scienze bavarese. Partono i primi esperimenti tedeschi di Franz von Kobell, professore alla Ludwig-Maximilians-Universität, di Monaco, e del fisico Carl August von Steinheil. ❯ 20 marzo (Parigi): Utilizzando il suo metodo positivo diretto, Hippolyte Bayard raggiunge risultati notevoli. ❯ 2 maggio (Parigi): François Arago scrive al ministro degli Interni per raccomandare Niépce e Daguerre; meritano un sussidio. Lo Stato propone un vitalizio in cambio della pubblicazione di tutti i segreti del dagherrotipo. ❯ 20 maggio (Usa): Samuel F. B. Morse, l’inventore del telegrafo, esegue la prima immagine dagherrotipica americana. ❯ Maggio-giugno (Parigi): Dopo dimostrazioni alla Camera dei Deputati e dei Pari, il governo francese acquista i diritti dell’invenzione di Daguerre e ne liberalizza l’uso. ❯ 14 luglio (Parigi): In polemica con François Arago, Hippolyte Bayard espone trenta immagini realizzate con il suo metodo positivo su carta. ❯ Estate (Birmingham): William Henry Fox Talbot espone in mostra novantatré disegni fotogenici. ❯ 7 agosto (Parigi): Re Luigi Filippo d’Orléans firma il decreto per l’acquisto e la pubblicazione delle tecniche di Daguerre: seimila franchi l’anno per lui e quattromila per Isidore Niépce, erede di Joseph Nicéphore, il “pioniere” per eccellenza. ❯ 14 agosto (Londra): Il procedimento di Daguerre viene brevettato, con il numero 8194. ❯ 19 agosto (Parigi): In concomitanza con la presentazione pubblica del dagherrotipo, William Henry Fox Talbot protegge con un brevetto francese il suo procedimento fotogenico (che sarà calotipo più avanti). ❯ Ottobre (Torino): Enrico Federico Jest fabbrica il primo apparecchio italiano per dagherrotipi (con il figlio Carlo gestisce una delle più note produzioni torinesi di strumenti scientifici; nel 1845, Carlo tradurrà il trattato sulla dagherrotipia di Marc-Antoine Gaudin). ❯ Novembre (Milano): Alessandro Duroni importa i primi apparecchi Daguerre-Giroux. ❯ 12 novembre (Napoli): All’Accademia delle Scienze, Macedonio Melloni, direttore dell’Osservatorio meteorologico e del Conservatorio di arti e mestieri a Napoli, tiene la prima relazione in Italia sul dagherrotipo.
CALDO AGOSTO/2 Preparatosi commercialmente, oltre che garantito dal vitalizio di seimila franchi, che re Luigi Filippo d’Orléans gli ha appena stanziato (sette agosto), lunedì diciannove, Daguerre affronta gli accademici di Scienza e Belle Arti in riunione congiunta. Questa combinazione è sintomatica. Il sette gennaio, François Arago ha riferito alla sola Accademia delle Scienze, sottolineando così il valore tecnologico dell’invenzione (della fotografia): l’unico che poteva aver concepito (e al proposito si hanno testimonianze certe). A distanza di sette mesi, già si possono registrare posizioni diverse, che si allargano alla possibile espressività della “natura che si fa di sé medesima pittrice”: Accademie delle Scienze e Belle Arti, in seduta comune. Ancora lontani da polemiche e diatribe che sarebbero maturate appena dopo, e che ancora perdurano ai nostri giorni, centosettanta anni dopo!, la realizzazione apparentemente meccanica delle immagini rompe comunque con il postulato sul quale si fonda tutto l’insegnamento teorico basato sull’imitazione degli antichi maestri. Ciò rilevato, in dichiarata opposizione al dagherrotipo, gli accademici si pronunciano a favore del procedimento messo a punto da Hippolyte Bayard e simile a quello di William Henry Fox Talbot: «Agli occhi degli intenditori, i disegni di Bayard rivelano l’aspetto dei disegni degli antichi maestri», è l’asserzione ufficiale. Tuttavia, sul finire del 1839, alcuni dagherrotipi sono presentati nell’ambito di mostre d’arte. Nell’autunno di quello stesso anno, a Edimburgo, un dagherrotipo dello stesso inventore Daguerre, raffigurante il Jardin des Tuileries, viene esposto nel corso di una mostra nella quale le creazioni artistiche sono alternate e frammiste a oggetti fatti a mano. Nell’ambito di quella mostra, sono altresì esposti trenta disegni fotogenici di Fox Talbot. Tuttavia, l’ammissione della fotografia nella lista delle belle arti procede lentamente. Difatti, bisognerà attendere il 1859 prima che le fotografie su carta, dopo la scomparsa del dagherrotipo, siano mostrate, come le pitture e le sculture, nel corso dei Salon di Parigi. M.R.
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EDWIN H. LAND (1909)
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Vergogna. Vergogna. Vergogna! Non ci sono scuse! Per una serie di tanti motivi, tutti personali, tutti stravolgenti, che hanno interferito con le auspicabili serenità del vivere quotidiano nessuno dei quali comunque sufficiente a giustificare la dimenticanza che ora andiamo a colmare, per quanto (im)possibile farlo-, lo scorso maggio abbiamo tralasciato di ricordare il centenario dalla nascita di Edwin Herbert Land, il leggendario fondatore della Polaroid Corporation, l’inventore della fotografia a sviluppo immediato, tra tanto altro solennemente celebrata dalla mostra La magia della polaroid, allestita al Centro Italiano della Fotografia d’Autore, di Bibbiena, fino all’inizio di settembre (FOTOgraphia, maggio e giugno 2009). Mancato il Primo marzo 1991, e celebrato in cronaca come “L’ultimo dei geni” (in PRO-Professionisti dell’immagine, di aprile), Edwin Herbert Land era nato il 7 maggio 1909, appunto cento anni fa. Con due colpevoli mesi di ritardo, lo ricordiamo qui e ora.
E FU SUBITO POLAROID Confessione onesta e doverosa: non sono la persona adatta per celebrare la personalità di Edwin H. Land. Tale e tanta è la mia partecipazione emotiva alla storia della fotografia a sviluppo immediato e a tutta la vicenda scientifica di Edwin H. Land, il leggendario inventore, che ammetto di non essere per niente imparziale. Però, per quanto il mio giudizio sia viziato, non sono lontano da un vero assoluto quando affermo che la fotografia a sviluppo immediato è stata una delle più grandi invenzioni dell’era moderna. Svolta epocale per la Fotografia, con straordinarie influenze sulla società tutta. Sono un grande estimatore di Edwin H. Land, del suo sogno e delle sue intuizioni. Tant’è che l’immagine che lo coglie nell’atto di mostrare la prima fotografia (pubblica) a sviluppo immediato, che qui riproponiamo, dalla cui inqua-
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dratura completa è ricavato il celebre e spesso ripetuto ritratto ufficiale dell’avvenimento, è anche lo sfondo del desktop del mio computer. Ma non sono isolato: la compagnia di coloro che ammirano la figura di Land è nutrita e ben composta. La sua personalità è stata autenticamente magnetica, in ordine con il suo valore scientifico. Nella biografia di Land, dalla quale abbiamo attinto per celebrare, rispettivamente, i cinquanta e sessant’anni dal 21 febbraio 1947 di origine (FOTOgraphia, febbraio 1997 e 2007) e i sessant’anni dalla commercializzazione della prima Polaroid Model 95 (26 novembre 1948; FOTOgraphia, novembre 2008), Peter C. Wensberg, che lavorò alla Polaroid Corporation per ventidue anni, arrivando alla carica di vicepresidente esecutivo, afferma: «Quando lo si incontrava, la prima cosa che si notava erano gli occhi. Solo in un secondo tempo si osservavano gli altri lineamenti. Gli occhi erano l’uomo». Ripeto quanto già annotato, richiamando la commemorazione di PRO-Professionisti dell’immagine, che allora dirigevo: Edwin H. Land è stato l’ultimo dei geni, in una socie-
Il celebre ritratto di Edwin H. Land che mostra la prima fotografia a sviluppo immediato, realizzata durante la presentazione del 21 febbraio 1947, è ricavata da una inquadratura generale della dimostrazione attribuita a Herb Nichols, capo fotografo del Christian Science Monitor. Per la cronaca, l’autoritratto di Land fu ripreso con una Deardorff 8x10 pollici, modificata per l’occasione con l’aggiunta del sistema di rulli per lo sviluppo immediato.
tà che ormai inquadra qualsiasi intuizione in programmi manageriali e di ricerca d’équipe. Arrivato da un’epoca romantica, riuscì a cavalcare i tempi moderni con una personalità scientifica e aziendale più che unica, fino a inventare nuovi modi di intendere la fotografia e l’impegno personale, che fecero il paio con un accattivante modo di intendere la vita. Dalla fondazione della Polaroid Corporation, alla fine degli anni Trenta, fino al 1982, quando lasciò ogni incarico aziendale, la società e l’uomo sono stati inseparabili, praticamente indistinguibili.
APPUNTO, POLAROID “Polaroid” è un termine coniato nel 1934 da Clarence Kennedy, professore dello Smith College, amico e consulente di Land, che lo fece preferire ad altre definizioni più complesse. All’inizio, designava il primo prodotto commerciale di Land, un materiale polarizzante sintetico di plastica; successivamente, fu attribuito alla società creata da Land. A posteriori, “Polaroid” è risultata una scelta felice, e nel corso del tempo ha finito per indicare una serie di apparecchi fotografici e una
21 FEBBRAIO 1947 Il romanzo della presentazione pubblica della fotografia a sviluppo immediato, la sera di venerdì 21 febbraio 1947, a margine della convention invernale dell’Optical Society of America, all’allora prestigioso Pennsylvania Hotel, di New York, sulla Settima Avenue, nei pressi del-
Primavera 1946: in una fotografia test a sviluppo immediato, il trentasettenne Edwin H. Land davanti all’ingresso del suo laboratorio di Osborne street, a Cambridge, Massachusetts.
Epopea della fotografia a sviluppo immediato con pellicola integrale a colori. Da sinistra, presentazione della SX-70 originaria su Time Magazine, del 26 giugno 1972 (in copertina, ritratto di Alfred Eisenstaedt) e Life, del successivo ventisette ottobre. Quindi, Edwin H. Land nel suo studio, nel 1979, all’indomani della presentazione dell’emulsione Time Zero, a sviluppo rapido.
la Penn Station, all’angolo della Trentatreesima, rivive nelle parole di Peter C. Wensberg. Il racconto di Edwin H. Land e la Polaroid (Sperling & Kupfer, 1989) è edificato su capacità narrative che hanno il merito di restituire atmosfere e speranze di un’epoca di grandi entusiasmi. Non soltanto per la fotografia, microcosmo con vita autonoma, ma con prospettive sociali e culturali che avrebbero avuto influenza nei decenni a seguire Testuale, dopo una affascinante introduzione di ambiente: «Il maestro delle cerimonie si sedette, lasciando la parola a un giovane imberbe che si alzò tra sporadici applausi [nel febbraio 1947, Land non aveva ancora compiuto trentotto anni]. La sua faccia da bambino si atteggiò in un torvo sorriso di ringraziamento, poi cominciò a parlare con voce bassa e monotona [...]. L’oratore [disse] che la fotografia era sempre stata il suo hobby. Se ne era occupato durante la guerra, quando lavorava sui missili guidati per la Marina. “Io non so molto di fotografie”, disse con indovinata modestia. «Il completo tre pezzi grigio scuro e la banale cravatta a righe diagonali gli conferivano l’aspetto più di un vicedirettore di banca che di uno scienziato ottico. I suoi occhi, tuttavia, tradivano modi gentili. La sua bocca sorrideva, la sua voce era serena, ma i suoi occhi erano mortalmente seri. “Ma, come tutti gli hobbisti, ho letto molto della storia della fotografia, soprattutto per quanto riguarda gli esperimenti di Fox Talbot”. [...] «L’oratore scese dal podio e at-
traversò la stanza, dirigendosi verso un angolo dove erano stati sistemati un vecchio tavolo di quercia circondato da tre sedie di metallo e un paravento aperto. Intervennero due uomini a piegare il paravento, lasciando vedere una grande macchina fotografica fissata a un treppiedi fiancheggiato da riflettori. Il fotografo del Times si preparò a battersela. L’amico si accingeva a scattare delle fotografie di quelle barbe. Recuperò la valigia contenente la sua attrezzatura e si diresse verso la porta. «Land si sedette di fronte alla macchina fotografica. Aspetta un momento: sta per scattare una foARCHIVIO FOTOGRAPHIA (2)
gamma di pellicole. Anche se l’attribuzione ai prodotti non è corretta, perché Polaroid è una società, far parte del vocabolario internazionale dei prodotti e del commercio è un onore evidente. Tanto più che il termine “polaroid” (minuscolo), inteso come sinonimo di fotografia a sviluppo immediato, può addirittura essere declinato come sostantivo: e questo lo consideriamo un grande riconoscimento. Alcune espressioni inserite da Edwin H. Land nelle proprie relazioni agli azionisti o in testi per riviste scientifiche o di divulgazione appartengono anche alla mia vita di tutti i giorni, e con piacere le condivido. Scrittore scrupoloso («niente di ciò che Land ha affidato alla carta ha avuto qualcosa di meno della sua totale concentrazione», ha precisato Peter C. Wensberg), Edwin H. Land è stato anche un grande istrione, capace di calcolare l’effetto delle proprie affermazioni. Ne ricordo tre, che stanno guidando anche la mia vita: «Non c’è problema che non possa essere risolto usando il materiale presente nella stanza», «Tutto ciò che vale la pena di fare, vale la pena di essere fatto all’eccesso», e, infine, «Il presente è il passato che morde nel futuro».
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lmeno due sono le leggende sull’origine dell’idea di fotografia a immediato. Una chiama in causa Jennifer, la figlia di Land, Ache sviluppo durante le feste di Natale del 1943, a Santa Fe, in New Mexico, dopo una sessione di riprese fotografiche (con Rolleiflex), avrebbe candidamente domandato al padre «Perché non posso vederle ora?». L’altra è antecedente di diciassette anni, e risale agli anni nei quali Land viveva a New York, dove ebbe due visioni-intuizioni: appunto quella della fotografia istantanea, che avrebbe affrontato più avanti, e quella della polarizzazione della luce, alla quale si dedicò subito, nel laboratorio che allestì in un seminterrato sulla Cinquantacinquesima West. Comunque, lo studio della fotografia a sviluppo immediato ha impegnato Edwin H. Land per circa cinque anni. Dall’inizio del 1944, per tre anni, si sono svolte le ricerche segrete che hanno portato alla presentazione pubblica del 21 febbraio 1947. Appartengono a questo periodo i primi appunti di Land, le prime immagini sperimentali (la prima in assoluto fu ripresa a soli tre mesi dall’avvio del progetto) e i primi brevetti: come quello delle capsule dei chimici di sviluppo. Decenni dopo, il secondo momento topico della fotografia a sviluppo immediato ha riguardato la pellicola integrale a colori autosviluppanti, ufficialmente nata con la Polaroid SX-70, del 1972, che ha dato avvio a un sistema che si è differenziato negli anni a seguire. tografa a se stesso. L’uomo del Times interruppe la sua fuga mentre venivano accesi i riflettori, uno dietro la macchina fotografica, l’altro alla destra di Land. Questi continuò a parlare, a descrivere al pubblico, che in parte si era alzato per vedere meglio, che cosa stava facendo. Recuperò una peretta di gomma collegata all’otturatore con un sottile tubo ad aria. Contorse il viso in un lieve sorriso mentre schiacciava la peretta e nella stanza si sentì chiaramente il clic dell’otturatore. «”Ora accendo il motore elettrico che guida i cilindri di sviluppo”, disse. Herb Nichols del Monitor si avvicinò e fotografò la scena. Accanto a Land e alla grande macchina fotografica c’erano parecchi uomini e donne, la cui espressione, mentre lo guardavano, andava dallo stupito allo scettico. Un altro fotografo sollevò la macchina e scattò dall’angolo opposto, prendendo Nichols sullo sfondo, dietro Land. Anche Nichols aveva un’espressione stupita. Land stette a guardare un timer da camera oscura con una grande lancetta dei secondi posato sul tavolo davanti a lui. «”Cinquanta secondi”, disse con una voce così tirata che gracchiò.
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Giugno 1993: fotoricordo d’obbligo, durante il pellegrinaggio alla ricerca di testimonianze Polaroid. L’Edwin H. Land Boulevard attraversa Cambridge, Massachusetts, indirizzando verso la vicina Boston.
lavano perché ripetesse, spiegasse, si mettesse in posa, si alzasse. «Lui non fece niente di tutto ciò. Sorrise nuovamente a Otto, stavolta un sorriso beato di gioia e liberazione. Aspettò che Duffendack liberasse lo spazio davanti al tavolo, in modo che la sala potesse vederlo di nuovo. Quando la calma fu ristabilita, Land ripeté l’operazione, accompagnato dal continuo crepitare dei flash. «Questa volta l’epilogo fu immortalato da tutti i fotografi presenti. Land ripeté le due espressioni con straordinaria accuratezza. La tranquilla immagine del suo viso nella sua stessa fotografia accanto alla ammaliante sfida degli occhi che esigevano l’attenzione delle macchine fotografiche dei giornalisti. Tenendo la sua fotografia vicino al viso, mostrava due uomini separati da un grande avvenimento, il vecchio Land e il nuovo Land. Tra loro, una apparizione, la manifestazione dell’esperienza intuitiva di tre anni prima a Santa Fe, che gli aveva offerto quello che cercava da tutta la vita: un campo tutto suo, un territorio che lui solo poteva abitare, dominare, governare. «Non apparteneva all’uomo della fotografia, all’uomo tranquillo, serio, pensieroso. Apparteneva al giovane stregone che teneva in alto l’immagine magica, lo sciamano i cui occhi guardavano ardenti la macchina fotografica. In un magico istante, Land aveva reinventato la fotografia, la sua società e se stesso». M.R. ALLAN D. VERCH
SVILUPPO IMMEDIATO
«Otto Wolf aprì la lucente camera di metallo non lavorato collegata alla parte posteriore color mogano della bella, vecchia Deardorff e con un coltello separò due fogli di carta grandi come un foglio da lettera, ben appiccicati tra loro. Li tese a Land, che era ancora seduto, lo sguardo fisso all’occhio della macchina che guardava alle sue spalle. Otto gli porse nuovamente il sandwich di carta; lui lo prese e si volse a guardare la Graflex del fotografo del Monitor. L’espressione intenta, seria, la bocca non più sorridente, ma tirata in una linea diritta. Guardami, dicevano i suoi occhi, ma non parlò. Guardami. La sala era silenziosa. Guardami. Separò i due fogli con un leggero crepitio e li mise davanti alla macchina fotografica di Nichols, che immediatamente reagì. La stanza fu percorsa da un ansito meravigliato. «Land teneva nella mano destra una lucida fotografia di se stesso, il viso solo appena più piccolo del naturale. La sinistra, appoggiata sul tavolo, stringeva l’immagine negativa della stessa faccia tranquilla colta dal suo stesso schiacciare il pulsante proprio mentre il sorriso svaniva. «La scena restò immobile per un attimo, poi l’inviato del Times rovesciò la sua sedia tuffandosi verso Land, tenendo alta la macchina fotografica, travolgendo ospiti e camerieri. In un attimo, Land fu circondato da fotografi e giornalisti che ur-
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ALLA MANIERA DI
Brillante commedia statunitense del 1988, tra le righe/pieghe del proprio svolgimento, Prima di mezzanotte (Midnight Run, regia di Martin Brest), è una storia di amicizia. Indipendentemente dal retrogusto fotografico, che stiamo per richiamare, e che rappresenta il motivo principale del nostro comune interessamento, vanno annotate le consecuzioni della vivace sceneggiatura. Ex-poliziotto di Chicago, il protagonista Jack Walsh (interpretato da un amabile e gradevole Robert De Niro) è un cacciatore di taglie (Bounty Hunter) a Los Angeles: per informazione, negli Stati Uniti si tratta di una professione legale. Su tutto il territorio, agiscono circa quattordicimila bounty hunter, che si riferiscono alle agenzie che, a fronte di pegni e forti interessi, pagano le cauzioni ai prigionieri. Quando qualcuno di questi scappa senza pagare la somma anticipatagli, i cacciatori si mettono in azione, con il permesso di arrestare gli inquisiti facendo ricorso a ogni mezzo disponibile.
AMICIZIA Incaricato da Eddie Moscone, appunto titolare di una agenzia che anticipa cauzioni nel campo giudiziario (interpretato da Joe Pantoliano), di ritrovare un tranquillo ragioniere, Jonathan Mardukas, detto “Il Duca” (l’attore Charles Grodin), Jack Walsh si infila in un curioso ginepraio: la situazione non è come gli è stata prospettata. Già contabile del boss mafioso della droga Jimmy Serrano (l’attore Dennis Farina), il ragioniere è inseguito proprio dalla mafia, alla quale ha sottratto quindici milioni di dollari, devoluti in beneficenza, e persino dall’Fbi, che vorrebbe interrogarlo sugli affari di Jimmy Serrano, per poterlo incriminare. Per guadagnarsi la taglia, Jack Walsh deve riportare a Los Angeles Jonathan Mardukas, che si presume nascosto a New York. Ha davanti a sé cinque giorni; deve essere di ritorno entro la mezzanotte di venerdì (ecco il titolo).
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Il film racconta le peripezie del viaggio attraverso il continente, niente aereo, condito da mille disavventure. Nella vicenda, si inserisce anche un secondo cacciatore di taglie, Marvin Dorfler (l’attore John Ashton), mobilitato da Eddie Moscone quando gli eventi sembrano rendere impossibile la missione originariamente affidata a Jack Walsh. Il viaggio è rocambolesco, e tra il cacciatore di taglie e il “pregiudicato” nasce e cresce una complicità di intenti, che si trasforma in amicizia. Tanto che, assolto il proprio compito (arrivare a Los Angeles entro la mezzanotte di venerdì), Jack Walsh lascia libero Jonathan Mardukas.
FOTOGRAFIA Quantitativamente, la fotografia fa soltanto capolino all’interno della sceneggiatura di Prima di mezzanotte. A dispetto dei brevi istanti nei quali compare, la sua presenza è però oggettivamente significativa. Quando il secondo bounty hunter Marvin Dorfler riesce a sottrarre il Duca a Jack Walsh, per consegnarlo alla mafia, con la quale si è accordato tradendo l’incarico ufficiale e legale di cacciatore di taglie, si visualizza una situazione fotografica intensa e di spessore. Acquistata una Polaroid, Marvin Dorfler fotografa Jonathan Mardukas in modo da poter certificare di averlo prigioniero tra le proprie mani. Non importa rilevare come va a finire questa vicenda. Quello che a noi interessa è sottolineare che l’attestazione della prigionia si basa sulla certificazione fotografica autenticata dalla combinazione in inquadratura con l’immancabile quotidiano del giorno, la data in bella evidenza. Insomma, con i dovuti distinguo, che collocano la fantasia e leggerezza dello spettacolo altrove rispetto certe tragicità della vita reale, si può allineare la consecuzione cinematografica Marvin Dorfler / Jonathan Mardukas / mafia, che visualizziamo in questa pagina, con la successione a noi italiani dolorosamente nota
Dal e nel film Prima di mezzanotte, di Martin Brest ( Midnight Run; 1988): ancora, una applicazione della fotografia a sviluppo immediato. Ancora, una espressione della Fotografia come documento inoppugnabile (?). Acquistata una Polaroid, il bounty hunter Marvin Dorfler (l’attore John Ashton) fotografa Jonathan Mardukas (Charles Grodin) in modo da poter certificare alla mafia, con la quale si è accordato, di averlo prigioniero tra le proprie mani. Appunto: apertura della confezione (inserimento del filmpack di pellicola), inquadratura, scatto con flash e copia a sviluppo immediato.
Brigate rosse / Aldo Moro, sulla quale abbiamo riferito lo scorso giugno, a margine della mostra La magia della polaroid, al Centro Italiano della Fotografia d’Autore, di Bibbiena. Ancora, una delle applicazioni della fotografia a sviluppo immediato. Ancora, una delle espressioni della Fotografia come documento inoppugnabile (?). M.R. Ricerca iconografica di Filippo Rebuzzini
IRAN: MONUMENTO AL REPORTER IGNOTO. Tutti coloro che avanzano perplessità sull’informazione prodotta dai cosiddetti citizen journalist dovrebbero guardare con attenzione i fotogrammi tratti da un video di quaranta secondi, realizzato con un telefonino, sulla morte della ventiseienne Neda Soltani, avvenuta durante le proteste iraniane di piazza contro la rielezione di Mahmoud Ahmadinejad. Questo video testimonia che la polizia governativa ha sparato contro la folla e ha ucciso. Una fotografia, o un video, valgono più di mille parole, non è vero? Allora propongo l’istituzione di un monumento ideale al reporter ignoto, a quel valoroso cittadino che rischia la vita per procurare la corretta informazione al mondo, proprio come facevano Robert Capa e Larry Burrows e come hanno continuato a fare Christopher Morris e James Nachtwey. Il video ha fatto il giro della Terra, grazie a YouTube e Facebook, grandi media che aiutano a diffondere l’informazione e a difendere la democrazia [qui sotto].
