FOTOgraphia 154 settembre 2009

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Mensile, 5,70 euro, Poste Italiane SpA - Spedizione in abbonamento postale - D.L. 353/2003 (convertito in Legge il 27-02-2004, numero 46), articolo 1, comma 1 - DCB Milano

ANNO XVI - NUMERO 154 - SETTEMBRE 2009

Olympus Pen E-P1 Immaginare NEW YORK

FRANCO ZAMPETTI VISIONI ZENITALI


Il solo dovere che noi abbiamo verso la storia della fotografia, è quello di riscriverla. Pino Bertelli su questo numero, a pagina 64

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ANCORA LUNA. Come era prevedibile, e come abbiamo anticipato nella nostra lunga relazione sollecitata dal quarantesimo anniversario del primo allunaggio del 20 luglio 1969 (ventuno luglio, per l’Europa), pubblicata sullo scorso numero di luglio (appunto), un poco tutta l’editoria periodica se n’è occupata: ognuno, in relazione ai propri indirizzi. Tra tanto, speriamo non troppo, qui segnaliamo due fascicoli, ognuno dei quali ci consente un commento aggiuntivo, che si allinea con quanti ne abbiamo già espressi. Anzitutto, rileviamo che sulla sua copertina, lo speciale del settimanale popolare Oggi ha replicato per l’ennesima volta il ritratto-simbolo di Edwin E. Aldrin Jr (il secondo Uomo sulla Luna) in piedi sulla Luna, con l’altro astronauta Neil A. Armstrong (il primo Uomo sulla Luna) che si riflette nella visiera del suo casco. Allo stesso momento, riprendendo le note che lo scorso luglio abbiamo riportato in questo stesso spazio redazionale Prima di cominciare, sottolineiamo che è stata utilizzata la versione della fotografia recentemente restaurata dalla Nasa (?), ricca di dettagli e perfetta nella restituzione di ogni sfumatura. A ridosso, ci occupiamo dell’edizione monografica dell’Europeo, che al suo interno ripropone gli articoli a tema pubblicati in cronaca negli anni Sessanta. Il richiamo è conveniente, La Luna di Oriana, che risveglia l’interesse del pubblico attraverso la figura della celebre giornalista Oriana Fallaci, recentemente scomparsa, e della quale è in corso la beatificazione, quantomeno giornalistica. A immediato ridosso, sono evocati anche reportage di Giorgio Bocca e Ruggero Orlando, altri richiami di buona presa sul pubblico. Dal nostro punto di vista, come sempre mirato e indirizzato, registriamo che l’illustrazione di copertina è ancora una volta un ritratto doppio, con Charles Conrad Jr riflesso nella visiera del casco di Alan LaVern Bean. Abbiamo già approfondito, ed ora in replica: dalla missione Apollo 12 (14-24 novembre 1969), questa fotografia ci è particolarmente cara perche raffigura anche un’Hasselblad, ancorata al petto di Alan L. Bean. Ricordiamo che una interpretazione adattata di questa fotografia è stata usata per un’emissione filatelica svedese del 29 marzo 1988: sei soggetti dedicati al contributo svedese alla storia universale.

Parliamo e scriviamo sempre di “fotografia”, come se ce ne fosse una soltanto. No, non è così. Angelo Galantini; su questo numero, a pagina 52 Quando le idee della fotografia si diffondono nel cielo del mercimonio, o emergono dal dolore della Terra, è necessario che etica ed estetica abbiano una certa consistenza: la fotografia è ciò che disvela, mai ciò che celebra. Ogni fotografia racchiude un contenuto sensibile, o una menzogna. Ogni fotografia dice di più di quanto non esprima. Pino Bertelli; su questo numero, a pagina 64 «Un uomo solo è al comando, la sua maglia è bianco-celeste, il suo nome è Fausto Coppi». Mario Ferretti; su questo numero, a pagina 26 Cosa c’entra in tutto questo la fotografia? Niente, se così vogliamo pensarla. Tanto, se osiamo ipotizzare come e quanto occuparsi di fotografia e scattare fotografie siano esercizi che dipendono anche da sovrastrati culturali e di conoscenza. Altrettanto, se non ragioniamo per strade chiuse. Maurizio Rebuzzini; su questo numero, a pagina 59

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3 Fumetto 41

ARCHIVIO FOTOGRAPHIA (2)

Tavola finale, dalla quale anche la copertina del fascicolo, da Dagherrotipi (Jacula, 207, del 30 marzo 1977; Ediperiodici, Milano). Ancora in allineamento con i centosettant’anni dalle date originarie del 1839, un richiamo alla Storia: questa volta in curiosa (s)veste

7 Editoriale Attenzione: le parole sono pietre

8 L’ultima individualità 8

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Copertina Volta del Teatro Comunale di Carpi, in provincia di Modena. Visione zenitale di Franco Zampetti, che applica lezioni e princìpi inderogabili di una rappresentazione fotografica a un tempo colta e consapevole. Da pagina 44

In ricordo di Yoshihisa Maitani, geniale progettista Olympus, mancato il trenta luglio. Ardite interpretazioni fotografiche: dalle Pen originarie alla recente Pen E-P1

10 Notizie Attrezzature, vicende e altre segnalazioni

12 Delazione fotografica 12

Nel cinematografico Senza via di scampo, del 1987 Ricerca iconografica di Filippo Rebuzzini


SETTEMBRE 2009

R , RIFLESSIONI IFLESSIONI, OSSERVAZIONI E COMMENTI OSSERVAZIONI E COMMENTI SULLA FOTOGRAFIA SULLA FOTOGRAFIA

15 Mario Cravo Neto

Anno XVI - numero 154 - 5,70 euro

Commiato dal grande fotografo brasiliano, mancato lo scorso nove agosto, a sessantadue anni di Giuliana Scimé

DIRETTORE

RESPONSABILE

Maurizio Rebuzzini

IMPAGINAZIONE

Gianluca Gigante

20 La Milano di Loi

REDAZIONE

Duilio Loi: forse il più grande pugile italiano di tutti i tempi

FOTOGRAFIE

Angelo Galantini Rouge

22 Reportage Appunti e attualità del fotogiornalismo internazionale A cura di Lello Piazza

SEGRETERIA

Maddalena Fasoli

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26 Fausto Coppi (1919) Ricordo di una leggenda, a novant’anni dalla nascita

28 La parola ai giurati / 3 Sue Steward, Adrian Evans e Astrid Merget, dalle giurie del Sony World Photography Award 2009 Interviste di Lello Piazza

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34 C’è tanto da immaginare, forse tutto L’avvincente selezione Immaginare New York, dalle collezioni del MoMA, al Museo di Arte Moderna e Contemporanea di Trento e Rovereto (Mart, di Rovereto). Al solito, e come sempre: considerazioni a tema, osservazioni complementari e note a margine. Le nostre di Maurizio Rebuzzini

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● FOTOgraphia è una pubblicazione mensile di Graphia srl, via Zuretti 2a, 20125 Milano. Registrazione del Tribunale di Milano numero 174 del Primo aprile 1994. Poste Italiane SpA - Spedizione in abbonamento postale - D.L. 353/2003 (convertito in Legge il 27-02-2004, numero 46), articolo 1, comma 1 - DCB Milano. ● A garanzia degli abbonati, nel caso la pubblicazione sia pervenuta in spedizione gratuita o a pagamento, l’Editore garantisce la massima riservatezza dei dati forniti dagli abbonati e in suo possesso, fatto diritto, in ogni caso, per l’interessato di richiederne gratuitamente la rettifica o la cancellazione ai sensi della legge 675/96.

Franco Zampetti applica lezioni prospettiche antiche, declinate in chiave straordinariamente moderna

52 Nell’intimità 16

56 Il Codice Atlantico Dal dieci settembre, per sei anni, esposizione delle tavole leonardesche della Biblioteca Ambrosiana

COLLABORATO

Pino Bertelli Antonio Bordoni Adrian Evans Silvio Giuliani Astrid Merget Omega Fotocronache PaciArte Contemporary Loredana Patti Lello Piazza Franco Sergio Rebosio Gabriele Renna Ciro Rebuzzini Filippo Rebuzzini Giuliana Scimé Sue Steward Franco Zampetti Redazione, Amministrazione, Abbonamenti: Graphia srl, via Zuretti 2a, 20125 Milano; 02-66713604; graphia@tin.it.

44 Visioni zenitali

Ricerca espressiva Bymoment, svolta da Silvio Giuliani in dittici: dalla “realtà oggettiva” alla individuazione consapevole di una “realtà più interiore e intima” di Angelo Galantini

HANNO

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Rivista associata a TIPA

60 von Gloeden a Capri Cornice di prestigio per le fotografie del mitico barone

64 Claude Cahun Sguardo sulla grazia della fotografia androgina di Pino Bertelli

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www.tipa.com

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Alla Photokina e ritorno Annotazioni dalla Photokina 2008 (World of Imaging), con richiami e riferimenti che non si esauriscono con il solo svolgimento della Photokina

Riflessioni, Osservazioni e Commenti sulla Fotografia: spunti utili e proficui sia al comparto tecnico-commerciale sia al mondo della fotografia espressiva e creativa

Alla Photokina e ritorno dodici pagine, ventinove illustrazioni

Reflex con contorno ventotto pagine, settantuno illustrazioni

Visioni contemporanee venti pagine, quarantotto illustrazioni

I sensi della memoria dieci pagine, ventisette illustrazioni

La città coinvolta dieci pagine, ventisei illustrazioni

E venne il giorno (?) sei pagine, quindici illustrazioni

E tutto attorno, Colonia sei pagine, diciassette illustrazioni

Ricordando Herbert Keppler due pagine, due illustrazioni

Ciò che dice l’anima sei pagine, undici illustrazioni

Sopra tutto, il dovere quattro pagine, otto illustrazioni

• centosessanta pagine • tredici capitoli in consecuzione più uno • trecentoquarantatré illustrazioni

In forma compatta dieci pagine, venticinque illustrazioni

Tanti auguri a voi venti pagine, cinquantadue illustrazioni

Alla Photokina e ritorno di Maurizio Rebuzzini 160 pagine 15x21cm 18,00 euro

F O T O G R A P H I A L I B R I Graphia srl • via Zuretti 2a - 20125 Milano 02-66713604 • graphia@tin.it

Saluti da Colonia sei pagine, nove illustrazioni

Citarsi addosso sette pagine


P

arole. È paradossale che ci si interessi di “parole” dalle pagine di una rivista che, ufficialmente, si occupa di fotografia, che qualcuno vorrebbe valere più di mille parole: appunto. Però, non si tratta di una contraddizione nei termini, perché FOTOgraphia è soprattutto una rivista di parole; una rivista che va più letta che sfogliata, più letta che guardata (addirittura, è una rivista di immagini compilata anche con pagine di solo testo!). Del resto, riprendendo quanto annota Angelo Galantini, ancora e anche su questo numero, a pagina cinquantadue, «Parliamo e scriviamo sempre di “fotografia”, come se ce ne fosse una soltanto, nella quale riconoscersi tutti. No, non è così. Non solo, il linguaggio fotografico si esprime in relazione e dipendenza a tanti generi di riferimento [...], ma, soprattutto, l’esercizio della fotografia dipende e si basa su intenzioni individuali». Allora, parole come soggetto esplicito. Il nostro non è più tempo che lascia spazio alla paura delle opinioni, ma è un momento nel quale ciò che contano sono (dovrebbero essere) soprattutto le convinzioni, presentate e proposte con energia e capacità. Ecco dunque che, senza pregiudizio, ma valutazioni misurate, possiamo riflettere a cuore leggero e mente sgombra, andando a occuparci di parole. Soprattutto di quelle inutili. Ricordiamo subito che proprio la nascita della fotografia, nel 1839, in forma di dagherrotipo, suscitò un mesto e lapidario commento, assolutamente grottesco. Di fronte ai primi dagherrotipi, il pittore e accademico francese Paul Delaroche avrebbe profetizzato che «Da oggi la pittura è morta!». Al contrario, da quel momento, proprio l’assolvimento da parte della fotografia di mansioni basilari della raffigurazione visiva del vero e reale ha permesso alla pittura, e all’arte nel proprio complesso, di incamminarsi lungo un percorso espressivo che si è rivelato luminoso e straordinario, a partire dall’Impressionismo via via verso le forme di creatività svincolate dal “vero”. Ovvero, l’arte moderna e contemporanea ha sostanziosi debiti di riconoscenza con la fotografia: da quelli utilitaristici a quelli contenutistici. Discorso da approfondire altrove e altrimenti. Lo sappiamo bene: la fotografia è l’autentico linguaggio visivo del Novecento, con il quale tutta la società, la cultura e il costume debbono fare i propri conti. Ma non è questo che oggi e qui ci interessa considerare; invece, ci preme sottolineare come e quanto i nostri tempi diano spazio e fiato a parole inutili, come se queste avessero qualsivoglia diritto di cittadinanza. Ed eccole, alcune parole imbecilli di questa estate. All’indomani della conclusione dei Mondiali di nuoto, l’eroina nazionale Federica Pellegrini e il suo compagno Luca Marin, atleta di profilo più modesto, hanno occupato le pagine dei quotidiani raccontando che prima delle gare avrebbero fatto sistematicamente sesso. Chi se ne frega! Parole inutili, addirittura imbarazzanti (il privato resti tale), che sono state espresse nella convinzione del loro interesse. Parole: impariamo a risparmiarle e usarle con senno. Attenzione: le parole sono pietre. Maurizio Rebuzzini

Parole. Impariamo a risparmiarle e usarle con senno. Attenzione: le parole sono pietre.

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L’ULTIMA INDIVIDUALITÀ

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Lo scorso trenta luglio, a settantasei anni di età, è mancato l’ingegnere giapponese Yoshihisa Maitani, probabilmente l’ultimo dei personaggi leggendari della progettazione fotografica, che ormai ha abbandonato i richiami a genialità individuali, per frequentare altre strade, del resto abbondantemente legittime... dati i tempi e modi dell’attualità tecnologica dei nostri giorni. Con lui, finiscono un’epoca e un mondo, che dalla cronaca dei relativi svolgimenti sono già proiettati verso la Storia, anzitutto della fotografia, e in subordine, ma neppure molto, del costume e della socialità. Al nome di Yoshihisa Maitani sono legati e collegati i successi tecnico-commerciali di Olympus degli ultimi cinque decenni (almeno), che hanno stabilito sostanziosi primati e rivelato audaci personalità fotografiche, tutte rievocate in occasione dei novant’anni del marchio e del lancio della nuova Olympus Pen E-P1, della quale riferiamo a parte, a completamento di queste stesse note di commiato [pagina accanto].

UNA VITA Nato nel 1933, Yoshihisa Maitani ha costruito la sua prima macchina fotografica a dieci anni, in piena Seconda guerra mondiale, in un Giappone in ginocchio per l’andamento avverso dei fronti di battaglia. A sedici anni, nel 1949, deteneva già quattro brevetti, che portò in dote all’Olympus, dove entrò nel 1956, quando l’offerta fotografica, complementare a quella di strumenti scientifici, era limitata alle derivazioni della preziosa e originaria Olympus 35 I, del 1948 (formato di esposizione 24x32mm, prima macchina fotografica giapponese del dopoguerra con otturatore centrale). Dopo due anni di training -un tempo si agiva così-, gli fu commissionato un progetto fotografico ambìto e discriminante, che avrebbe poi proiettato ripercussioni su tutta la tecnologia fotografica applicata. Avrebbe dovuto realizzare una macchina fotografica destinata al più ampio pubblico

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Yoshihisa Maitani, leggendario progettista Olympus, dalla fine degli anni Cinquanta padre di tutte le ardite interpretazioni fotografiche della casa giapponese, che sta celebrando i propri novant’anni di storia, è mancato lo scorso trenta luglio: qui in un ritratto recente, con la reflex Olympus-Pen F tra le mani. Con lui, finisce un tempo e un mondo nei quali il genio dell’individualità ha avuto senso, e spesso ha fatto l’autentica differenza.

possibile e potenziale: da vendere a un prezzo inferiore allo stipendio mensile medio giapponese, allora stabilito a seimila Yen. Nel 1959, vide la luce l’Olympus Pen originaria, progetto capofila di una lunga serie di eccellenti invenzioni di Yoshihisa Maitani (autentiche invenzioni!): formato di esposizione 18x24mm (mezzoformato: ai tempi, autentico boom in Giappone); obiettivo Zuiko 2,8cm f/3,5; tempi di otturazione da 1/25 a 1/200 di secondo, più la posa B. Da qui, un’eterogenea serie di varianti, che si sono allungate per tutti gli anni Sessanta, sconfinando addirittura nei Settanta (Olympus-Pen EE 3, del 1973) e Ottanta (Olympus-Pen EF, del 1981). Ma, soprattutto, l’azzardata pro-

posta mezzoformato, rispetto il fotogramma completo 24x36mm, fu interpretata dalla genìa delle reflex Olympus-Pen F, a obiettivi intercambiabili (dal 1963): ardita interpretazione della visione reflex, senza pentaprisma, ma con prismi e specchi che consentirono un corpo macchina estremamente compatto ed efficace e otturatore a tendina derivato dai princìpi di quello centrale.

DALLE OM ALLA E-P1 Nel corso dei decenni, la stessa idea di compattezza è stata trasversale a tutta la progettazione Olympus (di Yoshihisa Maitani), fino a proiettarsi anche nelle configurazioni digitali, con la definizione dello standard QuattroTerzi e della sua recente evo-


luzione Micro QuattroTerzi. Tanto che, torniamo in cronologia, dal 1972, il sistema reflex Olympus OM si è caratterizzato soprattutto alla luce delle sue dimensioni estremamente contenute, che non hanno mai compromesso le prestazioni più efficaci: dalla OM-1, di partenza, alla OM-2, con automatismo a priorità dei diaframmi (1975), alle rispettive varianti che sono seguìte. Tutti progetti firmati da Yoshihisa Maitani, che stupì ancora con la serie di efficaci compatte 35mm Olympus XA, che dall’inizio degli anni Ottanta offrirono al mercato

straordinarie soluzioni operative, in relazione alle quali il comparto delle compatte si proiettò ben oltre i confini commerciali precedentemente fissati, approdando addirittura alla fotografia professionale, nelle tasche di tanti autori che hanno scritto importanti capitoli della Storia evolutiva del linguaggio espressivo della stessa fotografia. Yoshihisa Maitani viene a mancare in un momento topico della storia Olympus, che con l’ardita configurazione Pen E-P1 indica una strada innovativa a tutta la fotografia dei nostri giorni. Per un curioso gioco

del destino, ha fatto in tempo a vedere la nascita di questo nuovo indirizzo, del quale non seguirà le evoluzioni e risposte. Se è lecito pensarla anche così, fatti salvi i sentimenti individuali, è giusto che Yoshihisa Maitani se ne sia andato. Ormai, la tecnologia fotografica dipende da altro che dalle genialità individuali di un progettista. Ahinoi, non è più tempo di individualità e azzardi. Neppure è tempo di leggende nuove: teniamoci strette quelle che già abbiamo. E di questo, come di tanto altro ancora, ce ne dispiacciamo. Ma! A.Bor.

RITORNO AL FUTURO

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lamorosa coincidenza! Allo stesso tempo e momento, la giapponese Olympus celebra i propri novant’anni (1919-2009) e la combinazione tecnica con il neonato sistema Micro QuattroTerzi. Nella propria personalità tecnologica presentefuturibile, l’attuale Pen E-P1 richiama sapori del passato remoto, rivitalizzando soprattutto la genìa delle reflex e compatte Olympus-Pen degli anni Sessanta. Cos’è l’Olympus Pen E-P1? Non è una compatta. Non è una reflex. È una Pen! Così dichiarando, si stabilisce subito il legame ideale e ideologico che lega e collega questa nuova configurazione di avvincente efficacia con la storia Olympus, evocando la genìa delle Pen, per l’appunto, che dalla fine degli anni Cinquanta definì e identificò sia una gamma di compatte di facile impiego, sia una esclusiva interpretazione reflex, entrambe per il mezzoformato 18x24mm (ammezzato rispetto il fotogramma tradizionale 24x36mm da pellicola 35mm standard, a doppia perforazione). Elaborato da Yoshihisa Maitani, apprezzato designer venuto a mancare lo scorso trenta luglio, lo stile delle Olympus-Pen rappresentò una unione perfetta tra semplicità, stile e prestazioni. Con l’attuale Pen E-P1 prende avvio una nuova generazione dell’era digitale, con profondi e convinti debiti di riconoscenza con la filosofia Pen del passato, ancora oggi attuale: quando sottolineiamo che il pentaprisma non è più un componente indispensabile per le configurazioni a obiettivi intercambiabili.

Così che, questa prima interpretazione Olympus Micro QuattroTerzi colpisce per le proprie dimensioni incredibilmente compatte, un affascinante stile rétro e una indispensabile facilità di uso, senza rinunciare alle prerogative di qualità proprie e caratteristiche delle reflex. Ultracompatta, la nuova Pen E-P1 può registrare anche video in qualità HD, con profondità di campo variabile e utilizzando gli Art Filter, che sono ormai una prerogativa di classe dell’offerta tecnica Olympus. Naturalmente, la Pen E-P1 propone e offre tutti i vantaggi della tecnologia imaging Olympus, come lo stabilizzatore di immagine incorporato e il sistema di protezione dalla polvere del sensore e, ancora, i luminosi obiettivi intercambiabili. La nuova Olympus Pen E-P1 è dotata di una varietà di funzioni creative, ereditate direttamente dall’E-System, che consentono di esplorare nuove possibilità creative ed espressive. Ispirata alla semi-professionale E-30, ha una scelta di sei Art Filter, che consentono nuove interpretazioni fotografiche. Per esempio, il filtro Pop Art rende più intensi e vivaci i colori della fotografia. Altri efficaci filtri creativi sono Pin Hole, Soft Focus, Pale & Light Colour, Light Tone e Grainy Film. Al solito, tutti gli Art Filter si possono applicare sia in fase di ripresa sia successivamente, sempre direttamente on-camera, dopo aver scattato. Altri effetti possono essere realizzati utilizzando la modalità Esposizione Multipla, che consente di sovrapporre più immagini grezze RAW in tempo reale, in ripresa oppure in editing.

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Tre nuove compatte individuano altrettante applicazioni fotografiche che superano standard da sempre accettati. È un discorso ampio, che qui non affrontiamo, limitandoci alla doverosa segnalazione in cronaca. A seguire, pensiamo e speriamo sul prossimo numero di ottobre, piuttosto che sul successivo di novembre (è più probabile: c’è tanto da analizzare), sono necessarie considerazioni più approfondite, che si allungano dalle compatte non professionali alle reflex di vario indirizzo. I tempi tecnologici attuali si rincorrono rapidi, non c’è più modo di aspettare l’appuntamento biennale della Photokina di Colonia. Tra una Fiera e la successiva, a metà tempo tra lo scorso autunno 2008 (affrontato e svolto nell’entusiasmante Alla Photokina e ritorno, di Maurizio Rebuzzini: condensato di spunti utili e proficui sia al comparto tecnico-commerciale sia al mondo della

SCATTA E SPLENDE. Ne siamo convinti. Al pari e in aggiunta ad altre brillanti variazioni di temi noti, anche l’innovativa Nikon Coolpix S1000pj contribuirà a rivoluzionare il mercato delle compatte: appena saranno evidenti i vantaggi di condividere e visualizzare fotografie e video con un proiettore personale integrato nella propria macchina fotografica. Questa è l’essenza dell’affascinante novità tecnica, come altre novità del momento, con prepotenti risvolti sociali e di costume, che superano il solo livello dell’applicazione fotografica originaria. In definitiva, e semplificazione, la Coolpix S1000pj permette di proiettare le fotografie appena acquisite, e memorizzate sulla sua scheda. Ovviamente, la presenza del proiettore all’interno del corpo macchina non è la sola caratteristica peculiare: la Nikon Coolpix S1000pj è dotata di un sensore da 12,1 Megapixel effettivi, dispone di un monitor LCD TFT da 2,7 pollici, consente di estendere la sensibilità fino a 6400 Iso equivalenti e offre l’esclusivo motore di elaborazione delle immagini Nikon Expeed. Zoom Nikkor

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fotografia espressiva e creativa) e il prossimo autunno 2010 (Photokina, da martedì ventuno a domenica ventisei settembre), dobbiamo fermarci a riflettere, a pensare a quanto si manifesta e rivela tra le pieghe e oltre le facciate a tutti evidenti. Al solito, non si tratta tanto di approvare o dissentire. No, come sempre, non è questo il problema, e neppure è un problema. Invece, si deve ragionare e analizzare con equilibrio. Una volta ancora, e una di più (tra l’indifferenza di un mercato italiano sempre più apatico e frequentato con scarsa cognizione di causa comune, ma visioni ristrette alle sole e proprie redditività di impresa, ammesse e non sempre concesse): riflessioni, osservazioni e commenti che si offrono e propongono come (in doverosa ripetizione) spunti utili e proficui sia al comparto tecnico-commerciale sia al mondo della fotografia espressiva e creativa. Va da sé. Oppure, no? A.Bor.

