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ANNO XVI - NUMERO 155 - OTTOBRE 2009
Kodachrome ADDIO
Edward HOPPER!
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La domanda che ci poniamo è sempre la stessa. Come mai, in altre geografie, il giornalismo e la socialità si riferiscono alla fotografia con cognizione e perizia, addirittura con abilità e autorevolezza, mentre in Italia la materia è trattata in modo approssimativo, andando a confondere lucciole per lanterne? Antonio Bordoni su questo numero, a pagina 51
Non è venduta in edicola. Per averla hai una sola possibilità: sottoscrivere l’abbonamento annuale. 12 numeri 57,00 euro Solo in abbonamento Compilare questo coupon (anche in fotocopia), e inviarlo a: Graphia srl, via Zuretti 2a, 20125 Milano MI (02-66713604, fax 02-66981643; graphia@tin.it)
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ARCHIVIO FOTOGRAPHIA
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IMMANCABILMENTE HOPPER. Come rileviamo a pagina ventotto di questo stesso numero, in un apposito riquadro che accompagna la presentazione dell’antologica del pittore statunitense Edward Hopper, allestita in due tempi consecutivi e conseguenti, prima a Milano (a Palazzo Reale, da metà ottobre), poi a Roma (alla Fondazione Roma, da metà febbraio), una delle opere più omaggiata, rivisitata, reinterpretata e, persino, parodiata della storia dell’arte è il suo intrigante Nighthawks, del 1942. A testimonianza e certificazione, quantomeno quantitativa e statistica, nello stesso riquadro riportiamo una consistente serie di esempi. Qui ne replichiamo un altro: il Nighthawks, dipinto nel 1988 da Gottfried Helnwein. Al solito, è conservata l’atmosfera dell’emblematica visione originaria di Edward Hopper: di notte, nella cruda luce artificiale di un bar, una coppia è seduta in silenzio al banco, ognuno rivolto a e su se stesso. La vetrina arrotondata di questo bar notturno d’angolo fa da cornice agli avventori, rinchiusi in uno spazio ermeticamente definito, separati e isolati sia dal contesto urbano circostante, sia dalla vita. Ancora: la presenza della coppia si contrappone (o allinea?) alla desolazione della vita delle grandi città e alla solitudine di un altro avventore di spalle, anche lui su uno sgabello davanti al bancone. Questo Nighthawks, di Gottfried Helnwein, sostituisce l’anonimato dei personaggi raffigurati con presenze dichiarate: al banco del bar, Humphrey Bogart, Marilyn Monroe e James Dean (che curiosamente, per coincidenza, sono con noi anche nell’odierno incontro con il fotografo Phil Stern, da pagina trentaquattro); dietro il banco, Elvis Presley. Ennesimo omaggio all’opera originaria, questa reinterpretazione è copertina della raccolta di nove racconti ispirati al cinema La perfezione degli elastici (e del cinema), di Laura Pariani, pubblicata da Rizzoli, nel 1997. Nel progetto grafico di Enzo Aimini, che dal fronte della copertina gira sul retro della quarta facciata della sovraccoperta del libro (168 pagine 13,3x21,3cm; 12,39 euro), l’ipotesi visiva è in ordine pertinente: parodia a sfondo cinematografico a confezione di racconti di identica ispirazione. Come dire: forma del contenuto.
Phil Stern stava percorrendo il Sunset con la sua Pontiac: un tipo su una moto gli taglia bruscamente la strada e finisce per terra. «Gli mandai un sacco di maledizioni», racconta, descrivendo come il motociclista si rialzò scrollandosi la polvere di dosso, si avvicinò e si presentò: piacere, James Dean. David Fried su questo numero, a pagina 42 Le calde sfumature dei colori di Edward Hopper svelano la tranquillità di un animo ottimista; mentre, al contrario, troppa fotografia contemporanea è soprattutto sfiduciata e chiusa in se stessa. Addirittura, compiaciuta della propria clinica rilevazione di uno stato di cose senza altro futuro. Maurizio Rebuzzini; su questo numero, a pagina 29 Ancora una volta, immancabilmente (ormai e purtroppo), il mondo della fotografia italiana è stato trafitto da cattiva informazione. Ancora una volta, immancabilmente (ormai e purtroppo), l’ha subìta tacendo: e tacendo, acconsente. Antonio Bordoni; su questo numero, a pagina 44 Con tutte le cose meravigliose che ci sono nell’universo, la fotografia non è così importante. Phil Stern; su questo numero, a pagina 42
Copertina Phil Stern, novant’anni compiuti il tre settembre, è uno dei più significativi fotografi contemporanei. Un suo profilo, con intervista, da pagina 34. Introduciamo e richiamiamo il personaggio, con ripetizione qui accanto, in riferimento alla pagina 35, con un ritratto eseguito dal regista e produttore cinematografico Brett Ratner -amico del fotografo e autore della prefazione alla sua recente monografia A Life’s Work-, nella cui residenza, a Hollywood, è collocata una cabina per fototessere automatiche, nella quale si esprimono i suoi ospiti. Raccolte nella monografia Hilhaven Lodge, appunto il nome della villa, che fu di Ingrid Bergman e Kim Novak, queste giocose fototessere sono state commentate in FOTOgraphia, dell’ottobre 2005
3 Fumetto Da Riflessi di luce, avventura di Rosco & Sonny pubblicata in Il Giornalino, del 6 settembre 1998
7 Editoriale Primo ottobre 1949-2009: sessant’anni di Repubblica popolare cinese. Sogni di un tempo, cruda realtà di oggi
8 Povera, fotografia! Ingiustificati maltrattamenti della fotografia. È di scena un ritratto di Salvatore Giuliano. Serve parlarne ancora?
OTTOBRE 2009
R , RIFLESSIONI IFLESSIONI, OSSERVAZIONI E COMMENTI OSSERVAZIONI E COMMENTI SULLA FOTOGRAFIA SULLA FOTOGRAFIA
10 Notizie Attrezzature, vicende e altre segnalazioni
Anno XVI - numero 155 - 5,70 euro DIRETTORE RESPONSABILE Maurizio Rebuzzini
12 Le scimmie fotografano
IMPAGINAZIONE
Nei due film Planet of Apes - Il pianeta delle scimmie Ricerca iconografica di Filippo Rebuzzini
REDAZIONE
Gianluca Gigante Angelo Galantini
FOTOGRAFIE
15 Progetto Twister
Rouge
Arte contemporanea in dieci musei lombardi
Maddalena Fasoli
SEGRETERIA
HANNO COLLABORATO
18 Reportage Appunti e attualità del fotogiornalismo internazionale A cura di Lello Piazza
21 Over cinquanta Inviolabile sex symbol dei nostri giorni, Sharon Stone in ardite (s)vesti su Paris Match e Vanity Fair (d’agosto)
24 Il carisma dell’arte La lezione di Edward Hopper: a Milano, e poi a Roma di Maurizio Rebuzzini
34 Sono soltanto fotografie? Richiamo volontariamente e consapevolmente provocatorio, in presentazione di una straordinaria personalità della fotografia contemporanea. Incontro ravvicinato con Phil Stern: «Con tutte le cose meravigliose che ci sono nell’universo, la fotografia non è così importante». Come non condividere? Intervista di Lello Piazza
44 In minuscolo: kodachrome Commemorazione della diapositiva appena dismessa, con annotazioni di contorno: povera, fotografia! di Antonio Bordoni Ricerca iconografica di Ciro Rebuzzini
54 Reportage autentico Ticino, le voci del fiume: racconto ben cadenzato, in equilibrio di parole e immagini (di Carlo Cerchioli) di Angelo Galantini
Pino Bertelli Antonio Bordoni Carlo Cerchioli Agenzia Contrasto David Friend Andrea Pacella Loredana Patti Lello Piazza Brett Ratner Franco Sergio Rebosio Ciro Rebuzzini Filippo Rebuzzini Hugo Reyes (CPi, New York) Phil Stern Redazione, Amministrazione, Abbonamenti: Graphia srl, via Zuretti 2a, 20125 Milano; 02-66713604; graphia@tin.it. ● FOTOgraphia è venduta in abbonamento. ● FOTOgraphia è una pubblicazione mensile di Graphia srl, via Zuretti 2a, 20125 Milano. Registrazione del Tribunale di Milano numero 174 del Primo aprile 1994. Poste Italiane SpA - Spedizione in abbonamento postale - D.L. 353/2003 (convertito in Legge il 27-02-2004, numero 46), articolo 1, comma 1 - DCB Milano. ● A garanzia degli abbonati, nel caso la pubblicazione sia pervenuta in spedizione gratuita o a pagamento, l’Editore garantisce la massima riservatezza dei dati forniti dagli abbonati e in suo possesso, fatto diritto, in ogni caso, per l’interessato di richiederne gratuitamente la rettifica o la cancellazione ai sensi della legge 675/96. ● FOTOgraphia Abbonamento 12 numeri 57,00 euro. Abbonamento annuale per l’estero, via ordinaria 114,00 euro; via aerea: Europa 125,00 euro, America, Asia, Africa 180,00 euro, gli altri paesi 200,00 euro. Versamenti: assegno bancario non trasferibile intestato a Graphia srl Milano; vaglia postale a Graphia srl - PT Milano Isola; su Ccp n. 28219202 intestato a Graphia srl, via Zuretti 2a, 20125 Milano; addebiti su carte di credito CartaSì, Visa, MasterCard. ● Nessuna maggiorazione è applicata per i numeri arretrati. ● È consentita la riproduzione di testi e fotografie, magari citando la fonte (ma non è indispensabile, né obbligatorio farlo). ● Manoscritti e fotografie non richiesti non saranno restituiti; l’Editore non è responsabile di eventuali danneggiamenti o smarrimenti. Fotocomposizione DTP e selezioni litografiche: Rouge, Milano Stampa: Arti Grafiche Salea, Milano
Rivista associata a TIPA
60 Note a margine Lettura di portfolio: perché e come. Secondo noi, almeno
65 Commiato da ieri In ricordo di Fernanda Pivano, mancata lo scorso agosto di Pino Bertelli
www.tipa.com
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MAURIZIO REBUZZINI (2)
ARCHIVIO FOTOGRAPHIA
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uriosità delle date, curiosità dei numeri che si inseguono e sovrappongono tra loro. Sono stato nella Repubblica popolare cinese nel settembre 1979, in tempo per assistere alle commosse commemorazioni del terzo anniversario dalla scomparsa del presidente Mao Zedong, padre della patria, mancato il 9 settembre 1976, e percepire i preparativi per le solenni celebrazioni dei trent’anni di repubblica popolare: dal Primo ottobre 1949. Trent’anni dopo, ecco la curiosità delle cifre che si propongono periodiche, sono tornato in Cina lo scorso aprile. Il primo dei due viaggi fu di sapore e carattere politico, svolto a margine di frequentazioni degli anni Sessanta-Settanta. Il secondo viaggio, recente, è stato dichiaratamente più leggero: dalla visita a fabbriche, università e situazioni di Partito, si è passati allo shopping continuo e costante. In effetti, questa modesta esperienza personale, che nulla ha da condividere con le effettive competenze e conoscenze approfondite del pianeta Cina, è a proprio modo significativa: sia in relazione allo scandire dei decenni, trenta dalla Repubblica e altrettanti trenta in aggiunta, sia in dipendenza dei compagni di viaggio. Dai coetanei di identica formazione sociale a un eterogeneo insieme di fotonegozianti e colleghi giornalisti. Dalla voglia di vedere soltanto in termini politici positivi (perché assolutamente e inviolabilmente preconcetti) all’esigenza di guardare a volo alto, approfittando soprattutto di un divario finanziario conveniente, per acquisti a tutto campo: a ciascuno, i propri. Naturalmente, non mi erigo a giudice, né del passato, non soltanto mio, né del presente, dal quale, comunque, prendo qualche distanza. Soltanto, mi offro come unità di misura per valutare una trasformazione, un cambiamento più che straordinario, che ha fatto letteralmente esplodere la Repubblica popolare cinese, trent’anni fa chiusa su se stessa e limitata a una sorta di orgoglio interno (condito di tanto pregiudizio), su quello che è gergalmente definito scacchiere internazionale. Volente o nolente, senza aver risolto molte delle proprie contraddizioni interne, la Cina è oggi una potenza silenziosa, che conduce i propri affari in tutto il mondo. A noi, tutto questo quanto interessa? Nulla, oltre le considerazioni sociali che possono coinvolgerci o appassionarci. Molto, se ci guardiamo in giro per le nostre strade, osservando che la Cina è vicina (diversamente da come aveva ipotizzato il film di Marco Bellocchio, del 1967, del quale riprendiamo il titolo, riattualizzandolo). E poi, ci sarebbe anche tanto di fotografia di cui parlare: dalla poetica autarchia di trent’anni fa alla attuale miriade di fabbriche conto terzi, disseminate su tutto il territorio nazionale. Insomma, nel sessantesimo della Repubblica (Primo ottobre 1949-2009), quante tante considerazioni -anche solo fotografiche- si potrebbero/sarebbero potute esprimere, avremmo voluto esprimere! Senza avere avuto tempo, modo e opportunità di farlo. Maurizio Rebuzzini
Autunno 1979, trent’anni fa (mille anni fa?): scene di fotografia in Cina.
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POVERA, FOTOGRAFIA!
IL FATTO A metà agosto è arrivato in edicola, dove ormai possiamo comperare un poco di tutto, il quarto titolo di una collana di libri curati da L’Europeo, testata che pesca dagli archivi del leggendario settimanale del passato, per confezionare prelibatezze editoriali del presente. Infatti, questa collana, che in forma di libro sottolinea il valore delle parole, ovverosia degli articoli pubblicati in cronaca, ai tempi dei fatti oggi ripubblicati e interpretati in chiave storica, segue la prece-
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Salvatore Giuliano sulla copertina di I banditi, quarto titolo della collana L’Europeo Cronaca Nera, distribuita in edicola con o senza il Corriere della Sera. Rispetto la fotografia originaria fotografia che appartiene addirittura a un clamoroso caso storico del giornalismo in Italia-, l’inquadratura è inspiegabilmente rovesciata destra/sinistra, come rivela l’orologio erroneamente al polso destro.
Realizzato nella primavera 1948, il ritratto di Salvatore Giuliano oggi utilizzato per la copertina di I banditi fa parte di un articolo storico del giornalismo in Italia: copertina strillata del settimanale Tempo, del ventiquattro aprile. Addirittura: «Giuliano in posa davanti all’obbiettivo».
dente e ancora attuale riesumazione editoriale dell’Europeo, che declina gli stessi argomenti, confezionandoli alla maniera dei periodici illustrati. Sull’onda lunga della cronaca nera, appunto sottolineata dall’identificazione L’Europeo Cronaca Nera, in combinazione con il Corriere della Sera, dopo i primi tre titoli I misteri (Pasolini, Montesi, Mattei, Sindona, L’Olgiata, via Poma...), Cadaveri eccellenti (Calvi, Ambrosoli, Alessandrini, Ilaria Alpi, Dalla Chiesa) e Le assassine (Rina Fort, Bellentani, Bebawi, Guerinoni, Annamaria Franzoni...), ecco qui I banditi: Salvatore Giuliano, Vallanzasca, la banda della Magliana. La copertina di questo quarto titolo è fondamentale e illuminante. AnARCHIVIO FOTOGRAPHIA
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Confessione superflua, almeno per quanti seguono la rivista con una certa attenzione: ho una sfrenata e incontenibile passione per i libri, di qualsiasi genere siano, meglio se vicini alle mie intenzioni esistenziali, con la Fotografia avanti molto, ma non è discriminante. Mi appassionano tutte le edizioni librarie, o quasi tutte, e amo incontrare interpretazioni brillanti del tema. Quindi, a diretta conseguenza, spesso vado sottotraccia, e mi insinuo tra le pieghe e le righe, per cercare dettagli e raffinatezze. A volte, però, oltrepassare l’apparenza a tutti evidente implica incontri non graditi. Ne racconto uno recente, a partire dal quale vado poi oltre. Al solito, la conclusione amara dalla quale comincio, invertendo consapevolmente l’ordine dei fattori- riguarda il maltrattamento della fotografia, che subisce ingiurie, offese, insolenze, affronti, insulti (e poi proseguite voi, per contro vostro) come nessuna altra disciplina, o materia, o scienza, o espressione. Certo, nel mondo c’è ben di peggio! Ma questa inviolabile misura universale non deve, né può trattenerci dal trattare vicende del nostro microcosmo, che sono certamente veniali, nel confronto totale e complessivo, ma sono discriminanti se e quando guardiamo dentro le nostre storielle fotografiche (magari, banalmente fotografiche; però, pur sempre nostre: come quanto di analogo attraversa la commemorazione kodachrome, su questo stesso numero, da pagina 44).
cora prima di arrivare a ciò verso cui intendo approdare, una annotazione preliminare: è sacrosanto e legittimo che in copertina ci sia un ritratto di Salvatore Giuliano [pagina accanto], le cui gesta hanno insanguinato la Sicilia dell’immediato dopoguerra, altrimenti, dal solo titolo avrei potuto pensare (sperare?) di incontrare altro giornalismo: un giornalismo con il coraggio di definire “banditi”, appunto, coloro i quali lo sono veramente, pur nascondendosi dietro facciate di altra specie. Del resto, però, siccome la vicenda Giuliano non è mai stata chiara, compromessa come è stata da intrecci politici della prima ora repubblicana, forse la sua faccia è da intendere come archetipo di una genìa che successivamente ha imparato a mascherarsi con giacca e cravatta. Lasciamo perdere. Rimaniamo con la fotografia, compagnia a un tempo edificante e gratificante, per quanto a volte inquietante. Come ho dichiarato, «spesso vado sottotraccia, e mi insinuo tra le pieghe e le righe, per cercare dettagli e raffinatezze». Ebbene, di questa edizione libraria ho individuato quasi tutto. Quasi tutto: dove necessario, sono creditati redattori, correttori di bozze, fattorini, direttori, presidenti, ciambellani, cortigiani. E gli autori delle fotografie a corredo? I crediti sono riuniti alla fine del volume, dove sono presentati in ordine di pubblicazione. La partenza è straordinaria, degna del banditismo del titolo. Testuale: «Cover [che poi sarebbe la copertina, lo certifichiamo per chi non conosce l’inglese, e anche per coloro i quali, noi tra questi, si stupiscono, o indignano, per l’abuso oltre necessità e misura della lingua inglese, anche dove e quando non serve: come in questo caso]: Archivio Rcs». Orbene, come fa un quotidiano che da tempo immemorabile ha rinunciato a uno staff di fotografi ad avere un “archivio”? Forse non ha restituito le stampe fornite negli anni da fotografi esterni o agenzie (che peraltro, per malcostume nazionale, non ne hanno mai richiesta la restituzione)? Forse che ha acquistato i diritti di riproduzione a vita? Forse che? Quindi, come mai gli autori dei testi, alcuni dei quali mancati da tempo (in considerazione della retrovi-
sione dei fatti narrati), conservano la propria personalità e i fotografi no? Rileggendo il titolo con il quale il grande e insostituibile Tommaso Besozzi cominciò la sua cronaca della morte di Salvatore Giuliano, sull’Europeo, del 16 luglio 1950, un articolo che appartiene alla Storia del giornalismo italiano, mi sono emozionato per l’ennesima volta: «Di sicuro c’è solo che è morto».
QUELLA FOTOGRAFIA La fotografia di copertina è ripetuta a pagina trentanove di I banditi; cambia il suo credito, che diventa: «Bruni/Archivio Rcs». Clamoroso! E imbarazzante. Infatti, la fotografia in questione, che questa edizione libraria si è ostinata a invertire destra/sinistra, sia in copertina sia all’interno del volume, non è una fotografia qualsiasi: così come l’articolo di Tommaso Besozzi, appena evocato, non è un articolo qualsiasi. Una volta ancora, una di più, una delle tante, ci viene in aiuto il nostro archivio, certamente più modesto di quello della Rcs (Rizzoli Corriere della Sera), con meno addetti, ma sempre puntuale e presente, soprattutto quando si incontra la Storia. Così, possiamo certificare che si tratta di una fotografia tanto esclusiva e particolare da aver illustrato la copertina del settimanale Tempo, datato 24 aprile 1948, allontanando addirittura in posizione subalterna l’inchiesta sulle prime elezioni politiche della neonata Repubblica italiana (18 aprile 1948) [pagina accanto, in basso]. Questo del Tempo è un reportage storico, sia per i testi sia per le fotografie, entrambi del giornalista statunitense Michael Stern. In copertina: «Giuliano per la prima volta raggiunto, fotografato e intervistato». Attenzione: fotografato-e-intervistato, in questo ordine, che non dipende soltanto dalla composizione tipografica del richiamo, ma dai valori delle due comunicazioni. Tanto che, all’interno del settimanale è pubblicata un’altra posa di Salvatore Giuliano, nella campagna siciliana. La sua didascalia è illuminante: «Ai piedi di un vecchio ulivo, mentre all’intorno i “fidi” facevano la guardia appostati sulle rocce, [Michael] Stern chiese a Giuliano di poterlo fotografare. Il bandito acconsentì di buon
All’interno di Tempo, del 24 aprile 1948, un’altra fotografia di Salvatore Giuliano, palesemente simultanea al ritratto della copertina: «Ai piedi di un vecchio ulivo, mentre all’intorno i “fidi” facevano la guardia appostati sulle rocce, [Michael] Stern chiese a Giuliano di poterlo fotografare. Il bandito acconsentì di buon grado [...]. Il bandito posò più volte, con un certo compiacimento. In questa fotografia, Giuliano guarda verso la valle, verso i posti di blocco che non sono mai riusciti a fermarlo. [...]».
grado: si compiva così il secondo fatto eccezionale, avere un ritratto di Giuliano che non fosse quello noto, di lui giovane, e che si trova anche negli archivi della polizia. Il bandito posò più volte, con un certo compiacimento. In questa fotografia, Giuliano guarda verso la valle, verso i posti di blocco che non sono mai riusciti a fermarlo. [...]». Dunque, di queste fotografie si conosce(rebbe) la genesi, la storia e l’autore. Ma nessuno, all’interno della Rcs, si è preso la briga di svolgere una magari modesta ricerca iconografica. Forse, la ricerca e le attribuzioni certe competono soltanto alla parola scritta. In ultimo, un’altra annotazione, intima e privata, in un certo modo complementare a quelle che la precedono in questa consecuzione di nostre considerazioni. Invito a osservare la straordinaria bellezza ed eleganza, oltre che personalità, di Salvatore Giuliano, in posa per Michael Stern («Il bandito posò più volte con un certo compiacimento»): postura, abiti, accessori, orologio, anello, tutto di una modernità che ha superato i decenni, ne sono già trascorsi sei! Tanto che, nell’estate 1993, fornii un ingrandimento di questa copertina per l’allestimento scenografico della rassegna La regola estrosa, cent’anni di eleganza maschile italiana, realizzata da Gherardo Frassa in occasione di Pitti Immagine Uomo, ed esposta alla Stazione Leopolda, di Firenze. Ma questa ultima è proprio un’altra storia, che nulla c’entra con il soggetto esplicito di oggi. Al solito, e come spesso rileviamo: povera, fotografia! M.R.
