ANNO XVI - NUMERO 156 - NOVEMBRE 2009
Tre studentesse VANNO ALL’ESAME Grazia Neri CRONACA DI UN INCONTRO
1839-2009 SVOLTE SENZA RITORNO
Non è venduta in edicola. Per averla hai una sola possibilità: sottoscrivere l’abbonamento annuale. 12 numeri 65,00 euro
Abbonamento 2010 (nuovo o rinnovo) in omaggio 1839-2009
Dalla Relazione di Macedonio Melloni alla svolta di Akio Morita M A U R I Z I O
R E B U Z Z I N I
1839-2009 Dalla Relazione di Macedonio Melloni alla svolta di Akio Morita
Come dire, dal dagherrotipo all’acquisizione digitale di immagini. E consecuzioni
INTRODUZIONE
DI
GIULIANA SCIMÉ
F O T O G R A P H I A L I B R I
DUE DOLOROSI ADDII. Mercoledì sette ottobre, si è spento a New York Irving Penn, grande fotografo americano, famoso per i suoi ritratti di celebrità, le sue fotografie di moda, i suoi still life e per avvincenti reportage in forma di ritratto dai luoghi più remoti del pianeta. Nato il 16 giugno 1917, a Plainfield, New Jersey, a diciotto anni Irving Penn si iscrive a un corso di grafica tenuto da Alexey Brodovitch, leggendario capo redattore e art director di Harper’s Bazaar. Nel 1938, entra come art director nel Junior League Magazine; nel 1943, arriva a Vogue, come fotografo e assistente di Alexander Liberman, art director della rivista. Nel 1948, è già celebre per i suoi servizi di moda, e due anni dopo sposa la modella Lisa Fonssagrives, protagonista di molte delle sue fotografie. Grazie alla “invenzione” di uno studio fotografico mobile da viaggio, nel 1967 realizza l’avvincente serie dei Worlds in a Small Room, straordinaria galleria di ritratti di gruppi etnici. Nel 1977, il Metropolitan Museum di New York espone il suo Street Material, composto di oggetti della vita quotidiana finiti nella spazzatura, rappresentati con valenze estetiche particolari. Nel 1984, il MoMA di New York gli dedica una grande retrospettiva. Nel 1995, Irving Penn ha donato la maggior parte del suo archivio al The Art Institute of Chicago, che lo ha celebrato due anni dopo con l’antologica Irving Penn: a Career in Photography. Per Vogue, Irving Penn ha realizzato circa centosessanta copertine, e il mensile ha continuato a pubblicare sue fotografie fino allo scorso anno. Era fratello del regista Arthur Penn (tre nomination all’Oscar). A novantanove anni, il tredici settembre si è spento a Parigi Willy Ronis, uno dei grandi maestri del Novecento, con Robert Doisneau e Henri Cartier-Bresson. Le sue immagini più famose sono state scattate dopo la metà degli anni Quaranta, nella Parigi del primo dopoguerra. Il presidente francese Nicolas Sarkozy ha lo ha ricordato, indicandolo come «cronista delle speranze e delle aspirazioni della gente nell’immediato dopoguerra e poeta della gioia della vita semplice». Nato a Parigi nel 1910, Willy Ronis cominciò a lavorare nello studio fotografico del padre e divenne fotografo a livello professionale. Il suo lavoro più conosciuto è quello realizzato nel 1954, raccolto nella monografia Belleville Ménilmontant, che ha avuto cinque ristampe. Tra i riconoscimenti più recenti, l’esposizione nel municipio di Parigi, del 2005, in occasione del suo novantacinquesimo compleanno, e il Lucie Award Lifetime Achievement alla carriera, nel 2006. Willy Ronis teorico è stato anche evocato nella nostra copertina dell’aprile 2005, illustrata con la copia di Gianni Berengo Gardin del suo Il manuale del perfetto fotoreporter, del 1953. L.P.
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La permanenza può trovarsi solo nell’immortalità promessa dai risultati dello scatto di una macchina fotografica. Diane Keaton; su questo numero, a pagina 35 La macchina fotografica, come un coltello, ritaglia nella storia pezzi di verità sui quali è difficile soffermare lo sguardo senza piangere, o vergognarsi della propria inettitudine. Pino Bertelli; su questo numero, a pagina 65 Riconoscono tutti i morti, amici o nemici loro, e sfogliano queste fotografie come ciascuno di noi sfoglia un album di famiglia: ricordi piacevoli, affetti da evocare. Maurizio Rebuzzini; su questo numero, a pagina 13 Lo sappiamo: la fotografia, tutta la fotografia, almeno quella più importante, non ha regole. Pino Bertelli; su questo numero, a pagina 65 Piaccia o no, la vita si muove velocemente, a differenza della fotografia. Diane Keaton; su questo numero, a pagina 35
Copertina Interpretazione grafica che supera la cronaca, per definire l’icona e la Storia. Akio Morita -che nel 1946 ha fondato la Sony, con Masaru Ibuka, presiedendola per decenni- con la Mavica originaria, dalla quale conteggiamo la nascita della fotografia digitale: 24 agosto 1981. Richiamo esplicito alla pubblicazione del saggio 1839-2009. Dalla Relazione di Macedonio Melloni alla svolta di Akio Morita, con il quale Maurizio Rebuzzini ripercorre le tappe fondamentali della storia della fotografia: nel centosettantesimo anniversario, in coincidenza di date con la Relazione di Macedonio Melloni, del dodici novembre. Ne riferiamo da pagina 19
3 Fumetto Non soltanto dovere: prima pagina della Relazione intorno al dagherrotipo, di Macedonio Melloni, a partire dalla quale si allungano le considerazioni del saggio, appena richiamato, 1839-2009. Dalla Relazione di Macedonio Melloni alla svolta di Akio Morita, di Maurizio Rebuzzini
7 Editoriale Ancora 1839 (più di quanto possa apparire a prima vista), con evocazione di un’altra Storia, altrettanto straordinaria
8 E fu subito flash Lo scorso ventidue settembre è mancato Dick Balli, il geniale inventore del sistema di flash da studio Balcar
10 Notizie Attrezzature, vicende e altre segnalazioni
NOVEMBRE 2009
R , RIFLESSIONI IFLESSIONI, OSSERVAZIONI E COMMENTI OSSERVAZIONI E COMMENTI SULLA FOTOGRAFIA SULLA FOTOGRAFIA
12 Un simpatico Mastino Nel film Lo sbirro, il boss e la bionda, nei panni di Wayne “Mad Dog” Dobie, Robert De Niro è un affascinante fotografo della polizia di Chicago Ricerca iconografica di Filippo Rebuzzini
Anno XVI - numero 156 - 6,50 euro DIRETTORE
RESPONSABILE
Maurizio Rebuzzini
IMPAGINAZIONE
Gianluca Gigante
REDAZIONE
14 Reportage Appunti e attualità del fotogiornalismo internazionale A cura di Lello Piazza
19 1839-2009. Svolte senza ritorno Senso e valore di 1839-2009. Dalla Relazione di Macedonio Melloni alla svolta di Akio Morita, di Maurizio Rebuzzini, retrovisione fresca di stampa di Antonio Bordoni
27 A colloquio con la leggenda A proposito della chiusura dell’Agenzia Grazia Neri e del futuro della informazione attraverso le immagini Grazia Neri, Lello Piazza e Maurizio Rebuzzini
34 Vita di un commesso viaggiatore Mr. Salesman è una raccolta fotografica curata da Diane Keaton: sorriso amaro su un passato... presente di Maurizio Rebuzzini
Angelo Galantini
FOTOGRAFIE Rouge
SEGRETERIA
Maddalena Fasoli
HANNO
COLLABORATO
Pino Bertelli Antonio Bordoni Daniele Della Mattia Katia Felini Giulia Ferrari Diana Marangoni Grazia Neri Veronica Padovani Loredana Patti Lello Piazza Franco Sergio Rebosio Ciro Rebuzzini Filippo Rebuzzini Gabriele Renna Mario Soldi Anna Maria Trebbi Redazione, Amministrazione, Abbonamenti: Graphia srl, via Zuretti 2a, 20125 Milano; 02-66713604; graphia@tin.it. ● FOTOgraphia è venduta in abbonamento.
40 Conflitto inevitabile La diffrazione in macrofotografia: come affrontarla di Daniele Della Mattia
44 Saluti da Colonia Cartoline illustrate con evocazioni visive raffinate
51 Per l’appunto, appunti Tre studentesse vanno all’esame di Storia della Fotografia con i propri libri di riferimento clamorosamente annotati di Angelo Galantini
58 Avedon a Lucca Fotografie da favola al LuccaDigitalPhotoFest 2009
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Rivista associata a TIPA
62 Mostra vergognosa Scandalosa iniziativa fotografica del Comune di Milano: se la canta e se la suona. Con denari pubblici
64 Maurizio Moretti Sguardi su un cane perduto senza collare di Pino Bertelli
www.tipa.com
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1839-2009
la finestra di Gras Dalla Relazione di Macedonio Melloni 2009.unaRicordando pagina, una illustrazione alla svolta di Akio Morita
Come dire, dal dagherrotipo all’acquisizione digitale di immagini. E consecuzioni
1839. Dal sette gennaio al dodici novembre sedici pagine, tre illustrazioni
Tappe fondamentali, che si sono proiettate sul linguaggio e l’espressività, con quanto ne è conseguito e ancora consegue Relazione attorno al dagherrotipo diciotto pagine, tre illustrazioni
1839. Fotogenico disegno dieci pagine, quattro illustrazioni
1888. Box Kodak, la prima diciotto pagine, quarantacinque illustrazioni
1913-1925. L’esposimetro di Oskar Barnack ventiquattro pagine, cinquantotto illustrazioni
1947 (1948). Ed è fotografia, subito ventiquattro pagine, sessantadue illustrazioni
1981. La svolta di Akio Morita dodici pagine, ventisei illustrazioni
• centosessanta pagine • nove capitoli in consecuzione più quattro, tre prima e uno dopo • duecentosessantatré illustrazioni 1839-2009 Dalla Relazione di Macedonio Melloni alla svolta di Akio Morita di Maurizio Rebuzzini Prefazione di Giuliana Scimé 160 pagine 15x21cm 24,00 euro
F O T O G R A P H I A L I B R I Graphia srl • via Zuretti 2a - 20125 Milano 02-66713604 • graphia@tin.it
2009. Io sorrido, lui neanche un cenno dieci pagine, ventisette illustrazioni
Le paternità sono ormai certe otto pagine, tredici illustrazioni
2009. Alla fin fine cinque pagine, quindici illustrazioni
KATIA FELINI
M
emoria di se stessi e della propria storia. Dovrebbe essere una parola d’ordine irrinunciabile, capace di fare la differenza di un mondo, come è quello della fotografia, che non può fare finta di niente. Non può credere di appartenere a un commercio generico e generalizzato, ma -all’esatto opposto- deve convincersi delle particolarità implicite nell’uso dei propri strumenti. Come già rilevato in tante occasioni, di questa ispiratrici, soprattutto nella dimensione e veste di hobby individuale, l’applicazione fotografica è assolutamente diversa da ogni altra espressione del tempo libero. Diversa, sia affermato con vigore, perché migliore, in quanto gratificante: esercizio attivo e non passivo, creativo e non statico. Ora, ricordiamocelo, la lunga riflessione sollecitata e guidata dallo svolgimento della Photokina 2008, in linea con quelli delle edizioni precedenti, confluita sulle pagine dell’avvincente Alla Photokina e ritorno, pubblicato dalla nostra casa editrice, è stata guidata giusto da questa stessa considerazione, che esprimo anche così: l’hobby fotografico è migliore di ogni altro per quanto colpisce il cuore e la mente di ciascuno. Tra tante contraddizioni, forse troppe, tutte pilotate, fa impressione constatare come e quanto l’industria fotografica italiana nel proprio insieme, non soltanto ignori colpevolmente la Storia, ma si faccia bandiera della propria incompetenza, che promuove lungo la filiera, per convincere tutti gli operatori che quello che conta sono soltanto i freddi dati tecnici e il conturbante fascino di prezzi sempre più ridotti. Non conosco alcun altro comparto commerciale che agisca in questo modo, che innalzi l’ignoranza a merito e virtù. Tanto che, anche l’occasione, magari modesta, ma pur sempre “occasione”, dei centosettant’anni di fotografia è sfumata con il trascorrere dei mesi del corrente Duemilanove. Così come in Italia si fece nulla per i centocinquant’anni (1839-1989), ancora non è stato organizzato niente per il corrente anniversario tondo: niente di niente tra i propri confini istituzionali, niente in proiezione di maggiore riscontro (magari sollecitando la Televisione a occuparsene). Non mi chiamo fuori, anche se qualcosa ho fatto, fino a compilare un compendioso saggio, 1839-2009. Dalla Relazione di Macedonio Melloni alla svolta di Akio Morita, del quale riferiamo su questo stesso numero, da pagina 19. Non mi posso chiamare fuori perché, nel bene come pure nel male, partecipo al e del mondo della fotografia italiana, alternandomi tra gli aspetti tecnico-commerciali e le problematiche espressive. Partecipo a questo mondo con amarezza, e soltanto cerco di inviarvi sollecitazioni e spunti che possano risultare opportuni e benefici. Svolgo il mio lavoro, cerco di farlo nel migliore dei modi e richiamo l’esigenza di una franchezza che ci farebbe soltanto bene. Per questo, inorridisco quando un distributore propone compiti che esulano dalla sua personalità. Alla fin fine, basta che ciascuno svolga il proprio dovere. È già arte. Maurizio Rebuzzini
1839-2009. Dalla Relazione di Macedonio Melloni alla svolta di Akio Morita (anche in copertina). E poi, Storia della fotografia, di Katia Felini (a pagina 56).
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E FU SUBITO FLASH
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Anche se non gli si può attribuire la paternità del flash elettronico da studio, nel cui ambito si è impegnato per decenni, Mardick Balli è stato sicuramente il più appassionato profeta della sua applicazione in sala di posa. Avvicinatosi alla fotografia da giovane, fotografo per la Marina degli Stati Uniti nella Seconda guerra mondiale (fronte del Pacifico), fotografo di moda all’inizio degli anni Cinquanta, abbandonò la professione all’alba dei Sessanta per dedicarsi alla costruzione dei generatori Balcar. Di origine armena, all’anagrafe Mardick Baliozian, Dick Balli per il mondo fotografico, è appartenuto al ristretto e qualificato novero di fotografi che si sono proiettati (evoluti?) anche verso la progettazione e produzione di strumenti del lavoro. In questo gruppo, è stato in buona compagnia di Victor Hasselblad, Carl Koch (Sinar; FOTO graphia, febbraio 2006), Lino Manfrotto, Renato Gozzano (WindowLight), Vincenzo Silvestri, Jim Domke e Gary Regester (Wafer). Il marchio di fabbrica di Dick Balli è stato Balcar: sistema di flash elet-
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Anni Cinquanta: Dick Balli, archetipo dell’esistenzialismo parigino.
Mardick Balli negli anni Quaranta, fotografo negli Stati Uniti.
Lo studio parigino, con i primi generatori Balcar e i primi ombrelli riflettenti.
tronici da studio noto e apprezzato in tutto il mondo. Anche se questa non è la sede più adatta per commentare tecnicamente le prestazioni fotografiche della linea Balcar, è obbligatorio ricordare che la storia del marchio francese è contrassegnata da una sistematica serie di primati ed eccellenze. Richiamiamo i principali: nel 1954, due anni dopo la fondazione, Balcar fu la prima a finalizzare gli ombrelli riflettenti per il controllo della luce flash inviata sul soggetto; dieci anni dopo, nel 1964, Balcar creò la prima torcia flash spot, con regolazione variabile del fascio luminoso in uscita; nello stesso 1964, fu inventata la torcia a matita, per l’irradiazione totale a 360 gradi della luce flash; nel 1973, si applicarono le prime griglie a nido d’ape, per la chiusura controllata dell’emissione luminosa. Diplomato in arti applicate e in matematica all’Amherst College, in Massachusetts, e in fotografia al New York Institute of Photography, durante la Seconda guerra mondiale, il giovane Mardick Balli, nato
nel 1925, si arruolò nella Marina degli Stati Uniti, nell’ambito della quale fu impiegato come fotografo sul fronte del Pacifico. Dopo questa esperienza, alla fine della guerra, fu fotografo di moda, prima in America e poi a Parigi, dove aprì un grande e importante studio all’inizio degli anni Cinquanta. Mardick Balli arrivò in Francia nel momento giusto, quando la gran-
STORIA DI UN FOTOGRAFO
L
tordici anni, ho iniziato a fotografare in collegio. asciata la conduzione aziendale della produPer il compleanno, i genitori di un mio amico, al zione di flash elettronici Balcar nel 2002, nelquale avevo prestato un dollaro, gli avevano rela quale gli è succeduto il figlio Kevin, Mardick Bagalato una Argus C-1, caricata con un rullino di liozian ha messo ordine tra i propri ricordi. In parpellicola 35mm da un dollaro. Gli ho chiesto di ticolare, su suggerimento di amici e famiglia, ha farmela usare: invece di restituirmi il prestito, io raccolto in un libro gli anni della Seconda guerra avrei usato la pellicola. Fu d’accordo. mondiale, durante la quale fu impegnato come «Tre mesi più tardi, durante le vacanze estive, mio fotografo della US Naval Air Force. Dopo sessanpadre mi chiese se mi sarebbe piaciuto frequentare t’anni dalla cronaca, la memoria potrebbe non esil New York Institute of Photography, che aveva sesere più fresca e brillante, come richiede un racde nello stesso edificio nel quale si trovava il suo ufconto vivo e vibrante. Però, Dick Balli aveva conficio, sulla Trentatreesima strada, nei pressi dell’Emservato centinaia di fotografie scattate in quegli pire State Building. anni e custodito le lettere «Il mio primo contatto con scambiate con la madre. un fotografo professionista fu Così, è stato possibile reaquando, nel 1940, feci da aslizzare un libro adeguatasistente a John Phillips, che mente appassionante: A Phostava realizzando un servizio tographer’s Story. 1941-1946 per Life sulla Lawrenceville The War Years, disponibile in School (il mio collegio, nel formato Pdf dal sito di famiNew Jersey), con una Speed glia www.baliozian.co/dickGraphic 4×5 pollici, caricata balli/ (centonove pagine oriz- A Photographer’s Story. 1941-1946 The War Years è un libro di ricordi con pellicole piane in filmzontali 29,7x21cm), dove so- di Mardick Baliozian / Dick Balli, mancato lo scorso ventidue settembre. pack. Realizzò un effetto di ilno altresì raccolte le testimo- È disponibile in formato Pdf dal sito di famiglia www.baliozian.co/dickballi/: luminazione naturale, utiliznianze all’indomani della sua centonove pagine orizzontali 29,7x21cm, ampiamente illustrate. zando la sincronizzazione flash fino a quattro lampi combinati. scomparsa, alla fine dello scorso settembre, a ottantaquattro anni. «Dal 1939 al 1943, negli anni immediatamente precedenti il mio arruolamenIn presentazione, sullo stesso sito, Mardick Baliozian commenta il suo lavoro. In estratto: «La fotografia mi aveva già attratto: nel 1939, all’età di quat- to nella US Navy, la Marina degli Stati Uniti, fotografai con una Kodak Retina II». ne da una riflessione filosofica. In una immagine a doppia faccia, la poesia era vita e la vita era poesia. In quel clima, per Mardick Balli fu naturale abbinare le più raffinate meditazioni estetiche con le più pragmatiche esigenze infrastrutturali: fino a unire l’espressione formale della propria fotografia di moda alla più congeniale illuminazione che riproponesse in sala di posa e negli allestimenti scenici la naturalezza della lu-
MARIO SOLDI
ARCHIVIO MARIO SOLDI (2)
de moda internazionale stava appunto scegliendo Parigi quale propria passerella privilegiata. Città in continuo e vitale fermento, in quegli anni Parigi fu una sorta di centro del mondo, dove tutto confluiva, e da dove tutto partiva. Senza soluzione di continuità, la letteratura influenzava il cinema, una generazione di cantautori attingeva ispirazioni dalla vita reale, le proiezioni tecnologiche potevano avere origi-
Tre occasioni fotografiche: al Salone della fotografia, di Parigi, nel 1987, con Pierre Bron (Broncolor, ironicamente in ginocchio); al Pma di Las Vegas, nel 1988, con il figlio Kevin e alcuni collaboratori
(tra i quali il cremonese Mario Soldi); a Sidney, in Australia, nel 1990, in occasione del workshop Balcar The Light of Australia, con il grande ritrattista Arnold Newman e, ancora, Mario Soldi.
ce del sole. In un’epoca nella quale pochi avevano intuito le potenzialità del flash elettronico in studio (fino ad allora soprattutto utilizzato per documentazione scientifica: tipo gli studi sul movimento e l’istante congelato, condotti da Harold Edgerton, del Massachusetts Institute of Technology - MIT; FOTOgraphia, dicembre 1994), Mardick Balli costruì un generatore di dimensioni sostanzialmente ridotte e grande capacità luminosa. Fu quella la base e l’origine della linea di generatori Balcar, che contribuirono in modo determinante all’evoluzione stessa della fotografia professionale. Per qualche anno ancora, Mardick Balli riuscì a conciliare lo svolgimento del mestiere con la conduzione della neonata produzione di generatori; con il proseguire del tempo, la sistematica affermazione commerciale delle attrezzature ebbe il sopravvento. Mardick Baliozian è mancato lo scorso ventidue settembre. M.R.