5x grandangolare ad escursione interna. (Nital, via Tabacchi 33, 10132 Torino).

FANNO DA SÉ. Dotate delle più recenti tecnologie ottiche, di imaging e di elaborazione Sony, le Cyber-shot TX1 (14,1mm di spessore) e WX1 realizzano immagini formalmente impeccabili anche in condizioni di scarsa luminosità: risoluzione di 10,2 Megapixel effettivi, con sensore proprietario Exmor R CMOS e processore Bionz; funzione di registrazione filmati in alta definizione; avvincente modalità Panoramica; stabilizzatore ottico SteadyShot; Face Detection e Smile Shutter; zoom Carl Zeiss 4x (Cyber-shot TX1) e touchscreen LCD Clear Photo Plus extra large da tre pollici; zoom ottico 5x f/2,4, da 24mm (Cyber-shot W1). E poi! Eccoci! E poi, eccoci, le due nuove Sony Cyber-shot TX1 e WX1 sono compatibili con l’IPT-DS1 Party-shot: un concetto totalmente nuovo nella fotografia non professionale, che riprende automaticamente fotografie di familiari e amici sorridenti. A feste, riunioni familiari o quando si celebrano momenti speciali della vita non è piacevole trovarsi bloccati dietro la macchina fotografica, esclusi dall’azione. Quindi, estensione dell’autoscatto di antica memoria, Party-shot realizza fotografie spontanee e in scioltezza di chiunque si trovi nella stanza. Accessorio opzionale, Partyshot si propone come “fotogra-

fo personale”, capace di scattare senza alcun altro intervento. Basta sistemare le Cyber-shot TX1 o Cyber-shot WX1 sulla base, il resto viene da sé: il PartyShot ruota e inclina la compatta e regola le impostazioni di zoom, mentre la funzioni Face Detection e Smile Shutter individuano i volti nella stanza, con il risultato di ottenere fotografie spontanee che riprendono i visi sorridenti di tutti i presenti. (Sony Italia, via Galileo Galilei 40, 20092 Cinisello Balsamo MI).

SOPRATTUTTO, IMPERMEABILE. Pentax Optio W80 è una compatta impermeabile, disegnata per fotografare senza problemi in immersione; è adatta alle basse temperature e dotata di un’eccezionale resistenza agli urti, per garantire un superiore livello di affidabilità anche nelle condizioni più impegnative. Con giunzioni esterne per una efficace tenuta stagna, la Pentax W80 migliora le prestazioni di ripresa in immersione fino a cinque metri, garantendo fino a due ore di funzionamento continuo. In aggiunta allo straordinario grado di impermeabilità IPX 8 (JIS classe 8), offre l’altrettanto notevole tenuta alla polvere IPX 6 (JIS

classe 6) e l’eccezionale capacità di funzionare anche a temperature di meno dieci gradi. In questo modo, è utilizzabile anche in attività esterne, in condizioni meteorologiche avverse. Può essere usata senza timori anche in altre situazioni, nelle quali l’acqua o lo sporco potrebbero suscitare preoccupazioni. Uno speciale materiale per smorzare le sollecitazioni è stato applicato nei punti nevralgici all’interno dell’involucro, mentre tutti i componenti sono stati riprogettati in funzione della rigidità e della durata. In questo modo, la compatta può sopportare una caduta dall’altezza di un metro, senza subire danni alla propria struttura, espandendo così la propria affidabilità in condizioni di ripresa critiche. L’escursione zoom 5x copre la variazione grandangolare-tele

da 28mm a 140mm (in equivalenza). Registrazione di filmati ad alta qualità con proporzioni HD (1280x720 pixel), con la fluidità dei trenta fotogrammi al secondo. La risoluzione del sensore di 12,1 Megapixel effettivi si abbina a un efficace motore di elaborazione delle immagini. (Fowa, via Tabacchi 29, 10132 Torino).


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DELAZIONE FOTOGRAFICA

A

Attribuito a diversi generi cinematografici, come azione, mistero, thriller, il film statunitense Senza via di scampo (No Way Out, di Roger Donaldson), del 1987, ha inscenato una straordinaria visione della fotografia giudiziaria, o criminale che si voglia. In ogni caso, e nel concreto, di una applicazione fortemente motivata della fotografia scientifica, in questo caso finalizzata alla ricostruzione di una traccia fotografica labile e impercettibile. Rispettosi della definizione di “thriller”, non affrontiamo la trama del film, quantomeno non ne riveliamo il finale, che ricuce assieme la vasta serie di equivoci, coincidenze e fatalità che compongono l’ossatura della brillante sceneggiatura. Soltanto, per approdare al retrogusto fotografico della vicenda, che è poi il nostro soggetto esplicito, sono necessarie alcune informazioni di fondo. Ingaggiato dal segretario alla Difesa David Brice (l’attore Gene Hackman), per una curiosa coincidenza del destino (?), una volta a Washington, l’ufficiale di Marina Tom Farrell (Kevin Costner) condivide con il suo principale l’amante Susan Atwell (Sean Young). Durante una lite, senza averne intenzione, David Brice la uccide. Invece di costituirsi alla polizia, si lascia convincere dal suo assistente Scott Pritchard (Will Patton) a inventare la figura di una fantomatica spia sovietica, ovviamente indicata con l’archetipo Jurij, anche assassina. Le indagini della polizia so-

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Qui, andiamo oltre le leggerezze che caratterizzano, definendoli, gli incontri fotografia-al-cinema, dei quali ci occupiamo con costanza e perseveranza. Oggi, non ci limitiamo alla presenza della fotografia al cinema, che in questo caso coinvolge sia la sceneggiatura sia la scenografia. A conclusione di tutto, annotiamo come e quanto la fotografia offra al Potere documenti ineccepibili per identificazione, classificazione e controllo.

no così deviate e depistate. Considerati i rapporti intimi tra il segretario della Difesa e la giovane morta, tutto avviene sotto la supervisione dei servizi segreti, controllati e manipolati da Scott Pritchard. Tra tanto materiale di indagine, ci si sofferma soprattutto sul ritrovamento di una matrice polaroid in camera da letto della ragazza assassinata. Sottosviluppata, ovverosia separata dal proprio positivo troppo in fretta, prima dell’esaurimento dei canonici sessanta secondi (meglio se abbondanti), la matrice presenta soltanto una labile traccia di immagine. Ma i potenti mezzi tecnologici del Pentagono hanno modo di ricostruire l’immagine che avrebbe dovuto essere, restituendole i propri toni ottimali e adeguati.

RITROSIA Prima di arrivare a questo, che prelude l’epilogo della controversa vicenda, il pubblico sa già chi appa-

Nel film Senza via di scampo, Susan Atwell (Sean Young) è l’amante sia del segretario alla Difesa David Brice (Gene Hackman) sia dell’ufficiale di Marina Tom Farrell (Kevin Costner). Il triangolo si acutizza quando la polizia indaga sul suo assassinio. L’indagine ha un punto di forza in una polaroid sottosviluppata. Susan fotografa con una Polaroid Colorpack. Tom si schernisce, fugge, alla fine è raggiunto e cede. A questo punto, toglie la Polaroid dalle mani di Susan, estrae la pellicola, attivandone così lo sviluppo, ma... malauguratamente separa il positivo troppo presto, tanto che si ottiene una fotografia completamente insoddisfacente, che viene gettata via, mentre la matrice scivola sotto il letto.

rirà nella fotografia ricostruita, perché la trama del film non è del tipo flashback, ma è lineare e consequenziale: inizio, svolgimento e fine in quest’ordine. Dunque, il pubblico sa che alla fine apparirà un ritratto del comandante Tom Farrell, perché ha seguìto la trama. Quella matrice polaroid è finita sotto il letto in una delle scene iniziali del film, e lì dimenticata, fino al ritrovamento da parte della polizia, nelle perquisizioni sulla scena del delitto. La polaroid in questione è stata scattata alla conclusione di un siparietto intimo tra i due amanti. Susan Atwell ha fotografato Tom


Farrell con una evidente Polaroid della serie Colorpack, per filmpack a strappo della famiglia 100/600. A dire il vero, ecco qui una di quelle sfumature che alla fine si cuciono insieme, Tom non ci tiene proprio ad essere fotografato, nonostante i due siano amorevolmente insieme all’epilogo di un lungo finesettimana romantico, con tanto di gita bucolica. Si schernisce, fugge, alla fine è raggiunto e cede [pagina accanto, in alto]. Però, ha un asso nella manica. Proprio non vuole essere fotografato (perché?): toglie la Polaroid dalle mani di Susan, estrae la pellicola, attivandone così lo sviluppo, ma... malauguratamente (?) separa il positivo troppo presto, tanto che si ottiene una fotografia completamente insoddisfacente, che viene gettata via, mentre la pallida matrice (altrove erroneamente identificata come “negativo”) scivola sotto il letto, come già annotato [pagina accanto, in basso].

L’eterea matrice polaroid sottosviluppata, che contiene ben poche informazioni, è una delle prove raccolte sulla scena del delitto sulle quali si accanisce l’indagine pilotata dall’ambiguo assistente del segretario alla Difesa Scott Pritchard (l’attore Will Patton). (a destra, in alto) Con l’alta tecnologia a disposizione del Pentagono, i servizi segreti programmano una ricostruzione della matrice polaroid sottosviluppata.

UNA PROVA: LA FOTOGRAFIA Questa eterea matrice, che contiene ben poche informazioni fotografiche, è una delle prove raccolte sulla scena del crimine sulle quali si accanisce l’indagine pilotata dall’ambiguo assistente del segretario alla Difesa, Scott Pritchard. Come abbiamo rivelato, viene gestita dai servizi segreti, che con l’alta tecnologia a disposizione del Pentagono ne programmano una ricostruzione al computer. È una lotta contro il tempo. Da parte sua, il comandante Tom Farrell agi-

(a destra, in basso) Alla fine, indipendentemente dall’epilogo del film, che non riveliamo, i computer completano il proprio lavoro, e sui monitor appare un inequivocabile ritratto del comandante Tom Farrell.

sce per dimostrare il coinvolgimento del segretario alla Difesa David Brice; ma, allo stesso momento, deve fare anche in modo che i computer che stanno rielaborando l’immagine rallentino la propria azione. Si appella all’amicizia con il capo del laboratorio di analisi Sam Hesselman (l’attore George Dzundza, per esigenze scenografiche su una sedia a rotelle), contrasta l’azione degli agenti segreti (con un siparietto che comprende anche la presenza della modella nera Iman, nei panni di Nina Beka, amica di Susan Atwell), ne fa di ogni, portando scompiglio all’interno dello stesso Pentagono. Alla fine, indipendentemente dall’epilogo del film, che non riveliamo, i computer completano il proprio lavoro, e sui monitor appare un inequivocabile ritratto del comandante Tom Farrell [qui sotto, a destra]. Concesse tutte le licenze delle quali ogni sceneggiatura cinematografica ha bisogno (è cinema, bellezza; la vita è altrove), tutta questa indagine tecnologia a sfondo fotografico è assolutamente affascinante e avvincente. In un certo modo, anche realistica, per quanto -riprendiamo- può esserlo il cinema. Volendolo annotare, è perfino inquietante, perché rivela come e quanto la fotografia offra al Potere documenti ineccepibili per identificazione, classificazione e controllo. È ancora il caso di ricordare come il fotoreportage abbia spesso involontariamente fornito materiali alle polizie di tutto il mondo (ne sappiamo abbastanza per gli anni Sessanta-Settanta italiani; abbiamo appena riferito di un caso iraniano del 1999, basato su una copertina di The Economist: in FOTOgraphia, dello scorso luglio). Del resto, per quanto ogni applicazione della fotografia si possa considerare inutile (in senso provocatorio), la sua concreta utilità si manifesta prepotente proprio nell’ambito del riconoscimento certo di volti e fisionomie. Tanto che possiamo considerare che due tra le applicazioni più utili della fotografia sono state proprio nei settori dell’antropologia e dei registri criminali. Un esempio eclatante è stata l’innovazione di Francis Galton della “fotografia composita”. Fondatore dell’ambigua e controversa scienza

eugenetica (spesso fraintesa e piegata a interpretazioni razziste), collezionava fotografie di criminali, mirando a trovare una relazione tra la loro tendenza, appunto criminale, e le caratteristiche facciali ereditarie. In tanti altri casi, a partire dall’aspetto fisico, si finalizza la fotografia alla determinazione di caratteristiche sociali essenziali. Dall’antropologia alla fotografia criminale, il passo è breve. Ancora più rapido, e inquietante, è il passo successivo, che approda al controllo di Potere. Così che, in conclusione, riallacciandoci ancora alla fotografia a sviluppo immediato, soggetto della sceneggiatura oggi richiamata, ricordiamo che Edwin H. Land, l’inventore, fondatore e presidente della Polaroid Corporation, si è sempre rifiutato di vendere le proprie pellicole al governo sudafricano, che usava le tessere polaroid per classificare i cittadini neri: un aiuto alla segregazione razziale che Land non ha mai voluto dare. Per quello che serve la nostra opinione, è a questa Fotografia che ci sentiamo più vicini e in comunità di intenti. M.R. Ricerca iconografica di Filippo Rebuzzini

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MARIO CRAVO NETO

(1995)

Mario Cravo Neto (9 aprile 2009)

(1997)

«Queste immagini racchiudono metà della mia vita, e pure la vita di altre persone, i miei figli, i miei genitori, vecchi amici e compagni con i quali ho danzato. Credo che d’ora in avanti queste intime fotografie danzeranno da sole»

WITH MIRROR

Dicevo, coloro che rimarranno -chissà quanti vorrebbero sapere se inclusi o ignorati nel mio albo d’oro-, e Mario Cravo Neto occuperà una

posizione di privilegio. Il nove agosto è andato ad abitare in quel mondo extrasensibile, a sessantadue anni, e mi rimane il rimpianto di non essermi mai recata a trovarlo nella sua casa di Bahia. Per me è imbarazzante scrivere ricordi di chi non c’è più, il pericolo è scivolare nell’abominevole patetico. Gran bevitore di whisky, sicuro di sé, e libero da ogni convenzione, scendeva alla prima colazione in un buon albergo di Londra, con infradito, pareo e maglietta. Avrebbe dormito ancora, si infilava in questo abbigliamento ultra casual per salutarmi al mattino. Ed era un uomo di una grandissima profondità di pensiero e cultura ed esperienza di vita. Tutto di lui traspare dalla sua opera, la calda umanità e il fascino dell’intelligenza. Basta. Guardate le sue immagini. Rimarrà nella storia, hic et nunc, è stata soltanto una breve parentesi del suo itinerario. Giuliana Scimé

LUKAS

Lampi gli uscìan dall’elmo e dallo scudo d’inestinguibil fiamma, al tremolìo simigliante del vivo astro d’autunno, che lavato nel mar splende più bello.

WITH BANDAGE

H

Tal mandava dal capo e dalle spalle divin foco l’eroe, quando la Diva lo sospinse nel mezzo ove più densa ferve la mischia.

rimane, per me, insuperata; il suono mi seduce, che non ritrovo in ottime traduzioni contemporanee, ma prive di pathos.

LUKAS

Ho una teoria, che potrò verificare solo quando da questo mondo sensibile mi ritroverò in un altro mondo ancora più sensibile: coloro che rimarranno nella storia della fotografia e coloro che non sopravvivranno alla legge della revisione. Ogni momento, epoca, celebra dei miti che saranno riveduti dalla generazione successiva. Il gusto, e mal gusto, condizionamenti sociali, mode, spinte commerciali e/o di opportunismo, mafie, lobby... determinano il successo, o il fallimento. Poi, arrivano gli altri, che non hanno più quegli interessi, puri o biechi che siano, e spazzano via ciò che è stato adorato, o confermano, revisionano, salvano. Vincenzo Monti celebratissimo al suo tempo, oggi non lo legge più nessuno, se non con raccapriccio. Ed era coevo di Ugo Foscolo e Giacomo Leopardi, che tanta fortuna non ebbero in vita. Eppure, la traduzione dell’Iliade (Ugo Foscolo lo tacciò di essere “il traduttor dei traduttori”)

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GERALDO, NECK II (1987) ODÈ (1989)

SACRIFICE VII (1989)

AKIRA (1992)

Mario Cravo Neto è rappresentato in Italia da PaciArte Contemporary, via Cattaneo 20b, 25121 Brescia; 030-2906352; www.paciarte.com, info@paciarte.com.

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MISTICI RACCONTI

L’

abbandono. È così affannoso, spesso un rifiuto, abbandonarsi a se stessi. Chiudere tutti i circuiti delle logiche connessioni e vivere quella parte, essenziale ed esistenziale, di noi che non conosce altre regole se non quella di guardarsi nel profondo. L’arte, vissuta in libertà di mente e spirito, qualsiasi arte, è il misterioso passaggio all’abbandono. È l’arte di Mario Cravo Neto, che sì è fotografia nella fisicità dell’oggetto, soprattutto è lucidità intellettuale nel saper far emergere l’universo del nostro sentire che ignoriamo, volutamente soffochiamo, e che è in noi. Carne, sangue e muscolo di un’altra natura inconcreta e terribilmente palpitante. Però, Cravo Neto deve compiere dei passaggi di conoscenza per svincolarsi e giungere alla lucidità intellettuale dell’opera compiuta. L’opera è come una lastra di cristallo purissimo che protegge verità ignorate. Si guarda attraverso i segni incisi sulla superficie e avviene la rivelazione. Le esperienze plasmano l’essere, se le sa accogliere e filtrare. Nato a Bahia, ama dire: «O baiano é uma família à parte do resto do Brasil» (La gente di Bahia è una famiglia a parte dal resto del Brasile). Infatti, Bahia è uno sposalizio felice di credi religiosi e filosofici che, l’artista, cerca di comunicare attraverso le sue immagini. Bahia, la città magica del sincretismo religioso, dove chiunque, a qualsiasi credo appartenga, sente l’influenza del Candomblé, e non si sottrae Mario Cravo Neto, anzi lo “studia” e trae quegli insegnamenti che lo arricchiscono. Il Candomblé è l’universo di credenze importate dagli schiavi africani. È una struttura religiosa come tutte le altre: liturgia, cerimonie, sacerdoti, santi protettori, gli “orixas”, e un dio supremo. Gli orixas, re e regine del lontanissimo passato, furono i progenitori dell’umanità e divennero semidei. Il loro compito è fondamentale, santi protettori e intermediari fra gli uomini e dio, governano tutte le attività e ogni manifestazione della natura. L’essenza della religione degli orixas è l’armonia fra gli esseri umani e gli elementi della natura. E Cravo Neto ricrea nelle sue opere questa armonia -tanto agognata e per la quale, in verità, ci si impegna assai poco- integrando personaggi ed oggetti in pulitissima sintesi di corrispondenze. I suoi personaggi sono semidei, di terrena palpabilità, che popolano il suo Pantheon privato, figure metaforiche che, tuttavia, al di là delle superficiali apparenze, rappresentano ognuno di noi. Inutili i lunghi viaggi per incontrare le immagini.

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Le immagini sono lì e dentro di noi: si incontrano, quando sappiamo riconoscere la corrispondenza, avviene il miracolo. Cravo Neto lavora con i soggetti e gli oggetti che gli stanno intorno, il vasto patrimonio dei sentimenti e delle esperienze. E proprio da un’esperienza sofferta nasce la sua fotografia, unica e inimitabile che rimarrà nella storia dell’arte del Ventunesimo secolo. Vittima di uno spaventoso incidente, è costretto all’immobilità per quasi un anno. Non può scolpire la sua prima formazione è di scultore come suo padre Mario Cravo, uno degli artisti più celebrati dell’arte contemporanea- né creare quelle installazioni che già lo segnalano fra le giovani promesse. Durante il periodo di studi trascorso a New York alla fine degli anni Sessanta, aveva condotto qualche ricerca con la fotografia giornalistica (la “street photography”, intraducibile nella nostra lingua, se non si vuole cadere in esilaranti trappole) e le installazioni urbane. Prima dell’incidente, aveva trovato il telone di un autocarro. Era rimasto attratto dalla natura della tela, offesa dall’usura del tempo, affascinato dai segni che l’usura aveva impresso sulla materia. Era visivamente interessante con una particolarità assai tattile. In quegli interminabili mesi costretto all’immobilità, si ricorda del vecchio telone. Il telone è lo sfondo, non neutro ed anonimo come si usa nella fotografia di ritratto anche dei grandi maestri, ma “vissuto” e “corrotto” dal tempo/esperienze, in un singolare studio improvvisato ai piedi del letto. Gli amici e i familiari posano per lui, per sollevarlo dalla noia e restituirgli almeno un poco della sua creatività avvilita. Fu davvero il caso? O vi era il misterico disegno che conduce ad una meta precisa, prestabilita dal fato? Una crudele casualità, che il destino ha voluto per scegliere un artista fra tutti che avrebbe intrapreso un cammino nell’arte per significare qualcosa di forte ed inconsueto. Da allora, Cravo Neto, “mette in scena” i suoi ritratti servendosi di oggetti diversi, per materializzare la profondità dei significati. Non semplici, sia pur bellissimi, ritratti, ma metafore di pensieri ed intimo sentire. Spesso mi chiedo se l’immaginazione è davvero separata dalla realtà. Ci viene insegnato fin dall’infanzia a riconoscere il mondo delle fiabe e dei sogni ad occhi aperti, che,

Autoritratto; febbraio 2009.

in verità, ci consola dagli inevitabili affanni della vita, e la realtà del quotidiano. Fortunati coloro che riescono a mediare la realtà attraverso l’immaginario, prerogative degli artisti che si sentono liberi di attraversare l’uno e l’altro limite nella danza della fantasia. Mario Cravo Neto possiede il dono della coscienza del territorio del reale che lo circonda e di interpretarlo e restituirlo in opera d’arte. Osservate un’immagine di Mario Cravo Neto e lasciate che la mente e l’anima si abbandonino in infiniti di quiete, scoprirete il misticismo vibrante che andate cercando. Il silenzio, fondo ed ipnotico che mette in vibrazione sottile le note del nostro sentire. Le eleganti forme di equilibrio ed armonia traducono intense spiritualità e sensualità, come nei capolavori degli artisti italiani del Rinascimento. Parallelo che può sembrare azzardato, ma quegli artisti erano animati anch’essi da una profondo sentimento religioso, malgrado esprimessero delle forti pulsioni sensuali. Complementari ed opposti elementi della natura umana. È un maestro raro nella sapienza delle luci che conferiscono alle sue opere profondità tridimensionali, ancora, simili ai bassorilievi rinascimentali - che ricordano la sua formazione alla scultura. È la luce che riscatta le figure dal fondo più oscuro della notte. La luce plasma le forme, accarezza le linee, le esalta e ne ammorbidisce la crudezza per compenetrale in morbido, tattile, velluto. E la poesia della bellezza, la naturale sensualità, fluiscono da segni di limpida purezza che penetrano come il canto insinuante della madre di tutti i misteri della vita. Giuliana Scimé (aprile 2009) Testo critico di presentazione della mostra Mystic tales, di Mario Cravo Neto, esposta alla galleria PaciArte Contemporary, fino al ventisette settembre. Con catalogo: 48 pagine 24x22cm, a cura di Giampaolo Paci.


Non è una compatta. Non è una reflex. E’ una PEN.