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SEMPRE PIÙ SONY. Nell’insieme delle proprie interpretazioni reflex, il convincente sistema Sony α (Alpha) propone tre nuove configurazioni affascinanti: α850, α550 e α500, che vanno ad ampliare l’offerta commerciale, distanziandosi sul mercato. Allineata alla α900 di vertice, della quale riprende la sostanza delle prestazioni e caratteristiche tecniche (FOTOgraphia, ottobre 2008), la nuova α850 conferma una vocazione professionale indirizzata a un pubblico che applica la massima concentrazione espressiva e creativa: risoluzione di 24,6 Megapixel del sensore CMOS Exmor full frame, conversione A/D su chip e doppia riduzione del rumore, per immagini formalmente perfette. Anche il mirino reflex è di derivazione α900: brillante pentaprisma ottico, con una copertura del novantotto percento. A seguire, la reflex dispone del doppio processore di immagini Bionz, che mette adeguatamente a frutto le prestazioni del sensore di acquisizione full frame da 24,6 Megapixel, per migliorare la qualità delle immagini realizzate. La stabilizzazione SteadyShot Inside, altra tecnologia proprietaria Sony, offre prestazioni antivibrazioni da due stop e mezzo a quattro con gli obiettivi Sony, Minolta e Konica Minolta con innesto a baionetta α/Alpha. In combinazione, semplici da usare, grazie alla funzione Live
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View, le α550 e α500 sono dotate di nuovo sensore CMOS da 14,2 e 12,3 Megapixel e processore Bionz potenziato, per fotografie dettagliate e senza rumore, con elevata sensibilità (fino a 12.800 Iso equivalenti). Per quanto indirizzate a un pubblico adeguatamente ampio, al quale offrono le più alte prestazioni di categoria, propongono caratteristiche di profilo solitamente maggiore: scatto continuo ad alta velocità, fino a cinque fotogrammi al secondo (con mirino ottico) e sette fotogrammi al secondo (in modalità Speed Priority, solo per la α550); funzione avanzata Quick AF Live View, che acquisisce scene in rapido movimento, mentre la tecnologia Face Detection assicura ritratti d’autore; monitor LCD Xtra Fine da tre pollici, con angolo di inclinazione a centottanta gradi (α550) e nuova interfaccia intuitiva; modalità di controllo della messa a fuoco manuale in Live View (messa a fuoco e inquadratura a prova di errore); modalità HDR automatica, per ampliare la gamma dinamica dell’esposizione. (Sony Italia, via Galileo Galilei 40, 20092 Cinisello Balsamo MI).
ZOOM RAPIDO. Almeno due sono le note distintive che definiscono la nuova compatta Ricoh CX2: l’ampia escursione zoom 10,7x, con variazione focale corrispondente all’intervallo 28-300mm, e lo scatto continuo ad alta velocità, fino a cinque fotogrammi al secondo. Da qui, è ribadito e confermato l’insieme delle caratteristiche tecniche e di uso della precedente CX1, a partire dall’alta qualità delle immagini e l’estensione della gamma dinamica, rese possibili dal motore di elaborazione di immagini Smooth Imaging Engine IV e dal senso-
re CMOS per l’elaborazione di immagini ad alta velocità. Risoluzione di 9,29 Megapixel, monitor da tre pollici (920.000 pixel). Allo stesso tempo, la Ricoh CX2 offre funzioni avanzate, che consentono maggiori potenzialità fotografiche: zoom ottico 10,7x f/3,5-5,6; scatto continuo fino a cinque fotogrammi al secondo alla massima risoluzione; efficaci funzioni AF Pre-AF e AF Continuo; creatività suggerita da brillanti modalità di scena. Ancora: zoom digitale da 4,8x a 51,4x, per un ingrandimento complessivo equivalente alla focale 1440mm. (Mamiya Trading, via Cesare Pavese 31, 20090 Opera Zerbo MI).
DOPPIO NIKKOR. Un telezoom a indirizzo professionale, a copertura completa del fotogramma 24x36mm e sensori full frame FX, AF-S Nikkor 70200mm f/2,8G ED VR II, e uno zoom standard lungo per i sensori DX, di dimensioni inferiori, AF-S DX Nikkor 18-200mm f/3,5-5,6G ED VR II. Esattamente in questo ordine. Il nuovo AF-S Nikkor 70200mm f/2,8G ED VR II è definito da una combinazione ottica innovativa, in grado di garantire alta qualità di immagine e estese capacità di Riduzione ottica delle Vibrazioni VR. Nello specifico, lo schema ottico completamente riprogettato risponde alle esigenze specifiche degli attuali sensori di immagine. Inoltre, il funzionamento del telezoom migliora quando si utilizzano tempi di otturazione lunghi: fino a quattro stop più lunghi rispetto a quanto sarebbe possibile senza la seconda generazione della tecnologia VR, appunto VR II. Nell’impiego, sono disponibili due modalità: Normale, per le condizioni operative più comuni, e Attivo, per ridurre al minimo le vibrazioni in caso di scatti effettuati in movimento. Entrambe garantiscono una maggiore stabilità dell’immagine nel mirino, consentendo così anche una messa a fuoco e
un’inquadratura notevolmente più comode e precise. L’esclusivo rivestimento antiriflesso Nikon Nano Crystal e le sette lenti in vetro ED riducono al minimo i riflessi interni e le aberrazioni, per garantire immagini nitide, con contrasto elevato, anche nelle condizioni di luce più difficili. Tre modalità di messa a fuoco: A/M, M/A e M. Il nuovo selettore A/M consente di impostare la priorità di autofocus anche se l’anello di messa a fuoco viene ruotato durante la ripresa. A seguire, altrettanto dotato di tecnologia VR II, l’AF-S DX Nikkor 18-200mm f/3,5-5,6G ED VR II, per sensori in formato DX, che sostituisce il precedente pariescursione privo di Riduzione delle vibrazioni, replica il miglioramento della propria funzionalità e assicura alta qualità di immagine. Ancora, incorpora un nuovo meccanismo zoom, in grado di impedire quella che viene definita la “deriva zoom” (l’obiettivo si muove a causa del suo stesso peso, quando viene inclinato verso il basso). Il rivestimento ottico a strati multipli Super Integrated Coating riduce le immagini fantasma e il flare, garantendo maggiore contrasto e una migliore qualità dell’immagine. (Nital, via Tabacchi 33, 10132 Torino).
Alla Photokina e ritorno Annotazioni dalla Photokina 2008 (World of Imaging), con richiami e riferimenti che non si esauriscono con il solo svolgimento della Photokina
Riflessioni, Osservazioni e Commenti sulla Fotografia: spunti utili e proficui sia al comparto tecnico-commerciale sia al mondo della fotografia espressiva e creativa
Alla Photokina e ritorno dodici pagine, ventinove illustrazioni
Reflex con contorno ventotto pagine, settantuno illustrazioni
Visioni contemporanee venti pagine, quarantotto illustrazioni
I sensi della memoria dieci pagine, ventisette illustrazioni
La città coinvolta dieci pagine, ventisei illustrazioni
E venne il giorno (?) sei pagine, quindici illustrazioni
E tutto attorno, Colonia sei pagine, diciassette illustrazioni
Ricordando Herbert Keppler due pagine, due illustrazioni
Ciò che dice l’anima sei pagine, undici illustrazioni
Sopra tutto, il dovere quattro pagine, otto illustrazioni
• centosessanta pagine • tredici capitoli in consecuzione più uno • trecentoquarantatré illustrazioni
In forma compatta dieci pagine, venticinque illustrazioni
Tanti auguri a voi venti pagine, cinquantadue illustrazioni
Alla Photokina e ritorno di Maurizio Rebuzzini 160 pagine 15x21cm 18,00 euro
F O T O G R A P H I A L I B R I Graphia srl • via Zuretti 2a - 20125 Milano 02-66713604 • graphia@tin.it
Saluti da Colonia sei pagine, nove illustrazioni
Citarsi addosso sette pagine
LE SCIMMIE FOTOGRAFANO
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re, ma allora fu folgorante la (improbabile) trovata finale con le rovine della Statua della libertà affondate nel mare, rivelatrici del ritorno alla Terra dell’equipaggio spaziale, dopo un viaggio interstellare di millenni (fino alla data terrestre del 25 novembre 3978). A conclusione di tutto, ecco la scoperta di non essere su un curioso pianeta dall’evoluzione invertita, dall’uomo alla scimmia, ma di essere di nuovo sulla Terra, dove un olocausto nucleare ha cancellato l’Uomo, lasciando il dominio a scimmie progredite, che considerano l’uomo sopravvissuto animale primitivo da cacciare e sterminare.
Complici mille e mille situazioni e condizioni sociali e di costume, quando Il pianeta delle scimmie arrivò nelle sale cinematografiche italiane, nell’autunno del fatidico 1968, provocò non pochi scalpori, suscitò infiniti dibattiti, sollecitò molteplici considerazioni. Tra tanto altro e oltre tanto d’altro, si era all’alba del pensiero ecologico, che avrebbe immediatamente coinvolto tutto il mondo, e dunque quell’ipotesi di catastrofe globale offrì materia e spunto per esprimere idee e opinioni in assoluta libertà di pensiero: non arbitrio, ma spesso e volentieri eccessiva familiarità di parole anche vuote e non documentate. Ovviamente, oggi può far sorride-
DUE PIANETI Da Il pianeta delle scimmie, di Franklin J. Schaffner, del 1968: fotoricordo dei gorilla, dopo una battuta di caccia, con le prede ai propri piedi. Si riconosce perfettamente il volet in plastica dello châssis Fidelity: leggerezza scenografica.
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Diretto da Franklin J. Schaffner, su sceneggiatura di Michael Wilson e Rod Serling, il leggendario inventore e sceneggiatore della intrigante serie televisiva Ai confini della realtà / The Twilinght Zone, degli anni CinquantaSessanta (FOTOgraphia, ottobre 2006), l’originario Planet of the Apes fu edificato attorno la credibilità recitativa (e scenografica) di un convincente Charlton Heston, nei panni del comandante George Taylor. Ottime per i tempi anche le caratterizzazioni delle scimmie, in diverse gerarchie e relative posture, a partire dagli scimpanzé-scienziati Zira e Cornelius, che danno credito a George Taylor (sotto la pesante mascheratura, gli attori Kim Hunter e Roddy McDowall). A seguire, assecondando una tendenza diventata ormai (terribile) moda, in tempi più recenti, è stato realizzato un remake con sceneggiatura moderatamente diversa, ma finale analogo. Per distinguerlo dal primo, che ai propri tempi diede avvio a una autentica saga di altri quattro sequel, da metà settembre 2001, questo secondo film è stato presentato in Italia con la combinazione tra il titolo originario e la sua traduzione: Planet of the Apes - Il pianeta delle scimmie; regia di Tim Burton, mito di Hollywood; sceneggiatura di William Broyles Jr, dal romanzo di Pierre Boulle. Per la cronaca spicciola, e il gusto
delle sfumature e trasversalità, quelle che spesso fanno la differenza tra la banalità e la capacità di essere intelligenti, quantomeno avvincenti, segnaliamo il cameo di Charlton Heston, protagonista del film del 1968, qui nei panni di Zaius, il vecchio ma saggio padre di Thade, l’ambizioso gorilla a capo dei guerrieri delle formazioni della polizia delle scimmie (l’attore Tim Roth). Del resto, rimanendo in questo ambito, il cameo è una preziosità che si concedono bravi registi americani e ammirevoli attori. Così, con l’occasione, in coordinamento, ci soffermiamo un momento su questo. Tra tanti luminosi esempi possibili, segnaliamo i camei del remake War of the Worlds, di Steven Spielberg, del 2005, sull’originario The War of the Worlds, di Byron Haskin, del 1953, dal profetico romanzo di H.G. Wells: entrambi i film, in Italia come La guerra dei mondi. Ebbene, i due protagonisti della prima versione, originaria, Ann Robinson (nei panni dell’intraprendente Sylvia Van Buren) e Gene Barry (in quelli dello scienziato dottor Clayton Forrester), compaiono anche nel film di Steven Spielberg, cinquant’anni dopo. Stanno sullo schermo (o sul televisore domestico) pochi istanti, alla fine di tutto, una volta sconfitti gli alieni invasori, nei panni dei nonni di Mary Ann (Miranda Otto) e Robbie (Justin Chatwin), i figli di Ray Ferrier (Tom Cruise), indiscutibile protagonista. Ancora, e poi basta, nel War of the Worlds, di Steven Spielberg, possiamo considerare cameo anche la breve ed efficace apparizione di Tim Robbins, nei panni di Harlan Ogilvy, reso pazzo dall’invasione aliena. Tornando all’argomento odierno, dopo la deviazione di percorso verso alcuni camei significativi del cinema statunitense, rileviamo subito che nel secondo Planet of the Apes - Pianeta delle scimmie, di Tim Burton, la diversità con la vicenda del film originario sta nel fatto che il capitano Leo Davidson (l’attore Mark Wahlberg) è
scampati, il capitano Leo Davidson (Mark Wahlberg) torna finalmente sulla Terra (?). Sbarca a Washington, nei pressi dell’Abraham Lincoln National Memorial. Si ferma un auto, esce il passeggero, che lo fotografa immediatamente con una compatta. Una volta dissolto l’accecamento da flash diretto (scenografia), si scopre che dietro la macchina fotografica ci sta una scimmia [a centro pagina]. Punto, da capo. M.R. Ricerca iconografica di Filippo Rebuzzini
futuribile del 1968), flash al magnesio e châssis 4x5 pollici. Osservazione da addetti: proprio lo châssis, con proprio volet ben visibile e riconoscibile, è una stonatura scenografica che non ci voleva, che scade di tono. Chi lo conosce (noi, tra tutti), ha subito identificato il volet in plastica dello châssis Fidelity. Altra fotoricordo di altro tipo, e altro sapore, identifica la presenza fotografica nel secondo Planet of the Apes Il pianeta delle scimmie, di Tim Burton. Dopo infinite peripezie e pericoli
EVOLUZIONE DELLA SPECIE?
S
no dal punto di vista del seguito di pubblico, che allora superava abbondantemente i dodici milioni di copie mensili (solo in abbonamento)- ha riservato alle facoltà intellettive dei gorilla, per le quali certificano una serie di esperimenti condotti negli Stati Uniti. La fotografia, eccoci, tra questi. Allo stesso momento, per completare l’argomento, segnaliamo la visualizzazione dell’evoluzione della specie dello Zoo di Zurigo, in Svizzera: dalla Scimmia all’Uomo, che si presenta con la macchina fotografica al collo. Simbolo di evoluzione? Oppure è questo il leggendario “fotoamatore evoluto”, del quale sentiamo spesso parlare, e non condividiamo affatto la definizione (alla quale preferiamo “fotografo non professionista”: ne abbiamo dibattuto in tante occasioni). Chi e quale è, il “fotoamatore evoluto”? Quello che rispetto al “non evoluto” e ad altri primati ha il pollice opponibile?
ulla copertina di National Geographic Magazine dell’ottobre 1978 è illustrato un gorilla che impugna una reflex Olympus OM-2. L’immagine è rovescia, perché il gorilla si è fotografato allo specchio. Questa fotografia fa parte di un lungo servizio che l’autorevole periodico -ai tempi forse più autorevole di oggi, quantomeOggettivamente provocatoria, la copertina di National Geographic, dell’ottobre 1978, starebbe anche a sottolineare che la presunta semplificazione dei mezzi fotografici avrebbe abbattuto la discriminazione sui risultati (ma non è vero!). Per quanto un gorilla ammaestrato possa anche usare una macchina fotografica, producendo qualcosa di plausibile (oggi, ancora di più), tra l’apparenza dell’immagine e la sostanza del linguaggio la differenza è ancora netta: riconoscibile, visibile e chiara.
effettivamente approdato su un pianeta lontano, nel quale, per un curioso accavallamento di Tempo (relativo/assoluto), dominano le scimmie discendenti da una che era a bordo della sua astronave base. E poi, alla conclusione, si realizza il suo agognato ritorno a Terra; ma quando vi arriva, trova anche qui scimmie al potere. È proprio la Terra? Il regista lascia nel dubbio: a ciascuno, la propria opinione al proposito.
In entrambi i film, la fotografia partecipa in modo assolutamente marginale e misura complementare, forse. In Il pianeta delle scimmie, del 1968, dopo una battuta di caccia durante la quale hanno massacrato molti umani, e ne hanno catturati altrettanti (tra i quali, appunto, il comandante George Taylor / Charlton Heston), i gorilla-guerrieri si scattano una fotoricordo, con le prede ai piedi [pagina accanto]. Apparecchio grande formato su treppiedi (ipotesi
MAURIZIO REBUZZINI
FOTORICORDO
ARCHIVIO FOTOGRAPHIA
Conclusione di Planet of the Apes Il pianeta delle scimmie, di Tim Burton, del 2001. Tornato sulla Terra (?), alla fine di una sequenza fotografica, il capitano Leo Davidson (Mark Wahlberg) scopre di essere ancora su un pianeta di scimmie.
Zoo di Zurigo, Svizzera: la sintesi dell’evoluzione della specie porta dalla Scimmia all’Uomo-fotografo.
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PROGETTO TWISTER
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Modello innovativo di alleanza virtuosa tra dieci musei lombardi, nato allo scopo di selezionare, esporre ed acquisire opere di arte contemporanea, progettate e prodotte a misura tramite un concorso internazionale, il progetto Twister esordisce all’inizio di ottobre. Prima di tutto, i protagonisti, che per l’appunto sono dieci musei di arte contemporanea della Lombardia: il FAI, con la Villa e la Collezione Panza, di Varese; la Fondazione Stelline, di Milano; la Galleria del Premio Suzzara, in provincia di Mantova; la GAM - Civica Galleria d’Arte Moderna, di Gallarate, in provincia di Varese; la GAMeC - Galleria d’Arte Moderna e Contemporanea, di Bergamo; il MAM - Museo d’Arte Moderna e Contemporanea, di Gazoldo degli Ippoliti, in provincia di Mantova; il Museo Civico Floriano Bodini, di Gemonio, in provincia di Varese; il Museo d’Arte Contemporanea, di Lissone, alle porte di Milano, provincia di Monza e Brianza; il Museo del Novecento, di Milano; e il Premio Nazionale Arti Visive Città di Gallarate, in provincia di Varese. Insieme, e in comunità di intenti, le dieci istituzioni hanno creato una rete operativa di incontro e collaborazione per implementare la valorizzazione del proprio patrimonio, sostenere i giovani artisti e favorire la conoscenza dell’arte contemporanea presso il grande pubblico. Quindi, dopo i protagonisti, gli interpreti: ovverosia, gli artisti. Da una prima selezione di sessanta autori, tra singoli e gruppi in collettivo, inizialmente, si è approdati a una rosa di venti nomi (due dei quali, in doppio): Mario Airó, Margarita Andreu, Massimo Bartolini, Carlo Bernardini, Michael Beutler, Enrica Borghi, Loris Cecchini, Madame Duplok, Chiara Dynys, Lara Favaretto, Flavio Favelli, Alice Guareschi, Lang/Baumann, Maik e Dirk Löbbert, Marcello Maloberti, Marzia Migliora, Ottonella Mocellin e Nicola Pellegrini, Riccardo Previdi, Emilia Sharfe e Patrick Tuttofuoco.
Ottonella Mocellin e Nicola Pellegrini: Forse possiamo anche fare una mappa per perdersi; veduta di piazza Libertà; Proiettori da esterno, testi e disegni realizzati dai bambini in specifici laboratori; 2009 (Twister; Museo d’Arte Contemporanea, Lissone MI). Carlo Bernardini: Codice Spaziale; Acciaio inox e fibre ottiche; 2009 (Twister; MAM - Museo d’Arte Moderna e Contemporanea, Gazoldo degli Ippoliti MN).
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DIECI PER DIECI (PIÙ UNO)
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rogetto Twister: dieci interventi artistici, uno per ciascun museo della rete regionale lombarda per l’arte contemporanea; più uno in Rete. Opere appositamente progettate, tenendo presenti la relazione con il tessuto urbano e il territorio nel quale le istituzioni sono inserite e la necessità di acquisire le opere per le collezioni permanenti di ogni singolo museo.
❯ Mario Airó: Loto; Fondazione Stelline, corso Magenta 61, 20123 Milano. ❯ Massimo Bartolini: Un paesaggio da lontano; GAM - Civica Galleria d’Arte Moderna, via De Magri, 21013 Gallarate VA [nuova sede]. ❯ Carlo Bernardini: Codice Spaziale; MAM - Museo d’Arte Moderna e Contemporanea, via Marconi 126, 46040 Gazoldo degli Ippoliti MN. ❯ Loris Cecchini: Atom Cloud Caravan; Galleria del Premio Suzzara, Parco delle Scienze e delle Arti, viale Zonta, 46029 Suzzara MN. ❯ Chiara Dynys: NUL; FAI - Villa e Collezione Panza, piazzale Litta 1, 21100 Varese. ❯ Madame Duplok: Per grazia ricevuta; Museo Civico Floriano Bodini, via Marsala 11, 21036 Gemonio VA. ❯ Lara Favaretto: Monumento momentaneo (salvadanaio); GAMeC - Galleria d’Arte Moderna e Contemporanea di Bergamo, Quadriportico del Sentierone, piazzetta Piave, 24121 Bergamo. ❯ Maik e Dirk Löbbert: Welcome; Premio Nazionale Arti Visive Città di Gallarate, via De Magri, 21013 Gallarate VA [nuova sede GAM]. ❯ Marzia Migliora: Quelli che trascurano di rileggere si condannano a leggere sempre la stessa storia (Roland Bartes) ; Museo del Novecento, Palazzo Reale, piazza del Duomo, 20122 Milano. ❯ Ottonella Mocellin e Nicola Pellegrini: Forse possiamo anche fare una mappa per perdersi; Museo d’Arte Contemporanea, piazza Libertà, 20035 Lissone MB. ❯ Ofri Cnaani: Dreams and Dramas; intervento in Rete. La selezione finale, svoltasi la scorsa primavera, ha indicato i dieci prescelti, i dieci vincitori, la cui opera è stata realizzata a misura, e poi sarà acquisita dai musei: Mario Airó, Massimo Bartolini, Carlo Bernardini, Loris Cecchini, Madame Duplok, Chiara Dynys, Lara Favaretto, Maik e Dirk Löbbert, Marzia Migliora, Ottonella Mocellin e Nicola Pellegrini. Inoltre, il percorso prevede anche la realizzazione di un intervento arti-
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stico in Rete, che coinvolge i dieci musei/enti della rete regionale, per sottolineare la simultanea unicità e coesione del progetto Twister e le specificità di ogni realtà museale, rendendo altresì visibile la rete dedicata all’arte contemporanea in Lombardia. Per questo intervento, da una prima selezione di quattro artisti -Ofri Cnaani, Matteo Rubbi, Luca Trevisani e Enzo Umbaca-, è risultata vincitrice l’artista israeliana Ofri Cnaani.
Lara Favaretto: Monumento momentaneo (salvadanaio); Pietra; 2009 (Twister; GAMeC - Galleria d’Arte Moderna e Contemporanea di Bergamo). Maik e Dirk Löbbert: Welcome; Tappeto rosso; 2009 (Twister; Premio Nazionale Arti Visive Città di Gallarate, Gallarate VA).