Quali cosce al vento, in Repubblica, quando mai?
Sulla Rete, il video dell’uccisione della ventiseienne Neda Soltani, durante le proteste iraniane di piazza contro la rielezione di Mahmoud Ahmadinejad.
COSCE AL VENTO? Ancora fotografie al centro della cronaca. Recentemente, nel corso della trasmissione Parliamo con l’Elefante, che tiene su Radio 24, Giuliano Ferrara si è lasciato sfuggire affermazioni piuttosto gravi, che sono state trascurate dalla stampa quotidiana, almeno da quella che vedo io, navigando su Internet, cioè La Repubblica, Corriere della Sera, La Stampa, Il Giornale, Libero. Rispondendo a un ascoltatore, intervenuto sulla vicenda dell’apparente puttanaio di Villa Certosa, in Sardegna, di proprietà del premier Silvio Berlusconi, a un certo punto afferma «auguro a quel giornale [La
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(a destra) Nel gergo ciclistico, si chiama “tirare la volata”. Prima pagina di Libero, del trenta aprile: recupero di una antica fotografia di una interpretazione teatrale di Veronica Lario, moglie sconfortata del primo ministro, a dimostrazione della sua presunta mancanza di morale.
Repubblica] una grande perdita di copie». Riconosce immediatamente di essersi espresso a sproposito, e, quasi a porre rimedio (della serie pegio el tacon del buso), aggiunge: «d’altra parte, è impossibile che perda copie: come fa un giornale a perdere copie se mette tutti i giorni in prima pagina belle ragazze scosciate?». Dove le avrà viste le ragazze scosciate su Repubblica, dio solo lo sa [in alto]. Certo, per soldi, si raccontano balle anche sulle fotografie, che sono sempre argomenti decisivi per ogni affermazione e testimonianza, anche false. E aggiungo qualcosa che non c’entra con la fotografia, ma con il giornalismo sì. Carlo Rossella, nella stessa trasmissione (c’è anche Maurizio Belpietro, a completare la trimurti superpartes), dopo un pistolone nel quale l’ha menata con l’importanza della privacy, sollecitato da Ferrara («tu ci sei stato migliaia di volte, no Carlo?»), si mette a descrivere la vita privata a Palazzo Grazioli: quando il premier parla affabilmente con gli ospiti, quando suona il piano, quando racconta esilaranti barzellette, quando conforta qualche presente, quando incoraggia all’ottimismo, quando fa regali (pagati di tasca sua?), quando offre un gelato squisito, insomma quando fa il perfetto anfitrione. Tra le mura del palazzo. Ma non aveva appena detto, che per il rispetto della privacy, bisogna star fuori da queste mura?
POTENZA DELLA FOTOGRAFIA. Dunque, fotografia in crisi? Sì, per quello che gli editori sono disposti a pagare, cioè una miseria. Ma, come abbiamo già avuto modo di rilevare, per essere convincenti riguardo una notizia o un tema, i siti web invitano a cliccare sulla fotografia collegata. Da questo punto di vista, tra le testate italiane, è esemplare il sito di Repubblica.
Questa rubrica riporta notizie che sono appartenute alla cronaca. Però, nel loro richiamo e riferimento molti motivi ci impediscono di essere tempestivi quanto la cronaca richiederebbe. Ciononostante riteniamo giusto proporle, perché siamo convinti che non abbiano perso la propria attualità, e continuino a offrire spunti di riflessione. Guardiamo le vicende del nostro premier: sono fotografie i documenti che vengono utilizzati per sostenere accuse a suo carico. È una fotografia di Veronica Lario, a seno nudo durante una pièce teatrale, quella che uno dei giornalisti italiani più rozzi, Vittorio Feltri, mette in prima pagina sul quotidiano che dirige, Libero, per “sputtanare” la moglie del premier, rea di aver lanciato un accorato appello per la salute di suo marito “frequentatore di minorenni” [in basso]. Questo è lo stato dell’arte: le fotografie sono lo strumento più potente di informazione. Ma, certo, poi viene il mercato. La tecnologia digitale ha molto facilitato quella che un tempo era un’impresa: scattare buone immagini. Adesso, buone immagini, a un costo ridicolo o addirittura gratuite, si trovano con facilità in alcune agenzie specializzate e sul web. Perché mai un editore dovrebbe pagare cento euro, per pubblicare uno scatto che mostra, per esempio, i grattacieli di Hong Kong, o la
Tour Eiffel, o un rinoceronte, quando può averlo a un solo euro, oppure gratuitamente? Una volta, con la complicità di direttori e di photo editor, gli editori addirittura le rubavano le immagini (talvolta con quella ridicola indicazione: “Non è stato possibile raggiungere gli autori di tutte le immagini pubblicate. L’editore si dichiara pronto a pagare il dovuto ai titolari del credito che si dovessero manifestare”). Figuriamoci oggi, che averle gratis è addirittura legale! D’altra parte, facciamocene una ragione: se tutti fossimo in grado di scolpire statue o dipingere come Michelangelo, le opere del grande maestro fiorentino non varrebbero nulla. Questo sta in parte succedendo nella fotografia: milioni di persone sanno scattare fotografie a livello dei migliori professionisti. E dunque...
LO SHUTTLE CONTRO IL SOLE. Siamo contenti di constatare che l’immagine di Riccardo Di Nasso della Stazione Spaziale Internazionale, in passaggio davanti al Sole, proposta in FOTOgraphia dello scorso aprile, non rappresenta un interesse soltanto per noi appassionati di fotografia. Il Magazine del Corriere della Sera, in edicola il quattro giugno, ha pubblicato una immagine simile, realizzata da scienziati della Nasa con potenti mezzi tecnici [qui sopra]. Ma la nostra non è più bella?
ANCORA ALTERAZIONI. Il blog The Daily Kos ha pubblicato la riproduzione della prima pagina di un quotidiano iraniano che mostra folle entusiaste che celebrano la rielezione Mahmoud Ahmadinejad. Non si conosce chi abbia fatto pervenire al blog questa immagine: ma è certo che, ancora una volta, si utilizza la manipolazione di un’immagine per diffondere una falsa informazione. Come risulta facilmente verificabile, la grande folla che appare su questa pagina non è altro che la ripro-
duzione di un unico particolare di un gruppo di persone, moltiplicato alla bisogna [qui sopra]. Riguardo questa manipolazione, ci sono domande che rimangono senza risposta: chi è l’autore della fotografia originale? Quando questa fotografia è stata scattata? Chi l’ha modificata? Qual è il giornale? Questa mancanza di dati caratterizza spesso le informazioni che arrivano attraverso Internet. Rimane comunque il fatto che la stampa ufficiale iraniana ha celebrato la vittoria di Mahmoud Ahmadinejad senza mai mostrare immagini credibili del suo consenso popolare; mentre non ha mai dato notizia della grande folla che lo ha invece contestato. Da fonti non ufficiali, sappiamo che ci sono state moltissime manifestazioni contro il regime, che sono stati arrestati alcuni impiegati dell’ufficio della BBC di Teheran, che centinaia di manifestanti sono stati imprigionati e che alcuni di loro, come Neda Soltani [pagina accanto], sono stati uccisi.
ALTERAZIONE DIGITALE? La copertina di Time Magazine del ventitré giugno ha riportato una immagi-
Alterazione fotografica dal blog The Daily Kos: prima pagina di un quotidiano iraniano che mostra folle entusiaste che celebrano la rielezione di Mahmoud Ahmadinejad. La grande folla che appare su questa pagina non è altro che la riproduzione di un unico particolare di un gruppo di persone, moltiplicato alla bisogna. Lo Shuttle contro il Sole, in una fotografia della Nasa: sul Magazine del Corriere della Sera, del quattro giugno. Copertina di Time Magazine, del ventitré giugno, con specifica dichiarata: modificata digitalmente. Ahmad Batebi sulla copertina dell’Economist del 17 luglio 1999, che gli è costata l’identificazione e arresto. Altrettanto per la copertina di fine giugno?
ne così didascalizzata «Photograph from Sipa Press. Digitally Altered» (immagine Sipa Press, modificata digitalmente) [al centro, in basso]. È vero che è talmente ben proporzionata (esatta la misura per la copertina), da far pensare a un montaggio, ma, apparentemente, nessuno, nel ruggibondo mondo del web, è riuscito a individuarne il trucco. Qualcuno ne sa qualcosa?
DENUNCIA INVOLONTARIA. Dieci anni fa, Ahmad Batebi, ventuno anni, fotografato tra migliaia di studenti che stavano manifestando contro il governo, apparve sulla copertina del 17 luglio 1999 dell’Economist, prestigioso settimanale inglese [in basso, a sinistra]. Grazie a questa fotografia, la polizia iraniana lo identificò e arrestò. Al momento dell’arresto, gli fu detto che quell’immagine aveva scritto la sua condanna a morte. Ma non fu giustiziato. A seguito di proteste internazionali, la condanna a morte fu tramutata in quindici anni di carcere, dove fu torturato perché rivelasse i nomi di altri studenti coinvolti nella protesta. Ahmad Batebi resistette e non tradì nessuno. Poi, un giorno, durante un ricovero momentaneo in ospedale, riuscì a fuggire. Raggiunse il confine con l’Iraq, e in seguito emigrò negli Stati Uniti, dove arrivò il ventiquattro giugno dello scorso anno. Si spera, dunque, che la persona che appare sulla copertina dell’Economist di fine giugno, dieci anni dopo quella che ritraeva Ahmad Batebi, non possa essere riconosciuta proprio da nessuno [qui sotto, a destra]. Stesso discorso vale per la ragazza sulla copertina di Time, appena commentata. A cura di Lello Piazza
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Claudio Bocchini: La mia Moleskine è stata concepita quasi senza pensare, in modo che proprio la parte più intima di me, che forse si avvicina di più all’anima, facesse da guida nel realizzare questo progetto. Quasi senza pensare, senza utilizzare la ragione, mi sono lasciato andare realizzando di getto pagina dopo pagina. Penso che uno psicologo, guardando e studiando la Moleskine, possa capire maggiormente di quanto io conosca me stesso. Massimiliano Vassura: Il mio Viaggio inizia con il profumo di fiori appassiti; pur non sapendo ancora nulla di quello che stava per succedere, nell’aria c’era questo sentore; il mio babbo mi cercava un po’ troppo di frequente (non era nel suo modo di essere), e di lì a pochi giorni il ricovero e poi via via quello che è successo. Ma questo non l’ho voluto gridare in quella Moleskine, ma sottovoce e in punta di piedi ho trattato l’argomento (la fertile terra che ci nutre è la stessa gelida terra che ci angoscia), senza essere
GRUPPO POLASER
Centro Italiano della Fotografia d’Autore
VIAGGIO NELL’ANIMA / 2 Nell’ambito della visione La magia della polaroid, il Gruppo Polaser presenta l’installazione Viaggio nell’anima, composta da ventidue taccuini Moleskine, una valigia vintage anni Cinquanta e la fotografia di un grande orologio. Gli autori partecipanti al progetto sono: Alfonso Arana, Guerrino Bertuzzi, Claudio Bocchini, Katia Brigiari, Francesca Degli Angeli, Moreno Diana, Andrea Drei, Gilberto Giorgetti, Maurizio Leoni, Renzo Magri, Francesca Meocci, Donata Milazzi, Marilena Mazzari, Cristina Pochettino, Carla Ponti, Ermes Ricci, Vittorio Rivalta, Ezio Turus, Massimo Vaccaro, Pino Valgimigli, Massimiliano Vassura, Maria Vodarich. Nato nell’autunno 2007, il progetto si è concluso nove mesi dopo. A seguire, l’idea dell’installazione è subordinata all’appuntamento di Bibbiena: una visione rievocativa di un viaggio lungo sessant’anni. Quindi, il Gruppo Polaser ha collegato il Viaggio nell’anima a quello della Polaroid (azienda). Nelle Moleskine del Gruppo Polaser, ogni autore ha descritto pensieri, riflessioni, versi poetici, racconti, disegni, schizzi e... naturalmente polaroid; l’insieme è un condensato di emozioni e sensazioni, ricche di sapori freschi, dolci, allegri, spirituali, evanescenti, magici ma anche aspri, ruvidi, drammatici, adrenalinici, duri, come la vita stessa; l’insieme di tutte queste sensazioni unisce le una alle altre, come in un puzzle ricco di suggestioni ed emozioni: il Viaggio nell’anima. La volontà di non inserire nell’agenda solo fotografie è stata dettata dall’esigenza di descrivere il “viaggio” nel modo più libero possibile, per non “falsificare” le proprie emozioni.
Bibbiena (Arezzo) Dal 6 giugno al 6 settembre mai esplicito, ma utilizzando metafore, lasciando molti spazi vuoti, e scattando immagini al limite del visibile, poi il filo nero che con la data fa da croce, e poi il silenzio muta in cenere, e ancora spazi vuoti e silenzi, e immagini bianco su bianco, le parole sono inutili, preferisco il silenzio. A un certo punto, non volevo più andare avanti, ma la fotografia è diventata per me linguaggio, così ho cercato di scrivere con le immagini e con quelle poche frasi le mie sensazioni di quel periodo che era stato scelto per eseguire la Moleskine. Andrea Drei: La parola anima, che per noi rappresenta in un qualche modo il respiro vitale che abbandona il corpo poco prima della fine, e quindi l’immortalità... se vogliamo il raggiungimento dello stato spirituale/religioso. Ma nell’antica Grecia veniva chiamata anche psychè; quindi un’idea di principio pensante, contrapposto alla materia del nostro corpo. Nel mio Viaggio nell’anima c’è una presenza costante di queste due “entità,” un bisogno insopprimibile della spiritualità con un altrettanto bisogno di dialogare con la mia mente (quindi psiche), che sono in una continua lotta sia tra loro sia con il nostro corpo mortale e fallace. Come risolverlo, senza eccedere: indagando e raccontando -a volte sotto metafora- gli accadimenti del passato che si intrecciano con la nostra storia del quotidiano. Ma il percorso a ritroso della mente andava anche risolto fotograficamente, e allora mi sono “inventato” una situazione “statica” (il bambolotto = io, la cornice rossa = la vita e la mela = il peccato originale con cui nasciamo). Ho risolto il Viaggio in un tempo dinamico: i nove lunghi mesi del progetto, durante i quali il soggetto è stato sottoposto a tutte le intemperie della vita. La vita (cornice) si è rilevata un poco alla volta per
Mi fermo lungamente a spiare dentro lo spiraglio che i miei compagni di viaggio hanno lasciato aperto nel loro diario. Li ritrovo, gli amici che già conoscevo, e scorgo tra le parole e i colori la loro intimità. È quasi imbarazzante, ora, riguardare queste opere lì appese. Mi sembra di violare qualcosa che va oltre la semplice esternazione estetica di un artista. Ci sono le loro anime, e queste Moleskine sono un viaggio dentro di esse.
quello che è: dura da affrontare, ma preziosa; e la mela è una sorta di speranza, che il peso del peccato svanisca fino alla liberazione del corpo in cielo, per dare finalmente spazio al soffio vitale e immortale dell’anima. Ma quello che io ho “sentito” di raccontare (ascoltandomi), si riscontra, anche se ad andamento diverso e a passi più o meno simili, nei Viaggi degli altri compagni del Polaser. Le pagine “nere” finali di Ezio Turus possono essere paragonate all’azzurro del “mio” cielo liberatorio. Le polaroid evanescenti delle pagine di Carla Ponti o le pagine con gli aquiloni che si librano in cielo possono essere paragonate al bisogno insopprimibile dell’Uomo di avvicinarsi a Dio. Quindi, alla “fine”, il Viaggio ha una meta che è uguale per tutti, anche se per ognuno c’è un bisogno diverso, ma nessuno vuole arrendersi al deserto emotivo al quale questa società vorrebbe condannarci.
Concludo questa presentazione del Viaggio nell’anima ringraziando gli amici che hanno aperto il proprio cuore e messa a nudo la loro anima. Le loro descrizioni e sensazioni permettono di entrare perfettamente in questo “viaggio” ideale, per viverlo in un comune denominatore che introduce verso il mistero della vita e dell’anima stessa. Pino Valgimigli
Katia Brigiari: Nella mia Moleskine ho raccolto ciò che più mi piace, interessa e diverte: l’architettura, l’arte, il
Viaggio nell’anima / 2. Le prime testimonianze di autori del Gruppo Polaser sono state pubblicate lo scorso giugno.
paesaggio, la geometria con le sue misure armoniche, le forme curve, i frattali ed anche i viaggi e l’amore per le persone care. Nelle pagine relative al Viaggio ho appuntato questi pensieri: «Il viaggio arricchisce l’anima, apre la mente, regala nuove energie ed entusiasmo nel fare le cose». Ezio Turus: Novembre 2007, inizia il mio Viaggio, assieme al resto del Gruppo Polaser, dentro l’anima di ognuno di noi. Non è una novità, certo; ogni lavoro svolto dal Polaser è un aprirsi verso il nostro intimo, stimolati -di volta in volta- da poeti, scrittori, musicisti, artisti di ogni genere. Stavolta, però, la posta in gioco è più alta, il rischio molto maggiore. Me ne rendo conto. La Moleskine è il mio diario, il luogo di riflessione che raccoglie i pensieri che non saprei dove depositare altrimenti e il periodo che sto passando è il più buio della mia vita. Proprio l’anno prima è morto mio padre, la settimana prima perdo il lavoro e il futuro che ho davanti è quanto di più incerto possa immaginare... cosa potrà contenere questa Moleskine, se non l’immagine di questo disagio. Passano i giorni, i mesi e le occasioni di rinchiudere tra le pagine a fisarmonica uno sprazzo di pensiero, un’immagine fluttuante di un fuoco sotto i segni lasciati dal caffè, segnali di decisioni da prendere, di decisioni prese, di giorni bui che seguono pensieri di solitudine. La mia Moleskine, il mio Viaggio nell’anima. Chiuso il taccuino, i malumori vi restano imprigionati, nessuno li dovrà più rivivere. A Bibbiena, ritrovo il viaggio che ho percorso. Non è più così buio, ormai. Ora è un’opera che assieme alle altre anime veleggia leggera, colorata, in mezzo ad amici fidati.
www.polaser.org
«La limitazione dei mezzi determina lo stile, dà vita a nuove forme e dà impulso alla creatività» Georges Braque Questa citazione dal pittore Georges Braque aiuta a comprendere lo slancio e spirito che guida e ispira gli artisti del Gruppo Polaser, eterogenei per interessi artistico-culturali e per provenienza da molte città italiane e anche dall’estero, accomunati dalla ricerca e sperimentazione di nuove possibilità espressive nelle molteplici forme dell’arte, dalla fotografia alla pittura, scultura, design, architettura, ceramica, letteratura, teatro, a altro ancora.
RITORNO A WOODSTOCK
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Esattamente quarant’anni fa, da venerdì 15 a lunedì 18 agosto 1969, quello che sarebbe passato alla Storia, non soltanto del costume, come il Festival di Woodstock sancì l’apice della diffusione della cultura hippy, che richiamò a Bethel, piccola città rurale nello Stato di New York, quattrocentomila giovani (conteggio ufficiale, sul quale stiamo per tornare). Coinvolti dalla sollecitazione a Three Days of Peace and Music, tre giorni di pace e musica, di fatto i partecipanti -pubblico e musicisti sul palco- decretarono anche la fine di un’epoca e un mondo. A conti fatti, così l’abbiamo potuto conteggiare in seguito, il Festival di Woodstock fu anche l’ultima grande manifestazione del movimento statunitense, che si era cementato nei colossali raduni contro la guerra in Vietnam e per l’abrogazione della segregazione razziale. Non soltanto per inevitabile sentenza di calendario, quell’agosto 1969 scrisse la parola “Fine” al lungo e differenziato cammino degli anni Sessanta, che in tutto il mondo ha avuto espressioni proprie, ma anche coincidenti e allineate tra loro. La Storia lo racconta ufficialmente: originariamente, Woodstock era stato ideato come un festival di provincia, e propagandato come tale, con mezzi oggettivamente modesti. Inaspettatamente, richiamò e accolse almeno quattrocentomila gio-
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vani, e ci sono fonti accreditate che ne conteggiano addirittura un milione. Complici le prime relazioni giornalistiche in cronaca, all’indomani dell’apertura di venerdì quindici, gli arrivi si moltiplicarono esponenzialmente, creando non pochi disagi al traffico locale e agli stessi organizzatori, che dovettero affrontare problematiche inattese. Nei tre giorni, sul palco si sono alternati trentadue musicisti e gruppi, tra i più noti di allora; le esibizioni, per qualche istante compromesse da un diluvio di mezza estate, sforarono oltre i tre giorni preventivati, da venerdì quindici a domenica diciassette agosto, e slittarono sul successivo lunedì diciotto. A memoria, non testimoni diretti, ma in differita, ricordiamo Richie Havens, Joan Baez, Joe Cocker, Carlos Santana, The Who, Ten Years After, John Sebastian, Crosby, Still & Nash, Country Joe & the Fish, Arlo Gutrie, Sly e Jimi Hendrix. Bob Dylan, residente nei pressi, invitato, non accettò. Ripetiamo: a memoria, senza alcuna voglia di andare a verificare su documenti ufficiali. Non serve farlo; non si aggiungerebbe nulla di significativo, né, tantomeno, determinante.
LA STORIA Il Festival di Woodstock, del quale oggi celebriamo il quarantesimo anniversario, con tutto ciò che si è letteralmente stravolto in queste deca-
ARCHIVIO FOTOGRAPHIA
Francobollo emesso dalle Poste degli Stati Uniti nel 1999: dal foglio degli anni Sessanta, della serie di dieci decenni Celebrate the Century. Sul retro, sono ricordati i valori e termini del celebre raduno musicale.
di, non soltanto sul piano musicale, ma su quello del costume e dei sogni, fu organizzato da John Roberts, Joel Rosenman, Michael Lang e Artie Kornfeld. Alla fine del 1968, i primi due pubblicarono un annuncio sui quotidiani The New York Times e Wall Street Journal: «Uomini giovani, con capitale illimitato, cercano interessanti opportunità, legali, di investimento e proposte d’affari». Furono contattati da Lang e Kornfeld, che proposero di realizzare uno studio di registrazione a Woodstock, villaggio nella Contea di Ulster dello Stato di New York, luogo dall’atmosfera ritirata e tranquilla. Presto, però, immaginarono di realizzare un progetto più ambizioso, appunto un festival musicale e artistico. Nello spirito imprenditoriale statunitense, Woodstock nacque come iniziativa commerciale, per l’appun-
to definita Woodstock Ventures: una possibile fonte di guadagni. Nella primavera 1969, la Woodstock Ventures affittò per diecimila dollari il Mills Industrial Park, un’area di poco più di un chilometro quadrato nella Contea di Orange, dove avrebbe dovuto svolgersi il concerto. Alle autorità locali fu assicurato che non si sarebbero radunate più di cinquantamila persone, ma gli abitanti si opposero subito all’iniziativa. All’inizio di luglio, fu varata una nuova legge locale, in base alla quale sarebbe occorso un permesso speciale per ogni assemblea di più di cinquemila persone. Infine, il quindici luglio il concerto fu definitivamente vietato con la motivazione che i servizi sanitari previsti non sarebbero stati a norma. La nuova (e definitiva) location fu Bethel, della Contea di Sullivan, una cittadina rurale a sessantanove chi-
lometri a sud-ovest di Woodstock. Elliot Tiber, proprietario del motel El Monaco, sul White Lake, a Bethel, si offrì di ospitare il festival in una sua tenuta di quindici acri. Aveva già ottenuto un permesso dalla città per il White Lake Music and Arts Festival, che sarebbe stato un concerto di musica da camera. Quando si accorse che la sua proprietà era troppo piccola per il festival pop, che stava già interessando decine di migliaia di giovani, Elliot Tiber presentò gli organizzatori a un allevatore della zona, Max Yasgur, che accettò di affittare loro seicento acri (circa due chilometri quadrati e mezzo), per settantacinquemila dollari. Altri venticinquemila dollari furono pagati come affitto a proprietari confinanti, per ingrandire il sito del festival. Il terreno di Max Yasgur formava una conca naturale digradante verso lo stagno Filippini, a nord. Il palco fu costruito alla base del rilievo, con lo stagno sullo sfondo. Lo stagno sarebbe diventato un luogo molto amato dai partecipanti, che vi avrebbero fatto il bagno nudi.
ALLA FIN FINE Pragmatica realtà a parte, raccolta anche in album musicale e in un film (Warner Bros; regia di Michael WadOvviamente, non ignoriamo che Woodstock è il nome che Charles Schulz ha dato al primo degli uccellini che hanno spesso accompagnato le riflessioni del bracchetto Snoopy, sulle strisce dei celebri Peanuts.