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MACRO CON GIUDIZIO. Il professionale EF 100mm f/2,8L Macro IS USM è il primo obiettivo Canon con stabilizzazione ibrida, finalizzata alla fotografia a distanza ravvicinata senza treppiedi. Adottato per la prima volta in un obiettivo macro con innesto EF, dedicato alle Canon Eos, il nuovo stabilizzatore ottico Hybrid è dotato di quattro stop di correzione, per compensare gli effetti delle vibrazioni involontarie della reflex. Sfere in ceramica a basso attrito supportano le lenti mobili, per un funzionamento fluido, necessario per compensare i micromovimenti, qui amplificati dagli elevati rapporti di ingrandimento tipici delle inquadrature macro. Lo stabilizzatore Hybrid corregge gli spostamenti verticali -critici fotografando da vicino- come pure quelli angolari, offrendo un vantaggio fino a due stop con un fattore di ingrandimento 1x (rapporto di riproduzione 1:1, al naturale). Per correggere l’aberrazione cromatica e ottenere immagini ad alta risoluzione e ad alto contrasto, l’EF 100mm f/2,8L Macro IS USM utilizza lenti a bassissimo indice di dispersione (UD); mentre il rivestimento delle lenti Super Spectra riduce efficacemente eventuali riflessi e bagliori, a tutto beneficio della resa ottica. Il diaframma circolare a iride, a nove lamelle, rende i soggetti ben evidenti contro uno sfondo convenientemente sfocato. Silenzioso e rapido, il motore autofocus USM è più veloce nel mettere a fuoco. L’obiettivo include anche un selettore d’intervallo di messa a fuoco a tre posizioni, per supportare il sistema autofocus al-
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l’interno della gamma di distanze desiderata. Sono previsti accessori dedicati: adattatore MacroLite 67, paraluce ET-73 e tubi di prolunga EF12 II e EF25 II. I flash elettronici macro Speedlite MR-14EX e MT-24EX possono essere montati utilizzando l’adattatore MacroLite. (Canon Italia, via Milano 8, 20097 San Donato Milanese MI).
DISTRIBUZIONE VANGUARD. Sul mercato internazionale, Vanguard è un marchio fotografico di prestigio, riconosciuto per l’alta qualità delle sue proposizioni infrastrutturali: soprattutto, treppiedi e borse. Sinonimo di un’offerta ampia e qualitativamente superiore, con agilità ed abilità ha creato un catalogo adeguatamente ampio, distinto in tre linee di prodotto, identificate dal contenitore-indirizzo di riferimento, che propongono soluzioni dedicate: Transport, Position e Observation, rispettivamente composte da treppiedi, borse, custodie, binocoli, telescopi e supporti per apparecchi televisivi. Nel concreto, configurazioni tecniche dedicate al mondo dell’immagine, dell’outdoor e del business. I prodotti Vanguard sono distribuiti da Fowa, di Torino, importatore con esperienza cinquantennale (tappa raggiunta giusto lo scorso anno), che nel corso dei decenni ha rivelato la propria vocazione equamente riferita alla fotografia professionale e a quella non professionale, entrambe affrontate con identico rigore e uguale competenza, sia nei momenti della vendita, sia in quelli dell’assistenza ai clienti. La gamma dei treppiedi Vanguard comprende configurazioni professionali capaci di assolvere e risolvere le più esclusive e sofisticate esigenze fotografiche. In particolare, si segnala la versatilità della gamma Alta Pro, in fibra di carbonio e lega di alluminio. Le prerogative tecniche sottolineano la combinazione con teste a movimenti indipendenti o fluide, dotate di piastra intercambiabile, comandi ergonomici per
regolazioni multiple dell’angolazione delle gambe e anelli antishock che proteggono l’attrezzatura da danni accidentali. Sei treppiedi Vanguard Alta Pro in alluminio scandiscono conseguenti prestazioni in incremento: altezza raggiungibile e capacità di sostegno. Le gambe prevedono tre angolazioni indipendenti, a 25, 50 e 80 gradi. Il doppio bloccaggio di sicurezza e l’anello anti-shock evitano possibili danni e prevengono i rischi di cadute delle apparecchiature durante il trasporto. Quindi, impugnature ergonomiche, testa panoramica con bloccaggio e pratica maniglia di trasporto. Due treppiedi Vanguard Alta Pro in carbonio competano l’offerta tecnica, che qui si avvale di nuovo tubo da 1,2mm in fibra di carbonio realizzato con un’innovativa tecnologia a strati multipli 6x, che garantisce prestazioni sicure in termini di stabilità, peso e robustezza. Abbinate a struttura e testa in lega di magnesio, le gambe prevedono tre angolazioni indipendenti, ancora a 25, 50 e 80 gradi. La scorsa primavera, la selettiva giuria dei TIPA Awards ha premiato la gamma Vanguard Alta Pro come migliore accessorio del 2009 (FOTOgraphia, maggio 2009): «A differenza dei treppiedi tradizionali, l’innovativa colonna centrale Multi-Angolo (MACC) della gamma Vanguard Alta Pro consente di regolarla in base alle necessità della collocazione: da 0 a 130 gradi, in posizione verticale e orizzontale, garantendo sempre una rotazione completa di 360 gradi. Il sistema di blocco rapido (ISSL) permette di riposizionare la colonna in totale sicurezza in pochi secondi, mantenendo sempre la stabilità dello stesso treppiedi». (Fowa, via Tabacchi 29, 10132 Torino).
VISIONI AMPIE. La nuova versione dell’affermato zoom grandangolare Sigma dispone di una apertura relativa incrementata rispetto la precedente, costante lungo tutta l’avvincente escursione focale: Sigma 10-20mm f/3,5 EX DC HSM, con copertura dei sensori digitali di dimensioni inferiori al fotogramma 24x36mm. L’ampia visione da 102,4 gradi fornisce immagini con prospettive di grande effetto e la generosa luminosità f/3,5 è idonea a riprese in interni. L’eccellente correzione dell’aberrazione cromatica è garantita dalla combinazione ottica di due elementi in vetro ottico ELD (Extraordinary Low Dispersion) con uno in vetro SLD (Special Low Dispersion). Quattro lenti asferiche correggono la distorsione e hanno contribuito alla costruzione leggera e compatta. Il trattamento Super Multi Strato riduce il flare e le immagini fantasma. Specificato nella sigla identificatoria, il motore HSM (Hyper Sonic Motor) fornisce una messa a fuoco automatica veloce e silenziosa, convertibile alla messa a fuoco manuale: in entrambe le condizioni da 24cm, con un rapporto di ingrandimento massimo di 1:6,6. Il sistema di messa a fuoco interna evita la rotazione della lente frontale e consente l’uso di paraluce a petali, che blocca i raggi di luce parassiti e riduce i riflessi interni. In baionetta Canon Eos D, Nikon D, Pentax, Sigma e Sony. (Mamiya Trading, via Cesare Pavese 31, 20090 Opera Zerbo MI).
UN SIMPATICO MASTINO
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Sul tavolino di soggiorno, la monografia Paul Strand. An American Vision, di attualità ai tempi della lavorazione del film; alla parete, il manifesto di una mostra fotografica di Robert Capa, illustrato con la celeberrima immagine dello sbarco in Normandia; sulla rientranza di un muro, collocato ad arte, l’ingrandimento-poster di una fotografia newyorkese di Berenice Abbott ad inquadratura e composizione stretta e alta (FOTOgraphia, luglio 2005 e settembre 2009); ancora alle pareti, fotografie incorniciate scattate sul lavoro (che i titoli di coda attribuiscono a Marc Hauser, appressato ritrattista: www.marchauserphoto.com). È l’appartamento nel quale vive Wayne “Mad Dog” Dobie, fotografo della polizia, interpretato da un seducente Robert De Niro. Il film è Lo sbirro, il boss e la bionda, orrendo titolo italiano, che allinea i tre protagonisti (Robert De Niro, appunto, Bill Murray e Uma Thurman). In originale, la sottolineatura è soltanto doppia: Mad Dog and Glory -niente boss-, dal soprannome del poliziotto-fotografo con il nome della co-protagonista; comunque, per risolvere i crediti di rito, regia di John McNaughton e produzione statunitense del 1993. La trama incrocia i destini di tre persone. In una concitata situazione di rapina, il fotografo della polizia Wayne “Mad Dog” Dobie (Robert De Niro) salva la vita al boss della mafia Frank Milo (l’attore Bill Murray), che per gratitudine gli manda a casa, per una settimana, Glory (l’attrice Uma Thurman), per tanti versi, obbligata a prestare servizi leciti per suo conto. Ovviamente, manco a dirlo, tra Mad Dog e Glory sboccia l’amore, e tutto si complica, per poi risolversi in lieto fine, proprio e caratteristico della commedia brillante. Prima della segnalazione della fotografia nel film, che è poi ciò che ci interessa soltanto, quantomeno da queste pagine, richiamiamo la presenza nel cast di David Caruso, l’investigatore Horatio Caine del televi-
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All’inizio del film Lo sbirro, il boss e la bionda, orrendo titolo italiano dell’originario statunitense Mad Dog and Glory, di John McNaughton, del 1993, incontriamo subito il fotografo della polizia di Chicago Wayne “Mad Dog” Dobie (l’attore Robert De Niro). Sulla scena del crimine fotografa anche le persone che si sono assiepate dietro gli sbarramenti della polizia, tra le quali individuare magari qualche sospetto. “Mad Dog” si muove con circospezione comica. Finge di nulla, alza la reflex (Pentax), inquadra e scatta. Una, due, tre volte, da punti di vista sempre diversi.
Le guardie del corpo del boss mafioso Frank Milo guardano le fotografie giudiziarie di morti ammazzati come ciascuno di noi sfoglia un album di famiglia: ricordi piacevoli, ritratti ben riusciti, affetti da evocare.
sivo Csi: Miami, nelle parti di Mike, collega poliziotto, e del fantastico caratterista Mike Starr, in quelli di Harold, guardia del corpo del boss.
FOTOGRAFIA Oltre le evocazioni scenografiche riferite in apertura, che compongono i tratti di quella straordinaria attenzione ai dettagli e complementi che qualifica il cinema statunitense (non certo quello italiano), la fotografia attraversa tutta la vicenda di Lo sbirro, il boss e la bionda. È perfino ovvio, quanto inevitabile, dato che il protagonista è un fotografo, seppure della polizia. Il film inizia proprio con la spedizione di una squadra investigativa sul luogo di un delitto. In una automobile parcheggiata in un quartiere periferico di Chicago sono stati trovati dei cadaveri, e “Mad Dog” deve fotografare la scena del crimine. Solidarizziamo subito con lui e la sua scontrosità, dalla quale il soprannome (in italiano, “Mastino”), così come induce a fare la sceneggiatura. Comandato a
fotografare le persone che si sono assiepate dietro gli sbarramenti della polizia, tra le quali individuare magari qualche sospetto («come e quanto la fotografia offra ineccepibili documenti per identificazione, classificazione e controllo», dallo stesso spazio di fotografia-al-cinema, in FOTOgraphia dello scorso settembre), “Mad Dog” si muove con circospezione comica. Finge di nulla, alza la reflex (Pentax), inquadra e scatta. Una, due, tre volte, da punti di vista sempre diversi [pagina accanto]. Sarà ancora più disincantato e sopra le righe in una occasione successiva, nella sala di un ristorante italiano nella quale si è verificata una sparatoria delittuosa: dopo aver selezionato sul jukebox un motivo allegro (Just a Gigolo, nell’interpretazione di Louis Prima), si muove tra i cadaveri a passo di danza. Assolutamente più compassata, è la spedizione fotografica notturna con Glory, durante la quale le rivela i propri intendimenti fotografici (da sentire), mentre prepara il treppiedi [a destra] e durante gli spostamenti da un luogo al successivo: «La cosa più brutta del fotografare la morte -annota-, è che non c’è dignità nella morte. Un corpo non può difendersi, non può tirare giù la gonna, non può chiudere la bocca. [...] Quello che tu stai fotografando per lavoro è la forma maggiore di impotenza». È da questi momenti che l’intimità imposta dalla situazione preordinata dal boss mafioso Frank Milo smette di essere tale, ovvero imposta, per trasformarsi in altro, forse amore. Al rientro a casa, mentre “Mad Dog” è indaffarato a riporre la propria attrezzatura fotografica, Glory gli si presenta nuda, e gli chiede di fotografarla [a destra]. Poi lei prende la macchina fotografica tra le mani, e lo fo-
Durante una spedizione fotografica notturna con Glory (Uma Thurman), Wayne “Mad Dog” Dobie (Robert De Niro) le rivela i propri intendimenti fotografici (da sentire), mentre prepara il treppiedi e durante gli spostamenti da un luogo al successivo.
Harold (Mike Starr), la guardia del corpo del boss mafioso Frank Milo (Bill Murray), sfoglia la monografia Paul Strand. An American Vision, di attualità ai tempi della lavorazione del film.
Mentre “Mad Dog” (Robert De Niro) è indaffarato a riporre la propria attrezzatura fotografica, Glory (Uma Thurman) gli si presenta nuda, e gli chiede di fotografarla. Poi lei prende la macchina fotografica tra le mani, e lo fotografa in pose volontariamente buffe.
tografa in pose volontariamente buffe [ancora a destra]. Attenzione, lo ribadiamo, Lo sbirro, il boss e la bionda è una commedia brillante, per famiglie: niente oltre il lecito.
SFUMATURE Nel film ci sono altri quadretti fotografici degni di attenzione. Stiamo arrivando soprattutto ad uno. Prima è però doveroso l’incrocio cinematografico che riguarda il protagonista Robert De Niro / Wayne “Mad Dog” Dobie, che in privato usa una reflex Leica R5 (oppure R4, non siamo riusciti a identificarla), mentre sul lavoro la reflex è Pentax, come abbiamo già rilevato. La Leica R5, o R4, compare nei notturni in città e nell’intimità delle fotografie private. A questo punto, è doveroso ricordare che Robert De Niro, nei panni dell’agente Cia Sam, usa una Leica R (non ricordiamo quale) anche in Ronin, produzione americana e inglese del 1998. Lo fa nella scena
nella quale, all’esterno di un grande hotel della Costa Azzurra, fotografa di soppiatto un presunto terrorista (la semplifichiamo così). A conclusione, perché non è il caso dilungarsi oltre, e neppure ripetere considerazioni sulla presenza della fotografia in sceneggiature e scenografie fotografiche già riferite, una sola ulteriore segnalazione. Quella del comportamento delle guardie del corpo del boss mafioso Frank Milo, che guardano le fotografie giudiziarie di morti ammazzati che, ben stampate e incorniciate, arredano le pareti dell’appartamento di Wayne “Mad Dog” Dobie. Si danno di gomito, di volta in volta indicano una inquadratura, sorridono: riconoscono tutti i morti, amici o nemici loro, e sfogliano queste fotografie come ciascuno di noi sfoglia un album di famiglia: ricordi piacevoli, ritratti ben riusciti, affetti da evocare. M.R. Ricerca iconografica di Filippo Rebuzzini
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Questa rubrica riporta notizie che sono appartenute alla cronaca. Però, nel loro richiamo e riferimento molti motivi ci impediscono di essere tempestivi quanto la cronaca richiederebbe. Ciononostante riteniamo giusto proporle, perché siamo convinti che non abbiano perso la propria attualità, e continuino a offrire spunti di riflessione.
VISA POUR L’IMAGE 2009. Per ragioni personali, quest’anno non ho partecipato alla ventunesima edizione dell’importante festival di fotogiornalismo che si tiene nella cittadina francese ai piedi dei Pirenei, della quale abbiamo riferito in molte occasioni, sia in anticipazione, sia in resoconto (www.visapourlimage.com). È comunque doveroso segnalare i vincitori dei premi previsti. Ecco l’elenco stringato. ❯ Visa d’Or News (ottomila euro, sponsor Paris Match): Wojciech Grzedzinski (Napo Images per Dziennik), per una immagine riguardante il conflitto in Georgia. La fotografia premiata è già apparsa in FOTOgraphia, nel novembre 2008, perché giudicata sospetta di essere un falso [a destra, in alto]. Gli altri finalisti erano: Walter Astrada (Agence France-Presse), Enrico Dagnino (2e Bureau per Paris Match) e Dominic Nahr (Œil Public). ❯ Visa d’Or Magazine (ottomila euro, sponsor la Région LanguedocRoussillon): Zalmaï, per il suo reportage sull’Afghanistan [a destra]. Gli altri finalisti erano: Miquel Dewever-Pla-
Wojciech Grzedzinski (Napo Images per Dziennik). Conflitto in Georgia: Visa d’Or News 2009. Zalmaï. Reportage sull’Afghanistan: Visa d’Or Magazine 2009. Barbara Davidson ( Los Angeles Times). Reportage sul terremoto a Chengdu, Sichuan, Cina: Visa d’Or Presse Quotidienne 2009. Luca Catalano Gonzaga. Reportage sui bambinilavoratori, in Nepal: Grand Prix Care du Reportage Humanitaire 2009.
Massimo Berruti (Agence VU). Progetto sul Pakistan Verità/finzione: Prix du Jeune Reporter de la Ville de Perpignan 2009.
Justyna Mielnikiewicz. Progetto sui conflitti e la vita quotidiana nella regione del Caucaso: Prix Canon de la Femme Photojournaliste 2009.
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na (Agence VU), Jérôme Sessini (Œil Public per Le Monde 2 e Figaro Magazine) e Callie Shell (Aurora Photos / Cosmos per Time Magazine). ❯ Visa d’Or Presse Quotidienne (ottomila euro, sponsor SNCF, l’equivalente francese di Trenitalia): Barbara Davidson, del Los Angeles Times, per il suo reportage sul terremoto a Chengdu, Sichuan, Repubblica popolare cinese [a destra]. ❯ Prix du Jeune Reporter de la Ville de Perpignan (ottomila euro, riservato ai giovani): Massimo Berruti (Agence VU), per il suo progetto sul Pakistan intitolato Verità/finzione [a sinistra]. ❯ Prix Canon de la Femme Photojournaliste (ottomila euro, a cura della Association des Femmes Journalistes, con la collaborazione del quotidiano Le Figaro, sponsor Canon France): Justyna Mielnikiewicz, per realizzare il suo progetto sui conflitti e la vita quotidiana nella regione del Caucaso [a sinistra, in basso]. ❯ Grand Prix Care du Reportage Humanitaire (ottomila euro, sponsor Femme Actuelle): Luca Catalano Gonzaga, per il suo reportage sui bambini-lavoratori, in Nepal [a destra]. ❯Prix Pierre & Alexandra Boulat (ottomila euro, sponsor Canon France): Margaret Crow, per il suo progetto Love me: Lost in the cycle of poverty, nel quale ha seguìto April, una giovane ragazza di diciassette anni che vive in Ohio, uno degli stati più poveri degli Stati Uniti [pagina accanto]. ❯ Prix France 24-RFI du Webdocumentaire (alla sua prima assegnazione, per il miglior filmato web): un collettivo del quotidiano di Monde.fr (versione web di Le Monde), per il repor-
tage Le corps incarcéré, sulla vita nelle carceri (14,48 minuti; www.lemonde.fr/prisons) [pagina accanto]. In occasione di Visa pour l’Image 2009 sono stati assegnati anche i prestigiosi e ambìti Grants for Editorial Photography (www.imagery.gettyimages.com). Anzitutto, tre borse di lavoro di ventimila dollari ciascuna: Krisanne Johnson, per il progetto Love You Real Fast; Brenda Ann Kenneally, per Upstate Girls: What Became of
Margaret Crow. Progetto Love me: Lost in the cycle of poverty, nel quale ha seguìto April, una giovane ragazza di diciassette anni che vive in Ohio, uno degli stati più poveri degli Stati Uniti: Prix Pierre & Alexandra Boulat 2009.
Collar City; Zalmaï, per Promises and Lies. Quindi, due borse di lavoro a studenti, per completare propri progetti di documentary photography (cinquemila dollari ciascuna): Ed Ou, della University of Southern California, per Perilous Journey; Carl Kiilsgaard, della Western Kentucky University, per The White Family. Questi cinque progetti sono pubblicati all’indirizzo Internet appena riferito.