Agendo con il sostegno e supporto pubblico, che nello specifico si concretizza tangibilmente nei termini della legge regionale 29 aprile 1995, numero 35, nota come “Interventi della Regione Lombardia per la promozione, il coordinamento e lo sviluppo di sistemi integrati di beni e servizi culturali”, e con il contributo della Fondazione Cariplo, il progetto Twister ha richiesto di progettare un’opera studiata a misura per ciascuno dei dieci musei interessati. In relazione con spazi, luoghi e orientamenti, si sono ipotizzate opere non invasive, né monumentali, realizzate per rimanere stabilmente nelle collezioni permanenti. Gli interventi artistici non hanno avuto a disposizione le sale espositive in quanto tali, ma lo spazio di ogni museo in senso ampio, all’interno e all’esterno, con una attenzione agli “spazi di rispetto” attorno l’architettura e il tessuto urbano e territoriale circostante. Protagonisti di un unica grande mostra, gli undici progetti prescelti (dieci museali e uno in Rete) vengono esposti e inaugurati in contemporanea, ciascuno nelle sedi di ogni museo coinvolto: sabato tre e domenica quattro ottobre. A.G.
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La comunicazione ufficiale del Robert Gardner Fellow in Photography 2009, assegnato alla fotografa Alessandra Sanguinetti.
ALESSANDRA SANGUINETTI PREMIATA. La fotografa argentina Alessandra Sanguinetti si è aggiudicata la terza edizione del Robert Gardner Fellow in Photography, premio promosso dal Peabody Museum of Archeology & Ethnology, che ha sede presso l’università di Harvard, nel Massachusetts [qui sopra]. Il premio, che consiste in cinquantamila dollari, è intitolato a Robert Gardner (filmmaker e scrittore, direttore dell’Harvard Film Study Center, dal 1957 al 1997), e ha lo scopo di sostenere il progetto di un fotografo per la realizzazione di un libro, stampato a cura del museo, e di una mostra esposta nelle sue sale, su temi che riguardano la condizione umana in qualunque angolo del mondo. Alessandra Sanguinetti, che quest’anno ha vinto un altro premio di altrettanti cinquantamila dollari istituito dalla National Geographic Society (FOTOgraphia, maggio 2009), si è affermata per il suo progetto The Life That Came, che consiste nel seguire la vita di due cugine argentine, Guille e Belinda, per un periodo di cinque anni, dall’infanzia alla giovinezza. Con l’occasione, rileviamo che dal 1998 i fondi raccolti con i premi hanno rappresentato la più importante fonte di sostentamento per Alessandra Sanguinetti e per suo marito Martin Weber. Oltre ai due di quest’anno, negli ultimi tempi, Alessandra Sanguinetti ha ricevuto molti altri premi, tra i quali l’Hasselblad Foundation e il Guggenheim Fellowship, vinto anche dal marito Martin nel 1998. Dal 2007, Alessandra Sanguinetti è anche Magnum Nominee.
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I cinque fotografi che dominano la scena Internet, da una classifica di PDNews: David Hobby, Christopher Becker, Jim MacMillan, Noah Kalina e Rebekka Guðleifsdóttir.
Questa rubrica riporta notizie che sono appartenute alla cronaca. Però, nel loro richiamo e riferimento molti motivi ci impediscono di essere tempestivi quanto la cronaca richiederebbe. Ciononostante riteniamo giusto proporle, perché siamo convinti che non abbiano perso la propria attualità, e continuino a offrire spunti di riflessione.
STRADE FOTOGRAFICHE. Servirà Internet per incrementare il proprio lavoro? Ci sono favorevoli e contrari, come in tutte le dispute. Ma è indiscutibile che, per mia esperienza diretta, Internet può servire a chi non vive esclusivamente di fotografia, per arrotondare i propri guadagni con la vendita di stampe delle proprie immagini via web. Però, ovviamente, occorre crearsi un sito Internet. Il noto e autorevole mensile statunitense PDNews ha stilato una classifica dei cinque fotografi che dominano la scena sulle cinque piattaforme più popolari: sito blog proprio, Facebook, Twitter, YouTube e Flickr [al centro]. Ve li segnaliamo. Fateci un giro, e potreste scoprire trucchi per promuovere la vostra passione o il vostro lavoro (o entrambi). ❯ David Hobby, quarantaquattro anni, titolare del blog http://www. strobist.blogspot.com/, un sito (da settanta a ottantamila comunicazioni al giorno) dove si danno tante informazioni sull’uso del flash. Vive a Columbia (Maryland). Consiglio di accedere al blog passando da: http://davidhobby.zenfolio.com/. ❯ Christopher Becker, trentacinque anni, fotografo di matrimoni. Vive a Mission Viejo (California): http://blog.thebecker.com/ (più di cinquemila amici su Facebook). ❯ Jim MacMillan, quarantotto anni, giornalista multimediale. Vive a Philadelphia (Pennsylvania): http://jimmacmillan.com/ (quarantaseimila seguaci su Twitter). ❯ Noah Kalina, ventotto anni, fotografo editoriale e di fine art. Vive a Brooklyn (New York): http://www. noahkalina.com/ (dodici milioni di passaggi su YouTube). ❯ Rebekka Guðleifsdóttir, trentuno anni, fotografa di fine art. Vive a Hafnarfjörður, Islanda: http://www.rebekkagudleifs.com/ (sei milioni di visualizzazioni dei sui album su Flickr).
UN ESEMPIO DEVASTANTE. Fino a una quindicina d’anni fa annoverato tra i migliori fotoreporter italiani, passato poi alla direzione della fotografia del settimanale Lo Specchio, e ora photo editor del quotidiano La Stampa, di Torino, Mauro Vallinotto mi segnala questa sua esperienza, una delle tante preoccupanti per chi vive di fotografia. Sta progettando una copertina per un supplemento del suo quotidiano, dedicato all’Africa, in uscita ai primi di luglio. Fa un esperimento, che poi non sarà utilizzato. Vuole creare un’immagine dell’Africa, utilizzando mille piccoli ritratti di giovani africani, con la tecnica a mosaico resa famosa da Robert Silvers [FOTOgraphia, marzo 1999]. Che si fa oggi, in casi di questo genere? Si cerca sul web se c’è un programma, magari freeware (cioè che non si paga), per realizzate questo mosaico. Usando un Mac, trova MacOSaiX. Questo programma, completamente gratuito, ti chiede che tipo di figura vuoi formare e con quali immagini, dandoti anche la possibilità di cercarle in siti gratuiti, in generale attraverso Google o Flickr. Senza spendere una proverbiale lira, ecco il risultato della prova [in alto]. Una possibile copertina, bella e gratuita, per un supplemento che viene circolato in centinaia di migliaia di copie. Una volta, un elaborato così, a parte il lavoro dei grafici, di sole immagini, anche pagate dieci euro l’una (prezzo inesistente fino a una dozzina di anni fa), sarebbe costato circa diecimila euro.
FOTOGIORNALISMO SENZA “BIODIVERSITÀ”. All’inizio di giugno, sul blog The Dodge & Burn è apparso un messaggio a firma Qiana Mestrich, che riprende un’osservazione di Stephen Mayes, direttore della agenzia VII e segretario della giuria
dell’ultimo World Press Photo, che ha osservato che il novanta percento delle immagini analizzate quest’anno hanno riguardato meno del dieci percento del mondo. Che sia anche questa una delle cause della crisi del fotogiornalismo? Come ricorda Qiana Mestrich, Stephen Mayes ha anche stilato l’elenco dei temi più gettonati -ospedali psichiatrici, pornografia, Africa- e ha dichiarato: «Al termine di una giornata di lavoro della giuria, ho avuto la netta impressione che il fotogiornalismo, più che andare alla ricerca di notizie, non faccia altro che percorrere sempre gli stessi sentieri». «La lezione è chiara -commenta sul blog Qiana Mestrich-; abbiamo bisogno di fotogiornalisti che si impegnino a descrivere le realtà nelle quali vivono, e se già ce ne sono, bisogna incoraggiarli a partecipare a competizioni come il World Press Photo, per arricchire la “biodiversità” della produzione fotogiornalistica». Più facile a dirsi che a farsi, perché, secondo me, il vero problema non sta nelle scelte dei fotogiornalisti, ma in quelle dei direttori dei giornali e dei loro editori.
Alla maniera dei fotomosaici di Robert Silvers [ FOTOgraphia, marzo 1999], un elaborato evocativo dell’Africa, oggi realizzabile in forma assolutamente gratuita.
Una delle ormai leggendarie fotografie di Marilyn Monroe, realizzate da Tom Kelley, apparse sul primo numero di Playboy, del dicembre 1953 (in alto, la copertina).
Il coraggioso primo numero di Playboy, arrivò nei chioschi nel dicembre 1953 [qui sopra], e la ragazza del paginone centrale, non ancora Centerfold, con fotografie realizzate da Tom Kelley, altri non fu che la ventisettenne Norma Jeane Baker, nota come Marilyn Monroe [qui sotto]. La cattiva notizia, per Hugh Hefner, è che, per ora, non sembra ci siano offerenti. A cura di Lello Piazza
AAA PLAYBOY VENDESI. Nei primi tre mesi del 2009, la casa editrice che pubblica Playboy avrebbe perso dieci milioni di dollari (forse a causa della crisi economica, forse per la concorrenza del porno gratuito su Internet), costringendo il suo fondatore, Hugh Hefner, a entrare nell’ordine di idee di mettere tutto in vendita. Sono lontani i tempi nei quali la celebre rivista vendeva milioni di copie (il numero più venduto è stato quello del novembre 1972, copertina anonima, Playmate Lenna Sjööblom: più di sette milioni di copie). Sempre di milioni si parla (duecentotrenta milioni di dollari, per la precisione) a proposito della cifra messa sul piatto dall’ottantatreenne editore americano per liberarsi di una testata che ha costituito il paradigma di riferimento per la fotografia di nudo degli ultimi cinquant’anni abbondanti [FOTOgraphia, luglio 2003].
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CANADA Photo Life FRANCIA Réponses Photo GERMANIA Digit! • Foto Hits • Inpho • Photographie • Photo Presse • ProfiFoto GRECIA Photographos • Photo Business INGHILTERRRA Digital Photo • Photography Monthly • Practical Photography • Professional Photographer ITALIA Fotografia Reflex • FOTOgraphia OLANDA Fotografie F+D • FotoVisie • P/F POLONIA Foto SPAGNA Arte Fotográfico • Diorama • Foto/Ventas Digital • FV / Foto Video Actualidad • La Fotografia Actual SUDAFRICA PiX Magazine SVIZZERA Fotointern STATI UNITI D’AMERICA Shutterbug UNGHERIA Digitális Fotó Magazin
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OVER CINQUANTA
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Tra i mille argomenti leggeri di questa estate, che come ogni anno ha rivelato soprattutto il gusto giornalistico per lo scandalo e il sensazionalismo, ne isoliamo uno soltanto. Evitiamo qui le vicende italiane, che hanno incrociato la politica nazionale, per occuparci di Sharon Stone, la celebre e celebrata attrice statunitense, salita clamorosamente agli onori del gradimento popolare per l’accavallamento di gambe con il quale, in Basic Instinct, di Paul Verhoeven, del 1992, a trentaquattro anni, rivelò che il personaggio interpretato non portava gli slip [a pagina 22]. Tanto che, nella seconda avventura di Catherine Tramell, nell’insipido sequel Basic Instinct 2, di Michael Caton-Jones, del 2006, ha dovuto ripetere la scena, a quarantotto anni: richiamo esplicito, nei cartelloni del film [a pagina 23]. A distanza di altri tre anni, quando l’età anagrafica ha superato la boa dei cinquanta, Sharon Stone conserva inalterata la propria immagine di autentico sex symbol, capace di ammaliare sia il pubblico gio-
Sharon Stone: copertina e otto pagine di Paris Match (sei agosto). Fotografie di Alix Malka, intervista di Marc Levy.
vane, sia coloro i quali apprezzano l’esperienza e malizia delle “over”. Così, l’attento settimanale popolare francese Paris Match, alle cui edizioni si richiama molto fotogiornalismo dei nostri tempi, ha acceso la miccia estiva, con un servizio che è ampiamente rimbalzato su tutta la stampa internazionale. Copertina e otto pagine interne, cinque delle quali soltanto illustrate (o soprattutto), del numero in edicola dal sei agosto, hanno puntato e diretto le luci della ribalta sulla cinquantenne Sharon Stone, fotografata da Alix Malka in pose esplicitamente ammiccanti, se non già dichiaratamente erotiche. Richiamo ufficiale, in copertina e in servizio interno: «Ho cinquant’anni, e allora!». Ovviamente, la combinazione tra l’affermazione perentoria e le immagini è stata abilmente orchestrata: questa Sharon Stone è lontana mille e mille miglia dagli archetipi e stereotipi delle cinquantenni del passato, anche soltanto prossimo. Tanto per giocarla con la Storia della fotografia, entro la quale per il solito agiamo, sconfinando magari nelle deviazioni verso il costume sociale, come stiamo facendo qui, segnaliamo che la Migrant Mother, di Dorothea Lange, altri tempi, altra vita (la sua, soprattutto), era una appassita trentenne. E altrettanto possiamo certificare per le (involontarie) protagoniste di tanto fotogiornalismo dei decenni scorsi, con il viso e il corpo violentati dagli stenti e da esistenze ai limiti del decente e oltre il decoro che ognuno meriterebbe di poter avere.
petto nero lucido che lascia scoperto il seno, sulla copertina di Paris Match, Sharon Stone fa bandiera di avvenenze fisiche che farebbero invidia a molte teenager (tutta farina del suo sacco, oppure c’è lo zampino di Photoshop? Non importa le dietrologie: così appare, quindi, per quanto è dato sapere, così è!). Oltre le immagini, ribadiamo realizzate dal bravo Alix Malka, astro della fotografia newyorkese di moda, l’accreditato settimanale francese ha affidato i testi di accompagnamento allo scrittore Marc Levy, autore di consistenti best seller (in Italia, in edizioni Rizzoli, Tea e Corbaccio). Una lunga intervista, rilasciata a Los Angeles, dischiude le porte su una esuberante personalità dello star system all’alba del Terzo millennio.
ALTRI ANNI Ovviamente, i cinquant’anni di Sharon Stone, che comunque sono cinquantuno, differenza insignificante ai fini anagrafici, discriminante alla luce dell’evocazione giornalistica, sono ben altro. Allo stesso momento, sono sia il segno dei tempi sia la manifestazione palese delle esigenze dello star system dei nostri giorni. Tacchi inviolabilmente a spillo e un cor-
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Nonostante lo spessore dell’intervistatore, probabilmente di solo richiamo, una dietro l’altra, una dopo l’altra, una conseguente serie di ovvietà, frasi fatte e buonsenso da bardello-sport: un insieme estraneo alla vita vera, alla vita di chi deve impegnarsi a fondo per condurla. Da che pulpito: «La bellezza è una questione di anima, non di età. Non capisco certe donne, che fanno il lifting e perdono tutta l’espressione del viso»; «La metà della vita non è la fine della vita»; «Molto meglio oggi, che vent’anni fa»; «Trovo molto più scioccante vedere delle adolescenti svestite nelle pagine delle riviste che vedere una donna di cinquant’anni». Comunque sia, prima domanda, introduttiva: «Qual è la storia di queste fotografie?». Subito al sodo: «Quando sono entrata nello studio di Alix Malka, ha affermato di volermi reinventare. Mi ha fatto indossare abiti [?] nei quali mi sono subito riconosciuta: come sono in realtà, e non come mi vedono coloro con i quali collaboro abitualmente. In genere, nelle riviste di moda tutto è per ordine di età, una vera e propria imposizione! Ecco di che cosa avete bisogno a vent’anni, poi a trenta, e a quaranta. Invece, e al contrario, io non ho mai seguìto imposizioni, sono sempre stata come ho voluto, per comodità e non per convenienza. Posare per queste fotografie è stato solo divertente, puro divertimento. Ho scoperto un Alix molto professionale, e io sono molto sensibile a questo; mi ha fatto immediatamente pensare a Herb Ritts e ai grandi registi con cui ho lavorato, come Scorsese e Albert Brooks. Queste immagini sono molto grafiche e rivelano la donna come un’opera di architettura, come una scultura le cui
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In simultanea: stesso servizio fotografico, di Alix Malka, sull’italiano Vanity Fair, del sedici agosto. Copertina diversa, della quale ci si fa vanto, e dieci pagine: quattro doppie e due singole a seguire.
La notorietà di Sharon Stone ha travalicato l’ambito cinematografico grazie al provocatorio accavallamento di gambe che, in Basic Instinct, di Paul Verhoeven, del 1992, rivelò che il personaggio protagonista, Catherine Tramell, non portava gli slip. Da qui, l’edificazione di un autentico sex symbol dei nostri giorni, che ha resistito al trascorrere del tempo.
forme non sono tanto diverse da quelle scolpite da Rodin: ecco come le ho interpretate. In genere, con la maggior parte dei fotografi, all’inizio del lavoro, adotto un atteggiamento di attesa, come una ballerina in cerca di linee lunghe. Alix mi ha detto: “Voglio vedere i muscoli, la struttura del tuo corpo”. Questo approccio è inconsueto. Da tanto tempo, nella fotografia di moda, assistiamo alla decostruzione del corpo femminile. Invece, Alix ha mostrato il contrario, esprimendo la femminilità in modo sano, celebrando la forza e la gioia». Fin qui, nulla da eccepire, se non che, diavolo!, si è presto slittati alla filosofia spicciola, da bar all’angolo. A partire dall’osservazione secondo la quale «La perfezione del tuo corpo, a cinquantuno anni, è una provocazione in sé; e questa provocazione, suppongo, è parte del rapporto che hai con l’obiettivo e il modo di proporre la tua immagine», molto è degenerato nel banale appena evocato, tra buon senso comune e amenità in successione.
ANCHE VANITY FAIR In Italia, lo stesso servizio originariamente pubblicato da Paris Match, è arrivato su Vanity Fair, datato diciannove agosto. L’insieme delle immagini è lo stesso ma, come anche sottolineato all’interno del settimanale, la loro combinazione è diversa, a partire proprio dalla copertina. Testuale «“È un’immagine più femminile, più chic”. Un unico servizio scattato in esclusiva per due giornali, due copertine diverse: è stata la stessa Sharon [Stone], con queste parole a suggerire che Vanity Fair usasse uno scatto più soft di quello di Paris
Match. Voi che ne pensate?». Personalmente, ci risparmiamo certi e simili pensieri: per nostro solito, abbiamo altro verso cui rivolgere le nostre attenzioni. Però, se dobbiamo dire la nostra, pensiamo come sia affascinante e significativo che certo giornalismo dei nostri giorni svolga due impegni simultaneamente: manifesta i propri connotati istituzionali, nello stesso istante nel quale si tira la volata da sé. Ovverosia, come ci ha abituato anche la televisione italiana, si stanno moltiplicando le situazioni nelle quali il giornalismo si parla addosso e sollecita in proprio la riflessione su di sé. Come dire: guardate come siamo bravi. Quindi, se dobbiamo dire la nostra, dopo aver preso le distanze da molte delle ovvietà che hanno accompagnato il servizio di Paris Match, addirittura definendone i tratti significativi, ci dissociamo pure dallo strillo di richiamo della copertina di Vanity Fair: «Sharon Stone - Sex and the 50»
Gag di successo commerciale, impressa nell’immaginario popolare, la scena dell’accavallamento delle gambe di Catherine Tramell è stata ripetuta, quattordici anni dopo la sua prima cinematografica, nell’insipido sequel Basic Instinct 2, del 2006, proponendosi anche come richiamo esplicito del film. Tanto per non avere dubbi: andiamo al cinema, c’è pelo da vedere.
(ovverosia “fifty”, in rima con l’originario “city” di evocazione). Ma non è neppure lecito farlo, visto che nessuno ci obbliga a seguire questo tipo di rivista, che per
promuovere il proprio sito quotidiano online promette, tra poco d’altro, «Più Gossip Girl». È proprio vero: uomo avvertito... con quanto ne consegue. A.G.
AMERICAN ART, NEW YORK OF
© WHITNEY MUSEUM
A Woman in the Sun (Donna al sole); olio su tela, 101,92x155,58cm; 1961 (Donazione per il Cinquantesimo anniversario di Mr e Mrs Albert Hackett, in onore di Edith e Lloyd Goodrich; 84.31). Se non indicato diversamente, le opere presentate in queste pagine appartengono alla collezione del Whitney Museum of American Art, di New York.
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IL CARISMA P
rima a Milano, a Palazzo Reale, dal quindici ottobre al successivo ventiquattro gennaio, immediatamente dopo a Roma, al Museo della Fondazione Roma, dal sedici febbraio al tredici giugno, l’Italia rende omaggio all’opera dello straordinario pittore Edward Hopper, uno dei più popolari e conosciuti artisti statunitensi del Novecento, le cui visioni sfiorano addirittura il culto. Se è vero, come effettiva-
mente è, che la cultura popolare dei poster (ai poster, l’ardua sentenza!) può essere letta anche come frequentazione quotidiana dell’arte, è altrettanto vero che molti quadri di Edward Hopper sono in testa alla particolare classifica dei gradimenti del pubblico, a partire, rileviamolo subito, dal celeberrimo Nighthawks, del 1942, tradotto in I nottambuli (olio su tela, 76,2x144cm; The Art Institute of Chicago, Friends of American Art Collection / Collezione degli
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Amici dell’arte americana). La sua notorietà si conteggia anche alla luce delle numerose parodie (omaggi, rivisitazioni, interpretazioni), delle quali diamo testimonianza a pagina 28, che equivalgono a quelle riservate alla Gioconda, a American Gothic e a altre identificate icone che attraversano i secoli. E questa attestazione quotidiana, dalla vita di tutti i giorni, rappresenta una unità di misura estrema-
Pittura, non fotografia. Il doppio appuntamento della mostra antologica del celebre pittore statunitense Edward Hopper, uno dei grandi del Novecento, è occasione opportuna, oltre che unica, per incontrare un’arte espressiva che ha sostanziose affinità con la fotografia (ma non è solo questo il discorso; anzi, è vero l’esatto contrario). A parte l’apparenza del realismo, la profondità delle intenzioni si rivolge e richiama alla fotografia in un percorso a doppio senso di marcia: ricevere e dare, senza soluzione di continuità. Da metà ottobre, a Milano, e poi, da metà febbraio, a Roma, un percorso esaustivo e gratificante. Imperdibile, addirittura mente significativa. Tanto che, sottolineando i tempi di esposizione, la prima mostra antologica italiana di Edward Hopper, ricca di oltre centosessanta opere, si allunga su ben sette mesi: tre a Milano e quattro a Roma. Promossa dal Comune di Milano - Cultura e dalla Fondazione Roma, alla quale si deve l’impulso iniziale alla realizzazione del progetto, l’eccezionale mostra è stata allestita in collaborazione con Ar-
Soir Bleu; olio su tela, 91,4x182,9cm; 1914 (Lascito Josephine Nivison Hopper 70.1208).
DELL’ARTE
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Second Story Sunlight (Secondo piano al sole); olio su tela, 101,92x127,48cm; 1960 (Acquisito grazie ai fondi dei Friends of the Whitney Museum of American Art; 60.54).