Nel 1959 la Olympus PEN ha rivoluzionato la fotografia. 50 anni dopo lo abbiamo fatto ancora una volta. La nuova Olympus PEN elimina il pentaprisma, ottenendo la potenza di una reflex con le dimensioni e la semplicità d’uso di una compatta. Un set di obiettivi intercambiabili ed un adattatore per gli obiettivi E-System aumenta la tua libertà creativa. Gli Art Filter, i diversi formati di ripresa e la possibilità di effettuare esposizioni multiple direttamente in ripresa rendono le tue foto uniche. Il video

HD ed il sonoro stereo ti permettono di realizzare filmati artistici che hanno la qualità d’immagine reflex. Puoi persino utilizzare gli Art Filter durante la registrazione dei filmati. Aggiungici 12,3 Megapixel, 3 fps, la stabilizzazione fino a 4 EV ed il Live View Autofocus che visualizza in real-time gli effetti che hai impostato e comincerai ad avere un’idea del potere creativo che hai nel palmo della mano. La nuova Olympus PEN: un’altra rivoluzione Olympus. www.olympus.it/pen


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LA MILANO DI LOI

Ideata da Bonaria Loi, figlia del grande pugile, mancato il 20 gennaio 2008, a settantotto anni, e Vito Liverani, titolare dell’Agenzia Omega Fotocronache, amico intimo che non ha accettato l’oblio attorno il suo nome e la sua figura di atleta, la mostra La Milano di Loi rende omaggio a una delle più clamorose figure dello sport italiano dei decenni scorsi, simbolo di un tempo e un’epoca dai connotati forti e decisi. Allestita alla Fabbrica del Vapore, spazio pubblico di consistente spessore, l’esposizione accompagna, allineandosi, i Campionati del Mondo di Pugilato, in cartellone al Forum di Assago, alle porte della città (dal Primo al dodici settembre). Ancora, la mostra rende omaggio alle iniziative di Milano Capitale Europea dello Sport. Quindi, per una curiosa coincidenza (una di quelle che rivelano che la vita possa avere anche senso), il suo allestimento rievoca la Storia, richiamando la ricorrenza del Primo settembre, anniversario dell’epico titolo mondiale dei pesi Welter leggeri, che Duilio Loi conquistò allo Stadio di San Siro, nel 1960, strappandolo al portoricano Carlos Ortiz, al culmine di quindici combattute riprese. Alcune fonti parlano di cinquantatremila spettatori, altre di sessantunomila; tutte concordano sul dato dell’incasso record di oltre cento milioni di lire (dell’epoca); e l’ufficialità registra la data come l’apice della carriera pugilistica del triestino Duilio Loi, all’alba dei suoi trentuno anni. Duilio Loi: forse il più grande pugile italiano di tutti i tempi; dal 4 gennaio 2005, nella Boxing Hall of Fame, di Canastota, New York, Stati Uniti, accanto i grandi del ring di tutti i tempi e tutto il mondo. La Milano di Loi propone ingrandimenti di fotografie che Vito Liverani realizzò in veste di fotografo, sia a bordo ring, sia in momenti privati della vita dell’atleta, al quale è sempre rimasto vicino nei decenni. A questo proposito, è doveroso rilevare che lo stesso Vito Liverani vanta una parabola pugilistica, antecedente il suo approdo alla fotografia,

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soprattutto di sport. E così, potendolo fare, il titolo dell’attuale mostra guadagnerebbe richiami sociali e di costume, se e quando si potesse rievocare, per l’appunto, la Milano dell’immediato dopoguerra, della quale faceva parte “tirare di box”: come rievocano anche, se non già soprattutto, i racconti e romanzi di Giovanni Testori, da La Gilda del Mac Mahon a Il ponte della Ghisolfa, a Il fabbricone, a Il dio di Roserio. Tutte storie di periferia, di piccole-grandi vite segnate dal tempo, accompagnate dai riti degli anni Cinquanta e Sessanta: le palestre di pugilato, tra questi. Allo stesso momento, il nostro punto privilegiato di osservazione non può non sottolineare i tratti identificativi di un fotogiornalismo di sport ai

Milano, Primo settembre 1960. L’epico titolo mondiale NBA pesi Welter leggeri, che Duilio Loi ha conquistato ai danni di Carlos Ortiz, allo Stadio di San Siro, davanti a sessantunomila spettatori (oppure cinquantatremila).

propri albori, fatto di pochi elementi tecnici -una Rolleiflex con flash a lampadina-, tanto pionierismo -il rullo portato a sviluppare dopo le prime pose, per poter raggiungere la “chiusura” dei quotidiani-, e altrettanta originalità. Ovverosia, diciamolo chiaramente, parliamo di un fotogiornalismo di sport antecedente la televisione, che tanto/tutto doveva raccontare, senza perdersi, come accade oggi, in altra epoca, altro mondo, nei leziosismi della spettacolarità asettica del gesto atletico. Oltre l’impellenza assolta nei primi istanti della gara, incontro di box piuttosto che partita di calcio, le dodici pose della Rolleiflex dovevano bastare al racconto dell’avvenimento. Quindi, soddisfatti gli stereotipi previsti, per ogni sport i propri, entro le do-


dici pose doveva esserci l’immagine eccezionale, simbolica e definitiva. Quella che in un colpo solo racconta tutto, senza lasciare dubbi. Diavolo!, altri tempi. Non soltanto passati, addirittura indescrivibili a coloro i quali conoscono soltanto i connotati e ingredienti della fotografia dei nostri giorni. Nessuna contrapposizione -non sia mai-, ma la capacità di ricordare, per capire. Il resto, conta poco. A.G.

Posa ufficiale di Duilio Loi, ad uso promozionale: con autografo.

La Milano di Duilio Loi. Fotografie di Vito Liverani. Da una idea di Bonaria Loi e Vito Liverani. Fabbrica del Vapore, Sala delle Colonne, via Procaccini 4, 20154 Milano. Dal 17 settembre al 10 ottobre; lunedì-sabato 15,00-19,30, domenica 11,00-19,30; giovedì 15,00-22,30. In combinazione, nella stessa sede, dal Primo al 13 settembre: Milano sale sul ring: fuori i secondi!, rassegna cinematografica a sfondo pugilistico.


CONTROTENDENZA? iStockphoto (in Italia http://italiano.istockphoto.com/buy-stock-photos.php), l’agenzia di fotografie lowcost di proprietà di Getty Images, ha annunciato l’apertura di Vetta, una compagna parallela, che ha lo scopo di vendere immagini a un prezzo che va da venti a settanta crediti, invece che da uno a ventisette crediti del listino attuale di iStock. Il “credito” è la valuta di iStock: il suo valore non è fisso; per esempio, in Italia (che è un po’ più cara degli Stati Uniti), se acquisti a consumo, un credito vale 0,85 euro, mentre se fai un abbonamento per grandi acquisti, con minimo garantito, il valore scende 0,23 euro. Per cominciare, le immagini in archivio di Vetta saranno trentacinquemila. Che sia un segnale che le agenzie non ce la fanno a vendere le fotografie a prezzi troppo bassi? Forse no. Acquistata tre anni fa da Getty, per cinquanta milioni di dollari, iStock ha avuto ricavi in continua crescita: ventidue milioni di dollari nel 2006, settantadue nel 2007 e le proiezioni hanno annunciato centoventidue milioni per il 2009. E si vanta di pagare settimanalmente un milione e duecentomila dollari di compensi ai suoi fotografi.

Questa rubrica riporta notizie che sono appartenute alla cronaca. Però, nel loro richiamo e riferimento molti motivi ci impediscono di essere tempestivi quanto la cronaca richiederebbe. Ciononostante riteniamo giusto proporle, perché siamo convinti che non abbiano perso la propria attualità, e continuino a offrire spunti di riflessione. Una immagine dal servizio Ruins of the Second Gilded Age, commissionato al fotografo Edgar Martins dal New York Times, ritirata dal sito quando sono stati smascherati interventi correttivi allo scatto originario. Sul suo sito web, il New York Times ha commentato la cancellazione della fotostoria Ruins of the Second Gilded Age, ribadendo di non accettare alcun intervento correttivo, seppure innocente, alle immagini fotogiornalistiche.

È MORTO NORMAN SNYDER.

BANCAROTTA PER ANNIE LEIBOVITZ? Circolano notizie inquietanti sullo stato finanziario della famosa fotografa americana. Gawker, una delle più performanti “on line media company” (www.gawker.com), ha recentemente annunciato che, pressata dalle richieste dei suoi creditori, Annie Leibovitz è stata costretta a ipotecare tutto il suo archivio, per quindici milioni di dollari [qui sotto]. B2Pro NY, fornitore di materiale fotografico, ha citato congiuntamente la fotografa e Vanity Fair per centottantanovemila dollari di fatture non pagate. Un noleggiatore di sistemi di

The Photography Catalog, del 1976, è il celebre prontuario di Norman Snyder, mancato lo scorso ventotto maggio.

Sul sito www.gawker.com, l’annuncio delle precarie condizioni finanziarie di Annie Leibovitz, che deve rispondere di molti debiti accumulati negli ultimi tempi.

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illuminazione asserisce di essere in credito di trecentonovantunomila dollari (duecentoventunomila dei quali di affitto, cinquemila per materiale danneggiato, e centosessantacinquemila perché la fotografa non ha raggiunto il fatturato per il quale si era impegnata, in base alle cui previsioni aveva usufruito di condizioni economiche particolari). La stilista Nicoletta Santoro, che aveva confezionato abiti speciali per una ripresa della quale sono stati protagonisti gli attori Marc Anthony e Jennifer Lopez (oggi divorziati), realizzata per Disney Parks, afferma di essere in credito per centonovemila dollari. L’elenco è lungo. Secondo Gawker, pare che un creditore abbia chiesto che venga aperta una procedura di fallimento contro Annie Leibovitz. Raggiunto telefonicamente da Gawker, il suo avvocato ha recitato la formula di rito: «Non posso né confermare, né smentire queste notizie».

Noto soprattutto per essere l’autore di un celebre libro pubblicato nel 1976, The Photography Catalog [a sinistra], via di mezzo tra un prontuario di suggerimenti pratici per i fotografi (validi ancora oggi) e manuale di consigli per gli acquisti, il ventotto maggio scorso è morto a New York Norman Snyder. Art director della collana dei bellissimi libri di Time Life, in seguito, negli anni Sessanta, Norman Snyder passò al mondo del commercio fotografico, per diventare, infine, a metà degli anni Ottanta, accordatore e restauratore di pianoforti. Ancora nel 1989, a tredici anni dalla sua pubblicazione, il New York Times presentava The Photography Catalog come uno dei più importanti riferimenti tecnico-commerciali per la fotografia.

ALTRE FOTOGRAFIE MANIPOLATE. La Gilded Age rappresenta quel periodo della storia americana seguìto alla guerra civile tra Nord e

Sud, nella quale i super ricchi dell’epoca, i Vanderbilt, Rockefeller e Morgan esibirono le proprie ricchezze attraverso un’architettura vanagloriosa e appariscente (www.gildedage.net). La Second Gilded Age si riferisce a un fenomeno simile, che si sta manifestando all’inizio del Terzo millennio: i nuovi ricchi di oggi, che non appartengono più al mondo industriale ma a quello finanziario, hanno iniziato una campagna di costruzioni faraoniche, che si è arrestata soltanto di recente, a causa della grande crisi economico-finanziaria in atto. Sul suo sito web, il New York Times ha pubblicato una fotostoria dedicata a questa interruzione, Ruins of the Second Gilded Age, commissionata al fotografo Edgar Martins, portoghese di nascita (www.edgarmartins.com) [in alto]. Ma, improvvisamente, ha cancellato immagini e notizia dal sito, dopo che un blogger, Adam Gurno, ha segnalato al quotidiano che, secondo lui, le fotografie pubblicate erano state alterate digitalmente (doctored, in inglese). Invece, nella sua introduzione alle immagini, il fotografo aveva dichiarato che tutto era stato ottenuto senza interventi con Photoshop. Il servizio era già stato pubblicato anche dal Magazine del New York Times, supplemento domenicale al quotidiano. Una volta smascherato, il fotografo si è giustificato sostenendo che era intervenuto solo per pure ragioni estetiche. Ma la direzione del giornale ha stabilito che nessun intervento, anche se innocente, è accettabile quando si tratta di fotogiornalismo [ancora, in alto].


A questo proposito, Citizenside, un’agenzia fotografica che distribuisce immagini scattate dai cosiddetti citizen journalist (www.citizenside. com), avrebbe messo a punto un programma che permette di verificare immediatamente se ci sono stati interventi su una fotografia digitale: se ciò fosse vero, non si potrebbe auspicare che ogni medium ne faccia uso? E se invece non fosse vero, una casa produttrice di software non potrebbe realizzarne uno? Tutti vivremmo sonni più tranquilli.

ANCORA IRAN. Una coppia di fotografie gira su Twitter, uno dei siti più famosi del web [qui sopra]. Nell’immagine di sinistra, una coraggiosa dimostrante mostra il dito medio al presidente neorieletto Mahmoud Ahmadinejad, nell’altra lo fronteggia e basta, forse in avversione forse in simpatia. Non siamo sicuri dell’autenticità, né della prima né della seconda fotografia, che secondo chi l’ha trasmessa sarebbe stata manipolata dal regime, eliminando il dito medio rivolto verso l’alto dalla mano della dimostrante. E può essere vero l’esatto contrario: fotografia legittima a desta, manipolata a sinistra. Ma proprio perché è lecito pensare che, nella cultura iraniana, il dito medio verso l’alto non abbia lo stesso significato che ha nel mondo occidentale, e che quindi non sia usato come insulto, molto probabilmente la coppia di fotografie dovrebbe essere comunque falsa.

INTEGRAZIONE. In un paese come l’Italia, che tutti accusano di essere senza memoria, cerchiamo di mantenerne un poco, anche se a scoppio ritardato. Infatti, le annotazioni che sto per riferire avrebbero dovuto aggiungersi al commento Cosce al vento? (sulle prime pagine di Repubblica), riportato sullo scorso numero di luglio, nel quale

si sono riferite anche opinioni del giornalista Carlo Rossella, più che schierato, coinvolto addirittura. Torniamo indietro di sei anni, al 15 luglio 2003, quando, per la copertina del numero 20 di Panorama, del quale era allora direttore, Carlo Rossella aggiunse una abbondante capigliatura sulla testa calva di Silvio Berlusconi, ripreso di spalle durante un’udienza presso il Tribunale di Milano. Doverosamente, Franco Abruzzo, a quell’epoca presidente dell’Ordine dei Giornalisti di Milano (a proposito, ha compiuto i suoi primi settant’anni il tre agosto scorso: auguri Franco!), avvia una istruttoria sulla vicenda. Il Consiglio dell’Ordine (all’unanimità) archivia il procedimento ritenendo di non dover sanzionare Carlo Rossella per la sua piaggeria verso il suo editore-presidente. «La piaggeria non è un illecito disciplinare -rileva l’Ordine-, anche se è qualcosa di peggio sul piano morale individuale». Negli Stati Uniti, spesso soggetto di scherno e biasimo -anche culturale, sempre politico-, al pari di molte altre testate periodiche, il New York Times ha stabilito che nessun intervento, anche se innocente, è accettabile quando si tratta di fotogiornalismo [pagina accanto]. Ci sarebbe di che imparare, sempre sapendo superare i propri preconcetti.

Sesso a buon mercato, dalle copertine di mensili un tempo insospettabili: Airone, di luglio ( La scienza dice... tradire fa bene), e Focus, di agosto ( Ecco come fare il sesso sereno).

Coppia di fotografie, che gira su Twitter, uno dei siti più famosi del web. Non siamo sicuri dell’autenticità, né della prima né della seconda fotografia, probabilmente entrambe sono false, ovverosia manipolate.

MA CE L’HANNO PROPRIO LÌ! Vedo la copertina del numero di luglio di Airone (diretto da Andrea Biavardi) e quella di agosto di Focus (diretto da Sandro Boeri). Ma cosa hanno sempre in mente gli uomini (certi uomini)? Andrea Biavardi dedica la storia di copertina alla importante notizia La scienza dice... tradire fa bene, illustrata con una fotografia stile parrucchieri anni Cinquanta [a destra, in alto]. Ancora con una fotografia che sempre cinquant’anni fa avrebbe eccitato al parossismo migliaia di teenager, Stefano Boeri strilla in copertina: Ecco come fare il sesso sereno [ancora, a destra, in alto]. Ma, andiamo... Capisco Andrea Biavardi, la cui visione del mondo trapela dalle pagine di un altro mensile che dirige, For Men, una rivista per uomini (soli), ma Sandro Boeri, che abbiamo apprezzato in

Due delle immagini che mostrano un devastante processo di riscaldamento globale occultate dall’ex presidente americano George W. Bush.

anni e anni di intelligente direzione a Focus... non è triste cercare di vendere copie col sesso? E sarà poi vero che i giovani ai quali si rivolge Focus comperino qualche copia in più con e per storie di questo tipo? D’altra parte, viviamo in un paese di escort e presidenti del consiglio che raccontano la terribile barzelletta «La D’Addario ha detto che non sono un santo, e che però scopo come un dio». Quindi tutto è possibile.

CHI NASCONDE UNA FOTOGRAFIA È UN VIGLIACCO O UNA SPIA. In certe occasioni, si dice ancora così; forse solo negli oratori di paese, per un atto diverso da quello di nascondere fotografie. E questo antico proverbio, o modo di dire, calza bene alla condanna dell’operato dell’ex presidente George “dabliu” Bush, che per più di un lustro ha nascosto agli americani e al mondo fotografie che mostrano un devastante processo di riscaldamento globale, delle quali era in possesso [qui sotto]. Queste immagini sono state rese pubbliche dal nuovo presidente Barack Obama. Altro che vigliaccheria o spionaggio: questo occultamento rappresenta un crimine contro l’umanità, non certo l’unico di quelli commessi da Bush nei suoi otto anni di duplice presidenza.

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STRANA (E TRISTE) COINCIDENZA. Il giorno successivo all’uscita in edicola del numero 31 del settimanale Chi (direttore Alfonso Signorini), il photo editor e vicedirettore della rivista, Paola Bergna, è stato “tagliato”. La decisione è improvvisa, e avviene in modi sgarbati e non condivisibili. Dopo essere stata per anni direttore de facto di Chi, grazie al suo lavoro sulla scelta delle fotografie, vero motivo di acquisto dei settimanali rosa da parte del pubblico, e magari anche un pochino complice di qualche marchetta in favore di Silvio Berlusconi (come quella del servizio su Noemi Letizia e sul suo falso fidanzato), il ventinove luglio, Paola Bergna viene affrontata a muso duro dal direttore del personale giornalistico, Pierdomenico Bertolotti, che le comunica il licenziamento. Dopodiché, fonti bene informate ci raccontano che viene accompagnata nel suo ufficio da due uscieri, che hanno il compito di controllarla mentre raccoglie le sue cose in due scatole di cartone simili a quelle dei fired (licenziati) statunitensi che spesso vediamo al cinema. Non è singolare che questo evento, assolutamente inaspettato, si verifichi in concomitanza alla pubblicazione dello scoop sul flirt George Clooney - Elisabetta Canalis (che per qualcuno potrebbe anche essere l’unico argomento di conversazione

dell’estate)? Appena il settimanale esce in edicola, il sito di Repubblica (www.repubblica.it) comincia a sollevare dubbi sull’autenticità delle fotografie. Nell’immagine di copertina [a sinistra, in basso] sembra proprio esserci qualcosa che non va: pur essendo molto vicini, i volti dei personaggi sembrano appartenere a due piani di fuoco diversi. Il braccio che compare in primo piano (e che dovrebbe essere di Elisabetta Canalis) sarebbe anatomicamente troppo lungo, per essere arrivato fin lì. Inoltre, la mano (certamente di George Clooney) sembra sbucare dalla cassa toracica della showgirl. La fotografia sarebbe stata scattata con il cellulare, da Emanuele Malenotti, amico di George Clooney. Ma, misteriosamente, dal suo computer l’immagine finisce nelle mani di un fotografo non identificabile dell’agenzia Olycom; e poi, da Olycom a Chi. Ora, pare che gli avvocati di Emanuele Malenotti abbiano chiesto a Olycom la restituzione della fotografia. Nel frattempo, il Corriere della Sera pubblica un’altra fotografia di George Clooney e Elisabetta Canalis, su una motocicletta; e un sito web mostra un’altra istantanea da telefonino, scattata da una signora non meglio identificata, che ha colto i due “innamorati” all’uscita di un ristorante [a sinistra, in basso]. Sul fatto che questa fotografia sia stata scattata da un telefonino avrei dei dubbi: la scena appare illuminata da un colpo di flash troppo potente, per venire da un cellulare. Dunque, vedete: fotografie, fotografie, fotografie. Senza fotografie, le notizie (soprattutto di cronaca rosa) non esistono e, talvolta, fanno fatica a esistere anche con fotografie taroccate. Ma questo scoop, o finto scoop, sarà collegato con la vicenda di Paola Bergna? Ah, saperlo, saperlo...

GAMMA, ADDIO? Dopo aver verificato una perdita di tre milioni di euro nel 2008, e di altri tre milioni nei primi sei mesi del 2009, il trentuno luglio scorso, il tribunale di Parigi ha messo l’agenzia fotografica Gamma in amministrazione controllata per sei mesi. Dunque, per il momento e contrariamente a molte note stam-

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Françoise Demulder, dell’agenzia Gamma, prima donna a vincere il World Press Photo: nel 1976, con questa fotografia di profughi palestinesi in un campo di quarantena, a Beirut, in Libano.

Dubbi sullo scoop di Chi: pur vicini, i volti dei personaggi sembrano appartenere a due piani di fuoco diversi. Il braccio che compare in primo piano (e che dovrebbe essere di Elisabetta Canalis) sarebbe anatomicamente troppo lungo, per essere arrivato fin lì. Inoltre, la mano (certamente di George Clooney) sembra sbucare dalla cassa toracica della showgirl. Dal web, una istantanea da telefonino altrettanto dubbia.

pa, la sua chiusura sembra rinviata. Gamma, che con Sygma e Sipa ha contribuito a far diventare Parigi capitale mondiale del fotogiornalismo, a partire dagli anni Settanta, è stata fondata nel 1966 da Raymond Depardon e Gilles Caron: premio Pulitzer nel 1977, il primo (che lascerà Gamma nel 1978, per associarsi a Magnum Photos, della quale diventa effettivo nel 1979); reporter di guerra, il secondo, scomparso in Cambogia nel 1970 e autore della fotografia di Daniel Cohn-Bendit che sorride beffardo davanti a un poliziotto, forse l’immagine più celebre del Maggio francese. Tra gli altri, cito due nomi di prestigio, che nascono professionalmente a Gamma: Hubert Henrotte (fondatore di Sygma, nel 1973) e Françoise Demulder, la prima donna a vincere il World Press Photo of the Year, nel 1976 [qui sopra]. Come per tante altre storie di agenzie fotografiche, la via crucis di Gamma comincia lontano, con l’avvento delle tecnologie digitali. Nel 1999, viene acquistata dal gruppo Hachette Filipacchi Media (proprietaria, tra tanto, di Elle, Photo, American Photo), e viene ceduta al gruppo Green Recovery, specializzato nella acquisizione di aziende in crisi. Oggi, Gamma è stata rinominata Eyedea Presse, e comprende le proprietà anche dei marchi di altre mitiche agenzie fotografiche, come Rapho (che rappresentava Robert Doisneau), Hoa-Qui e Jacana (punto di riferimento per la fotografia naturalistica negli anni Ottanta). Attualmente, Gamma non dispone più neppure del suo archivio, che è stato acquistato anni fa dalla agenzia Corbis. A cura di Lello Piazza



FAUSTO COPPI (1919)

OMEGA FOTOCRONACHE

N

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Niente di che. Niente da aggiungere alla figura di Fausto Coppi, una delle leggende della mia vita, della quale ho sentito raccontare le gesta mentre mi affacciavo alla Vita (sono nato nel luglio 1951). Un flash lancinante, nei primi giorni del 1960, in un tempo nel quale potevo leggere i giornali che portava a casa un vicino, tipografo dove si stampavano il quotidiano milanese del pomeriggio La Notte e il settimanale Guerin Sportivo, allora in forma di quotidiano. La ricordo ancora, la notizia della morte prematura di Fausto Coppi, il due gennaio, sconfitto dalla malaria contratta in Africa. Successivamente, mi sono ap-

passionato per le imprese di Jacques Anquetil. Ma Fausto Coppi è altro, è molto di più. Lo evoco qui, nel novantesimo dalla nascita (Castellania, sui colli della provincia di Alessandria; 15 settembre 1919). Con l’occasione, richiamo due celebri espressioni che hanno definito le sue gesta sportive. La prima è quella del radiocronista Mario Ferretti, amico di gioventù di Coppi (coincidenza affascinante), curiosamente rientrato nella redazione sportiva della Radio in occasione del Giro d’Italia 1949, giusto in tempo per assistere a una delle più grandi imprese della storia del ciclismo: l’epica tappa Cuneo-Pinerolo, del dieci giu-

È così che ricordo Fausto Coppi. In scalata solitaria, in questo caso al Tour de France, su strade impervie, con un’eleganza mai eguagliata.

gno, nella quale Fausto Coppi scalò in solitudine la Maddalena, il Vars, l’Izoard, il Monginevro e il Sestriere, arrivando al traguardo di Pinerolo con quasi dodici minuti di vantaggio su Gino Bartali. Quel giorno, anche Mario Ferretti entrò nella storia, esclamando, all’apertura del collegamento radiofonico, la celebre frase: «Un uomo solo è al comando, la sua maglia è bianco-celeste, il suo nome è Fausto Coppi». Quindi, celebro il saluto di Orio Vergani dalle pagine della Gazzetta dello Sport: «Il grande airone ha chiuso le ali». Parole straordinarie. Parole da leggenda. M.R.