MOSTRA FRIZZANTE. Fino al diciotto dicembre, alle Fruttiere di Palazzo Te, di Mantova, si può visitare Quando scatta Nuvolari: una mostra geniale, allestita con fotografie inedite, scattate dall’asso del volante degli anni Trenta-Quaranta Tazio Nuvolari, Nivola per i fan e gli intenditori (0376-323266; www.quandoscattanuvolari.it) [a destra]. Le immagini provengono da un recente ritrovamento di duemilacinquecentosettantacinque negativi (proprio 2575), studiati e digitalizzati con il supporto della Fondazione Banca Agricola Mantovana, che promuove anche la mostra. Dunque, una selezione di trecentoquindici scatti, che rivelano la passione per la fotografia, il senso dell’inquadratura e della luce del celebre mantovano volante. Ma non solo: in mostra si ammirano anche alcune fotografie storiche che illustrano momenti della carriera del pilota più grande di tutti i tempi, un controsterzo con la mitica Autounion [in alto] o l’arrivo con il volante in
Collettivo del quotidiano di Monde.fr (versione web di Le Monde). Reportage Le corps incarcéré, sulla vita nelle carceri (www.lemonde.fr/ prisons): Prix France 24-RFI du Webdocumentaire 2009.
Fino al diciotto dicembre, alle Fruttiere di Palazzo Te, di Mantova, Quando scatta Nuvolari: mostra allestita con fotografie scattate dall’asso del volante degli anni Trenta-Quaranta Tazio Nuvolari, Nivola per i fan e gli intenditori. (in alto) Controsterzo di Tazio Nuvolari, con la mitica Autounion.
mano, il 3 settembre 1946, nella Coppa Brezzi, disputatasi a Torino, dove si classifica al tredicesimo posto (www.tazionuvolari.it). La mostra ha come testimonial d’eccezione Lucio Dalla, per il suo famoso album Amen, del 1992, contenente la canzone Nuvolari: Nuvolari è basso di statura, Nuvolari è al di sotto del normale / Nuvolari ha cinquanta chili d’ossa, Nuvolari ha un corpo eccezionale / Nuvolari ha le mani come artigli, / Nuvolari ha un talismano contro i mali / Il suo sguardo è di un falco per i figli, / i suoi muscoli sono muscoli eccezionali! / Gli uccelli nell’aria perdono l’ali quando passa Nuvolari! / Quando corre Nuvolari mette paura... / perché il motore è feroce mentre taglia ruggendo la pianura / Gli alberi della strada / strisciano sulla piana, / sui muri cocci di bottiglia / si sciolgono come poltiglia, / tutta la polvere è spazzata via! / Quando corre Nuvolari, quando passa Nuvolari, / la gente arriva in mucchio e si stende sui prati, / quando corre Nuvolari, quando passa Nuvolari, / la gente aspetta il suo arrivo per ore e ore / e finalmente quando sente il rumore / salta in piedi e lo saluta con la mano, / gli grida parole d’amore, / e lo guarda scomparire / come guarda un soldato a cavallo, / a cavallo nel cielo di Aprile! / Nuvolari è bruno di colore, Nuvolari ha la maschera tagliente / Nuvolari ha la bocca sempre chiusa, di morire non gli importa niente... / Corre
se piove, corre dentro al sole / Tre più tre per lui fa sempre sette / Con l’“Alfa” rossa fa quello che vuole / dentro al fuoco di cento saette! / C’è sempre un numero in più nel destino quando corre Nuvolari... / Quando passa Nuvolari ognuno sente il suo cuore è vicino / In gara Verona è davanti a Corvino / con un tempo d’inferno, / acqua, grandine e vento pericolo di uscire di strada, / ad ogni giro un inferno / ma sbanda striscia è schiacciato / lo raccolgono quasi spacciato! / Ma Nuvolari rinasce come rinasce il ramarro / batte Varzi, Campari, / Borzacchini e Fagioli / Brilliperi / e Ascari.
GENIUS OF PHOTOGRAPHY. Da sei trasmissioni andate in onda sulla BBC, dedicate ai centosettant’anni di storia della fotografia [18392009, che in Italia stanno passando tra l’indifferenza generale, a parte nostre annotazioni, per il vero mo-
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Monografia The Genius of Photography, a cura di Gerry Badger: in copertina una delle spiagge di Massimo Vitali ( FOTOgraphia, dicembre 1995 e dicembre 2008).
deste; in FOTOgraphia degli scorsi dicembre 2008, luglio 2009 e su questo stesso numero, con proiezione all’approfondimento 18392009. Dalla Relazione di Macedonio Melloni alla svolta di Akio Morita, di Maurizio Rebuzzini], sono stati tratti due straordinari Dvd appena pubblicati dalla famosa casa editrice inglese [qui sopra]. Con l’occasione, ricordiamo anche l’edizione libraria con lo stesso titolo: The Genius of Photography, con sottotitolo esplicito How photography has changed our lives, ovvero come la fotografia a cambiato le nostre vite. A cura di Gerry Badger, apprezzato storico internazionale, del quale ricordiamo anche i due The Photobook: A History, compilati con Martin Parr, appena richiamati a margine della presentazione di Sumo, di Helmut Newton (FOTOgraphia, giugno 2009), la monografia ha una copertina della quale possiamo farci vanto: una delle spiagge di Massimo Vitali (FOTOgraphia, dicembre 1995 e dicembre 2008) [qui sopra]. In ordine alfabetico, citiamo alcuni degli autori dei quali si parla in The Genius of Photography, che spazia in lungo e largo attraverso la storia del linguaggio della fotografia: Richard Billingham, Robert Capa, Gre-
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Straordinario Dvd doppio The Genius of Photography, realizzato dalla BBC inglese, che ha mandato in onda sei trasmissioni dedicate ai centosettant’anni di storia della fotografia: 1839-2009.
Un curioso calamaro, pubblicato il venti luglio sul sito di Repubblica.
gory Crewdson,Tony Ray Jones, Seydou Keïta, André Kertész, Dorothea Lange, Jacques-Henri Lartigue, Eadweard Muybridge, Martin Parr, Man Ray, Alexander Rodchenko, Henryk Ross, Ed Ruscha, Cindy Sherman, Stephen Shore, W. Eugene Smith, Larry Sultan. Nei Dvd si narra come e perché alcune fotografie sono diventate famose. Più in generale, i filmati affrontano lo spinoso tema del misterioso mondo che la fotografia ha inaugurato, un mondo nel quale è difficile distinguere tra ciò che solo appare e ciò che è vero. Imperdibile.
È ARRIVATO IL FATTO QUOTIDIANO. Benvenuto a un nuovo quotidiano civile. È uscito in edicola il ventitré settembre: direttore Antonio Padellaro, con firme di punta del calibro di Marco Travaglio, Maurizio Chierici, Furio Colombo, Peter Gomez, e tanti altri giornalisti dalla schiena dritta. Un successo, se si pensa che, in questa crisi dell’editoria, il nuovo quotidiano ha venduto mediamente centomila copie ogni giorno e non è mai sceso sotto le ottantamila. Tanto per essere imparziale, lasciatemi gridare un virile hip hip hurrah. Esclamativo!
FOTOGRAFIE, FOTOGRAFIE E ANCORA FOTOGRAFIE. Sempre per sostenere la tesi che senza fotografie, l’informazione, soprattutto quella leggera, è zoppa, pubblichiamo questa immagine di
calamaro, apparsa il venti luglio sul sito di Repubblica [in basso]. Nulla di diverso, dall’intenzione di far sorridere i visitatori (o si dice lettori, anche per quelli che pescano informazioni dai siti web?).
ANNIE LEIBOVITZ: STATO DELL’ARTE. Alla fine di settembre, il gruppo Art Capital, una finanziaria che aveva denunciato Annie Leibovitz per la mancata restituzione di un prestito di ventiquattro milioni di dollari (che avrebbe dovuto essere restituito l’otto settembre), ha ritirato la denuncia e concesso un dilazione di pagamento. Contemporaneamente, ha sbloccato sia l’archivio fotografico della Leibovitz, che può così continuare a vendere le sue immagini, sia altre sue proprietà, probabilmente due case. Ci sono altri procedimenti in corso nei confronti di Annie Leibovitz: quattro da suoi fornitori che reclamano un totale di settecentonovantaquattromila dollari (FOTOgraphia, settembre 2009); un quinto dal fotografo italiano Paolo Pizzetti, che accusa la fotografa newyorkese di violazione del copyright per avere usato come sfondo a una immagine pubblicitaria per il calendario Lavazza 2009 una sua fotografia di piazza San Marco, a Venezia, senza averne segnalato l’autore né pagati i diritti d’uso. E per questo chiede trecentomila euro.
UDITE, UDITE! Il Wall Street Journal batte Usa Today! Grazie a trecentocinquantaseimila abbonati dell’edizione online, la bibbia della finanza mondiale, il Wall Street Journal ha battuto il più popolare Usa Today, quotidiano nazionale. Questo dato è stato comunicato il ventisei ottobre dall’Audit Bureau of Circulations (l’ente che certifica il numero di copie vendute dai giornali americani; www.accessabc.com). Con gli abbonati all’edizione elettronica, il Wall Street Journal conferma i suoi due milioni di copie, quindi non guadagna. È invece Usa Today che perde: negli ultimi mesi, circa il diciassette percento del venduto, che lo fa scendere a un milione e ottocentottantamila copie. Editori, occhio a Internet, dunque. A cura di Lello Piazza
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1839-2009 Q
uesta va sottolineata. Il racconto 18392009. Dalla Relazione di Macedonio Melloni alla svolta di Akio Morita, di Maurizio Rebuzzini, direttore di FOTOgraphia, ha una genesi particolarmente curiosa, quantomeno curiosa. Il titolo, che si aggiunge a quello di circa un anno fa, Alla Photokina e ritorno, è altrettanto attribuito alla collana Sguardi, delle neonate edizioni FOTOgraphiaLIBRI, che si propongono di considerare la materia (fotografica) da punti di vista particolari, brillanti, lontani da ogni formalismo di accademia. La genesi è curiosa. Dall’ipotesi originaria di realizzare una copia anastatica della Relazione di Macedonio Melloni -ufficialmente la prima riflessione pubblica in Italia sulla fotografia, in forma di dagherrotipo, del 12 novembre 1839, esattamente centosettanta anni fa-, si è presto aggiunta una introduzione storica, quindi si è accodata la doverosa e legittima certificazione degli esperimenti di William Henry Fox Talbot, il cui disegno fotogenico è quantomeno coincidente con le prove di dagherrotipia, e si sono affacciate, una dietro l’altra, ulteriori considerazioni collegate e conseguenti, in relazione alla
prospettiva adottata. Da cui, Maurizio Rebuzzini ha compilato una autentica Storia: 1839-2009. Dalla Relazione di Macedonio Melloni alla svolta di Akio Morita, con sottotitolo descrittivo Come dire, dal dagherrotipo all’acquisizione digitale di immagini. E consecuzioni.
LA RACCONTA COSÌ Sia chiaro, sia chiarito subito. Non si tratta di una storia della fotografia dettagliata, ma di una visione particolare e personale di alcuni suoi accadimenti, identificati per l’alto valore delle proprie proiezioni sul linguaggio espressivo e le componenti sociali. Come specifica Giuliana Scimé in prefazione, e come si legge trasversalmente alle pagine, a partire dalle presentazioni esplicite e dichiarate sul retro della copertina, tutte svolte senza ritorno. Sia altrettanto chiaro, sia chiarito subito. Questa di Maurizio Rebuzzini è una Storia assolutamente e coscientemente parziale, per quanto già definita da parametri e princìpi che tracciano i connotati di un (ulteriore, prossimo) rac-
1839-2009. Dalla Relazione di Macedonio Melloni alla svolta di Akio Morita, di Maurizio Rebuzzini: Come dire, dal dagherrotipo all’acquisizione digitale di immagini. E consecuzioni; prefazione di Giuliana Scimé. FOTOgraphiaLIBRI, 2009 (Graphia, via Zuretti 2a, 20125 Milano; 02-66713604; graphia@tin.it); 160 pagine 15x21cm, con 263 illustrazioni; 24,00 euro.
Dal capitolo 2009. Io sorrido, lui neanche un cenno: Sony Cyber-shot WX1 con Party-shot, che si propone come “fotografo personale”, capace di scattare senza alcun altro intervento.
Retrovisione di Maurizio Rebuzzini, che osserva il passato della fotografia per decifrarne il presente. Dopo le origini, quattro momenti hanno cambiato l’espressione e il linguaggio: a seguito delle invenzioni della Box Kodak, della Leica, della fotografia a sviluppo immediato (polaroid) e dell’acquisizione digitale di immagini. Strani eventi, che si permettono il lusso di accadere. Ecco il senso e valore del libro 1839-2009. Dalla Relazione di Macedonio Melloni alla svolta di Akio Morita
SVOLTE SENZA RITORNO
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La fotografia come l’abbiamo sempre intesa, e come ancora la intendiamo, deriva dal calotipo di William Henry Fox Talbot, con negativo-matrice per copie positive in quantità potenzialmente illimitata, oggi file digitale (combinazione positivo-negativo di An oak tree in winter, di William Henry Fox Talbot; 1842-43).
Alle origini della fotografia è stata fondamentale la scoperta di John Herschel (in un ritratto di Julia Margaret Cameron, del 1867) dell’iposolfito di sodio che scioglie i sali d’argento non colpiti dalla luce: fissaggio.
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conto esaustivo, effettivamente allungato dal 1839 in avanti, per tappe ben ritmate, che potrà anche rendersi necessario. Staremo a vedere. Per intanto, registriamo che quanto riportato nelle pagine di 1839-2009. Dalla Relazione di Macedonio Melloni alla svolta di Akio Morita, con espressione manifesta oppure inviti sottotraccia, riflette esattamente i pensieri dell’autore sulla fotografia, pur non manifestando necessariamente tutti i suoi pensieri sulla fotografia. Come spesso ha rivelato, anche da queste pagine, Maurizio Rebuzzini è fermamente convinto che per quanto esista e si sia espressa una storia della fotografia -ci mancherebbe altro-, i suoi racconti sono tutti soggettivamente personali e, spesso, carenti. Ovvero, sono sempre interpretazioni che ignorano almeno tanto
quanto raccontano: con preconcetti geografici (per lo più americanocentrici) e/o culturali. Anche questa sua lettura è altrettanto parziale; però è volontariamente e coscientemente parziale e mirata. Oltre che inviolabilmente sua. In occasione del centosettantesimo anniversario della nascita della fotografia (1839-2009), e in sostanziale coincidenza di date con la prima relazione pubblica italiana sul dagherrotipo, di Macedonio Melloni, il dodici novembre, dai giorni delle origini l’autore individua quattro tappe fondamentali e discriminanti, che da tecnologiche si sono proiettate sul linguaggio e l’espressività, con quanto ne è conseguito e ancora consegue: la Box Kodak, di George Eastman (1888), a partire dalla quale la fotografia ha smesso di essere soltanto autoreferente, per approdare all’osservazione della vita nel proprio svolgersi (e altro ancora); la Leica, di Oskar Barnack (1913-1925), dalla cui versatilità di impiego siamo soliti datare l’idea di istantanea e i princìpi del fotogiornalismo; la fotografia a sviluppo immediato, di Edwin H. Land (Polaroid, 1947 e 1948), le cui successioni sociali e creative hanno impreziosito il secondo Novecento, e oltre; e, infine, l’acquisizione digitale di immagini, avviata da Akio Morita, presidente Sony (1981), dalla quale è partita la rivoluzione forse più sconvolgente di tutto il percorso fotografico. La fotografia digitale ha escluso la sensibilità chimica alla luce, per adottare quella elettronica: e la differenza non è certo piccola.
LA VEDE COSÌ Per quanto sono tutte considerazioni e analisi personali, le osservazioni di Maurizio Rebuzzini propongono e vantano soprattutto interpretazioni e visioni originali. Non importa quanto queste analisi siano condivisibili, e condivise; quello che conta è la curiosità con la quale si deve sempre osservare ciò che è, magari anche alla luce di ciò che è stato (con Anne Perry: «La storia non può insegnarci niente se scegliamo di dimenticarla», o anche solo ignorarla). L’autore non propone considerazioni ed esami assoluti e definitivi; più semplicemente, ma mai banalmente -lo affermiamo con cognizione di causa-, offre spunti di rifles-
Attribuiti a sir John Frederick William Herschel, i termini “fotografia”, “negativo” e “positivo” hanno attraversato i decenni, scavalcando due secoli. Ancora oggi, rappresentano la base comune di dialogo e comprensione per identificare i processi con i quali la natura si fa di sé medesima pittrice, straordinaria espressione delle origini. Le tecnologie possono cambiare, evolversi, ma i princìpi restano.
sione che scartano a lato ogni pre-giudizio sulla combinazione, per lui inevitabile e consequenziale, che collega la mediazione tecnica all’espressione creativa della fotografia. La sua non è certo una interpretazione migliore di altre, forse è soltanto diversa, sicuramente è la sua, e coincide con lo spirito con il quale racconta la storia della fotografia nella docenza a incarico all’Università Cattolica del Sacro Cuore, sede di Brescia. È tanto sua, che alla resa dei conti la racconta prima di tutto a se stesso, probabilmente: questo è lo spirito di un giornalismo fotografico, che, con vicende alterne, Maurizio Rebuzzini pratica dal 1972, e di una curiosità storica della fotografia che definiscono un impegno pubblico, coesistente con una soddisfazione intima e personale. Dietro-le-quinte, ora. È doveroso rivelare che nulla di quanto pubblicato in 1839-2009. Dalla Relazione di Macedonio Melloni alla svolta di Akio Morita è ca-
suale, sia nel contenuto sia per l’inevitabile forma. In prosecuzione dello stile editoriale avviato con Alla Photokina e ritorno, comprensivo di trecentoquarantatré illustrazioni a corredo, anche qui il testo è accompagnato da una nutrita serie di duecentosessantatré illustrazioni, che si allineano o aggiungono altre rivelazioni (la differenza quantitativa con il titolo precedente è determinata da trentasette pagine di solo testo). Le stesse illustrazioni sono spesso collegate tra loro da sottili richiami: celia che definisce anche alcuni analoghi intrecci della messa in pagina di FOTO graphia (non è importante, né necessario decifrarli). All’autore Maurizio Rebuzzini va riconosciuta soprattutto una visione senza confini, che dalla tecnica approda al costume della fotografia, per abbracciare anche la sua socialità e considerare il linguaggio. Per questo, il ritmo del testo è alternato, al pari di quello delle illustrazioni di accompagnamento, la maggior parte delle quali proviene dall’archivio che ha edificato nei decenni. In assenza di seriosità, l’argomento fotografico è affrontato con adeguata serietà. Il racconto è guidato da sue convinzioni irrinunciabili. Sopra tutte, una è trasversale: nulla transita per percorsi lineari e inviolabili. Anche in fotografia, tutto si evolve per itinerari variegati, comprensivi di tanti aspetti e intrecci infiniti, ciascuno dei quali è allo stesso tempo causa ed effetto. Soprattutto questo sia chiaro ed esplicito.
La UR-Leica originaria, in una delle sue rare uscite dalla cassetta di sicurezza dove è custodita e protetta. Oggi conteggiato come prototipo, è questo l’involucro portapellicola impiegato come esposimetro a rimando, che Oskar Barnack realizzò nel 1913-1914, per aiutare l’amico Émil Mèchau nelle sue riprese cinematografiche 35mm, finalizzate allo studio e progettazione di un cineproiettore. Istantanee di vita quotidiana realizzate con la Box Kodak. Per la prima volta, la fotoricordo è alla portata della fotografia, che con i processi precedenti era vincolata alla sola posa.
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Non si uccidono così neanche i cavetti! Dal manuale di istruzioni per l’uso dell’attrezzatura fotografica KS-15 (Leica M2), redatte dal Quartier Generale del Dipartimento della Difesa degli Stati Uniti; febbraio 1969. Capitolo 7 - Sezione II. Distruzione per prevenire l’uso da parte del nemico. 7-3. Autorizzazione per la distruzione. La distruzione dell’equipaggiamento fotografico potrà essere compiuta solo dietro ordine del comandante. Utilizzate le procedure di distruzione descritte nel paragrafo 7-4. 7-4. Metodi di distruzione. a. Se non è possibile una distruzione completa dell’equipaggiamento in tempo utile, distruggete i singoli componenti nel seguente ordine: 1, corpo macchina; 2, elementi ottici dell’obiettivo; 3, esposimetro; 4, flash; 5, borsa; 6, ricambi e accessori. b. Per la distruzione, utilizzate uno dei seguenti metodi. 1. Frantumazione. Riducete in pezzi i comandi, il mirino, la baionetta e il dorso della macchina fotografica. Rompete le lenti e gli elicoidali di tutti gli obiettivi.