AMERICAN ART, NEW YORK
(al centro, in alto) Cape Cod Sunset (Tramonto a Cape Cod); olio su tela, 74,3x91,92cm; 1934 (Lascito Josephine Nivison Hopper 70.1166).
Le Pont des Arts; olio su tela, 59,53x73,03cm; 1907 (Lascito Josephine Nivison Hopper 70.1181).
Rooftops (Tetti); acquerello su carta, 32,7x50,48cm; 1926 (Lascito Josephine Nivison Hopper 70.1114).
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© WHITNEY MUSEUM
OF
(al centro, in basso) Le Pavillon de Flore; olio su tela, 60,33x73,03cm; 1909 (Lascito Josephine Nivison Hopper 70.1174).
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themisia, il Whitney Museum of American Art, di New York, e la Fondation de l’Hermitage, di Losanna, Svizzera, terza tappa europea, immediatamente successiva ai due appuntamenti italiani (dal ventiquattro giugno al diciassette ottobre).
ISOLAMENTI INDIVIDUALI Edward Hopper (1882-1967) è considerato il più significativo pittore americano del Ventesimo secolo. Con la moglie Josephine, è vissuto in una casa isolata di campagna; ha dipinto la solitudine delle grandi città con clinico realismo (di ispirazione fotografica, ma anche indirizzo e ispirazione per la fotografia del secondo Novecento); tela dopo tela, ha altresì osservato e presentato altre individualità che attraversano la vita di tutti i giorni. Appena ricordato, in relazione alla propria notorietà presso il grande pubblico (dei poster), autentica icona e clamoroso marchio-di-fabbrica, perfino vampirizzante, Nighthawks, del 1942, è un quadro emblematico della visione di Edward Hopper: di notte, nella cruda luce artificiale di un bar, una coppia è seduta in silenzio al banco, ognuno rivolto a e su se stesso. Le osservazioni dell’artista sono sempre proiettate all’isolamento (ecco qui), e nelle sue composizioni capita di frequente che l’occhio attraversi le finestre, per mostrare un mondo interno, conseguente a quello esterno. Così, la vetrina arrotondata di questo bar notturno d’angolo (tipico e caratteristico della toponomastica statunitense) fa da cornice agli avventori, rinchiusi in uno spazio ermeticamente definito, separati e isolati sia dal contesto urbano circostante, sia dalla vita. Ancora: il buio della notte è tagliato, inter-
NOTE BIOGRAFICHE
N
ato e cresciuto a Nyack, piccola cittadina nello stato di New York, Edward Hopper ha studiato illustrazione e pittura alla New York School of Art, dove ha seguìto i corsi di William Merritt Chase, raffinato e colto pittore americano del secondo Ottocento, e Robert Henri (Robert Henry Cozad), squisito ritrattista. Oltre la formazione scolastica, la sua pittura ha consistenti debiti di riconoscenza con il clima dell’Europa di inizio Novecento, soprattutto con Parigi, allora capitale del mondo (anche artistico), frequentata in tre soggiorni successivi, dal 1906 al 1907, nel 1909 e nel 1910. Nonostante fosse fisicamente imponente, alto un metro e novanta, era famoso per la sua reticenza: scriveva o parlava pochissimo del suo lavoro. Il suc- Edward Hopper: Self-Portrait; cesso lo ha raggiunto a metà secolo, in età sostan- olio su tela, 63,8x51,4cm; zialmente matura (era nato nel 1882). Due i mo- 1925-1930 (Whitney Museum menti fondanti: nel 1948, la rivista Look lo classificò of American Art, New York; lascito tra i più significativi pittori americani del tempo; quin- Josephine Nivison Hopper 70.1165). di, nel 1950, il Whitney Museum of American Art, di New York, organizzò la prima importante retrospettiva, trent’anni dopo la prima personale al Whitney Studio Club, del 1920. Lo stesso Museo ha ospitato altre consistenti retrospettive di Edward Hopper, nel 1960, 1964 e 1980. Grazie al lascito della vedova Josephine, dal 1968, l’autorevole Museo newyorkese ospita tutta l’eredità dell’artista: oltre tremila opere tra dipinti, disegni e incisioni. In conclusione, annotiamo la copertina che il settimanale Time gli dedicò nel 1956: ventiquattro dicembre, numero di Natale; ritratto di James Chapin (in basso, a sinistra). Con l’occasione, segnaliamo che il 28 agosto 1995, per un’altra copertina, lo steso Time utilizzò un dettaglio di un quadro di Edward Hopper per rappresentare le inquietudini degli anni Novanta: Automat, del 1927; Des Moines Art Center Permanent Collection (in basso, a destra). Edward Hopper sulla copertina di Time: 24 dicembre 1956. 28 agosto 1995: copertina di Time, con un dettaglio di Automat, di Edward Hopper, del 1927, rappresentativo delle inquietudini degli anni Novanta.
rotto, soltanto dalla luce del bar. Il quadro è segnato e definito da una tensione psicologia forte e subito percepita: la presenza della coppia si contrappone (o allinea?) alla desolazione della vita delle grandi città e alla solitudine di un altro avventore di spalle, anche lui su uno sgabello davanti al bancone. Significativo e simbolico, questo dipinto può addirittura rappresentare tutta la pittura di Edward Hopper, e spesso lo ha fatto (ovvero, l’ha rappresentata tutta, o quasi): soprattutto, è caratterizzato e definito da quell’eccezionale potere di suggestione che attraversa tutta la sua opera, nella quale la coppia rappresenta spesso la speranza. Al di là delle superficialità che ne hanno determinato il successo popolare (in forma di poster per tutte le stagioni e per ogni esistenza dei nostri giorni), il quadro è soprattutto uno schermo sul quale proiettare
(al centro, in alto) Self-Portrait (Autoritratto); olio su tela, 35,88x23,34cm; 1903 (Lascito Josephine Nivison Hopper 70.1650).
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OMAGGI, RIVISITAZIONI, INTERPRETAZIONI
D
efiniamole come più ci piace. In ogni caso, si tratta di parodie e interpretazioni libere del tema: alla-maniera-di, piuttosto che a-ispirazione-di. Soltanto le icone possono vantare questo privilegio, che nobilita la loro fama, proiettandola nell’immaginario quotidiano. Nighthawks, dipinto di Edward Hopper del 1942 (tradotto in I nottambuli; olio su tela, 76,2x144cm; The Art Institute of Chicago, Friends of American Art Collection / Collezione degli Amici dell’arte americana) [al centro], è una delle icone più amorevolmente “profanate” e volgarizzate dalla fantasia popolare. Senza soluzione di continuità, c’è tutto, e forse molto di più: dai fumetti al cambio di personaggi (dalla combinazione Marilyn Monroe, James Dean, Humphrey Bogart e Elvis Presley al rock, e dintorni, sempre all’insegna della tra-
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sgressione, di Janis Joplin, John Lennon, Jim Morrison, Jimi Hendrix e John Belushi), dalla fantasia (Spazio compreso) alla realtà. E non mancano le sceneggiature. Per esempio, lui e lei stanno fuori dal bar, chiuso; lui, perplesso, la rimprovera: «Mi avevi detto che era aperto». Oppure, la pulizia del locale e della strada, alle quattro del mattino, quando tutti i clienti se ne sono andati. Qui, un casellario casuale, ma neppure poi tanto. A testimonianza del fatto che so bene di cosa sto scrivendo: in casa mia, ho anch’io un omaggio di/a Nighthawks, che ha dipinto per me la bravissima Franca Silva, in dimensioni originarie. Al posto degli avventori, ci siamo la mia compagna (Loredana Patti) ed io; il barista è l’amico Gherardo Frassa, eclettico scenografo, straordinario curatore di affascinanti mostre. M.R.
proprie fantasie. Complice il contrasto tra il bar e i negozi che si intravedono sul fondo, che permettono di identificare un particolare ambiente sociale, siamo tutti invitati al confronto. Non soltanto all’incontro. (Realismo di forma a parte, non è questa una delle intenzioni di tanta fotografia, anche contemporanea? Che magari, ironia degli opposti, aspira a tanto allontanandosi da raffigurazioni realiste?).
AL SOLITO, TASCHEN
O
ltre le agili monografie delle collane di arte di base (definiamole così), Edward Hopper è presente nel prestigioso e autorevole catalogo delle edizioni Taschen con il consistente saggio di Ivo Kranzfelder, proposto a un prezzo di vendita/acquisto particolarmente favorevole. Inserito nella serie delle edizioni per i (lunghi) venticinque anni di pubblicazioni, costa soltanto dieci euro. Il testo è in italiano, ed è scritto da un autentico luminare. Nato ad Augusta, in Germania, nel 1958, Ivo Kranzfelder ha studiato storia dell’arte e storia a Monaco di Baviera, dove si è laureato con una tesi sul legame tra il surrealismo e la fotografia di moda contemporanea. Dal 1986, ha pubblicato numerosi articoli su riviste d’arte e saggi; ha curato mostre d’arte moderna e contemporanea e di fotografia. Dal 1993, è docente all’Università di Monaco di Baviera, dove si è laureato.
Dopo decenni di paziente lavoro, Edward Hopper ha ottenuto successo e popolarità in età matura. Dagli anni Cinquanta, la sua fama è cresciuta continuamente, proiettandolo ai vertici dell’arte del Novecento e imponendo lo stile del suo realismo, al quale, come abbiamo anche già annotato, si è richiamata molta fotografia contemporanea, non soltanto statunitense. Così che, le solitudini individuali nelle grandi città sono state elevate a soggetto e significato di generazioni successive di fotografi, ciascuno dei quali ha svolto il tema a modo proprio, pur potendo essere tutti ricondotti a un’unica matrice ideologica. Come molti dei quadri di Edward Hopper rappresentano visioni di strade, tetti e case abbandonate, efficacemente rappresentati in una luce brillante che smentisce la malinconia delle scene, altrettante fotografie attraversano la contemporaneità con il medesimo passo, la stessa cadenza: alternando, curiosamente, inquadrature in bianconero a raffigurazioni a colori, e poi, ancora e imperterritamente, interpretazioni in colori realistici a alterazioni volontarie di toni e cromatismi. Al pari della pittura di Edward Hopper, definita da suggestivi accostamenti di colore e contorni decisi, che definiscono, identificandoli, luoghi e ambienti, la fotografia che si è ispirata applica una medesima attenzione estremamente precisa sul tema delle esistenze di uomini e donne dei nostri giorni, via via inseriti in ambienti naturali o ricreati, idonei alla visualizzazione e sottolineatura di stati d’animo di misteriosa inquietudine. Se una differenza va individuata e sottolineata, le calde sfumature dei colori di Edward Hopper svelano la tranquillità di un animo ottimista; mentre, al contrario, troppa fotografia contemporanea è soprattutto sfiduciata e chiusa in se stessa. Addirittura, compiaciuta della propria clinica rilevazione di uno stato di cose senza altro futuro. In un saggio del 1995, i quadri di Edward Hopper sono stati definiti «calmi, silenti, stoici, luminosi, classici» dallo scrittore John Updike, Premio Pulitzer 1981, più volte candidato al Nobel per la Letteratura. Qualche fotografia, non molte per il vero, potrebbe vantare analoga considerazione. Ma è tutto un altro discorso.
LA MOSTRA Straordinaria e autosufficiente (ci mancherebbe altro!), l’antologica di Edward Hopper è una mostra da visitare: assolutamente e senza indugio. In sovramercato, chi si occupa di fotografia, frequentandola secondo qualsivogliano intenzioni e intendimenti, può perfino finalizzare in modo utilitaristico: traendo benefici
Edward Hopper. A cura di Ivo Kranzfelder; Taschen, 2006 (su precedente edizione originaria del 1996); 200 pagine 24x30cm, cartonato con sovraccoperta; 9,99 euro.
Morning Sun (Sole al mattino); olio su tela, 71,44x101,93cm; 1952 (Columbus Museum of Art, Ohio, Museum Purchase, Howald Fund 1954.031).
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PARALLELO FOTOGRAFICO
Study for Morning Sun (Studio per Sole al mattino); conté crayon e grafite su carta; foglio, 30,5x48,3cm; 1952 (Lascito Josephine Nivison Hopper 70.244).
concreti, come in poche altre occasioni può capitare. A cura di Carter Foster, conservatore del Whitney Museum of American Art, di New York, che ha concesso per l’occasione il nucleo più consistente di opere, l’allestimento italiano (e poi svizzero) vanta altri importanti prestiti dal Brooklyn Museum
Da Edward Hopper, a cura di Ivo Kranzfelder (Taschen, 2006).
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ffissioni stradali che promuovono mostre d’arte se ne vedono da tempo; non molto, ma da tempo. Anche la comunicazione anticipata, non è più una novità; ricordiamo di aver già incontrato qualcosa di analogo. Però, l’affissione che da fine luglio anticipa, a Milano, la mostra di Edward Hopper, a Palazzo Reale, da metà ottobre, ha qualcosa di autenticamente nuovo. Non pensiamo tanto all’ipotetico pubblico protagonista dei dieci soggetti della comunicazione, introdotta dall’headline «L’artista preferito di...?», di volta in volta completato con nomi di fantasia (o veri?). Neppure ci riferiamo al fatto che ciascuno di loro, in ritratto solitario o di gruppo, tiene tra le mani un’opera incorniciata del celebre pittore statunitense (per la cronaca, Second Story Sunlight / Secondo piano al sole, del 1960) [a pagina 26]. Quanto al fatto che il cognome dell’autore è usato come esclamazione, come headline.
Trawler (Peschereccio); acquerello e grafite su carta; foglio, 35,4x50,6cm; 1923-1924 (Lascito Josephine Nivison Hopper 70.1092).
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Alla domanda appena riferita, la risposta è perentoria: «Hopper!». Proprio così, con l’esclamativo. Ovviamente, più in piccolo c’è anche il nome di battesimo, e a conclusione sono richiamati i riferimenti temporali e logistici alle date di Palazzo Reale. Si racconta che per le riprese programmate il tre luglio in piazzetta Reale, a Milano, adiacente piazza del Duomo, si siano presentati oltre tremila aspiranti-testimonial. Un’affluenza eccezionale, che ha portato alla selezione finale di dieci soggetti, tra i più accattivanti ed espressivi. Organizzata e ideata da Arthemisia, in accordo con Palazzo Reale di Milano e la Fondazione Roma, questa campagna di comunicazione propone “soggetti attivi”, piuttosto che “consumatori”, al fine di creare un evento che sia prima di tutto un’esperienza unica e coinvolgente per il visitatore. Dopo Milano, in ripetizione a Roma.
of Art, sempre di New York, dal Newark Museum of Art, dal Terra Foundation for American Art, di Chicago, e dal Columbus Museum of Art. Suddivisa in sette sezioni, seguendo un ordine tematico e cronologico, l’esposizione ripercorre tutta la produzione del carismatico Edward Hopper, dalla formazione accademica ai soggiorni giovanili a Parigi, fino al periodo “classico” e più noto degli anni dai Trenta ai Cinquanta, per concludere con le grandi e intense immagini del periodo finale della sua vita. Il percorso prende in esame tutte le tecniche predilette dall’artista: l’olio, l’acquerello e l’incisione, con particolare attenzione all’affascinante rapporto che lega i disegni preparatori ai dipinti: un aspetto fondamentale della sua produzione fino ad ora poco considerato nelle rassegne a lui dedicate (ma ben analizzato nelle monografie curate da Ivo Kranzfelder, per il tedesco Taschen Verlag, immancabile e inviolabile riferimento dell’editoria d’arte contemporanea; a pagina 29). Le sezioni introduttive -Autoritratti, Formazione e prime opere e Hopper a Parigi- illustrano un gruppo di promettenti opere del periodo accademico e gli schizzi inondati di luce e le opere del periodo parigino, come il noto dipinto Soir Bleu (1914) [a pagina 25]. La sala dedicata a La definizione dell’immagine: Hopper incisore, con capolavori tra i quali Night Shadows (1921) e Evening Wind (1921), mette in evidenza la sua tecnica elegante e quel «senso di incredibile potenzialità dell’esperienza quotidiana», che ha riscosso grande successo e segnato l’inizio di una felice parabola espressiva.
Nella sezione titolata L’elaborazione di Hopper: dal disegno alla tela, che celebra la straordinaria mano di Edward Hopper disegnatore e il suo metodo di lavoro, viene presentato un significativo gruppo di tavole preparatorie, per esempio per Morning Sun (1952) [a pagina 29] e per il precedente New York Movie (1939), nei cui bozzetti si vede chiaramente come ha preso forma la figura femminile: all’inizio è quasi un ritratto della moglie Josephine (sua unica modella), e poi approda alla “maschera” del cinema -uno dei temi prediletti dall’artista-, assorta nei propri pensieri e bella come una diva. Questa sezione svela quanto il realismo, trasversale all’intera produzione, sia spesso frutto di una sintesi di più immagini e situazioni colte in tempi e luoghi diversi, e non una semplice riproduzione dal vero. In mostra, eccezionalmente!, anche uno dei suoi Record books, i famosi taccuini che l’artista riempiva insieme alla moglie, dove sono abbozzati mol-
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A
MAURIZIO REBUZZINI
HOPPER!
STORIA D’ARTE
A
ltro modo di vedere e affrontare la pittura di Edward Hopper. In occasione dell’allestimento italiano della mostra antologica, l’editore Skira, che realizza pure il catalogo dell’esposizione, pubblica il testo (romanzo? saggio? riflessione? condivisione?) di Aldo Nove Si parla troppo di silenzio, precisato come Un incontro immaginario tra Edward Hopper e Raymond Carver. Nei primi mesi del 1958, un giovane di vent’anni, sposato e padre di una bambina di pochi mesi, ritorna a Paradise, in California, dopo un breve soggiorno nello stato di Washington. Il ragazzo è figlio di un operaio che soffre di “esaurimento nervoso” e sbarca il lunario svolgendo lavori disparati. Il ragazzo si chiama Raymond Carver, e sogna di diventare scrittore. Ormai pittore affermato, Edward Hopper compie diversi viaggi in macchina negli Stati Uniti, con la moglie Josephine. Un giorno, si ferma vicino al fiume Butte Creek, in California, per dipingere un paesaggio. È in quell’occasione che conosce Raymond Carver. Tra il pittore e lo scrittore si crea un sodalizio improvvi-
ti soggetti che successivamente sono stati dipinti a olio. A questo proposito, e per completezza di informazione, ricordiamo l’avvincente edizione libraria di questi Record books: Edward Hopper: A Journal of His Work, a cura di Deborah Lyons, pubblicata nel 1997 da W. W. Norton & Company, per il Whitney Museum of American Art, di New York. Invece, nelle sale intitolate a L’erotismo di Hopper, con definizione scartata a lato, la mostra riunisce alcune delle più significative immagini di donne in stati contemplativi, perlopiù nude o semi svestite, da sole e in interni, che, insieme alle opere della sezione I concetti essenziali: il tempo, lo spazio, la memoria, illustrano al meglio la poetica dell’artista, il suo discreto realismo e, soprattutto, l’abilità nel rivelare la bellezza nei soggetti più comuni, usando spesso un taglio cinematografico, molto apprezzato dalla critica. Per lungo tempo, Edward Hopper è stato associato anche a suggestive raffigurazioni di edifici urbani e delle persone che li abitano: spesso, fatiscenti facciate di negozi anonimi e luoghi poco conosciuti. Tra i suoi soggetti favoriti, si incontrano scorci di vita nei tranquilli appartamenti della classe media, a volte intravisti dietro le finestre da un treno in corsa, immagini di tavole calde e sale di cinema: tutte visioni divenute vere e proprie icone, come testimoniano alcuni celebri capolavori esposti, da Cape Cod Sunset (1934) [a pagina 26] a Second Story Sunlight (1960) [ancora, a pagina 26], a A Woman in the Sun (1961) [a pagina 24]. Infine, segnaliamo che la mostra è arricchita di un importante apparato fotografico, biografico e storico, nel quale viene ripercorsa la storia americana dagli anni Venti ai Sessanta, del Novecento: la grande crisi, la nuova frontiera del presidente Kennedy, il boom economico, la guerra in Vietnam, il disagio interno. Dunque, un’occasio-
Si parla troppo di silenzio, di Aldo Nove: Un incontro immaginario tra Edward Hopper e Raymond Carver. Skira, 2009; 96 pagine 13x17cm, cartonato con sovraccoperta; 14,00 euro.
sato, un incontro magico nel quale due tra le più potenti menti del Novecento americano confrontano le proprie idee dell’arte, soprattutto a partire da una visione e interpretazione, quella del “realismo”, che li unisce. Fanno notte fonda. Nel buio quasi totale, rischiarato dalla luce argentina della luna, un gruppo di cavalli bianchi fa irruzione da chissà dove. Basta. In questo racconto lungo, Aldo Nove mette a confronto due delle personalità più eminenti della cultura americana del Novecento. Malgrado la differenza e il mezzo usato per esprimersi, li accomuna un forte senso dell’immanente sospeso, quella poetica dell’apparenza troppo lirica per essere piattamente realista, e troppo reale per abbandonarsi a qualunque forma di effetto che non sia la pura magia dei fatti. Degli sguardi, degli spazi, delle parole. Del silenzio.
ne per capire meglio e ancora il presente. Una volta di più con Anne Perry (da I peccati di Callander Square): «La storia non può insegnarci niente se scegliamo di dimenticarla». Ma anche l’arte può insegnare poco, se, quando e per quanto scegliamo di ignorarla. Maurizio Rebuzzini
Edward Hopper. Saggi di Carter Foster, Carol Troyen, Sasha Nicholas, Goffredo Fofi, Demetrio Paparoni, Luigi Sampietro; Skira, 2009; 280 pagine 24x28cm, cartonato; 59,00 euro.
The El Station (La stazione della sopraelevata); olio su tela, 51,28x74,3cm; 1908 (Lascito Josephine Nivison Hopper 70.1182).
Edward Hopper. Mostra promossa da Comune di Milano - Cultura, Fondazione Roma e Arthemisia; produzione Palazzo Reale, Fondazione Roma e Arthemisia. A cura di Carter Foster (Whitney Museum of American Art, New York); www.edwardhopper.it. ❯ Palazzo Reale, piazza del Duomo 12, 20121 Milano. Dal 15 ottobre al 24 gennaio 2010; lunedì 14,30-19,30, martedì-domenica 9,30-19,30, giovedì 9,30-22,30. ❯ Fondazione Roma Museo, Palazzo Sciarra, via Minghetti 17, 00187 Roma; 06-6976450; www.fondazioneroma.it. Dal 16 febbraio al 13 giugno 2010. ❯ Fondation de l’Hermitage, 2, route du Signal, CH-1000 Lausanne, Svizzera; www.fondation-hermitage.ch. Dal 25 giugno al 17 ottobre 2010.
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CARTE CANSON
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INFINITY.
OGNI STAMPA UN CAPOLAVORO.
UN’AMPIA GAMMA DI CARTE SPECIALI E CANVAS PER LA STAMPA DIGITALE ARTISTICA E FOTOGRAFICA
w w w . c a n s o n i n f i n i t y . c o m
Marilyn Monroe e Jack Benny allo Shrine Auditorium, di Los Angeles; 1953.