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BLINDS & SHUTTERS
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onfezionata alla maniera delle carte fotografiche del passato (?), Blinds & Shutters è una monografia epocale. Non ha certo avuto il peso, riscontro e seguito del Festival di Woodstock, del quale celebriamo il quarantesimo, ma su un altro piano, meno universale più di nicchia, è stata addirittura più importante. Illuminante, addirittura. Presentata alla Buchmesse di Francoforte, del 1990, in una edizione originaria a tiratura limitata, è stata una autentica folgorazione. Il foto-
grafo autore Michael Cooper ha rivelato i termini di un mondo (soprattutto musicale), un’epoca (gli anni Sessanta) e un luogo (Londra e contorni), che hanno indelebilmente segnato i decenni a seguire: volente o nolente, molto di quello che viviamo ancora oggi, dipende da quel tempo, fraintendimenti e furbeIl terreno di Max Yasgur formava una conca naturale digradante verso lo stagno Filippini, a nord. Il palco del Festival di Woodstock fu costruito alla base del rilievo, con lo stagno sullo sfondo. Lo stagno sarebbe diventato un luogo molto amato dai partecipanti, che vi avrebbero fatto il bagno nudi (doppia pagina precedente). Tra altro, a Woodstock, Jimi Hendrix ha eseguito un arrangiamento particolare dell’inno nazionale.
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rie comprese (tra le quali furberie, consideriamo i molti compagni di strada di allora, che oggigiorno stanno ai vertici di compromesse aziende berlusconiane e simili, o coltivano il sogno di approdarci). A seguire, Blinds & Shutters è stata realizzata in altre edizioni, soprattutto più abbordabili, che ne hanno diffuso i contenuti: sempre e comunque con indirizzo inevitabilmente elitario. Consistentemente quotata sul mercato bibliografico, la confezione originaria, in un box a imitazione della carta fotografica, in rigorosa combinazione nero-giallo caldo (ai tempi identificativa di Kodak, oggi chissà?), con sottolineatura della perforazione della pellicola 35mm, è materia da cultori, e solo possiamo vantarne una copia nella nostra libreria (a questo punto, e per somma di tante altre rivelazioni analoghe e allineate, puntualmente e continuamente riferite sulle pagine di FOTOgraphia, qualcuno potrà/dovrà pure domandarsi che razza di archivio e libreria fa da contorno e sollecitazione al nostro giornalismo). Ribadiamo: con le sue fotografie, Michael Cooper ha raccontato un mondo. Non aggiungiamo altro, invitando a una più che doverosa (e proficua) ricerca in Rete. Da rimanere allibiti. Se avessimo un briciolo di cultura, che non abbiamo, avremmo detto “basiti”. Ma, come nella moltiplicazione, cambiando l’ordine dei fattori, il risultato non cambia: stupefacente! La raffinata confezione di Blinds & Shutters, di Michael Cooper, avvincente racconto degli anni Sessanta, a partire dalla musica londinese, originariamente pubblicato nel 1990, comprende un box esterno a foggia di confezione di carta fotografica del passato (?). Per i contenuti, invitiamo a una ricerca personale in Rete.
leigh), al Festival di Woodstock si è soliti riferire una grande carica simbolica, che si è ingigantita negli anni a seguire, che ha sollecitato analoghi raduni (celebri quelli sull’isola inglese di White, al largo di Southampton, nel canale della Manica; soltanto nazionali quelli italiani, organizzati e svolti dal periodico Re Nudo, dell’inizio degli anni Settanta). Comunque, e indipendentemen-
te da ogni dettaglio, o forse a forza di ogni dettaglio (con accompagnamento di immagini, in queste pagine: immagini dal passato remoto), Woodstock è da considerare come uno degli eventi più significativi della storia del rock, che ha inciso anche nel costume e nella socialità. Quarant’anni fa. Forse, mille. A.G. Ricerca iconografica di Ciro Rebuzzini
STREGATI La Terra sorge sopra l’orizzonte lunare. Questa visione si è presentata per la prima volta agli astronauti di Apollo 8 (21-27 dicembre 1968), i primi a raggiungere la Luna, allontanandosi dalla Terra tanto da poterla inquadrare tutta intera sullo sfondo nero. Raggiunta l’orbita lunare, dopo aver sorvolato l’emisfero nascosto, il comandante Frank Borman vide e fotografò la Terra che “sorgeva” sopra la Luna [a pagina 28]. Nel testo centrale, si racconta il gustoso retroscena di quella prima volta, alla quale altre ne sono seguite, fino alla missione Apollo 17, l’ultima allunata (7-19 dicembre 1972), alla quale dobbiamo questa inquadratura, che in un certo modo conclude l’epopea avviata da Apollo 11, quarant’anni fa, nel luglio 1969.
ieci, venti, venticinque, trenta, quarant’anni. Il ritmo delle celebrazioni è scandito dalla successione di date conteggiate a partire dallo sbarco sulla Luna: alle 22,56 del 20 luglio 1969, per gli Stati Uniti (ora di New York, per convenzione e codice l’ufficiale delle missioni spaziali americane); alle 4,56 del ventuno luglio, per l’Italia. All’attuale culmine della sequenza di ricorrenze periodiche, puntualmente rievocate anche da queste pagine, potrebbe non esserci molto da aggiungere a quanto è stato già scritto, a quanto ancora leggeremo questa estate. Invece, è giusto e legittimo parlare e condividere una volta ancora, magari replicando e ribadendo osservazioni già ospitate in FOTOgraphia, dieci e quindici anni fa (mille anni fa?: ormai tutto cambia e si muove velocissimamente, ma ogni tanto è bene imporsi e imporre altri ritmi, altri tempi di pensiero e riflessione). Prima di farlo, e immediatamente dopo aver constatato come siano persino lontani i nostri dieci e quindici anni fa, è bene rievocare il clima di quarant’anni fa, nei giorni di Apollo 11 e di tanto altro ancora, sia privato sia pubblico. Lo si deve fare; lo debbono fare coloro i quali hanno modo di farlo per diritto di anagrafe (noi tra questi), perché è doveroso accompagnare lungo ogni cammino della/nella Vita chi incontriamo nello svolgimento quotidiano delle nostre rispettive esistenze.
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NOI E GLI ALTRI In questo senso, anche a rischio di apparire ripetitivo, più di quanto posso essere stato già considerato, non posso non rievocare ancora e ancora audacemente l’etica che sottintende l’in-
ARCHIVIO FOTOGRAPHIA
Edizione speciale di Life: To the Moon and Back, dell’agosto 1969, che commentiamo a pagina 38. Qui, sottolineiamo soltanto la fotografia dell’impronta di Buzz Aldrin impressa sul suolo lunare, che illustra (anche) la copertina del nostro odierno numero di rivista. Diversa da quella più nota dell’impronta di Neil A. Armstrong, perché comprensiva dello stivale dell’astronauta, quarant’anni fa, questa fotografia fu usata come immagine introduttiva dell’edizione dedicata di Life, passante tra la seconda di copertina e la prima romana del prezioso fascicolo.
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contro accademico con gli studenti della mia docenza a incarico di Storia della Fotografia, alla Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università Cattolica del Sacro Cuore, sede di Brescia. Non stiamo scartando a lato, con un cambio brusco; neppure, usciamo dal seminato, per quanto ci isoliamo per un attimo dal soggetto esplicito e implicito di queste pagine. Concretamente, stiamo per riflettere sul dovere che dovrebbe governare, guidandola, ogni azione che ci porta in contatto e condivisione con gli altri, qualsiasi siano. Ancora di più, se pensiamo al rapporto di persone adulte con i giovani, all’allungamento delle esperienze e conoscenze, non soltanto pratiche e tangibili, ma soprattutto morali. [In ripetizione a quanto già riferito lo scorso febbraio, nell’ambito delle considerazioni motivazionali agli incontri Vivere con le immagini, svolti con alunni delle Quinte elementari di Pove del Grappa, in provincia di Vicenza] Agli studenti dico (anche) questo: «Oltre la gerarchia dei ruoli -io racconto la Storia della fotografia e voi la ascoltate, voi me la riferirete in sede di esame e io vi giudicherò-, il nostro è anche un incontro di età, esperienze e visioni. [...] La modestia quantitativa dei testi di riferimento per gli esami del mio corso è intenzionale. [...] Limitiamoci a queste poche parole, comunque sia esaustive. Mettete a frutto il tempo che risparmiate non dovendo studiare su “volumoni”: guardate un tramonto, passeggiate tra la gente, parlate con un bambino, ascoltate parole colte al volo, leggete romanzi e poesie. Vivete la vostra età». Conclusione concreta, non “intellettuale”, come potrebbe sembrare a prima vista e superficialmente: gli incontri di età, esperienze e visioni fanno incrociare tra loro stagioni diverse della Vita, che potrebbero entrare in collisione. Perché ciò non accada, basta poco: il coraggio di essere disponibili alle coscienze ed esigenze degli altri; soprattutto quando, come è il caso delle aule universitarie, si ha a che fare con chi vive una stagione strana, tra la primavera e l’estate. I giovani crescono, ogni giorno hanno occhi diversi. Vivono una età anche difficile, di chi ha un piede nell’adolescenza e l’altro nella maturità, sospesa tra la voglia di andare e la paura di trovare. Vanno aiutati e difesi, magari anche da se stessi. (continua a pagina 31)
DALLA LUNA 20 luglio 1969 - 20 luglio 2009 (ventuno luglio, per l’Europa). Una volta ancora, mai una di troppo, ricordiamo la missione Apollo 11, che raggiunse la Luna con i primi due uomini che vi hanno potuto passeggiare: Neil A. Armstrong e Buzz Aldrin (il più fotografato). Al solito, il punto di vista è indirizzato all’aspetto fotografico dell’intera vicenda, che rievochiamo con abbondanza di supplementi e complementi. Da un certo punto di vista, tante ramificazioni potrebbero rappresentare un problema. Alla resa dei conti, definiscono e disegnano una risorsa: quella della fotografia che non è mai un fine, ma un punto di partenza privilegiato. Eccome
E LA LUNA
MoonFire: The Epic Journey of Apollo 11; testi di Norman Mailer; Taschen, 2009 (distribuzione: Inter Logos, strada Curtatona 5/2, Località Fossalta, 41100 Modena; 059-412648; www.books.it); 350 pagine 36,5x44cm, in confezione di plexiglas; ogni copia comprende una stampa fotografica 32,5x40cm, incorniciata in plexiglas, del ritratto di Edwin E. Aldrin Jr in piedi sulla Luna, con l’altro astronauta Neil A. Armstrong che si riflette nella visiera del suo casco, autografata dallo stesso Buzz Aldrin; in tiratura limitata e numerata di 1957 copie; 750, 00 euro.
sclusiva nella confezione editoriale, ne stiamo per riferire, Moon Fire è una preziosa e autorevole monografia illustrata che celebra il quarantesimo anniversario della missione spaziale statunitense di Apollo 11, che il 20 luglio 1969 ha raggiunto la Luna. Ripercorrendo una propria direttiva editoriale, avviata dieci anni fa con l’edizione 50x70cm dell’originario Sumo, di Helmut Newton, della quale abbiamo ampiamente riferito lo scorso giugno, l’ineguagliabile Taschen Verlag, di Colonia, ha realizzato l’ennesima delle sue iniziative bibliografiche d’élite. In edizione di prestigio a tiratura limitata, MoonFire: The Epic Journey of Apollo 11 (l’epico viaggio di Apollo 11) si esprime su un binario doppio, collegato e abbinato. I raffinati testi di Norman Mailer, brillante esponente della beat generation, venuto a mancare nel novembre 2007, a ottantaquattro anni, originariamente scritti nel 1969 per le relazioni di Life sull’allunaggio, accompagnano spettacolari fotografie recuperate soprattutto dagli archivi della Nasa, ai quali abbiamo attinto anche noi per la nostra attuale commemorazione giornalistica. In subordine, le pagine dell’affascinante MoonFire sono illustrate con immagini di altra provenienza, fornite da Life Magazine e agenzie: il tutto, per confezionare un tributo unico e fantastico alla definizione della missione scientifica più eclatante della nostra epoca. Appunto quella che ha portato il primo uomo sulla Luna (e poi, immediatamente a seguire, il secondo): Neil A. Armstrong e Edwin E. Aldrin Jr (“Buzz”), con Michael Collins ad attenderli sulla navicella madre in orbita, modulo di comando e servizio. Come sottolineato nel corpo centrale dell’attuale intervento redazionale, Apollo 11 ha concretizzato il proclama del presidente statunitense John F. Kennedy, che nel maggio 1961 auspicò lo sbarco sulla Luna entro il decennio [da pagina 34]. Appunto, un decennio di missioni spaziali in progressione, che hanno impegnato un organico di quattrocentomila scienziati e ingegneri, e ventiquattro miliardi di dollari. Al culmine, un evento senza precedenti, seguìto in
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diretta televisiva da milioni di spettatori in tutto il mondo. Per gli Stati Uniti, si aggiungono le parole di Norman Mailer, oggi riprese e riproposte, che dalle pagine di Life diedero risalto all’impresa dell’Uomo, agli stati d’animo e alle emozioni conseguenti. Uno dei più grandi scrittori della sua generazione, Norman Mailer ha raccontato quei momenti con testi che rimangono inalterati a quarant’anni di distanza. Originariamente distribuite su tre numeri consecutivi di Life, e dopo averle finalizzate al suo saggio Of a Fire On The Moon, del 1970, da cui il titolo dell’attuale MoonFire, le sue riflessioni compongono oggi l’ossatura di una commemorazione convinta e partecipe: parole di analisi culturale e filosofia proposte in una veste originale. Esplorando le implicazioni filosofiche della scienza e delle missioni spaziali, come anche la psicologia degli uomini
coinvolti nel fantastico progetto, Norman Mailer ha espresso opinioni e considerazioni provocatorie e proposto intuizioni taglienti, che rimangono insuperate nel definire questo evento epocale. Come rilevato, i testi di Norman Mailer sono contornati da centinaia di fotografie che sottolineano la spettacolarità delle missioni spaziali. Accanto le fotografie già note, viste e riviste in molte occasioni, sono pubblicate anche immagini inedite (tutte restaurate con sistemi attuali di gestione e correzione); in assoluto, le illustrazioni tracciano i tempi dei progetti della Nasa, dalle prime sperimentazioni [FOTOgraphia, novembre 2008, nel cinquantenario dell’agenzia] all’istante nel quale l’Uomo ha raggiunto la superficie della Luna. Quindi, le considerazioni alte di Norman Mailer sono completate da valutazioni di esperti, che raccontano e spiegano la storia e la scienza che traspaiono dalle immagini. Ancora: interviste con gli astronauti e testimonianze di prima mano. Edizione di prestigio, come abbiamo anticipato, MoonFire è realizzata in tiratura limitata e numerata di millenovecentocinquantasette copie (1957); ovviamente, il prezzo di vendita/acquisto è proporzionale alla specificità della produzione: settecentocinquanta euro. Ogni copia comprende una stampa fotografica 32,5x40cm,
incorniciata in plexiglas, del celebre ritratto di Edwin E. Aldrin Jr in piedi sulla Luna, con l’altro astronauta Neil A. Armstrong che si riflette nella visiera del suo casco. Immagine-simbolo dell’Uomo sulla Luna, proposta e riproposta migliaia di volte, questa autentica icona è qui offerta in una confezione dedicata, comprensiva della firma autografa dello stesso Buzz Aldrin. Di dimensioni consistenti, 36,5x44cm, le trecentocinquanta pagine di MoonFire comprendono quattro foldout (pagine che si aprono su se stesse, come le quattro centrali di questa stessa edizione di FOTOgraphia) e sono confezionate in un contenitore di plexiglas convesso, con finestra centrale.
Ogni copia delle 1957 in tiratura numerata di MoonFire comprende una stampa fotografica 32,5x40cm, incorniciata in plexiglas, del ritratto di Edwin E. Aldrin Jr in piedi sulla Luna, autografata dallo stesso astronauta. (in alto, al centro) Lancio di Apollo 11, 16 luglio 1969: uno dei quattro foldout di MoonFire. (pagina accanto) 20 luglio 1969: Neil A. Armstrong ha fotografato la propria ombra sul suolo lunare; sullo sfondo il modulo LM. Prima di lasciare la Luna, Neil A. Armstrong e Edwin E. Aldrin Jr hanno rimosso dal modulo lunare LM la targa che certifica lo sbarco del primo Uomo sulla Luna, depositandola al suolo: «We came in peace for all mankind» (Siamo venuti in pace per tutta l’umanità). NASA (5)
RALPH MORSE / TIME & LIFE PICTURES / GETTY IMAGES / NASA / TASCHEN
SI AVVICINÒ
Ancora la Terra che sorge dalla Luna. Accanto una fotografia dalla sequenza originaria di Apollo 8, all’estrema sinistra, la successione di quattro fasi successive delle orbite lunari di Apollo 11, immediatamente prima di lanciare il modulo LM (Eagle, in gergo).
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on se ne è parlato molto. Non se ne è parlato al di fuori dell’allineamento politico con l’Unione Sovietica, tipico e caratteristico di certe manifestazioni pubbliche e giornalistiche dei decenni passati: Paese Sera, del 13 aprile 1961: fotografia di Jurij Gagarin (primo cosmonauta nello Spazio) a piena prima pagina, sovrastata dal titolo «Ecco l’Uomo!»; L’Unità, dello stesso giovedì tredici aprile: «Il compagno Yuri racconta il viaggio», titolo a piena pagina, introdotto da un occhiello esaltante (esaltato?) «L’Urss in delirio. Il mondo attonito: un uomo sovietico ha vinto lo spazio cosmico» [qui a destra]. Complici gli schieramenti preconcetti, nel mondo occidentale, e nel mondo nel proprio insieme, le missioni spaziali sovietiche non hanno certo avuto la risonanza di quelle statunitensi, che la Nasa ha peraltro abilmente condito con la diffusione capillare di fotografie spettacolari delle proprie conquiste. E proprio la fotografia dello Spazio ha sempre rappresentato non soltanto un imprescindibile strumento di indagine scientifica, ma il canale fondamentale attraverso il quale lo stesso ente spaziale statunitense ha catturato e conquistato l’attenzione del pubblico, stupendolo con visioni strabilianti e assicurandosi, a diretta conseguenza, il suo consenso, anche per tenere vivo l’impegno del mondo politico nei confronti dei finanziamenti necessari a proseguire lungo la strada che conduce alle stelle. Un’edizione libraria bilingue (russo e spagnolo), del 1997, ha raccontato l’epopea spaziale sovietica. Semplicemente intitolato Sputnik, in replica del primo satellite artificiale della storia, lanciato in orbita il 4 ottobre 1957 dal cosmodromo di Bajkonur, nell’odierno Kazakistan, il volume accompagnò una mostra fotografica e di reperti allestita in Spagna (240 pagine 16,5x22,5cm; Fundación Arte y Tecnologia; www.telefonica.es). Con l’occasione, e prima di altre considerazioni, precisiamo che in russo, il termine Sputnik (in cirillico Спутниk) significa compagno di viaggio, inteso come satellite in astronomia. Oltre il primato del colonnello Jurij Gagarin (ufficialmente, Jurij Alekseevič Gagarin, ai tempi della sua missione maggiore dell’Aeronautica sovietica), e a parte le dietrologie sulle sue presunte sventure successive, fino alle voci della sua eliminazione fisica (data di morte accertata 27 marzo 1968, un anno prima dell’allunaggio di Apollo 11), rimaniamo con Sputnik per risvolti fotografici della definizione. Prima di farlo, ricordiamo alcuni riferimenti ufficiali della sua impresa, successiva a precedenti fallimenti del piano Il’jušin, soprattutto in fase di rientro. La navicella Vostok 1 (Oriente 1), di 4,7 tonnellate, compì un’orbita ellittica intera attorno la Terra, raggiungendo una distanza massima (apogeo) di 302km e una minima (perigeo) di 175km, viaggiando a una velocità di 27.400 chilometri orari. Si è soliti riferire la leggenda della sua espressione “Partiamo!” (поехапи!), che avrebbe pronunciato alle 9,07, ora di Mosca, al momento del lancio. Per la sua missione, per i collegamenti via radio, Jurij Gagarin adottò il soprannome di “Cedro” (Кедр). Nel mondo fotografico, Sputnik è stata una affascinante variante sovietica, direttamente derivata dalla biottica Lubitel, finalizzata alla rappresentazione stereo. Ce ne siamo occupati dieci anni fa, nel maggio 1999, in doppia presentazione: estetica e di contenuto, in relazione alla sua identificata personalità a un tempo eccentrica e trasgressiva: dal fascino dell’estetica al vigore formale della rappresentazione tridimensionale. Qui e ora, richiamiamo soltanto i termini basilari della sovie-
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tica Sputnik, del 1960, che ha rappresentato una delle più moderne e accattivanti interpretazioni della fotografia tridimensionale. Nello specifico, l’estetica generale e “a priori” dell’apparecchio fotografico a due obiettivi accostati si accompagna con una raffinata costruzione in bachelite, che aggiunge sapore e dà un autentico segno della propria epoca: di quegli anni Sessanta (oltre che Cinquanta), durante i quali lo stato d’animo era generalmente ottimista [qui sotto]. Derivata dalla biottica Lubitel-2, la Sputnik ha un solo obiettivo reflex di visione, accoppiato ai due obiettivi accostati di ripresa Lomo T-22 75mm f/4,5. Per la messa a fuoco del soggetto, l’inquadratura su schermo chiaro e trasparente si abbina all’area centrale smerigliata; ovviamente, l’accomodamenL’Unità, 13 aprile 1961: to degli obiettivi di ripresa è associato a quello dell’obiettivo titolo a piena pagina «Il compagno Yuri centrale di visione: a partire dalla distanza minima di messa racconta il viaggio». a fuoco, da 1,3 metri circa. Anche la scala dei tempi di otturazione, da 1/15 a 1/125 di secondo più la posa B, e quella delle aperture di diaframma, fino a f/22, sono sincronizzate tra loro, in modo che i due obiettivi accostati siano regolati sui medesimi valori di esposizione. Attenzione: l’otturatore centrale, con caricamento a leva, non ha alcuna sicurezza contro le doppie esposizioni involontarie. A parte la messa a fuoco reflex, peraltro agevolata da una lente a scomparsa, che ingrandisce l’area di valutazione visiva, la stereoscopica Sputnik presuppone la propria regolazione completamente manuale. Anche l’avanzamento della pellicola dopo lo scatto è completamente libero, e si basa sulla lettura delle cifre progressive riportate sul retro della carta di protezione del rullo Sputnik / Спутниk; in russo 120. Ovviamente, siccome la Sputnik espone due fotogrammi ace spagnolo; Fundación costati simultaneamente, la sequenza delle sei esposizioni stereo Arte y Tecnologia, 1997 è scandita dall’alternanza delle cifre dispari: 1, 3, 5, 7, 9 e 11. (www.telefonica.es); Comprensivi degli otto millimetri di separazione, i due foto240 pagine 16,5x22,5cm. grammi 6x6cm della Sputnik (formato reale 56x55mm) vengono stampati a contatto su supporti 6x13cm: una delle dimensioni standard della fotografia stereoscopica. Il visore in dotazione è utilizzabile per l’osservazione di copie/coppie su carta e di trasparenze su lastra di vetro (stampate dai negativi esposti in ripresa). L’unica attenzione in fase di stampa riguarda la corretta disposizione destra-sinistra dei due fotogrammi accoppiati, per Jurij Gagarin la quale, nel lontano maggio 1999, assai più distante di quanto (Jurij Alekseevič Gagarin) il Calendario certifichi, rivelammo una nostra efficace soluzione, è stato il primo uomo sulla quale oggi non è il caso tornare. nello Spazio, con la navicella Vostok 1 (Oriente 1), il 12 aprile 1961: un’orbita ellittica intera attorno la Terra.
Prodotta a Leningrado negli anni Sessanta, la sovietica Sputnik è una macchina fotografica stereo per pellicola a rullo 120. I due fotogrammi accostati 6x6cm si stampano a contatto su un supporto 6x13cm, che è una delle dimensioni standard della fotografia tridimensionale.
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L’ALTRA METÀ DELLO SPAZIO
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Ribadiamo: nell’estate 1969, quarant’anni fa, non c’erano molte delle cose che abbiamo oggi. In assenza di Dvd e CD, alcune testimonianze dell’allunaggio furono pubblicate in forma di disco, in vinile. Ne segnaliamo tre (dal nostro archivio personale): a cura del settimanale L’Europeo, il quarantacinque giri Una voce dalla Luna, con i commenti di Enzo Biagi e Sergio Zavoli ai momenti
Leggenda-storia: Schirra era un fotografo per passione, che già conosceva e utilizzava il sistema Hasselblad. Raccomandò agli scienziati della Nasa la 500C, che fu acquistata presso un negozio di Houston. Poche modifiche resero il suo impiego più comodo nel ristretto spazio della cabina di pilotaggio. Con quell’Hasselblad a bordo della capsula Mercury 8 / Sigma 7 iniziò il capitolo spaziale della storia Hasselblad, che alla fine degli anni Sessanta sarebbe sbarcata sulla Luna.