LA GIURIA (SUE STEWARD FOTOGRAFA BRUCE DAVIDSON). FOTOGRAFIA DI LELLO PIAZZA (SONY a900, FISHEYE 16mm f/2,8)

LA PAROLA

erzo appuntamento con i giurati del prestigioso e autorevole Sony World Photography Award 2009. Con le attuali tre interviste conclusive, salgono a nove i personaggi incontrati, le cui opinioni fotografiche sono state distribuite su altrettanti tre numeri consecutivi di FOTOgraphia. A giugno, sono state pubblicate le interviste a Grazia Neri, fondatrice dell’omonima agenzia, che alla fine dello scorso anno, dopo oltre quarant’anni di guida, ha lasciato il passo al figlio Michele, per dedicarsi a iniziative svincolate da impegni contingenti con il mercato [FOTOgraphia, febbraio 2009], Mary-Ellen Mark, fotogiornalista statunitense, una delle personalità mitiche della storia americana della fotografia, e Bruce Davidson, pure fotografo statunitense di alta statura (Magnum Photos). A luglio, è stata la volta di tre inglesi: Philippe Garner, responsabile della fotografia della casa d’aste Christie’s; Zelda Cheatle, gallerista; e Mark George, ag-ente di fotografi (rep agent: più specificamente, agente di fotografi per la pubblicità). Ora, la conclusione dell’appagante percorso. Stiamo per incontrare Sue Steward, critica e photo editor, e Adrian Evans, direttore di Panos Pictures, dalla giuria Photojournalism and Documentary. E poi, alla fine di tutto, ospitiamo le opinioni di Astrid Merget, direttrice del Sony World Photography Award.

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Sue Steward

(Giuria Sony World Photography Award 2009 / Photojournalism and Documentary) Ciao Sue. Ti avevo sempre pensata più come critico, che come giornalista. Ma vedo che presiedi la giuria del fotogiornalismo. Come presidente, mi sarei aspettato un fotogiornalista, non un critico... «La mia figura professionale è un po’ un casino. Sono giornalista, svolgo il mestiere di critico, non solo di fotografia, ma anche di musica, discuto di fotografia in radio per la BBC, ho lavorato per riviste e quotidiani come photo editor...». Bene. Allora raccontaci un poco della tua esperienza professionale. «Ho cominciato come photo editor e redattore di testi in una casa editrice. Ho lavorato anche molto sulla musica, e mi sono occupata di storia naturale, redazionando i lavori di David Attenborough. Poi, sono passata ai periodici, e sono stata photo editor di Time Out, per il quale scrivevo anche articoli. Quindi, ho lavorato molti anni al Sunday Times Magazine, in tempi nei quali c’era molto rispetto per il fotoreportage. «In quegli anni, lavoravo anche per l’agenzia Network, curando l’editing dei servizi che i fotografi portavano dal lavoro


AI GIURATI/3 Terza e ultima puntata delle interviste raccolte da Lello Piazza in occasione delle sessioni giudicatrici del prestigioso e autorevole Sony World Photography Award 2009, del quale abbiamo riferito in cronaca lo scorso maggio. In successione, a giugno e luglio, abbiamo già incontrato Grazia Neri, Mary-Ellen Mark, Bruce Davidson, Philippe Garner, Zelda Cheatle e Mark George. A conclusione del lungo e appagante viaggio, oggi è la volta di Sue Steward, critica e photo editor, e Adrian Evans, direttore di Panos Pictures, dalla giuria Photojournalism and Documentary del Sony World Photography Award 2009. Alla fine, e in conclusione, incontriamo Astrid Merget, direttrice del Sony World Photography Award. Tutto questo, ribadiamolo una volta ancora, mai una di troppo, a integrazione e complemento del Premio, che ha già sottolineato vicende complementari, parallele e trasversali, ulteriori punti di vista autorevoli, che aggiungo altro. Tanto altro

sul campo. Questo mi è stato molto utile per imparare a capire quali fossero le fotografie più importanti di un servizio. È stata una grande esperienza. «Quindi, come vedi, vengo dal reportage e dalla fotografia documentaria. Anche se poi mi sono indirizzata altrimenti, mi è rimasto un grandissimo interesse per la fotografia, soprattutto per il linguaggio espressivo del bianconero. È stato molto intrigante seguire la strada che la fotografia documentaria ha percorso verso la Fine Art, sia in termini di composizione, sia in termini di scelte estetiche. «Negli anni Ottanta, ho lavorato per la BBC, come produttore televisivo, seguendo documentari, e ancora avevo un secondo lavoro e scrivevo di Fine Art Photography. «Contemporaneamente, non ho mai smesso di interessarmi di musica, così che ho curato e tenuto molti programmi radiofonici di musica, appunto, e fotografia. Personalmente, trovo che musica e fotografia siano strettamente connesse». Allora, la mia domanda diventa: quando dici critico fotografico, cosa intendi? «Bene. Scrivo recensioni per il London Evening Standard. «Il mio sguardo critico dipende dal giornale per il quale scrivo. Per esempio, se scrivo per un quotidiano di Londra, The Standard, allora il mio lavoro consiste nel parlare di tutte, ma proprio tutte, le mostre fotografiche che si svolgono in città. «Ma forse tu vuoi sapere come faccio a scegliere il taglio critico con il quale affronto i vari argomenti, non è vero?». Sì, anche. «Come ogni critico, affronto questo lavoro in base a diversi punti di vista. Ho convinzioni politiche radicate, in un certo senso sono femminista, e queste opinioni talvolta guidano le mie considerazioni, specialmente se sto giudicando un lavoro di fotoreportage, o comunque di qualcosa che abbia una valenza storica e sociale. Ovviamente, possiedo anche convinzioni estetiche altrettanto profonde, e non mi sottraggo mai dal valutare anche elementi forma-

li e di linguaggio, come la luce, la composizione, l’esposizione. «I miei gusti? Siccome provengo da un’esperienza nata con la fotografia documentaria, amo soprattutto il bianconero di interpretazione classica. Ma non mi dispiace l’astratto. E non sono chiusa a niente. «Il fatto che sia una donna, probabilmente fa sì che il mio interesse si concentri sugli elementi narrativi della fotografia, e sulle relazioni suggerite o rivelate dall’immagine». Attualmente, i critici italiani si indirizzano più sui modi e sulla evoluzione del linguaggio fotografico, che non sulle implicazioni sociali. «Come sai, ogni fotografia rende possibile diversi livelli di analisi. Io non sono un accademico, e dunque non scriverò, né mi esprimerò mai come un accademico. Se ragionassi come un accademico, la mia reazione istintiva davanti a una fotografia sarebbe sicuramente diversa. «Inoltre, le mie recensioni sono di circa duemila battute [molto meno di una colonna di testo di FOTOgraphia]. È come scrivere un haiku giapponese. Devo condensare quello che mi passa per la testa in tre o quattro punti cruciali: è un compito arduo». È molto difficile approfondire in poche parole. Per esempio, Christian Caujolle ha una collaborazione con un settimanale italiano, Internazionale, e scrive articoli molto corti. Secondo me, difficilmente si riesce a essere interessanti in così poco spazio. «Sì. In effetti è molto frustrante. Secondo me, dovrei disporre di almeno quattromila battute, o addirittura di più. Ma ormai scrivo le mie recensioni da quattro anni, e mi sono abituata. «Lunghezze dei testi a parte, questo impegno mi costa molto tempo e mi assorbe moltissime energie». Anche Pascal diceva: «Ti scrivo una lettera lunga, perché non ho tempo di scrivertene una corta». Torniamo al Concorso: sei soddisfatta di quello che hai visto, e per il quale hai giudicato?

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Adrian Evans (Giuria Sony World Photography Award 2009 / Photojournalism and Documentary) Adrian, la prima domanda è proprio standard, e tocca una questione molto usurata. Avete giudicato il fotogiornalismo: come fate a essere sicuri che quello che è passato sotto i vostri occhi non fosse stato lavorato con Photoshop?

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SUE STEWARD E ADRIAN EVANS. FOTOGRAFIA DI LELLO PIAZZA (SONY a900, FISHEYE 16mm f/2,8)

«Nel fotogiornalismo che abbiamo esaminato sono incluse le categorie di Sport, Arte e Tempo Libero, Cronaca e Temi di attualità. Lo Sport e l’Arte sono stati i settori più deboli: questo ci ha un po’ sorpresi. Comunque, per evitare uno scadimento qualitativo compromettente, abbiamo limitato le prime a quattro nominativi, e non dieci, come nelle altre sezioni. Così, abbiamo isolato quattro vincitori potenziali veramente eccellenti. «Per tutti noi giurati è cruciale raggiungere e mantenere uno standard molto elevato, sia per il prestigio del Concorso, sia perché coloro che parteciperanno alla prossima edizione si rendano conto con quali alti standard debbono incontrarsi, e per quale qualità fotografica impegnarsi. «Nello Sport, è stato facile individuare il vincitore: ai Giochi Olimpici di Pechino, della scorsa estate, il canadese Julian Abram Wainwright ha realizzato una straordinaria serie di truffatori, isolati su fondo scuro. La fotografia vincitrice è una soltanto [FOTOgraphia, maggio 2009]; e poi abbiamo saputo che questa stessa serie fotografica è arrivata terza nella categoria Sport Action Stories, del World Press Photo 2009. «Un’altra considerazione: sebbene il mondo dello sport sia pieno di colore, i primi tre classificati nel nostro Concorso hanno scattato in bianconero. «Questo non riguarda soltanto lo Sport. Anche i primi tre classificati nella categoria Current Affairs si sono affermati con reportage in bianconero [e su questa forte presenza di bianconero tra i vincitori nelle categorie del Sony World Photography Award, edizione 2009 come anche 2008 di esordio, abbiamo riflettuto nell’ambito delle nostre note di commento, rispettivamente pubblicate in FOTOgraphia del giugno 2008 e maggio 2009]. «Per fortuna, nell’attualità abbiamo due premiati con fotografie a colori: questo eviterà che si dica che il bianconero è lo stile più indicato per la fotografia giornalistica. Io sono convinta che il colore sia un elemento vitale per questo genere di fotografia».

«Dipende da cosa intendi per manipolazione: se si tratta semplicemente di un intervento di bilanciamento delle luci, saturando o desaturando i toni e cromatismi della fotografia, allora credo che questo sia assolutamente accettabile. D’altra parte, non mi è sembrato di vedere in nessun caso situazioni false, create con Photoshop, magari combinando tra loro più immagini. «Oggi è consuetudine di ogni fotografo intervenire sull’esposizione e sui cromatismi, in fase di postproduzione. Questo lo accetto, perché l’espressività della fotografia dipende anche dalla sua forma, dal suo aspetto; l’attualità dei software è paragonabile a quanto si è sempre fatto in camera oscura». Tu dirigi un’agenzia, e credo che il tuo lavoro debba essere più quello di vendere, che non quello di promuovere i servizi migliori. Perché oggi il mercato non chiede i servizi migliori. Quindi, secondo me, tu dovresti trovarti in una situazione schizofrenica: da una parte premi le storie migliori, dall’altra non riesci a venderle. Com’è la storia? «Da una parte, come agente, mi occupo di vendere le storie che il mercato richiede e che in un particolare momento soddisfano meglio le esigenze dell’editoria periodica. Queste storie non sono necessariamente le migliori. «Invece, il ruolo di giudice è completamente diverso. Tolgo il cappello di colui che vende, e indosso quello di chi può scegliere ciò che preferisce. «Ma in realtà, questo è proprio ciò che faccio tutti i giorni: qualsiasi siano le richieste del mercato, io cerco sempre di promuovere i lavori che preferisco. Certo, talvolta mi capita di spingere qualcosa che poi non viene pubblicato. Ma questo non mi impedisce certo di continuare a cercare di promuovere la qualità». A proposito di storie di grande qualità, ho sentito che stai raccogliendo fondi per una grande esposizione. Mi puoi dire qualcosa al proposito? «Sto cercando di mettere insieme un’importante mostra sui cambiamenti climatici, perché su questo tema c’è un grande interesse da parte del pubblico. «Se consideri il movimento ambientalista dalle sue origini, quarant’anni fa, ti accorgi che per tutto questo tempo le immagini che sono state usate per la comunicazione non hanno mai cambiato, diciamo, “stile”. Invece, e al contrario, le tematiche affrontate dal movimento si sono trasformate molto, non tanto nei contenuti, quanto nel modo di affrontare il problemi. Ma le immagini non riflettono questi cambiamenti. «Perciò, mi sembra di scorgere una certa assuefazione da parte del pubblico. Finora, si è parlato di assuefazione rispetto ai problemi delle carestie e delle guerre dell’Africa. Ma penso che ci sia una preoccupante assuefazione anche sui temi ambientali: continuiamo a vedere ghiacciai che si ritirano, orsi polari “naufragati” su un iceberg, la foresta amazzonica che brucia, eccetera, eccetera. «Apparentemente, questo tipo di immagini non impatta più sulla gente. È lo stesso fenomeno che critichiamo nel fotogiornalismo. Anche in questo Concorso, nelle sezioni di mia competenza, cioè Cronaca e Temi di attualità, si è riscontrata una grandissima predominanza di immagini riguardanti il sud del mondo, a scapito di una altrettanto grandissima scarsità di immagini del mondo occidentale, dell’Europa e dell’America. Succede così in quasi tutti i concorsi. Lo stesso capita per i temi ambientali. «Nella grande mostra che ho in mente, vorrei realizzare questo: far vedere non solo quello che succede in Bangladesh, ma anche quello che succede qui da noi. Vorrei far capire al pub-


blico che quello che succede in Bangladesh è strettamente connesso con quello che sta succedendo e succederà a tutti noi. E che il disastro ambientale non è qualcosa che si sta verificando su un altro pianeta, ma qui, proprio qui da noi».

Astrid Merget (direttrice del Sony World Photography Award ) State organizzando questo Concorso da due anni. È un progetto ambizioso, che -nei vostri piani- intende proiettarlo tra i più importanti del mondo. Che tipo di difficoltà incontrate nel gestire un tale progetto, lanciato molto in avanti? «Oh, gosh [accidenti]. Questa è una domanda alla quale non è facile rispondere, perché gli aspetti coinvolti nell’organizzazione del Premio sono molteplici: fare in modo che ci arrivino concorrenti di qualità da ogni parte del mondo, comporre la giuria, impostare le regole che devono seguire i giurati nel giudicare, preparare l’evento a Cannes, confrontarci con gli altri concorsi...». A mio giudizio, la difficoltà più grande dovrebbe essere quella di far conoscere un Concorso così giovane. Quindi, vorrei che mi parlassi di questo. Poi, mi sembra performante la scelta delle categorie. Vedo con molto piacere che ne avete dedicata una espressamente alla natura, spesso ignorata dagli altri concorsi. Mi sembra una scelta molto intelligente, soprattutto oggi. Invece, penso che trovare buoni giudici sia la cosa più facile. «Va bene. Sinceramente, il problema della comunicazione, cioè di farci conoscere, non mi spaventa. Abbiamo il concorso, The Sony World Photography Awards, il festival a Cannes, una rivista online, una galleria dove esporre le fotografie, un programma internazionale con borse di studio per gli studenti, una mostra circolante in diverse città del mondo. Ancora, abbiamo una Accademia, cioè una associazione che ha lo scopo di co-

involgere i rappresentanti del più ampio spettro di industrie che operano nel mondo della fotografia. Oltre a molti fotografi famosi, ovviamente. «E abbiamo anche titolari di agenzie fotografiche, e fondazioni, come l’Australian Foundation of Professional Photographers e la Photographic Society, di Singapore. «Ovviamente, tutta questa gente ci aiuta nella comunicazione. Non siamo ancora conosciutissimi, ma siamo solo alla seconda edizione; e sono convinta che anche i partecipanti a queste due prime competizioni contribuiscono a farci conoscere. Secondo noi, c’è una grande richiesta del mercato per manifestazioni e iniziative di questo genere». Cosa mi dici a proposito delle categorie che avete indicato (diverse da quelle dell’anno scorso)? «Penso che quello che ci caratterizza sia proprio l’ampia scelta delle categorie. Naturalmente, il nostro riferimento è rappresentato dai settori nei quali opera il mondo professionale. Cioè, cerchiamo di arrivare alle applicazioni nelle quali la fotografia professionale desidera essere giudicata. Probabilmente, nella prima edizione 2008, le categorie non definivano o identificavano con precisione gli ambiti ai quali i partecipanti dovevano attenersi [e l’abbiamo cordialmente annotato nella nostra relazione giornalistica, in FOTOgraphia del giugno 2008]. «Quest’anno abbiamo stilato regole più precise, almeno per i professionisti; mentre abbiamo lasciato regole meno rigide per i non professionisti. «Comunque, il nostro scopo non è quello di essere diversi dagli altri, di proporre categorie che gli altri non hanno, come per esempio il World Press Photo. Non vogliamo creare qualcosa che non esiste, così come non vogliamo entrare in competizione con gli altri concorsi, come i Lucie Awards [FOTOgraphia, ottobre 2008]. Penso che ci sia spazio per tutti, e che tutti i concorsi fotografici possano tranquillamente convivere e coesistere». Ho visto che c’è una categoria speciale, nella cui giu-

SONY WORLD PHOTOGRAPHY AWARDS 2009, IN SINTESI odici categorie professionali, analoghe scomposizioni della fotografia non proDzionifessionale, con unico vincitore assoluto: Iris d’Or 2009. Oltre le manifestadi complemento, è questa l’essenza dei premi del Sony World Photography Award 2009. In sintesi, i vincitori di categoria e i finalisti nelle categorie professionali (secondo e terzo posto).

pilak (Repubblica Slovacca), Angelika Sher (Israele). ❯ Portraiture: Roderik Henderson (Olanda), Martin Bogren (Svezia), Hans

de Vries (Olanda). ❯ Natural History: Lisa Maree Williams (Australia), Steve Morenos (Austra-

lia), Yannick Dixon (Inghilterra). ❯ Landscape: David Zimmerman (Usa), Edgar Martins (Inghilterra), Yvon-

Photojournalism and Documentary ❯ Current Affairs: Wojciech Grzedzinski (Polonia), Dominic Nahr (Francia), Hui Min Kuang (Cina). ❯ Sport: Julian Abram Wainwright (Canada), Salvi Danés Vernedas (Spagna), Li Fan (Cina). ❯ Contemporary Issues: Giulio Di Sturco (Italia), Kosuke Okahara (Giappone), Massimo Mastrorillo (Italia). ❯ Arts and Entertainment: Amit Madheshiya (India), Chiara Goia (Italia), Ohm Phanphiroj (Thailandia). Commercial ❯ Advertising: Dustin Humphrey (Usa), Peter Franck (Germania), Dylan Collard (Inghilterra). ❯ Fashion: Piotr Fajfer (Polonia) [copertina di FOTOgraphia, maggio 2009], Jessica Hilltout (Belgio), Takaki Hashimoto (Giappone). ❯ Music: Amiran White (Inghilterra), Gordon Welters (Germania), Elen Miroshkina (Russia). Fine Art ❯ Conceptual and Constructed: Tamany Baker (Inghilterra), Branislav Kro-

ne Seidel (Germania). ❯ Architecture: Michael van den Bogaard (Germania), Joel Micah Miller

(Germania), Daichi Ano (Giappone). Iris d’Or 2009 allo statunitense David Zimmerman, primo nella categoria del Paesaggio, nell’ambito della fotografia professionale Fine Art. A seguire, o in simultanea, otto categorie della fotografia non professionale, con unico vincitore assoluto: Vincent Foong, da Singapore, primo nella categoria Natural History. ❯ Photojournalism and Documentary / Sport: Lorenz Holder (Germania). ❯ Commercial / Fashion: Christo Stankulov (Francia). ❯ Commercial / Music: Kushal Gangopadhyay (India). ❯ Fine Art / Portraiture: Claire Martin (Australia). ❯ Fine Art / Conceptual and Constructed: Vladimir Melnik (Russia). ❯ Fine Art / Natural History: Vincent Foong (Singapore). ❯ Fine Art / Landscape: Giuseppe Parisi (Italia). ❯ Fine Art / Architecture: David Watts (Inghilterra).

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f/2,8)

ASTRID MERGET. FOTOGRAFIA DI LELLO PIAZZA (SONY a900, FISHEYE 16mm

ria c’è il direttore di Greenpeace. «Sì, è quella dedicata all’ambiente. La nostra World Photography Awards Association giudica importante affrontare ogni anno un tema specifico, di rilievo sociale, sul quale attiriamo l’attenzione del pubblico, attraverso la fotografia. Al tema scelto, colleghiamo un premio speciale. «La nostra strategia consiste nell’associarci a enti che si occupano di promuovere nel mondo intero il tema individuato. Ovviamente, questo ci consente di perfezionare la comunicazione. Non solo la nostra, perché con il Concorso mettiamo a disposizione dell’ente fotografie che lo aiutano nella sua comunicazione. «Quest’anno abbiamo individuato l’ambiente, e ci siamo collegati al Prince’s Rainforest Project, nel quale è coinvolto in prima persona il principe Carlo. Con questo ente, abbiamo istituito una speciale borsa di studio, con lo scopo di finanziare un fotografo che giri il mondo per sei mesi a documentare lo stato dell’arte delle foreste pluviali. Le fotografie scattate durante questi sei mesi saranno esposte alla prossima conferenza mondiale sul protocollo di Kyoto, che si terrà a Copenhagen. «Il prossimo anno (2010), vorremmo indirizzarci a guerra e pace. Ma nel nostro Concorso non ci dimenticheremo certo dell’ambiente, che continuerà ad esprimere una propria categoria; e il prossimo premio speciale sarà dedicato alla guerra e la pace». Come riuscite a gestire, nello stesso Concorso, professionisti e non professionisti? «Penso che sia importante dare ai non professionisti e ai professionisti le medesime possibilità di successo. Ci sono molti non professionisti che sono ottimi fotografi; alcuni, persino e addirittura più bravi di certi professionisti. «Sono avvocati, medici, impiegati, operai che coltivano una grande passione per la fotografia, e a noi sta molto a cuore coinvolgerli. «Comunque, tornando al Concorso, noi puntiamo a un livello di partecipazione molto alto. Ma non cerchiamo concorrenti come Mary-Ellen Mark o Bruce Davidson. Quelli che noi vorremmo veramente coinvolgere sono professionisti bravi e sconosciuti, o poco conosciuti, per dare loro un’opportunità e aiutarli nella loro carriera. «Allo stesso modo, ci interessa la comunità dei non professionisti. Ma, soprattutto, ci interessano gli studenti, di fotogra-

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fia e non: loro rappresentano la generazione del futuro, ed è fondamentale riuscire a coinvolgerli in un progetto che riguarda la loro passione, cioè la fotografia». Quanti partecipanti avete avuto nella categoria dedicata ai non professionisti? «Quest’anno circa quarantamila immagini. In preselezione, ha giudicato il personale della agenzia Eye Stock Photo. Hanno esaminato il materiale e scelto i primi dieci di ogni categoria. A questo punto, per il giudizio finale, sono intervenute le giurie del Concorso, in sessione plenaria». Un’ultima domanda: non succede spesso che una multinazionale, Sony nel nostro caso, sostenga un concorso che coinvolge direttamente il suo marchio. Qual è il suo interesse in tutto questo? «Sony si è appena lanciata in un nuovo settore industriale, quello della produzione di reflex, obiettivi e tutto l’indotto di accessori collegati. In concomitanza al lancio di questo evento, alla fine del 2007, Sony ha presentato la nuova reflex a700. Dunque, un concorso di prestigio, organizzato da una compagnia specializzata come la nostra, è lo strumento ideale per dare credibilità al loro prodotto. Il ritorno stampa e la credibilità, per l’appunto, che Sony ha ottenuto da questo Concorso è enorme, soprattutto presso i fotografi più importanti. «L’approccio di Sony è stato molto intelligente: non hanno affatto preteso che i partecipanti alla nostra Accademia e al nostro Concorso utilizzino i loro prodotti fotografici. Ovviamente, hanno un interesse commerciale in tutto questo, e sperano che le giovani generazioni siano spinte, dalla qualità del Concorso, a indirizzarsi verso reflex Sony, nel momento in cui ne dovranno acquistare una. Quindi, credo che hanno fatto la scelta giusta. Almeno questa è la mia convinzione». Grazie Astrid, e buona fortuna a tutti voi. Interviste di Lello Piazza La parola ai giurati / 3 - Fine. Nella prima puntata, pubblicata a giugno: Grazia Neri, Mary-Ellen Mark e Bruce Davidson. Nella seconda puntata, pubblicata a luglio: Philippe Garner, Zelda Cheatle e Mark George.