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ella sua lunga vita, Phil Stern ha realizzato grandi immagini di tanti personaggi americani del cinema e del jazz, da James Dean a Frank Sinatra, da Ella Fitzgerald a Louis Armstrong, che sono stati gli incontrastati idoli dell’Olimpo pagano della cultura popolare di mezzo mondo, nei venti-trent’anni leggendari, seguìti alla fine della Seconda guerra mondiale. Phil Stern ha compiuto novant’anni lo scorso tre settembre. Me lo ha ricordato Roberto Koch, fondatore e direttore dell’Agenzia Contrasto, che si è an-
N
che proposto come tramite per una intervista. «Oh, sì, grazie», gli ho risposto immediatamente. Poi, i contatti si sono rivelati più complicati di quanto pensassimo in origine e, a causa delle sue delicate condizioni di salute, ho potuto rivolgere a Phil Stern solo un paio di domande, alle quali ha risposto a fatica. Ciononostante, posso raccontarvi un po’ della sua vita. Quindi, in questo ordine, arricchisco il mio racconto con una testimonianza di David Friend, direttore del settore Nuovi Progetti di Vanity Fair, che qualcuno ricorderà come photo editor di Life negli anni Novanta, che mi ha gentilmente concesso di
SONO SOLTANTO
Lello Piazza ringrazia David Friend, direttore creativo di Vanity Fair, che ha concesso di utilizzare ampiamente un testo, recentemente aggiornato, pubblicato sul numero di novembre 2003 di American Photo e sul sito www.digitaljournalist.org. Uno speciale ringraziamento anche a Geoff Katz e Hugo Reyes, di CPi (Creative Photographers Inc), e Roberto Koch, Federico Della Bella e Donatella Farina, dell’Agenzia Contrasto, il cui contributo ha reso possibile l’incontro a distanza con Phil Stern e la pubblicazione di questo articolo. Una mostra di fotografie di Phil Stern è prevista per la prossima primavera 2010 presso lo Spazio Forma, a Milano.
© BRETT RATNER / CPI / CONTRASTO
© PHIL STERN / CPI / CONTRASTO
Due domande con altrettante due risposte. Incontro con una delle grandi personalità della fotografia contemporanea, che ha attraversato i decenni, dagli anni Quaranta, passando dai fronti della Seconda guerra mondiale allo star system hollywoodiano. In occasione dei suoi novant’anni, onore e meriti a Phil Stern. Riflettiamo sulla sua lunga parabola espressiva, ringraziandolo sia per ciò che ha fatto, sia per come ci ha accolti. Quando rileva che «Con tutte le cose meravigliose che ci sono nell’universo, la fotografia non è così importante», non solo ha ragioni da vendere, ma soprattutto ci riempie il cuore di felicità. Evviva
O FOTOGRAFIE?
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James Dean; 1955.
tro, forse cinque stanze, invase da migliaia di fotografie in bianconero, sparse dappertutto. Le fotografie sono stampate in tutti i formati possibili, su ogni tipo di carta, dalla robusta ed elegante baritata, alla più ordinaria carta politenata. Nonostante allora Phil Stern avesse superato da un bel po’ i settant’anni, era pieno di energia e cordialità. Ci venne incontro in ciabatte, in testa un berretto da baseball, che evidentemente non abbandona mai: indossava un paio di calzoni kaki senza piega, molto comodi, e una camicia a righe marroni e grigie, che cadeva sportivamente fuori dai calzoni. Quando, dopo aver liberato le sedie dalle fotografie che ci stavano sopra, ci fummo finalmente accomodati, portò un thermos pieno di caffè e una scatola di biscotti, che sembrava provenire da uno di quei negozi pieni di polvere dei film western americani, dove, oltre ai biscotti, si possono acquistare chiodi e proiettili per la Colt. Grazia Neri sapeva già tutto di lui, ma io, che invece non sapevo quasi niente, cominciai a interrogarlo sulla sua vita.
CENNI BIOGRAFICI Phil Stern è nato a New York, nel 1919, da una famiglia di ebrei russi, una delle tante arrivate negli Stati Uniti per fuggire dalla fame e dalla miseria della Russia degli zar (chi fosse interessato a curiosare nella vita della comunità ebraica di New York al-
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James Dean, sulla sua Triumph, davanti al Schwab’s Drugstore; Hollywood, maggio 1955.
utilizzare un articolo da lui pubblicato qualche anno fa, appunto dedicato a Phil Stern. Prima di passare alla penna di David Friend, comincio io a raccontare come è iniziata la carriera di Phil Stern, anticipandovi anche la breve storia del mio contatto con lui: un incontro che avvenne nel 1994, a Los Angeles, nella sua disordinatissima casa di Hollywood. Ero là con Grazia Neri: nel raggio di qualche chilometro dalla casa di Phil, avevamo già incontrato alcuni grandi protagonisti della fotografia contemporanea, Michel Comte, Jeff Dunas, Greg Gorman, Douglas Kirkland, Gerd Ludwig, Herb Ritts. Fu un viaggio tra le stelle. Una delle stelle più brillanti è proprio Phil Stern. Arrivammo da lui in un pomeriggio grigino, nubi lattiginose e piatte nel cielo, clima tiepido-umido. La sua abitazione è una di quelle case americane costruite di cartone, tenuto insieme da qualche profilato di alluminio, con grandi finestre di vetro: niente a che vedere con la reggia-fortezza di Greg Gorman, o la villa ben architettata dei Kirkland, nascosta sotto la lussureggiante vegetazione della collina di Hollywood. La casa di Phil Stern sembra una di quelle abitazioni facilmente spostabili, se gli metti sotto quattro ruote, parcheggiata nei pressi degli studi Paramount, di Los Angeles. Passando attraverso uno spazio protetto da un’ampia tettoia, da un giardinetto, si accede all’abitazione vera e propria. Quat-
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l’inizio del Ventesimo secolo lo faccia con i romanzi di Abraham Cahan, soprattutto Perduti in America). A sedici anni, Phil Stern era apprendista in uno studio fotografico di New York dove, oltre a lavare i pavimenti, aveva imparato a stampare le fotografie e a caricare le pellicole piane negli châssis. Rimase folgorato dalla fotografia. Come rimase affascinato dalle stampe che aveva visto al Metropolitan Museum. E quando cominciò a lavorare per la Police Gazette, un giornale di nera distribuito a New York, lo ispirarono le fotografie di Weegee. Dalla Police Gazette, passò a Friday, una rivista di orientamento socialisteggiante, come le sue idee politiche. Friday lo inviò presto a Hollywood, dove Phil Stern cominciò a fotografare le star del cinema. Siamo a cavallo tra la fine degli anni Trenta e l’inizio dei Quaranta. Come free lance, in questo periodo pubblicò anche su Life, Look e Collier’s Weekly. La guerra era alle porte e il ventenne Phil Stern ci finì dentro. Mi raccontò che si ricordava della Sicilia, dove sbarcò nel 1943 con le truppe alleate. Io non conoscevo ancora una delle sue fotografie più famose, quella dei corpi bruciati di due militari tedeschi, saltati per aria con le armi che trasportavano. L’orrenda assurdità della situazione è completata da un carretto siciliano trainato da un cavallo che, dall’angolo in alto dell’inquadratura, sembra entrare in una scena con la quale non ha assolutamente nulla a che fare. Phil Stern era andato in guerra come volontario, ed era stato arruolato nei Darby’s Rangers (dal nome del loro leggendario comandante, il colonnello William Darby).
vita vera, piuttosto che non interesse per situazioni finte, create ad hoc, per ragioni di relazioni pubbliche, dagli agenti degli attori. Su incarico di studios o di giornali, nel corso della sua carriera, Phil Stern è stato il fotografo di scena di più di cento film. David Fahey, amico intimo di Phil, titolare di una delle gallerie fotografiche più importanti di Los Angeles, dice di lui: «Per me è il Cartier-Bresson o il Robert Frank di Hollywood. Non avrebbe mai accettato di scattare fotografie tipo quelle di oggi, orchestrate dalle pubbliche relazioni delle star. E, nella realtà di Hollywood, scattare fotografie vere rappresenta una autentica eccezione». Allora, una domanda è lecita: come è possibile che i giganti del cinema abbiano accettato di abbassare la guardia davanti all’obiettivo di questo fotografo che sembrava un mastino? Phil è convinto che le star lo abbiano percepito come un tipo un po’ tosto. Nel 1943, nella battaglia contro le truppe di Rommel, in Nord Africa, rimase quasi ucciso dal fuoco di sbarramento della artiglieria tedesca; quattro mesi più tardi, in Sicilia, fu ferito di nuovo. A quel punto, il Dipartimento della Guerra lo rimpatriò e, in cerca di piccoli eroi, gli assegnò un’onorificenza e lo mandò in un tour di propaganda, insieme al noto sassofonista Ar-
Frank Sinatra; 1961.
Phil Stern. A Life’s Work; testi di Patricia Bosworth, Nat Hentoff e Herbert Mitgang; prefazione di Brett Ratner; introduzione di Carol McCusker; PowerHouse, 2003; 256 pagine 29,8x36,8cm, cartonato, in box; 98,00 euro. Sammy Davis Jr, Dean Martin e Frank Sinatra in sala di registrazione; 1955.
Ora, per la prosecuzione di questo racconto, lascio la parola a David Friend. Dopo aver richiamato che David Friend ha scritto numerosi saggi sulla fotografia, in forma di articolo o raccolti in volume, tra i quali ricordo il discriminante Watching the World Change: The Stories Behind the Images of 9/11, del 2006, relativo alle immagini dell’Undici settembre, preciso che ha anche pubblicato una celebrazione dei novant’anni di Phil Stern, su Vanity Fair dello scorso ventinove agosto. Durante la Seconda guerra mondiale, i compiti di Phil Stern nell’esercito non riguardavano sparare, ma scattare fotografie. Dopo aver coperto come soldato-fotografo le campagne in Nord Africa e Italia, ritornò a Hollywood, la sua seconda patria. Ma non si trasformò nell’ennesimo fotografo dandy delle star del cinema, dedito solo alla loro celebrazione. Phil era un monello di strada, più attento agli aspetti rudi della realtà che al fascino del suo glamour. Il suo stile venne definito in-your-face style, da Robert Cushman, curatore della fotografia presso la Academy of Motion Picture Arts and Sciences, di Beverly Hills [quella degli Oscar; propongo di tradurre con “uno stile spavaldo, che non guarda in faccia a nessuno”]. Questo stile, che probabilmente si era rafforzato durante la guerra, dipendeva dal suo interesse per scene di
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SCRIVE DAVID FRIEND
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Marlon Brando sul set di The Wild One (in Italia, Il selvaggio); 1954.
così Duke Ellington che si sistema i baffi; Bette Davis che cuoce le salsicce sul barbecue; Frank Sinatra che divora un sandwich sul set. Proprio Frank Sinatra fu promotore di molte sedute fotografiche di Phil Stern. Per esempio, reclutò il suo amico per la notte di gala nella quale John Fitzgerald Kennedy assunse la carica di presidente, il 20 gennaio 1961, e, in quella occasione, lo convinse a realizzare una fotografia nella quale «Sinatra si fece fotografare -è Phil che parla, ora- nella posizione di Cristo in croce. La gag era stata preparata per il regista Mervyn LeRoy. Sinatra gli spedì la fotografia con questo commento: “Okay, ora sono dove mi vuoi tu. Frank”». Negli anni Settanta e Ottanta «la mia carriera sembrava essere al tramonto -confida Phil Stern-, e non ricevevo più incarichi da nessuno». Poi, lo risveglia una chiamata da parte di Graydon Carter, attuale direttore di Vanity Fair, che a quel tempo era coeditore di Spy Magazine, rivista satirica nata nel 1986, che pubblicava anche inchieste giornalistiche molto serie. Le fotografie di Phil Stern diedero uno spessore speciale a Spy. Fu in quella occasione che il fotografo scoprì come trasformare il proprio archivio “dormiente” in una miniera e «riciclare la mia gioventù -afferma-. A Spy si divertivano
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Vladimir Horowitz e Oscar Peterson; Los Angeles, 1978.
tie Shaw. Così, Phil divenne un personaggio di una certa celebrità a Los Angeles: «Bogart si fidava di me. Dean si fidava di me. E John Wayne si fidava di me. Wayne non aveva mai fatto il soldato. Sia lui sia Bogart pensavano di essere dei duri. Ma forse pensavano di essere molto più duri di quanto non fossero in realtà. Io invece ero stato addirittura ferito, dunque il fatto che io fossi un duro era fuori discussione». In un certo senso, non solo Phil Stern contribuì a creare un’immagine più umana (meno divina) delle celebrità, ma arricchì anche il vocabolario visivo della narrazione della bellezza in uso in quegli anni. Divenne famoso anche per i suoi ritratti dei personaggi del jazz: realizzò quaranta copertine di album per Verve Records e, durante le registrazioni, divenne una presenza costante, con il beneplacito di Ella Fitzgerald e Louis Armstrong. Alcune delle sue immagini migliori di musicisti e star del cinema sembrano il risultato di un duetto brioso, che si svolgeva da una parte e dall’altra dell’obiettivo, e rivelano una specie di complicità dei suoi soggetti nell’accontentare il loro irritabile amico, lasciandosi fotografare a sorpresa, oppure sorridendogli garbatamente o, infine, rivelandogli il proprio aspetto più naturale: ecco
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Combattimenti dei Darby’s Rangers nei pressi del porto di Arzew, in Algeria; 1942. L’esercito statunitense entra a Comiso, in Sicilia, luglio 1943.
A DOMANDE, RISPONDE
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Seconda guerra mondiale.
hollywoodiane quella intimità e quella fiducia che resero possibili le sue splendide fotografie. «Sono immagini piene di gioia -afferma Daniel Okrent, che in passato è stato direttore di Life-. Phil è un tipo che è stato bello avere intorno; per questo le star appaiono rilassate nelle sue immagini. Il suo segreto è quello di avere un cuore d’oro. È come se avesse illuminato le sue fotografie con la sua luce interiore». La luce interiore di Phil Stern non fu mai più brillante di quella mattina di un giorno di maggio del Cinquantacinque, quando stava percorrendo il Sunset con la sua Pontiac: un tipo su una moto gli taglia bruscamente la strada e finisce per terra. «Gli mandai un sacco di maledizioni», racconta, descrivendo come il motociclista si rialzò scrollandosi la polvere di dosso, si avvicinò e si presentò: piacere, James Dean. «Poco dopo, eravamo seduti da Schwab’s Drugstore a berci un caffè e a mangiarci una fetta di torta di mele». Da quell’incontro ebbe origine una delle sue fotografie più famose: James Dean seduto a cavallo di una Triumph [a pagina 36].
moltissimo con alcune delle mie fotografie. Per esempio, pubblicarono una immagine di spalle di Richard Attenborough, Jimmy Stewart e Hardy Krüger sul set di The Flight of the Phoenix [Il volo della Fenice, di Robert Aldrich, del 1965], mentre pisciavano sulle dune di sabbia intorno a Yuma, in Arizona. Ci fecero una doppia pagina!». Ma, da allora, la buona stella di Phil Stern sembrò avviarsi verso il tramonto. L’anno scorso, a Cannes, ha ricevuto il Lifetime Achievement Award, durante la premiazione dei vincitori del primo Sony World Photography Award [FOTOgraphia, giugno 2008]. Qualche anno fa, ha donato le sue migliori fotografie di Hollywood alla Academy of Motion Picture Arts and Sciences. E la sua (forse) ultima monografia A Life’s Work, pubblicata da PowerHouse, nel 2003, con il suo peso scoraggiante (quasi quattro chili), le imponenti dimensioni [duecentocinquantasei pagine 29,8x36,8cm; a pagina 39] e la sua robusta custodia, è diventato un oggetto da collezione: ogni pagina di questo libro rappresenta la migliore testimonianza del fatto che Phil Stern riuscì a ottenere dalle celebrità
Dopo questa bellissima testimonianza di David Friend arrivo alle mie domande. Con l’aiuto di Hugo Reyes, della CPi di New York (Creative Photographers Inc), sono riuscito a porgliene due. Phil, se tu potessi scegliere una sola delle tue fotografie, quali prenderesti e perché? «Non c’è una fotografia che prediligo. La definizione “icona” non appartiene al mio dizionario. Sono stati i direttori dei giornali con cui ho lavorato -Life, Look, Vanity Fair, Spy, eccetera- che hanno fatto diventare icone le loro fotografie favorite. Sono stati loro a decidere, e io li ho lasciati fare: dopotutto, chi sono io per oppormi alle loro decisioni? «Se dovessi scegliere una sola tra le mie fotografie, il che, onestamente, mi sembra impossibile che possa mai accadere, non sceglierei una delle più famose. Credo invece che sceglierei quella in cui Vladimir Horowitz appare insieme a Oscar Peterson: quello che mi piace di questa fotografia è il fatto che ci sono due grandissimi artisti nella stessa inquadratura [a pagina 40]». Phil, c’è una domanda che faccio a tutti i fotografi; è una domanda molto impegnativa, ed è questa: cosa è la fotografia? Ti anticipo che la risposta più sorprendente è quella che diede, una volta, un famoso ritrattista francese, Georges Tourdjman, che rispose: «Non so, ma spesso è una stronzata». «Sono assolutamente d’accordo con lui! «Con tutte le cose meravigliose che ci sono nell’universo, la fotografia non è così importante...». Per conto mio, Hugo Reyes ha insistito. Ma se la tua casa dovesse andare a fuoco, quale immagine salveresti? A questo punto, Phil Stern non ha risposto più nulla e ha salutato in silenzio. Era già molto stanco. Lello Piazza
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Cripple Creek, Colorado; 1957.
ncora una volta, immancabilmente (ormai e purtroppo), il mondo della fotografia italiana è stato trafitto da cattiva informazione. Ancora una volta, immancabilmente (ormai e purtroppo), l’ha subìta tacendo: e tacendo, acconsente. Prima di rievocare l’epopea kodachrome, diapositiva giunta alla fine del suo splendido ciclo vitale, e dopo aver steso un pietoso velo su come (non) lo abbia riferito il giornalismo di settore, benefiche eccezioni a parte, ci soffermiamo su come il giornalismo non settoriale abbia trattato la sua morte annunciata, e ne abbia colto pretesto per la compilazione dell’ennesima sequela di inesattezze, che rivelano come e quanto la fotografia possa essere maltrattata: quantomeno, in Italia. Esattamente, in questa sequenza: cialtronerie giornalistiche, ufficialità Kodak, clamoroso precedente, amare conclusioni. E poi, finalmente: kodachrome! Eccoci qui. Già qualche tempo addietro, ci siamo indignati quando la dismissione dell’APS da parte di Kodak fu riportata dalla stampa nazionale come fine e morte della pellicola fotosensibile nel proprio complesso (FOTOgraphia, marzo 2004); all’inizio della scorsa estate, l’odioso copione si è replicato, andando a confondere la dismissione del leggendario ko-
A
Scriviamo kodachrome in minuscolo, per elevare la straordinaria diapositiva oltre se stessa, fino alla vita e Storia: sostantivo, non più prodotto.
Alla fine della sua lunga, nobile e gloriosa storia, che per molti tratti è stata coincidente con la Storia della fotografia, la diapositiva kodachrome lascia il mercato quasi in sordina. Magari fosse stato così, dolce eutanasia. Invece della morte indolore, questa fine annunciata è stata ennesima occasione per diffondere notizie errate, oltre che denigratorie. Prima di tutto, scriviamo di questo. A seguire, rievochiamo gli splendori di una pellicola più che rara, addirittura unica preziosa e impareggiabile
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IN MINUSCOLO:
Cartello da negozio del 1944, nel quale sono visualizzati esempi in dimensioni reali delle stampe Kodak Minicolor eseguite da diapositive kodachrome.
Garden of the Gods Park, Colorado; anni Cinquanta.
dachrome con (ancora) la fine e morte della pellicola fotosensibile nel proprio complesso. Testuale, da un notiziario radiofonico, diremmo Radio Rai 2: «Kodak dichiara che non produrrà più pellicole». A differenza di quanto accaduto cinque anni fa, che stiamo per richiamare, questa volta la stampa periodica ha fatto qualcosina di meglio, limitandosi a informazioni approssimative. Martedì ventitré giugno, il Corriere della Sera si è lanciato in una commemorazione commovente, soprattutto grottesca [a pagina 51], accostando il Kodachrome alla “street photography” (mica vero), nelle interpretazioni di William Eggleston (ok, per il kodachrome, ma non per la street
photography), Henri Cartier-Bresson, Robert Frank e Alfred Eisenstaedt (con i dovuti distinguo, ok per la street photography, ma non per il kodachrome). Quindi, soprassediamo sulle speculazioni di basso profilo, figlie di un giornalismo popolare che mira al solo sensazionalismo delle parole, che scandiscono i tempi redazionali dell’occhiello («Fine di un’era. Nell’85 catturò la celebre immagine della bimba afghana»: no, quella celebre fotografia, sulla quale ci siamo soffermati nel novembre 2002, ai tempi dell’individuazione della non più giovane profuga, è merito del suo autore, Steve McCurry, più che della pellicola), del titolo («Il digitale manda in ar-
kodachrome!
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ARCHIVIO FOTOGRAPHIA (2)
Già quattro anni fa, nel dicembre 2005 considerammo concluso il cammino della diapositiva kodachrome, alla quale riservammo la storia di copertina, certificandone l’appartenenza al mito e alla leggenda.
Richiamato nel comunicato ufficiale con il quale Kodak ha annunciato la fine della diapositiva kodachrome, e pedestramente ripreso dalla stampa quotidiana nazionale, che peraltro ha relazionato con imprecisione e approssimazione, il celebre ritratto della profuga afghana di Steve McCurry è stato copertina di National Geographic, nel giugno 1985, diventando poi simbolo di tutta la fotografia del valido fotogiornalista, con ripetizioni continue: per esempio, copertina della monografia Portraits, pubblicata da Phaidon Press, nel 1999.
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chivio la pellicola delle grandi foto[grafie]»: che palle!, la tecnologia digitale è specchio dei tempi, non loro avanguardia; dunque, non manda in pensione nulla, ma interpreta la personalità più apparente ed evidente della contemporaneità), e del sommarietto («Ritirata la Kodachrome cantata da Paul Simon»: sì, è vero, Kodachrome è anche uno dei motivi scritti dal celebre compositore e autore -che richiamiamo a pagina 50-, ma, diavolo!, il valore espressivo e tecnologico del kodachrome è assolutamente indipendentemente da questa nota di costume, che aggiunge soltanto un colore di diverso sapore al colore della sua interpretazione fotosensibile).
UFFICIALITÀ KODAK Per dovere di cronaca, è bene riportare la comunicazione ufficiale con la quale, il ventidue giugno, Kodak ha annunciato il ritiro del kodachrome. La pubblicazione integrale non esula dai compiti del giornalismo, ed è introduttiva per le nostre riflessioni, immediatamente a seguire, che ancora vanno a lamentare come e quanto il mondo della fotografia non abbia ribattuto le notizie inesatte, nonostante il loro tono allarmista sia (stato) deleterio, nocivo, rovinoso e funesto per l’intera filiera commerciale, penalizzata da informazioni false che hanno raggiunto il pubblico (potenzialmente) consumatore. Ma, tant’è. Ovviamente, prendiamo le distanze dalle affermazioni assolute, proprie e caratteristiche degli uffici stampa, come anche dalle interpretazioni tecniche, commerciali e storiche che non corrispondono necessariamente al vero. Altrettanto ovviamente, non siamo responsabili dell’uso spavaldo della grammatica e della declinazione temeraria della lingua italiana: come spesso rileviamo, a ciascuno il suo.