FOTOGRAFIA SULLA LUNA Con ardito balzo temporale, approdiamo alle Hasselblad di Apollo 11, il cui rivestimento esterno in plastica venne sostituito con un involucro di allu-
salienti della diretta televisiva; altro quarantacinque giri sostanzialmente analogo, o quantomeno simile, Sbarco sulla Luna, realizzato da Signal; e poi, un trentatré giri statunitense, con confezione comprensiva di fascicolo illustrato, che racconta lo stesso Man on the Moon, includendo le registrazioni originarie delle comunicazioni tra gli astronauti e il centro di Houston.
minio, necessario a preservarle dal surriscaldamento. Tutti gli interruttori, i piccoli motori elettrici azionati da pile e gli altri elementi elettrici furono incapsulati nel corpo macchina, escludendo qualsiasi possibilità di scintille che, in un’atmosfera di ossigeno puro, quale quella che circonda gli astronauti, avrebbero provocato tremende esplosioni. Non bisogna poi dimenticare che, tanto al decollo quanto all’atterraggio, gli apparecchi fotografici dovevano essere in grado di sopportare elevate sollecitazioni meccaniche. Nei test, vennero esposti a sollecitazioni di più/meno venti accelerazioni di gravità, per la durata di tre minuti (in queste condizioni, la macchina fotografica arriva a pesare venti volte più del normale). Inoltre, tutti gli ap-
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iamo consapevoli che nel corso degli ultimi quarant’anni, dall’allunaggio di Apollo 11, da più parti sono stati sollevati dubbi circa l’autenticità della missione che ha portato l’Uomo sulla Luna. A partire dal supporto e sostegno del cinematografico Capricorn One (di Peter Hyams; Usa, 1978), e basandosi sulla sua sceneggiatura, i teorici del finto sbarco sulla Luna hanno analizzato sia i dati, sia le immagini in chiave di falsificazione, andando appunto a concludere che si sarebbe trattato di una clamorosa messa in scena. Tutto può essere, e lo diciamo noi che siamo convinti che la fotografia di per sé non documenti nulla. Tra i più accaniti censori della Nasa, l’ente governativo che ha realizzato il progetto e ancora gestisce le missioni americane nello Spazio, c’è lo statunitense Bill Kaysing, la cui raccolta di dati è stata pubblicata anche in Italia: Non siamo mai andati sulla Luna; Cult Media Net edizioni, 1997 (corso Trieste 211, 00198 Roma; 06-3232033); 224 pagine 17x24cm; 19,50 euro. Non abbiamo strumenti per concordare, né contestare le affermazioni del testo. Però, ci lascia perplesso l’approccio che parte dalla conclusione (appunto: non siamo mai andati sulla Luna), per farle calzare ogni dato tecnico e scientifico. Insomma, magari non siamo effettivamente mai andati sulla Luna, ma non certo per le motivazioni che teorizza e riassume Bill Kaysing. Dopo di che, discorso sulle fotografie di Apollo 11. Probabilmente, molto probabilmente, alcune delle immagini distribuite dalla Nasa, al cui archivio abbiamo attinto anche noi, a piene mani, sono state realizzare in studio, a Terra. Da una parte, si è potuto
temere qualche fallimento di ordine fotografico; dall’altra, si può aver caricato volontariamente la spettacolarità (da raffigurazione a rappresentazione, come indica tutta la storia del linguaggio fotografico). In entrambi i casi, peccato veniale. Siamo convinti che l’Uomo sia arrivato alla Luna per un motivo semplice e banale: è impossibile gestire e controllare una truffa di queste dimensioni, che avrebbe implicato centinaia, forse migliaia di persone. Non si riesce a tenere un segreto neppure in famiglia... figuriamoci altrove. E le rivelazioni sulla vita privata di Lady Diana, confidate e riferite da cameriere, fattorini, stallieri e altri componenti dello staff, dovrebbero fare testo. Addirittura, lezione.
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L’UOMO È ANDATO SULLA LUNA!
Non siamo mai andati sulla Luna, di Bill Kaysing, è uno dei testi che mette in dubbio l’autenticità dell’allunaggio di Apollo 11. Per certi versi, è la conclamata bibbia di coloro i quali diffidano delle ufficialità divulgate dalla Nasa. La controcopertina visualizza l’ipotesi di contraffazione, parodiando un set fotografico allestito per la realizzazione di false immagini di documentazione. Situazione probabile, per quanto ininfluente sulla vicenda. Molte delle affermazioni che mettono in dubbio l’autenticità delle missioni lunari si basano sulla sceneggiatura del cinematografico Capricorn One (di Peter Hyams; Usa, 1978), film che ipotizza una finta missione spaziale verso Marte, con plausibili contatti con gli astronauti segregati in un hangar allestito come studio televisivo / cinematografico / fotografico.
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OMAGGIO DICHIARATO
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lcuni viaggi, alcuni momenti, cambiano l’umanità per sempre! Una affascinante campagna pubblicitaria Louis Vuitton celebra e commemora il quarantesimo anniversario della missione di Apollo 11, con allunaggio il 20 luglio 1969, uno dei momenti che hanno segnato indelebilmente il cammino dell’umanità. Nella fotografia di Annie Leibovitz, appunto evocativa dell’allunaggio, tre personaggi di spicco, che hanno tracciato linee demarcatorie dell’intero programma spaziale statunitense: Sally Kristen Ride, la prima donna nello Spazio (dal 18 al 24 giugno 1983, a bordo della STS-7; prima di lei, soltanto due donne sovietiche, Valentina Vladimirovna Tereškova e Svetlana Yevgenyevna Savitskaya); Edwin E. Aldrin (“Buzz”), dell’equipaggio di Apollo 11, il secondo uomo sulla Luna; e James Lovell, comandante di Apollo 13, la missione che non ha potuto raggiungere la Luna [a pagina 42]. La campagna Louis Vuitton è stata realizzata dall’agenzia Ogilvy & Mather, di Parigi: creative director Christian Reuilly, copywriter Edgard Montjean, art director Antoaneta Metchanova.
A differenza di quanto ipotizzato durante gli esperimenti condotti a Terra, il lavoro sulla Luna costò minor fatica agli astronauti. Questo ha consentito a Buzz Aldrin e Neal A. Armstrong di sistemare facilmente tutte le apparecchiature che la missione Apollo 11 si proponeva di mettere in funzione. A destra, davanti al modulo lunare, è visibile un inconsueto apparecchio Kodak stereo, per rilevazione della superficie lunare. Appoggiata al terreno e comandata da un braccio estensore (grande impugnatura, tipo aspirapolvere), questa particolare dotazione realizza fotogrammi stereo che inquadrano una superficie di circa venti centimetri quadrati, rendendo estremamente visibili i dettagli della superficie, come la famosa polvere lunare, che contiene piccole particelle lucenti di forma sferica. Gli scienziati hanno potuto stabilire che qualsiasi parte del suolo ha sempre avuto questo aspetto, senza subire alcuna modifica attraverso migliaia di anni.
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Lo scienziatoastronauta Harrison H. Schmitt in una inquadratura fortemente simbolica, durante la missione Apollo 17 (7-19 dicembre 1972), l’ultima con destinazione Luna: bandiera in primo piano e Terra sullo sfondo.
toria lunga. Da quasi cinquant’anni, Hasselblad è legata a doppio filo con il programma spaziale statunitense, che dopo le missioni Apollo ha adottato anche altri apparecchi fotografici, come le reflex Nikon e Canon e il grande formato folding Linhof. I primi due voli orbitali Mercury con equipaggio umano non contemplarono la documentazione fotografica, e quindi -pur deludentile prime fotografie dallo Spazio si devono soltanto alle iniziative personali dei comandanti John Herschel Glenn, di Mercury 6 / Friendship 7 (tre orbite attorno la Terra), e Malcom Scott Carpenter, di Mercury-Atlas 7 (tre orbite attorno la Terra), che il 20 febbraio e il 24 maggio 1962 portarono con sé apparecchi fotografici personali: rispettivamente, una Ansco Autoset 35 e una Robot Recorder 35, ha annotato la Storia. In entrambi i casi, gli astronauti tornarono a Terra con fotografie di nessun valore, totalmente inutilizzabili. Il terzo americano del programma spaziale Mercury, Walter Marty Schirra Jr (“Wally”), era un fotografo dilettante. La propria particolare competenza tecnica venne quindi tenuta in debito conto; accogliendo una specifica richiesta, la Nasa -l’ente spaziale statunitense- gli fornì una Hasselblad 500C. Comperata in un normale negozio di Houston, la macchina fotografica venne modificata soltanto per renderne più comodo l’utilizzo all’interno del ristretto spazio della cabina di pilotaggio. Con il volo Mercury 8 / Sigma 7, del 3 ottobre 1962, sei orbite attorno la Terra, Hasselblad entra così nella storia delle missioni spaziali, salendo a bordo della navicella assieme al comandante Wally Schirra. La qualità delle fotografie riprese, magari frutto della particolare abilità dello stesso astronauta, convinsero l’ente spaziale statunitense a impegnarsi anche nella sistematica documentazione visiva dallo Spazio. La stretta collaborazione con Hasselblad iniziò allora, e sarebbe successivamente culminata con la predisposizione delle macchine fotografiche destinate all’allunaggio. Nel corso del progetto Gemini di missioni con equipaggio di due uomini, la Nasa cominciò a distribuire alla stampa alcune delle fotografie riprese dagli astronauti, quelle più spettacolari, anche se meno scientifiche. Il continuo coinvolgimento emotivo del pubblico proseguì con il successivo progetto Apollo di avvicinamento alla Luna, che raggiunse l’apice con il primo allunaggio del 20 luglio 1969 (alle 22,56, ora di New York; in Italia, 4,56 del ventuno luglio). All’inizio del programma Gemini, vennero usati soltanto apparecchi fotografici Hasselblad 500C; successivamente, la Nasa si orientò anche sulla grandangolare SWC, destinata a diventare involontariamente famosa. Nel corso della missione Gemini 10, nel luglio 1966, Michael Collins (nato a Roma, in via Tevere 16, che tre anni dopo avrebbe fatto parte dell’equipaggio di Apollo 11, il primo con destinazione Luna) uscì dalla navicella per scattare alcune fotografie. In collegamento radio con Houston, divulgato a tutto il mondo, improvvisamente Collins si lasciò scappare una imprecazione: «Maledizione! -disse- L’ho lasciata cadere! Ho lasciato cadere la mia Hasselblad!». In Svezia, un quotidiano titolò subito che «Una Has-
parecchi fotografici dovevano resistere sia a urti fino a trenta accelerazioni di gravità in undici millisecondi, sia alle grandi variazioni della pressione atmosferica. Infine, tutti furono collaudati a temperature da meno 130 a più 100 gradi, anche se nello Spazio avrebbero dovuto lavorare soltanto entro le temperature comprese tra 20 e 60 gradi. Anche Kodak ha partecipato attivamente ai pro-
“Charlie” Duke Jr, di Apollo 16 (16-27 aprile 1972), ha posato sulle alture lunari di Cartesio una propria istantanea di famiglia, e prima di andarsene ha fotografato la stampa abbandonata sul terreno [sempre a pagina 43]. Per tanti versi, la doppia raffigurazione di Alan L. Bean con Charles Conrad Jr riflesso nella propria visiera è emblematica delle missioni lunari. Hasselblad a parte, che richiama soprattutto l’attenzione del mondo fotografico, l’inquadratura sintetizza il senso delle rilevazioni scientifiche assegnate agli astronauti. Alan L. Bean regge uno speciale contenitore per campioni, appositamente studiato per l’analisi dell’ambiente lunare. Insieme a Charles Conrad Jr, l’ha appena riempito di sabbia del Cratere Sharp, nell’Oceano delle Tempeste. Sul polso sinistro della tuta è visibile l’elenco delle operazioni da svolgere; l’Hasselblad sul petto è agganciata al quadro di controllo [a destra, in alto]. Una interpretazione adattata di questa fotografia è stata usata per un’emissione filatelica svedese del 29 marzo 1988: sei soggetti dedicati al contributo svedese alla storia universale. Le missioni spaziali statunitensi debbono non poco alla propria documentazione fotografica, realizzata appunto con apparecchi Hasselblad, prodotti in Svezia. Il bozzettista Czeslaw Slania ha adattato la fotografia originaria alle esigenze del valore postale, per esempio eliminando il riflesso nella visiera [seconda e terza illustrazione]. Una volta ancora, questa fotografia delle missioni spaziali è tornata d’attualità in tempi recenti: sulla copertina del novembre 2002 del mensile Newton [qui sopra], che l’ha finalizzata al richiamo dell’annunciato riavvio degli sbarchi sulla Luna, che la Nasa avrebbe avuto in programma per l’anno successivo. Ma così non è stato.
grammi spaziali. Un laboratorio fotografico completamente automatico fu installato sui cinque satelliti Lunar Orbiter, mandati in orbita dalla Nasa tra l’agosto 1966 e il settembre 1967. I satelliti ripresero milleseicento fotografie, che hanno consentito di stendere una mappa comprendente il novantasei percento della superficie lunare, incluse varie zone della sua faccia nascosta alla Terra.
Anche il veicolo Ranger 7 inviò a Terra fotografie spettacolari del suolo lunare, prima di precipitare sul pianeta. Con i successivi voli dei Ranger 8 e 9, avvenuti nei primi mesi del 1965, le fotografie scattate dalle apparecchiature installate nei veicoli furono diciassettemila. Per le rilevazioni scientifiche sul suolo lunare, Kodak realizzò un inconsueto apparecchio stereo-
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selblad è il primo satellite spaziale svedese»; sempre pronto alla battuta di spirito, Victor Hasselblad commentò che «l’ancoraggio della macchina fotografica non è di nostra produzione». Oltre questa SWC, involontariamente sfuggita al controllo, altre Hasselblad sono non sono tornate a casa. Per lasciare posto ai reperti recuperati sulla superficie della Luna, le missioni Apollo, da 11 a 17, ad esclusione di Apollo 13 [a pagina 42], hanno specificamente previsto l’abbandono volontario di una parte delle attrezzature tecniche, tra le quali anche gli apparecchi fotografici (non i dorsi portapellicola, ovviamente). Complessivamente, sono rimaste sulla Luna dodici Hasselblad 500EL prive di magazzino portapellicola. In ordine sparso, questi apparecchi fotografici si trovano nel Mare Tranquillitatis (Apollo 11), nell’Oceano Procellarum (Apollo 12), presso il Massiccio di Fra Mauro (Apollo 14), vicino alla Cresta di Hadley negli Appennini (Apollo 15) e vicino al punto di allunaggio Descartes (Apollo 16). Si tratta sempre di corpi macchina motorizzati 500EL, che Hasselblad ha modificato per l’uso in assenza di gravità e in presenza di forti oscillazioni della temperatura. Oltre gli apparecchi fotografici che possiamo definire sostanzialmente standard, sulla Luna la Nasa ha utilizzato soprattutto Hasselblad complete di una piastra reseau, il cui reticolo a croci -impressionato sul fotogramma- ha consentito una perfetta misurazione delle dimensioni del soggetto inquadrato. Questa attrezzatura HDC (Hasselblad Data Camera) fu dotata di un Carl Zeiss Biogon 60mm f/5,6 altrettanto particolare, a propria volta adatto alla più pertinente restituzione fotogrammetrica. Come tutti gli obiettivi adattati da Zeiss alle esigenze e necessità della fotografia nello Spazio, anche il Biogon speciale venne costruito tenendo conto del comportamento in assenza di gravità. Le tolleranze per gli otturatori -con tempi di 1/60, 1/125 e 1/250 di secondo- vennero ridotte; e in più fu studiata una particolare lubrificazione delle parti meccaniche. Per altra parte, Kodak produsse pellicola invertibile 70mm a strato estremamente sottile, in modo da consentire di scattare fino a quattrocento fotografie con un tradizionale dorso portapellicola (altre fonti ne quantificano centottanta), che in condizioni normali ha una autonomia di novanta fotogrammi 6x6cm. All’indomani della missione di Apollo 12 (Charles “Pete” Conrad Jr, Richard Francis Gordon Jr e Alan LaVern Bean; 14-24 novembre 1969), un’Hasselblad è diventata celebre per essere stata raffigurata al petto di Alan L. Bean. Lontana dal rigore delle documentazioni scientifiche di protocollo, al pari dell’immagine-simbolo di Apollo 11 (dell’Uomo sulla Luna: il ritratto di Buzz Aldrin con Neil A. Armstrong riflesso nella visiera), anche questa fotografia è analogamente curiosa, perché raffigura ancora due astronauti simultaneamente: Charles Conrad Jr è riflesso nella visiera dorata, come in uno specchio. Attenzione: l’affascinante monografia Luna, pubblicata in Italia da Mondadori [a pagina 43], ha svelato che gli astronauti sbarcati sulla Luna hanno spesso deviato dagli incarichi ufficiali, per lasciare tracce personali del proprio passaggio; per esempio Charles Moss
L’astronauta Alan L. Bean, di Apollo 12, con un’Hasselblad ancorata alla tuta; come in uno specchio, Charles Conrad Jr è riflesso nella visiera dorata.
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INVIOLABILMENTE, HASSELBLAD
Nel marzo 1988, la fotografia dell’astronauta Alan L. Bean sulla Luna (secondo sbarco: Apollo 12) è stata usata per realizzare il soggetto di uno dei sei francobolli svedesi che celebrano la proiezione nazionale sulla storia universale. Il bozzettista Czeslaw Slania ha adattato la raffigurazione originaria alle esigenze del francobollo. Per richiamare il progetto di ritorno sulla Luna, annunciato dall’ente spaziale americano per il 2003 (ma non se n’è fatto nulla), nel novembre 2002, il mensile di approfondimento scientifico Newton ha usato la celebre fotografia dell’astronauta Alan L. Bean con Hasselblad. [Ne abbiamo approfondito in FOTOgraphia, del dicembre 2002].
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NON SONO ANDATI SULLA LUNA anciata l’11 aprile 1970, Apollo 13 è stata una missione spaziale statunitense diversa da tutte quelle dello stesso programma (James “Jim” Arthur Lovell Jr, John Leonard “Jack” Swigert Jr, Fred Wallace Haise Jr). Conteggiata come la terza con destinazione la Luna, dopo quelle di Apollo 11 (16-24 luglio 1969) e Apollo 12 (14-24 novembre 1969; Charles Conrad, Richard Gordon e Alan L. Bean), è diventata celebre per il guasto che impedì l’allunaggio e rese difficoltoso il rientro sulla Terra: è tutto raccontato nel film Apollo 13, di Ron Howard, del 1995, con Tom Hanks nei panni del comandante Jim Lovell, sceneggiato dal libro-ricordo Apollo 13: Lost Moon, scritto dallo stesso astronauta. Complice il film, più della diretta dallo Spazio, certamente seguìta da meno persone di quante hanno potuto vedere la trascrizione cinematografica, la missione Apollo 13 è identificata con una citazione che è entrata nel lessico universale: «Houston, we have a problem» (Houston, abbiamo un problema). Secondo alcune fonti accreditate, non sarebbe corretta; la frase realmente pronunciata dall’astronauta Jack Swigert sarebbe stata: «Okay, Houston, we’ve had a problem here» (Ok, Houston, abbiamo avuto un problema qui); successivamente, il comandante Jim Lovell pronunciò una frase simile: «Houston, we’ve had a problem» (Houston, abbiamo avuto un problema). In ogni caso, si trattò di un problema grave, tanto da interrompere la missione e far tornare a Terra la navicella spaziale. Nella rotta verso la Luna, il serbatoio di ossigeno numero 2 del Modulo di servizio esplose dopo la richiesta del Controllo Missione, fatta all’equipaggio, di miscelare l’ossigeno per impedirne la stratificazione. All’apertura dell’alimentazione, i cavi che collegavano il motore al miscelatore interferirono creando una scintilla. Il fuoco causò un aumento di pressione sopra il massimo consentito nel serbatoio, che esplose, danneggiando diverse parti del Modulo di Servizio, incluso il serbatoio di ossigeno numero 1. Tralasciamo tutti i dettagli scientifici e tecnici, e soprassediamo anche sulla complessa manovra di rientro. Soltanto, per accostarci alla fotografia, nostro territorio statutario, rileviamo che Apollo 13 ammarò nelle acque dell’Oceano Pacifico, alle 13,07 del 17 aprile 1970. L’equipaggio venne recuperato e portato a bordo della portaerei USS Iwo Jima, intitolata a una delle più cruente battaglie della Seconda guerra mondiale, consegnata alla storia dalla celebre fotografia di Joe Rosenthal dei marine che issano la bandiera statunitense sulla cima del monte Suribachi, appunto sull’isola giapponese di Iwo Jima (tante e ripetute le citazioni in FOTOgraphia), dalla quale e sulla quale è stato anche sceneggiato il film Flags of Our Fathers, di Clint Eastwood, del 2006 (FOTO graphia, marzo 2006 e maggio 2008).
Fred W. Haise, John L. Swigert e James A. Lovell, l’equipaggio di Apollo 13, a bordo della portaerei USS Iwo Jima, dopo l’ammaraggio nell’Oceano Pacifico, il primo pomeriggio del 17 aprile 1970.
Busta filatelica della missione Apollo 13, con certificazione “Odyssey” e annullo successivi al rientro a Terra della missione, che non ha raggiunto la Luna: diciannove aprile, sul diciassette. Le firme degli astronauti sono relative all’equipaggio originariamente designato, comprensivo di Ken Mattingly, sostituito qualche giorno prima del lancio dell’11 aprile 1970 per motivi di salute. Alla resa dei conti, da Terra, Ken Mattingly svolse un ruolo fondamentale per il recupero della navicella in avaria: compì numerosi test al simulatore e aiutò l’equipaggio a tornare sano e salvo.
scopico da appoggiare al terreno, comandato da un braccio estensore (è l’apparecchio, con grande impugnatura, tipo aspirapolvere, abbandonato sulla Luna, che compare in alcune delle immagini scattate da Neil A. Armstrong [a pagina 40]). Quindi, Kodak ha sempre fornito le emulsioni fotografiche utilizzate nelle missioni spaziali.
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Sulla Luna, fu usata soprattutto l’invertibile Kodak Ektachrome EF 70mm a strato sottile, tale da consentire circa centottanta pose per ogni magazzino portapellicola (altre fonti quantificano quattrocento pose). ARCHIVIO FOTOGRAPHIA
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FOTORICORDO Come in tutte le spedizioni spaziali, anche in occasione dello sbarco sulla Luna del modulo Eagle, staccatosi dalla navicella base Columbia, erano previste soltanto fotografie di carattere scientifico. Le immagini della superficie terrestre e di quella lunare riprese nel corso delle diverse missioni sono soprattutto servite per l’indagine di fenomeni geologici, atmosferici e meteorologici, che fino ad allora non erano mai stati osservati. Tra le immagini rese note, ci sono anche le documentazioni degli esperimenti effettuati dagli astronauti in volo: soprattutto passeggiate fuori dalla capsula e aggancio di due moduli nello Spazio (appuntamento nello Spazio tra Gemini 6 e Gemini 7, il 15 dicembre 1965). Attraverso la registrazione fotografica, l’uomo comune ha partecipato alle straordinarie prospettive che si aprivano agli astronauti. L’umanità ebbe un’immagine completamente nuova, e fino ad allora sconosciuta, del mondo in cui viveva nell’universo. In tutti i casi, non erano mai previste fotoricordo, neppure durante la breve permanenza sulla Luna: ventidue ore, venti ore e quaranta minuti delle quali di lavoro fuori dal modulo. La prima trasgressione spaziale nota, e già riferita, è quella del comandante Frank Borman, che nel corso di Apollo 8 riprese la sequenza della Terra che sorge dalla Luna. Anche Armstrong e Aldrin, una volta scesi sulla Luna, subirono il fascino del momento e
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FULL MOON - LUNA
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riginariamente pubblicata da Jonathan Cape, divisione di Random House, nel 1999, la monografia illustrata Full Moon, a cura di Michael Light, gode di una edizione italiana a dir poco più affascinante. Il discorso è filologico, ma neppure poi tanto: realizzata nello stesso 1999, Luna, di Mondadori, è di dimensioni fisiche superiori (244 pagine 29x29cm, contro le misure originarie 20,7x20,7cm) e vanta una migliore descrizione finale delle immagini riunite nel volume. A conti fatti, in una bibliografia ricca di titoli e richiami, non tutti di qualità sufficiente, questo Full Moon - Luna è sicuramente il titolo, la produzione, più avvincente e affascinante. Molte delle immagini sono più che note, e ciò che qui conta è la selezione sapiente e la messa in pagina ottima. In combinazione, selezione e impaginazione danno rilievo e spessore proprio alla fotografia: e da qui, il nostro incondizionato plauso. Il curatore Michael Light è un fotografo e artista che vive a San Francisco, in California. Oltre la sua azione d’autore, si è spesso segnalato per quanto realizzato con immagini di archivio, riunite in mostre di spessore e richiamo. Per l’appunto, Full Moon è
Luna; a cura di Michael Light; Mondadori, 1999; 244 pagine 29x29cm, cartonato con sovraccoperta; 54,00 euro.
volume-catalogo di una mostra che, dieci anni fa, accompagnò le celebrazioni del trentesimo anniversario dell’allunaggio di Apollo 11, del quale oggi ricordiamo il quarantesimo. Tra le centoventinove immagini selezionate da Michael Light, che ha altresì realizzato una loro raffinata postproduzione digitale, siamo soliti isolarne due. Due, sopra tutte, ovviamente osservate da un punto di vista viziato e adeguatamente preconcetto. Prima di tutto, segnaliamo il gesto di Charles Moss “Charlie” Duke Jr, pilota del modulo lunare della missione Apollo 16 (16-27 aprile 1972), che ha lasciato sul suolo lunare un’istantanea di famiglia, scattata nel cortile di casa, a Houston, in Texas: abbandonata sulle alture di Cartesio, con fotografia testimonianza [qui sotto, al centro]. Quindi, in sostanziale allineamento, raccontiamo dell’immagine della scheda fotografica con scala di grigi, che l’astronauta Alan LaVern Bean (lo stesso del ritratto con Hasselblad al petto [a pagina 41]) ha collocato sulla parete occidentale di un piccolo cratere, illuminata dal Sole, per controllo tonale [qui sotto, a destra]. Parliamo dei giorni della missione Apollo 12, la seconda che ha raggiunto la Luna (14-24 novembre 1969).