C’È TANTO DA Mostra da non perdere: assolutamente! Allestita nelle prestigiose e autorevoli sale del Mart, di Rovereto (Museo di Arte Moderna e Contemporanea di Trento e Rovereto), che simultaneamente offre altre esposizioni temporanee, oltre la collezione permanente, l’avvincente Immaginare New York è una delle selezioni fotografiche più affascinanti tra quante realizzate negli ultimi anni, e a portata di mano, quantomeno nazionale. Considerazioni a tema, osservazioni complementari e note a margine. Al solito, e come sempre

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appa intermedia del passaggio europeo della selezione di fotografie di New York, allestita con stampe (vintage) dal capace archivio del Museum of Modern Art, il celeberrimo MoMA, capostipite di tutti i musei d’arte moderna del mondo, Immaginare New York è in cartellone a Rovereto, fino al prossimo undici ottobre. In precedenza, la mostra è stata presentata a Madrid, a La Casa Encendida; quindi, a cavallo dell’anno, sarà a Dublino, all’Irish Museum of Modern Art. Come dire, e diciamolo pure, che questa straordinaria proposta fotografica, che stiamo per commentare, passa da un museo d’arte al successivo. A Rovereto, è allestita nelle autorevoli e prestigiose sale del Mart, Museo di Arte Moderna e Contemporanea di Trento e Rovereto. Per mille ragioni, tutte intuibili, qualcuna non condivisibile, per equilibri locali, Immaginare New York è stata presentata come parte integrante (o soltanto collaterale?) del programma estivo di RoveretoImmagini 2009. Personalmente, anche a fronte della sincera amicizia personale che ci lega agli organizzatori della manifestazione, non siamo affatto d’accordo: le due strade non sono convergenti, e neppure coincidenti. Infatti, le intenzioni dei programmi fotografici temporali, quale è l’ottima RoveretoImmagini e qualsiasi questi siano, non possono incontrarsi con quanto spazia, muovendosi altrove e altrimenti.

Immaginare New York. Fotografie dalla collezione del MoMA; a cura di Sarah Hermanson Meister; 5 Continents Editions, 2009 (via Cosimo del Fante 13, 20122 Milano; 02-33603276; www.fivecontinentseditions.com, info@fivecontinentseditions); 152 pagine 22,9x25,4cm, cartonato con sovraccoperta; 35,00 euro. In copertina: Lee Friedlander: New York City, 1980.

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A IMMAGINARE Tutte le opere esposte nella mostra Immaginare New York, al Mart - Museo di Arte Moderna e Contemporanea di Trento e Rovereto, fino al prossimo undici ottobre, appartengono alla collezione del Museum of Modern Art (MoMA), di New York. Se non indicato diversamente, sono stampe alla gelatina d’argento. Ovviamente, lo stesso dicasi per la selezione rappresentativa della mostra, illustrata in queste pagine.

Fotografo sconosciuto: Il Ponte di Brooklyn; 1914 circa (19,4x24,3cm; Collezione The New York Times).

FORSE TUTTO Avremmo potuto quantificare “con quanto vola più in alto”, ma non sarebbe stato giusto, perché non si tratta tanto di scale gerarchiche -no-, quanto di proiezioni, mire e disegni assolutamente e diversamente indirizzati: a ciascuno, il proprio. Così che, alla resa dei conti, nell’ipotetico confronto con Immaginare New York, tutt’altra storia fotografica, RoveretoImmagini 2009 non ha potuto dare adeguato peso e spessore a ciò che ha composto la sua anima autentica: una osservazione a trecentosessanta gradi sulla fotografia contemporanea, da autori internazionali (sopra tutti, il fantastico Weegee Portfolio) a esperienze nazionali, tutte degne di massima attenzione. L’avvincente e seducente Immaginare New York non c’entra con tutta quest’altra fotografia quotidiana. È qualcosa che vive da sé: si indirizza verso la Storia della fotografia e richiede considerazioni proprie. Fino all’undici ottobre c’è ancora

modo e maniera per andare al Mart, di Rovereto. Chi ha tempo, non aspetti tempo.

NEW YORK, PER L’APPUNTO Realizzata da Sarah Hermanson Meister, curatrice associata del Dipartimento di Fotografia del Museum of Modern Art, diretto da Peter Galassi, come già rilevato, Immaginare New York è una compendiosa selezione di fotografie della città, riprese dal capace archivio del MoMA. Tanto che, annotiamolo subito, il suo allestimento presenta una eterogeneità di cornici, dimensioni e supporti, che rivelano come ogni fotografia provenga da personali e/o collettive precedenti, come ogni copia stampata sia fedele al proprio tempo e spirito originario. In totale, centoquarantuno visioni svolgono il tema prefisso, attraversando sia la Storia, sia i generi e le interpretazioni fotografiche. Del resto, va

Alfred Stieglitz: Città dell’ambizione; 1910 (fotoincisione, 34x26,1cm; Acquisto).

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Lewis W. Hine: Saldatori sull’Empire State Building; 1930 circa (27x34,6cm; Committee on Photography Fund).

Berenice Abbott: New York di notte; 1932 (32,7x26,9cm; Acquisto).

rilevato, New York è una città unica al mondo, una città senza eguali. Per quanto non si possano stabilire parametri certi e inequivocabili della sua unicità, perché per ogni ambito c’è qualcosa di più e meglio (o peggio), in altri luoghi della Terra, l’idea di New York non ha eguali, e nel corso dei decenni ha sollecitato una fotografia altrettanto unica. A questo proposito, si potrebbero menzionare e ricordare decine, se non già centinaia, di monografie d’autore, magari a partire dall’epocale New York, di William Klein, del 1956 (per esteso, Life is Good & Good for You in New York ) [una certa bibliografia ragionata è riportata qui sotto]. Oppure, altrettante collettive, per le quali valga ricordare soltanto e soprattutto la recente New York. Capital of Photography, volume-catalogo dell’omonima selezione curata da

FOTOGENICA NYC olendolo fare, una segnalazione bibliografica ragionata su New York potrebbe da sola le pagine di una rivista, anche di questa. Tra titoli e volumi di caVrattereesaurire più commerciale e turistico e autentiche perle di reportage e documentazione sociale, i titoli si sprecano: molti libri sono robaccia, sono da buttare; altri -identificabili e identificati- sono invece preziosi; qualcuno è addirittura fondamentale. Senza fare torto a nessuno, riprendiamo ancora, e subito, l’unica citazione che riferiamo anche nel corpo centrale dell’attuale intervento redazionale. È obbligatoria la menzione dello straordinario New York, di William Klein (titolo completo Life is Good & Good for You in New York), che nel 1956 cambiò il ritmo e il senso del modo di fare reportage: ne abbiamo scritto in occasione della riproposizione dell’edizione libraria New York 1954.55, curata da un pool di editori europei, tra i quali l’italiano Peliti Associati (FOTOgraphia, febbraio 1997). Allo stesso modo, non si possono, né vogliono, dimenticare altre memorabili documentazioni e straordinari reportage, e altrettanto indimenticabili omaggi cinematografici (sopra tutti, il delicato e poetico Manhattan, di Woody Allen, che comunque canta e decanta New York in ogni suo film). Obbligatoriamente: New York, di Reinhart Wolf, del 1980 (riedizione Taschen Verlag, del 2002; FOTOgraphia, settembre 2008); New York Vertical, di Horst Hamann, del 1996

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(edizione originaria 22x50cm, accompagnata da una tiratura speciale di novantanove copie numerate e firmate e da un portfolio di otto immagini 30x60cm; edizioni successive in formato ridotto 16x33 e 10x25cm; FOTOgraphia, dicembre 2001); Naked City, di Weegee, del 1945, straordinaria e cinica cronaca nera della città (FOTOgraphia, settembre 2008); Changing New York, di Berenice Abbott (ripubblicato nel 1997, a cura del Museum of the City of New York, che ha ordinato e riproposto le fotografie scattate nella seconda metà degli anni Trenta nell’ambito del WPA Project municipale), e sua rivisitazione New York Changing - Revisiting Berenice Abbott’s New York, di Douglas Levere, del 2004 (FOTOgraphia, luglio 2005); e poi New York - 100th Street, di Bruce Davidson, pubblicato dall’autorevole mensile svizzero Du, nel marzo 1969, e raccolto in volume (di prestigio) da St. Ann’s Press, nel 2003. Prima di essere impaginata in volumi a tema, New York è comunque fotogenica per se stessa. Addirittura, la sua geografia è endemica nella mente di tutti noi, cresciuti ed educati anche con la letteratura statunitense moderna (John Dos Passos e dintorni) e con il cinema contemporaneo. Tanto è vero che è lecito pensare e affermare che, come sono solito dire (io, mRebuzzini), «La prima volta che sono stato a New York... c’ero già stato».


© 2009 BERENICE ABBOTT / COMMERCE GRAPHICS LTD, NEW YORK (2)

Berenice Abbott: Exchange Place, New York; 1933 (23,6x6,3cm; Donazione anonima).

Max Kozloff, per il Jewish Museum, di Manhattan, dove è stata esposta nel 2002, prima di partire per un tour internazionale (al Musée de l’Élisée, di Losanna, in Svizzera, nella primavera 2003). La differenza tra ogni altra raffigurazione della città e del suo spirito e l’attuale Immaginare New York è presto rivelata: dipende sia dalla consistenza dell’archivio storico del MoMA, che attraversa ogni epoca della fotografia, sia dall’intelligenza applicata della curatrice Sarah Hermanson Meister, che ha agito senza condizionamenti culturali prevenuti. Così che ne consegue un tragitto ben scandito e ottimamente cadenzato, nel quale non si è avuto timore di accostare, quando e se necessario, la più colta e raffinata ricerca estetica con la cruda e diretta cronaca quotidiana. C’è tutto, proprio tutto, e di tutto. Menzionando sopra gli altri autori dei quali ci siamo già occupati su queste pagine: dal pittorialismo di fine Ottocento, con Alfred Stieglitz e Gertrude Käsebier, e dalla coeva fotografia umanista di Jacob A. Riis e Lewis W. Hine,

Edizioni internazionali del volume-catalogo della mostra Immaginare New York. ❯ Life of the City: New York Photographs from The Museum of Modern Art; The Museum of Modern Art, New York, 2007; 64 pagine 18,4x22,9cm; 19,95 dollari. ❯ Picturing New York: Photographs from The Museum of Modern Art; The Museum of Modern Art, New York, 2009; 152 pagine 22,9x25,4cm, cartonato con sovraccoperta; 39,95 dollari.

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PER LA STRADA

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sperienze diverse (!). Forse complementari (?). Sicuramente newyorkesi (!). Tre fenomenologie analoghe, tanto da poter essere accostate tra loro. A margine di Immaginare New York, segnaliamo anche questo filo conduttore complementare, che allinea tre ricerche fotografiche raccolte in altrettanti volumi: 1000 on 42nd Street, di Neil Selkirk (PowerHouse Books, 1999; 320 pagine 17,9x23,2cm), I Shot New York, di Ralph Ginzburg (A News Photographer’s Chronicle of 365 Days In the World’s Most Photogenic Metropolis; Harry N. Abrams, 1999; 404 pagine 25,3x20,3cm), e One, di Ken Ohara (Taschen Verlag, 1997; 496 pagine 21,7x26,8cm). Ciascuno per sé e tutti insieme, i tre autori hanno puntualizzato uno degli aspetti più caratteristici di New York. I loro superitratti (uno dei quali in forma di cronaca cittadina, giorno per giorno) svelano il clamoroso anonimato di una carrellata di facce che può essere addirittura infinita... senza soluzione di continuità. Come abbiamo approfondito nella primavera-estate 1999, accendendo le luci su una nostra interpretazione personale, mutuata da quanto già espresso dal mensile Photo 13, all’alba degli anni Settanta, un superitratto non è semplicemente una raffigurazione più complicata e pasticciata del normale, ma identifi-

ca un’immagine che, mettendo in gioco diversi livelli di interpretazione, si moltiplica in personalità formali allo stesso tempo uguali e diverse. Quindi, per il superitratto -identificazione sovrastante e non concretamente palpabile- è assolutamente fondamentale una robusta idea ispiratrice. È proprio questo genere di idea, libera da ogni complicazione superflua, che si incontra sfogliando -è il caso di dirlo: sfogliando- le pagine delle straordinarie monografie One, di Ken Ohara, e 1000 on 42nd Street, di Neil Selkirk: carrellata infinita di facce, centinaia di primissimi piani in sequenza (per One) e mille ritratti frontali, raccolti tra i passanti, sulla Quarantaduesima strada (per 1000 on 42nd Street). In ogni caso, senza soluzione di continuità: due occhi, un naso, una bocca, ogni scatto un volto. Una persona diversa, ma identica alle altre; esemplari dello stesso genere umano, che annulla le differenze sotto un unico elenco di caratteri. Anche questa, è New York. Lo stesso possiamo affermare, in definitiva, anche per I Shot New York: altra forma di casellario, una fotografia per ogni giorno dell’anno, il 1998, che non può essere che newyorkese, di una città dove accade tutto e di più.

13 novembre: il Camera Van di Harrod Blank.

ARCHIVIO FOTOGRAPHIA (3)

24 ottobre: i cinquant’anni delle Nazioni Unite.

Ricerca iconografica di Ciro Rebuzzini

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Weegee (Arthur Fellig): Coney Island; 1939 circa (26,2x34,8cm; Donazione anonima).

Lisette Model: Times Square; 1940 (39,6x49,7cm; Donazione della fotografa).

originariamente svolta con intenzioni sociali e visive diverse, all’epopea degli anni Trenta, in piena Depressione nazionale, con l’esplosione degli arditi grattacieli di Manhattan. Dallo sguardo sapiente di Walker Evans, Berenice Abbott e Paul Strand ai per-

sonaggi dell’arte, sport e spettacolo. Dagli sguardi esterni, come è quello di Henri Cartier-Bresson, a quelli complici e partecipi di Weegee e Lisette Model. Dalla sala di posa di Irving Penn alle strade di Aaron Siskind. Dall’osservazione della gente di He-

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Ted Croner: Taxi - New York - Notte; 1947-48 (39,7x39,4cm; The Family of Man Fund).

Vivian Cherry: Harlem, New York City; 1952 (31x26cm; The Family of Man Fund).

len Levitt e Gary Winogrand all’analisi clinica (e cinica?) di Robert Frank e Lee Friedlander. Dal sorvolo leggero di Dorothea Lange e Andreas Feininger alla cruda cronaca per i quotidiani (sport, nera e rosa). Dall’interpretazione di Joel Meyerowitz e Diane Arbus, ovviamente tanto diversi tra loro, all’invenzione contemporanea di Cindy Sherman. Dall’attenzione di Merry Alpern al rigore di Abelardo Morell.

IMMAGINARE, È OVVIO Allo stesso momento, New York è viva, reale e palpitante in ciascuna delle centoquarantuno fotografie di questa selezione, così come, con considerazione identica, ma segno algebrico opposto, è da scoprire nelle

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© 2009 TED CRONER ESTATE, COURTESY HOWARD GREENBERG GALLERY, NEW YORK

Henri Cartier-Bresson: Vicino alla Hall of Records, New York; 1947 (stampata nel 1968, 38,9x57,9cm; Donazione del fotografo).

stesse immagini. Ancora, ogni fotografia basta da sé, allo stesso modo nel quale compone la tessera indispensabile di un avvincente mosaico complessivo. Insomma, Immaginare New York è una autentica mostra di fotografia, organizzata come ne vorremmo vedere tante altre. Tra l’alto, il titolo italiano è adeguatamente indovinato. Sicuramente è più affascinante, e vicino al vero, del troppo generico e banalotto Picturing New York, adottato altrove (con relativo volumecatalogo omonimo, pubblicato dallo stesso MoMA; a pagina 37). E, soprattutto, traduce bene ed efficace-


arebbe sbagliato, e non soltanto impreciso, ufficializzare -come è stato anche fatto- la genìa dei tassisti newyorkesi che usano la fotografia. Il fenomeno esiste: lo testimoniano diverse raccolte fotografiche, tre delle quali presentiamo qui. Però, non può essere considerato come assoluto, quanto relativo. Relativo a una nazione, e a una città in particolare, nella quale la mobilità del lavoro crea infinite trasmigrazioni, che anche il cinema presenta nelle proprie sceneggiature: aspiranti attori che servono in bar e ristoranti, studenti che occupano alcune ore dietro il banco del classico drugstore di quartiere. Più che a tassisti fotografi, dobbiamo dunque pensare a cultori della fotografia, provvisoriamente (o definitivamente) impegnati al volante di un’auto pubblica. Tanto è vero che, buttiamola in costume, all’inizio di Un plotone di svitati, perfido titolo italiano dello statunitense Stripes (di Ivan Reitman, 1981), il tassista John Winger (Bill Murray) fotografa la cliente arcigna e arrogante, che è appena salita in macchina. Dialogo: «Come si chiama? John Ringer? Che razza di nome è Ringer?». «Winger; sono trovatello. Ho passato quasi tutta la vita in brefotrofio». «Non mi stupisce. Lei per me ha tutte le caratteristiche del basso ceto». «Veramente, io sono un fotografo. Faccio questo lavoro perché amo il prossimo. Niente mi entusiasma più di incontrare una persona come lei. Arrivare a conoscerla e fare qualche foto[grafia] in movimento mentre sto guidando». E così dicendo, si gira e scatta con una reflex munita di flash [al centro]. Ovviamente, la riflessione dal Taxi, la Maiuscola è d’obbligo, è esistenziale. Diciamo contemplativa. Addirittura filo-

sofica. E non potrebbe essere altrimenti. In tutti e tre i casi, le monografie che qui annotiamo hanno un doppio valore (aggiunto?). Si accompagnano con testi intensi e partecipi. Viene da dire che si tratta di casi nei quali la fotografia sollecita il ragionamento, ma anche viceversa, fino a una combinazione indissolubile di immagini e parole: da non perdere. Dovendo (o volendo) storicizzare, In my Taxi: New York After Hours, di Ryan Weideman (Thunder’s Mouth Press, 1991; 96 pagine 25,3x20,1cm) [in alto], è la raccolta capostipite: fotografie dei e con i passeggeri, durante il tragitto o al momento di pagare la corsa (c’è anche il poeta Allen Ginsberg, che ha aggiunto una nota autografa [in alto, al centro]). Ryan Weideman è ormai classificato tra gli autori significativi della fotografia spontanea newyorkese: vanta una nutrita serie di esposizioni e conferenze. È uno scontroso personaggio, che non ama gli aspetti mondani della propria fama... e continua ammirevolmente a rimanere se stesso. E anche di e per questo gli siamo grati. A seguire, Taxi Driver Wisdom, che si avvale di una messa in pagina di grande attenzione grafica, ha riunito osservazioni e fotografie di Joanne Dugan, che riferisce le proprie esperienze alle accreditate scuole psicoanalitiche del Novecento (Chronicle Books, 1996; 180 pagine 10x15,2cm, rilegato come un libro antico, con segnalibro in stoffa) [in basso]. Infine: Drive-By Shootings (Könemann, 2000; 480 pagine 14,5x20,9cm, cartonato con sovraccoperta) compone l’esperienza di David Bradford, tassista a New York: istantanee riprese durante le percorrenze del suo taxi [qui accanto]. Ricerca iconografica di Ciro Rebuzzini

ARCHIVIO FOTOGRAPHIA (2)

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FILIPPO REBUZZINI / ARCHIVIO FOTOGRAPHIA

ARCHIVIO FOTOGRAPHIA

DAL TAXI

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© 2009 THE NEW YORK TIMES ANDREAS FEININGER OF

© 2009 ESTATE © 2009 DANNY LYON © 2009 GEORGE ZIMBEL

George Zimbel: Jacqueline e John Kennedy, New York City; 1960 (stampata nel 1990, 28,3x42,3cm; The Family of Man Fund). Andreas Feininger: Traffico sulla Fifth Avenue; 1953 (39,4x48,9cm; Donazione del fotografo). Carl T. Gosset Jr (The New York Times): Fanatici dei Beatles scatenati; 28 agosto 1964 (18,8x25,7cm; Collezione The New York Times).

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mente l’allestimento originario, che negli Stati Uniti, dove la mostra si è rivolta a un pubblico di casa, ha suonato come Life of the City: New York Photographs from The Museum of Modern Art (sempre con relativo volume-catalogo; ancora, a pagina 37). Certo: New York è una città che ciascuno deve immaginare, e che ognuno può disegnare a proprio uso e consumo, andando a sottolineare ciò che più e meglio lo aggrada. Magari, facendosi accompagnare dalle fotografie abilmente messe una dietro l’altra, una dopo l’altra, con cadenza cronologica abilmente interpretata, dalla curatrice Sarah Hermanson Meister. New York è uno spettacolo che i poeti hanno descritto con partecipe entusiasmo. È la «città di guglie e alberi maestri» di Walt Whitman. È l’assembramento di grattacieli che Henry James ha visto spuntare «come da uno stravagante puntaspilli troppo affollato». È la «musica incantatrice» che il pit-

tore John Marin finì per udire: squilli d’arrogante superbia. A New York, bisogna imparare di nuovo a vedere. Le tradizionali visioni europee qui servono a poco, o a niente addirittura; il filosofo Jean-Paul Sartre ha osservato che «New York è una città da presbiti: si può mettere a fuoco soltanto all’infinito». La vita di New York e i suoi edifici spesso traggono la propria bellezza dall’effetto complessivo, dal modo nel quale catturano l’occhio lungo il corso di una Avenue, da qualche volontaria accentuazione dei dettagli, da qualche smagliatura nella griglia infinita delle strade. A proposito di New York, Le Corbusier ha scritto che «qui il grattacielo non è un elemento urbanistico, bensì una barriera all’azzurro, una raffica di fuochi d’artificio, un pennacchio sull’acconciatura di nomi definitivamente consacrati nel Gotha del denaro. Dall’asettico ufficio al cinquantaseiesimo piano, si può contemplare l’immenso festival not-


(pagina accanto) Cindy Sherman: Fotogramma senza titolo #21; 1978 (19,1x24,1cm; Horace W. Goldsmith Fund, tramite Robert B. Menschel). Danny Lyon: Linea IRT 2, South Bronx, New York City; 1979 (22x32,6cm; Donazione Mr e Mrs James Hunter).

© 2009 ESTATE

OF

turno di New York, nemmeno lontanamente immaginabile per chi non l’ha visto. È mineralogia titanica, infinita stratificazione prismatica di fiumi di luce: in verticale, in profondità, in saette violente come le linee del diagramma delle temperature al capezzale di un malato. Diamanti, innumerevoli diamanti. [...] New York, di fronte a Manhattan, pietra rosa nell’azzurro d’un cielo marino; New York, di notte, come una gioielleria illuminata». Ciò detto, ribadiamo la considerazione originaria e di base: mostra da non perdere (assolutamente!),

© 2009 MICHAEL WESELY

HENRI CARTIER-BRESSON/MAGNUM,

COURTESY

FONDATION HCB

© 2009 MARTINE BARRAT

Martine Barrat: Mr Jackson, all’Harlem Moon. Trascorre molto tempo qui, perché nel suo palazzo non c’è il riscaldamento. Ha combattuto in entrambe le guerre mondiali; 1983 (31x46,5cm; E.T. Harmax Foundation Fund).

Immaginare New York è una delle selezioni fotografiche più affascinanti tra quante presentate negli ultimi anni. Merita una visita al Mart, di Rovereto (Museo di Arte Moderna e Contemporanea di Trento e Rovereto), che simultaneamente offre altre esposizioni temporanee, oltre la collezione permanente. Cosa altro aggiungere, per convincere? Il fascino di una città trentina accogliente? La qualità delle gelaterie della città? A qualcuno di nostra conoscenza, questo già basta e avanza; per tutti gli altri, parlino le fotografie. Maurizio Rebuzzini Immaginare New York. Fotografie dalla collezione del MoMA (Museum of Modern Art, New York), a cura di Sarah Hermanson Meister. Mart - Museo di Arte Moderna e Contemporanea di Trento e Rovereto, corso Bettini 43, 38068 Rovereto; 0464-438887; www.mart.trento.it, info@mart.trento.it. Fino all’11 ottobre; martedì-domenica 10,00-18,00, venerdì 10,00-21,00.

Michael Wesely: 9 agosto 2001 2 maggio 2003 The Museum of Modern Art, New York; 2001-2003 (stampa cromogenica a colori, 102x140cm; Acquisto). Henri Cartier-Bresson: Un’occhiata al Museum of Modern Art, New York; 1947 (34,7x23,4cm; Donazione di Monroe Wheeler).

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VISIONI

Rigorose inquadrature dal basso: perpendicolari al soggetto. Rappresentazioni che danno senso e risalto alle architetture, osservate da un punto di vista oggettivamente rigoroso, quanto soggettivamente coinvolgente. La fotografia applica la coerenza dei propri princìpi visivi per offrire ciò che la contemplazione dell’occhio fisiologico, che proietta alla mente (ma anche al cuore), ha già intuito per istinto ed esperienza. L’attento Franco Zampetti applica lezioni prospettiche antiche, declinate in chiave straordinariamente moderna. Oltre che attuale. Ma soprattutto avvincente

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CHIESA DI SANT’ANDREA AL QUIRINALE (ROMA)

A

rchitetto di formazione ed educazione, Franco Zampetti vanta anche solide e consolidate frequentazioni fotografiche. Per quanto ci riguarda direttamente, vanta soprattutto queste. Tra tanto altro, in anticipo sulle interpretazioni che stiamo per commentare, presentandole, da circa vent’anni realizza fantastiche fotografie zenitali di architettura, in formato 24x36mm: con un grandangolare estremo SMC Pentax 15mm f/3,5, utilizzato su reflex Pentax LX, l’ammiraglia del sistema analogico/argentico, caricata con diapositive Fujichrome Sensia 200 e Fujichrome Provia 100F, oltre che con il negativo colore Fujicolor Superia Reala 100. Nel concreto, l’inquadratura zenitale dal basso è perfettamente controllata con il mirino a pozzetto della reflex Pentax LX, e l’esposizione varia da due secondi a un minuto e mezzo, in relazione alle condizioni ambientali del soggetto, sempre con aperture da f/5,6 a f/8-11 del diaframma. Tutto questo per riprese in piccolo formato 24x36mm. Se non che, a un certo punto, Franco Zampetti, che possiede profonde competenze fotografiche -in opportuna combinazione tra tecnica e creatività, dalla tecnica di base al linguaggio espressivo che ne consegue-, ha ipotizzato due condizioni coesistenti e coabitanti. Sempre in visione zenitale, mette oggi a frutto l’intera proiezione dell’obiettivo grandangolare, così che raccoglie sul piano focale una immagine di dimensioni maggiori (e uno), appunto disegnata e definita dall’intero cerchio immagine (e due).