Kodak ritira dal mercato la pellicola Kodachrome. Addio alla vecchia pellicola, icona nel portfolio Kodak. Rochester, NY, 22 giugno. Eastman Kodak Company ha annunciato oggi che entro fine anno ritirerà dal commercio la pellicola a colori Kodachrome, concludendo così il ciclo di vita di un’icona fotografica lungo settantaquattro anni. Le vendite della pellicola Kodachrome, che nel 1935 era divenuta la prima pellicola a colori di successo al mondo, hanno subìto un drammatico declino negli ultimi anni, a causa del passaggio dei fotografi alle pellicole Kodak più recenti e alle tecnologie del digital imaging, di cui Kodak è stata antesignana. Oggi, la pellicola Kodachrome rappresenta solo l’uno per cento delle vendite totali di Kodak nel settore delle pellicole. «La pellicola Kodachrome è un prodotto icona e testamento della lunga e continua leadership di Kodak all’interno della imaging technology», ha affermato Mary Jane Hellyar, President di Kodak’s Film, Photofinishing and Entertainment Group. «La decisione di ritirarla è stata sicuramente difficile, data la sua splendida storia. Ma la maggioranza dei fotografi odierni, per catturare le proprie immagini, preferisce le tecnologie più nuove, sia analogiche sia digitali. A tale proposito, resta fermo l’impegno di Kodak nella fornitura dei prodotti maggiormente performanti, sia analogici sia digitali, per la soddisfazione di questi bisogni». Sebbene Kodak ottenga il settanta percento delle proprie entrate dal settore digitale, continua ad essere leader mondiale nel business delle pellicole. Kodak ha continuato a portare nuovi e innovativi prodotti in questo mercato, incluse sette nuove pellicole professionali e diverse nuove pellicole cinematografiche Vision2 e Vision3, negli ultimi tre anni. Questi nuovi prodotti sono divenuti la scelta dominante tra i fotografi professionisti e gli amatori più esperti, che usano le pellicole Kodak. Tra i più conosciuti fotografi professionisti che hanno usato la pellicola Kodachrome, troviamo Steve McCurry, la cui foto[grafia] di una giovane afghana catturò il cuore di milioni di persone in tutto il mondo, quando apparve indimenticabile sulla copertina del National Geographic Magazine, nel 1985. Come tributo alla pellicola Kodachrome, Kodak ne donerà gli ultimi rullini al George Eastman House International Museum of Photography and Film, di Rochester, New York, che detiene la collezione più grande al mondo di macchine fotografiche e artefatti correlati. McCurry scatterà delle foto[grafie] con uno di questi ultimi rullini, e le immagini saranno donate alla Eastman House. «La prima parte della mia carriera è stata caratterizzata dalla pellicola Kodachrome; con questa diapositiva ho realizzato alcune delle mie foto[grafie] più indimenticabili», ha rilevato McCurry. «Sebbene la pellicola Kodachrome era perfetta per me, da allora ho dovuto rivolgermi ad altre pellicole e apparecchi digitali per creare le mie immagini. Infatti, quando sono tornato a fotogra-
B
riempito una speciale nicchia negli annali del mondo dell’immagine. È stata usata per catturare alcune delle migliori foto[grafie] della storia, inoltre è stata la pellicola scelta per gli slide show familiari nella generazione dell’esplosione demografica. Per salutare la grande storia di questa pellicola, Kodak ha creato una galleria di immagini famose, inclusa la ragazza afghana e altre foto[grafie] di McCurry, così come altre immagini dei fotografi professionisti Eric Meola e Peter Guttman; il tutto disponibile sul sito: www.kodak.com/go/kodachrometribute. Saranno realizzati sul sito anche podcast speciali di McCurry e Guttman. Kodak stima che le scorte correnti di pellicola Kodachrome termineranno agli inizi di autunno nei negozi dove sono attualmente vendute. Dwayne’s Photo ha confermato che continuerà a sviluppare la pellicola per tutto il 2010. Gli utilizzatori della pellicola Kodachrome sono incoraggiati ad usare altre pellicole Kodak, come Kodak Professional Ek-
Piccadilly Circus, Londra; 1949.
Santa Fe Railroad, Amarillo, Texas; marzo 1943.
JACK DELANO
asandosi su precedenti studi sul colore, la pellicola kodachrome fu realizzata da due chimici con la passione comune della musica: Leopold Mannes (1899-1964) e Leopold Godowsky Jr (1900-1983, figlio del celebre virtuoso del piano), violinista uno e pianista l’altro [qui sotto]. Ufficialmente, il kodachrome viene annunciato il 15 aprile 1935, e nasce nel formato cinematografico 16mm; la diapositiva 35mm per fotografia arriva nell’autunno 1936. Dopo un primo risultato di pellicola a due strati, uno sensibile al rosso-arancio e l’altro al blu-verde, che registrava non solo colori specifici ma anche miscele (1933), Leopold Mannes e Leopold Godowsky Jr approdarono al procedimento a tre colori che, come tutti i veri procedimenti pratici di fotografia a colori, dipende dalla divisione nei propri tre componenti rosso, verde e blu-violetto. La pellicola che sarebbe diventata il kodachrome, con evoluzioni di sostanza nel corso dei successivi decenni, presenta tre strati di emulsioni bianconero sovrapposti. Lo strato più vicino al supporto della pellicola è sensibile alla luce rossa, quindi c’è uno strato-filtro e un altro strato sensibile alla luce verde; ancora uno strato-filtro e lo strato superiore sensibile alla luce blu-violetto. Dalle note originarie dei due chimici (musicisti): «Quando si registra una immagine con questa pellicola, i tre componenti della luce vengono automaticamente separati all’interno degli strati emulsionati. Le immagini nei tre strati vengono prima sviluppate come le normali pellicole bianconero e poi, attraverso una serie di trattamenti successivi, le immagini vengono trasformate in positivi formati dai coloranti. Tutti i sali d’argento vengono rimossi, e l’immagine conclusiva consiste di tre immagini a colori sovrapposti». Tutto qui. Semplice a dirsi.
CHALMERS BUTTERFIELD
ALLE ORIGINI
fare la “Ragazza Afghana”, diciassette anni dopo [FOTOgraphia, novembre 2002], ho usato la pellicola Kodak Professional Ektachrome E100 VS, per ricreare quella immagine, anziché la pellicola Kodachrome, com’era stato in origine». Tutta questa magia fornita da Kodachrome è il risultato di processi di fabbricazione e di sviluppo complessi. C’è un unico laboratorio di photofinishing al mondo -Dwayne’s Photo, di Parsons, Kansas, Stati Uniti- che sviluppa la pellicola Kodachrome, a causa della difficoltà di questo processo. La carenza di laboratori di sviluppo disponibili, così come le caratteristiche delle nuove pellicole Kodak lanciate negli ultimi anni, ha accelerato il declino della domanda della pellicola Kodachrome. Durante il suo corso, la pellicola Kodachrome ha
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CHRISTOPHER ALLEN JONES
Knoxville; anni Novanta.
tachrome E100 G e Ektar 100, che dispongono di una grana finissima. Per maggiori informazioni, visitate il sito: www.kodak.com/go/professional.
CLAMOROSO PRECEDENTE
PIXMONIX (HILLSBORO, OREGON, USA)
Bighorn National Forest; anni Sessanta.
Da qui, le notizie stampa approssimative, e quelle tragiche. Ripetiamo quanto sentito in un notiziario Radio Rai: «Kodak dichiara che non produrrà più pellicole». Questo maltrattamento del comparto fotografico, a fronte di un giornalismo che invece presta adeguate attenzioni ad altri mondi, non è una novità. Così come, in allineamento, siamo già stati abitua-
ti alla mancanza di reazione da parte di associazioni di categoria e/o aziende, che avrebbero anche il dovere (istituzionale?) di tutelare la propria filiera. Cinque anni fa, all’inizio del 2004, con una comunicazione analoga, Kodak annunciò la dismissione del programma APS. All’avanguardia di una colpevole serie di relazioni giornalistiche fraintese, tutte declinate nello stesso senso appena riferito, «Kodak non produrrà più pellicole», il ventinove gennaio, il quotidiano La Stampa rivelò clamorosamente come e quanto, in Italia, i discorsi sulla Fotografia (scienza? materia? espressione? commercio?) siano spesso improvvisati, incompetenti e ignoranti. Su una partenza fraintesa, senza conforto di verifiche, con colpevole pressapochismo, La Stampa scrisse di economia e tecnologia fotografica costruendo un edificio denso di idiozie pericolose, che approdarono addirittura al terrorismo ideologico, alla destabilizzazione del mercato (per quanto si possa fare): tanto da creare confusione tra il pubblico, tra i potenziali clienti della fotografia, a tutto danno del commercio nel proprio insieme. L’argomento allora proposto da La Stampa non era da poco. A pagina quindici del numero di giovedì ventinove gennaio, il titolo a sette colonne fu perentorio: «Addio al rullino, è il trionfo della fotocamera digitale / La Kodak manda in pensione il 35mm: entro la fine dell’anno sarà fuori mercato» [a pagina 51]. Mica roba da poco! Preso per vero (ma stiamo per svelare dove La Stampa capì male una comunicazione originaria), questo annuncio venne addirittura anticipato in prima pagina: «Kodak, mai più pellicole». Dove nacque l’equivoco? Come accennato, dalla comunicazione ufficiale con la quale Kodak an-
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LA “CADUTA” SU YOUTUBE e frequentato da coloro che hanno tempo, modo e voglia di farlo, Cperte.ilonosciuto sito YouTube (ovviamente, www.youtube.com) è fonte di straordinarie scoMolte, soltanto giocose; altrettante, proficue. A ciascuno, le proprie intenzioni e volontà, senza pregiudizio di forma o contenuto. Massima libertà espressiva, sia in trasmissione, sia in visione. Tra le tante prese di posizione sull’abbandono del kodachrome, al pari delle altrettante in difesa delle pellicole Polaroid a sviluppo immediato, ne riferiamo una particolarmente curiosa, segnalataci da Andrea Pacella, convincente personaggio della fotografia italiana, con un trascorso anche nel commercio Leica (e contorni culturali, soprattutto), che si è perfino impegnato nella traduzione del dialogo sottotitolato dall’edizione tedesca originaria. All’indirizzo www.youtube.com/watch?v=EDWeAHd6D6w è pubblicata una cortese e delicata trasformazione in tema, da un film di produzione associata Germania, Italia e Austria. È stato abilmente riconvertito il dialogo originario di una delle scene madri di Der Untergang, di Oliver Hirschbiegel, del 2004, veicolato in Italia come La Caduta - Gli ultimi giorni di Hitler (dal 29 aprile 2005, nel sessantesimo anniversario dei fatti narrati), ovviamente riguardante la disfatta dell’esercito tedesco e la situazione di Berlino, accerchiata dalle truppe dell’Armata Rossa, di Stalin. Siamo nel Führerbunker, sotto il giardino della Reichskanzlei (la Cancelleria del Reich), nella famigerata Vossstrasse 6. Ricca di flashNel bunker, il Führer è circondato dai suoi generali. Un alto ufficiale fa rapporto, indicando su una carta geografica: «C’è un solo laboratorio ancora aperto. Hanno chiuso i laboratori a Zossen e in Svizzera. L’unico laboratorio rimasto è Dwayne’s, in America [Dwayne’s Photo, 415 S 32nd street, Parsons, Kansas, KS 67357, Usa; 001-6204213940; www.dwaynesphoto.com]. E questo significa dover aspettare fino a due settimane...». Hitler [l’attore Bruno Ganz] gesticola con tono inquisitorio; è sovraeccitato: «Quindi, sono obbligato a mandarle laggiù ed aspettare più a lungo». Ancora l’ufficiale, in tono incerto e impaurito: «Mio Führer... Kodak...». Si fa avanti un secondo ufficiale, che interviene con atteggiamento meno incerto: «Kodak ha dichiarato che rappresentava solo l’un percento del proprio fatturato. «Hanno cessato la produzione del Kodachrome». Silenzio. Hitler è visibilmente scosso, le mani tremanti. A bassa voce: «Tutti quelli cha hanno usato Velvia o Ektachrome lascino la stanza». Escono tutti, tranne tre generali. Hitler urla: «Li avevo ordinati! Avevo ordinato venti rulli! Chi si credono di essere, per ignorare un ordine di Kodachrome, Ken Rockwell?» [ Blogger americano, personaggio di culto e leggenda, tra il serio e il faceto, più faceto che serio: www.kenrockwell.com]. Fuori dalla stanza, i collaboratori sentono le urla del Führer, assistendo costernati alla sua ennesima sfuriata. Hitler continua a gridare: «Non posso credere che sia finita così... Hanno smesso di produrla in grande e medio formato anni fa. Poi, l’otto millimetri e il K25; come faremo per i porno delle SS?! «Li stanno eliminando uno a uno, e quando ne è rimasto uno solo ci dicono che non vende abbastanza». Un terzo ufficiale lo interrompe, con decisione: «Mio Führer, quei prodotti sono inferiori alle moderne emulsioni...». Hitler controbatte con veemenza: «Quella si chiama personalità! Se è per questo, erano obsolete da anni!». L’ufficiale cerca di giustificarsi: «Mio Führer, credo che in parte sia dovuto anche al digitale...».
back, la vicenda si estende dal 20 aprile 1945 al successivo trenta del mese, quando Adolf Hitler si suicida. I russi sono alle porte di Berlino. Nel bunker sotto la cancelleria, il Fürher e i suoi generali vivono i propri ultimi giorni, alternando momenti di depressione ad altri di folle euforia e speranza di vittoria finale. Nessuno ha il coraggio di rivelare a Hitler la verità: non c’è più nulla da difendere, la capitale del Reich è un cumulo di macerie, la resa è inevitabile. Testimone di queste grottesche follie finali è la giovane Traudl Junge, segretaria di Hitler, i cui ricordi costituiscono l’ossatura della sceneggiatura (congiuntamente elaborata dal suo Bis zur letzten Stunde, pubblicato in Italia da Mondadori, nel 2004, come Fino all’ultima ora, e dalla ricostruzione La disfatta, di Joachim Fest, Garzanti, 2002). I quasi quattro minuti di Kodachrome Downfall, ovverosia La Caduta del Kodachrome, tre minuti e cinquantanove secondi da YouTube all’indirizzo già riportato, trasformano il resoconto dell’accerchiamento di Berlino nella dismissione del kodachrome: sovrapposti al dialogo originario, i sottotitoli in inglese [al centro], e nostra traduzione di Andrea Pacella. Con l’occasione, segnaliamo che lo stesso video è stato elaborato anche per altri riferimenti fotografici d’attualità: non riferiamo i singoli indirizzi Internet, ma annotiamo che digitando “Hitler Nikon”, da Google si accede a Hitler rants about D3x; “Hitler Canon” introduce Not happy about the Canon 7D; “Hitler Sony” richiama Hitler rants about the PS3, e via discorrendo. Hitler, furibondo: «Oh, sì... ci stavo arrivando...». Spezza la matita che ha in mano e la getta sul tavolo: «Sono degli incapaci! La gente è così entusiasta di poter scattare quante fotografie vogliono; continuano a scattare, ma non capiscono che non è così che si realizzano fotografie migliori». Passeggia per la stanza, nervoso: «Guardano le fotografie nel monitor sul dorso, e se vedono che nella fotografia c’è qualcosa di sbagliato non hanno idea di come correggerlo, perché non capiscono un accidenti di fotografia... e non si degnano neppure di leggere il libretto di istruzioni! Molta gente, di questi tempi, fotografa peggio di Stalin!». Silenzio. Hitler si siede. È calmo, ma sconsolato: «Le reflex digitali non sono male, ma le compatte... con i loro sensori minuscoli... ma chi volete prendere in giro?!». Ricomincia a urlare: «Alte luci bruciate, eccessivamente nitide, senza profondità di campo... sembra merda! Dovrò dire al mio laboratorio che è finita... e stampare le mie fotografie con una stampante inkjet!». Fuori dalla porta, la segretaria Traudl Junge [l’attrice Alexandra Maria Lara] si gira verso una collaboratrice, che è scoppiata in lacrime, consolandola: «Su Gerda, non lo dice sul serio...». Ancora silenzio; nella stanza nessuno sa cosa dire, come intervenire. Hitler, affranto: «Alla fine, mi toccherà accettare il fatto che la maggior parte della gente preferisce un’infinità di pessime fotografie a trentasei belle immagini...». I generali si guardano tra loro, scioccati e imbarazzati. Hitler, ormai rassegnato: «Chiamate Calumet [Calumet Photographic, 890 Supreme Drive, Bensenville, Illinois, IL 60106, Usa; www.calumetphoto.com: uno degli indirizzi statunitensi della vendita online]. Dite loro che, comunque, le loro pellicole non mi sono mai interessate... E dite loro che voglio ordinare una [Leica] M9. Spero che abbia almeno la funzione Scene!». [In questa parodia, la Leica M9, da tempo nelle ipotesi tecniche trasversali alla Rete, è menzionata/richiamata in anticipo sulla sua presentazione ufficiale, alle 09,09 del mattino, dello scorso nove settembre (09-09-09), ora di New York City]. Sipario.
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CHE MUSICA!
A
lla pellicola Kodachrome, che negli Stati Uniti è un autentico cult (che ha addirittura influenzato l’interpretazione dei colori della pittura iperrealista degli anni a cavallo tra i Sessanta e Settanta), il cantautore americano Paul Simon ha dedicato una canzone, appunto intitolata Kodachrome. Lanciato nel 1973, nell’album There Goes Rhymin’ Simon, con arrangiamento modificato, il motivo ha vissuto un proWhen I think back on all the crap I’ve learned in highschool It’s a wonder I can think at all Though my lack of education hasn’t hurt me much I can read the writings on the walls
prio momento magico nel 1981, durante il celebre concerto al Central Park di New York, quando Simon & Garfunkel cantarono davanti a mezzo milione di spettatori (dodici settembre). In quell’occasione, Kodachrome fu inserita in scaletta, accanto alle armonie che hanno segnato i secondi anni Sessanta: The Sound of Silence, Bridge Over Troubled Water, Mrs Robinson, The Boxer, Old Friends e altre ancora.
Kodachrome (di Paul Simon, 1973) Quando ripenso a tutte le inutilità imparate a scuola È meraviglioso che io possa pensare a tutto questo Comunque capisco che la poca cultura non mi ha alterato Posso e so leggere le scritte sui muri
(coro) Kodachrome, they give us those nice bright colours They give us the greens of summers Makes you think all the world’s a sunny day, oh yeah I got a Nikon camera, I love to take a photograph So mama don’t take my Kodachrome away
(coro) Kodachrome, ci danno quei colori luminosi Ci danno i verdi delle estati Ti fanno immaginare che il mondo sia un giorno di sole Ho una Nikon, amo scattare fotografie Quindi, mama, non togliermi il mio Kodachrome
If you took all the girls I knew when I was single Brought ’em all together for one night I know they’d never match my sweet imagination Everything looks worse in black and white
Se tu prendessi tutte le ragazze ho incontrato quando ero single Se tu le mettessi insieme per una notte Io so che non risveglierebbero mai la mia dolce immaginazione Tutto appare meno chiaramente in bianconero
(coro) Mama don’t take my Kodachrome away, mama don’t take my Kodachrome away Mama don’t take my Kodachrome away Mama don’t take my Kodachrome, mama don’t take my Kodachrome Mama don’t take my Kodachrome away Mama don’t take my Kodachrome and leave your boy so far from home Mama don’t take my Kodachrome away Mama don’t take my Kodachrome, whew whew, mama don’t take my Kodachrome away
(coro) Mama non togliermi il mio Kodachrome, mama non togliermi il mio Kodachrome Mama non togliermi il mio Kodachrome Mama non togliermi il mio Kodachrome, mama non togliermi il mio Kodachrome Mama non togliermi il mio Kodachrome Mama non togliermi il mio Kodachrome e fai andare il tuo ragazzo lontano da casa Mama non togliermi il mio Kodachrome Mama non togliermi il mio Kodachrome, whew whew, mama non togliermi il mio Kodachrome
nunciò che nel corso dell’anno avrebbe terminato la produzione di macchine fotografiche APS (Advanced Photo System) e la commercializzazione di macchine fotografiche 35mm negli Stati Uniti, in Canada e in alcuni paesi dell’Europa occidentale. Nonostante la stessa comunicazione ufficiale avesse precisato che Kodak avrebbe comunque mantenuto il proprio impegno nella produzione e commercializzazione di pellicole 35mm di alta qualità e di macchine fotografiche monouso, La Stampa confuse “apparecchi” con “pellicole” e “APS” con “35mm”, approdando alla propria fantasiosa conclusione: «La Kodak manda in pensione il 35mm». Infatti, il testo dell’articolo rivelò subito l’equivoco (attenzione, lo rivelò a noi addetti; all’esatto contrario, il pubblico assorbì una comunicazione falsa): «Il rullino Kodak da 35mm ha fatto il suo tempo e dopo otto anni di successi e popolarità va in pensione». Capito? È l’APS che era nato otto anni prima; e non sono stati neppure otto anni di successi, altrimenti non se ne sarebbe recitato l’epitaffio. Il 35mm è sul mercato da molto più tempo. Nella sostanza è di origine cinematografica e corre sempre l’obbligo di riferirne l’impiego fotografico a quel fotogramma 24x36mm portato al successo a partire
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CHE FARE? CHE DIRE? La domanda che ci poniamo è sempre la stessa. Come mai, in altre geografie, il giornalismo e la socialità si riferiscono alla fotografia con cognizione e perizia, addirittura con abilità e autorevolezza, mentre in Italia la materia è trattata in modo approssimativo, andando a confondere lucciole per lanterne? Come mai, quotidiani stranieri e testate internazionali di prestigio, non settoriali della fotografia, considerano l’argomento fotografico degno di interesse e approfondimento, secondo i rispettivi intendimenti e parametri specifici (culturali, finanziari, di costume o altro)? Come mai, in Italia si possono scrivere autentiche inesattezze, peraltro nocive a un mercato (si provino, con la moda o l’automobile), con grande disinvoltura? Come mai, si parte da malintesi, per costruire ipotesi fantascientifiche, quanto devastanti? Chi dovrebbe intervenire, per tutelare la fotografia, quantomeno nella concretezza dei propri addetti e nella serietà della propria personalità commerciale? Magari anche la severa unione dei consumatori, sicuramente le associazioni di categoria: entrambe colpevolmente assenti, tanto da paventare la connivenza.