Charles Moss “Charlie” Duke Jr, pilota del modulo lunare della missione Apollo 16, ha lasciato sul suolo lunare un’istantanea di famiglia.
si lasciarono andare a qualche fotoricordo. Per la verità, questo non è un capitolo a due voci, ma un monologo. Tutte le fotografie note della permanenza sulla Luna degli astronauti sono state scattate dal comandante Neil A. Armstrong, e dunque ritraggono sempre Buzz Aldrin, in posa oppure impegnato nelle attività extra-veicolari. Il 20 luglio 1969, alle 22,56 (4,56 del ventuno luglio, per l’Italia), Neil A. Armstrong pose piede sulla superficie lunare. Per ovvi motivi, non c’era nessuno che potesse riprendere questo avvenimento storico, ma Armstrong fotografò immediatamente la propria impronta, iniziando così una serie di istantanee che hanno documentato il lato umano e aneddotico della missione. Nell’autobiografia di Edwin E. Aldrin Jr si trovano riferimenti a questo riguardo. Aldrin precisa che «con il procedere del lavoro sulla Luna, Neil aveva quasi sempre con sé la macchina fotografica e quando appare un astronauta su una fotografia, quello sono quasi sempre io». Aldrin annota anche di essere stato ripreso accanto alla bandiera statunitense fissata al suolo [pagina ac-
Per controllo tonale, Alan LaVern Bean, di Apollo 12, ha collocato sulla parete occidentale di un piccolo cratere una scheda fotografica con scala di grigi.
canto]. Si ricorda che, subito dopo, lui e Armstrong avrebbero dovuto invertire i ruoli. Invece, dal controllo a Terra arrivò l’ordine di rientrare nel modulo, per ricevere un messaggio del presidente Richard Nixon. Gli allunaggi continuarono fino alla missione conclusiva di Apollo 17, la sesta che ha raggiunto la Luna, del dicembre 1972. A seguire, il progetto Skylab arrivò al suo culmine nel luglio 1974, con l’aggancio nello Spazio con la capsula sovietica Soyuz. Il 12 aprile 1981, nel ventennale dell’impresa di Gagarin, la Nasa avviò il programma Shuttle Columbia, di veicoli spaziali riutilizzabili. Poggiando il proprio piede sulla Luna, primo Uomo sulla Luna, Neil A. Armstrong pronunciò una frase diventata celebre e ampiamente ripetuta: «That’s one small step for [a] man, one giant leap for mankind»; ovvero, «Questo è un piccolo passo per un uomo, ma un grande balzo per l’umanità». Retorica a buon mercato, dalla quale prendo/prendiamo le distanze. Maurizio Rebuzzini Ricerca iconografica di Ciro Rebuzzini
Il modulo lunare Eagle, con a bordo il comandante della missione Neil A. Armstrong e Edwin E. Aldrin Jr, si è appena staccato dalla navicella base Columbia, sulla quale è rimasto il pilota Michael Collins. A breve, il primo allunaggio: Apollo 11, del 20 luglio 1969 (ventuno luglio, per l’Europa).
(pagina accanto) Edwin E. Aldrin Jr in posa accanto alla bandiera statunitense. Quindi, in accompagnamento, ingrandimento di un dettaglio di un secondo scatto, che rivela anche la fotoricordo del saluto alla bandiera (bisogna guardare con attenzione). Subito dopo, lui e Armstrong avrebbero dovuto invertire i ruoli. Invece, dal controllo a Terra arrivò l’ordine di rientrare nel modulo, per ricevere un messaggio del presidente Nixon.
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FOTOGRAFIA D ’ E S TAT E Al solito, e per tradizione, molti programmi fotografici si concentrano nell’estate italiana: un poco, per colmare momenti e spazi altrimenti vuoti (pensiamo soprattutto alle città di turismo relativo, come Milano; in cartellone, una retrospettiva di Camera Work); un altro poco, per arricchire richiami culturali a tutto tondo (Robert Mapplethorpe a Firenze e Lucien Hervé a Mantova); e qualcosa per offrire visioni originarie (Spilimbergo Fotografia, in provincia di Pordenone). Non c’è soltanto questo, nell’estate fotografica italiana: ma di questo raccontiamo, allungandoci anche sulla personale di Yousuf Karsh, pronta per il rientro dalle vacanze, e considerando RoveretoImmagini 2009, a sé e in altro tono giornalistico
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inque appuntamenti espositivi (più uno) in un solo colpo, in una sola relazione giornalistica, con annotazioni critiche in retrogusto. Impegnativa intenzione, che ci serve, prima di altro e oltre i soggetti specifici, per rilevare il sapore di sale che spesso attraversa la fotografia italiana, come si trattasse di un piatto leggero, da consumare nei giorni caldi, quando non ci si vuole appesantire con sapori (altrimenti) forti.
WEEGEE A ROVERETO
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imitare il programma di RoveretoImmagini 2009 alla sola esposizione di The Weegee Portfolio è quantomeno colpevole. Infatti, gli appuntamenti allestiti in provincia di Trento, nella città di Depero, sono molteplici: dall’ospitalità dell’autorevole Mart (Museo di Arte Moderna e Contemporanea di Trento e Rovereto) ad altre sedi espositive, sono previste sia mostre fotografiche personali, sia collettive. Nessun nome, per cortesia, avendo qui optato di riferirci al solo Weegee, con conferenza inaugurale del nostro direttore Maurizio Rebuzzini, sulla cui disciplina di restare vincolato a un tema (proposto) non siamo disposti a scommettere (in replica a quanto già annotato lo scorso giugno, a margine del commento alla Speed Graphic di Alfredo Pratelli, nel cinquantenario della visita milanese del presidente francese Charles De Gaulle: 23 giugno 1959-2009). The Weegee Portfolio, che è esposto alla Sala Iras Baldessari, nella centrale Il ritratto più noto di Weegee, che è diventato il suo stesso simbolo: Speed Graphic via Portici 14, è qualcosa di più e divertra le mani e immancabile sigaro. so da tutto il resto del programma di RoveretoImmagini 2009, che si distribuisce su consistenti espressioni della fotografia contemporanea. Non sottolineiamo tanto la statura di Weegee, uno degli autori di spicco della Storia, quanto precisiamo il valore di queste quarantacinque impeccabili stampe 40x50cm, realizzate da Sid Kaplan, che dipende anche dalla loro sostanziale unicità: rara, preziosa e impareggiabile occasione per incontrare un’espressione discriminante della fotografia del Novecento. Prodotti all’indomani della scomparsa di Weegee (Arthur Fellig, nato Usher Fellig nel 1899), venuto a mancare il giorno di Santo Stefano del 1968, a sessantanove anni, i ventisei Portfolio sono andati sostanzialmente distrutti in seguito a un allagamento nell’appartamento newyorkese di Wilma Wilcox, la compagna del fotografo. Si sono salvate stampe singole e si ha notizia di due sole copie integre del Portfolio: una di proprietà del MoMA di New York, il celebre Museum of Modern Art, che tanto ha dato alla fotografia, ricevendone probabilmente altrettanto; l’alta, eccoci, conservata in Trentino, dove oggi viene proposta al pubblico in un allestimento adeguato. Emozionante, è dire poco. RoveretoImmagini 2009; programma espositivo dal 18 luglio al 30 agosto (con alcune mostre che si limitano al 14 agosto), a cura di Paspartù fotografia arte cultura (presso Fotomoderna Lino Volani, via Tartarotti 11, 38068 Rovereto TN; www.paspartu.eu, info@paspartu.eu).
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In realtà, alla resa dei conti, nonostante la proiezione solare nei giorni dell’estate, che parrebbe essere il legame di tante manifestazioni pubbliche, nessuno dei cinque appuntamenti fotografici che stiamo per presentare, analizzandoli ognuno per sé, è minimamente leggero; non lo è neppure il sesto, in aggiunta, che ci sollecita rilevazioni giornalistiche diametralmente opposte. Anzi, addirittura è vero l’esatto contrario: si tratta di cinque programmi, quattro autenticamente estivi e uno di rientro dalle vacanze, che paiono più proiettati verso gli addetti che indirizzati al grande pubblico. Nessuno è leggero, tutti sono autenticamente d’élite, o quasi. Addirittura, almeno un paio (Lucien Hervé fotografa Le Corbusier, al mantovano Palazzo Te, e Camera Work, al milanese Palazzo della Ragione) sono definiti da quel gusto denso che può appagare soprattutto, o forse soltanto, chi si occupa di fotografia per mestiere: due mostre adeguatamente filologiche, per dirla in termini espliciti. In definitiva, pur essendo mostre allestite in spazi ufficialmente pubblici, oppure proporzionalmente pubblici, nessuna delle quattro esposizioni fotografiche dell’estate italiana, che stiamo per commentare, è minimamente diretta... al pubblico; diverso, perché privato, il richiamo alla quinta mostra, peraltro più “popolare” delle prime quattro. Nel proprio insieme, ciascuno per sé, i quattro appuntamenti assolvono altri compiti. Semmai servisse appuntarlo, al pubblico ampio e generico arriva soprattutto un’idea di noia e kultura, là dove e quando la “k” iniziale, ereditata dai movimenti dei decenni scorsi, non è declinata in senso denigratorio, ma in quello di separazione e distacco dalla realtà: che proietta la kultura in un mondo irraggiungibile ai più, che appaga gli appetiti dei soli addetti. Ciò precisato, siamo personalmente entusiasti di queste mostre: e il nostro piacere individuale, maturato in una concentrazione fotografica professionale, è anche misura del distacco dal grande pubblico italiano, troppo spesso privato di quegli apRobert Mapplethorpe. La perfezione nella forma; a cura di Franca Falletti e Jonathan Nelson. Galleria dell’Accademia, via Ricasoli 58-60, 50122 Firenze (Firenze Musei, 055-2654321). Fino al 27 settembre; martedì-domenica 8,15-18,50, giovedì ingresso gratuito dalle 19,00 alle 21,00. Catalogo Robert Mapplethorpe. Perfection in Form; TeNeues Publishing Group, 2009; 125 fotografie; 204 pagine 25,6x32,6cm, cartonato con sovraccoperta; 79,90 euro (in mostra, 35,00 euro).
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puntamenti brillanti e coinvolgenti che caratterizzano la personalità internazionale della fotografia. Tutto questo, è consapevolmente declinato in semplificazione e schematizzazione sbrigativa, ce ne rendiamo conto e ne siamo convinti. Il discorso reale sarebbe assai più ampio: prevede riconoscimenti a coloro i quali agiscono in modo opposto a quanto appena rilevato, e andrebbe approfondito. Per ora, accontentiamoci delle nostre note iniziali, la cui provocazione volontaria potrebbe risultare perfino benefica: utile all’avvio di discorsi adeguatamente scanditi. Ma! Ma ormai, si parla così poco di fotografia; si spende troppo tempo ad amministrare se stessi e i propri ruoli, invece di affrontare l’amministrazione delle personalità pubbliche. Dunque, al solito, tutto si esaurirà in niente. Casomai, registreremo soltanto il malumore di coloro i quali si sentono chiamati in causa. Questa è la fotografia italiana dei nostri giorni. Da qui, in successione, la presentazione dei cinque appuntamenti espositivi annunciati, con un ulteriore richiamo fuori dalle righe: a differenza dell’autoreferenza di tanto altro, rileviamo subito che il programma di RoveretoImmagini 2009, in cartellone da metà luglio a fine agosto, è qualcosa di autenticamente diverso. Così come lo sono tanti altri menu dei quali non ci occupiamo, non per mancanza di spazio (che ne troviamo per quanto ci serve), ma per assenza di informazioni. E non è il caso di correre appresso a nessuno: ognuno ha il diritto di comunicare per ciò che vuole e a chi desidera (per esempio, da quattro anni siamo stati esclusi dalle comunicazioni ufficiali del PhotoShow, a stagioni alterni a Milano e Roma, che ormai conosciamo soltanto per sentito dire, per interposta persona; sicuramente, la colpa è soltanto nostra, ma così è).
ROBERT MAPPLETHORPE Nel ventennale della scomparsa, 9 marzo 1989, a quasi quarantatré anni, Robert Mapplethorpe è celebrato da una imponente mostra fiorentina, allestita nelle prestigiose e autorevoli sale della Galleria dell’Accademia, fino al ventisette settembre. Subito rileviamo che per l’occasione quello che nel mondo è considerato come il Museo di Michelangelo, appunto l’Accademia di Firenze, apre le proprie porte alla fotografia, realizzando anche un ardito, quanto motivato, accostamento con il David e i quattro Prigioni, che fanno parte del patrimonio dell’istituzione, unitamente ad altre importanti opere di maestri italiani dal Trecento al pieno Rinascimento. Così che, complici gli spazi espositivi ospiti, già nella declinazione del titolo, Robert Mapplethorpe. La perfezione nella forma, i curatori Franca Falletti e Jonathan Nelson hanno espresso, sottolineandolo subito, il princìpio profondo che ha accostato il celebre fotografo ai maestri del Rinascimento, e in particolare a Michelangelo: ricerca di equilibrio, correttezza e nitidezza insita nella Forma, appunto, che tende alla perfezione attraverso il rigore geometrico dei volumi definiti dalla linea e scolpiti dalla luce. Giocoforza riprendere il pensiero espresso dallo
Derrick Cross, 1982; stampa ai sali d’argento 18,4x50,8cm.
Derrick Cross, 1982; stampa ai sali d’argento 40,6x50,8cm.
stesso Robert Mapplethorpe, che fu esplicito, diretto e trasparente: «Cerco la perfezione nella forma. [...] Un soggetto piuttosto che un altro, non fa differenza. Cerco di catturare quello che mi appare scultoreo». In questo senso, i curatori hanno raccolto ciò che effettivamente è latente, e andava sottolineato in un modo originale; ovvero come mai si è analizzata e presentata in precedenza l’opera fotografica di Robert Mapplethorpe, qui affrontata con coerenza e decisione: per l’appunto, un ragionato confronto tra la fotografia di Robert Mapplethorpe e la scultura di Michelangelo. In questo senso, sono illuminanti altre due testimonianze dirette. Michael Ward Stout, presidente della Robert Mapplethorpe Foundation, ha rilevato che «Mapplethorpe apprezzava l’arte contemporanea, ma la sua vera passione erano i capolavori dei grandi maestri, soprattutto la scultura. [...] Attraverso la sua fotografia, si sforzava di catturare la particolare forma di perfezione che percepiva nel lavoro di Michelangelo e di altri maestri rinascimentali». Quindi, fu lo stesso fotografo a confessare la propria fascinazione per l’arte di Michelangelo, dichiarando che «se fossi nato cento o duecento anni fa, avrei potuto fare lo scultore, ma la fotografia è un modo più veloce per vedere le cose, per fare scultura. [...]. Vedo le cose come fossero sculture [...]; dipende da come quella forma sta all’interno dello spazio e cre-
do che questo tipo di approccio derivi dalla mia formazione storico-artistica». Nulla da aggiungere. Logisticamente, l’allestimento di Robert Mapplethorpe. La perfezione nella forma è diviso in cinque sezioni consequenziali, collocate in spazi autonomi della Galleria dell’Accademia di Firenze: Mapplethorpe e il Rinascimento, La geometria della forma, Il frammento come forma, La forma si sdoppia e La forma scultorea, che affrontano «diversi aspetti dell’unico grande tema della forma intesa come valore a sé, scissa sia dal contenuto oggettivo, il soggetto rappresentato, sia dal contenuto soggettivo, il carico di esperienza personale (emotiva, cognitiva o quant’altro), che si veicola attraverso l’immagine» (dall’introduzione critica della curatrice Franca Falletti). Complessivamente, la mostra si articola su centoundici opere, tra le quali vanno compresi -come parte integrante quali termini di confrontoanche il David e i quattro Prigioni di Michelangelo, oltre a quattro disegni e un modellino in cera, sempre di Michelangelo. Le fotografie di Robert Mapplethorpe coprono l’intero arco della sua attività artistica. Accanto alle figure, anche numerose nature morte, per realizzare le quali l’autore ha ribadito la particolare cura nello studio della luce e delle ombre, ovverosia alla forma, che conferisce una lucida collocazione nello spazio.
Lydia Cheng, 1987; stampa ai sali d’argento 61x50,8cm.
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LUCIEN HERVÉ
Dalla presentazione dei curatori Fabio Castelli e Silvana Turzio alla personale Lucien Hervé. Fotografie di architettura - Le Corbusier, allestita nell’ambito della Biennale Internazionale di Fotografia di Brescia 2004, venti stampe vintage temporalmente precedenti l’attuale proposizione analoga a Palazzo Te, di Mantova, con catalogo Skira: «Le vite eccellenti sono baciate dal destino, si dice. È il caso anche di Lucien Hervé. Ahmedabad, India: Mill Owners building (architetto Le Corbusier); stampa ai sali d’argento 22x16,3cm. Collezione privata Fabio Castelli, Milano.
Paris, sans quitter ma fenêtre; stampa moderna ai sali d’argento 15,7x15,8cm. Collezione privata Brusegan, Venezia.
«Si legge sempre che è stato scoperto quasi per caso da Le Corbusier, nel 1949, dopo che aveva fotografato, a Marsiglia, la Cité Radieuse ancora in costruzione. L’aneddoto è di qualità: nel cantiere, Lucien Hervé vede un cartello “I signori fotografi sono pregati di consegnare le fotografie scattate”. Ligio all’invito, Hervé spedisce all’architetto le immagini che ha scattato in un giorno solo, seicentocinquanta, forse di più, con tanto di provini a contatto. «Lui, Le Corbusier, guarda stralunato: inquadrature spigolose e storte, che ricordano quelle tanto diffuse negli anni Trenta, ma queste sono più dure, insolite nel loro essere prive di concessioni, ombre nette come grandi tratti neri a righello che costruiscono una superficie geometrica, operai sperduti e isolati in macchie di luce, grana del cemento a vivo, tagli asimmetrici, volumi che chiudono lo spazio in primo piano per una buona metà della fotografia e si aprono verso punti di fuga laterali, immagini sgraziate, senza rispetto alcuno della documentazione planimetrica, incuranti della sezione aurea, dimentiche della necessità di calibrare le tonalità dei grigi per rendere leggibile il dettaglio. «La fotografia non serve per capire l’intenzione dell’architetto. Però è viva. Viva la materia, come Le Corbusier l’aveva pensata, e mai vista prima in fotografia. Viva e vibratile la stampa dalla quale emana uno strano magnetismo: si comincia a guardare e non si smette, attratti dalla scansione di pertugi luminosi e di grandi zone d’ombra, che restituiscono la stessa percezione fisica di caldo e freddo di quando si entra e si esce realmente dalla costruzione. «Le Corbusier pensa a questo Lucien Hervé -ma
Lucien Hervé fotografa Le Corbusier. Architettura in immagini; a cura di Chiara Bortolato. Tinelli di Palazzo Te, viale Te 19, 46100 Mantova; 0376-323266; www.centropalazzote.it. Fino al 13 settembre; lunedì 13,00-18,00, martedì-domenica 9,00-18,00. Catalogo Lucien Hervé fotografa Le Corbusier. Architettura in immagini; 96 pagine 24x30cm; prezzo segreto, impossibile da recuperare seguendo canali professionali consueti [da ridere! o piangere!].
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chi sarà mai?, deve essere quello delle fotografie della Tour Eiffel, così insolite [...]-, e gli scrive: “lei sa vedere l’architettura, venga a trovarmi”. «Lucien Hervé scopre l’architettura, e la sua vita cambia direzione; ma, contrariamente alle storie da leggenda, non si avventura senza un bagaglio costituito prima. [...]». Note biografiche a parte (nato László Elkán, in Ungheria, il 7 agosto 1910, trasferitosi a Parigi nel 1929, vittima delle persecuzioni naziste, membro della Resistenza francese dopo essere sopravvissuto alla prigionia tedesca, mancato il 26 giugno 2007, a novantasei anni), l’affascinante mostra Lucien Hervé fotografa Le Corbusier. Architettura in immagini è tutta qui: a cura di Chiara Bortolato, Tinelli di Palazzo Te, a Mantova, fino al tredici settembre. Un’occasione unica, non soltanto propizia, per avvicinare uno degli autori fondamentali del Novecento, troppo spesso ignorato dalle storiografie, che, siamo sinceri, sono soprattutto scandite dal ritmo del reportage e di quanto è sostanzialmente appetitoso per il grande pubblico. L’interpretazione dell’architettura non è nelle sintonie dei più. Ed è un vero peccato!
ARTE E PROPAGANDA Come sempre ricco e dettagliato, con escursioni tra la fotografia storica e quella contemporanea, tra una visione internazionale e opportune sottolineature locali, il programma di Spilimbergo Fotografia 2009, in cartellone almeno per tutto agosto, e anche oltre, è scandito sul ritmo di allestimenti a dir poco avvincenti: in sintesi, a pagina 50.
Tra tanto, per mille motivi, nessuno in dietrologia, isoliamo la rassegna Arte e Propaganda nella Fotografia sovietica degli anni 1920-1940, a cura di Andrey Baskakov, direttore dell’agenzia Foto Soyuz, di Mosca, esposta nella Chiesa di San Lorenzo, a San Vito al Tagliamento, in provincia di Pordenone, fino al quattro ottobre. In origine, nelle note preventive, l’attuale titolo definitivo era preceduto da un’altra indicazione, che decodificava con chiarezza i contenuti: L’era dell’Ottimismo. Così, non possiamo non richiamare un parallelo che ci pare inevitabile. Torniamo a una fantastica esposizione in confronto e contrapposizione, che abbiamo già segnalato nel luglio 2004, ragionando attorno la raffigurazione della guerra e contorni. Allora, ci riferimmo al fantastico valore dell’immagine, con quanto può influire sulle coscienze, che viene comunque gestito e manipolato: dal Potere, direttamente, e da chi vi si accoda, magari in buona fede (?). Nulla di nuovo e diverso, oggi come ieri, e doverosa replica della presentazione di una fantastica mostra fotografica allestita alla prestigiosa Concoran Gallery of Art, di Washington DC, nel 1999. Propaganda & Dreams è stata una comparazione tra la fotografia sovietica e statunitense degli anni Trenta: ciascuna a proprio modo, entrambe caratterizzate da spiriti politici forti ed evidenti, oltre che dichiarati: da una parte, la Propaganda di
Arkady Shaikhet: Giovane comunista alla ruota di una macchina, cartiera Balakhna; 1929. Alexander Rodchenko: Sportivi della Dynamo sulla piazza Rossa, Mosca; 1935. Collezione Russian Union of Art Photographers.
Arte e Propaganda nella Fotografia sovietica degli anni 1920-1940; a cura di Andrey Baskakov, direttore dell’agenzia Foto Soyuz, di Mosca. Chiesa di San Lorenzo, San Vito al Tagliamento PN; dal 3 luglio al 4 ottobre. Catalogo Arte e Propaganda nella Fotografia sovietica degli anni 1920-1940; Craf, 2009; 168 pagine 24x22cm; 15,00 euro.