FORMA E CONTENUTO Il cerchio immagine prodotto dagli obiettivi che coprono il piccolo formato fotografico 24x36mm è di diametro adatto a una nitidezza ottimale sull’intero fotogramma (o anche sul sensore ad acquisizione digitale di pari dimensioni, che dipende dalle medesime condizioni ottiche): diciamo che è adeguatamente supe-


riore la diagonale del formato fotografico 24x36mm (43,3mm). Dal punto di vista tecnico-operativo, Franco Zampetti ha escogitato una combinazione che registra per intero questa proiezione. In quello estetico-visivo, ha dato altresĂŹ senso a rappresentazioni tonde/circolari, centrate su fondo immancabilmente nero (la porzione non esposta del fotogramma di medio forma-

CHIESA DI SAN CARLO ALLE QUATTRO FONTANE (ROMA)

SAGRESTIA NUOVA NELLA BASILICA DI SAN LORENZO (FIRENZE)

Z E N I TA L I

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CHIESA DI SAN CATALDO (PALERMO)

to 6x6cm). Proprio così: l’idea del suo apparato con grandangolare Voigtländer Aspherical Ultra Wide Heliar 12mm f/5,6 su magazzino portapellicola Hasselblad è nata dall’esigenza di ampliare il più possibile l’angolo di campo, necessità comune a tutta la fotografia di architettura in interni, particolarmente sentita nel caso della visione e interpretazione zenitale. Allo stesso momento, e in subordine (ma la gerarchia dei ruoli non è così netta), si è fatta di necessità virtù, di tecnica linguaggio. Come già annotato, non si tratta (sol)tanto di sfruttare l’ampio cerchio immagine di proiezione, determinato da un angolo di campo moderatamente superiore a quello riferito alla copertura della diagonale del fotogramma 24x36mm, ma anche di rappresentazione fotografica che si basa su una composizione tonda/circolare (non solo estetica, ma così formata dalla proiezione dell’obiettivo), che accompagna le forme architettoniche raffigurate, invitando l’occhio dell’osserva-

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tore a una interpretazione rappresentativa che dà risalto alle specifiche del soggetto (rap)presentato: se questa non è Fotografia, ditemi voi allora cos’altro è!

SU RULLO 120 Come rivelano i dietro-le-quinte che accompagnano la presentazione delle fotografie zenitali di Franco Zampetti [riportati sulla pagina accanto], il suo apparato fotografico è sostanzialmente semplice. Di immediata comprensione per coloro i quali vantano sia una anagrafe adeguata, sia frequentazioni con la fotografia grande formato, che spesso sollecita (ha sollecitato) combinazioni personali e modifiche meccaniche volontarie e consapevoli, l’apparato fotografico va invece commentato a beneficio di chi non possiede questi parametri (ormai antichi, mai desueti). Il Voigtländer Aspherical Ultra Wide Heliar 12mm f/5,6 è forse il più ampio grandangolare disponibile sul mercato della fo-


DIETRO-LE-QUINTE

D

tografia 24x36mm. È del tipo a costruzione ottica standard, non retrofocus, come lo sono, invece, i grandangolari per apparecchi fotografici reflex, e dunque ha un tiraggio al piano focale corrispondente alla sua lunghezza focale (dal piano ottico nodale; 28,8mm dalla montatura meccanica). Realizzato in innesto a vite 39x1, solitamente riferito alla Leica a vite (appunto), ha una montatura che ha consentito l’impiego di un otturatore centrale Prontor Press, collocato immediatamente davanti al magazzino portapellicola Hasselblad (della generazione dotata di avanzamento manuale della pellicola a rullo 120). L’angolo di campo nominale di 121 gradi, riferito alla diagonale del fotogramma 24x36mm, si incrementa un poco quando si considera l’intero cerchio immagine prodotto, di 45mm di diametro (contro i 43,3mm della diagonale del fotogramma piccolo formato). Quindi, le raffigurazioni circolari, o tonde, a ciascuno la propria identificazione preferita, stanno al centro della inquadratura 56x56mm del magazzino portapellicola Hasselblad (nel caso di dorso digitale in montatura corrispondente, con sensore di acquisizione di dimensioni inferiori, non sempre si registra per intero la proiezione circolare completa). Il citato otturatore centrale Prontor Press, diametro “1” (per chi

CHIARA ZAMPETTI (4)

opo decenni di fotografie zenitali con Pentax LX, dotata di grandangolare estremo SMC Pentax 15mm f/3,5, Franco Zampetti ha spostato la propria interpretazione visiva verso due condizioni coesistenti e coabitanti. Sempre in visione zenitale, mette oggi a frutto l’intera proiezione dell’obiettivo grandangolare, raccogliendo sul piano focale una immagine di dimensioni maggiori, disegnata e definita dall’intero cerchio immagine del Voigtländer Aspherical Ultra Wide Heliar 12mm f/5,6 su magazzino portapellicola Hasselblad (per esposizioni 6x6cm, appunto). Con questo apparato, non sfrutta soltanto l’ampio cerchio immagine di proiezione, ma realizza anche una rappresentazione fotografica che si basa su una composizione tonda/circolare (non solo estetica, ma così formata dalla proiezione dell’obiettivo), che accompagna le forme architettoniche raffigurate, invitando l’occhio dell’osservatore a una interpretazione rappresentativa che dà risalto alle specifiche del soggetto (rap)presentato. Realizzato da Mauro Meco, della Sismec, di Firenze, l’apparato fotografico di Franco Zampetti è sostanzialmente semplice. Il Voigtländer Aspherical Ultra Wide Heliar 12mm f/5,6, che forse è il più ampio grandangolare disponibile sul mercato della fotografia 24x36mm, è collegato al magazzino portapellicola Hasselblad tramite un otturatore centrale Prontor Press. L’angolo di campo nominale di 121 gradi, riferito alla diagonale del fotogramma 24x36mm, si incrementa un poco quando si considera l’intero cerchio immagine prodotto, di 45mm di diametro (contro i 43,3mm della diagonale del fotogramma piccolo formato). Le raffigurazioni circolari/tonde stanno al centro del formato 56x56mm del magazzino portapellicola Hasselblad. Ancora, per guadagnare altezza -e quindi ampiezza dell’inquadratura-, ovverosia per collocare il punto di vista più in basso possibile, è stato utilizzato un supporto recuperato da uno strumento da cantiere, opportunamente adattato, con quattro piedini di sostegno regolabili singolarmente, per la pertinen-

te messa “in bolla”. Nell’uso, un pendolo laser consente di centrare il soggetto inquadrato, che non deve essere penalizzato visivamente da asimmetrie poco gradevoli. Infine, per stare adeguatamente discosto dal punto di ripresa, per non essere compreso nell’inquadratura durante lo scatto, Franco Zampetti impiega uno scatto pneumatico adeguatamente lungo, di quattro metri, e imposta la posa T, perché la pressione continua della posa B non garantisce l’adeguata stabilità dell’apparato fotografico durante tutto il tempo di esposizione/posa prolungato.

sa che gli otturatori centrali per obiettivi grande formato sono distinti in tre diametri in progressione), è a riarmo automatico. Ma, soprattutto, è dotato della pratica posa T, che è la più conveniente per i tempi di esposizione/posa adottati da Franco Zampetti, che si allungano fino a un minuto e mezzo, fino a novanta secondi. Tutte le combinazioni costruttive, che hanno previsto adattamenti estremamente raffinati, che qui non approfondiamo, sono state brillantemente risolte e realizzate da Mauro Meco, della Sismec, di Firenze, che ha curato l’allineamento dei vari elementi fotografici originari, la costruzione delle meccaniche di collegamento e l’assemblaggio dell’insieme.

NELL’USO Risolta la forma, e prima ancora del contenuto, qualche commento sulle procedure fotografiche, così come le ha adeguatamente sintetizzate lo stesso Franco Zampetti, architetto prestato alla fotografia (evviva!). Alcuni aspetti vanno sottolineati. Con ordine. Anzitutto, per guadagnare altezza -e quindi ampiezza dell’inquadratura-, ovverosia per collocare il punto di vista più in basso possibile, si rileva la necessità di livellare l’apparato fotografico (Voigtländer Aspherical Ultra Wide Heliar 12mm f/5,6 - otturatore

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GENGA, ANCONA) PRESSO

SANTISSIMA ANNUNZIATA (MONTECOSARO SCALO, MACERATA)

ABBAZIA DI SAN VITTORE ALLE CHIUSE (SAN VITTORE TERME LOYOLA (ROMA)

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CHIESA DI SANTA MARIA A PIE’ DI CHIENTI,

O

DI

CHIESA DI SANT’IGNAZIO

Prontor Press - magazzino portapellicola Hasselblad) senza ricorrere a un treppiedi con testa dotata di livella. Per appoggiare il tutto a terra, puntato all’alto per inquadrature zenitali, Franco Zampetti utilizza un supporto recuperato da uno strumento da cantiere, opportunamente adattato. Quattro piedini di sostegno, regolabili singolarmente, consentono la pertinente messa “in bolla”, opportunamente visualizzata dall’apposito riferimento tecnico. Quindi, si registra la seconda esigenza operativa: quella di centrare al meglio il soggetto inquadrato, che non deve essere visivamente penalizzato da asimmetrie poco gradevoli. Anche qui viene in aiuto un complemento tecnico recuperato da altri ambiti: un pendolo laser, che offre riferimenti certi e collocazioni precise e pertinenti. Per la valutazione dell’esposizione, è indispensabile un esposimetro esterno a luce riflessa (ce ne sono ancora). Ovviamente, l’esperienza consente di interpretare le sue misurazioni, e di regolare i valori più adatti per la compensazione dello scarto di reciprocità in relazione ai tempi di posa (otturazione/espo-

sizione) prolungati. In aggiunta, non indispensabile, né essenziale, un esposimetro spot di appoggio può rivelarsi utile per tenere sotto controllo gli estremi di alte luci e ombre; per la cronaca, sono adatti solo esposimetri spot di alta sensibilità, con capacità di misurazione anche nelle ombre più fitte. Ancora, al pari delle condizioni della fotografia panoramica a obiettivo rotante, nel caso delle visioni zenitali con obiettivo estremamente grandangolare, nell’ordine di oltre centoventi gradi di angolo di campo, il fotografo deve stare adeguatamente discosto dal punto di ripresa, per non essere compreso nell’inquadratura durante lo scatto. Franco Zampetti impiega uno scatto pneumatico adeguatamente lungo, di quattro metri, e imposta la posa T, perché la pressione continua della posa B non garantisce l’adeguata stabilità dell’apparato foto-


CARPI (CARPI, MODENA) DI

TEATRO COMUNALE BASILICA DI SAN VITALE (RAVENNA)

grafico durante tutto il tempo di esposizione/posa prolungato. Infine, non mancano, né si fanno mancare, manualità antiche, estranee agli automatismi fotografici dei nostri giorni: il volet va tolto dal magazzino portapellicola prima dello scatto e la pellicola va fatta avanzare manualmente dopo lo scatto. Nessun blocco di sicurezza.

ESPRESSIVITÀ Dopo tutta l’infrastruttura tecnica, necessaria e allineata ai contenuti, è doveroso sottolineare la creatività espressiva delle visioni zenitali di Franco Zampetti, la cui razionalità visiva geometrica (e matematica) esprime straordinari valori di altra natura, declinata nell’ambito del linguaggio della fotografia. Infatti, il punto di vista zenitale è quello dal quale, in osservazio-

ne dal vivo, si può contemplare la totalità delle volte che definiscono il suo percorso fotografico. Il Voigtländer Aspherical Ultra Wide Heliar 12mm f/5,6 non offre, né dispone di uno sguardo umano, ma propone una raffigurazione oggettiva. Ed è proprio dalla sua capacità di restituire uno spazio visivo finito (certamente non unitario) che, nell’unitarietà dell’immagine fotografica, si ricavano e isolano i significati autentici di questa ricerca e rappresentazione visiva. Via via applicate a soggetti architettonici identificati, sia per commissione sia per interesse individuale, le fotografie zenitali di Franco Zampetti offrono avvincenti chiavi di lettura, a ciascuno le proprie. Del resto, lo sappiamo bene, questa fotografia è frutto di una corretta e disciplinata metodologia di ricerca (colta ed educata, anche). E tanta applicazione non può che produrre e generare ulteriore ricerca individuale. E, quindi, conoscenza. Ancora, e in ripetizione (d’obbligo): se questa non è Fotografia, ditemi voi allora cos’altro è! Maurizio Rebuzzini

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Dalla mostra del Gruppo Polaser Le pouvoir de l’imagination, alla Maison d’Italie - Cité Internationale Universitaire (Parigi, 4-12 dicembre 2004).

Da questo appuntamento, successivo ai tre che hanno sottolineato la presenza del Gruppo all’interno della selezione La magia della polaroid (a maggio, il commento generale; a giugno e luglio, le descrizioni di alcune delle Moleskine di Viaggio nell’anima), comincia la presentazione degli autori che, con le loro opere e il proprio impegno, hanno contribuito a far crescere il Polaser. A seguire, la presentazione dei progetti che abbiamo esposto in Italia e all’estero. Da tempo, il primo profilo d’autore programmato è quello di Mario Ghetti. Purtroppo, Mario ci ha lasciati lo scorso giugno; queste righe diventano un doveroso omaggio all’amico e artista scomparso. Nella società odierna, uno dei mali peggiori è sicuramente quello dell’individualismo; anche nelle associazioni,

troppo spesso manca la collaborazione tra i soci. Invece, e al contrario, Mario era sempre pronto a dare una mano ogni qualvolta c’era da allestire una mostra; era sempre pronto a partecipare a ogni progetto. La morte di un caro amico lascia sempre un segno indelebile nel cuore di chi l’ha stimato, di chi gli ha voluto bene; un dolore forte, come forte è l’Amicizia. Mario Ghetti se n’è andato in punta di piedi, alle prime luci dell’alba di domenica quattordici giugno, allo stesso modo di com’era sempre stato il suo approccio con l’arte. Nel Gruppo Polaser, è stato una colonna portante. Nessuno potrà mai dimenticare la sua sensibilità, la sua serietà, il suo impegno, il suo “dare sempre”, senza mai chiedere nulla. Parliamo anche di Mario Ghetti autore. È stato un artista eclettico: passava indifferentemente da scatti in bianconero, che richiamavano il periodo neorealista, a visioni contemporanee, con le quali realizzava nuove espressioni, per ricavare da quegli elaborati fotografici sensazioni innovative. A volte delicate, ma sempre incisive, le sue fotografie fanno pensare, riflettere, sia che si tratti di fotografie documentative, sia concettuali, oppure astratte; nei segni che ha lasciato sulle polaroid, c’è sempre una mediazione con il suo pensiero, quindi non sono mai state solo frutto di qualsivoglia casualità. Nel suo ultimo progetto Percorsi della mente, Gilberto Giorgetti (storico, presidente dell’Associazione Culturale La Foglia e socio fondatore del Gruppo Polaser) descrive così il lavoro di Mario «[...] In questo lavoro domina il movimento, e nelle linee si rivive la forza del turbine, che muove verso l’alto. Potrebbe esserci un richiamo al futurismo, oppure all’espressionismo astratto, ma io direi che Mario Ghetti ha scoperto un proprio spazialismo, ha interpretato un effetto dello spazio o dallo spazio. Le linee scorrono come percorsi della mente, dove i lampi di luce non rappresentano altro che ricordi, i quali, confusi e veloci, si rapportano all’indecifrabilità dello

AUTORITRATTO; 2004

Dall’installazione del Gruppo Polaser La Notte - Omaggio a Dino Campana, esposta all’evento Osservanti-Osservati (Imola, 14 maggio - 14 giugno 2006).


Dall’installazione del Gruppo Polaser La Notte - Omaggio a Dino Campana, esposta all’evento Osservanti-Osservati (Imola, 14 maggio - 14 giugno 2006).

spazio sconosciuto. A volte, quei tratti, quelle luci si muovono come esseri umani in corsa; a volte, sembrano bottiglie o trottole che ruotano; a volte, il segno si concede unicamente al “concetto di spazio” che intese Lucio Fontana, quasi per pudore e rispetto nei confronti del grande Maestro». Gilberto Giorgetti prosegue, ricordando l’amico Mario: «Lo conobbi un’estate di diversi anni fa, quando andammo a trovarlo nella sua tenuta al Monte Trebbio, sulle colline di Modigliana, con Pino Valgimigli. Giunti alla casa, ci accolse insieme alla moglie ed altri amici, sotto un pergolato ombroso, mentre il sole lentamente declinava ad ovest e il campo dei fiammanti girasoli lo seguivano fino a spegnersi. «Non dimenticheremo mai il profumo delle albicocche, che ci servì con la cortesia di chi accoglie l’ospite, l’amico. Un profumo e un gusto che ci riempì l’animo, riportandoci ai veri sapori, ormai perduti nell’omogeneità dei supermercati. «Mario ci fece vedere i suoi lavori fotografici; ancora, non utilizzava la pellicola a sviluppo immediato; ma quando Pino fotografò una bottiglia del vino prodotto da Mario, con la sua inseparabile Polaroid, e la manipolò, in lui si accese un lampo di curiosità: aveva subito capito quanta creatività potesse dare questo mezzo espressivo. E Mario di creatività ne aveva tanta! «Dopo qualche settimana, chiese di far parte del Gruppo Polaser, appassionandosi ad ogni iniziativa culturale e lavorando con autentica creatività fotografica, in un’assidua sete sperimentale». Questo è stato Mario Ghetti, l’artista e l’uomo mite, generoso e sempre disponibile, che chi l’ha conosciuto non potrà mai dimenticare. Pino Valgimigli

Nell’aria si accumula qualcosa di danzante: dal progetto del Gruppo Polaser Foto Orfiche - La poetica di Dino Campana, del 2004.

www.polaser.org

«La limitazione dei mezzi determina lo stile, dà vita a nuove forme e dà impulso alla creatività» Georges Braque Questa citazione dal pittore Georges Braque aiuta a comprendere lo slancio e spirito che guida e ispira gli artisti del Gruppo Polaser, eterogenei per interessi artistico-culturali e per provenienza da molte città italiane e anche dall’estero, accomunati dalla ricerca e sperimentazione di nuove possibilità espressive nelle molteplici forme dell’arte, dalla fotografia alla pittura, scultura, design, architettura, ceramica, letteratura, teatro, a altro ancora.


NELL’INTIMITÀ Realizzata e svolta in forma di dittici, la ricerca espressiva Bymoment, di Silvio Giuliani, accosta visivamente quella che può essere intesa come “realtà oggettiva” alla individuazione consapevole di una “realtà più interiore o intima” Da Byland: «Rappresentazione astratta del percorso di vita di ognuno di noi, che si conclude in un “punto zero”. Da un lato, questo cammino è segnato dai massicci e taglienti conflitti della vita e, dall’altro, dalla continua ricerca di pace, silenzio e assoluto interiore».

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arliamo e scriviamo sempre di “fotografia”, come se ce ne fosse una soltanto, nella quale riconoscersi tutti. No, non è così. Non solo il linguaggio fotografico si esprime in relazione e dipendenza a tanti generi di riferimento -dal reportage alla moda, dal ritratto al paesaggio, a altro ancora-, ma, soprattutto, l’esercizio della fotografia dipende e si basa su intenzioni individuali. In questo senso, c’è, oppure ci sarebbe, il territorio della ricerca espressiva, contenitore a propria volta scomposto in miriadi di ulteriori sfaccettature. E

P

poi, eccoci, c’è l’individualità, il senso personale dell’espressione intima attraverso la fotografia, che raccoglie pulsioni esistenziali che possono rimanere circoscritte o essere condivise: a ciascuno, le proprie intenzioni. Tra tanto, queste ricerche individuali, condotte nella confidenza dei propri sentimenti, rappresentano uno dei piatti forti di quelle “letture di portfolio” che attraversano in lungo e largo l’Italia, e che recentemente sono state addirittura codificate dalla cadenza di Portfolio Italia, gestito e governato dalla Fiaf (Federazione Italiana Associazioni Fotografiche). Tutto questo, in introduzione, per motivare, deco-


dificandone i princìpi ispiratori, una serie di immagini del romagnolo Silvio Giuliani, che appartengono appunto alla giurisdizione della fotografia realizzata per sé e per la manifestazione esplicita di propri pensieri, proprie riflessioni, proprie osservazioni. Più esistenziali, che altro; più intellettive, che pratiche.

BYMOMENT

Come osserva l’autore Silvio Giuliani, «Con il passare degli anni, ho cercato di approfondire il senso e qualità del linguaggio fotografico; al momento sono interessato a una tipologia di rappresentazioni che ho denominato Bymoment. Questo per-

Da Byland: «Immagine dolorosa della Storia. “Pagina fotografica” tratta da un cimitero inglese della Seconda guerra mondiale. Parlino le immagini».

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Da Byselfportrait: «Pulsione di vitalità a fronte di un tempo presente vicino alla propria fine (nebbia e alberi scheletrici), in contrasto e/o dialogo con la vitalità della Primavera».

Da Byselfportrait: «Posizione reale in cui stavo da ragazzino, quando mi abbandonavo ai primi pensieri sulla vita (maturazione esistenziale); posizione che dialoga con sentimento con i continui momenti di studio (maturazione culturale)».

Da Byselfportrait: «Sensazione intima della propria fisicità (asciugarsi il corpo dopo il bagno), nella consapevolezza della nemesi della nostra vita».

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ché, fotografando un soggetto che mi aveva colpito, ero indeciso se raffigurare la realtà con una “lettura del soggetto più oggettiva”, o se, al contrario, dello stesso soggetto ne avrei dovuta individuare una “realtà più interiore o intima”». Di fronte a questa dicotomia, Silvio Giuliani ha optato per la simbologia del dittico (riprendiamo sempre

da sue annotazioni): adatti ad accostare due momenti dello stesso soggetto, appunto la serie Bymoment. In presenza di situazioni che sente significative e allineate alla sua introspezione fotografia, l’azione è presto rivelata. Anzitutto, Silvio Giuliani realizza una fotografia di quella che si può considerare ”realtà normale”, cioè la realtà che ciascuno vive giorno per giorno


concreto, a destra la realtà e a sinistra la sua combinazione interpretata, formalmente realizzata e presentata in toni alti e stampata con tecnica high-key.

ALTRI CONCETTI Sempre con l’autore Silvio Giuliani: «Un altro elemento che caratterizza la serie Bymoment è costituito dalla presenza del segno grafico della pellicola 35mm, comprensiva della propria perforazione, oltre che delle eventuali indicazioni logistiche impresse dal fabbricante. Questo elemento di contorno, o supporto, o sostegno, non è certo fine a se stesso, cioè non compone un carattere puramente estetico, ma è parte integrante del dittico: esprime il legame tra le due immagini accostate e allineate, che dialogano tra loro sia in modo concettuale sia completandosi nel significato». Una volta avviata la serie, Silvio Giuliani ha approfondito il proprio stilema espressivo, estendendolo alla rappresentazione di soggetti di diversa natura. Al momento attuale, Bymoment è scandito su quattro tematiche: Byland, soggetti di realtà del territorio, che esprimono e/o interpretano un significato umano; Byfiori: macrofotografie di pretesto per una ricerca personale della bellezza della natura.

(e già su questa ipotesi, quanti altri discorsi, quante altre deviazioni potrebbero guidare la riflessione esistenziale, non soltanto in forma di fotografia). Successivamente stampata in consueti e adeguati toni di grigio, nel dittico questa realtà originaria si accosta, quindi, con un’immagine complementare che esprime e sottolinea un valore più profondo: nel

Byselfportrait, autoritratti, (re)interpretati in senso esistenziale; Byfiori, macrofotografie di pretesto per una ricerca personale della bellezza della natura; Byneve, ancora immagini legate alla bellezza della natura, con un sapore più delicato, perché vincolato al passare delle stagioni, quindi al trascorrere del (nostro) tempo. Angelo Galantini

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FOGLIO

Scavatrice (macchina a doppia gru con ventisei casse). Il lavoro di scavo è realizzato da ventisei operai, disposti su due piani. La grossa macchina presenta due gru montate una sopra l’altra, sullo stesso asse verticale. La macchina è montata su guide all’interno del canale, sulle quali scorre trainata da un dispositivo a vite senza fine. Il funzionamento delle due gru, che sono azionate dalla stessa fune, si basa sul princìpio del sali-e-scendi: gli scavatori lavorano a squadre, in modo che quando un cassone all’interno del canale è pieno, un altro sia già stato svuotato sull’argine. Gli operai saltano nel cassone vuoto e, con il proprio peso, mettono in movimento la corda, sollevando quello pieno.