Sfasciate i controlli e le scale graduate dell’esposimetro. Spaccate la presa sincro, la parabola e lo zoccolo del flash. 2. Taglio. Tranciate il flessibile e i cavi del flash. Sezionate la custodia in pelle. Attenzione: prestate estrema attenzione all’uso di esplosivi e materiali incendiari. Usateli soltanto in caso di urgenza. 3. Combustione. Bruciate il cavetto del flash e le borse. Bruciate il manuale di istruzioni. 4. Esplosione. Se si rende necessario l’uso di esplosivi, utilizzate bombe a mano o dinamite. 5. Eliminazione. Seppellite o disseminate le parti distrutte in buche o gettatele in un fiume.
A CONTORNO, PRIMA E DOPO Nell’agosto 1835, William Henry Fox Talbot ottiene l’immagine negativa (6x6cm circa) di una finestra: oggi, la conteggiamo come prima immagine negativa. Successivamente, questa sarà la base del processo calotipico (calotipo), che si contrapporrà al dagherrotipo.
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1839-2009. Dalla Relazione di Macedonio Melloni alla svolta di Akio Morita / Come dire, dal dagherrotipo all’acquisizione digitale di immagini. E consecuzioni è composto da nove capitoli, più quattro di contorno. In relazione contraria, affrontiamo prima i quattro complementari (tre prima e uno dopo): la prefazione Svolte senza ritorno, di Giuliana Scimé; Istruzioni all’uso, dalle quali abbiamo estratto il succo di questa stessa presentazione; un omaggio intimo alla eliografia Veduta dalla finestra di Gras, di Joseph Nicéphore Niépce, del 1826-27, che si conteggia come la prima fotografia in assoluto della sto-
ria; 2009. Alla fin fine, centosettanta anni dopo. Da Svolte senza ritorno, di Giuliana Scimé: «[...] Mi servo di Alvarez Bravo per “l’errore” generalizzato che anche Maurizio Rebuzzini commette in 18392009. Dalla Relazione di Macedonio Melloni alla svolta di Akio Morita: credere che la fotografia sia stata inventata nell’Ottocento, sì con alcune intuizioni e sperimentazioni giusto precedenti. Mi spiace far franare in un colpo solo tutto il lavoro, appassionato e serissimo, del Rebuzzini, ma la fotografia è stata inventata da Mo-Ti, per gli occidentali Mencius, nel V secolo assai prima del nostro fantasioso calcolo del tempo, l’era degli Stati Guerrieri in Cina. [...] Rebuzzini ha considerato una storia, quella della fotografia, da angolature classiche e anticonformiste, come è nella sua natura e preparazione di uomo colto ed intelligente, e come deve essere per non soggiacere a ribollite che oramai si sono consunte, nella cucina poverissima di idee e ridondante di errori che blocca la digestione alle nostre menti. La traccia, proprio per prendere coscienza di che cosa è la fotografia e di quanto abbia inciso sul nostro modo di essere e di vivere, è i grandi momenti che hanno impresso una svolta senza ritorno. [...] Esemplare è la sua attitudine nell’affrontare il dibattito contemporaneo sul digitale: non esprime giudizi, piuttosto la sua analisi esorta a considerare che cosa rappresenta, oggi, e quali possibili conseguenze creative potrebbe avere in futuro. [...] «Non lasciatevi fuorviare dalla lievità di certi episodi. La lievità, la sottintesa impertinenza sono brillanti mezzi da abile saggista per alleviare la tensione di un argomento fin troppo serio, e trattato con la più assoluta consapevolezza del sapere. E lievità, impertinenza e autentico sapere sono esaltati dalle immagini che illustrano il percorso di questa nuova storia della fotografia. Immagini così godibili, e la maggior parte inconsuete, frutto di una ricerca che ha impegnato e impegna Rebuzzini da una vita, da essere di per se stesse una rivelazione da meditare e che ci arricchisce, regalandoci un universo iconografico ignorato dai più».
In accompagnamento a 2009. Ricordando la finestra di Gras: «E la locomotiva sembrava fosse un mostro strano, che l’uomo dominava con il pensiero e con la mano; ruggendo si lasciava indietro distanze che sembravano infinite; sembrava avesse dentro un potere tremendo, la stessa forza della dinamite» (Francesco Guccini, da La locomotiva, in Radici, del 1972). È facile, basta sostituire “locomotiva” con “fotografia”.
NOVE CAPITOLI IN CONSECUZIONE I nove capitoli, adesso. ❯ 1839. Dal sette gennaio al dodici novembre. La data è ufficiale. Per quanto la fotografia così come l’abbiamo intesa per centosettanta anni, e ancora l’intendiamo, alla luce delle tecnologie che si so-
no succedute, ciascuna in regola e allineamento con i propri tempi, abbia origine e derivi dal processo calotipico negativo-positivo di William Henry Fox Talbot, la sua origine deve essere conteggiata dall’annuncio del dagherrotipo: 7 gennaio 1839, con successiva presentazione il diciannove agosto. Tra le due date, tanti accadimenti, ai quali fa seguito la prima Relazione pubblica italiana, di Macedonio Melloni, il dodici novembre. ❯ Relazione attorno al dagherrotipo. Letta alla R. Accademia delle Scienze nella tornata del 12 novembre 1839 da Macedonio Melloni, uno dei quaranta della Società Italiana delle Scienze, socio corrispondente delle R. Accademie delle Scienze di Napoli e Torino, dell’Istituto di Francia, dell’Accademia Imperiale di Russia, della Reale di Berlino, della Società Filomatica di Parigi, della Società di Fisica e Storia Naturale di Ginevra ecc. In Napoli, dalla Tipografia di Porcelli, 1839. ❯ 1839. Fotogenico disegno. All’indomani dell’annuncio del dagherrotipo, del sette gennaio, William Henry Fox Talbot vanta e rivendica la priorità dei propri esperimenti. Il trentuno gennaio riferisce del suo disegno fotogenico alla Royal Society, dopo che il precedente venticinque Michael Faraday ne aveva relazionato ai membri della Royal Institution. Ancora parole di prima mano e riflessioni [riproduzione completa, in formato ridotto, di Metodo per eseguire sulla carta il fotogenico disegno rinvenuto dal signor Fox Talbot ]. ❯ 1888. Box Kodak, la prima. Nel 1888, la Box Kodak, con la quale nasce il marchio di fabbrica (Kodak / Eastman Kodak, appunto), stabilisce una linea spartiacque, anzi due. Da un punto di vista commerciale, con questa idea nasce il mercato fotografico come ancora oggi l’intendiamo; quindi, anche l’espressività fotografica cambiò radicalmente, rendendo la pratica fotografica accessibile tutti. E tanto altro ancora. ❯ 1913-1925. L’esposimetro di Oskar Barnack. Non leggenda, ma storia, anzi Storia. L’involucro portapellicola 35mm a doppia perforazione, di origine cinematografica, realizzato da Oskar Barnack,
Sequenza di tre ritratti di Andy Warhol con Polaroid SX-70, realizzata da Oliviero Toscani, sulla copertina della monografia Polaroid. Eine Episode, del mensile svizzero du, del giugno 2002. Stanley Kubrick sul set di 2001: Odissea nello spazio, con la sua Polaroid. Racconta la moglie Christiane: «Conservo tuttora migliaia di polaroid bianconero di 2001, che non sono affatto sbiadite in trent’anni». Polaroid nell’intimità di coppia (e altro). Posizioni compromettenti, di Susan Isaacs, a sfondo erotico (con Polaroid 195).
Omaggio a Latticed Window, di William Henry Fox Talbot, dell’agosto 1835. Finestra della postazione di scrittura di Maurizio Rebuzzini, realizzata con gesto fotografico che onora il processo originario di Fox Talbot, del negativo su carta: carta sensibile bianconero 18x24cm esposta in ripresa; acquisizione a scanner.
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Dalla Settimana Enigmistica, del 21 dicembre 1996: forzatura fotografica del sorriso in ripresa, prima ancora della funzione on-camera, dalla gamma Sony Cyber-shot W. Trasformazione on-camera al sorriso di un ritratto che ne è privo, con Cyber-shot W170: Monica Anzini, valletta del programma televisivo Piazza Grande, di RaiDue. Non soltanto Sony vanta la paternità della svolta digitale della fotografia. In un’offerta commerciale vasta ed eterogenea, per quantità e qualità di prodotti, si distingue per una interpretazione particolare del mercato. Soprattutto, la correzione automatica al sorriso del volto non sorridente e la possibilità di scattare autonomamente, senza il fotografo dietro il mirino, o monitor, significano che la tecnologia si sta ora rivolgendo all’interpretazione del soggetto.
Akio Morita è stato due volte sulla copertina di Time Magazine. Il 10 maggio 1971 ha simboleggiato l’espansione dell’industria giapponese negli Stati Uniti (e nel mondo); il 7 dicembre 1998, come uno dei cento geni commerciali più influenti del secolo (unico non americano presentato in copertina).
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nel 1913 (1914), che oggi conteggiamo UR-Leica, nacque per essere utilizzato come esposimetro a rimando. Da qui, in tempi successivi, derivò la Leica, che ha dato vita a quella che è l’autentica istantanea: in momenti di ben altre dotazioni tecniche, sta comodamente in mano, ha tempi di scatto brevi e obiettivi intercambiabili luminosi, per affrontare e risolvere ogni situazione. ❯ 1947 (1948). Ed è fotografia, subito. 21 febbraio 1947: nasce la fotografia a sviluppo immediato. Necessaria in molte applicazioni, l’immagine che compare una manciata di secondi dopo lo scatto è congeniale alla manifestazione della fantasia individuale. Valori e pregi della fotografia polaroid, con quanto significa in termini utilitaristici e per l’interpretazione profonda della creatività espressiva. Qualificati e apprezzati autori hanno espresso e realizzato una fantastica quantità e qualità di immagini, che hanno arricchito la storia della fotografia e quella dell’Uomo. ❯ 1981. La svolta di Akio Morita. Dopo quasi centocinquanta anni di fotografia chimica, con pellicola fotosensibile, Sony introduce un princìpio nuovo e innovativo, che si è manifestato negli anni immediatamente a seguire. Prima con passi lenti, accompagnati da disagi e paure espresse con vee-
menza, poi con progressioni a crescita esponenziale. L’acquisizione digitale di immagini, la fotografia digitale: utilitarismi a parte, cosa è e cosa porta all’espressività. ❯ 2009. Io sorrido, lui neanche un cenno. Non soltanto Sony vanta la paternità della svolta digitale della fotografia. In un’offerta commerciale vasta ed eterogenea, per quantità e qualità di prodotti, si distingue per una particolare interpretazione del mercato e avvolgimento del cliente (potenziale). Se così deve essere, così sia: per ogni gusto, con sfumature senza soluzione di continuità. Ma, soprattutto, la correzione automatica al sorriso del volto non sorridente e la possibilità di scattare autonomamente, senza il fotografo dietro il mirino, o monitor, significano che la tecnologia si sta ora rivolgendo all’interpretazione del soggetto. E la differenza con la Storia è profonda. ❯ Le paternità sono ormai certe. Per riconoscimento ufficiale e assodato, la fotografia ha quattro padri: Joseph Nicéphore Niépce, Louis Jacques Mandé Daguerre, William Henry Fox Talbot e Hippolyte Bayard. Oltre il valore e spessore di tanti altri pionieri senza risultato, rimasti sconosciuti e ignorati, non si dimentichi il contributo dato da John Frederick William Herschel, al quale si deve la nozione chimica di fissaggio della copia fotografica. A seguire, i padri della fotografia contemporanea: George Eastman, Oskar Barnack, Edwin H. Land e Akio Morita. Una volta ancora, e una di più, Maurizio Rebuzzini rivela di essere soprattutto un clown: e fa raccolta di attimi (da e con Heinrich Böll). Antonio Bordoni
CARTE CANSON INFINITY. ®
OGNI STAMPA UN CAPOLAVORO.
UN’AMPIA GAMMA DI CARTE SPECIALI E CANVAS PER LA STAMPA DIGITALE ARTISTICA E FOTOGRAFICA
w w w . c a n s o n i n f i n i t y . c o m
Alla Photokina e ritorno Annotazioni dalla Photokina 2008 (World of Imaging), con richiami e riferimenti che non si esauriscono con il solo svolgimento della Photokina
Riflessioni, Osservazioni e Commenti sulla Fotografia: spunti utili e proficui sia al comparto tecnico-commerciale sia al mondo della fotografia espressiva e creativa
Alla Photokina e ritorno dodici pagine, ventinove illustrazioni
Reflex con contorno ventotto pagine, settantuno illustrazioni
Visioni contemporanee venti pagine, quarantotto illustrazioni
I sensi della memoria dieci pagine, ventisette illustrazioni
La città coinvolta dieci pagine, ventisei illustrazioni
E venne il giorno (?) sei pagine, quindici illustrazioni
E tutto attorno, Colonia sei pagine, diciassette illustrazioni
Ricordando Herbert Keppler due pagine, due illustrazioni
Ciò che dice l’anima sei pagine, undici illustrazioni
Sopra tutto, il dovere quattro pagine, otto illustrazioni
• centosessanta pagine • tredici capitoli in consecuzione più uno • trecentoquarantatré illustrazioni
In forma compatta dieci pagine, venticinque illustrazioni
Tanti auguri a voi venti pagine, cinquantadue illustrazioni
Alla Photokina e ritorno di Maurizio Rebuzzini 160 pagine 15x21cm 18,00 euro
F O T O G R A P H I A L I B R I Graphia srl • via Zuretti 2a - 20125 Milano 02-66713604 • graphia@tin.it
Saluti da Colonia sei pagine, nove illustrazioni
Citarsi addosso sette pagine
A COLLOQUIO CON LA LEGGENDA fficiale. Il 17 settem- Lello Piazza e Maurizio Rebuzzini ragionaSul Corriere della Sera del dibre 2009, l’Agenzia ciannove settembre, Gianluigi Grazia Neri, da qua- no con Grazia Neri sulla chiusura della Colin, direttore artistico del quorant’anni la più imtidiano, rileva: «Sbaglia chi creportante in Italia nel Agenzia che porta il suo nome e sul futuro de che la signora della fotograsettore del fotogiorsia l’unica sconfitta dalla vidella informazione attraverso le immagini fia nalismo, rilascia questo comucenda che vede la chiusura «Su un piano pratico, nei prossimi me- della storica agenzia fotografica che porta nicato: «Dopo quarantadue anni di eccellenza e integrità nel mondo della fotografia si si porteranno a compimento progetti, il suo nome. Certo, per Grazia Neri, per il fie del fotogiornalismo italiano e internazio- lavori e operazioni in corso, necessari al- glio Michele (che da gennaio ha preso le nale, l’Agenzia Grazia Neri è costretta a la liquidazione della società. redini della società) e per la squadra di ra«Grazie per la vostra straordinaria col- gazzi e ragazze che hanno fatto grande la chiedere la liquidazione e chiudere le attività. La violenta crisi editoriale e pubblicitaria laborazione, fantasia, amicizia, sostegno, più celebre agenzia fotografica italiana è avviata nel secondo semestre del 2008, e che ci hanno permesso di scrivere que- senz’altro un colpo al cuore personale. Già, peggiorata drasticamente nel 2009, ha sta bellissima storia, comune lunga più per tutti, la messa in liquidazione dell’acreato una situazione di crisi aziendale con di quarant’anni». genzia appare oggi come il più simbolico Il documento è firmato da Michele Ne- e doloroso atto di una crisi che sta colpenun calo del fatturato quasi del quaranta percento, l’erosione dei capitali e una grave si- ri, direttore dell’Agenzia, figlio di Grazia, do il mondo dell’immagine e lacerando l’intuazione di perdita. Il tutto è avvenuto con che ne è stata la fondatrice. tero universo dell’informazione». una rapidità sconcertante. D’altra parte, Sempre il diciannove settembre, Michemancano prospettive di risalita del merca- ATTESTAZIONI IMMEDIATE le Smargiassi scrive su Repubblica: «Piogto nel breve e medio periodo, data una cri- «Grazia Neri in liquidazione, stop alla gia di email affrante da tutto il mondo, ma si del settore editoriale in Italia e a livello glo- boutique della foto[grafia]», titola Cristi- i numeri sono implacabili: “Nell’ultimo anbale, la cui durata è imprevedibile. Non so- na Jucker sul Sole 24 Ore, di sabato di- no abbiamo venduto il quaranta percento in no stati sufficienti i tentativi di contenimen- ciannove settembre. meno”. Inutili anche le ricerche di un nuo«La crisi dell’agenzia è una delle conse- vo partner. La crisi ha fatto precipitare uno to dei costi dell’Agenzia, (affitto, personale -negli ultimi dodici mesi si è passati da tren- guenze più evidenti del mercato», dichiara scenario di feroce concorrenza, dominato tuno a diciotto impiegati-, ecc). Nel corso Mimmo Chianura, fotografo della Agf dai colossi americani Getty e Corbis, che degli ultimi tre anni, e in particolare nei pri- (Agenzia Giornalistica Fotografica), autore occupano il sessanta percento di un mermi otto mesi del 2009, l’azienda ha consu- del celebre scatto di Benigni che solleva cato reso più selvaggio dal buffet di Intermato le riserve economiche accantonate in Berlinguer, intervistato da Stefano Ciavatta net, dove, spiega la fondatrice, “è possibile passato. In questi mesi sono stati persegui- nel bell’articolo Chiude Grazia Neri. Il foto- procurarsi qualsiasi fotografia per poco o ti fino in fondo e fino all’ultimo, ma senza giornalismo non scatta più, pubblicato dal niente, se non si cerca la qualità”. Grazia esito, tentativi di trovare un partner strate- Riformista il ventitré settembre. «Grazia Ne- Neri segue la sorte di altre celebri agenzie, ri è stata grande e solida, ma l’editoria re- come le francesi Gamma e Sygma, scomgico, un investitore del settore. «In questa situazione, con un grandissi- sta in crisi e i servizi fotografici non si ven- parse o fagocitate dalle multinazionali. È il mo dolore per la storia dell’azienda, per i di- dono. Sento voci di colleghi preoccupati, tramonto dello spirito Magnum Photos, delpendenti, i venditori e i fotografi italiani e in- perché le difficoltà dell’agenzia si fanno già le agenzie “dalla parte dei fotografi”». ternazionali, per tutti i collaboratori e gli in- sentire sulla loro agenda. I giornali chiudoNell’editoriale This is not an eulogy terlocutori di decenni, per il ruolo che si vie- no, i periodici che fecero la gloria del foto- (Questo non è un panegirico), ancora il dine a perdere di fondamentale intermedia- reportage, come Epoca e Life, non ci sono ciannove settembre, Paul Melcher, titolario culturale sulla scena internazionale, l’A- più. La fotografia viene destinata ai siti, e re di uno dei più sofisticati blog dedicati quindi la sua vita vale meno». genzia Grazia Neri ha deciso di chiudere. alla fotografia (http://blog.melchersy-
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stem.com/), rivendica: «Today, all the images published in all the magazines in the world should be credited “/Grazia Neri”. That is how much we owe them» (Oggi tutte le immagini pubblicate in tutti i giornali del mondo dovrebbero avere come credito “/Grazia Neri”. Questo a ricompensa di quanto tutti noi le dobbiamo).