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SPILIMBERGO FOTOGRAFIA 2009
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vviato a metà degli anni Ottanta, approdato alla Ventiduesima edizione (!) e governato dall’autorevole Craf - Centro di Ricerca e Archiviazione della Fotografia (Villa Ciani, via Friuli 2, 33090 Lestans PN; 0427-91453; www.craffvg.com, info@craf-fvg.it), Spilimbergo Fotografia continua nel proprio intento istituzionale di osservazione a trecentosessanta gradi della fotografia: storica, contemporanea, internazionale, nazionale e, perché no, friulana. Il programma 2009 è ricco e avvincente, come quelli che l’hanno preceduto, negli anni, nei decenni. Oltre le mostre, che andiamo a segnalare, sono previsti incontri, conferenze e altre iniziative distribuite lungo l’estate. ❯ Il Ritratto in fotografia nell’800 e ’900, dagli Archivi del Craf; a cura di Walter Liva. Palazzo Tadea, Spilimbergo PN; dal 4 luglio al 30 agosto. ❯ Futurismo e Fotografia; a cura di Giovanni Lista. Museo Nazionale Alinari della Fotografia, Firenze; dal 17 settembre al 15 novembre. Sala espositiva della provincia, Pordenone; dal 5 dicembre al 28 febbraio 2010. ❯ Arte e Propaganda nella Fotografia sovietica degli anni 1920-1940; a cura di Andrey Baskakov, direttore dell’agenzia Foto Soyuz, di Mosca. Chiesa di San Lorenzo, San Vito al Tagliamento PN; dal 3 luglio al 4 ottobre.
James Craig Annan: The Etching Printing William Strang, Esq., A. R. A., 1907; photogravure 15,1x19,8cm (da Camera Work 19, del 1907). Collezione privata / Archivi Alinari, Firenze.
❯ La Fotografia del Novecento in Friuli Venezia Giulia; a cura di Gianfranco Ellero e Walter Liva. Museo Etnografico, Lubiana, Slovenia; fino al 14 settembre. ❯ Bruno Bruni; a cura di Manfredo Manfroi e Fabio Amodeo. Centro Pasolini, Casarsa della Delizia PN; dal 12 luglio al 30 agosto. ❯ Cesare Colombo. Lifesize - la misura della vita; a cura di Giovanna Calvenzi. Museo delle Coltellerie, Maniago PN; dal 10 luglio al 23 agosto. ❯ Ilo Battigelli. Saudi Arabia - un emigrante fotografo; a cura di Angelo Pesce. Sede di rappresentanza della Giunta Regionale del Friuli Venezia Giulia, Roma; da giugno. ❯ Tullio Stravisi. Un grande fotografo di Trieste. Palazzo Gopcevich, Trieste; dal 16 settembre al 3 novembre. ❯ Prima e dopo il Muro; a cura dell’Agenzia Contrasto. Palazzo di Sopra, Spilimbergo PN; dal 4 luglio al 30 agosto. Roma, a settembre. ❯ 9.November und die Tage danach; a cura di Marion Hüter Messina. Villa Sulis, Castelnovo del Friuli PN; dall’11 luglio al 30 agosto. ❯ Polonia Sempre Fidelis; fotografie di Carlo Leidi. Villa Savorgan, Lestans PN; dal 4 luglio al 30 agosto.
regime; dall’altra, i Sogni di uno stile di vita da proporre al mondo intero. La curatrice Leah BendavidVal ha lavorato con efficienza, puntualizzando bene la contrapposizione tra due stili fotografici, ognuno in linea con se stesso e con le proprie intenzioni. Soltanto, i termini del discorso potrebbero risultare diametralmente invertiti, modificando soltanto il punto di vista (volume-catalogo pubblicato da Edition Stemmle: 224 pagine 25x28cm, cartonato con sovraccoperta; 69,00 euro). Nel proprio allestimento friulano, Arte e Propaganda nella Fotografia sovietica degli anni 19201940 definisce e identifica un percorso analogo. All’indomani della Rivoluzione, è il racconto di un periodo drammatico, che ha un proprio risvolto espressivo nell’acceso dibattito e conflitto tra l’arte fotografica tradizionale russa e la nuova fotografia documentaria sovietica. I fotografi pittorialisti vennero accusati di ideologie borghesi; bollati come Camera Work. L’opera fotografica di Stieglitz, Steichen e Strand tra Europa e America; a cura di Pamela Roberts. Palazzo della Ragione, piazza dei Mercanti 1, 20123 Milano. Dal 22 luglio al 13 settembre; lunedì 14,30-19,30, martedì-domenica 9,30-19,30, giovedì fino alle 22,30. Catalogo Camera Work. L’opera fotografica di Stieglitz, Steichen e Strand tra Europa e America; testi in italiano e inglese; Alinari 24ore, 2009; 128 pagine 22,5x31,5cm; 35,00 euro.
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“individui idealisti” e prerivoluzionari, spesso vennero persino perseguitati e repressi fisicamente. La collezione dell’agenzia Foto Soyuz comprende opere originarie degli autori della fotografia pittorialista russa, che qui sono presentati insieme alla fotografia documentaria e di reportage, che si dibatte tra lo stile propagandistico di regime e la ricerca di un linguaggio espressivo innovativo.
CAMERA WORK Più filologico di così, più di nicchia di così, forse non è possibile. La prima presentazione al pubblico dei cinquanta fascicoli originari della preziosa rivista Camera Work, che in mostra si precisa come Camera Work. L’opera fotografica di Stieglitz, Steichen e Strand tra Europa e America, è piatto ghiotto per gli addetti, noi tra questi, ma non pensiamo sia in grado di richiamare pubblico in massa. Per quanto “suggestiva” (dalle comunicazioni ufficiali), la cornice del milanese Palazzo della Ragione rimane “pubblica”, e esigerebbe altre passerelle, altri temi, oltre l’appagamento fisico, intellettuale e altro di qualche professionista della storia della fotografia. Almeno noi, la pensiamo così, pur appartenendo al-
la ristretta schiera di coloro i quali trarranno beneficio dalla mostra, a cura di Pamela Roberts, già curatrice della Royal Photographic Society, di Bath: che presenta una rarissima collezione privata, una delle poche complete al mondo, conservata nelle raccolte Museali della Fratelli Alinari. Dal ventidue luglio al tredici settembre, l’allestimento promette un percorso che dovrebbe permettere al visitatore una analisi completa e un esame approfondito delle singole personalità fotografiche che vennero invitate a pubblicare le proprie opere sulle pagine di Camera Work. Occasione per un’analisi dei contenuti della rivista, e allo stesso tempo orientamento estetico inedito attraverso alcune delle più affascinanti fotografie della Storia, icone e capolavori del Novecento. Con l’occasione, ricordiamo che il tedesco Taschen (sempre lui!) ha pubblicato un’edizione filologica che presenta tutte le immagini apparse sui cinquanta numeri di Camera Work: appunto, Alfred Stieglitz. Camera Work - The Complete Photographs; 552 pagine 14x19,5cm (per sei centimetri di spessore); 9,99 euro (soltanto!). Ora, notizie divulgative. All’inizio del Novecento, Camera Work è stato l’organo ufficiale del gruppo statunitense Photo-Secession, edito e diretto da Alfred Stieglitz, fotografo lui stesso e organizzatore d’eccezione, visto che gli si deve anche l’apertura della Gallery 291, sulla Fifth Avenue di New York. Nel 1902, il gruppo Photo-Secession ha avuto tra i suoi fondatori personaggi come Gertrude Käsebier, Edward Steichen, Clarence White, Alvin Langdon Coburn, Frank Eugene, Anne Brigman, Alice Boughton, Joseph T. Keiley, oltre allo stesso Alfred Stieglitz. Nacque con lo scopo di «dare nuovo spunto al pittorialismo verso nuovi confini ed esporre immagini non solo del gruppo e non necessariamente americane». Quando, l’anno dopo, cominciarono le pubblicazioni della rivista, iniziò un’avventura che dal 1903 al 1917 vide uscire cinquanta numeri in quarto (21x29cm), ogni volta stampati in mille copie. I primi anni fu mantenuta la cadenza trimestrale (con un numero doppio nel 1911 e due numeri speciali, oltre i quattro programmati, nel 1906 e 1912); ma, a causa della Grande guerra in Europa, nel 1914 uscirono solo due fascicoli, nessuno nel 1915, uno nel 1916 e l’ultimo, doppio, nel 1917. Che si sia trattato di una rivista di straordinaria eleganza e raffinatezza, lo si capisce se si pensa che nelle cinquanta pagine di cui era composto cia-
scun fascicolo trovavano spazio dalle dieci alle quattordici riproduzioni a piena pagina del o degli autori presi in considerazione, accompagnati da articoli di estetica e politica culturale di ampio respiro. Anche la grafica era molto curata -il logotipo della testata era stato disegnato tenendo presente l’esperienza estetica dell’Art Nouveau viennese (che là era infatti chiamata Secessionismo)-, ma era perfino sorprendente la qualità di stampa delle immagini, riprodotte in photogravure, preziosa tecnica di stampa dai risultati affascinanti. Solo in pochi casi venne usata la similgravure o mezzotono, tramite l’uso di retini per evidenziare le sfumature dei grigi. Tutte le riproduzioni delle immagini venivano stampate a parte, rispetto al testo, dalla Manhattan Photogravure Company, erano incollate su cartoncino e protette da carta velina. Si presentavano quindi così importanti da somigliare a fotografie originali. E anche qui sta il valore (filologico) della collezione completa in mostra a Milano, sopravvissuta alla separazione delle stampe dal fascicolo originario, che spesso venivano incorniciate e appese alle pareti come “opere”. La monografia Alfred Stieglitz. Camera Work - The Complete Photographs, di Taschen, ha il merito di presentarsi in modo diverso rispetto precedenti antologie. Quella edita nel 1983 nella collana Photo Poche comprende una scelta limitata a sessantuno immagini. Mentre quella edita nel 1978 da DoAlfred Stieglitz. Camera Work - The Complete Photographs; introduzione di Pamela Roberts, in inglese, francese e tedesco; Taschen, 1997 (distribuzione: Inter Logos, strada Curtatona 5/2, Località Fossalta, 41100 Modena; 059-412648; www.books.it); 552 pagine 14x19,5cm; 9,99 euro.
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ARCHIVIO FOTOGRAPHIA
Foglio filatelico di una emissione canadese del 21 maggio 2008, nel centenario della nascita di Yousuf Karsh. Tre valori: autoritratto del 1952, ritratto del primo ministro inglese Winston Churchill, del 1941, anche copertina di Life del 21 maggio 1945 (curiosamente, trentasettesimo compleanno del fotografo), e ritratto dell’attrice americana Audrey Hepburn, del 1956. Yousuf Karsh. Ritratti; a cura di Grazia Neri; selezione antologica di stampe vintage dagli anni Trenta. Galleria Carla Sozzani, corso Como 10, 20154 Milano; 02-653531. Dal 6 settembre all’11 ottobre; lunedì 15,30-19.30, martedì, venerdì, sabato e domenica 10,30-19,30, mercoledì e giovedì 10,30-21,00. Joan Baez, 1970. Three Men on a Mountain: Jacques Lipchitz, Henry Moore, Marino Marini, 1970.
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ver Pubblications di New York, Camera Work. A Pictorial Guide, pur riproducendo tutte le cinquecentocinquantanove immagini della storia della rivista, le ha impaginate con una logica estranea alla stessa rivista, senza rispettarne l’idea originaria, che riservava una pagina a ogni immagine. Invece, Camera Work di Einaudi (Torino, 1981) è un’antologia critica, a cura di Michela Vanon, che dà più peso ai testi della rivista che alle sue immagini. La qualità delle riproduzioni di Alfred Stieglitz. Camera Work - The Complete Photographs, di Taschen, è molto alta. Lo possiamo affermare con sicurezza, conoscendo gli originali di partenza, e ricordando che le antiche tecniche di stampa fotografica (alla gomma bicromatata e al carbone, oltre alle autochrome) non sopportano improvvisazioni litografiche: una cattiva riproduzione produce un degrado dei toni fin troppo evidente.
YOUSUF KARSH Scorrendo l’elenco preventivo dei ritratti che compongono la personale Yousuf Karsh. Ritratti (per
l’appunto) non abbiamo trovato un personaggio che stavamo cercando, avendo visto un suo ritratto nella retrospettiva dell’autore canadese, di origine armena, esposta all’International Center of Photography, di New York, una quindicina di anni fa. Insomma, nella mostra allestita alla Galleria Carla Sozzani di Milano, a cura di Grazia Neri, dal cinque settembre, non c’è il ritratto posato di Edwin H. Land, leggendario fondatore della Polaroid Corporation [su questo numero, da pagina 12]. Ma c’è tanto altro, che vale la spesa visitare, anche perché questa è a tutti gli effetti la prima retrospettiva di sostanza dell’autore, mancato nell’estate 2002, a novantaquattro anni. Rappresentata in esclusiva da Camera Press, con referente italiano nell’Agenzia Grazia Neri, di Milano, l’opera di Yousuf Karsh attraversa tutto il Novecento. La selezione antologica di stampe vintage che compone Yousuf Karsh. Ritratti ne è palpitante testimonianza. Nella successione dei decenni, dagli anni Trenta, l’autore ha creato una ritrattistica e uno stile inconfondibili. Applicando in sala di posa un impianto luci estremamente studiato, e senza nessun elemento complementare di intrusione, ha agito nella concentrazione del vetro smerigliato 8x10 pollici, penetrando il carattere del soggetto. Celebre e celebrato dai potenti, dalla politica allo star system, ma sempre indirizzato alla ritrattistica quotidiana, tanto da pubblicare costantemente un’inserzione pubblicitaria sulle pagine dell’autorevole The New Yorker, negli Stati Uniti, Yousuf Karsh ha addirittura dato vita a un’espressione gergale che ne misura e quantifica il seguito: per decenni, “karshed” significò “essere fotografati da Karsh”. E non serve aggiungere altro. Angelo Galantini
LA PAROLA Seconda puntata delle interviste raccolte da Lello Piazza in occasione delle sessioni giudicatrici del prestigioso e autorevole Sony World Photography Award 2009, del quale abbiamo riferito in cronaca lo scorso maggio. Dopo Grazia Neri, Mary-Ellen Mark e Bruce Davidson, incontrati sul precedente numero di giugno, è oggi la volta di Philippe Garner, direttore della sezione fotografica di Christie’s, e Zelda Cheatle, gallerista, dalla giuria Fine Art, e Mark George, agente di fotografi, giurato nella categoria Commercial e presidente di tutte le giurie del Concorso. A integrazione e complemento del Premio, che ha già sottolineato vicende complementari, parallele e trasversali, ulteriori punti di vista autorevoli, che aggiungo altro. Tanto altro. A puntate
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Philippe Garner (giuria Sony World Photography Award 2009 / Fine Art) Buongiorno, Philippe. Lei è responsabile di Christie’s, nella vendita all’asta di capolavori fotografici. Mi aspetto che sia un esperto di come si è evoluto il gusto del pubblico in questi an-
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ni nei confronti della fotografia. Ma sono anche interessato alla sua idea di bellezza. Perciò, una domanda è subito urgente: qual è l’evoluzione del concetto di bellezza in fotografia? «Mi sarei aspettato una domanda di partenza più semplice. Invece è una domanda difficile. «Riguardo l’evoluzione delle sensibilità, dei gusti, degli interessi nel mercato dell’arte (e, ovviamente, questo riguarda anche la fotografia), una premessa indispensabile precisa che l’idea platonica di bellezza, che per secoli ha guidato il gusto del pubblico e le sue scelte, oggi è stata sostituita, in moltissimi casi, da un gusto che potremmo definire post-moderno. «Questa nuova sensibilità ritiene che il concetto classico di bellezza sia diventato un cliché. Così capita che oggi prevalga un atteggiamento cinico nei confronti di coloro che si ispirano ancora ai canoni classici della bellezza. È in atto una specie di sfida a questi canoni. Penso che ciò non sia negativo. Penso che dovremmo costantemente porci domande e sfidare la saggezza e la conoscenza che abbiamo ereditato dai padri. «Però, allo stesso modo e tempo, ritengo che rifiutare per princìpio opere che rispondono a canoni vecchi, o soltanto pre-
PHILIPPE GARNER. FOTOGRAFIA DI LELLO PIAZZA (SONY a900, FISHEYE 16mm f/2,8)
ipeto quanto già certificato lo scorso giugno, a introduzione delle prime tre interviste di questa serie, che oggi prosegue con una seconda puntata, che non è ancora l’ultima. Testimone e ospite-osservatore dei lavori delle giurie della seconda edizione del Sony World Photography Award (FOTOgraphia, maggio 2009), grazie all’aiuto di Astrid Merget, direttrice del Premio, ho realizzato interviste degne di attenzione con alcuni dei componenti delle stesse giurie, per le quali sono stato vincolato a non riferirne prima della relazione sui vincitori, appunto presentati due mesi fa. Ripeto ancora: queste interviste vengono distribuite su più numeri di FOTOgraphia. In prima battuta, le prime tre della serie sono state pubblicate lo scorso giugno: Grazia Neri, fondatrice dell’omonima agenzia, che alla fine dello scorso anno, dopo oltre quarant’anni di guida, ha lasciato il passo al figlio Michele, per dedicarsi a iniziative svincolate da impegni contingenti con il mercato [FOTOgraphia, febbraio 2009], Mary-Ellen Mark, fotogiornalista statunitense, una delle personalità mitiche della storia americana della fotografia; Bruce Davidson, pure fotografo statunitense (Magnum Photos), del quale ho molto ammirato i lavori su New York, in particolare quello su Central Park, peraltro esposto a Cannes, a ridosso delle manifestazioni collaterali alla consegna dei Sony World Photography Award 2009. Oggi è la volta di tre inglesi: Philippe Garner, responsabile della fotografia della casa d’aste Christie’s; Zelda Cheatle, gallerista, e Mark George, agente di fotografi (rep agent: più specificamente, agente di fotografi per la pubblicità). I primi due sono stati giurati nella categoria Fine Art, la stessa che ha impegnato anche Mary-Ellen Mark, mentre Mark George ha giudicato nella categoria Commercial, insieme a Grazia Neri e altri, e ha presieduto tutte le giurie del Sony World Photography Award 2009.
LA GIURIA. FOTOGRAFIA DI LELLO PIAZZA (SONY a900, FISHEYE 16mm f/2,8)
AI GIURATI/2
cedenti, non sia un atteggiamento intelligente, e mi ispira un senso di tristezza vedere che certa gente non è più in grado di apprezzare lavori tradizionali». Lei pensa che sia sorprendente che alcuni collezionisti acquistino opere fotografiche che mostrano situazioni molto dure (per esempio, episodi di guerra), come prodotti di fine art? «Penso che molti collezionisti non siano oggi disposti ad andare oltre una certa linea. Cioè, non siano disposti a pagare cifre importanti per acquistare immagini di sofferenza e guerra. Oggi, queste immagini, che hanno vissuto una propria stagione nel mondo del collezionismo, non hanno un mercato facile. E la cosa non mi dispiace, perché ritengo che questo genere di soggetti rappresenti più materia di rilevanza sociale che non ornamentale. Personalmente, mi sento a disagio quando vendo questo genere di immagini: secondo me, nessuno dovrebbe far soldi, nessuno dovrebbe speculare con la sofferenza degli altri. «Non è una convinzione che ho maturato in solitudine, ne ho parlato anche a molti fotografi, collezionisti e curatori di mostre. Comunque, ritengo che ci siano due aspetti diversi: uno riguarda il collezionista privato, al quale si può applicare il ragionamento che ho appena espresso; l’altro riguarda le istituzioni, che, secondo me, sono invece autorizzate ad acquistare anche questo tipo di fotografie. «Vede, se paragono un quadro di due secoli fa che rappre-
senta un momento storico a una fotografia di oggi, che rappresenta un episodio della nostra storia recente e che costituisce sicuramente qualcosa di importante per la memoria futura, bene, vedo una grande distanza tra le due opere. «Perciò, non è confrontabile appendere a una parete un olio con la battaglia di Lepanto e una fotografia di guerra in Cecenia. Il primo riguarda un avvenimento distante nel tempo, che non ci coinvolge, e ormai ci suscita poche emozioni per l’aspetto umano della vicenda (la battaglia di Lepanto, intendo); invece, e al contrario, il secondo è troppo vicino e ci coinvolge con inquietanti sentimenti di dolore e paura [Nota qui sotto]. «Mi lasci comunque rilevare che alle sue domande sarebbe più facile rispondere alla sera, in una situazione rilassata, davanti a una bottiglia di buon vino. Sono domande che mi piacciono, ma assomigliano a un drago a molte teste, e richiedono più tempo e una riflessione più profonda». NOTA Analogamente -consentitemi la digressione-, quando presento fotografie di guerra agli studenti del mio corso di Storia della Fotografia, alla Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università Cattolica del Sacro Cuore, sede di Brescia, faccio loro notare l’atteggiamento diverso che hanno e sentono, distinguendo gli avvenimenti lontani nel tempo da quelli prossimi, magari vissuti in diretta. Nel particolare, nessun loro orrore per i morti delle guerre dell’Ottocento, e, complice l’anagrafe, neppure per quelli dei conflitti fino alla guerra in Vietnam; invece, e all’esatto opposto, esprimono orrore ed emozioni per le fotografie, per esempio, dell’Undici settembre. M.R.
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Come giudica i lavori che ha esaminato in questi giorni? «Abbiamo visto moltissimo materiale, purtroppo di una qualità molto discontinua. Ma alla fine, siamo tutti soddisfatti. Tra la quantità, abbiamo trovato e individuato vere e proprie gemme. È comunque evidente che a questo Concorso hanno partecipato concorrenti di ottimo livello tecnico. Ma mi lasci rilevare che rimango sempre stupito nel constatare che il livello tecnico da solo non basta, e che è sempre complicato per gli autori trasferire in fotografia la propria anima, il proprio cuore, la propria visione. «Troppi fotografi, anche professionisti affermati, cadono spesso nella trappola dei cliché. Evidentemente, è ancora difficile trovare la propria strada e riuscire ad esprimerla». (giuria Sony World Photography Award 2009 / Fine Art) La mia domanda è molto semplice, se non addirittura semplicistica: come si fa, oggi, a giudicare la qualità di un artista nel campo della fotografia? Viviamo nell’era di Photoshop, uno strumento che permette a chiunque di inventarsi opere d’arte. Oppure non funziona così? «In questi giorni ho esaminato oltre duemila fotografie, sessione che conferma quello che penso: cioè che un artista è tale, e si vede e riconosce, che usi o non usi Photoshop. Senza discussione, l’opera di un artista si eleva sopra la grande massa dei lavori prodotti in questi nostri tempi rapidi. «Oggigiorno, in fotografia, molti usano Photoshop, e si convincono di far parte della categoria degli artisti. Io però penso che la maggior parte di loro è in grado di svolgere, al massimo, l’equivalente di un buon compitino a casa. «Noi che abbiamo giudicato nella categoria Fine Art siamo andati alla ricerca di coloro che nelle proprie opere hanno messo, non solo valori tecnici, ma un sentimento, un’anima». D’accordo. Ma non è forse vero che giudicare se un lavoro è di valore o no rimane uno dei compiti più delicati e difficili? Qual è la sua unità di misura? «Non mi piace il termine “unità di misura”. Non stiamo parlando di denaro. Semplicemente, penso che una fotografia potente o anche soltanto buona ti costringa a fermarti a osservarla e a riflettere. «Faccio un esempio. Un concorrente ci ha inviato immagini di tabelloni pubblicitari che hanno la stessa freddezza clinica delle fotografie di acquedotti urbani di Bernd e Hilla Becher.