CODICE ATLANTICO,

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Potenza e inquietudine delle parole, dell’uso abile e adulterato delle parole, anche. Una quindicina di anni fa, alla fine del 1993, si è molto parlato del cosiddetto Codice Hammer. Senza entrare nel merito del valore scientifico e storico degli appunti di Leonardo da Vinci, la stampa internazionale si occupò del lato spettacolare della loro vendita. Soprattutto, sollecitò l’attenzione pubblica la fama che da decenni circonda il suo acquirente che: William Gates, conosciuto con il diminutivo di Bill, il paperone dell’industria informatica, che nel 1975, assieme con Paul Allen, ha fondato Microsoft, una delle più importanti produttrici mondiali di software per computer. Bill Gates si aggiudicò il Codice Hammer, investendo trenta milioni di dollari, che ai tempi equivalevano a circa cinquanta miliardi di lire; venticinque milioni e rotti degli attuali euro. Allora, la sua offerta sopravanzò quella di una cordata italiana, che -lo ricordiamo- aveva abbracciato il sogno di riportare i preziosi manoscritti di Leonardo nel nostro paese. Con l’occasione, certifichiamo che si tratta di tavole che dal 1719 sono state conservate nella biblioteca di Lord Leicester (da cui la denominazione primigenia di Codice Leicester); il 12 dicembre 1980 furono acquistate dal petroliere Armand Hammer (da cui, Codice Hammer), che se le aggiudicò a una sessione d’asta di Christie’s, accompagnata da una preziosa edizione libraria (disponibile nel nostro archivio: anche questa!). A margine della cronaca rosa, e da questa sollecitata, l’affascinante storia di queste tavole fu portata alla pubblica attenzione sia con resoconti giornalistici, sia con operazioni abilmente mirate. Tra le tante, ne citiamo una più che degna: l’edizione multimediale di Il Codice Hammer di Leonardo, pubblicata in Italia da Bassilichi Sviluppo (azienda fiorentina impegnata nel rapporto tra tecnologia e cultura), che si compose della riproduzione anastatica dei manoscritti e di due

4R

IL CODICE ATLANTICO

floppy disk (!) che guidano l’utentelettore nella avventura leonardiana (ne abbiamo riferito in cronaca, in FOTOgraphia, del febbraio 1995). Prima di affrontare ciò che stiamo prendendo alla larga, ancora altre poche parole sul Codice Hammer: diciotto grandi fogli (circa 296x438mm), che Leonardo da Vinci compilò intorno al 1508 e forse fino all’inizio del 1510, annotando osservazioni che spaziano dall’astronomia alla meteorologia, alla geografia fisica, alla geologia, alla paleontologia, all’idraulica e alla canalizzazione dei fiumi. Oltre ai floppy disk appena ricordati, l’edizione multimediale realizzata da Bassilichi Sviluppo propose anche la riproduzione anastatica delle tavole, ridotte sul formato facciata 21x29,7cm, sovrastampate con riferimenti alfanumerici adottati nei testi di analisi e commento.

IN MOSTRA Ancora, in ripetizione e per ribadire il concetto: potenza e inquietudine delle parole, dell’uso abile e adulterato delle parole, anche. Una quindicina di anni fa, si è molto parlato del cosiddetto Codice Hammer, composto da diciotto tavole di Leonardo da Vinci. In proporzione, ed equità giornalistica, quante relazioni dovrebbe/potrebbe richiedere il progetto Codex

Atlanticus, attraverso il quale la Biblioteca Ambrosiana, di Milano, presenterà al pubblico i millecentodiciannove fogli manoscritti di Leonardo (proprio 1119!), che costituiscono la più ampia collezione esistente di carte leonardesche? Anticipato da un’anteprima estiva al piano terra di Palazzo Marino, di Milano, di fronte al Teatro alla Scala, sede dell’amministrazione cittadina, il progetto è più che affascinante, addirittura epocale. Con ordine. Dal diciotto luglio al trentuno agosto, nella Sala Alessi di Palazzo Marino è stato presentato Il mistero svelato di Leonardo: due fogli del Codice Atlantico, per la cronaca i 696 (421x294mm) e 909v (387x292mm), entrambi inchiostro su carta, accompagnati da un programma interattivo di consultazione virtuale dell’intera opera leonardesca. Dal dieci settembre, prende quindi avvio il progetto espositivo Maestro Leonardo Fiorentino in Milano, che in sei anni offrirà la possibilità di vedere integralmente il Codice Atlantico di Leonardo da Vinci, e di rendere maggiormente nota la stupenda collezione pittorica e libraria dell’Ambrosiana, istituzione tra le più prestigiose della città. Per l’occasione, la Pinacoteca Ambrosiana si arricchisce di due nuove sale espositive: l’Aula Leonardi ospiterà


Tracce di matita nera, punta di stilo, penna a inchiostro, inchiostro diluito e acquerello, con ripassature sulla parte destra.

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L’identificazione del Codice si deve alle sue dimensioni, appunto tipiche di un atlante: 650x440mm. Comprende millecentodiciannove fogli manoscritti che, come abbiamo appena rilevato, costituiscono la più ampia collezione esistente di carte leonardesche. Fu allestito nel tardo Cinquecento dallo scultore Pompeo

ni successive di studiosi. Compito difficile e impegnativo: la vastità degli argomenti affrontati e trattati, accompagnati da illustrazioni estremamente accurate, rivelano una mente insaziabile, dotata di capacità di osservazione e deduzione fuori dall’ordinario. Nota parallela: la lettura delle tavole, la loro decifrazione, è resa oltremodo difficoltosa dai testi scritti in modo speculare (la stragrande maggioranza), cioè da destra a sinistra; inoltre, sono state adottate espressioni gergali e abbreviazioni criptiche (che stanno facendo l’attuale fortuna di speculatori dell’ultima ora, in forma letteraria, e sta bene, ma anche pseudo-scientifica, e da queste ultime prendiamo le distanze). Comunque, questa armoniosa e intrigante sintonia di parole e immagini ha affrontato raffinati studi di architettura, anatomia, pittura e disegno, meccanica, botanica, percezione visiva, aerodinamica, cartografia, e tanto altro ancora. Inoltre, considerati i costi della carta del tempo e della pergamena, sostanzialmente equivalenti, ovverosia alti, si registrano anche cancellature e riscritture su tavole recuperate a nuovo uso. Diverso è il mondo di oggi, nel quale possiamo andare in cartoleria a comperare quante risme di extra-

FOGLIO

IL CODICE ATLANTICO

Due mortai che lanciano palle esplosive. Studi per mortai che lanciano bombe esplosive. Tra nuvole di fumo, due grandi bombarde lanciano proiettili di varie dimensioni e di varia forma -tonda e romboidaleche, dopo essere caduti a terra, esplodono lanciando piccole palle metalliche.

Leoni, che raccolse in un solo grande volume di quattrocentodue fogli più di millesettecento scritti e disegni vinciani; nel 1637, fu donato da Galeazzo Arconati alla Biblioteca Ambrosiana (fondata nel 1609), insieme ad altri undici manoscritti leonardeschi. Tutto il corpus leonardesco dell’Ambrosiana fu sottratto da Napoleone, e portato a Parigi. Soltanto il Codice Atlantico fu restituito, e quindi fece ritorno alla originaria e legittima sede milanese, da dove non si è più mosso nei secoli. Il materiale abbraccia l’intera vita intellettuale di Leonardo da Vinci, per un periodo di oltre quarant’anni, dal 1478 al 1519. Queste tavole rivelano come e quanto Leonardo da Vinci (1452-1519) sia stato una delle menti più straordinarie che il mondo abbia mai conosciuto. Pittore, incisore, inventore, teorico e maestro, rappresenta la quintessenza del genio rinascimentale. I suoi contributi all’arte, alla letteratura, alla scienza e alla tecnologia incutono ancora oggi timore. E reverenza. Leonardo da Vinci considerava e descriveva i suoi appunti come una raccolta disordinata, alla quale dare ordine, organizzandoli in base all’argomento trattato. Ma morì prima di poterlo fare, così che il compito è stato ereditato da generazio-

CODICE ATLANTICO,

il Musico di Leonardo, i pittori leonardeschi e l’affresco dell’Incoronazione di spine, di Bernardino Luini, appena restaurato dalla professoressa Pinin Brambilla, alla quale già si deve il più recente restauro del Cenacolo di Leonardo; la Sala Federiciana ospiterà la mostra di ventidue/ventitré fogli del Codice Atlantico di Leonardo da Vinci, in rotazione sistematica trimestrale. Simultaneamente, altri ventidue fogli dello stesso Codice Atlantico verranno esposti presso la suggestiva e monumentale Sacrestia del Bramante, in Santa Maria delle Grazie, presso il cui Refettorio si trova anche l’affresco del Cenacolo. Così, in sei anni, la rotazione temporale permetterà di vedere tutti i fogli dell’opera conservata presso la Biblioteca Ambrosiana (con modalità che sintetizziamo a parte, in chiusura).

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555 NEL VENTICINQUESIMO

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suo mondo (cinematografico), riginariamente pubblicata nel diverso da quello reale. 2004 da Taschen Verlag, imTorniamo ai Leonardo da Vinmancabilmente lui, l’editore più ci - The Complete Paintings and attento e meritevole del nostro Drawings, di Taschen, che aftempo, quantomeno per quanto frontano con piglio e decisione riguarda l’editoria illustrata, Leouna delle più grandi menti di tutnardo da Vinci - The Complete ti i tempi. Queste edizioni si proPaintings and Drawings è una pongono come uno degli studi monografia di grande prestigio, più comprensivi sulla sua opera, con contenuti di alto valore. A secon ispezione approfondita di guire, dal 2007 è disponibile una ogni sfaccettatura della sua poversione di analoghe grandi diliedrica personalità. mensioni, inserita tra i titoli che Il testo è diviso in tre parti. La celebrano i venticinque anni delprima esplora la vita e l’opera di l’editore, conteggiati con straorLeonardo da Vinci, in dieci capidinaria larghezza di date dal toli che vivisezionano i suoi di1980 di origine. A questo propopinti; la seconda cataloga la sua sito, una parentesi è obbligatoria: pittura, specificando nel dettanel 1980, il diciottenne Benedikt Leonardo da Vinci - The Complete Paintings and Drawings, glio lo stato di conservazione di Taschen aprì a Colonia, in Ger- a cura di Frank Zöllner e Johannes Nathan; in inglese, tedesco e spagnolo; mania, sua città natale, una li- Taschen Verlag, 2004; 696 pagine 29x44cm, cartonato con sovraccoperta; 150,00 euro. ogni opera; la terza classifica le Leonardo da Vinci - The Complete Paintings and Drawings migliaia di suoi disegni, seicenbreria di fumetti, appunto Ta- [edizione dei 25anni Taschen / 555anni dalla nascita di Leonardo], totrentatré dei quali sono riproschen Comics, di venticinque me- a cura di Frank Zöllner e Johannes Nathan; in italiano; Taschen Verlag, 2007; 696 pagine 24,5x37,2cm, cartonato con sovraccoperta; 49,99 euro. dotti dalle tavole originarie. tri quadrati. Tutto è nato lì! Gli autori Frank Zöllner e JoEntrambi ancora in catalogo, Distribuzione: Inter Logos, strada Curtatona 5/2, 41100 Modena; www.books.it. l’originario Leonardo da Vinci - The Complete Pain- la fascetta esterna di confezione del volume ripren- hannes Nathan sono eccezionalmente qualificati. Frank Zöllner ha elaborato due tesi di dottorato tings and Drawings e il conseguente del Venticinque- de le cifre del logotipo dei “25anni Taschen”, ricorsimo, sono esattamente uguali tra loro: a cura di diamo anche qui che la sequenza cinque-cinque-cin- su teoria artistica ed architettonica (1987) e LeoFrank Zöllner e Johannes Nathan; seicentonovanta- que è una delle componenti sostanziali delle sce- nardo da Vinci (1996). Ha redatto numerose pubsei pagine; volumi cartonati con sovraccoperta; neggiature cinematografiche statunitensi. I numeri blicazioni sull’arte e le teorie artistiche del Rinasci29x44cm, il primo, venduto a 150,00 euro; di telefono che vengono citati nei film americani ini- mento e su Paul Klee. Dal 1996, è docente di Arte 24,5x37,2cm, il secondo, in italiano (!), comunque ziano appunto tutti con “cinque-cinque-cinque”, rinascimentale e Arte moderna alla Universität Leipdi dimensioni fisiche più che consistenti, venduto a combinazione inesistente nella realtà, che salva- zig, in Germania. Johannes Nathan ha studiato storia dell’arte alla 49,99 euro. Con straordinaria combinazione aggiun- guarda ogni possibile contestazione da utenti delle ta, il Leonardo da Vinci - The Complete Paintings and linee telefoniche. A questo proposito, nella sceneg- New York University e al Courtauld Institute of Art, Drawings del Venticinquesimo della casa editrice si giatura del film Last Action Hero (di John McTiernan, di Londra, dove ha discusso il suo dottorato nel avvale altresì del suggestivo allineamento ai cinque- 1993), in Italia Last Action Hero - L’ultimo grande 1995, con una dissertazione sui metodi operativi di centocinquantacinque anni dalla nascita di Leonardo, eroe, la vicenda del “555” telefonico è affrontata Leonardo da Vinci. Ha insegnato alla New York Uniuna delle menti più straordinarie che il mondo abbia dal giovane protagonista Danny Madigan (Austin O’- versity e all’Università di Berna, in Svizzera; ed è aumai conosciuto: 1452-2007. Brien), che intende convincere l’eroe di celluloide tore di una vasta serie di pubblicazioni sull’arte riNota di costume. A parte la grafia “555”, che sul- Jack Slater (Arnold Schwarzenegger) dell’irrealtà del nascimentale italiana.

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strong necessitano al nostro lavoro quotidiano, oppure nei negozi di belle arti a rifornirci di supporti adatti alle nostre (presunte) opere. Il Codice Atlantico contiene disegni dei più svariati soggetti. Vi si trovano: ❯ contributi agli studi di meccanica, matematica, astronomia, botanica, geografia, fisica, chimica e architettura; ❯ disegni di ordigni da guerra, macchine per scendere sul fondo del mare e per volare, utensili e progetti architettonici e urbanistici; ❯ appunti su aspetti teorici e pratici di pittura, scultura, ottica e prospettiva; ❯ apologhi, favole e meditazioni filosofiche. Da più di quarant’anni rilegati in dodici volumi di tale peso da pregiudicarne la conservazione, i millecentodiciannove fogli del Codice Atlantico sono stati ora sfascicolati e collocati singolarmente in appositi passepartout, in modo da poter essere

preservati nelle migliori condizioni ambientali. Da cui e per cui, è finalmente possibile rendere i disegni vinciani fruibili al grande pubblico. Allo stesso tempo, è stata realizzata una scansione digitale di tutti i fogli del Codice Atlantico, eseguita da Mida informatica con scanner MetisSystems, dalla quale sono previsti e programmati prodotti multimediali a carattere didattico e divulgativo. A parte moderati richiami utilitaristici, all’ottica piuttosto che alla prospettiva, cosa c’entra in tutto questo la fotografia? Niente, se così vogliamo pensarla. Tanto, se osiamo ipotizzare come e quanto occuparsi di fotografia e scattare fotografie siano esercizi che dipendono anche da sovrastrati culturali e di conoscenza. Altrettanto, se non ragioniamo per strade chiuse e a senso unico, ma vogliamo arricchirci e arricchire le nostre attività di quanto può comporre i tratti di qualsivoglia differenza. Serve dirlo? Da non perdere! M.R.

Maestro Leonardo Fiorentino in Milano: sei anni di esposizioni delle tavole del Codice Atlantico, conservato presso la Biblioteca Ambrosiana, di Milano. ❯ Biblioteca Ambrosiana (piazza Pio XI 2, 20123 Milano; 02-806921; www.ambrosiana.it, info@ambrosiana.it). Pinacoteca, Aula Leonardi e Sala Federiciana (con i disegni del Codice Atlantico): dal 10 settembre, per sei anni; martedì-domenica 9,00-19,00; 15,00 euro. ❯ Santa Maria delle Grazie (via Sassi 1 / corso Magenta, 20123 Milano; 02-4676111; www.grazieop.it / Cenacolo: 02-89421146; www.cenacolovinciniano.it). Sacrestia del Bramante (con i disegni del Codice Atlantico): dal 10 settembre, per sei anni; martedì-domenica 8,30-19,00; 15,00 euro. Visita di trenta minuti. Prevendita (con prenotazione obbligatoria): www.ambrosiana.it e 051-5881589 (lunedì-venerdì 9,30-13,30 - 14,30-18,00).

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GLOEDEN A CAPRI

Progetto della Fondazione Capri e dell’Associazione Culturale La Conchiglia (che ha anche tre eleganti e ammalianti librerie sull’Isola), in collaborazione con Alinari 24ore, Dioniso a Villa Lysis: la fotografia di Wilhelm von Gloeden propone sulla celebre isola napoletana il corpus di immagini che Italo Zannier ha selezionato per l’allestimento milanese di Wilhelm von Gloeden Fotografie. Nudi Paesaggi Scene di genere, al Palazzo della Ragione all’inizio dello scorso anno (FOTOgraphia, marzo 2008). Inaugurata a metà agosto, la mostra rimane in cartellone a Villa Lysis fino al prossimo quattro ottobre, e fa parte della corposa rassegna Capri. I luoghi della Parola - Le parole degli dei. A tutti gli effetti, e come abbiamo avuto già modo di sottolineare, la consistente retrospettiva, che presenta centotrenta stampe del celebrato fotografo, infrange e supera antichi tabù sulla personalità del barone Wilhelm von Gloeden, troppo spesso morbosamente riferita alle sole rappresentazioni di nudi maschili, semplicisticamente licenziati per la propria connotazione pseudo sessuale. A sostanziale differenza, questa

MAURIZIO REBUZZINI

VON

L’allestimento di Villa Lysis, a Capri, arricchisce le fotografie di Wilhelm von Gloeden di una cornice ambientale che accarezza le immagini e accompagna il visitatore in una atmosfera paradisiaca, che si rivela dalle finestre delle sale, affacciate su un mare, una natura e luci che aggiungono il sapore della realtà. Ritratto di bambina; circa 1900; stampa all’albumina, 36,8x28,7cm (Archivi Alinari, Firenze).

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curata da Italo Zannier è una visione complessiva sull’opera fotografica dell’autore, che si rafforza nell’edizione libraria di un avvincente volume di accompagnamento, che ripropone tutti i soggetti della mostra. Soprattutto l’allestimento scenico, che a Capri aggiunge il valore e spessore di un allineamento paesaggistico non certo secondario, ma anche le pagine del volume, sottolineano una statura fotografica che non dipende solo dall’esuberanza dei soggetti espliciti (ma anche apparenti), ma da una capacità espressiva che non può essere etichettata, né bollata, con semplicismi di maniera. Nello specifico dell’eccezionale esposizione di Capri, questa selezione dagli Archivi Alinari (con ulteriore integrazione di fotografie di Wilhelm von Plüschow, cugino di von Gloeden) si arricchisce di una cornice ambientale che accarezza le immagini e accompagna il visitatore in una atmosfera paradisiaca, che allinea i soggetti delle fotografie al paesaggio che si rivela dalle finestre delle sale, affacciate su un mare, una natura e

luci che aggiungono il sapore della realtà. Insomma, fotografie che non soltanto si guardano, così come le si possono aver viste in tante altre occasioni, ma si respirano e si sentono respirare: dalla loro superficie, che ha fermato il tempo, si approda allo scorrere degli istanti delle proprie vite personali, con emozioni palpitanti e coinvolgimento senza pari. Capri e Villa Lysis dischiudono una visione complessiva sull’opera fotografica di Wilhelm von Gloeden, che conduce l’osservatore al di là di una linea di demarcazione inutile e preconcetta, che gli consente di superare pregiudizi e prevenzioni di sapore amaro. Almeno per la libertà di espressione e pensiero. Un’esperienza unica, che fa rimpiangere di non poter presentare più spesso la fotografia in cornici ambientali altrettanto allineate e coinvolgenti. Un’esperienza che vale la pena vivere.

IL BARONE Attivo in Sicilia, a Taormina, dal 1878 alla sua morte, avvenuta nel 1931, il barone tedesco Wilhelm von Gloe-


CORNICE INCANTEVOLE

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illa Lysis, di Capri, che accoglie e presenta la selezione fotografica di Wilhelm von Gloeden curata da Italo Zannier, fu progettata nel 1904 da Edouard Chimot, in uno stile che coniugò varie istanze e ascendenze culturali del committente, il conte Jacques d’Adelsward-Fersen. La Villa è stata edificata su un terreno in cima a una collina all’estremità nord-est dell’Isola, vicino al luogo nel quale, due millenni fa, l’imperatore romano Tiberio aveva costruito la sua Villa Jovis. Fu identificata Villa Lysis in onore al giovane amico di Socrate, ricordato da Platone nei Dialoghi, ed è stata frequentata dai tanti artisti e intellettuali che hanno vissuto o soggiornato sull’Isola. Così, negli anni, Villa Lysis si è guadagnata il riconoscimento di autentico crocevia e polo attrattivo di fermenti culturali, artistici e politici internazionali e laboratorio creativo di nuove sperimentazioni. La sua architettura rappresenta l’atto creativo più importante della variegata produzione artistica del raffinato autore francese Edouard Chimot, e ancora oggi conserva una capacità attrattiva difficilmente spiegabile. Roger Peyrefitte l’ha descritta come il

den è uno dei grandi personaggi della Storia della fotografia. Dioniso a Villa Lysis: la fotografia di Wilhelm von Gloeden presenta e offre centotrenta stampe vintage, soprattutto raffinate copie su carta all’albumina, e una selezione di lastre negative originali. Le immagini ripercorrono la parabola espressiva dell’autore, opportunamente divisa in sezioni corrispondenti ai principali generi affrontati: il paesaggio, nella tradizione del Romanticismo; il ritratto classico; il ritratto orientale; il ritratto antropologico; il mascheramento; il nudo; la scena di genere. Wilhelm von Gloeden è nato il 18 settembre 1856, in Germania, vicino a Wismar, a Schloss Volkshagen, dal barone Hermann von Gloeden e dalla baronessa Charlotte Maassen. In terzo matrimonio, sua madre, rimasta vedova del barone von Gloeden, sposò il barone von Hammerstein, parente dell’imperatore Guglielmo II, che si prese cura di Wilhelm. Il patri-

simbolo dell’“altra” Capri, raffinata, eversiva e pagana. In cattive condizioni, subito dopo la morte del conte proprietario, mostrando evidenti segni di cedimenti e crolli, la Villa fu moderatamente restaurata nel 1934. Nel 1988, il Ministero per i Beni Culturali e Ambientali ha emesso un decreto che pone un vincolo sulla proprietà, e nel contempo stabilisce il suo diritto di prelazione. Rimasto per decenni in pessime condizioni, l’edificio è stato restaurato solo negli anni Novanta, a cura dell’architetto toscano Marcello Quiriconi, su committenza dei proprietari. Nel 2001, Villa Lysis è stata acquisita dal Comune di Capri, ed è stata inserita in un percorso integrato che comprende una consecuzione di siti, monumenti e sentieri. Uno degli intendimenti della Fondazione Capri è quello di tutelare e valorizzare i beni storici, architettonici e paesaggistici dell’Isola di Capri. Villa Lysis è una delle dimore che ospitano gli eventi della Fondazione, con l’intento di far visitare e vivere questi luoghi come momenti di cultura, per porre l’attenzione su dimore meravigliose, che non dovranno mai essere abbandonate, ma rispettate e conservate nel modo più rispettoso. gno gli fece studiare storia dell’arte a Rostock, e successivamente lo fece entrare nell’Accademia di Weimar. Mentre Wilhelm von Gloeden completava la propria formazione artistica e musicale, soffriva di tubercolosi. Per questo, e influenzato dalle relazioni di Goethe («La Sicilia è la chiave di tutto»), accettò l’invito del pittore Ottone Géleng di visitarlo a Taormina, sua nuova residenza, per una convalescenza salutare. Nel 1878, partì per il tradizionale Grand Tour dei viaggiatori dell’Ottocento. Visitò Roma, Capri, Napoli e Taormina, dove si stabilì in una villa con giardino, che allestì anche come atelier fotografico. Gli incontri con il cugino Wilhelm von Plüschow, fotografo attivo, e il pittore Francesco Paolo Michetti e l’aiuto di un fotografo taorminese, Giovanni Crupi, furono decisivi per la sua formazione culturale nel mondo della rappresentazione fotografica. Wilhelm von Gloeden ha raccon-

Caino; circa 1900; stampa moderna da negativo originale su lastra 40x30cm (Archivi Alinari, Firenze).

tato questi anni: «Il grande artista Francesco Paolo Michetti, al quale presentai i miei primi modesti lavori fotografici, m’incoraggiò colla sua viva approvazione a continuare nella difficile impresa. Accolto con la massima ospitalità in casa di questo grande artista e vivendo nell’ambiente artisticamente eletto frequentato da Gabriele D’Annunzio, Matilde Serao, Costantino Barbella, il mio spirito trovò un alimento prezioso. Ma forse l’impressione lasciatami mi portò talvolta involontariamente a imitare il genere di quel grande artista, che così mirabilmente consacrò sulla tela la sua terra natìa». Un passo importante fu l’esposizione delle sue fotografie a Londra, presso l’esclusivo Linked Ring (i cui dibattiti appartengono alla Storia della fotografia) e la Royal Photographic Society, dove ottenne la medaglia d’oro per le sue opere. La perdita dei sostegni finanziari del patrigno, coinvolto in uno scandalo a

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Ritratto di donna; circa 1900; carta albuminata mat, 40,5x30,7cm (Collezione Malandrini Archivi Alinari, Firenze).

sfondo omosessuale e condannato al sequestro dei beni e al carcere, lo costrinse a trasformare la propria passione in professione. Quindi, Wilhelm von Gloeden mise in commercio le proprie immagini siciliane, moltiplicò le copie in forma di cartoline postali e tirature commerciali. Dal 1905, si dedicò alle vedute di paesaggi, monumenti, contadini e contadine in costume tradizionale e iniziò a vendere i suoi nudi maschili.