LUNGO INCONTRO A TRE Dunque, un evento epocale, che riguarda molte questioni, da quella dell’informazione a quella della fotografia, a quella dei dipendenti, dei fotografi, dei concorrenti. E, non ultimo, della nostra società. Grazia Neri ci ha concesso un po’ del suo tempo, per parlare di tutto questo (e non solo), ricevendoci a casa con la consueta, squisita ospitalità. Cronaca dell’incontro di venerdì venticinque settembre. Maurizio Rebuzzini: «Un anno fa, a cena, Gianfranco Salis e Roberto Rocchi, fotografi romani di spicco, ricordavano che mentre una volta un giornale ti chiamava per affidarti un servizio su un importante argomento di cronaca, oggi ti manda a fotografare Tizio, che è arrivato quinto al Grande Fratello; dunque quinto, neanche primo». Grazia Neri, sfogliando un settimanale: «Guarda qua: Rino Gattuso e miss Italia, Giancarlo Fisichella “A ottobre mi sposo”, poi la Canalis e Clooney, va beh, nasce presto il figlio di Nicoletta Romanoff e Giorgio Pasotti. A nessuno di noi tre penso possano interessare queste notizie». Lello Piazza: «Ma è il mondo, il mondo che è stato felicemente definito di quelli famosi per essere famosi». MR: «Da snob quali siamo, abbiamo criticato le notizie dei settimanali popolari, ma adesso rimpiangiamo alcune delle cose che abbiamo biasimato. Almeno un tempo si trattava di Farah Diba e Grace Kelly». GN: «Io ho cavalcato questo mondo. Un tempo era identificato in poche star, i reali di Londra, i reali di Monaco, quelli del Belgio, qualcosa dall’America, punto. Il resto, i personaggi minori non esistevano. Adesso, questo mondo si è popolato di una miriade di personaggini, non solo dello spettacolo, ma anche di gente comune che finisce in televisione, il portiere, il macellaio, l’ortolano. Tutte persone rispettabili, per carità. «Intorno ai vip è nata una infrastruttura di gestione, composta di agenti particolari che devono guardare, dire la loro, suggerire al fotografo come scattare. Un tempo, quando programmavamo un servizio su un personaggio, bastava una telefonata; spiegavamo cosa volevamo, si
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andava, si scattava, si riguardavano le fotografie con il personaggio stesso e le si sceglievano con lui. Poi, le si davano ai giornali e finiva lì. Adesso, l’approvazione è un delirio. Poi nessun personaggio pubblico vuole più invecchiare, quindi le fotografie vanno ritoccate alla grande. È il mondo del falso totale, sul quale la mia agenzia non ha sufficiente cultura». LP: «Truman Show». GN: «È il mondo delle veline». MR: «Lello, siamo stati insieme alla presentazione della Leica M9. Il fatto che fossi seduto vicino a Davide Mengacci, e rivelassi una familiarità con lui, ha fatto sì che negozianti che, in genere, non mi rivolgono quasi parola, mi ignorano bellamente (e hanno ragioni da vendere), si avvicinassero a me, cercando un colloquio. Mai successo prima. «Se c’è Mengacci al mio fianco, divento “Ciao Maurizio, come stai?”». GN: «Ma, insomma, mi fate delle domande, o no?». LP: «Scusate, ma voi state disegnando un mondo che è sempre esistito. Quelli che mancano oggi sono i giornali di un tempo: non c’è più L’Europeo, non c’è più Il Mondo, di Pannunzio, non c’è più Epoca, non c’è più Life. Non ci sono più i giornali che svolgono il lavoro dei giornali, che danno importanza anche al reportage». GN: «Agli inizi della mia carriera, ho lavorato con il Mondo. Era interessante, ma lo trovo sovrastimato. Per esempio, tagliava le fotografie. Erano i tempi nei quali i direttori dei giornali, intellettuali, persone di grande intelligenza, sceglievano loro le fotografie (in Italia, non c’erano ancora i photo editor). L’Europeo è stato una cosa fantastica, perché ha dato assegnati a fotografi italiani di valore. Aveva un grande prestigio in Rizzoli, prestigio che crollò ai tempi Tassan Din e della P2. «Oggi, il reportage, almeno da noi, risente anche della legge sulla privacy. Non possiamo più mostrare come sono veramente gli italiani (o anche gli stranieri). Le fotografie di Berengo Gardin, di Uliano Lucas, di De Biasi non potremo vederle più. Ecco come vanno le cose: incontri qualcosa di interessante, ma prima di fotografare devi andare dai soggetti e chiedere: “mi firma il model release? Vi rimettete lì come prima?”. «Allora, è chiaro che i fotografi tendono ad andare all’estero, nel Sudest asiatico, in Africa, in Sudamerica, dove questi problemi non ci sono (ancora) e dove si può ancora fotografare la vita vera». MR: «Tu dici che il sud del mondo diventa il fotogiornalismo contemporaneo solo per questo?».
GN: «Non dico assolutamente questo, ma è chiaro che i fotografi tendono ad andare dove si può fotografare una realtà senza chiedere permessi. «Ciò non basta a risolvere il problema di produrre e riuscire a pubblicare buoni servizi. Mancano comunque i committenti. È vero che ci sono le Ong [organizzazioni non governative], ma anche queste non hanno molti soldi, e quindi gli assegnati durano troppo poco per svolgere un tema in profondità. I grandi della fotografia non pensano mai di andare in un luogo per tre giorni e ritornare con una storia ben fatta. «Quindi, riprendendo la domanda di Maurizio, anche se la causa della sparizione del reportage non è certo solo la legge sulla privacy, in Italia, e più in generale in Europa, è diventato quasi impossibile scattare fotografie di cronaca nelle quali appare la gente». MR: «Però tre giorni fa, in occasione dei funerali dei soldati italiani morti in Afghanistan, quasi tutti i giornali hanno pubblicato il ritratto di un bambino con in testa un basco militare». GN: «È un’altra cosa. È certamente un’operazione voluta; lì nessuno ti verrà mai a contestare che non avevi il model release». MR: «E neppure che contravvieni la Carta di Treviso a tutela dei minori [FOTO graphia, maggio 2009]. Come mai la legge sulla privacy viene fatta rispettare e quella sui bambini no?». LP: «Il discorso sui bambini è sempre delicato. Ieri sera, nella prima puntata della nuova serie di Annozero, si è parlato dei dipendenti di un’azienda di Roma, la Nortel, che rischiano il licenziamento. I dipendenti hanno appeso le fotografie dei loro bambini fuori dalla azienda, per denunciare il problema: fotografie di bambini per intenerire il pubblico. È una vecchia storia, trattata in molti libri di antropologia. Gli adulti utilizzano i bambini per dare importanza o credibilità ad alcune proprie manifestazioni». MR: «Ma io parlo di giornali, non di aziende o genitori». GN: «Non insisterei su questa vedova e sul suo bambino. Sui bambini dico un’altra cosa. Una fotografia di cronaca scattata in Iraq da Chris Hondros (Getty Images), di una bambina che piange davanti a un mitra spianato: una fotografia tremenda, che mi dice tantissimo, che mi dice “ma dove siamo arrivati?”. C’è una bambina con i vestiti macchiati di sangue, poi si vendono, quasi confuse col buio, le gambe di un militare americano che punta il mitra contro di lei. In questo caso è meglio che la fotografia sia pubblicata. È la fotografia che più mi ha sconvolto nella vita».
MR: «Sì, ma in quel caso la bambina non rappresenta se stessa, rappresenta qualcosa, un concetto. Il bambino di Roma rappresenta se stesso». LP: «Non sono d’accordo; ma parliamo dell’Agenzia Grazia Neri?». MR: «Decisione dolorosa?». GN: «Decisione dolorosissima. «Da due anni, ero estremamente preoccupata. Per tre fattori. «Uno. Fino a qualche tempo fa, i giornali popolari avevano spazio per le news e per il reportage. Questi giornali rappresentavano tra il quaranta e il cinquanta percento dei nostri clienti. Improvvisamente, questi giornali sono diventati cronaca di vita privata di calciatori, veline e attori, temi nei quali noi non abbiamo competenza». «Due. Tutti i giornali hanno ridotto lo spazio dedicato al reportage, tema nel quale noi siamo stati l’agenzia più selettiva, con i fotografi più importanti e con l’idea di coltivare giovani talenti. Ho l’orgoglio di pensare che alcuni giovani che hanno cominciato con me sono andati alla Magnum Photos e in altre agenzie importanti. Per esempio, Paolo Pellegrin, Alex Majoli, Zijah Gafic. Persone che hanno lavorato con me sono diventati photo editor in grandi giornali, non solo in Italia ma anche all’estero. «Tre. L’avvento di Getty Images e Corbis Images, che hanno risorse finanziarie enormi e possono vendere a prezzi bassissimi, anche in perdita, pur di conquistare il mercato. Per Bill Gates [proprietario di Corbis], le fotografie rappresentano un fatto di potere; venderle gli interessa relativamente. Gli interessa di più diventare il proprietario di originali importanti, stampe vintage, che mette in sicurezza nel fondo di una miniera, appositamente attrezzata. «Sul mercato, queste due agenzie si sono comportate in modo molto aggressivo. Prima, si sono fatte rappresentare nei diversi paesi da agenzie locali. In questo modo, hanno conosciuto il mercato, gli indirizzi di riferimento, i contatti. Poi, sono intervenuti direttamente, annullando il contratto di rappresentanza. «Hanno perseguito la politica dei prezzi bassi. Non hanno più distinto tra fotografia di autore e fotografia qualunque. Faccio un esempio: la pubblicazione della fotografia del bacio in Times Square, di Alfred Eisenstaedt, una delle più importanti della storia della fotografia, acquistata da un cliente per sessanta euro! «A queste cifre non ce la facciamo più a sostenere i costi di una organizzazione che seleziona i servizi, li prepara per la vendita, li edita per un giornale, e infine li propone. «Un altro ruolo che la nostra agenzia
ha sempre svolto è quello di garanzia. Non abbiamo mai avuto lamentele, o addirittura cause, da parte di un giornale che ci contestasse che una storia avuta da noi fosse falsa. Questo faceva parte della qualità del nostro servizio. «Con il modo di vendere le fotografie digitali (i servizi si scaricano direttamente dai siti delle agenzie o dei fotografi), nei giornali c’è un po’ più di inquietudine sulla sicurezza delle informazioni che vengono acquisite». LP: «Una domanda, a questo proposito. Siamo sicuri che nelle agenzie ci sia ancora o ci sia mai stata quella capacità che tu giustamente esalti di capire i servizi, organizzarli per il cliente e facilitargli il lavoro? Questa domanda prende spunto dalla mia esperienza professionale ad Airone, dove le proposte delle agenzie erano spesso ortogonali a quello che il giornale cercava. Ma la stessa esperienza la mutuo anche da altri colleghi che, nell’ambito del fotoreportage giornalistico, lamentano spesso che non sempre le agenzie, o i loro venditori, sanno quello che vendono». GN: «Ti sei spiegato molto bene e ti rispondo in tre punti: uno, credo che ai giornali noi abbiamo fatto un servizio che nessun altra agenzia farà più, potrà più fare; due, ogni servizio che abbiamo ricevuto dall’estero è sempre stato esaminato, per capire se fosse “degno” di pubblicazione; tre, in ogni servizio che abbiamo fatto circolare aggiungevamo una cartella che segnalava aspetti collaterali. Per esempio, dove e se lo stesso servizio era stato già pubblicato. «La crisi ha altre radici. Prima tra tutte, la massiccia quantità di fotografie che arrivano da un po’ di tempo sul mercato. Un altro problema riguarda il fatto che, nel tamburino dei giornali, i photo editor hanno una posizione invisibile rispetto a quelle occupate da chi governa e gestisce la parola scritta. E poi, chi si occupa di fotografia nei giornali (in Italia) rappresenta, a dir tanto, il due percento della redazione. Gli editori non vogliono spendere per la fotografia. È curioso: appena c’è una crisi, il primo settore nel quale gli editori si mettono a risparmiare è quello della fotografia». LP: «Come mai, nella scelta della fotografia, la qualità è, o è diventata, così poco importante? Come mai un giornale si può permettere di pubblicare fotografie acquistate negli archivi nelle quali le paga uno o due euro. Come mai a volte le fotografie pubblicate sono addirittura rubate su Internet?». GN: «In un certo senso, ha ragione l’editore. Supponiamo che cerchi una coppia di anziani che gioca a golf. Perché
dovrebbe comperare una fotografia che costa cento euro, invece di un’altra, praticamente simile, che può pagare dieci euro, rivolgendosi a un’agenzia lowcost? Quella fotografia è falsa, è una delle migliaia di fotografie di situazioni di vita più comuni realizzate con modelli, come la mamma col bambino, il bambino sul triciclo, i giovani che fanno jogging. Tutte false, tutte Truman Show». «Ricordo Gigi Visigna, un bravo direttore di un giornale popolare, TV Sorrisi e Canzoni. Quando sfogliavamo il suo giornale insieme, mi diceva: “Vedi, Grazia, nelle mie rubriche la qualità delle fotografie deve essere la stessa di quella dei servizi che pago dieci milioni (parlo di tempi passati e di milioni di lire). Perché se il mio lettore vede un personaggio, un attore, e capisce che la fotografia non è recente o che si riferisce a una situazione che non è quella descritta nella rubrica, io perdo il cliente”. Questo modo così attento e apparentemente sofisticato, questo modo che richiedeva tempo per trovare una fotografia fedele al testo, è finito». MR: «Mi togli una curiosità? Perché noi ci dibattiamo in questi problemi e il giornalismo scritto no? «Perché il giornalismo scritto ha una propria dignità, un ruolo, e non parla mai della propria crisi?». GN: «Non so perché non parla, ma anche la parola scritta è scesa moltissimo di livello. Per quel che mi riguarda, la parola scritta vive la stessa crisi della fotografia; solo che la parola scritta non arriva da un’agenzia indipendente, ma viene prodotta da giornalisti che a fine mese ricevono il proprio stipendio dagli editori; non possono mettersi a criticare se stessi, mettendo a repentaglio quello stipendio. Ci sono tanti giornalisti che sono in crisi, e tra loro se la raccontano. Ma, ripeto, la parola è prodotta da persone che non rischiano in proprio. Io ci ho messo i miei soldi, e se l’attività va male sono i miei denari che svaniscono. Quindi, sono molto più attenta e critica nei confronti di ciò che riguarda la vendita del mio prodotto. E come me, gli altri agenti e i fotografi. «Se la fotografia è in crisi, dobbiamo dircelo in fretta e scoprire perché». LP: «Io avanzerei un’altra ipotesi: si dibatte tanto sulla fotografia, perché la fotografia fa più male delle parole, è più dirompente. Chi mai si accorge se i giornalisti non usano correttamente il congiuntivo o se il pensiero che scrivono è espresso in modo semplicistico? «Però noi, qui, stiamo parlando di una crisi del mercato della fotografia, ma non
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certamente di una crisi della fotografia. Si continuano a produrre servizi eccezionali, solo che non li pubblica più nessuno. I fotografi sanno ancora fotografare; sono i giornalisti, soprattutto i giovani, che non sanno più scrivere. O, peggio, che non hanno la schiena dritta». GN: «Arriviamo al nucleo del problema: perché l’Agenzia Grazia Neri chiude? Perché non è rispettato il copyright. Evidentemente, non siamo più capaci di far rispettare il copyright. «La mia vita è stata così: 1966, nasce l’Agenzia Grazia Neri, volo in America e a Parigi; incontro persone che amano la fotografia; capisco che in Italia non è rispettato il copyright; porto il copyright in Italia; con altri, creo una associazione per l’osservanza del copyright (Gadef - Gruppo Agenzie Distributori e Fotografi); incontro gli editori per discuterne anche a fronte delle nuove leggi (ricordo, per esempio, l’estensione del diritto d’autore alla fotografia, dovuta al presidente della Repubblica Sandro Pertini). «Oggi, il copyright rischia di sparire; si possono scaricare le fotografie da Internet, il controllo sfugge. E quando ti hanno rubato una fotografia, chi ha i soldi per pagare gli avvocati e accendere cause in tribunale? Una volta, come facevano a rubarti una fotografia? Dovevano entrare nel tuo studio e sottrarti una stampa, un negativo, una diapositiva. Oggi, il tuo studio ha aperto le porte a Internet, con qualche piccola protezione, insufficiente però per evitare i furti. «Spesso, poi, le fotografie rubate vengono utilizzate sul Web da aziende che continuano a nascere e a morire. Anche avendo soldi, voglia e pazienza, chi è in grado di trovarle per trascinarle in tribunale? «Prendiamo poi il problema dei press kit, che è nato con il nascere e diffondersi delle mostre fotografiche. Quando ne mandiamo uno per promuovere una mostra, cerchiamo di rendere disponibili per la pubblicazione al massimo due fotografie. I giornali seri ci rispettano, anche perché sanno che noi controlliamo come mastini (ecco, adesso che non ci sarà più l’Agenzia Grazia Neri, mancherà anche un mastino sul mercato a difesa del copyright). Ma tanti altri giornali se ne fregano, e con le fotografie del press kit realizzano e pubblicano servizi veri e propri, magari indipendenti dalla presentazione della mostra in questione. «La mancanza di rispetto del copyright ha depresso i nostri fatturati». LP: «Non riesco a valutare come sia diviso il fatturato di un’agenzia nei diversi settori -stock, fotogiornalismo, sport, moda, personaggi-, poi ci torniamo.
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«Dedichiamo ancora un momento alle fotografie delle quali parlavi prima: la spiaggia, persone sedute al bar, fotografie di stock insomma. Una volta, si pagavano ottanta-cento euro. Oggi, da Jupiter, in condizioni particolari di abbonamento, le puoi pagare due euro». GN: «Anche questo ha a che fare con il copyright. Tutto è cominciato nel 1997, o 1998, quando capii che le due grandi aziende americane Getty Images e Corbis Images, anche grazie alle nuove tecnologie, ci avrebbero strangolati. Come cercai di impostare la difesa? Proteggendo il brand dei fotografi. Infatti, si salvano solo quei fotografi che hanno un forte brand, come la Leibovitz o Nachtwey. «E comunque anche questo spesso non basta, perché i giornali non sembrano più interessati neppure al brand: nei giornali di oggi non c’è più niente da guardare, con buona pace del pubblico che ne decreta il successo. A parte alcuni, naturalmente, come il Magazine settimanale del New York Times o il mensile tedesco Mare, che utilizzano alla perfezione gli assegnati che danno ai fotografi». MR: «Ma se hai questa chiarezza di visione, se l’avevi anche qualche anno fa, perché non hai introdotto princìpi che ti permettessero di porre un argine a una deriva che ti ha poi portata a chiudere?». GN: «Vuoi dire che avrei dovuto introdurre la vendita delle spiagge a un euro?». MR: «No, certamente no. Ma ti guardi intorno, tre piani di agenzia, i saloni, più di trenta dipendenti... con tutto il dolore e la comprensione che posso provare per loro, oggi non ti servono più. «Ma tu lo avevi capito tempo fa». GN: «È quasi impossibile licenziare i dipendenti in un’azienda delle dimensioni della mia. Ma non è solo questo. Noi avevamo un tesoro. Non esiste nessuna agenzia in Europa, e forse nel mondo, che ha un archivio di quindici milioni di fotografie analogiche. A un certo punto, nessuno ha più voluto l’analogico, quasi di colpo. «Cosa sto facendo in ufficio in questo momento? Divido le fotografie analogiche: quelle che i fotografi mi hanno concesso di dare al museo [Museo Fotografia Contemporanea, di Cinisello Balsamo, alle porte di Milano], quelle che i fotografi vogliono restituite e quelle che mi chiedono di distruggere. «Sì, forse avrei potuto cambiare la sede, accelerare la cancellazione dell’archivio analogico... «Ma lasciate che vi dica che le agenzie con una struttura simile alla mia non avranno più senso.
«Getty e Corbis continueranno, perché hanno spalle larghe, dal punto di vista finanziario; ingloberanno altre agenzie, aumentando la loro presenza sul mercato fino all’ottanta percento. Ma, oltre a queste due, le agenzie che sopravvivranno sono quelle piccole, agili, con pochissimo personale, che possono permettersi di chiudere senza danneggiare nessuno e magari riaprire con altri fotografi e con un altro nome. «Cioè, rimarrà qualcuno di nicchia. Ma le agenzie come la mia non hanno futuro». LP: «Se dovessimo dividere il tuo fatturato tra stock, fotoreportage, sport, moda, personaggi, con quali percentuali avremmo a che fare?». GN: «Premesso che il nostro fatturato è crollato del quaranta percento, l’agenzia ha tenuto sul fotoreportage, perché forse siamo i più forti in Italia sul reportage di qualità, che per noi vale un quaranta percento. C’è un settore molto artigianale, rappresentato dalla vendita di ritratti di scrittori, intellettuali, artisti, ma anche di altri personaggi, compresi i politici, che curavo io personalmente. Queste vendite di fotografie singole, sofisticate, rappresentano un altro quindici percento. Lo stock vale circa il venticinque per cento. Poi un altro dieci percento è dovuto alle collezioni, cioè a fotografie di grandi autori che rappresentiamo in esclusiva, come Gisèle Freund e Mary Ellen Mark. Poi c’è lo sport e tutto il resto». MR: «Che errori pensi di aver commesso?». GN: «Faccio errori da quando sono nata. Ho un forte senso autocritico. Gli errori sono stati di non ridurre subito lo spazio. Però, lasciami dire che molti errori sono stati sostenuti anche dalla speranza che tutto avrebbero potuto cambiare, dall’entusiasmo per il nostro lavoro, dai nuovi fotografi bravi che continuavamo a incontrare, dall’eccitazione che ci prendeva andando ai festival, Arles, Perpignan. «Certo, di errori ne avremo fatti moltissimi, sia io sia Michele. Ma è difficile esprimere un confronto tra noi e gli altri. Noi siamo e siamo stati diversi da tutti. «A un certo punto, abbiamo anche tentato di vendere. Abbiamo avuto alcune offerte, ma non sono andate in porto perché la struttura era troppo costosa». MR: «Quali errori saresti disposta a rifare e quali no?». GN: «Un errore grande è stato quello di rifiutare la rappresentanza della Magnum Photos, quando ci è stata offerta. Se non mi sbaglio, era novembre o dicembre del 1995. Dissi di no quasi per timidezza, e quello fu sicuramente un errore. Questo è
un errore che ho fatto e che non rifarei. «Gli errori che rifarei... sono invece quelli che sono profondamente connaturati con il mio essere, con quello che sono. Non mi viene in mente un esempio, ma posso certamente dire che se devo fare una scelta, deve essere totalmente coerente con il mio modo di essere, con la mia natura. Se decidendo in questo senso sbagliassi, bene, allora quello è un errore che, se mi si presentasse l’occasione, rifarei». LP: «A proposito delle tue domande sugli errori, Maurizio, lasciatemi dire una parola in difesa di Grazia, che non vorrei apparisse sotto accusa. Ti ricordo la legge di Weiler che afferma: nulla è impossibile per chi non deve farlo. Quindi, dobbiamo essere prudenti con la identificazione degli errori. «Invece, torniamo a Getty e Corbis. Proprio Corbis Images non è che vada tanto bene. Per esempio, ha appena chiuso l’ufficio di Milano e quelli che non sono stati licenziati, sono stati trasferiti d’ufficio a Londra. Poi, ha annullato tutti i contratti con i fotografi, stipulandone di nuovi che, nelle vendite, adesso prevedono il sessanta percento per l’agenzia e il quaranta percento per il fotografo [prima le proporzioni erano rispettivamente invertite: quaranta e sessanta percento]. «Le agenzie piccole, come Prospekt o TerraProject, funzionano e speriamo che continuino a funzionare: forse, in questo campo, oggi vale il vecchio motto “piccolo è bello”. Ma anche agenzie non proprio altrettanto piccole, come Contrasto, di Roberto Koch, o, in scala minore, Tips Images, di Guido Alberto Rossi, continuano a funzionare. «E poi vorrei che mi confermaste che, se i prezzi sono crollati non è perché Getty e Corbis sono cattivi, ma perché, grazie a Internet, sul mercato è arrivata una mole immensa di immagini di qualità buona e decente, facilmente disponibili. Immaginatevi, per fare un esempio, che si scopra un enorme giacimento di oro, che lo renda più comune del ferro: allora sarebbero i fabbri a vendere i preziosi e non gli orefici. «Nella ricerca delle cause della crisi di un’agenzia leggendaria come quella di Grazia Neri dovrebbe essere dato più enfasi ad altro: è la crisi della società, non solo italiana, ma mondiale, dove per mondiale si intende quella del mondo occidentale. Per l’aspetto italiano, per capire cosa sto dicendo, andate a vedere il film Videocracy. Infine, non dimentichiamo che la fotografia di alto livello rappresenta comunque un mercato limitato». GN: «Annie Leibovitz, come minimo, vende a duemilacinquecento euro a scatto».