Comunque, tutti coloro che si occupano di fotografia, noi tra questi, si debbono porre la solita domanda, qui e ora alla sua ennesima replica: come mai, in Italia, sulla fotografia si possono scrivere e si scrivono corbellerie? Come mai, in Italia, la fotografia è sempre materia trascurata, forse disprezzata, sicuramente negletta? Come mai in altre geografie viene rispettata e trattata con discrezione e competenza? Non basta la nostra rilevazione sulla scarsa partecipazione sociale, che compete e spetta a qualsiasi argomento, peraltro approfondita nel febbraio 2004, nei termini di Quale Fotografia?, e trasversale a molti altri nostri interventi redazionali. Sicuramente, il disagio è più profondo e coinvolge mille altri valori.
ARCHIVIO FOTOGRAPHIA (2)
dalla Leica originaria (ufficialmente nata nel 1925). L’equivoco della Stampa fu talmente radicato da sollecitare addirittura un clamoroso, quanto grottesco, sottotitolo: «Ancora qualche mese e per poter trovare il “film” da inserire manualmente si dovrà andare nei mercatini per amatori». Ma dove? Ma perché? Ma si ha idea di cosa significhi produrre una pellicola? Nei mercatini?
ADDIO KODACHROME Quando furono chiare e palesi sia le problematiche di trattamento della diapositiva kodachrome, sia l’incapacità di interpretazione dei nuovi processi di trasformazione litografica, nel dicembre 2005 celebrammo e commemorammo la fine di questa straordinaria emulsione, ufficialmente ancora disponibile, ma nel concreto improbabile. Con copertina dedicata [a pagina 46], quelle nostre osservazioni furono declinate nel doppio senso di devoto omaggio e sentita rievocazione. In allineamento con la fine ufficiale, sancita dalla comunicazione Kodak appena riferita e richiamata, riprendiamo la testimonianza di allora, per ribadire, confermandola, la nostra commossa testimonianza. Cosa sia stato il kodachrome è presto detto: la diapositiva per eccellenza per una nutrita schiera di professionisti di primo piano, a partire da quelli di natura e paesaggio. Tanto è vero che, leggenda neanche troppo metropolitana (?), pare che per molto tempo, fino a pochi anni fa, l’autorevole National Geographic Magazine, autentico riferimento d’obbligo, non abbia accettato altra diapositiva dai propri fotografi. A parte la versione per cinematografia a passo ridotto, che per lunghi decenni ha alimentato i processi Kodak di trattamento di tutto il mondo, l’autentico kodachrome 35mm è stato quello da 25 Asa (non ancora Iso) di sensibilità. La versione da 64 Asa è stata sempre considerata con riserva, per non parlare dei 200 Iso di più recente configurazione e della confezione a rullo 120, arrivata nella seconda metà degli anni Ottanta. I termini usati per descrivere l’interpretazione cromatica del kodachrome hanno sempre sottolineato la personalità del suo “corpo”: quindi, “profondità”, “smalto” e trascrizione “reale” e “naturale” sono stati connotati che hanno attraversato i decenni, accompagnandosi con una definizione straordinaria e una grana finissima. Di fatto, la diapositiva kodachrome è stata assolutamente unica. Una diapositiva a colori derivata da un’emulsione che nasce bianconero ed è colorata in fase di trattamento (semplifichiamola così): tre strati di emulsioni bianconero sovrapposti, rispettivamente sensibili alla luce rossa, verde e blu-violetto. In assoluto, dove si sono formati, i coloranti kodachrome sono diversi da quelli amorfi di ogni diapositiva. Sono coloranti duri, cri-
Corriere della Sera, del ventitré giugno: si scrive che il kodachrome avrebbe definito la fotografia di William Eggleston (ok), Henri Cartier-Bresson, Robert Frank e Alfred Eisenstaedt (ma quando?). La Stampa, del 29 gennaio 2004: lucciole per lanterne; non apparecchi (APS), ma pellicole (35mm). Devastante fraintendimento, che rivela come e quanto la fotografia sia sempre maltrattata dal giornalismo italiano. (pagina accanto) Bryce Canyon National Park, Utah; anni Novanta.
Molar Rock e Angel Arch, Canyonlands National Park, Utah; anni Novanta.
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Cathedral Valley, Capitol Reef National Park, Utah; anni Novanta.
Strada di attraversamento del Kodachrome Basin State Park, Utah; anni Novanta.
stallini, chimicamente forti, che si depositano in modo particolare e autonomo attorno i granuli d’argento, contribuendo a mantenere la grana estremamente fine, pressoché inesistente. Tra l’altro, annotazione niente affatto secondaria, proprio questi coloranti sono alla base di una fantastica stabilità cromatica nel tempo: la diapositiva kodachrome ha attraversato i decenni senza deperimenti di colore. Tutto questo è dovuto a un progetto particolare, che ha comportato un trattamento di sviluppo analogamente particolare (che fino all’inizio degli anni Ottanta, o giù di lì, era realizzato esclusivamente da Kodak; tanto è vero che fino allora le pellicole kodachrome, fotografiche e cinematografiche a passo ridotto, venivano vendute con la formula di “trattamento incluso”, ovviamente prepagato). La pellicola vergine non contiene copulanti-colore; è una pellicola a base di alogenuro d’argento fotosensibile, come appena sintetizzato, per tanti versi analoga/identica al comune bianconero. Il colore viene depositato -strato per strato- attraverso successive fasi di sviluppo. In origine, nella seconda metà degli anni Trenta, l’intero processo durava tre ore e mezzo; in tempi più recenti si è ridotto a trentasei minuti, pur dipendendo da una lunga catena e mantenendo un elevato tasso di inquinamento potenziale (argomento e considerazione inesistente quando il kodachrome è stato studiato e realizzato). Per quanto consideriamo i colori kodachrome reali e naturali, non possiamo sorvolare sull’evidente saturazione di tono e alta cromaticità delle rispettive restituzioni. Esplicitamente, si è trattato di un sapore d’epoca, che negli Stati Uniti è definita “The Kodachrome Era”, che trasmette il senso di un momento passato e di riti che datiamo indietro nei decenni. Non rinunciamo alla Memoria. Antonio Bordoni Ricerca iconografica di Ciro Rebuzzini
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Presentato in forma di libro, perché l’editoria periodica è ormai spesso lontana dal racconto fotogiornalistico, Ticino, le voci del fiume rivitalizza il senso e valore del reportage ben cadenzato e opportunamente realizzato: in pertinente comunione di intenti tra la parola e l’immagine. Gli autori Giuseppe Cederna e Carlo Cerchioli hanno realizzato qualcosa di fantastico. A noi compete soprattutto, o soltanto?, l’aspetto fotografico L’acqua a Le Foppe, in Val Bedretto (Canton Ticino, Svizzera, 2007).
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erto, non siamo così distratti, né, tantomeno, inconsapevoli, da non saper riconoscere a colpo d’occhio un libro illustrato dei nostri giorni. Allo stesso tempo, sappiamo datare le immagini, riferendole ai propri momenti. Così non abbiamo alcun dubbio: Ticino, le voci del fiume, di Giuseppe Cederna (i testi) e Carlo Cerchioli (le fotografie), pubblicato dalle raffinate edizioni Excelsior 1881, nella collana Letteratura da viaggio, è un libro attuale, Infatti, è certificato “2009”. Però, e nonostante tali certezze oggettive, ci culliamo verso altre ipotesi, lungo considerazioni diverse, che riguardano la parte illustrata del volume, che però non separiamo, né dividiamo, dai testi di accompagnamento: oppure è gerarchicamente vero l’esatto contrario? Le immagini fotografiche accompagnano i testi? Non dovremmo essere lontani dal vero, quando rileviamo che, come spesso accade, la verità sta
esattamente nel mezzo: il racconto di Ticino, le voci del fiume è pariteticamente scomposto tra parole e immagini. Tanto che, ecco rivelata la nostra ipotesi alternativa, attorno la quale abbiamo girovagato in introduzione. Per quanto accertata la contemporaneità del progetto e della sua realizzazione, questa combinazione parole-e-fotografie ha un che di antico, classico addirittura, che riporta alle radici dell’autentico reportage, appunto composto di testi e immagini in perfetta sintonia e simbiosi.
REPORTAGE
Insomma, la forma libro, resa necessaria sia dalla corposità del racconto a doppio binario allineato, sia dalla latitanza di altri interlocutori, rispetta comunque i canoni di quel racconto di viaggio che ha composto straordinari e avvincenti capitoli del giornalismo e della letteratura del Novecento. Gli autori Giuseppe Cederna e Carlo Cerchioli hanno agito in efficace comunità di intenti, spesso si sono mossi addirittura insieme, in coppia, ciascuno con i propri strumenti espressivi, per realizzare un raccon-
to a due voci che alla resa dei conti si fondono assieme: parole e fotografie si integrano assieme e ciascuno svolge il proprio compito istituzionale, senza interferire con l’altro, ma porgendogli quei supporti e sostegni che, insieme (!), compongono i tratti dell’autentico racconto. Per mille motivi, tutti intuibili, la nostra personale attenzione privilegia l’apparato fotografico di Carlo Cerchioli, per il quale e verso il quale siamo autorizzati ad esprimerci. Prima di farlo, è comunque ob-
Tralicci dell’energia elettrica in Val Bedretto; in primo piano, l’acqua del Ticino a monte delle Foppe (Canton Ticino, Svizzera, 2007).
AUTENTICO
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(centro pagina) Mucche al pascolo, dietro al Dazio Grande, in Val Leventina (Rodi-Fiesso, Canton Ticino, Svizzera, 2008).
Il fiume alla gola del monte Piottino, in Val Leventina (Rodi-Fiesso, Canton Ticino, Svizzera, 2008).
bligatorio, non soltanto necessario, sottolineare che i testi di Giuseppe Cederna, figlio d’arte, attore, scrittore e viaggiatore, sono di assoluto spessore. E indispensabili alla composizione di questo reportage, da scorrere in fretta, da leggere con calma, da riprendere con la dovuta concentrazione individuale. Ma non possiamo sottrarci ai doveri, e la fotografia, soprattutto la fotografia, è la materia della quale sono fatte queste pagine: per conseguenza a questa rispondiamo in prima battuta, che spesso è poi anche l’unica. Ticino, le voci del fiume; di Carlo Cerchioli (fotografie) e Giuseppe Cederna (testi); Excelsior 1881 - Letteratura da viaggio, 2009 (via Lanzone 2, 20123 Milano); 272 pagine 17x21cm; 24,50 euro.
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STORIE PERSONALI (?) Reporter dagli anni Settanta, quando una generazione si è affacciata alla vita con l’esplicito desiderio di svolgere un ruolo attivo nelle vicende dell’esistenza collettiva, alla quale contribuire con i valori della propria individualità messa a disposizione e servizio, Carlo Cerchioli ha attraversato le stagioni senza mancare l’intenzione originaria. Non ha
accettato quei compromessi di mestiere, che molti altri hanno abbracciato, e ha affermato la consistente personalità di una fotografia ragionata, consapevole, volonterosa e inderogabile. Nel corso del tempo, si è specializzato in fotogiornalismo riferito al mondo dell’economia, all’interno del quale ha agito e fotografato per conto dei più attenti periodici italiani e internazionali. Tra l’altro, e non certo a margine, ha accompagnato la professione di fotogiornalista con la riflessione sulle tematiche generali e significative delle proiezioni sociali e politiche della fotografia e del giornalismo. A questo proposito, e in anticipo sulle considerazioni specifiche sul suo attuale progetto Ticino, le voci del fiume, lo ricordiamo tra gli autori degli illuminanti testi riportati sul catalogo dell’avvincente retrovisione Il fotogiornalismo in Italia 19452005. Linee di tendenza e percorsi, a cura di Uliano Lucas, esposta in numerose città italiane e straniere [personalmente, abbiamo avuto modo di richiamare, sottolineandoli in cronaca, i passaggi a Milano, Montpellier e Cagliari, rispettivamente in FOTOgraphia dell’ottobre 2006, giugno 2007 e novembre 2008]. Nello specifico, oltre altre collaborazioni all’intero percorso, per il catalogo, Carlo Cerchioli ha compilato l’attenta analisi Dall’analogico al
La cascata artificiale all’altezza della diga del Panperduto, ripresa dalla riva destra. Raccogliendo solo una parte delle acque del fiume, la diga crea una nuova via d’acqua (Varallo Pombia, 2008).
Web, che ha affrontato il delicato tema (discriminante?) della più recente trasformazione, non soltanto logistica, del fare fotogiornalismo. In un certo senso, e non certo per paradosso, il fotogiornalista Carlo Cerchioli ha vissuto sulla propria pelle l’affanno di certe trasformazioni, sia dipendenti dalle interferenze tecnologiche, sia altrimenti conseguenti. Per propria confessione, l’attuale Ticino, le voci del fiume nasce all’indomani di un punto di rottura professionale. Il momento non importa, e neppure il fatto, magari banale e marginale come tanti altri che l’hanno preceduto, ma arrivato al momento sbagliato (o giusto?), tanto da sollecitare nel cuore dell’attento fotogiornalista una ulteriore riflessione sui ruoli e le intenzioni. Allontanatosi volontariamente dalla cronaca concitata, Carlo Cerchioli ha ipotizzato un progetto da svolgere con tempi e modi di altra meditazione, altra fotografia. Nell’arco di un anno abbondante ha affrontato e composto il proprio incontro con il Ticino, fiume ricco di storia, anzi Storia, per il quale ha altresì organizzato quella combinazione con testi in parallelo alla quale abbiamo già accennato. La ripetizione è qui necessaria, e si impone: così agendo, Carlo Cerchioli ha rivitalizzato lo spirito
più autentico del reportage, del racconto, in questo caso di viaggio e vita (anche qui, Vita), che è ormai assente dai giornali dei nostri giorni, così diversi e lontani da quelli delle origini, sia in Italia, sia in tutto il mondo. La fretta, l’insolenza, l’arroganza e tante altre circostanze pretestuose stanno elevando la cronaca (sempre più spesso, rosa) a rango di reportage. Non è colpa dei fotografi, lo sappiamo bene, casomai degli editori e dei direttori complici (e dei photo editor che forniscono loro qualche alibi); ma è così: il sano e consistente reportage, che significa comprensione, apprendimento, partecipazione e tanto altro ancora, è stato relegato nelle soffitte delle redazioni, là dove sono state ammucchiate anche le macchine per scrivere, le risme di carta e le penne stilografiche.
IL TICINO Qualcuno lo sa. Chi vive al Nord lo sa. Agli altri, bisogna dirlo. Il Ticino è un fiume particolare,
Anatre -germani realiin volo lungo una lanca del fiume (Motta Visconti, 2008).
(centro pagina) Bagnanti alla spiaggetta Manera e Ferrario, nell’ansa del fiume, sotto il monte Belvedere (Somma Lombardo, 2008).
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Cartelli indicatori dei sentieri del Parco Lombardo della valle del Ticino, nella brughiera; sullo sfondo, un aereo in fase di atterraggio al vicino aeroporto di Malpensa (Lonate Pozzolo, 2008). (in alto) Primo carica sulla sua barca i ceppi tagliati sul greto da un tronco di quercia sradicato dalla corrente (Vigevano, 2008). (a destra, dall’alto) Pescatore in barca (Motta Visconti, 2008). Volo di colombacci, a La Zelata (Zelata, 2007). Aironi cinerini alla garzaia, nella tenuta La Zelata (Zelata, 2008).
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magari non è imponente come altri, sicuramente non ha scritto alcuno dei capitoli della storia nazionale, come invece hanno fatto altri fiumi. Sul Ticino, Carlo Cerchioli ha cercato le tracce della vita attorno al fiume, che ha segnato generazioni e disegnato scenari epici. Tra le tante che si potrebbero richiamare, e oltre quelle evocate sia dalle fotografie sia dalle parole di Ticino, le voci del fiume, l’intensità della vita lungo i suoi argini è una delle particolarità di questo corso d’acqua, che nasce in Svizzera (dove dà nome anche a uno dei Cantoni della Confederazione, quello a lingua italiana) e entra nel nostro paese a Sesto Calende. Qui, inizia il suo percorso italiano in una valle stretta e profonda, che poi si allarga progressivamente scendendo verso sud. Dopo oltre cento chilometri, attraverso le province di Varese, Novara, Milano e Pavia, è affluente del Po, presso il ponte della Becca. Come accennato, la sua vita è particolare, e diversa da quella di altri fiumi: soprattutto ha sostanziosi debiti di riconoscenza con i boschi che attraversa, e ha sollecitato attività di caccia, oltre che di pesca. Cosa raccontano le fotografie di Carlo Cerchioli? Da buon fotogiornalista, qui prestato a un ritmo narrativo meno pressante, più riflessivo, l’autore ha rivelato con magistrale sintesi visiva emozionanti incontri esistenziali: con le persone e i
luoghi. Straordinario reportage, questo progetto è stato alimentato in un viaggio fatto di ritrovi e accoglienze, di parole dette e silenzi, di gesti e aromi, di sguardi e complicità. Di tanto e niente In definitiva, senza allungarci su nessuno degli straordinari personaggi che si incontrano, e dei quali sono raccontate le esistenze (e di questo chiediamo scusa), sfogliando le pagine di Ticino, le voci del fiume ci siamo riconciliati con una fotografia che credevamo finita, confusa tra le urgenze del vivere quotidiano. Abbiamo ritrovato ritmi di reportage antichi, che in chiave visiva moderna ridanno senso e speranza al fotogiornalismo dei nostri giorni. Oltre agli interpreti capaci, come si rivela Carlo Cerchioli, abbiamo ora bisogno di chi sappia fare tesoro di questa ritrovata vena, e la riporti sulle pagine periodiche che spettano di diritto al fotoreportage. Va bene il libro, ma questa fotografia deve esprimersi soprattutto sui giornali. Quali? Angelo Galantini
NOTE A MARGINE
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in Rocca, di Fan Felice sul Panaro, in provincia di Modena; Festival CoriglianoCalabroFotografia, in provincia di Cosenza; Premio Epson Le Logge, di Massa Marittima, in provincia di Grosseto; RoveretoImmagini, in provincia di Trento; Portfolio dell’Ariosto, a Castelnuovo Garfagnana, in provincia di Lucca; SI Fest, di Savignano sul Rubicone (per l’appunto), in provincia di Forlì-Cesena; Fotoconfronti, di Bibbiena, in provincia di Arezzo; FotoLeggendo, a Roma. Così che, coinvolto personalmente nella lettura portfolio del SI Fest 09 / 18 SI, come gli scorsi anni ho avuto modo di frequentare qualcun altro degli appuntamenti appena elencati, penso siano opportune considerazioni dall’interno, dal tavolo di lettura. Per questo motivo, e per mille altre ragioni, non entro nel merito della manifestazione fotografica in quanto tale, che quest’anno è stata confezionata attorno il contenitore di Identità e percezioni 3. Inquietudini e (pre)sentimenti. Non mi allungo e dilungo su mostre, incontri, convegni, tavole rotonde e progetti, tutti di valore e spessore;
neppure sottolineo, oltre la sola segnalazione/certificazione, la meta dei diciotto anni, che qualcuno ha declinato come simbolica della raggiunta maggiore età. No, niente di tutto questo, ma la sola e asciutta testimonianza diretta, con riflessioni a conseguenza e consecuzione. Nella propria essenza e consistenza, le certificate “note a margine”, che potrebbero essere anche identificate “diario di bordo”, inducono riflettere su ciò che ho incontrato in due giorni di lettura di portfolio, ufficialmente uguali a tanti altri che li hanno preceduti, in tempi e luoghi diversi, ma, allo stesso momento, oggettivamente diversi. Magari non diversi per se stessi, ma per lo stato d’animo personale con il quale ho affrontato l’appuntamento: magia e alchimia di tanti fattori convergenti, divergenti e coinvolgenti. Chissà? La domanda che si deve porre un lettore di portfolio che non voglia soltanto far passare il tempo, oppure imporre un proprio credo assoluto, la domanda alla quale deve rispondere è presto richiamata: come stare con gli altri. Ovvero-
MAURIZIO REBUZZINI
M
Mercatini dell’antiquariato e collezionismo a parte, nel cui ambito si registrano appuntamenti e svolgimenti che sono partiti indietro nel tempo, e oggi si possono vantare di una sostanziosa storicità, il mondo fotografico italiano ha soprattutto registrato una infinita serie di prime edizioni di manifestazioni espositive, che poi si sono esaurite in se stesse, rimanendo ferme al palo: spesso, troppo spesso, purtroppo, la prima edizione è stata anche l’unica. Tra le eccezioni, che certamente non mancano, ma qui non intendiamo compilare alcun censimento, ha un posto di privilegio il programma fotografico organizzato e svolto a Savignano sul Rubicone, in Romagna, nella provincia di ForlìCesena. Nato Portfolio in Piazza, e da qualche stagione riconvertitosi in Savignano Immagini Festival (semplificato in SI Fest), è giunto alla diciottesima edizione, che si è svolta all’inizio dello scorso settembre. Come appena rilevato, abbreviata in SI Fest 09, oppure 18 SI, secondo i casi [a centro pagina, la personalizzazione in piazza Borghesi, cuore pulsante dell’evento], la manifestazione ha avuto il proprio epicentro nel lungo finesettimana undici, dodici e tredici settembre: di inaugurazione mostre, che si protraggono avanti nel tempo, di svolgimento di incontri e convegni e, eccoci, di rituale lettura portfolio, con relativa proiezione verso il contenitore di Portfolio Italia, attraverso e con il quale l’autorevole Fiaf (Federazione Italiana Associazioni Fotografiche) lega e collega insieme l’intera nazione, andando a tracciare una linea ideale che attraversa nove manifestazioni locali e altrettante realtà (forse): Spazio Portfolio, di Recanati, in provincia di Macerata; Portfolio
sia, noi, noi, ancora noi (stessi) e gli altri. A mio modo di vedere e pensare, che non elevo di tono, grado o valore oltre la discriminante di essere mio, contano soprattutto gli altri. I protagonisti di queste manifestazioni fotografiche non sono mai gli addetti (a volte, io tra questi), ma i partecipanti, ai quali si deve riservare la massima e assoluta attenzione. Certo, il lettore di portfolio porta con sé e mette in campo le proprie esperienze e visioni, che però debbono essere proiettate verso l’avvolgimento e coinvolgimento di chi presenta e offre i propri elaborati fotografici. Si deve applicare, raggiungendolo, un delicato equilibrio: da una parte, si deve intuire cosa sta sotto la superficie apparente delle fotografie; dall’altra, si deve condurre l’autore verso riflessioni e considerazioni che non siano solo e soltanto autocelebrative, ma di sostanziosa crescita espressiva -ed è un fattoe, soprattutto, personale. Va riconosciuto, e subito detto: la maggior parte degli autori che si presentano alla lettura di portfolio sa parlare quasi unicamente del proprio progetto, della propria fotografia. E allora il lettore deve assolutamente valutare e capire se la persona che ha di fronte è tanto intelligente da riuscire a parlare anche di altro, da riuscire a declinare la propria fotografia come mezzo privilegiato di osservazione del mondo e della vita. Per me, guardare immagini altrui non è solo guardare immagini altrui; è capire l’argomento, l’impegno, le intenzioni. Se non capisco, chiedo; se lo svolgimento è inadeguato rispetto le intenzioni, intervengo. Indipendentemente dai risultati delle burocrazie ufficiali (con selezione e proclamazione di vincitori [pagina accanto]), secondo me, ciò che più conta
SI FEST 09 / 18 SI le riflessioni “a margine”, di altro sapore e diverOzionesoltredelintendimento, lo svolgimento della diciottesima ediSavignano Immagini Festival segnala soprattutto proprie ufficialità, che riassumiamo. Tra i centotrenta portfolio presentati alla lettura di sabato dodici e domenica tredici settembre, che fa parte delle nove selezioni aderenti a Portfolio Italia 2009 - Gran Premio Epson - Premio Kiwanis, a cura della Fiaf (Federazione Italiana Associazioni Fotografiche), sono stati assegnati i riconoscimenti previsti dal programma della manifestazione. ❯ Primo premio a In carne ed ossa, di Patrizia Zelano, di Verucchio, in provincia di Rimini. Portfolio composto da tredici immagini a colori, realizzate nel 2008: «Per aver saputo esprimere grande qualità espressiva e notevole sensibilità pittorica nella trattazione di un soggetto sgradevole e ributtante, come possono essere gli scarti della macellazione, scrutati dall’autrice in maniera delicata e con alto impatto emotivo». ❯ Secondo premio a I’m the snow, di Chris Rain, di Roma. Portfolio composto da sedici immagini in bianconero, realizzate nel 2009: «Per la capacità con cui l’autore ha rivisitato e rielaborato un proprio universo intimo, coniugando tecniche tradizionali e di sperimentazione in un lavoro impostato sui sogni e su visioni di stampo onirico». Questo secondo premio è anche Premio Fotosintesi, promosso dal Festival Internazionale della Fotografia, di Piacenza: mostra esposta alla prossima edizione 2010. nella lettura di portfolio è dare e ricevere in un percorso di assoluta andata-e-ritorno: dare per quanto si riceve; ricevere sapendo dare. Spesso è così, è il gioco della vita: non ti aspetti nien-
I due autori primo e secondo premio partecipano alla selezione conclusiva di Portfolio Italia 2009. Perfettamente coordinato e organizzato dal presidente del Circolo fotografico Cultura e Immagine, di Savignano sul Rubicone, Mario Beltrambini, dalla direttrice dell’Istituzione Cultura Savignano, Paola Sobrero, e dal direttore di Savignano Immagini Festival, Stefano Bellavista, SI Fest 09 aggiunge la pubblicazione del portfolio vincitore (in una monografia di Pazzini Editore) e la sua esposizione alla prossima edizione SI Fest 2010 / 19 SI. Ancora: con una serie fotografica sui gitani, dal titolo Nomen Omen - il destino del nome, Daniela Balzani si è aggiudicata il Premio TPW (partecipazione a uno dei prestigiosi Toscana Photographic Workshop); quindi, commossa ricerca delle proprie origini, attraverso la vita dei nonni, Air de famille, dell’italo-francese Olivier Fermariello ha vinto il Premio HF Distribuzione Libreria in Piazza (buono di cinquecento euro, per l’acquisto di libri fotografici, e stampa in copia unica di Franco Vaccari). Estraneo alla lettura portfolio, e caratterizzato da un proprio iter indipendente, il Premio Marco Pesaresi, promosso dalla città di Savignano, dall’Agenzia Contrasto, dalla società Il Fanciullino, di Isa Perazzini, e dal Comitato Turistico di Torre Pedrera, in memoria del fotografo romagnolo prematuramente scomparso, è andato alla fotografa napoletana Paola De Grenet, per il suo reportage Albino beauty.