AUTORE Conosciuto soprattutto per queste ispirate raffigurazioni, venne in contatto con l’alta società e la cultura internazionale dell’epoca. Lo scrittore inglese Oscar Wilde lo visitò a Taormina, come fecero anche Matilde Serao, Anatole France, Triphosa Bates-Batcheller, Eleonora Duse, Gabriele D’Annunzio, il principe Augusto di Prussia, il re Edoardo VII, il re del Siam, e gli industriali Krupp, Morgan, Rothschild, Vanderbilt. La fedeltà di Wilhelm von Gloeden alla luce della Magna Grecia, e quindi a un classicismo arcaico, determina la sua cifra stilistica che, secondo Charles Henri Favrod, «trova la bellezza espressiva del corpo nudo del suo modello, che sfuma in un imprendibile desiderio erotico, sublimato mediante un possesso estetico».

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Due giovani nudi; circa 1900; stampa all’albumina, 22,9x16,5cm (Archivi Alinari, Firenze).

Coinvolto in accuse di omosessualità, perversione e persino pedofilia, «il barone non è mai assurto agli onori della cronaca locale e anzi ha ottenuto l’avallo della parrocchia». Ancora si tornò sull’argomento dopo la sua morte, avvenuta nel 1931. Otto anni dopo, nel 1939, i rigori morali del fascismo si abbatterono su Pancrazio Bucini, detto Il Moro, assistente di von Gloeden, che aveva ricevuto in gestione (eredità?) l’intero patrimonio dell’artista, comprese le sue innumerevoli riprese fotografiche. In particolare, l’inchiesta giudiziaria stabilì che «il fotografo non volle compiere un’opera d’arte, ma procurarsi, a scopo di lucro volgare, delle fotografie tendenti unicamente a eccitare la bassa concupiscenza degli stranieri pervertiti e destinati al terzo girone del settimo cerchio dell’Inferno».

La sentenza del 30 maggio 1941 assolse Pancrazio Bucini, mitigò le accuse originarie, ma bollò l’opera di Wilhelm von Gloeden con l’onta del «cattivo gusto», pur riconoscendone un certo valore artistico. E il dibattito, nobilitato da positive note critiche, tra le quali quelle del già citato Charles Henri Favrod e di Italo Zannier, potrebbe essere ripreso oggi, alla luce della mostra di Capri, cornice che più e meglio di altre si addice sia alla serena riflessione, sia alla contestualizzazione ambientale e culturale delle fotografie di Wilhelm von Gloeden. A.G. Dioniso a Villa Lysis: la fotografia di Wilhelm von Gloeden. A cura di Italo Zannier. Villa Lysis, via Lo Capo, 80073 Capri NA; www.fondazionecapri.org. Fino al 4 ottobre; 10,00-19,00.


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CLAUDE CAHUN

Il solo dovere che noi abbiamo verso la storia della fotografia, è quello di riscriverla. Quando le idee della fotografia si diffondono nel cielo del mercimonio, o emergono dal dolore della Terra, è necessario che etica ed estetica abbiano una certa consistenza: la fotografia è ciò che disvela, mai ciò che celebra. Ogni fotografia racchiude un contenuto sensibile, o una menzogna. Ogni fotografia dice di più di quanto non esprima. Ogni fotografia rivela ciò che dice e mostra quello che nasconde dentro, anche. È necessario che il linguaggio fotografico ritorni dal proprio esilio e cessi di essere servo del pensiero dominante. La fotografia è creatrice di realtà e bellezza; e ovunque posa le sue ali, schiude il regno della libertà alla poesia. I fotografi hanno tentato di interpretare il mondo, si tratta ora di cambiarlo. Se vuoi conoscere un fotografo, devi prima conoscere la sua infanzia. L’ostilità verso ogni utopia crea un sistema di norme, che vuole imporre ai dominati. L’utopia nega la storia, come nega le fedi, i saperi, le ideologie; alle declamazioni dei funesti demiurghi, oppone la rivolta degli spiriti nobili e sa fare a meno dei geni e dei tenutari dei codici imposti. I sudditi meritano la gogna che li strangola. Dove le virtù sociali sono conclamate, i Fratelli e le Sorelle del Libero Spirito dissipano la propria scelleratezza. Là dove comincia la disobbedienza, lo sguardo si infiamma e trova la Fotografia nell’agorà, nel bordello o nel sangue innocente della guerra: l’indignazione è il suo stato naturale. La Fotografia è una lacerazione dell’esistenza, che la riabilita e l’umanizza. Senza la Fotografia di Diane Arbus non si può vivere. Il mirabile fotografico uccide. Là

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dove la Fotografia riafferra la vita, illumina il mondo.

SULLA GRAZIA DELLA FOTOGRAFIA LESBICA La scrittura fotografica, androgina, di Claude Cahun, non teme di esprimere l’amore al tempo dell’amore lesbico negato. Non è poi, oggi, al di là dei discorsi e delle legittimità politiche e culturali acquisiti sul campo dal movimento lesbico, che l’omosessualità femminile sia così compresa come sembra; la gerarchizzazione dei piaceri vorrebbe impedire i turba-

dei corpi in amore il diritto di cittadinanza della diversità. La forza dionisiaca dell’omosessualità (femminile e maschile) spaventa, e desiderare l’eguale a te (al tuo stesso sesso) è dunque il peccato supremo. Sognare un immaginario a misura di tutte le diversità possibili significa accollarsi il disprezzo di epoche oscure, mai tramontate definitivamente, allevate alla scuola della denigrazione dai padri della chiesa e dai legislatori dello stato. Il reale androgino è l’athanor dei sentimenti struccati. «L’androgino è

«Sono posseduta dall’amore e non ho scelte. Sono in alto mare, ignorante e sbalordita come la prima volta che mi imbattei nell’algebra. Mettimi come un sigillo nel tuo cuore, perché l’amore è forte come la morte. L’immaginazione dei genitori crea cornici, entro le quali i figli di rado accettano di crescere» Elisabeth Smart menti della sessualità, e sono pochi i cervelli illuminati, specie quelli maschili, che pensano e praticano la deriva dei piaceri, scatenano passioni e desideri ovunque incontrano il godimento di sé. L’amore lesbico, più di ogni altro, forse, esprime un rizoma a/convenzionale della grazia, e posa sull’armonia

il corpo ideale, senza fratture, senza inclinazioni, senza difetti» (Michel Onfray). L’amore lesbico afferma la libertà della salute sessuale e, quando è vissuto nel sangue dei giorni, acquista un’eccezionale carica di verità. L’amore lesbico, come ogni forma di amore autentico, è il tentativo

di vivere ciò che il corpo esige. Il corpo parla. È il solo modo di interpretare il mondo e di cambiarlo alla radice. Dove regna la filosofia dionisiaca crollano i simulacri. Vi è più ragione in un corpo in amore che nelle tavole comandamentali di ogni ordinamento sociale. Non si nasce impunemente omosessuali, lesbiche o folli; lo straordinario non ha bisogno di commenti; la mediocrità della saggezza è una gogna alla quale nessuna diversità sfugge; in amore, ogni regola equivale a una lordura e ogni assoluzione è un attentato alla purezza. Non c’è niente di più pericoloso e sovversivo, quanto prendersi delle libertà con la libertà di amare: la scoperta del Meraviglioso è tutta qui.

SULLA FOTOGRAFIA ANDROGINA E IL CORPO CHE PARLA

La fotografia androgina di Claude Cahun è costituita da autoritratti avvolti in un’aura autoriale, che nulla o poco hanno a che vedere con l’estetismo da galleria d’arte di Cindy Sherman. Le sue autoimmagini implicano la conoscenza dell’edonismo materialista, che si ritaglia in un reale totalmente privo di sacro; l’autoironia diventa liberazione di rabbie, trasgressioni, sregolatezze, che si fanno amore di sé e per l’altra/o. L’arte di gioire sul pudore profanato dell’innocenza amorosa, i buoni poeti lo sanno. Il corpo è il luogo dell’assassinio delle “belle arti”, e solo il corpo abitato porta in sé l’ebbrezza della gioia panica o lo stato di disobbedienza dei conflitti sociali. Il princìpio del piacere e il princìpio di realtà che agitano i corpi in libertà non conoscono confini sessuali: siamo la sessualità che il corpo ci detta. La fotografia di Claude Cahun è innanzitutto la confessione di un corpo sognato (ermafrodito,


androgino, dandy), e al contempo l’espressione compiuta di una vitalità che le permette di raggiungere stati sublimi, in fotografia come in amore. Gli autoritratti di Cindy Sherman evidenziano la visione mascherata della macchina desiderante, dispositivi di un’elegia del corpo trasformato, sovente anche asessuato, che esprimono disprezzo o rifiuto del desiderio. In realtà, Cindy Sherman non mette in scena se stessa e i vizi e le virtù delle donne (come hanno scritto in molti); più di tutto, le sue fotografie, qualunque sia la lettura, cantano l’accezione del mercato e si richiamano a una demoltiplicazione seriale presa a prestito dall’impero dei media. Lo straordinario non ha bisogno di aureole. La mediocrità, sì. L’abuso dell’artista d’avanguardia (ogni avanguardia si è sempre distinta nella storia come retroguardia o cane da guardia del potere) è una forma di autocastrazione. È difficile imbattersi in un uomo o una donna, quando si nascondono sotto l’etichetta dell’artista (compreso o incompreso, fa lo stesso). Sono sempre iscritti (come i drogati del successo) sul libro paga dei padroni dell’immaginario. Di Helmut Newton, Nobuyoshi Araki, Joel-Peter Witkin o Nan Goldin si può fare volentieri a meno; di Tina Modotti, no! Gli autoritratti di Claude Cahun ci portano dentro lo specchio dell’omosessualità rivendicata; tuttavia, non sono opere incentrate sul narcisismo o sul suggerimento di immaginari altri, che non siano quelli della frattura radicale con i valori e i costumi dominanti. In Anne Brigman, Diane Arbus e Claude Cahun, la nudità del corpo recupera l’intemperanza delle differenze, e la grande poesia visuale di queste contestatrici dell’“anima bella” maschile, affabula quella «S-definizione dei ruoli e delle identità, quasi come protesta e ribellione alle norme di codificazione dei generi e delle inclinazioni sessuali» (Federica Muzzarelli; Il corpo

e l’azione. Donne e fotografia tra Otto e Novecento; Editrice Atlante, 2007). Tutto vero. La messa in scena dell’immaginario dal vero (Henri Cartier-Bresson) è un territorio di sogno ad occhi aperti, e la verità è sempre in fuga dal reale. Il bizzarro, l’indicibile e il meraviglioso si ritagliano nella fascinazione della disobbedienza estetica, etica, che sconcerta, offende, fa tabula rasa delle conoscenze culturali, religiose, politiche, e le loro immagini in rivolta dicono: giù le mani dall’amore! La rivoluzione dell’amore, prima di ogni cosa! Tutto è permesso in amore! Quando mi sono trovato sulle fiumane della grande fotografia androgina di Claude Cahun, mi sono seduto davanti al suo autoritratto -Elle in Barbe Bleue (1929)- e ho pianto. La grande fotografia sa quello che il fotografo ignora.

SULLA GRAZIA DELLA FOTOGRAFIA LESBICA DI CLAUDE CAHUN Per amore, solo per amore della grazia della quale è feconda la fotografia lesbica di Claude Cahun, mi sono imbattuto in quella filosofia della frattura (non solo fotografica) che si disfa di rimorsi e rancori contro i possessori di conclusioni, che sulle ghigliottine dell’enfasi fanno colazione con i boia di novelle inquisizioni. Lucy Renée Mathilde Schwob (Claude Cahun) nasce a Nantes, in Francia, nel 1894, tra gli agi di una famiglia della “buona borghesia” ebraica. I suoi quattrocento lavori, in massima parte autoritratti, rappresentano la bellezza e l’indignazione di un’artista fuori dai ranghi. Le sue opere non si conciliano con l’esercizio del potere, ma innalzano l’immagine fotografica a rispetto della Donna e, sotto un certo taglio, anche degli uomini un po’ speciali, credo. Claude Cahun resta spaventata davanti alla prostituzione del talento, e la sua rivolta non è declamatoria, ma utopica.

Il nonno George Isac è amico di Flaubert; lo zio Marcel è uno scrittore di talento; il padre dirige il quotidiano La Phare de la Loire; ha un fratello (George), e la madre (Victorine Mary Antoniette Courbebaisse) finisce presto in un manicomio, e lì morirà. Lei vive soprattutto con la nonna paterna Mathilde Cahun, dalla quale ereditò il nome d’arte. L’incontro con Marcel Moore (Suzanne Malherbe) è di quelli folgoranti. Erano sorellastre. Marcel era figlia della seconda moglie di Maurice Schwob. Fu subito amore. Nello splendido saggio di Federica Muzzarelli (appena citato), su questa fotografa del dissidio si legge: «Le due amanti-sorelle condivideranno tutte le esperienze artistiche e anche le difficoltà che la vita le costringerà ad affrontare, vivendo una passione estremamente gelosa e possessiva». Il loro rapporto d’amore sarà lungo e fruttuoso, e insieme ad altre coppie omosessuali del primo Novecento (Gertrude Stein - Alice B. Toklas, Margherite Yourcenar - Grace Frick, Virginia Woolf - Vita Sackville-West) lasceranno in eredità alla filosofia edonista/lesbica, un’etica libertaria con la quale scardinare secoli di sottomissioni e violenze contro le donne. All’avvento dell’occupazione nazista, Claude e Marcel si ritirano nell’isola di Jersey (davanti alle coste della Normandia, un tempo rifugio di corsari), e fino alla fine della loro esistenza resteranno ostiche a tutte le promesse della politica istituzionale. Lavorano in simbiosi a fotomontaggi, fotografie, scritti. Derivati dalla lezione dadaista e provocatoria di John Heartfield, insieme alla traduzione in tedesco di testi disfattisti, diffusi in clandestinità, i fotomontaggi sono usati come strumenti di sabotaggio e sovversione dei falsi miti della Germania hitleriana. La loro casa viene saccheggiata dalla Gestapo (una parte del loro archivio, le immagini più imbarazzanti, forse, sono di-

strutte). Claude e Marcel furono sbattute in carcere, e condannate a morte; resteranno recluse dal 25 luglio 1944 al successivo otto maggio. Maldestramente, tentarono anche il suicidio. Claude Cahun muore a Jersey, l’8 dicembre 1954; Marcel Moore si toglierà la vita (con i barbiturici), il 19 febbraio 1972. Ci piace pensare che si siano ritrovate in un campo di rose di maggio e si siano dette: «Ecco il letto dove l’amore così spesso ci liberava» (Elisabeth Smart). Molti degli autoritratti di Claude Cahun sono stati presi con una Kodak Pocket Camera, amata (senza troppi clamori) dai surrealisti. Claude Cahun partecipò a due esposizioni d’arte collettiva del gruppo surrealista (a Londra e a Parigi), ma è la frequentazione di utopisti dell’eresia, come Georges Bataille, Antonin Artaud e Marcel Duchamp, che le faranno comprendere l’importanza del corpo “ignudo” (corpo in azione), come alterità del corpo sociale. Ebrea, lesbica, comunista... Claude Cahun si fa maschera, bambola, angelo, demone, farfalla portatrice del “terzo sesso”, e evita qualsiasi classificazione culturale. Il suo corpo è anche la sua fotografia. A ragione, Federica Muzzarelli affranca la sua opera al cinema visionario di Maya Deren, ma non è poi così azzardato allineare la filosofia eversiva della Cahun agli scritti comunardi di Ulrike Marie Meinhof, alla bellezza scritturale a/pornografica (senza filtri o censure pregiudiziali) di Jana Černà e al cinema di resistenza di Danièle Huillet (con Jean-Marie Straub). Il brutto non offende tanto Dio, quanto l’uomo/donna che fa del proprio gioire la risposta a tutte le forme di tirannia; l’innocenza è l’altra faccia del peccato, e non ci può essere nessuna salvezza se non c’è perdizione di sé. La surrealtà della fotografia di Claude Cahun porta luce in un’epoca buia; le metamorfosi dei suoi autoritratti segnano

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un’epifania del diverso o una malinconia del ludico e, senza sorridere mai, l’artista (o il suo doppio) prende atto della propria soggettività e rivendica il diritto di vivere e morire liberamente. Su sentieri espressivi differenti, Marie de Gournay, Sylvia Plath, Frida Kahlo, Leonora Carrington, Tina Modotti, Diane Arbus e Susan Sontag hanno mostrato -come Claude Cahun- che il pensiero libertino e libertario è stato il solo che ha infranto la tradizione (spregiativa) cristiana e statuale, legittimato il soddisfacimento della diversità (della sessualità) e fatto della voluttà la critica radicale all’intera società. A leggere con attenzione le autoimmagini di Claude Cahun, possiamo cogliere alcuni ritratti straordinari, ignorati, sconosciuti o cestinati da molti assemblatori della storiografia fotografica. In Autoritratto (1920), Claude Cahun si fotografa davanti a un telo scuro, di spalle, con la faccia da uccello rapace che guarda da un lato; ha una canottiera nera, i capelli rasati e una pelle lunare, bianca. Il corpo diventa parola, immagine, sogno; l’immaginario androgino, incestuoso, disperso in una notevole ricercatezza formale, anche, riflette il sale amaro dell’ironia: più ancora, accorcia la distanza tra etica ed estetica, e conia una sua giustizia e una sua bellezza (che, come sappiamo, per i greci erano intimamente legate alla virtù e all’eccellenza). Il travestimento le riesce bene, e Elle in Barbe Bleue (1929) è senza dubbio un’opera eccezionale. La fotografa-soggetto indossa un abitino da educanda, e mostra il peccato di essere donna. Una treccia di capelli sulla testa allude a una corona, le mani strette dietro la schiena e il corpo un po’ inclinato verso la sua destra suscitano pensieri empi, o alludono a una “allegrezza” dimenticata. In questa immagine Claude Cahun fa conoscere, come pochi altri fotografi, lo smaliziato, il tragico, il solitario... e deplora l’inesisten-

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za di una vita sessuale unica [in dettaglio, sulla copertina del saggio Il corpo e l’azione. Donne e fotografia tra Otto e Novecento, di Federica Muzzarelli, già ricordato]. L’autoritratto pubblicato nella rivista Bifur (1929-30) è una forzatura del corpo, una penetrazione dell’anima, una profanazione iconoclasta dell’ombra e della luce. Claude Cahun è immersa in un telo scuro, avvolta nel buio; ha un abito nero, che lascia vedere le spalle bianche; la faccia è bianca; la testa rasata e lo sguardo lievemente abbassato, alla maniera delle figure sacre. L’immagine è deformata, fino a cancellare l’impronta fotografica, e fa emergere una figurazione dell’indistinto o del chiaro; forse, in questa fotografia c’è un elogio della riservatezza, e al contempo uno schiaffo alla “pubblica morale”. Più di tanto altro (ancora), c’è l’esilio dell’ignoranza umana. Il corpo di Claude Cahun non ha capelli, ciglia e sopracciglia, si taglia via da ogni artificio estetico incline a raccogliere consensi, e al verosimile sostituisce il vero possibile. La ragione si emancipa sul disvelamento dei costumi: dove la genealogia della sessualità vive la dolcezza, la tenerezza e il florilegio delle differenze. L’ironia e il sarcasmo non le mancano. In un altro Autoritratto (1927) è tutta vestita. È ben pettinata, con due vezzose ciocche di capelli sulla fronte. Truccata con cura, le labbra a cuore, si è dipinta col rossetto dei cuoricini sulle guance; indossa una gonna nera, la sciarpa grigia, il maglione grigio, con una bocca disegnata e la scritta “I am in training don’t kiss me”. Ancora, due cerchi neri sono sistemati al posto dei seni, un cuoricino fatto a lapis su una calza grigia: il corpo liquida l’istinto dei piaceri a spettacolo, e mette in scena la detestazione della vita ordinaria. Qui, Claude Cahun insegna a ritrovare la via della grazia (non della legge) e della predestinazione (la libertà sessuale), e fare del

desiderio più estremo, la risoluzione del piacere. Ci sono autoritratti di una bellezza fulminante, eretica, insolente (non solo per l’epoca). In Autoritratto (1928), Claude Cahun si fotografa a fianco di un telo scuro, vestita da uomo. Elegante, in un abito nero, la sciarpa bianca, un fazzoletto bianco nel taschino, la faccia bianca, la testa rasata, una mano appoggiata sul fianco e l’altra stretta in un pugno, leggera. Guarda in macchina, fiera della propria diversità; sembra sfidare le convenzioni del giusto e dell’ingiusto, e fare delle cattive virtù della sessualità liberata un’ascesi del dispendio e dell’eresia realizzati. La sua contro-morale coglie al volo la ribellione di Rimbaud, Wilde, Whitman, e infonde alla sua fotografia l’insurrezione dell’Eros: non nasconde né la sua origine, né la sua definizione, e il corpo diventa il segno della sessualità praticata senza complessi. La sessualità libertaria infonde l’abolizione di ogni forma di violenza e si evolve come critica radicale dell’ingiustizia. Ancora un’immagine di notevole compiutezza espressiva, Autoritratto (1927). Claude Cahun è vestita di nero, su uno sfondo nero, la faccia bianca, i capelli corti, le mani sono incrociate e stringono una lente/specchio, dove c’è qualcosa riflesso: una stanza, un tavolo, una finestra, un’ombra? È stupenda, bellissima, né uomo né donna né bambina, o forse tutti e tre. Guarda in macchina, sicura della sua bellezza androgina; libera ogni colpa nella grazia, e fa di ogni peccato il rifiuto di obbedienza a qualunque autorità. In questa autoimmagine (come in tutta l’opera di Claude Cahun), si coglie la battaglia dei “quasi adatti”, che combattono la repressione della vita organizzata dalla chiesa, dallo stato e dalle ideologie. Claude Cahun e tutti i libertini e i libertari vessati, violentati, massacrati per aver cercato di liberare l’uomo, la donna, dai ceppi della storia... vogliono la li-

bertà dei piaceri, dei desideri e la liberazione dei corpi: l’innocenza primitiva, o rinnovata, dell’intera umanità è nella comunità libertina e libertaria che viene. Come le cattive cause, le fotografie androgine di Claude Cahun esigono temperamento o genialità; sono sorrette dalla coscienza dell’utopia che ignora ciò che molti intendono per linguaggio fotografico, e lavorate su quello che è importante sapere. Quando il mistero è violato, ogni ordine crolla. Claude Cahun mostra se stessa, e nello specchio della propria congiura contro l’ordinamento oppressivo grida che ogni imbavagliamento della sessualità è un atto di demenza. Non è indecente donare i propri segreti, le proprie creazioni, la propria ombra; le ferite dell’esistenza nascono dall’incapacità di non vedere gli dèi come pagliacci; la maggior parte dei santi, dei papi, dei politici, dei generali, dei banchieri, degli artisti è riconducibile al crimine di lesa bellezza. Per fortuna, ci sono vite e opere, come quella di Claude Cahun, che ci salvano dal nulla. Non c’è storia che non sia quella di anime in rivolta. Pino Bertelli (20 volte luglio 2009)



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