LP: «Annie Leibovitz è sull’orlo della bancarotta...». GN: «Figurati, è molto ricca...». LP: «Ricca, ma con moltissimi debiti che non paga. Ma io, comunque, non parlavo di lei, parlavo di fotogiornalismo, parlavo di Anthony Suau...». GN: «Suau è un caso particolare...». LP: «Va beh, allora dico Kratochvil, Koudelka, Bleasdale, che riesce a sopravvivere non grazie ai giornali ma alle Ong. «Quello che temo è che, se certe agenzie come Grazia Neri non hanno più senso, allora non hanno più senso neppure certi lavori fotografici, proprio a causa di come si sono trasformati i giornali e, prima di loro o insieme a loro, si è trasformato il pubblico. La mia domanda è: in questa situazione c’è qualche via d’uscita? Ci sarà un futuro, per esempio, per la VII? O il fotogiornalismo di qualità è veramente morto? Non è una domanda che invento io: da molti anni a questa parte è il tormentone, per esempio, di Visa pour l’Image, a Perpignan». GN: «Almeno per quanto riguarda la VII, credo che la sopravvivenza sia garantita. VII è nata con il digitale, non ha sulle spalle un costoso passato di analogico, e, tutto sommato, è un’agenzia di nicchia, prestigiosa, ma di nicchia; quindi, potrà sopravvivere, magari grazie alle Ong. «Ma, alla fine, bisognerà porsi anche domande su cosa sono le Ong e quale sarà il loro futuro. A volte, si ha l’impressione che certi paesi tengano i cittadini poveri perché in questo modo riescono a ricevere, grazie alle Ong, aiuti internazionali, che poi si intascano soprattutto i pochi potenti locali. «In America, dove vengono prese le decisioni più importanti per gli aiuti ai paesi del Terzo Mondo, si ripete un meccanismo che funziona così: prima di qualche elezione importante, del presidente o di medio termine, le Ong si danno un gran da fare per mostrare come sono brave ed efficienti. In quel momento hanno bisogno di fotografie per mostrare quanta povertà ci sia nel mondo. Perciò, il loro contributo può essere importante, perché danno ai fotografi non solo un sostegno economico ma la possibilità di realizzare servizi e perfino di vincere premi nei grandi contesti internazionali. «Ma certamente non potranno mantenere il fotogiornalismo. Perché? Perché non fanno anche il lavoro di distribuzione dei servizi, che invece svolgono le agenzie. «Comunque, in generale, non mi sembra di intravedere un rimedio immediato alla crisi delle grandi agenzie e del fotoreportage. Per ora, vedo che potranno farcela tante piccole agenzie. Ma sarà sempre una lotta difficile, per frequentare i festival,
conoscere quei quattro photo editor che contano, far pubblicare un servizio, partecipare a un concorso, vincerlo...». LP: «C’è un’altra questione che vorrei proporre alla vostra attenzione: non vi sembra che i grandi giornali, per esempio italiani, si sbattono per avere un testo di Eco o di McEwan, ma non sono altrettanto interessati a pubblicare una fotografia di Nachtwey? E, per il pubblico, alla fine Nachtwey è un perfetto sconosciuto, al contrario di Eco. «Prendete le rassegna stampa radiofoniche, di ogni mattina: si cita mai il nome di un fotogiornalista che appare con le sue immagini su un giornale?». GN: «Non viene citato perché non è neppure indicato sul quotidiano. «Non so cosa sarà il futuro. Mi sembra di capire che tutte le agenzie sono in crisi. Comunque, torno a quanto affermato all’inizio. Comperate per una volta tutti i settimanali italiani, che sono certamente molti di più di quelli francesi, e sfogliateli. Capirete immediatamente il perché della crisi». MR: «Per chiudere: immaginiamo che tu sia nel 1966, con l’energia e la voglia di un’altra stagione, ma che tu sappia come andà a finire il mondo nel quale stai per entrare. «Rifaresti tutto?». GN: «Allora non avevo altre scelte; poi mi sono appassionata, ho avuto incontri straordinari. Ho intuito l’amarezza del cambiamento agli inizi degli anni Novanta, quando c’è stata la prima guerra del Golfo, quando è arrivato il digitale, quando ho sentito gli uomini di Corbis, incontrati una mattina alle sette, a colazione nel mio albergo di New York, affrontare la materia di vendita delle fotografie in modo completamente opposto al mio. «Ma sono sempre andata avanti. Perciò, tornando alla tua domanda: sì, lo rifarei. «La mia vita è stata segnata dalla morte di mio padre, quando avevo nove anni, ma per il resto è stata straordinaria e ho avuto tante gioie. Ho avuto la fortuna di vivere gli anni Sessanta, di andare a New York nel Sessantasette, di incontrare Gilles Caron nel Sessantaquattro, di entrare in una materia che non conoscevo e studiarla. Ancora oggi studio fotografia, ogni giorno». LP: «Un’ultima domanda: c’era un bello strillo dentro una cornice che avevi appesa nel tuo ufficio, e che diceva “Articolo quinto: chi ha in mano le foto[grafie] ha vinto”. È ancora vero?». GN: «Non vale più, non vale più». Così si conclude la nostra chiacchierata con Grazia Neri, una leggenda della fotografia degli ultimi quarant’anni. Lello Piazza e Maurizio Rebuzzini
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Dopo i profili d’autore di Mario Ghetti (settembre 2009) e Muky (ottobre 2009), è la volta del forlivese Gilberto Giorgetti. La nostra conoscenza, che è profonda amicizia, risale a metà degli anni Settanta. In casa Giorgetti si è sempre “respirato” l’amore per l’arte, la storia, la cultura in generale, perché da sempre è un cenacolo di artisti: pittori, scultori, poeti, musicisti, cantanti, fotografi, critici e storici dell’arte. Nonostante una malattia gli abbia impedito la deambulazione e abbia problemi gravi anche alle mani, il suo carattere di uomo intelligente, forte e sanguigno, come lo sono i romagnoli, l’ha aiutato a proseguire il suo percorso artistico e storico. Ha pubblicato una decina di libri, soprattutto di storia locale, ha collaborato con enti, istituzioni e privati all’organizzazione di eventi, ed è stato, alla fine degli anni Novanta, uno dei promotori del Gruppo Polaser. Da circa un anno è anche presidente dell’associazione artistica-culturale La Foglia, che ha ideato e fondato con l’adesione di personalità del mondo dell’arte, della cultura, del giornalismo. Nel 2000, Gilberto Giorgetti ha compilato il primo manifesto del Polaser, ProgressionInstantPhoto, e nel 2006 il secondo, Pola-Manifesto [FOTOgraphia, giugno 2006]. Non potendo utilizzare liberamente le sue mani per governare direttamente i progetti polaroid, ai quali ha sempre partecipato, utilizza le mie; quindi, ancora una volta si può affermare che l’arte non è di chi la realizza materialmente, ma di chi ha avuto l’intuizione, l’ispirazione. Il primo confronto per tutte le idee relative ai progetti e agli eventi artistici del Polaser, e non solo questo, l’ho sempre avuto con lui e con il compianto Mario Ghetti.
In un certo qual modo, potrei considerare Gilberto come il mio alterego. Per non enfatizzare o sminuire la sua figura preferisco andarlo a trovare e fargli qualche domanda. Ciao Gilberto... oggi non chiedermi di allineare i fogli che hai sulla scrivania, sovrapponendoli secondo gradazioni cromatiche, oppure ruotare tutte le biro col marchio allineato, perché oggi mi siedo e chiacchieriamo di te. Da quanti anni ti interessi di pittura? «Da quando ero ragazzino, quando mi accorsi di saper disegnare» [Gilberto Giorgetti ha sessantotto anni]. Come hai iniziato a dipingere? «Iniziai da solo, dipingendo dal vero, come autodidatta». Hai mai avuto maestri? «In principio, osservavo le pitture figurative degli artisti locali, in particolar modo quelle di Maceo Casadei, e mi appassionavano le opere dei macchiaioli. Nel 1964, a Forlì, ho conosciuto un pittore romano, Antonio Barrera, che aveva promosso la quadriennale romana e aveva partecipato a dieci Biennali di Venezia. Per cinque anni divenne praticamente il mio unico maestro». Negli anni Settanta hai allestito molte mostre, e alle inaugurazioni c’erano sempre numerosi personaggi del mondo dell’arte e dello spettacolo. Nell’ambiente artistico conosci molte personalità, in quanto casa tua è un cenacolo di artisti. Qual è stato il tuo legame con lo spettacolo? «Il legame con lo spettacolo è dovuto a mio zio Silvio Giorgetti, organizzatore di eventi musicali». A un certo punto, non trovasti più stimoli nell’arte
libro di storia locale e il successivo, realizzasti opere straordinarie, poi ancora silenzio. Perché? «Beh! Riprendendo una frase del maestro della ceramica, il faentino Carlo Zauli, “L’arte è un virus che si respira e ti rimane dentro”». Alla fine degli anni Novanta, sempre quel “qualcuno”, con il quale avevi realizzato dei diaporama e collaborato a mostre di fotografia, ti parlava della fotografia a sviluppo immediato, delle potenzialità artistiche, proponendoti anche dimostrazioni pratiche, al punto che le prime riunioni per costituire ufficialmente il Polaser si svolsero in casa tua... «A differenza di alcuni, che considerano la fotografia un’espressione fredda e meccanica, io l’ho sempre intesa come grande potenzialità d’espressione artistica. Inoltre, l’unicità della fotografia instant consente di moltiplicare le potenzialità espressive, fino a superare la pittura stessa». Come nasce l’idea del primo Manifesto, nel 2000, e del secondo, nel 2006? «A differenza della vita quotidiana, formata da regole, l’arte consente di essere anarchica, libera in senso lato, senza limiti. I Manifesti sono nati come “rottura” di schemi, basata sulla metafora futurista». Pino Valgimigli
PINO VALGIMIGLI
pittorica e iniziasti a scrivere, prediligendo la storia locale. Perché questo cambiamento? «Fino a Barrera, la mia pittura rimase figurativa, ma negli anni che lo frequentai nacque in me la passione di una pittura di ricerca, legata in modo particolare all’ambiente naturalistico, nella quale mi ponevo la domanda dell’autodistruzione dell’uomo. In seguito, giunsi al ragionamento più ovvio, ovvero alla salvezza dell’umanità solo nell’amore universale cristiano. A questo punto, non rimaneva altro che migliorarmi, come uomo e credente; avevo concluso un ciclo pittorico e non mi sentii di avviarne un altro». Verso la fine degli anni Ottanta, “qualcuno” ti ricordò il tuo percorso artistico con la tavolozza e, tra un
www.polaser.org
«La limitazione dei mezzi determina lo stile, dà vita a nuove forme e dà impulso alla creatività» Georges Braque Questa citazione dal pittore Georges Braque aiuta a comprendere lo slancio e spirito che guida e ispira gli artisti del Gruppo Polaser, eterogenei per interessi artistico-culturali e per provenienza da molte città italiane e anche dall’estero, accomunati dalla ricerca e sperimentazione di nuove possibilità espressive nelle molteplici forme dell’arte, dalla fotografia alla pittura, scultura, design, architettura, ceramica, letteratura, teatro, a altro ancora.
Diane Keaton, attrice, produttrice e regista hollywoodiana, è anche fotografa e acuta osservatrice della fotografia. Mr. Salesman è una raccolta curata nel 1993, che ripropone fotografie da manuali statunitensi per venditori, degli anni Quaranta e Cinquanta. Posture e teorizzazioni che oggi possono fare sorridere: ma il sorriso è amaro, sia per la visione di esistenze che si sono proiettate in avanti, sia per l’attualità, oltre l’apparenza formale, di concetti di vita. Come annota la curatrice, «queste fotografie possono essere considerate responsabili del caos delle nostre vite». Comunque la possiamo pensare al proposito, con infiniti distinguo individuali, un clamoroso esempio di come e quanto la Fotografia sia effettivamente l’autentico linguaggio visivo del nostro tempo
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VITA DI UN COMME
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ipende tutto dai punti di vista e riferimenti individuali. Chi si richiama al gossip, al pettegolezzo sulla vita privata dei personaggi pubblici, soprattutto quelli dello spettacolo, riconosce Diane Keaton, all’anagrafe Diane Hall, come antica compagna di vita di Woody Allen, al quale è stata legata per anni, all’inizio dei Settanta, conosciuto sul palcoscenico della commedia Provaci ancora, Sam, replicata con successo a Broadway. Successivamente, ha recitato in otto film del regista. Indipendentemente dalle cronologie, tra questi, si è soliti individuare l’apice in Io e Annie, del 1977, in originale Annie Hall (che riprende sia il vero cognome dell’attrice, sia il nomignolo attribuitole fin da piccola, in famiglia, con la quale la chiamava lo stesso Woody Allen), ritenuto da molti una trasposizione autobiografica della loro storia d’amore: premio Oscar e Golden Globe come migliore attrice protagonista; sessantesima migliore interpretazione di tutti i tempi, nella classifica delle prime cento, stilata nel 2006 dalla prestigiosa e autorevole rivista statunitense Premiere. Quindi, come è fin scontato, per molti altri, tutti per il vero, Diane Keaton è un’attrice cinematografica (tra l’altro nel cast della saga del Padrino), e qualcuno sa persino che, a complemento, è anche produttrice e regista, soprattutto televisiva. Non è un’attrice di fila, una comparsa, ma, come puntualizzato dal giornalismo che ne sa, è una delle attrici più influenti di Hollywood.
Evidentemente, Vita di un commesso viaggiatore, titolo con il quale richiamiamo la monografia Mr. Salesman, curata da Diane Keaton, riprende l’originario Morte di un commesso viaggiatore ( Death of a Salesman, del 1949), sicuramente il testo più conosciuto dell’opera letteraria di Arthur Miller. Considerata uno dei più importanti drammi del teatro contemporaneo statunitense, con interpretazioni che ne hanno cadenzato la storia, e successive trasposizioni cinematografiche, la narrazione affronta i temi del conflitto familiare, della critica al Sogno Americano e della responsabilità morale dell’individuo, che anche Diane Keaton richiama e sottolinea nella e con la sua raccolta fotografica Mr. Salesman.
CON LA FOTOGRAFIA A seguire, Diane Keaton è anche fotografa, sulle orme della madre Dorothy Keaton (dalla quale il nome d’arte adottato, in vece del cognome anagrafico Hall, del padre Jack), fotografa negli anni Cinquanta e Sessanta. Ovviamente, date le esperienze e maturazioni culturali, Diane Keaton non è fotografa con riferimenti e richiami al mercato professionale, quanto all’esplorazione del linguaggio. Tanto che è obbligatorio richiamare una sua valutazione, ripresa da uno dei suoi tanti testi di riflessione, ai quali stiamo per riferirci: «La permanenza può trovarsi solo nell’immortalità promessa dai risultati dello scatto di una macchina fotografica», ha rilevato; aggiungendo poi «che piaccia o no, la vita si muove velocemente, a differenza della fotografia». Da qui, è necessario sottolineare come e quanto la fotografia svolga un ruolo centrale nella vita di Diane Keaton, che ha pubblicato fascinose monografie con sue immagini: California Romantica (Random House, 2007) e Reservations (Knopf, 1980), entrambe sul valore di conservare i segni del tempo nell’architettura e nella vita. Attenzione: tra tanto altro ancora, Diane Keaton è anche atti-
ESSO VIAGGIATORE
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Mr. Salesman; a cura di Diane Keaton; Twin Palms Publishers, 1993; 50 fotografie in bianconero; 96 pagine 23x18cm, cartonato con sovraccoperta; 50,00 dollari.
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vista della Los Angeles Conservancy, per la difesa dei siti storici della grande architettura americana. Ma, soprattutto, oltre a essere fotografa, Diane Keaton è una acuta osservatrice della fotografia altrui. Nella sua vita ha collezionato migliaia di fotografie di vario genere, tra le quali molte di personaggi che l’hanno incuriosita per le espressioni dei volti, per l’abbigliamento e per il rapporto che hanno stabilito nelle immagini, probabilmente vicino oppure distante dalla realtà della vita di tutti i giorni. Per lo più, si tratta di fotografie in posa, tra le quali spiccano quelle di commessi viaggiatori, star del cinema e clown di circhi minori. Tralasciamo per ora la prima di queste tre categorie, che è soggetto principale del nostro attuale interessamento, sul quale arriviamo più avanti, per liquidare subito le altre due, raccolte in monografie illustrate che Diane Keaton ha curato assieme a Marvin Heiferman, docente presso il prestigioso International Center of Photography, di New York:
Still Life (Callaway, 1983), raccolta di fotografie pubblicitarie e promozionali anacronistiche del cinema hollywoodiano degli anni Quaranta e Cinquanta; Clown Paintings (PowerHouse Cultural Entertainment, 2002), osservazione complice di un mondo parallelo, che si incrocia con la realtà secondo tempi e programmi prestabiliti. Ancora in anticipo sulla meta che ci siamo prefissi, e a completamento della personalità di Diane Keaton curatrice fotografica, va ricordato almeno un altro titolo significativo e di spessore: Local News: Tabloid Pictures from the Los Angeles Herald Express 1936-1961 (Lookout PowerHouse, 1999), straordinaria selezione di fotografie di cronaca nera, riferimento privilegiato della fotografia giudiziaria e antropologica dei nostri tempi. E poi, ci sono ancora introduzioni e postfazioni a monografie d’autore; sopra tutte: Los Angeles, di Tim Street-Porter (Random House, 2008) e The Photographs of Ron Galella 1965-1989 (Greybull Press, 2003).