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ZELDA CHEATLE. FOTOGRAFIA DI LELLO PIAZZA (SONY a900, FISHEYE 16mm f/2,8)
Zelda Cheatle
Queste immagini sono valide e le abbiamo selezionate per la finale. Analogamente, abbiamo selezionato anche ritratti di persone che si proteggono all’interno della propria automobile durante una tempesta di neve, ritratti sinistri, che suscitano perfino paura [primo premio Fine Art / Portraiture: fotografie dell’olandese Roderik Henderson; FOTOgraphia. maggio 2009]. «Guardando questi due tipi di opere, così differenti tra loro, ho ricavato la certezza che gli autori hanno imparato tutto quello che c’è da imparare dall’arte fotografica e dell’arte fotografica, e nel proprio lavoro hanno messo ciò che hanno imparato. Questo è molto evidente dalle loro fotografie. «Il mio convincimento è stato condiviso al novantanove percento dalla giuria. Quasi tutti abbiamo avuto le stesse emozioni. Perché? Perché tutti noi giurati abbiamo passato molti anni a guardare e valutare buone fotografie, e quindi abbiamo tutti una buona cultura fotografica. Perciò è difficile che i nostri giudizi divergano più di tanto». Interessante. È come concludere che, avendo passato molti anni a guardare buone fotografie, che sono senza discussione le stesse per tutti, i gusti dei critici sono in gran parte sovrapponibili. Quindi, chiedere a lei se è soddisfatta delle fotografie in concorso è un po’ come chiederlo a tutti i giurati (di categoria) in un colpo solo. «Sì, forse. C’è stata una sostanziale unanimità di giudizio. Abbiamo passato al setaccio tutto il materiale pervenuto, e ci sono capitate opere eccellenti e altre semplicemente buone; la qualità media dei partecipanti non è stata altissima. «Sarebbe utile fare in modo che la media si alzi, per dare maggior prestigio al Concorso stesso. Purtroppo, accanto a opere di grande valore, abbiamo anche visto scatti da fotografo-della-domenica o da pasticcione-di-photoshop». Quante immagini avete esaminato? «Circa novecento in una categoria, settecento in un’altra e quasi altrettante in ognuna delle restanti tre. Da queste, in una prima fase di giudizio, non senza discutere, siamo scesi a dieci, all’interno delle quali, alla fine, abbiamo scelto le tre da premiare». Ho notato che i linguaggi previsti nella categoria Fine Art sono molto vari: vanno dal concettuale alla fotografia di paesaggio! [Ufficialmente, cinque sottocategorie: Portraiture, Conceptual and Constructed, Natural History, Landscape e Architecture]. «I cinque temi sono stati declinati nei modi più vari. «Per l’architettura, sono state inviate molte fotografie di semplici edifici; per la sezione ritratto, la più disastrata, ci sono stati molti scatti di donne incinta. Sempre nel ritratto, tantissimi concorrenti hanno pensato di partecipare con fotografie scattate in viaggi turistici in luoghi esotici, soprattutto Oriente. Anche nella sezione del paesaggio, abbiamo avuto molti lavori, alcuni meritevoli di concorrere nella categoria Fine Art, magari imponendosi come vincitore, altri che rappresentavano solo ricordi di una vacanza. «La maggior parte delle fotografie è a colori. Però, le nostre scelte di paesaggio si sono scomposte tra bianconero e colore. «Quello che si nota in modo particolare, è come la gente cerchi soprattutto di imitare le immagini famose. È abbastanza ovvio che sia così, ma non mi aspettavo di vedere, per esempio, tanti partecipanti profondamente influenzati dal modo in cui Martin Parr usa il flash in esterni e interpreta il colore». Non mi piace Martin Parr. «Che le piaccia o no, non ha importanza: quello che invece conta è che ci sono molti fotografi che utilizzano il flash mischiato
alla luce diurna. Così, molte immagini in concorso sembravano scattate negli anni Settanta e Ottanta, ed è sorprendente constatare come i cambiamenti della fotografia nei successivi venti-trent’anni abbiano così poco influenzato la gente. «Tutto questo mi ha sorpresa. Ed è stato uno degli aspetti trasversali dei quali abbiamo discusso in giuria. Siamo stati perfino sul punto di selezionare un lavoro sui bambini delle Filippine, che sembrava un reportage fotogiornalistico degli anni Sessanta. Ma poi, dal momento che stavamo giudicando nella categoria Fine Art, quelle immagini sono state giustamente considerate al di fuori dei nostri parametri. Avrebbero dovuto essere inviate alla categoria Fotojournalism and Documentary, nella quale sarebbero potute risultare anche ottime fotografie (in tema). Ma il Concorso avrebbe dovuto svolgersi negli anni Sessanta. Se tutte queste condizioni ipotetiche si fossero verificate, forse la giuria di quell’epoca avrebbe potuto anche assegnare a questo lavoro il primo premio assoluto. Ma anche allora non avrebbe potuto affermarsi nella categoria Fine Art. «Concludo rilevando che questa identificazione, questo contenitore fotografico crea sempre un po’ di confusione nei partecipanti, che spesso non riescono a individuarne i confini».
Mark George (giuria Sony World Photography Award 2009 / Commercial - presidente di tutte le giurie) Buongiorno Mark. Mi dica... lei pensa che concorsi come questo possano aiutare i giovani fotografi a emergere? «Assolutamente sì. Assolutamente utile, secondo me. «Per un giovane che sta costruendo la sua carriera è certamente una gran cosa, una spinta ad andare avanti vincere un premio, o classificarsi tra i primi a un concorso, o avere le proprie fotografie esposte in una mostra importante, o pubblicate in un libro come l’imponente catalogo che sarà stampato alla fine di questa seconda edizione del Sony World Photography Award [ed è stato stampato: Verlhac Editions; 240 pagine 26,5x30,5cm. Cartonato con sovraccoperta; 49,00 euro; FOTOgraphia, maggio 2009]». Se vinci un premio e diventi famoso è più facile vendere le tue fotografie: ma fino a che punto è vero? «Se la giuria è una buona giuria, come nel caso di questo secondo Sony World Photography Award, allora fotografie e fotografi sono scelti esclusivamente in base alla qualità dei lavori, sulla base della loro unicità e dei relativi contenuti innovativi. «Traguardi non facili da raggiungere, perché la fotografia è ultracentenaria e apparentemente tutto è già stato inventato e fatto. Le domande che ci siamo posti su ogni lavoro esaminato sono: è nuovo? è innovativo? è al passo con gli attuali linguaggi? rivela un sentimento o è soltanto un risultato tecnico che non viene dall’anima del fotografo? ti fa pensare? Quando la risposta a tutti questi interrogativi è stata positiva, il candidato è passato tra le prime scelte. «Sono convinto che se un fotografo riesce a produrre lavori che vengono scelti da una giuria come la nostra, allora significa che avrà successo professionale». In cosa consiste il suo lavoro? «Premetto che ho visto qualcosa di interessante per il mio lavoro anche qui, tra le opere di questo Concorso. «Io rappresento fotografi per la pubblicità. Nelle agenzie pubblicitarie funziona come nelle giurie: si guardano molti portfolio e si sceglie con gli stessi criteri: unicità, modernità del linguaggio, stile, eccetera.
TRE GIURIE
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iversamente dall’edizione originaria dello scorso anno, presentata e commentata in FOTOgraphia del giugno 2008, i Sony World Photography Awards 2009, dei quali abbiamo riferito in cronaca lo scorso maggio, sono stati scomposti in tre macrocategorie di riferimento primario, all’interno delle quali sono state identificate e collocate le dodici sezioni professionali del premio. Altrettante tre le giurie. Photojournalism and Documentary: Sue Steward, Inghilterra, critica e photo editor, Inghilterra [intervista nei prossimi numeri]; Bruce Davidson, fotogiornalista (Magnum Photos), Usa [intervista lo scorso giugno]; Adrian Evans, direttore di Panos Pictures, Inghilterra [intervista nei prossimi numeri]; Jurgen Schadeber, fotogiornalista, Germania. Commercial: Mark George, agente di fotografi, Inghilterra; Arnaud Adida, fondatore di Acte 2 e della galleria collegata, Francia; Gered Mankowitz, fotografo, Inghilterra; Grazia Neri, fondatrice e presidente dell’omonima agenzia fotografica [intervista lo scorso giugno]. Fine Art: Zelda Cheatle, gallerista, Inghilterra; Philippe Garner, direttore della sezione fotografica di Christie’s, Inghilterra; Mary-Ellen Mark, fotogiornalista, Usa [intervista lo scorso giugno]; Sarah Moon, fotografa, Francia.
«Mediamente, ogni giorno ricevo sei nuovi fotografi, che vengono a sottopormi il proprio book. Quando penso di poterne rappresentare uno, non mi accontento del portfolio che mi ha mostrato in prima battuta; voglio vedere altri suoi lavori, per essere sicuro che il portfolio che mi ha colpito favorevolmente non sia frutto del caso. Se alla fine concludo che l’esaminando è un tipo speciale, e che sarà in grado di realizzare una campagna pubblicitaria, allora l’affare è fatto. «Rappresento fotografi, e non mi occupo di vendita di fotografie di stock: solo produzione. Lo faccio da trent’anni. I miei clienti sono nel campo della pubblicità, del mercato discografico, del design. Seguo un poco anche il mercato editoriale, ma solo se non posso farne a meno: i giornali pagano poco e male, e per un fotografo è meglio starne alla larga. «Per quello che è la mia esperienza, in campo editoriale sono gli stessi fotografi che devono costruire le proprie relazioni con direttori e photo editor. Invece, nel settore commerciale siamo noi agenti ad aiutare i fotografi a creare e mantenere i rapporti con i clienti. Ci occupiamo della produzione e della preparazione delle sessioni di lavoro. Ma comunque, alla fine, tutto dipende dalla qualità dei fotografi che, da parte loro, non possono fare a meno di continuare a reinventarsi e a promuoversi personalmente. «Oggi, la situazione si è fatta molto difficile. Quando ho cominciato a lavorare, trent’anni fa, in Gran Bretagna c’erano cinque bravi fotografi di still life. Ognuno di loro aveva due assistenti, che presto sono diventati (altri) dieci bravi fotografi di still life. Eccoci dunque con quindici bravi fotografi, ciascuno con due assistenti. E via dicendo. In poco più di dieci anni, la quantità di bravi fotografi di still life è esplosa, e oggi in Inghilterra, ci sono almeno un centinaio di fotografi di still life in grado di svolgere lavori di qualità. «A questo punto, la domanda è d’obbligo: c’è lavoro per tutti? Questo è il problema. Oggi dobbiamo fare i conti anche con la globalizzazione. I nostri fotografi inglesi lavorano per clienti negli Stati Uniti, in Francia, in Germania. Ma anche i clienti inglesi si affidano a fotografi americani, tedeschi e francesi. Ci sono sempre più fotografi e sempre meno lavoro. E cosa può salvarli? Le qualità che citavo prima: innovazione, modernità del linguaggio, unicità di stile. «Tornando da capo, c’è un’altra ragione per cui questi con-
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MARK GEORGE. FOTOGRAFIA DI LELLO PIAZZA (SONY a900, FISHEYE 16mm f/2,8)
corsi sono importanti. È come per un musicista: suona, compone, ma non è in grado di astrarsi e giudicare il proprio lavoro da sé. Per avere un parere attendibile, deve registrarlo e farlo ascoltare a qualche esperto. È molto probabile che, dopo aver fatto ascoltare il suo motivo a qualcun altro, o averlo ascoltato lui stesso per la prima volta attraverso una registrazione, non ne rimanga soddisfatto e applichi interventi migliorativi. «Per il fotografo è lo stesso: non puoi accontentarti del tuo parere sul tuo lavoro. E il concorso può aiutare i fotografi in questo senso. «Per esempio, in giuria, abbiamo affrontato autori che sono in grado di scattare buone fotografie e scegliere i giusti soggetti, ma non sono capaci di editare le proprie immagini. Anche se, presi singolarmente, tutti i ritratti sono buoni, presentarne cinque della stessa ragazza, nella medesima posizione, senza cambiare la luce, significa non essere in grado di editare. In questo caso sarebbe meglio presentare una fotografia soltanto, no? Ma non tutti sono in grado di capirlo. «Sempre per fare un paragone con la musica, non è che se tu hai un buon motivo musicale questo migliora se e quando lo fai passare per cinque volte di fila! «Certo, un concorso non è una scuola di fotografia; la giuria non ha modo di spiegare a tutti gli autori le motivazioni di ogni rifiuto, o valutazione negativa. Ciononostante, credo che preparare il materiale da spedire a un concorso, e fermarsi poi a cercare di interpretare il giudizio della giuria sia già molto positivo per ogni autore. «Un’ultima annotazione a proposito del Sony World Photography Award 2009. Sono stati invitati giudici da varie parti del mondo. Questo è importante e positivo, perché fa valutare le immagini da sguardi di cultura diversa. È geniale anche la conclusione a Cannes, sulla Costa Azzurra, da decenni capitale mondiale del cinema. Spero proprio che questa competizione abbia sempre più successo: è utile non solo per l’affermazione dei giovani fotografi, ma anche per i fotografi già affermati, che possono cogliere l’occasione per una pausa di riflessione sul proprio lavoro». Vorrei riprendere la sua affermazione sul moltiplicarsi dei buoni fotografi di still life in Gran Bretagna. Non pensa che ciò sia dovuto principalmente a una crescita del mercato e meno alla concorrenza tra loro? «Penso che la crescita numerica di buoni fotografi, non soltanto in Inghilterra, dipenda principalmente dal fatto che molti più giovani sono determinati a indirizzarsi verso lavori che amano.
«Oggi, si può iniziare una professione come quella del fotografo a sedici anni. Mia figlia maggiore, che ha diciotto anni, sta studiando fotografia e le piacerebbe diventare fotografo o regista. Non ha nessuna intenzione di andare all’università, ed è giustamente convinta che per realizzare i propri sogni deve imparare a usare la macchina fotografica e studiare la fotografia come forma d’arte. Non andare all’università. «Alcuni dei fotografi che ho conosciuto in questi trent’anni sono diventati grandi senza frequentare college o università. Hanno anche lasciato presto la scuola e hanno cominciato a frequentare studi fotografici, presso i quali hanno imparato moltissimo. In questo modo, hanno potuto capire da un punto di vista pratico cosa significa scattare fotografie. «Penso che la crescita della fotografia in Gran Bretagna sia dovuta al fatto che, per la prima volta, un ragazzo che vuole impegnarsi in una professione come il fotografo, può evitare di entrare nel sistema di educazione di massa, cioè la scuola. Sono sicuro che i ragazzi vogliano lavorare divertendosi, e il loro interesse riguarda la fotografia, non una cultura generale. E sono anche sicuro che proprio per il fatto che con la fotografia si divertono, questi ragazzi siano in grado di raggiungere rapidamente livelli professionali elevati. «Ma è triste constatare che l’entusiasmo e la passione dei ragazzi vengono spesso depressi dal mercato del lavoro, che paga troppo poco per permettere loro di vivere con ciò che guadagnano. «Mi lasci rilevare che c’è più talento in questi giovani aspiranti fotografi che non tra i loro potenziali clienti. Almeno nel mondo editoriale. Sono convinto che nel mondo editoriale oggi non ci siano grandi talenti. Mi faccia il nome di una rivista che è volata sopra le altre per il suo successo. Non le viene in mente niente, vero? Le riviste continuano a ripetere le solite vecchie formule. «Concludendo, ritengo che la crescita della qualità dei fotografi sia dovuta al fatto che, più facilmente che in passato, ognuno può diventare fotografo. Allo stesso momento, sono anche convinto che questo crei inevitabilmente facili aspettative, molte delle quali presto deluse. Quando leggo i portfolio di studenti di fotografia, dico loro: solo due su cinquanta di voi riusciranno a farcela». Allora, come vede il futuro dei giovani? «Penso che molti di loro si fermeranno lungo il percorso, prima di raggiungere la meta, ma che quelli veramente bravi avranno successo. Uomini e donne. A questo proposito, voglio sottolineare che è molto importante che oggi esistano grandi fotografi donne. Quando ho cominciato io, nella fotografia commerciale inglese lavorava una sola fotografa, una tedesca di nome Krista Peters [?]. Tutti gli altri erano uomini. Ancora oggi, molti fotografi ai quali propongo di prendere un’assistente donna mi guardano stupiti. Io dico loro che le donne sono in grado di svolgere tutte le mansioni della fotografia, e in più è un piacere averle intorno. «Comunque, sia che si tratti di uomini, sia che si tratti di donne, avere successo in questo campo è molto improbabile: ribadisco che meno del cinque percento di quelli che cominciano raggiungeranno la meta». Interviste di Lello Piazza La parola ai giurati / 2. Nella prima puntata, pubblicata a giugno: Grazia Neri, Mary-Ellen Mark e Bruce Davidson. A seguire, nei prossimi numeri: Sue Steward, Inghilterra, critica e photo editor, Inghilterra, e Adrian Evans, direttore di Panos Pictures, Inghilterra, dalla giuria Photojournalism and Documentary del Sony World Photography Award 2009; Astrid Merget, Inghilterra, direttrice del Sony World Photography Award.
Oltre le didascalie che identificano le singole fotografie presentate e commentate da Stephen Shore, che in queste pagine ripetiamo limitatamente alle illustrazioni visualizzate a complemento della presentazione di Lezione di fotografia, il libro contiene commenti dello stesso autore, che compongono, appunto, il passo della sua Lezione. Nella nostra veste giornalistica e redazionale non è possibile riproporre anche i commenti, che costituiscono il sale e senso del libro. Dunque, le sole didascalie ufficiali siano intese come riferimento e richiamo identificativi e identificatori.
S
ubito sottotitolata La natura delle fotografie, la monografia illustrata e abilmente commentata Lezione di fotografia, compilata dal fotografo statunitense Stephen Shore, di New York, classe 1947, e pubblicata da Phaidon Press in edizione italiana (dall’originaria del 2006), impone soprattutto almeno due valori (ma ne ha molti, molti di più: ognuno ne aggiunga di propri). Dal nostro punto di vista odierno, e per ciò che intendiamo rilevare, li precisiamo immediatamente. Da una parte, che sottolineiamo prima di altre considerazioni, quella di confermare come e quanto la riflessione sulla fotografia appartenga spesso agli stessi autori che la applicano, sapendone anche tracciare confini, ideologie e significati, oltre la propria sola azione individuale. In questo senso, le conferme sono tante e sostanziose, e spesso partono dalle introduzioni di libri che non si esauriscono (le introduzioni) nella sola decodifica delle proprie immagini, ma approdano al senso e significato complessivo del linguaggio visivo proprio e caratteristico della fotografia. Dall’altra, non in subordine, questa Lezione di fotografia è autenticamente tale, lezione da non perdere e della quale fare prezioso tesoro: non se ne faccia a meno. È un saggio in forma agile, che si fa leggere tutto di un fiato. Poi, si può (deve?) rileggerlo con dovuta calma; quindi, si deve tenerlo a portata di mano, per consultazioni continue e continuate.
Scritto dal fotografo Stephen Shore, dal 1982 docente di fotografia presso una autorevole istituzione universitaria statunitense, Lezione di fotografia è un saggio da leggere tutto di un fiato, prima di rileggerlo con dovuta calma, per poi tenerlo a portata di mano, per consultazioni continue e continuate. Parole utili, se non già indispensabili, per approfondire le conoscenze e competenze individuali sul linguaggio visivo del nostro tempo. Agile nelle parole e chiaro nell’esposizione, finge di essere un abbecedario, ma in realtà, e nel concreto, è una indagine assolutamente approfondita
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Ne siamo assolutamente convinti: parole utili, se non già indispensabili, per approfondire le conoscenze e competenze individuali sul linguaggio visivo del nostro tempo. Agile nelle parole e chiaro nell’esposizione, finge di essere un abbecedario, ma in realtà è una indagine assolutamente approfondita.
STEPHEN SHORE Da qui, prima di sfogliare insieme le pagine del saggio, che si presenta in forma di elegante monografia illustrata, con riproduzione di immagini in dimensioni generose e alta qualità formale di stampa litografica (alla maniera tipica e caratterista dell’editore-garante: Phaidon Press), qualche parola in presentazione dell’autore Stephen Shore, fotografo statunitense che ha fatto linguaggio dell’osservazione clinica della vita quotidiana, interpretata in inquadrature e composizioni che appartengono alla contemporaneità della fotografia dell’animo e delle emozioni. Nello specifico, (temporaneamente) prestato alla osservazione della e sulla fotografia, Stephen Shore dichiara di essersi interessato alla fotografia fin dalla più tenera età. Autodidatta, dopo esperienze iniziali, a dieci anni (!) è rimasto folgorato dalla raccolta American Photographs, di Walker Evans, che lo avrebbe influenzato notevolmente. A quattordici anni, all’inizio dei Sessanta, ha compiuto una mossa precoce e coraggiosa, andando a presentare le sue fotografie a Edward Steichen, allora curatore della fotografia presso il Museum of Modern Art (MoMA), di New York. Straordinario: riconoscendo il talento del giovane Stephen Shore, Steichen acquistò tre sue opere. A diciassette anni, nel fantastico clima newyorkese della metà degli anni Sessanta, ha cominciato a frequentare la Factory di Andy Warhol, vivace laboratorio di creatività applicata (e altro ancora), che ha stabilito inviolabili riferimenti dell’espressione artistica dei decenni a seguire. La prima personale di Stephen Shore è stata allestita nel 1971: il ventiquattrenne fotografo è stato ospitato nientemeno che dal prestigioso e autorevole Metropolitan Museum of Art, di New York. Da qui è partito un percorso espressivo che lo ha affermato tra gli autori più significativi della fotografia del reale, on the road (sulla strada), interpretata in visioni a colori di inviolabile personalità. Dal primo viaggio del 1972, da Manhattan a Amarillo, in Texas, dalla dinamicità operativa della reflex 35mm alla ponderatezza e meditazione del grande formato, prima 4x5 pollici e poi, definitivamente, 8x10 pollici, sono nate intense riflessioni visive sulla contemporaneità.
CHE BELLA
La prima monografia illustrata, Uncommon Places (Luoghi non comuni), è considerata tra i riferimenti originari della fotografia moderna. In un tempo e clima nel quale dominava l’espressività del bianconero, che conserva ancora oggi propri sostanziosi e inviolabili princìpi espressivi, l’interpretazione del colore di Stephen Shore rivelò il valore e senso di un altro passo fotografico, che, per dichiarazioni esplicite, ha suggestionato autori successivi, come Nan Goldin, Andreas Gursky, Martin Parr, Joel Sternfeld e Thomas Struth. La bibliografia reperibile di Stephen Shore (autore) comprende: Uncommon Places: The Complete Works, riedizione Aperture del 2004; American Surface, Phaidon Press, 2005; Cruel and Tender, Tate Modern, 2003 (da Schirmer/Mosel, 1999);
Essex County, Nazraeli Press, 2002; Stephen Shore Uncommon Places 50 Unpublished Photographs 1973-1978, 2002; The Nature of Photographs (saggio originario), 1998; The Velvet Years: Warhol’s Factory 1965-1967, Thunder’s Mouth, 1995; Stephen Shore: Photographs 1973-1993, Schirmer/Mosel, 1995: Stephen Shore: Luzzara, Arcadia Edizioni, 1993; The Gardens at Giverny, Aperture, 1982; Uncommon Places, Aperture, 1982; Andy Warhol, Moderna Museet, 1968. Attualmente direttore del dipartimento di fotografia al Bard College, di Annandale-on-Hudson, Stato di New York (www.bard.edu), incarico che ricopre dal 1982, Stephen Shore è rappresentato da 303 Gallery, di New York (www.303gallery.com), Sprüth Ma-
Peter Henry Emerson: Durante il raccolto delle canne; 1886 (da Il piano descrittivo).
LEZIONE!
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Walker Evans: Fotografie di famiglia a casa di Frank Tongue, Hale County, Alabama; 1936 (dall’introduzione La natura delle fotografie).
Lezione di fotografia - La natura delle fotografie, di Stephen Shore; Phaidon Press Limited, 2009 (www.phaidon.com); 136 pagine 22x25,3cm, cartonato con sovraccoperta; ventisei illustrazioni a colori e sessanta in bianconero; 39,95 euro. In copertina, fotografia di Ken Josephson: Stato di New York; 1970.
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gers, di Colonia, Monaco di Baviera e Londra (www. spruethmagers.com), e Galerie Rodolphe Janssen, di Bruxelles (www.galerierodolphejanssen.com).