te, e poi la gente ti dà tanto. Dopo di che, si può anche annotare che la lettura di portfolio è definita anche da stagioni che vanno e vengono. Una mezza dozzina di anni fa, è sta-
ta l’epoca delle giovani che usavano l’autoraffigurazione, spesso oltre i limiti dell’intimità, per indagare proprie condizioni esistenziali (spesso anche oltre le possibilità della fotografia, di-
ciamolo con chiarezza); l’anno scorso, abbiamo avuto tanti progetti su case di riposo di anziani; ora, pare affacciarsi l’analisi dei propri luoghi, rappresentativi di esistenze e condizioni individuali. Tra tutto, da tempo è trasversale l’osservazione delle etnie che attraversano il nostro paese, con i risvolti sociali e politici che ne conseguono. Ma queste sono annotazioni complementari, alle quali se ne possono aggiungere altre due, almeno: anzitutto, la constatazione che nel corso degli anni la qualità dei portfolio presentati in lettura si è elevata; e in corrispondenza, la rilevazione che sono quantitativamente cresciuti, quasi esponenzialmente, i progetti introspettivi e concettuali, a scapito di altre applicazioni della fotografia. Comunque, per quanto mi riguarda, quello che più conta è che la Fotografia, maiuscola consapevole e volontaria, si offre sempre più come tramite per incontri piacevoli e significativi. Alla lettura di portfolio che ho effettuato al SI Fest 09 / 18 SI, ho ricevuto al mio tavolo belle persone. Il più delle volte, dando e ricevendo reciprocamente, dal tavolo si sono alzate persone belle. E la differenza non è marginale. M.R.
Ho un appuntamento con Muky. Un’auto si ferma, e il conducente, anzi la conducente, mi chiede se conosco “l’artista Muky”. Gli rispondo che a Faenza tutti la conoscono. Con un sorriso radioso, mi dice di essere di Palermo e di aver visitato i Presepi contro la guerra, realizzati da Muky ed esposti permanentemente presso il Museo della Fondazione Opera Campana dei Caduti, di Rovereto, in provincia di Trento. È una giornalista, e vorrebbe farle un’intervista; sorrido, perché anch’io sto andando da lei per la stessa ragione. Ci incamminiamo insieme. Discorrendo, le preciso che frequento Muky da sempre, ed è socia onoraria dell’associazione artistica che presiedo (“soltanto” socia onoraria, perché non si può fare di più, coniare una figura meglio rappresentativa e più calzante per la sua vicinanza e complicità di intenti); gli eventi organizzati dal Gruppo Polaser li abbiamo sempre realizzati nella sua Loggetta del Trentanove, al civico 8 di piazza Due giugno. Ancora: tra i suoi visitatori e conferenzieri, il “cenacolo” di Muky ha avuto importanti nomi della cultura italiana e internazionale. Ne cito alcuni, basandomi sulla memoria, magari debole, per cui chiedo immediatamente scusa per le dimenticanze, che so essere consistenti: Enzo Biagi, Dario Fo, Tonino Guerra, Roberto Gervaso, Alberto Bevilacqua, Luca Goldoni, Vittorio Sgarbi, Mario Pincherle, Alessandro Bergonzoni, César; e poi ricordo i ricercatori Cesare Maltoni e Sante Tura, gli attori Paolo Poli e Ottavia Piccolo, i fotografi Mario De Biasi, Nino Migliori, Franco Fontana, Mau-
Vaso Muky; ceramica e distacco d’emulsione polaroid di Beppe Bolchi.
rizio Galimberti, il giornalista Ruggero Orlando, il pittore e cartellonista Sepo (Severo Pozzati), il pianista, compositore e direttore d’orchestra Walter Proni, il musicista Raul Casadei (uno dei simboli della Romagna che tanto amo). A giro tondo, torniamo alla fotografia e rimaniamo persino tra le righe della rivista sulla quale stiamo raccontando del Gruppo Polaser, ricordando che la scorsa primavera Maurizio Rebuzzini ha presentato anche qui il suo Alla Photokina e ritorno, in una serata che poco, o nulla, si è occupata del libro in quanto tale, ma è stata svolta altrimenti, adempiendo la promessa-invito di Questa sera, finalmente parliamo di fotografia! Abbiamo fatto le ore piccole, della notte, raccogliendone poi anche apprezzamenti gratificanti per l’oratore e tutti i partecipanti: «Che incanto la vita. L’energia della sua mente ci ha inondati di conoscenza per valorizzare la luce e l’ombra fissando i minuti che non ritornano più. Grazie. Le dono lo scintillio delle stelle» (Muky); «Più che una lezione di fotografia è stata, come prevedibile conoscendola, una lezione di vita» (Andrea Drei); «Tutti sono rimasti felicemente sorpresi per aver partecipato a una serata di fotografia senza aver visto un’immagine, ma l’interesse del tema trattato li ha coinvolti a tal punto che avrebbero voluto restare ancora ad ascoltarti» (Pino Valgimigli). Con la nuova amica, che il destino mi ha fatto incontrare (magia del Caso; ma il Caso lo indirizziamo con il nostro modo di vivere e intendere la vita), Muky ci accoglie con cordialità e simpatia. Dopo il rituale benvenuto, descrive alla mia “compagna di visita” la sua casa e il suo ampio studio artistico, nonché gli spazi adornati di piatti con dediche e firme-testimonianza degli illustri ospiti. I piatti sono circa quattrocento, e sono già stati donati al Museo internazionale delle Ceramiche, di Faenza. Muky ha studiato a Roma, presso l’Accademia Tedesca di Villa Massimo, sotto la guida di Marino Mazzacurati, Leoncillo e Renato Guttuso, abbracciando pittura, scultura e ceramica. A metà degli anni Cinquanta, si trasferisce a Faenza, dove divide lo studio con Domenico Matteucci (soprannominato il piccolo Michelangelo), divenendo anche sua compagna di vita, fino alla scomparsa del grande scultore-ceramista, avvenuta nel 1991. Le opere di Muky sono esposte in numerosi musei primari, in Italia e all’estero. Ha pubblicato diversi libri, vincendo premi letterari, e ha sceneggiato una tragedia teatrale, rappresentata a Roma.
CARLA PONTI / GRUPPO POLASER
In una città che raramente concede spazi espositivi alla fotografia, tu hai aperto le porte a tutte le arti, indistintamente; in modo particolare a quella fotografica... «Indipendentemente dai suoi soggetti e svolgimenti, la fotografia nel proprio complesso è anche un documento, e in questo periodo storico nel quale tutto si disintegra, la “scrittura con la luce” segnerà ai posteri il loro passato, cioè il nostro presente». Se oggi potessi scattare una fotografia da mostrare al mondo intero, quale sarebbe il soggetto? «Un albero in fiore accanto a un eroe colpito». Pino Valgimigli
Muky con Maurizio Rebuzzini (3 aprile 2009).
Muky, un nome d’arte. Che significato ha? «È un’invenzione; un nome astratto, come un suono dodecafonico». Domenico Matteucci è stato il tuo compagno nella vita per quasi quarant’anni. Che ricordo ne hai? «Indescrivibile la ricchezza del suo modo libero di vivere; artista a tutto tondo, filosofo sublime, esteticamente bellissimo (più nudo, che vestito). Con i suoi sguardi, accarezzava le anime tormentate e le conduceva alla serenità». Cosa pensi dei romagnoli e cosa ami della Romagna? «Un dialetto ostico. Difficilissimo, se parlato stretto. Nel 1955, Faenza era sommersa dai problemi dell’agricoltura; oggi, quelle menti vergini e fervidissime donano alla Regione industrie, spiagge e artigiani di tutto rispetto». Incontrandoti, non possiamo non richiamare Mary Quant, la stilista inglese inventrice della minigonna. «Negli anni Cinquanta, vestivo con i jeans americani. All’Istituto d’Arte per la Ceramica Ballardini, di Faenza, mi dissero che provocavano scandalo, perché troppo aderenti, e comunque estranei al costume sociale del tempo. Immediatamente, indossai pantaloncini all’inguine, con le gambe coperte da calze nere in segno di lutto, e nei mesi estivi minigonne svolazzanti, simili ad ali di gabbiani in volo... e così lo scandalo aumentò di intensità».
www.polaser.org
«La limitazione dei mezzi determina lo stile, dà vita a nuove forme e dà impulso alla creatività» Georges Braque Questa citazione dal pittore Georges Braque aiuta a comprendere lo slancio e spirito che guida e ispira gli artisti del Gruppo Polaser, eterogenei per interessi artistico-culturali e per provenienza da molte città italiane e anche dall’estero, accomunati dalla ricerca e sperimentazione di nuove possibilità espressive nelle molteplici forme dell’arte, dalla fotografia alla pittura, scultura, design, architettura, ceramica, letteratura, teatro, a altro ancora.
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:c`Zb Lg =fkf J_fn Gif]\jj`feXc\ jYXiZX X Taormina 24 - 25 - 26 ottobre 2009 'RSR LO VXFFHVVR GHOO¶HGL]LRQH OD ¿ HUD GHJOL HYHQWL GHGLFDWD D YRL SURIHVVLRQLVWL H DSSDVVLRQDWL GHOOD IRWRJUD¿ D VL SUHSDUD SHU XQ QXRYR LPSRUWDQWLVVLPR DSSXQWDPHQWR ,QIRUPDWL SUHVVR OD VHJUHWHULD RUJDQL]]DWLYD VX FRPH SDUWHFLSDUH H ULFKLHGLFL O¶DQWHSULPD GHO SURJUDPPD
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COMMIATO DA IERI
Traduttrice -che ci ha fatto conoscere la letteratura americana contemporanea-, scrittrice, saggista, giornalista e libera pensatrice, Fernanda Pivano è mancata lo scorso diciotto agosto, a novantadue anni.
C
Cara Nanda, non ci siamo lasciati quell’inizio estate del 2005, a Milano; tra le casse di libri nella tua casa... mi sono portato dentro la tua dolce collera contro i farisei trionfanti della cultura mondana, che aveva censurato le tue traduzioni, ti aveva espulsa da certi giornali e ti aveva abbandonata alla deriva della tua libertà buttata contro antiche e nuove barbarie... la tua salute ti addolorava, e tuttavia ti scagliavi ancora contro le canaglie che facevano professione di pensare... ricordo ancora le tue lacrime e i tuoi sorrisi gettati sulla mia fascinazione muta verso te... «Bisogna interrogare il potere... lì è il covo di serpi... ogni opera possiede gioie e ferite e ciascuno parla con le cose che ha fatto... nessuna memoria è innocente... da una parte c’è la libertà, dall’altra i roghi», dicevi. Tutto vero. Abbiamo bisogno di amore e bellezza, accoglienza e fratellanza, come di pane fresco, aggiunsi, e chiesi a Enrico, che aveva cura di te come di una bambina ancora malferma sui passi, di “farci” una fotografia, abbracciati. Ridevi, felice, forse. Il dolore che avevi addosso non ti faceva perdere il sale dell’ironia: «La bellezza e l’amicizia sono legami che vivono d’incontri e li uccide la solitudine»; ancora: «Basta un sorriso per impedire a una lacrima d’infrangere il cuore»... non so se queste erano proprio le tue parole, ma è questo che intendevi, mentre sfogliavi lentamente il mio libro fotografico (che mi lascia in sorte un tuo scritto). La bellezza,
come l’amore, s’accorda soprattutto nell’accoglienza, e ogni parola pronunciata (come ogni immagine rubata al reale) è il princìpio di ogni disobbedienza. Non avevo più parole in gola, così ti raccontai (pensavo di farti piacere e un po’ di condividere la conoscenza di un filosofo ebreo che amo profondamente) una favola ebraica che mi aveva donato Edmond Jabès, poco prima di morire, a Napoli, dopo una conferenza su Il libro del dialogo (era il 1987, o l’anno dopo, non ricordo bene, eravamo poco più di una decina ad ascoltarlo, abbagliati dalla sua belligerante intelligenza), e che poi ho letto in Il libro della sovversione non sospetta (che ho trovato su una bancarella del Quartiere Latino, a Parigi, insieme al Panegirico di Guy Debord, solo nel 2001): «Ho solo cattivi discepoli», diceva un saggio. «Mentre cercano d’imitarmi, mi tradiscono, e quando vogliono apparire simili a me, si discreditano». «Sono più fortunato di te», gli rispose un altro saggio. «Ho trascorso la mia vita nell’interrogazione, ed è naturale che ora non abbia alcun discepolo». E aggiunse: «È questo il motivo che ha spinto il Consiglio degli Anziani a condannarmi per attività sovversive». Nanda sorrise ancora. Chiese un bicchiere d’acqua, mi guardava alla luce della sua scrivania affogata di carte. Parlammo anche del suo Ettore... poche parole... qualche ricordo. Da una scatoletta blu, estrasse un foglietto dove c’era disegnato un fiore e la sua dedica a Ettore. Vedevo che le mie parole le davano dolore, così mi trovai in estremo imbarazzo, quasi a disagio, tanto che chiesi di andare in bagno, e lì -come Elizabeth Smart di Sulle fiumane della Grand Central Station mi
sono seduta e ho pianto-, anch’io mi sono seduto in terra e ho pianto. Del resto, ciascuno è complice dei libri che ha scritto, delle cose che ha detto, dei sogni che ha dissipato lungo sentieri incantatori dove l’impudore e la meraviglia spezzano i nodi dell’ordinario. Le frontiere dell’Utopia sono gli argini della nostra appartenenza e l’inconoscibile è una sfida che denuncia l’impensato. Non importa tanto la verità della bellezza, quanto l’uso che la rende unica. «E la pace, la pace...», dicevi... mentre stringevi le mani al cuore... «è il sale della terra... occorre bandire la violenza e la menzogna dalla testa degli uomini... occorre giustizia e libertà per tutti... i ricchi s’ingrassano sulla fame dei poveri... è l’importanza dell’arte come luogo di verità e trasgressione a rendere bello ciò che è brutto e buono ciò che è malvagio». Tutto vero. Le democrazie dello spettacolo si fondano sull’impostura e la falsificazione; i boia appartengono tutti alla stessa famiglia; la morale dominante c’indigna per la propria mediocrità e ipocrisia. L’unica passione che anima gli uomini in rivolta è quella della fine dell’obbedienza e della servitù volontaria. «Chi crede soltanto nella storia marcia verso il terrore, e chi non crede per niente nella storia autorizza il terrore» (Albert Camus). La pace che chiedevi e sognavi, Nanda, era una forma di resistenza, una filosofia pratica dell’eternità. Si tratta di liberare gli uomini, le donne da ogni catena ideologica, religiosa, consumerista, e impedire ai centri di potere di fabbricare nuovi schiavi. Mi sono abbeverato con i tuoi ultimi libri, Nanda -I miei amici cantautori, Pagine americane, Diari (1917-1973)- e vi ho trovato dentro la pace, la giustizia e la
libertà che hai inseguito per tutta la tua lunga esistenza; in quelle pagine c’è tutto lo sdegno contro chi umilia l’intelligenza dei popoli e ingabbia la poesia degli artisti. La libertà, la giustizia, la pace non possono essere costruite sui campi di concentramento, sui terrorismi delle Borse internazionali o sui mercati del neocolonialismo; l’amore per la libertà, la pace e la giustizia si conquista ogni giorno, con la lotta di ognuno e con l’unione di tutti gli oppressi. Non ci sono guerre sante, né guerre giuste. La guerra bruttura il sapere degli uomini, e i macellai della verità sono i nuovi tenutari di un bordello senza muri, che chiamano umanità. Il monopolio della pace non può essere opera di una minoranza di potenti e di cannibali del privilegio... il benessere dei popoli non è mai stato frutto della politica dei tiranni. La felicità dei popoli è nella partecipazione alla cosa pubblica, nella fondazione di una democrazia diretta, nella quale ciascuno è re, perché nessuno è servo. Questo è quello che ho appreso nello studio del tuo lavoro poetico, Nanda; nel florilegio delle tue idee libertarie, ho riconosciuto i canti degli uomini in rivolta di ogni-dove, che si sono sollevati, spesso pagando con la propria vita l’arditezza di dire la mia parola è no!, contro l’ordine costituito e in dispregio alla stupidità e alla crudeltà. Ogni libertà è un evento. La libertà risiede nell’atto che ci fa liberi. Ciao a te, Nanda. Quando mi hanno telefonato della tua scomparsa, sono rimasto su una Ford Frontiera, senza freni, in un parcheggio, con i gabbiani che beccavano la testa di bambini griffati di città. Amica mia carissima, dolce sorella di rabbia, dove sei? In quei viali alberati con il tuo Ettore, a darsi baci al profumo di tiglio?
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Sì. Tu sei la Signora libertà, la Signora anarchia di una generazione perduta, forse. Più di ogni cosa, Nanda, sei quel mare d’amore dove volano gli angeli ribelli e giochi a mosca cieca con le giovani generazioni. Ci hai lasciato i tuoi sorrisi e i tuoi abbracci di pace a mostrare l’influenza delle costellazioni sul biancospino; i tuoi sogni illegali sono disseminati tra i gigli di campo, e solo i bambini, i poeti o i folli li raggiungono, là dove nessuno più li cerca. Si muore sereni, quando abbiamo regalato le nostre parole all’ospitalità, alla fratellanza, al rispetto tra gli uomini. L’età d’oro di ogni scomparsa è oltre l’arcobaleno, e colui che accetta il profumo della pace non è più un nemico. Poiché nulla si cancella, ogni istante vissuto della nostra vita ritorna ad esprimersi nelle tracce che
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abbiamo lasciato e a parlare di noi. L’infinita poesia della tua verità si schiude a ogni pagina di libro e passa attraverso ciò che ci libera o ci lega alla sete dell’intelligenza senza mistero. Quando la trasparenza dei sogni si fa vita, ogni opera d’arte si fa pietra; il tuo pensiero incendiario evoca gocce di amore sul sangue degli ultimi, e quando il mondo è in fiamme, il diritto d’incendiare nasce sul tavolo dei giusti. Il linguaggio spezzato del silenzio interroga l’origine del male e il tempo della presenza spaventa chi non si identifica con la ragione imposta. Si nasce e si muore in un gesto, una parola, un sogno... soltanto la felicità e il dolore si farà comprendere dai trovatori di utopie. Il meraviglioso non è né all’inizio né alla fine del gioco, è nella scoperta della prima disobbedienza osata. Dal silenzio dei secoli emerge-
ranno, un giorno, schiere di angeli ribelli, e faranno della parola condivisa la fine dell’ignoranza. Solo i poveri credono ai miracoli. Ai poeti bastano un sorriso e una torcia, per dare fuoco alla santa barbara della storia. Nanda, ci hai insegnato a vivere come a morire. Non possiamo più sfuggire all’ordinario, che fa tremare i nostri limiti. L’epifania del tuo scrivere e vivere ha liberato i deserti della disperazione e mostrato che non ci sono limiti alla speranza. Dietro ogni parola c’è l’infanzia ritrovata e il mondo nuovo del pensiero rovesciato. L’ostinazione di chi sente il presente in rovina e ciò che resta del divenire; quando la bellezza scompare, resta l’immensa violenza del suo ricordo; quando l’amore si fa coltello, arma la mano sui cieli svaligiati di banalità, e l’ingresso invisibile dell’eternità esprime il profumo
della tua contentezza. Ora sei stella, Nanda. Sei luce, sei amore; e ogni notte, una voce straniera canta le tue gesta: qui comincia la lettera annunciata di bambina, la terra promessa che cercavi, il fare-anima che inseguivi. L’amore, anche il più estremo, è senza rimorsi. Nessuna libertà precede le vere partenze, solo la pace segna il ritorno d’amore che accompagna l’avvenire. Un abbraccio amorevole con chi ami e chi ti ama. Ciao a te, Nanda… Pino Bertelli (Piombino, 31 volte agosto 2009, dal vicolo dei gatti in amore) Signora Libertà Signora Anarchia, di Pino Bertelli; introduzione di don Andrea Gallo; NdA Press, 2009; 80 pagine; 6,00 euro.