MR. SALESMAN Realizzato e pubblicato nel 1993, lucrosamente quotato nell’ambito dei titoli in qualche modo antiquari (quattromila copie di tiratura originaria), Mr. Salesman è forse una delle più inquietanti raccolte fotografiche curate da Diane Keaton, che ha conservato inalterato il proprio smalto originario, destinato a rimanere tale, proiettandosi in avanti nei decenni. Da una parte, si colloca a pieno diritto nella vi-
sione della fotografia che definisce la personalità dell’attrice, qui in veste di esperta curatrice fotografica. Dall’altra, stabilisce un punto fermo, irremovibile dei tempi e modi che le immagini raccontano. Del resto, come la stessa Diane Keaton precisa, autentico linguaggio visivo del Novecento (lo diciamo noi), la fotografia svolge un ruolo discriminante nella società moderna, nella quale ciascuno può essere dimenticato, e ogni esistenza può rivelarsi niente altro che la messa in scena di una sceneggiatura priva di senso: quello che rimane alla fine di una vita, di ogni vita, sono le immagini “eternate”, molto spesso inconsapevolmente. Per questo, Diane Keaton rileva come sia necessario essere sinceri sia con la propria immagine sia con la propria realtà più intima. In raffinata forma editoriale attuale, altresì impreziosita da intenzioni esplicite e manifeste, con cadenza addirittura ossessiva, le pagine di Mr. Salesman riuniscono e propongono fotografie di commessi viaggiatori degli anni Quaranta e Cinquanta, originariamente realizzate per manuali guida e di comportamento della Jam Handy Organization, fondata nel 1911 da Henry Jamison “Jam” Handy, uno dei vertici del marketing statunitense del Novecento. Dall’introduzione di Diane Keaton: «Qualche cosa, nelle loro facce spente, nella loro figura in piedi, quasi in secondo piano rispetto gli ambitissimi oggetti che vendevano, mi hanno suscitato una profonda tristezza». Certo, ne concordiamo, è una tristezza anche
anagrafica, definita dalla retrovisione a un mondo e comportamenti codificati che identificano un’epoca lontana, magari triste nella propria spasmodica ricerca di felicità effimere (sollecitate dal possesso e dalla esibizione di oggetti). Al giorno d’oggi, il commercio non si spinge a tanto, pur stabilendo analoghi stili di comportamento e producendo stereotipi simili (archetipi?). Apparentemente più brillanti di chi li ha temporalmente preceduti, gli attuali agenti commerciali non sono diversi dai nonni americani, riuniti in Mr. Salesman: i loro attuali riti e le loro posture brillanti, che appaiono disinvolte, replicano inviolabilmente sapori antichi e tristezze senza tempo (e sappiamo bene di cosa stiamo parlando, avendo ben presenti molti esempi italiani dei nostri giorni, distinti in tante sfumature regionali e di mercato, ma uniti in unico minimo comun denominatore inviolabilmente grottesco). Così che, Mr. Salesman è una raccolta confortante: utile a chi ne voglia individuare la stretta attualità,
«Il Signor Rappresentante fissa con tale intensità da sotto in su l’atrofico vivere all’interno dei confini del Sogno Americano, che è difficile non attribuirgli più di ciò che si intendeva. È difficile non coglierne lo sguardo totalmente inespressivo senza rabbrividire per l’oscura frustrazione che è lì, in attesa di esplodere».
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Mr. Salesman, a cura di Diane Keaton, schematizza e ufficializza i codici formali ed esteriori del bravo commesso viaggiatore, quello che avrebbe ottenuto i migliori risultati andando di casa in casa, suonando alla porta di potenziali clienti, ai quali offrire le proprie mercanzie. Le migliori tecniche di vendita erano spiegate in manuali e corsi di istruzione basati su visualizzazioni fotografiche esplicative, di volta in volta corredate di cifre all’interno di grafici a torta perfettamente disegnati. Sopra tutto, e inviolabilmente, i polsini della camicia avrebbero dovuto fuoriuscire esattamente di un pollice e mezzo dalla giacca a tre bottoni.
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tranquillizzante per coloro i quali pensano di prendere le distanze con il passato. Ciascuno la può interpretare a proprio modo e convenienza, e il risultato non cambia: (riprendiamo quanto già annotato) sincerità sia con la propria immagine e sia con la propria realtà più intima. E la sincerità, diciamolo chiaramente e riconosciamolo, è un’esercizio individuale della mente: ciascuno risponde alla propria idea e ipotesi di sincerità, mai oggettiva, sempre soggettiva. Ancora con Diane Keaton, che racconta del passato, ma rivela il presente: «Quelli erano i tempi nei quali tutti credevano che le contraddizioni esistenziali potessero essere superate possedendo un televisore Rca Victor Console, una lavatrice e un’asciugatrice Philco, una piscina Blue Boy. Per qualche strano motivo, queste fotografie mi hanno rievocato tutti quegli elettrodomestici e quelle cose di pregio alle quali si ambiva» [a proposito, tra le pieghe della sceneggiatura del cinematografico Mona Lisa Smile, di Mike Newell, del 2003, i sogni di “appagante” vita coniugale della provincia conservatrice americana degli anni Cinquanta sono definiti proprio da questa visione esistenziale, per la quale una sposina convoca un’amica fotografa, che con una Rolleiflex la ritrae sorridente accanto tutti i suoi elettrodomestici, uno dopo l’altro in sequenza perfino inquietante].
RISO AMARO Mr. Salesman schematizza e ufficializza i codici formali ed esteriori del bravo commesso viaggiatore, quello che avrebbe ottenuto i migliori risultati andando di casa in casa, suonando alla porta di potenziali clienti, ai quali offrire le proprie mercanzie. Le migliori tecniche di vendita erano spiegate in manuali e corsi di istruzione basati su visualizzazioni fotografiche esplicative, di volta in volta corredate di cifre all’interno di grafici a torta perfettamente disegnati. Sopra tutto, e inviolabilmente, i polsini della camicia avrebbero dovuto fuoriuscire esattamente di un pollice e mezzo dalla giacca a tre bottoni. Conclusione, ancora dall’attenta introduzione di
Diane Keaton: «È importante tenere presente che le fotografie di quei manuali di vendita erano concepite come strumenti di marketing per alcuni prodotti ed erano state scattate con l’intento principale di allenare i rappresentanti di commercio a conoscere quelli che avrebbero venduto. «Il signor Handy, autore del metodo di vendita Jam Handy, non avrebbe mai potuto immaginare un futuro nel quale queste fotografie sarebbero state considerate responsabili del caos delle nostre vite. Sfortunatamente, però, il Signor Rappresentante fissa con tale intensità da sotto in su l’atrofico vivere all’interno dei confini del Sogno Americano, che è difficile non attribuirgli più di ciò che si intendeva. È difficile non coglierne lo sguardo totalmente inespressivo senza rabbrividire per l’oscura frustrazione che è lì, in attesa di esplodere». Diavolo, quanta attualità con gli agenti di vendita dei nostri giorni, che peraltro non vanno certamente più di porta in porta, ma da negozio a negozio, trascinano comunque il fardello di una colpevole insolenza di intenti e intenzioni. Ancora Diane Keaton: «A ripensarci, queste immagini sono un trattato, un manuale su come perdere la propria anima. A prima vista, avevo pensato che fossero buffe, perché gli strumenti connessi alle vendite -quali cartine, grafici, valigette e diagrammi- hanno quasi più personalità degli uomini. «È stato quando ho smesso di sorridere che mi ha colpito la risoluta assenza di reazione del Signor Rappresentante a qualsiasi emozione. Ed è stato allora che qualcosa ha iniziato a rodermi dentro. È allora che mi sono intristita. È allora che ho deciso di compensare quella tristezza imbevendo quelle immagini del mio immaginario sentimentale». Grazie, Diane Keaton. Ti siamo grati per questa visione e per la chiarezza con la quale l’hai presentata. Tanto siamo coscienti che la fotografia sia prepotentemente uno degli elementi della vita dei nostri tempi, sapremo fare prezioso tesoro di questa lezione, che non si esaurisce nella propria manifestazione apparente, il mondo della vendita commerciale americana dei decenni scorsi, ma approda a ben altre essenze. La vita è qui, e ora. Maurizio Rebuzzini
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CONFLITTO INEVITABILE Foglia di salvia in ingrandimento consistente. L’apertura ottimale di diaframma -f/16 sulla focale macro 60mmha evitato la diffrazione. Ovviamente, la profondità di campo è relativa. Ma la macrofotografia può essere anche questo: evocazione, anima e non necessariamente nitidezza a tutto campo.
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emuta dai fotografi che si dedicano alla macrofotografia, la diffrazione è un fenomeno ottico del quale non si può non tenere conto: in certe condizioni è inevitabile. Ma cosa è la diffrazione? e perché affligge soprattutto la macrofotografia? Tralasciamo le sue definizioni teoriche e accademiche: ci basti sapere che si tratta di qualcosa che compro-
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mette la qualità ottimale della ripresa fotografica. Prima di addentrarci in tematiche tecniche che coinvolgono la fisica e la natura ondulatoria della luce, che magari lasceremo anche stare, esaminiamo il problema nei propri aspetti pratici. Anzitutto, per effetto della diffrazione, che è un fenomeno ottico sovrastante, la fotografia presenta un calo di nitidezza e contrasto che coinvolge tutto il
Affrontando la combinazione tra diffrazione e macrofotografia, le condizioni tecniche sono ineluttabili e prestabilite, tanto che, il richiamo del titolo avrebbe potuto tranquillamente essere anche “missione impossibile”, piuttosto che “equilibrio difficile”. Cioè, e nel concreto, praticando la macrofotografia, prima o poi ci si imbatte nella diffrazione, fenomeno che comporta un evidente scadimento qualitativo delle immagini. La diffrazione è originata da valori chiusi di diaframma e dalla natura ondulatoria della luce. Considerazioni di un esperto
fotogramma, ossia tutta l’area dell’immagine, sia scattando su pellicola fotosensibile, sia in acquisizione digitale. Secondariamente, la diffrazione insorge quando il diaframma viene chiuso oltre una certa misura, oltre un certo valore oggettivamente limite (chi ha frequentato la fotografia grande formato, con apparecchi a banco ottico piuttosto che folding, a base ribaltabile, potrebbe ricordare come tutte le condizioni ottimali di uso degli obiettivi fossero sempre riferite all’apertura f/22 del diaframma, anche per scale che vanno ben oltre: al quale valore, prima che insorgano difetti ottici secondari, quali la diffrazione, si ha la massima nitidezza e qualità, combinate con il più ampio angolo di campo e cerchio immagine corrispondente). Se analizziamo i grafici relativi alla nitidezza degli obiettivi per fotografia 35mm, e corrispondente allungamento sull’acquisizione digitale di immagini con apparecchi reflex, che vengono pubblicati da riviste di fotografia tecnicamente indirizzate, oppure diffusi da laboratori di analisi specializzati, notiamo che in genere la nitidezza (MTF / Modulation Transfer Function) sale dai diaframmi più aperti fino a quelli intermedi, intorno a f/5,6 o f/8, per poi scendere inesorabilmente a mano a mano che i valori di diaframma si restringono ancora. Per l’appunto, al culmine delle correzioni ottiche possibili, che vengono delegate alla regolazione di diaframmi più chiusi rispetto l’apertura relativa dei singoli obiettivi, questo calo di nitidezza e contrasto è determinato proprio dalla diffrazione. La diffrazione si evidenzia quando il diaframma è chiuso oltre un certo valore, che dipende prima di tutto dal progetto dello stesso obiettivo, ma anche, in subordine, dalla lunghezza focale e dalla sua apertura massima, oltre che -in assoluto- dalla lunghezza d’onda della luce. Ovverosia, da condizioni soggettive e da princìpi ottici inviolabili. Quindi, essendo un fenomeno ottico connesso soprattutto alla luce e all’apertura del diaframma, la diffrazione non è completamente neutralizzabile: è e rimane una imperfezione in forma fotografica con la quale si deve imparare a convivere.
Macro 60mm, f/5,6
Macro 60mm, f/22
Una banconota è disposta parallelamente al piano focale. Il primo confronto accosta tra loro due riprese fotografiche campione, entrambe realizzate con un obiettivo 60mm, a disegno macro. Non ci sono problemi di profondità di campo, e il raffronto riguarda soltanto il sopraggiungere della diffrazione, con quanto comporta in scadimento qualitativo della ripresa: al diaframma f/5,6 è evidente la granulosità realistica sulla superficie della carta, che praticamente sparisce a f/22. Allo stesso diaframma chiuso, appunto a causa della diffrazione, che compromette la nitidezza ottimale, anche le cifre all’interno del disegno a stella sono decisamente poco nitide, come pure le barre rosse, in alto a sinistra.
RIDURRE AL MINIMO Allora: chiudere il diaframma. Già, ma quanto? E poi, perché la diffrazione affligge in modo particolare la macrofotografia? Semplicemente perché nella fotografia a distanza ravvicinata è indispensabile impostare i valori più chiusi di diaframma, per guadagnare quanto più possibile in profondità di campo. Infatti, se nella fotografia “normale”, magari con obiettivi grandangolari, non è necessario diaframmare molto per avere tutto a fuoco, e con i teleobiettivi si tende a regolare valori aperti di diaframma per isolare il soggetto a fuoco dallo sfondo sfocato, oltre che per poter combinate tempi di otturazione brevi, nella macrofotografia la profondità di campo è ridotta a qualche millimetro, e spesso non è nemmeno sufficiente per avere completamente a fuoco l’intero soggetto inquadrato. L’estensione della profondità di campo dipende
Macro 60mm, f/16
da due fattori: rapporto di riproduzione (ossia distanza di messa a fuoco, tenendo conto della focale) e valore di diaframma. La lunghezza focale conta poco: a parità di fattore di ingrandimento e diaframma, la profondità di campo è pressoché identica con ogni disegno ottico, dalla costruzione ottica grandangolare a quella tele. Questo non significa che le relative focali siano intercambiabili:
Dal diaframma f/22, in apertura a f/16 si evita la diffrazione. Clamoroso: un valore più aperto di diaframma è sufficiente per riportare la nitidezza su valori più elevati.
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più il valore di diaframma utilizzabile si riduce: insomma, la profondità di campo rimane sempre scarsa, e non sempre sufficiente a una nitidezza ottimale estesa a tutto il soggetto inquadrato. È per questo che ci si deve ingegnare nel disporre il soggetto o il punto di vista (di ripresa) in modo da poter sfruttare a dovere, e al meglio, i pochi millimetri di fuoco disponibili. Tra parentesi, in condizioni analoghe, ovvero scarsa profondità di campo in relazione al rapporto del soggetto inquadrato sul vetro smerigliato, nel caso della fotografia grande formato si ricorre alla combinazione ragionata dei piani principali dell’apparecchio: anteriore porta obiettivo e posteriore focale. In generale, l’alterazione consapevole e guidata del parallelismo originario è appunto finalizzata alla distribuzione della nitidezza conseguente, secondo princìpi ottici-geometrici riscontrabili in relazione alla distribuzione volumetrica del soggetto stesso. Macro 180mm, f/5,6
Macro 180mm, f/22
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CONDIZIONI DEDICATE
a parità di inquadratura, un teleobiettivo consente di rimanere a maggior distanza dal soggetto, ma per contro richiede un tiraggio maggiore; con un obiettivo grandangolare è esattamente l’opposto. In macrofotografia, la profondità di campo non basta mai, perché il rapporto di riproduzione è molto alto: generalmente esordisce da un rapporto di almeno 1:2 (uno-a-due: il soggetto è due volte più grande della sua immagine proiettata dall’obiettivo sul piano focale). Quindi, è logico e indispensabile chiudere il diaframma; ma oltre un certo valore c’è il rischio di incorrere nel fenomeno della diffrazione. Tra l’altro, a complicare ulteriormente le condizioni operative della ripresa fotografica a distanza ravvicinata, più il rapporto di riproduzione cresce (1:1, al naturale, e oltre, in ingrandimento del soggetto),
DANIELE DELLA MATTIA (2)
Nelle medesime condizioni del primo confronto tra i diaframmi f/5,6 e f/22 di un obiettivo macro 60mm, al quale ha fatto seguito la soluzione ottimale (diaframma f/16; pagina precedente), la stessa banconota è disposta ancora parallelamente al piano focale. In questo caso si accostano tra loro due fotografie campione, entrambe realizzate con un obiettivo macro 180mm. Ancora, non ci sono problematiche di profondità di campo, e il raffronto riguarda soltanto la resa qualitativa della ripresa. A differenza della precedente combinazione 60mm, in questo caso l’analoga coppia di fotografie eseguite a diaframma f/5,6 e f/22 rivela un calo di nitidezza decisamente più contenuto tra i due valori, a testimonianza dell’ottima qualità dell’obiettivo, che può essere appunto usato a f/22.
In linea di massima, gli obiettivi macro sono calcolati e disegnati per affrontare al meglio le condizioni ottiche della ripresa a distanza ravvicinata. Cioè, reggono bene ai diaframmi più chiusi. Però, anche se consentono di raggiungere valori di f/22 o f/32, in genere, al rapporto di riproduzione 1:2, spingersi oltre f/11 o f/16 non comporta risultati migliori. E il valore di diaframma deve essere poi proporzionalmente ridotto mano a mano che si incrementa il rapporto di riproduzione. Addirittura, con obiettivi di corta focale, come certi macro specialistici (nell’ordine di 15 o 20mm di focale), utilizzati con un soffietto, oppure con una prolunga meccanica al tiraggio al piano focale, che consentono la messa a fuoco a distanze sistematicamente ravvicinate, non è possibile diaframmare più di tanto. Per l’appunto, su questi obiettivi non sono nemmeno presenti i valori di diaframma oltre f/16, in quanto sarebbero inutilizzabili, sempre a causa della diffrazione. E allora, si chiederà qualcuno, certe belle fotografie ottenute al microscopio con ingrandimenti eccezionali e una profondità di campo elevata, come sono state ottenute? Con il microscopio a scansione, che non usa la luce visibile con tutti i suoi limiti, bensì fasci di elettroni. Ma questa è un’altra storia, che esula dalla macrofotografia. Invece, tornando a noi, come si fa a stabilire qual è il valore di diaframma oltre il quale non conviene spingersi? Noi ci abbiamo provato in modo empirico, ma indicativo, fotografando una banconota, che ha una texture molto definita che si presta bene allo scopo [qui accanto e alla pagina precedente]. Ma anche una semplice foglia di salvia tenuta parallela al piano focale assolve bene il compito [a pagina 40]. Facendo questa semplice prova, chiunque è in grado di stabilire con sufficiente precisione quanto conviene chiudere il diaframma con la propria attrezzatura e qual è il livello di nitidezza che ritiene accettabile. Daniele Della Mattia
Vincent van Cölln: ovviamente Vincent van Gogh (è facile).
Mer loose d’r Dom im Stadion: trasformazione di un campo di calcio.
... für den Dom danach: manco a dirlo, sigarette Camel.
Senza titolo: Monument Valley.
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utto è relativo. Declinare Colonia in termini di città di buon richiamo turistico potrebbe essere considerato troppo, e fuori luogo, da chi considera soltanto riferimenti di livello superiore, stratosfericamente superiore: pensiamo soprattutto alle città d’arte italiane, Venezia, Firenze e Roma, ma anche a tanti altri luoghi, disseminati su tutto il nostro martoriato territorio. In effetti, Colonia non ha molto da offrire, anche se quel poco che ha lo offre bene, con garbo e cura e con un gradevole e gradito senso dell’ospitalità. I suoi musei sono di prim’ordine, a partire dall’immancabile Ludwig Museum, che sta a due passi dal Duomo, incontrastato simbolo della città, ne
stiamo per riferire, e straordinario indirizzo della cristianità. Rasa al suolo dai massicci bombardamenti dell’aviazione alleata durante la Seconda guerra mondiale, come hanno documentato le avvincenti fotografie di Karl Hugo Schmölz, offerte al pubblico nei giorni della Photokina 2006 (FOTOgraphia, febbraio 2007), Colonia è stata ricostruita con partico-
Riproposta in chiave redazionale e giornalistica del capitolo conclusivo del lungo percorso di Alla Photokina e ritorno, pubblicato in cronaca alla fine dello scorso anno e scandito da richiami e riferimenti che non si sono limitati al solo svolgimento dell’importante e imponente Fiera tedesca della fotografia, con intendimento internazionale. Tredicesimo capitolo di un tragitto che ha offerto riflessioni, osservazioni e commenti sulla Fotografia, proponendo soprattutto spunti utili e proficui sia al comparto tecnico-commerciale sia al mondo della fotografia espressiva e creativa. Fascinosa personalità di una edizione di cartoline illustrate di Colonia, che l’editore Thierhoff City Verlag declina sul sottile filo di raffinate evocazioni
SALUTI DA COLONIA
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Senza titolo: omaggio all’illustrazione di New York, di Saul Steinberg, per The New Yorker del 29 marzo 1976. Zu Fuß nach Kölle jon: Viandante sul mare di nebbia, di Caspar David Friedrich.
lare cura, equamente scomposta tra il benessere sociale dei propri abitanti e la ricettività dei visitatori (sistematicamente richiamati anche dal fitto, intenso e intelligente programma della Koelnmesse). In tutti i casi, il riferimento principale della città è proprio il Duomo gotico, che ne sta all’esatto centro geometrico, affacciandosi sulle rive del Reno. Architettonicamente affascinante, religiosamente austero, il Duomo è altresì impreziosito da una consistente Tesoreria e da infiniti minuziosi richiami d’arte e culto. Non è il caso dilungarsi, anche perché ormai non mancano le fonti di approfondimento individuale, tutte facilmente accessibili in Rete. Soltanto, occorre annotare l’evidente e superba architettura della facciata occidentale, con i due campanili simmetrici all’ingresso principale, le cui cime svettano imperiose sulla città, che guardano e controllano dall’alto.