LA LEZIONE Pubblicato in italiano da Phaidon Press, sull’edizione originaria del 2006, Lezione di fotografia, di Stephen Shore, è uno dei testi fondamentali per valutare e avvicinare il linguaggio visivo della fotografia (appunto, e esplicitamente). Dal proprio punto di vista, l’autore racconta e spiega come capire e osservare tutti i tipi di fotografie: dalle immagini iconiche, che hanno scritto la Storia della fotografia, alle istantanee anonime; dalle immagini realizzate con pellicola fotosensibile a quelle dell’attuale era digitale. Basato sulla lunga esperienza di insegnamento presso il Bard College, avviata nel lontano 1982, l’analisi compone i tratti di uno strumento indispensabile per studenti e docenti, prima di altri [e parliamo con consapevolezza e per esperienza personale]; ma è necessario anche a coloro i quali vogliono approfondire i termini del linguaggio fotografico, soprattutto imparando a osservare le immagini del lungo cammino storico, oppure, più utilitaristicamente, intendono fotografare in maniera più consapevole. Formalmente, Lezione di fotografia - La natura delle fotografie è composto da immagini riprodotte sulle pagine in dimensioni adeguate alla propria lettura (spesso, in dimensioni generose, tanto da consentire la definizione di “libro illustrato”), accompagnate da testi semplici e scorrevoli: bravo e beato Stephen Shore, che è dotato di una capacità di sintesi che si sposa con quella, assai profonda, di analisi. In veste di guida, con maturazione di fotografo praticante, l’autore approda ai contenuti fotografici delle immagini, partendo soprattutto dalle proprietà fisiche e attributi formali della stampa fotografica, alla scoperta degli elementi primari che il fotografo utilizza per definire e interpretare i propri soggetti. In questo senso, consentiteci la presunzione, e perdonatecela, ci sentiamo assolutamente allineati. Pure le analisi compilate e riportate in FOTOgraphia
seguono un percorso ideologico analogo. Come spesso rileviamo, anche noi scriviamo di linguaggio, tecnica e costume della fotografia applicando idee che, di fatto, abbattono i confini tra i diversi punti di osservazione: arriviamo al lessico fotografico partendo dalla presentazione di apparecchi (o fingendo di farlo), così come, con percorso analogo, inquadriamo e identifichiamo l’apporto dell’applicazione tecnica quando affrontiamo il linguaggio espressivo. A diretta conseguenza (?), siamo consapevoli di essere riconosciuti e stimati per un apprezzato e confortevole senso delle proporzioni. Così che, tornando alle avvincenti pagine di Lezione di fotografia, nel momento in cui suggerisce (insegna?) come leggere le fotografie e indirizza a guardare i soggetti nello stesso modo in cui i fotografi li hanno visti, per interpretarli (da raffigurazione, necessaria, a rappresentazione consapevole), Stephen Shore sollecita anche a guardare al mondo che ci circonda. Una volta ancora, e una di più, in allineamento con le nostre intenzioni giornalistiche e redazionali: la fotografia come punto (privilegiato) di partenza, e non di arrivo. Calandosi addirittura nei panni degli autori delle fotografie, e guidando i lettori a immedesimarsi allo stesso modo, l’attento e capace Stephen Shore ricostruisce l’interesse al concetto e l’approccio al soggetto che devono essere stati all’origine degli scatti fotografici: presi in considerazione sia per se stessi, sia in quanto rappresentativi dell’evoluzione lessicale del linguaggio fotografico attraverso i decenni. Testuale, dalle prime pagine del saggio, dall’introduzione La natura delle fotografie: «Una fotografia può
essere vista su diversi piani. Innanzitutto è un oggetto materiale, una stampa. Su questa stampa appare un’immagine, un’illusione di una finestra sul mondo. È a partire da questo piano che normalmente “leggiamo” il contenuto: un ricordo di un viaggio esotico, il volto di un amante [un’amante], uno scoglio bagnato, un paesaggio notturno. Racchiuso in questo livello ne troviamo un altro, che contiene i segnali rivolti all’apparato percettivo della nostra mente, che dà un significato diverso a quello che l’immagine raffigura e alla modalità con la quale è organizzata». Da cui, ancora testuale: «Lo scopo di questo libro, quindi, non è di esplorare il contenuto fotografico di una stampa, bensì di descriverne gli attributi fisici e formali che costituiscono gli strumenti utilizzati [e applicati] dal fotografo per definire e interpretare quel contenuto».
TRA LE PAGINE Oltre una selezione di opere dello stesso Stephen Shore, Lezione di fotografia raccoglie e contiene immagini da tutta la Storia della fotografia, da retrovisioni con Alfred Stieglitz e Walker Evans, per esempio, all’espressività contemporanea di autori come Collier Schorr e Thomas Struth. Nell’analisi sono rappresentati molti generi fotografici, forse non tutti -come la street photography, la fotografia artistica e la fotografia documentaria-, integrati con immagini di fotografi anonimi, da un ritratto di famiglia ritrovato in un antico baule alla fotografia aerea di un rilievo fotogrammetrico. L’intera Lezione di fotografia è scomposta in quattro capitoli successivi e consequenziali: Il pia-
no materiale, Il piano descrittivo, Il piano mentale e La costruzione dei modelli mentali. A fine libro, vengono risolte le referenze fotografiche, indispensabili nel mercato statunitense dell’editoria, particolarmente attento all’assolvimento di diritti e doveri, ed è riportato l’indice degli autori presenti con proprie immagini, in stretto alfabetico da Berenice Abbott (per forza di cose, spesso al primo posto in ogni elenco alfabetico della Storia della fotografia) a Garry Winogrand, non sempre ultimo. Ancora, e poi basta, nell’ultima facciata, l’autore riporta ringraziamenti che ritiene doverosi. Il primo, sopra tutti, va richiamato, perché offre una utile chiave interpretativa dell’intero lavoro: «Questo libro nasce da un corso che ho tenuto per molti anni al Bard College di Annandale-on-Hudson, nello Stato di New York. Quando ho cominciato a insegnare in questo corso, usavo come libro di testo L’occhio del fotografo, di John Szarkowski [The Photographer’s Eye; Museum of Modern Art, New York, 1966]; e senza questo precedente, Lezione di fotografia non sarebbe mai stato scritto». Insomma, e per concludere, una Lezione di fotografia tanto attenta e perspicace, da risultare assolutamente indispensabile. Maurizio Rebuzzini
Anonimo: Vecchio con mele; data sconosciuta (da Il piano materiale). (al centro) Stephen Shore: Yucatan, Mexico; 1990 (da La costruzione dei modelli mentali).
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GIANNI GIANSANTI
L
La fotografia racconta il volto del tempo, anche quando è mercanzia della società consumerista o dolore spettacolarizzato al servizio di mercati globali, neocolonialismi e guerre. La fotografia è lo specchio dove si riflette l’amore, la felicità, la libertà; o è soltanto il viatico che porta al disprezzo, all’odio e al tradimento di ogni forma di bellezza. La fotografia che contiene pietà, commozione, rispetto, lascia “segni” o tracce di eternità negli sguardi del presente. La fotografia dell’ascolto si dischiude alla schiuma dei desideri senza pregiudizi e dissemina ovunque la bellezza dei propri silenzi o grida di disperazione inascoltati, anche. Ogni fotografia è un istante irripetibile rubato alla storia o la dispersione di un’estetica del vuoto e del nulla, che è solo merce. «L’estetica sopravanza spesso, quasi sempre, il soggetto raffigurato, fino a rappresentazioni di straordinaria delicatezza. In un’idea, al minimo, la fotografia mette ordine nel disordine originario» (Angelo Galantini, da qualche parte). Di più. Il fine della fotografia è fotografare “Dio”, il “Che” o l’ultimo dei Mohicani, come fosse sempre l’ultima volta, e, a dispetto di tutto, lasciare la sindone delle loro ombre inchiodate sul legno dell’impostura; l’ombra è bella quanto la luce. La fotografia, quando è grande, ci riporta allo sguardo originario, alla meraviglia, allo stupore dei bambini. Non ha importanza se una fotografia è vera, falsa o surreale... quello che è importante, infatti, è farsi poeti di immagini, viandanti di utopie o lettori consapevoli di ciò che accade intorno a noi, per andare (insieme) verso una migliore conoscenza del mondo.
LA FOTOGRAFIA DELLA R4 ROSSA La fotografia di Aldo Moro accartocciato, senza vita, nella R4
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rossa in via Caetani, a Roma, il 9 maggio 1978, scattata da un fotografo poco più che ventenne, Gianni Giansanti, è un’icona del Ventesimo secolo, anche contraddittoria. Tuttavia segna l’inizio di una carriera importante di fotogiornalista. Gli anni di piombo erano finiti, si cominciava a comprendere meglio i burattini della lotta armata e i burattinai che tiravano i fili. L’Immaginazione non aveva preso il potere, il Palazzo era sempre frequentato dagli stessi mestatori di ideologie, chiese e del malaffare; solo le bandiere erano cambiate. I masnadieri, no. Gianni Giansanti racconta così la fotografia della R4: «Abitavo a Monte Mario, e tutte le mattine, in moto, passavo da
«Saranno state le dieci meno un quarto, tutto era appena successo, un’apocalisse. Intorno non c’era ancora molta polizia, e non c’erano neppure i lenzuoli sui corpi degli agenti uccisi. Il nome di Moro, invece, quello era già nell’aria, “Hanno rapito Moro”, e inquadro la sua borsa per terra e la fascetta dei giornali sul sedile di dietro, l’unico a non essere macchiato di sangue. Poi, a un tratto, vedo una donna accompagnata da un poliziotto e un sacerdote. La fotografo vicino all’auto della scorta e la sento mormorare, “poveri ragazzi, poveri ragazzi”. «Solo dopo ho saputo che era moglie di Moro, perché di lei, come di tutta la famiglia, non si sapeva quasi nulla. Scatto
«Quando Dio creò gli angeli, essi alzarono la testa verso il cielo e chiesero: “Signore con chi sei?”. Egli rispose: “Sono con colui che è vittima di un’ingiustizia, fino a che non verrà ristabilito il diritto”» da un hadith, racconto, narrazione, testimonianze del Profeta via Fani per arrivare in ufficio. Come al solito, alle otto e mezzo, io e Osvaldo Restali, maestro e socio, leggevamo i giornali e ascoltavamo la radio sintonizzata sulle onde corte della polizia. Illegale, ma di routine. «A un certo punto, sentiamo la voce trafelata di un agente e le parole confuse “sequestro di persona, via Fani”. Prendo la moto, la strada la conosco a memoria, arrivo sul posto insieme alla prima ambulanza.
ancora e poi fuggo a sviluppare i rulli. Inizia la corsa per la vendita, e anche quel giorno avevo delle fotografie che non aveva nessun altro. [...] «Diciotto aprile, nel comunicato numero sette, le Br annunciano che il corpo di Moro è stato gettato nel lago della Duchessa, vicino a Rieti. Riparto in moto, seguo le pattuglie, ma l’indicazione è falsa. Torno a casa. Torno sotto la sede della Democrazia cristiana.[...]
«Il nove maggio, verso le dodici e mezza, alcuni colleghi, dopo aver fotografato l’ennesimo incontro, scendono e mi invitano a mangiare. Ma io resto, perché quel giorno volevo fare qualche primo piano a colori, Zaccagnini, Fanfani, Andreotti, da tenere in archivio, e magari vendere a qualche settimanale. A un certo punto, vedo uscire dal portone di piazza del Gesù due, tre poliziotti in borghese, che salgono su un’auto, sgommano e si dirigono a tutta velocità verso largo Argentina. Li seguo in moto, corso Vittorio, la pattuglia inchioda, rigira, torna in largo Argentina, quindi Botteghe Oscure. E lì si ferma. Arrivano i celerini, che bloccano via Michelangelo Caetani. «Cordone, non si passa. Mi accorgo che l’altro ingresso della strada non è stato ancora sbarrato. Riprendo la moto, arrivo appena in tempo, pochi metri correndo e mi infilo nel primo portone aperto che trovo. Salgo al primo piano. Nella finestra accanto c’è un collega, Rolando Fava, dell’Ansa, quindi Maurizio Piccirilli e un operatore di Tele GBR. La via comincia a riempirsi di agenti, confusione, brusio, ma l’epicentro lo si intuisce subito, è una Renault R4 rossa. La voce è che abbiano trovato un barbone, morto abbandonato. Inizio a scattare, e sono fotografie a colori. Un questurino si avvicina all’auto e apre lo sportello laterale. «In quell’istante vedo arrivare Cossiga, allora ministro degli Interni, scatto di nuovo; poi la folla degli agenti si avvicina alla Renault, e un poliziotto si gira e si mette una mano sulla faccia, disperato. «Contemporaneamente, dalla televisione accesa nell’appartamento in cui mi trovavo, si sente un annuncio: “Ci arriva in questo istante la notizia che il
corpo dell’onorevole Aldo Moro è stato ritrovato in via Caetani”. Io stavo là, e allora era lui nella macchina. «Dalla strada, mi vede un poliziotto, che mi punta la pistola e mi ordina di scendere e consegnargli i rulli. Mi ritiro dalla finestra e seguo la scena dal riflesso sul vetro. Con me ho una sola macchina fotografica e tre obiettivi, un Trentacinque, un Cinquanta e soprattutto un Duecento. Sono l’unico ad averlo. A quel punto, a cacciarmi è il padrone di casa, spaventato. «Esco e salgo sul tetto del palazzo. Dall’alto vedo l’arrivo degli artificieri. Si teme che i brigatisti abbiano minato l’auto. Mi sporgo, ma è troppo pericoloso. Scendo di corsa, e nella confusione assoluta rientro nell’appartamento di prima; il proprietario neanche se ne accorge. Metto il Duecento, ed è come essere a pochi centimetri dalla scena. «Gli artificieri squarciano il portellone, scatto, lo aprono. Tolgo il rullo a colori e lo nascondo negli slip. Rimetto il bianconero. Appare una coperta, arriva il medico legale che scopre il corpo, scatto. La massa dei poliziotti si riversa allora sulla macchina, e alcuni agenti tentano di respingere i colleghi. Scatto di nuovo, nascondo il film. Voglio ancora del colore, e a questo punto mi rimane solo la pellicola al tungsteno, bluastra in esterni, ma la carico lo stesso. «Torno a inquadrare Moro. Riavvolgo il rullo. Quindi, in bianconero riprendo l’arrivo dell’ambulanza e il corpo che viene portato via. Ultime immagini, e corsa folle al laboratorio. Non perdo di vista le pellicole un solo attimo. «Adesso le ho in mano, le immagini. Sono già all’Associated Press per il bianconero. Poi vado a Time con le fotografie a colori, e ho la copertina [FOTOgraphia, aprile 2009]. «Alla sera tardi, a casa, mi chiama Gamma, allora l’agenzia dei miei sogni. Mi propongono un contratto. In piena notte arriva un aereo privato e
la mattina alle sette i negativi sono a Parigi. E in quel volo inizia la mia seconda vita» (L’Agenda New. Quotidiano Online; www.agendacomunicazione.it).
SULLA FOTOGRAFIA DELL’ASCOLTO E DELLA CONTEMPORANEITÀ
Non importa cosa io penso (per quel che vale) dell’opportunità (poco casuale o molto accidentale) avuta da un giovane fotografo di scattare quella fotografia e dei lapidari fotogrammi che la precedono. Ciò che vale è che Gianni Giansanti si è travato lì, nel luogo giusto, al momento giusto. Nemmeno conta ciò che penso della vita politica e della tragica fine dell’onorevole Aldo Moro... se sono state le Brigate Rosse, se c’erano di mezzo i Servizi segreti italiani, o che quella esecuzione sia stata una sporca faccenda orchestrata ai “piani alti” del Potere. Ci sono messe di articoli, libri, film che (con dovizia di particolari) hanno raccontato questo intricato evento. Quello che importa è che una fotografia è riuscita a sollevare indignazione, bestemmie, emozioni in grandi strati del popolo italiano e svergognato, se non denunciato, complicità nascoste e plateali connivenze di un intero sistema politico con la criminalità organizzata. Gianni Giansanti coglie l’attimo. Il cadavere di Moro è piegato sul fondo della R4. Il colore rosso della macchina incornicia la situazione. L’atmosfera è quella di una pietà sentita, coinvolgente. Il volto dell’onorevole è disteso, sembra lasciato a un sonno profondo. Barba lunga, incarnato bianco, la mano destra chiusa in un pugno contratto. Le forze dell’ordine gli sono attorno, si apre un varco nel caos; Gianni Giansanti non trema e fissa nella memoria ciò che resta dell’uomo di Stato. Qui, la fotografia diventa “sacra”, e in qualche modo rimanda ad altri momenti feroci, estremi, dolenti, toccati in sorte (e ancora li riguardano) ai poveri, i diseredati, gli esclusi in molte parti della Terra.
Certo è che non possiamo dimenticare un’intera generazione uscita dalla grande utopia del Sessantotto e, sbagliando, anche, ha lasciato sui marciapiedi del mondo maglioni inzuppati di sangue. L’esposizione dei corpi martoriati è il luogo della politica che viene, e la passione della rivelazione scopre il volto e al contempo nasconde l’origine del male. Niente legittima la violenza. Dovunque la violenza si fa padrona dell’immaginario sociale, prima o poi, compariranno i carri armati. Lo Stato dello spettacolare integrato (democratico o comunista) è l’espressione di una politica sovranazionale e la mediocrazia che sottende è sovente una messa in scena che ammutolisce i popoli. La macchina del dominio ha una propria lingua segreta. La reificazione o la cancellazione di un gesto, di un uomo o di un sogno è l’imago, la maschera mortuaria di un segno che racconta il perduto dell’umanità. Senza l’amore dell’uomo per l’uomo tornano i tiranni. Chi ha dato il colpo di grazia a tutti i patriarcati, ovunque stiano, si tiene dietro le quinte del potere e gestisce i loro resti. «È soltanto dietro il riconoscimento degli altri che l’uomo può costituirsi come persona» (Giorgio Agamben). La fotografia dell’ascolto è il tentativo di fissare in uno sguardo, e poi nella macchina fotografica, il cammino della storia.
SULLA FOTOGRAFIA DELLA CONTEMPORANEITÀ DI GIANNI GIANSANTI Il mestiere del fotogiornalista, dell’artista concettuale, dell’operatore pubblicitario... sembra oggi alla portata dell’ultimo cliente che frequenta con l’aria “saputa” i molti workshop disseminati in tutta l’italietta del Terzo millennio (berlusconiana/d’alemiana); la rivoluzione del digitale, l’arte della fotografia alla portata di tutti, la filosofia del “tu scatta e noi dell’industria fotografica pensiamo all’immagine” sono le preoccupa-
zioni più vendute negli stage o scuole dove si dice di teorizzare, discutere o praticare la Fotografia. Gli imbecilli ci credono. Anche gli insegnanti, sembra. La Fotografia rende liberi ad Auschwitz, come alla Fiat. Ma l’angelo/fotografo che piange non si fa profeta di niente, nemmeno delle sue lacrime false. Per trasformarsi in forza critica, il suo dolore deve conoscere la collera o la gioia che riconduce il celato o il censurato alla luce dell’opera fotografica. I fabbricatori di immagini autentiche hanno qualcosa a che fare con i poeti di strada, i folli o i filosofi del libero pensiero: fanno dell’estetica l’aspirazione al sublime etico, tuttavia diffidano di ogni autorità, per princìpio. Tutti gli altri (compreso i fotoamatori, stirpe di esteti del mercantilismo, affetti da cecità inguaribile) vivono di gregarismo e celebrazioni. Sembrano non sapere che il compito di un’estetica radicale è quello di rifiutare la stupidità dell’arte e muoversi verso un’arte senza musei, né mercanti, né padroni. Lì, regna la menzogna. Certo è che, per avvicinarsi alla verità, molti fotoreporter sono stati uccisi sul campo. Alcuni avevano visto e fotografato troppo, altri troppo poco; tutti avevano osato sfidare il “prontuario del bravo fotogiornalista”, che i governi, i media e le forze dell’ordine suggeriscono a chi ha fatto della propria esistenza anche la propria opera. Gianni Giansanti, uno dei migliori reporter italiani, nasce a Roma nel 1956, muore di un male spietato, il 18 marzo 2009 [FOTOgraphia, aprile 2009]. Scompare l’uomo, resta la sua lezione fotografica (e video), come percorso per le future generazioni di fotografi a indicare la creatività con la quale affrontare le tematiche della contemporaneità, con forza, coraggio e carattere. Gianni Giansanti è un fotogiornalista che ha attraversato la scena mondiale della fotografia di informazione, sport e impegno civile. La sua carriera inizia come
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freelance nel 1977, e diventa subito famoso, a ventidue anni, con un servizio sul ritrovamento del corpo di Aldo Moro lanciato sulla copertina di Time Magazine. Gli anni successivi vedono il fotografo al seguito di Giovanni Paolo II; e le news internazionali in Polonia, Haiti, Guatemala, Salvador, Libano, Senegal, Libia, Jugoslavia, Grecia evidenziano lo sguardo attento di Gianni Giansanti su tutto ciò che fa “notizia”, ma, dal punto di vista estetico, lavorando oltre il superamento della cronaca. Nelle sue immagini non c’è ricerca del clamore, semmai una trattazione del gesto o del corpo che si raccoglie in privato, quasi in disparte, rispetto all’accadimento pubblico o di ricerca antropologica. L’immagine, giustamente celebre, di Papa Giovanni Paolo II immerso nei pensieri e nel colore rosso del tendaggio che sembra avvolgerlo, teneramente, o quella della maschera di guerra di un Surma, straordinaria, per l’armonia dei neri, dei rossi e del bastoncino giallo che traccia i segni sul viso del guerriero, non sono che piccoli esempi. Nel 1988, vince un Primo premio al World Press Photo, con un servizio sulla giornata privata di Papa Wojtyla. I riconoscimenti internazionali sono tanti. Nel 1993, riceve il Picture of the Year, all’Università del Missouri, Stati Uniti, per un reportage sulla fame in Somalia. Nel 1995, pubblica il libro Giovanni Paolo II. Ritratto di un Pontefice, al quale ha fatto seguito una mostra alla Biblioteca Apostolica del Salone Sistino, in Vaticano. Nel 1999, esce Alla scoperta della Camera dei Deputati. Sono molti i fotolibri prodotti da Gianni Giansanti, e tutti di grande valore estetico... anche quelli dedicati allo sport e agli sportivi. Eccezionale, e di una bellezza singolare, è il lavoro svolto in Africa tra le tribù primitive della Valle dell’Omo (alla ricerca delle origini dell’uomo), che finirà poi in
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uno dei migliori libri fotografici del tempo, Ultima Africa. Anche se diceva che la tecnica ha poca importanza per fare buone fotografie, Gianni Giansanti è invece un costruttore di immagini come pochi. La sua fotografia è “nuda”, cioè evita orpelli e furberie estetizzanti, e più ancora, all’interno dell’inquadratura, si scorge la forza furibonda e la delicatezza di un uomo schivo a ogni forma di spettacolarità, dentro e fuori la scena fotografica. Dobbiamo dirlo. A noi non interessano né papi, né deputati, né altro che non sia ciò che depone o invera la missione istituzionale degli uni e degli altri; sappiamo che l’impostura e la punizione sono agli inizi di ogni adorazione. Tuttavia dobbiamo riconoscere a Gianni Giansanti la “grandezza affabulativa” delle sue immagini. Quando ha fotografato Karol Wojtyla (anche Benedetto XVI), o i volti dei deputati italiani, è riuscito a dare (a tutti) qualcosa di aureo e allo stesso tempo reale; le inquadrature sono secche, a volte di particolare bellezza formale: sembra di entrare in un mondo nobilitato dal ruolo, nel quale i protagonisti si sentono all’altezza del proprio rango. Che poi quel papa sia un “mecenate” che abbia cambiato la storia e come, è tutto da studiare (senza dimenticare il Banco Ambrosiano, Calvi, Sindona, Paul Marcinkus, l’Opus Dei, i Battaglioni della morte in Nicaragua o i sindacalisti di Solidarnosc). C’è anche da dire che certi deputati (inquisiti, condannati, intrallazzati con faccendieri e mafierie) non stanno bene solo davanti alla macchina fotografica di un grande fotografo, ma andrebbero fotografati anche dietro le sbarre di un carcere e poi buttare via la chiave. I papi e i deputati passano, le grandi fotografie restano. I fotoritratti di Gianni Giansanti, di artisti, intellettuali, finanzieri, nobili, non vestono la falsa regalità della sacertà mercantile, abituale ai fotografi che si occu-
pano di moda o di servitù volontarie deposte sul sagrato patinato dei media; le sue immagini figurano una conoscenza compiuta, una conoscibilità dell’anima, se non disvelata (completamente), senz’altro rivelata per quello che (in parte) è. C’è un universo dell’essenzialità nell’intera produzione di Gianni Giansanti, e la sua fotografia segna spesso in modo eminente i luoghi dell’inapparenza. Al fotografo non interessano né il nichilismo della bellezza, né il disincanto della nudità di ciò che raggela nelle sue immagini; la sua fotografia della contemporaneità coincide con l’inattuale, si mette in relazione con il proprio tempo attraverso lo sguardo su di esso e la capacità di coglierlo ai confini (o nel ventre) della vita quotidiana. Le scritture fotografiche di Gianni Giansanti sono frammenti di un’opera multiforme, segnature potenti dell’atto che precede lo scatto e la raccolta dell’immagine che decanta la creazione. C’è gesto, c’è parola, c’è sogno, nella sua fotografia; il suo sguardo forma, elabora, carezza, riconduce alla poesia e la contempla come parte importante della contemporaneità. Il linguaggio della fotografia contemporanea (come quello di Gianni Gian-
santi) percepisce non solo le luci e le ombre, ma anche le ceneri di un’epoca. Molte delle sue fotografie, specie quelle africane, aiutano a vedere nell’oscurità dei forti e lasciano la parola, il volto, la voce alla bellezza, alla luce del presente impoverito. La fotografia contemporanea di Gianni Giansanti -parliamo dei reportage sociali che più ci interessano- prefigura una lettura o un’interrogazione della vita corrente, e ai margini dell’esistenza violata dei popoli: coglie il nonvissuto che impedisce l’accesso ai diritti dell’uomo. Quando esce dalle maglie della dittatura della comunicazione, la fotografia contemporanea si trasforma poco a poco in giudizio o in sentenza contro i saccheggiatori di verità e i colonialisti dei saperi: cioè i padroni dell’immaginario e i creatori di diritti. È il cuore dell’uomo che governerà il mondo. Sono stati gli emarginati, i diversi, gli esclusi a nobilitare le violenze, le vessazioni, i genocidi tra stati-nazione (per semplici questioni di affari, mercati, banche). E i milioni di corpi trucidati hanno così permesso (a chi aveva spirito di sfrontata bellezza) di raccontare un’altra storia. Pino Bertelli (22 volte giugno 2009)