ICONOGRAFIA DI ALTO PROFILO Proprio la personalità della facciata occidentale del Duomo gotico di Colonia rappresenta il simbolo riconosciuto e riconoscibile della città. È riprodotta su tutti i souvenir, molti dei quali di ovvio cattivo gusto, come sanno esserlo tutti i souvenir turistici, anche quelli con retrogusto religioso: siamo sinceri, senza soluzione di continuità, da Città del Vatica-
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no al teatrino di Padre Pio (San Pio da Pietrelcina), passando attraversando altri indirizzi ormai minori, quale può essere considerato il pellegrinaggio a Sotto il Monte, in provincia di Bergamo, il paese natale di papa Giovanni XXIII, c’è di che raccogliere materiale per uno smisurato Museo degli orrori. Tra tante produzioni di cattivo e pessimo gusto, tra tanta paccottiglia per turisti di bocca buona, si alza imperiosa la personalità di una serie di cartoline di Colonia, pubblicate da Thierhoff City Verlag, che utilizza l’inconfondibile silhouette della facciata occidentale del Duomo gotico di Colonia, con la stilizzazione dei suoi due alti campanili, anche come proprio logotipo aziendale (www.thierhoffcityverlag.de). Alla maniera dei soggetti delle campagne della vodka Absolut, genialmente inventate e declinate dall’agenzia statunitense Tbwa, l’edizione turistica di Thierhoff City Verlag interpreta il simbolo di Colonia, via via riferendolo a una identificata serie di richiami avvincenti. In allineamento con le combinazioni Absolut, che nell’inevitabile paragone nulla tolgono all’originalità del Duomo di Colonia elaborato in cartolina da Thierhoff City Verlag, anche queste interpretazioni turistiche sono selettive: occorre ammetterlo e riconoscerlo. In definitiva, come rivelano anche gli esempi riuniti in queste pagine (a campione di un insieme ricco di una cinquantina di soggetti totali, che crescono mese dopo mese), questi Saluti da Colonia puntano e si rivolgono a un target medio-alto, intellettualmente curioso e intelligentemente ironico. Alla maniera di iniziative promozionali analogamente realizzate -sopra tutti citiamo le affascinanti edizioni dell’italiana Promocard, leader di settore (www.promocard.it)-, tanta sorprendente efficacia ha portato a una sorta di collezionismo dei tanti soggetti, e ogni nuova uscita viene attesa con trepidante impazienza. Attivata da Thierhoff City Verlag con intelligenza
e gentilezza fuori dal comune, la combinazione visiva con l’inconfondibile richiamo del Duomo di Colonia si offre ai potenziali clienti (turisti certamente raffinati) attraverso un sottile gioco di allusioni e rimandi, un’intesa intellettuale che a volte oltrepassa i confini delle conoscenze di una persona di cultura media, per spingersi fino ad ambiti indubbiamente rischiosi (dal punto di vista della redditività di impresa, si intende). Nel mondo della comunicazione verso il largo pubblico, che ormai segue e persegue soprattutto l’imperativo del cambiamento continuo, della novità a tutti i costi, del tono di voce alto e insolente (almeno da noi, in Italia), è notevole anche la costanza e perseveranza di questa edizione, che i visitatori internazionali della Photokina hanno sotto gli occhi da tempo (ammesso che se ne siano accorti). Si tratta di una longevità che è sicuramente effetto dell’efficacia: anche con la sollecita complicità di questa raffinata produzione, il turismo di Colonia si sta alzando di tono, andando a soddisfare profili sistematicamente crescenti, edificati sul richiamo di appuntamenti eccezionalmente educativi e coinvolgenti (quali sono stati anche i programmi coincidenti di Internationale Photoszene Köln e :kölnfotografiert’ 08, a contorno della recente Photokina 2008 [specificamente analizzati e commentati nel capitolo La città coinvolta, il quinto dei tredici, più uno aggiunto, di Alla Photokina e ritorno, lettura edificante per chi si occupa di fotografia]). Compito primario dell’edizione di queste cartoline è quello di stravolgere l’immaginario turistico nei confronti di Colonia, identificata dall’inconfondibile silhouette del proprio Duomo gotico e/o dalla sua architettura. Ed è un compito che viene svolto con una creatività continua e progressiva, ma anche con controllo e rigore, per non cadere nella banalità o nell’eccesso, per non abbassare il tono, per non cedere a facilonerie di maniera.
Träumerei: nuvola in cielo, che altro. Senza titolo: geroglifico egizio.
MA QUANTI BEI SOGGETTI! Di fatto, nelle particolari e affascinanti cartoline pubblicate e distribuite da Thierhoff City Verlag, raramente il Duomo di Colonia appare in quanto tale; in generale, ne è sempre interpretata la personalità a tutti nota, tanto da essere immediatamente riconoscibile, sia in trasformazione stilizzata sia in stravolgimento volontario del reale. I soggetti sono eccezionalmente eterogenei: con estrema disinvoltura, passano dalla colta citazione d’arte al più popolare
Cöllefornia Dreaming: sognando California.
Arrivederci alla Photokina 2010: errata corrige. Alla conclusione del tredicesimo capitolo di Alla Photokina e ritorno, l’ultimo del lungo percorso, immediatamente precedente quello aggiuntivo di decodifica delle citazioni-sommario di tutti (i capitoli), riportammo l’invito alla prossima edizione della Photokina 2010, specificandone le date dal ventotto settembre al tre ottobre, comunicate dall’ente organizzatore. Recentemente, è arrivata una rettifica. La prossima Photokina 2010 è stata anticipata di una settimana: si svolgerà da martedì ventuno a domenica ventisei settembre.
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Pop Art Dom: da Campbell’s Tomato Soup, di Andy Warhol. Message in a Bottle... from Cologne: messaggio in una bottiglia.
Kölsch-Dom: la birra di Colonia nei tipici bicchieri stretti.
richiamo calcistico, dall’altisonante evocazione geografica a riferimenti apparentemente terra-a-terra, dalle icone del cinema a una surrealtà disarmante, dall’alterazione della realtà all’omaggio a culti visivi, dall’abbondante e ridondante al minimale. Da-a tanto altro ancora. In ogni caso, il motivo conduttore è presto rivelato: stuzzicare l’intelligenza del pubblico e rivolgersi a interlocutori di buona cultura, richiamati e sollecitati da soggetti divertenti, oltre che stimolanti. I casi sono tanti, tutti forse. A palpitante testimonianza dell’insieme comples-
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sivo, valgano gli esempi significativi riuniti in queste pagine in sequenza assolutamente alternata e casuale (ma non è proprio così; anzi è vero l’esatto contrario: con chiusura ricercata e volontaria sulla birra Kölsch, tipica e caratteristica di Colonia, e i suoi inconfondibili bicchieri alti e stretti; del resto, occorre sottolinearlo, tra le pagine di FOTOgraphia, nulla -non soltanto poco- è casuale). In riferimento alle illustrazioni pubblicate da pagina 44: una evocazione della pittura di Vincent van Gogh; il campo di calcio con al centro le linee stilizzate del Duomo; l’architettura del Duomo sull’inconfondibile pacchetto di sigarette Camel/Cologne (a propria volta autentica icona); reinterpretazione della Monument Valley; l’omaggio alla celebre illustrazione di Saul Steinberg, copertina del The New Yorker del 29 marzo 1976, in originale riferita a New York centro del pianeta, qui intelligentemente riconvertita in Köln verso il mondo (a proposito, per definire la propria pittura, Saul Steinberg è stato addirittura candido: «Sono tra i pochi che continuano a disegnare dopo la fine dell’infanzia, persistendo a perfezionare i tratti infantili, senza le tradizionali interruzioni accademiche»); la trasformazione romantica del paesaggio urbano, che dalle arcate dell’Hohenzollernbrücke, ferroviario e pedonale, arriva proprio al Duomo (citazione esplicita del Viandante sul mare di nebbia, di Caspar David Friedrich, una delle icone della pittura di tutti i tempi); nuvole in cielo, peraltro banalotte; la parodia di un geroglifico egizio, entro il quale compare una stilizzazione adeguatamente disposta del Duomo; sognando California; il barattolo caratteristico di Cologne’s Domato Soup (dall’originaria opera Campbell’s Tomato Soup, di Andy Warhol); messaggio in una bottiglia; i campanili gemelli del Duomo riconvertiti in due bicchieri di birra locale (Kölsch). Un sogno, infine, e appena prima di concludere: che l’edizione di questi Saluti da Colonia, così li abbiamo definiti, arrivi a dare spazio anche alla creatività di autori e/o studenti d’arte, opportunamente coinvolti. Addirittura, ci spingiamo oltre, quando osiamo sognare che alla prossima Photokina 2010 possa essere allestita una mostra di interpretazioni fotografiche, dal vero o in postproduzione, su questo stesso tema e in allineamento con l’edizione delle cartoline di Thierhoff City Verlag. Saluti da Colonia. Maurizio Rebuzzini
PER L’APPUNTO omplici (involontarie), tre studentesse del corso di Storia della Fotografia, presso la Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università Cattolica del Sacro Cuore, sede di Brescia (docente a incarico Maurizio Rebuzzini) sollecitano alcune riflessioni attorno la materia. Clamorosamente, una volta ancora, e una di più, evviva!, si concretizza quell’ipotesi affascinante che attraversa anche le pagine e il giornalismo di FOTOgraphia: eccoci! La fotografia intesa non come punto di arrivo, a sé stante, ma straordinario punto di partenza, per ulteriori visioni, osservazioni e considerazioni sullo svolgimento quotidiano della vita. Presentatesi in appelli di esame successivi, con i propri testi di riferimento, le tre studentesse hanno rivelato almeno due condizioni, ma alla fin fine sono più di due. Una, presto riferita: la prova tangibile di una concentrazione e uno studio, che, in sede di giudizio accademico, hanno consentito di evitare le insipide domande su date, avvenimenti e personaggi (dichiaratamente superflue), per ragionare invece insieme sulle consecuzioni sottotraccia, quelle che non sono riportate in alcun libro, ma rappresentano sia il sugo della materia, sia il senso della proiezione della fotografia nella e verso la società. Due, che si trasforma in ulteriore insegnamento per loro, per quei giovani che vanno aiutati e difesi, magari anche da se stessi: clamorosa incapacità di stabilire valori e priorità, a fronte di
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APPUNTI
Tre studentesse di un corso universitario di Storia della Fotografia si presentano all’esame con i propri libri di riferimento abbondantemente annotati: senza soluzione di continuità, su tutte le pagine. Uno: Diana Marangoni, Veronica Padovani e Anna Maria Trebbi rivelano una concentrazione ammirevole; due: allo stesso tempo, denunciano -però- una mancanza di scala di valori; tre: comunque, e in sovramercato, indicano un modo di intendere la conoscenza della materia; quattro: clamorosamente, hanno compiuto perfino un gesto d’arte. Ne parliamo
Tre studentesse vanno all’esame (così come i tre contadini di August Sander, vestiti a festa, vanno a ballare; Young Farmers, Westerwald, 1914). Si presentano con i propri libri di riferimento abbondantemente annotati: qui la doppia pagina quaranta e quarantuno della copia di Diana Marangoni di Il Fotografo Mestiere d’Arte, di Giuliana Scimé. Così facendo, offrono una eccellente occasione e opportunità di riflessione a sfondo fotografico.
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«Siccome il mangiare senza voglia fia dannoso alla salute, così lo studio senza desiderio guasta la memoria, e no’ ritiene cosa ch’ella pigli» Leonardo da Vinci un atteggiamento didattico sbagliato, che la scuola italiana peraltro favorisce e, addirittura, richiede e sollecita. Come studiano i giovani di oggi? Come si avvicinano a ciò che arriva loro da un mondo già formato e precostruito (dai docenti ai libri)? Con reverenza, forse anche troppa. Ed è un approccio che va corretto, dove e quando si ha l’intenzione di offrire educazione e cultura, sollecitando alla serenità dei sorrisi e alla concentrazione di un apprendimento che non sia indirizzato all’appagamento dell’insegnante, che peraltro non ne ha bisogno, né sa apprezzare le forme di servilismo, anche soltanto didattiche/gerarchiche.
TRE PIÙ TRE VOLUMI A questo punto, è necessaria una premessa. Come è noto, il rapporto accademico è ufficiale, e la gerarchia dei ruoli prestabilita: il docente racconta la Storia della fotografia, e gli studenti la ascoltano; loro ne riferiscono in sede di esame, e l’insegnante li giudica. Oltre lo svolgimento delle lezioni, con sequenza storica intervallata da aggiornamenti contemporanei, i testi di riferimento per gli esami di questo corso di Storia della Fotografia sono intenzionalmente leggeri. Entrambi di poche pagine, la Breve storia della fotografia, di Jean-A. Keim, e Il Fotografo Mestiere d’Arte, di Giuliana Scimé [FOTOgraphia, maggio 2003], assolvono l’abbecedario della materia: uno in chiave cronologica, l’altro in quella dei generi e movimenti che hanno animato il dibattito culturale della fotografia. Quindi, a seguire, si invitano gli studenti che volessero approfondire, a farlo da sé o con la guida del docente: i testi che indagano a fondo momenti e avvenimenti della storia della fotografia sono tanti altri. Invece, per quanto riguarda l’avvicinamento alla fotografia, è importante trasmettere un’idea, una filosofia di fondo. Ripetiamola ancora: la stessa fotografia, la comunicazione visiva, l’immagine non debbono (dovrebbero) mai essere punti di arrivo, e tantomeno debbono (dovrebbero) essere espressioni clinicamente asettiche; al contrario, sono sempre punti di partenza privilegiati, attraverso i quali osservare la Vita, questa volta con maiuscola consapevole e volontaria. Ognuna per sé, ognuna senza conoscere i comportamenti delle altre, le tre studentesse delle quali raccontiamo, e alle quali esprimiamo tutta la nostra gratitudine per l’opportunità che ci hanno offerto, si sono presentate all’esame con testi abbondantemente annotati. Li visualizziamo giusto in queste pagine: Breve storia della fotografia, di Jean-A. Keim (Piccola Biblioteca Einaudi / 106; Giulio Einaudi Editore, 1976 ed edizioni successive); 144 pagine 11,4x19,4cm; 15,50 euro. In accostamento, le doppie pagine trentadue - trentatré e trentotto - trentanove di Diana Marangoni, Veronica Padovani e Anna Maria Trebbi, in questo ordine. Quindi, a completamento, le doppie pagine ventidue - ventitré di Diana Marangoni; le doppie pagine ottantasei - ottantasette di Veronica Padovani; e le doppie pagine sedici - diciassette di Anna Maria Trebbi. In assoluto: concentrazione ammirevole, mancanza di scala di valori, modo di intendere la conoscenza della materia e clamoroso gesto d’arte.
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Breve storia della fotografia, di Jean-A. Keim, e Il Fotografo Mestiere d’Arte, di Giuliana Scimé. Ecco qui: troppe annotazioni; nessuna scala gerarchica; praticamente sottolineature ai testi senza alcuna soluzione di continuità. In ripetizione: sia prova di concentrazione e studio (tanto che l’esame potrebbe risultare addirittura superfluo), sia incapacità di stabilire valori e priorità (e per questo, sono state anche rimproverate). Ma! Ma, Diana Marangoni, Veronica Padovani e Anna Maria Trebbi hanno rivelato come e quanto i giovani meritino di essere incentivati. Hanno volontà, mancano forse di guida. Così che, magari indipendentemente dalla materia di incontro (ma non è esattamente così, perché la fotografia offre e propone straordinarie occasioni di ragionamenti che non si concludono in sé), si realizza una efficace e benefica opportunità di parola e dialogo. La loro difesa (curiosamente comune, pur nelle singole individualità): «Sono tutte nozioni importanti». È vero; del resto, tutto quanto ha valore, prima o poi finisce in un libro. Ma la sottolineatura completa e continua, praticamente estesa a tutte le pagine dei loro libri -appunto visualizzata a corredo di queste note- equivale a una non sottolineatura. L’evidenziazione di tutto è pari alla evidenziazione di niente.
ESAGERIAMO (!?) L’attuale condivisione di questa vicenda non si limita all’aneddotica di un fatto, presto risolto: se n’è parlato, e la lezione è stata sicuramente benefica per le tre studentesse, come anche per tutti gli iscritti al corso, ai quali viene ripetuto lo stesso racconto. In proiezione, la rivelazione di questa applicazione, tanto entusiasmo e altrettanta voglia di sapere e conoscere diventa una lezione per coloro i quali si occupano di fotografia, o pensano di farlo: sia osservandola dall’esterno e valutandone le tematiche, tanto espressive e creative quanto tecniche (perché no?), sia impegnandosi nella ripresa fotografica, magari anche non professionale, ma pur sempre concentrata e cosciente (quanti autori e talenti eccezionali si incontrano nelle letture di portfolio che attraversano ormai tutto il paese, senza soluzione geografica né di date!). In qualsiasi modo la si viva, la fotografia richiede ed esige conoscenze, che siano anche culturali. Oggi ce lo ribadiscono e sottolineano tre studentesse lombarde, Diana Marangoni, Veronica Padovani e Anna Maria Trebbi, poco più che ventenni. A parte gli esercizi sterili, fini a se stessi e al gesto atletico (tecnico) che, a volte, li genera, la Fotografia consapevole non può, né deve chiudersi in sé. Prendiamo esempio da queste tre studentesse, facciamoci accompagnare dai giovani (non li dobbiamo cercare soltanto per coinvolgerli nel nostro processo commerciale), diamo alla nostra passione per la fotografia un indirizzo che non sia soltanto autoreferente. Anche noi, come loro sono esortate a fare, ri-cominciamo a guardare un tramonIl Fotografo Mestiere d’Arte, di Giuliana Scimé (Il Saggiatore, 2003; collana Arti e Mestieri, a cura della Fondazione delle Arti e Mestieri; via Locchi 1/3, 20156 Milano; 02-38008756; www.fondazioneartiemestieri.it, info@fondazioneartiemestieri.it); 55 illustrazioni a colori e 38 in bianconero; 176 pagine 16,5x21cm; 20,00 euro [ FOTOgraphia, maggio 2003]. In accostamento, le doppie pagine sedici - diciassette, diciotto - diciannove e novantasei - novantasette, di Diana Marangoni, Veronica Padovani e Anna Maria Trebbi, in questo ordine. Quindi, a completamento, la doppia pagina centotrenta - centotrentuno di Diana Marangoni; la doppia pagina centoquaranta - centoquarantuno di Veronica Padovani; e la doppia pagina dodici - tredici di Anna Maria Trebbi. In assoluto (e ripetendo la cadenza data a questa relazione giornalistica): concentrazione ammirevole, mancanza di scala di valori, modo di intendere la conoscenza della materia e clamoroso gesto d’arte.
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Trascrizione in bell’ordine (a ciascuno, il proprio) degli appunti presi in aula da Katia Felini, che completano il richiamo odierno a testi fotografici intensamente annotati: alternanze di scritti, colori, sottolineature, rimandi, aggiunte in un insieme anche estetico, probabilmente artistico. Sicuramente artistico, non ci sono dubbi. Utilitaristicamente, fascicolo individuale di un percorso di Storia della Fotografia, vissuto intensamente, per la cui definizione e identificazione accademica il docente (a incarico) Maurizio Rebuzzini è esplicito: «La storia della fotografia esiste e si è manifestata; probabilmente, non è stata scritta; ovvero se ne sono scritte di parziali, sia dal punto di vista geografico e socio-culturale (soprattutto americanocentrico), sia da quello estetico, sia da quello ideologico, sia per gusti e indirizzi personali. Anche la mia visione, al pari di ogni altra, è parziale; e così lo è il mio modo di raccontare, alternando le cronologie storiche con l’attualità e contemporaneità. In ogni caso, attraverseremo insieme un giardino, ricco di fiori (appunto, la Storia della fotografia). Qualcuno bello, altri meno profumati. Ma tutti inviolabilmente fiori. Da cogliere». Con Hanif Kureishi, da Nell’intimità: «Se vivere è un’arte, è un’arte strana, che dovrebbe comprendere tutto, e in particolare un forte piacere. [...] Il benessere economico non sarebbe da considerarsi essenziale».
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to, passeggiare tra la gente, parlare con un bambino, ascoltare parole colte al volo, leggere romanzi e poesie. Anche noi, possiamo/dobbiamo vivere la nostra età, con accompagnamento di una visione trasparente e concentrata della fotografia: osservata e ammirata, oppure realizzata con e per nostri progetti. La ricchezza che possiamo trarre dal tornare ad ascoltare, prima di dire, prima di parlare (gli studenti sono obbligati a questa gerarchia, noi la possiamo frequentare volontariamente), è quella stessa ricchezza che approda alla sapiente finalizzazione delle proprie capacità espressive e creative. Perché ragionare in questo modo, in un’epoca di automatismi fotografici e facilitazioni operative addirittura inquietanti? Quali possono (o debbono) essere le motivazioni che spingono a fotografare con intelligenza e dedizione? Da cosa dipende il piacere e il gusto di riflessioni che appartengono addirittura ad altri tempi? Per tutto, non c’è una risposta da dare agli altri. Ecco cosa insegnano i giovani, con la propria dedizione: ma si deve sempre rispondere prima di tutto a se stessi, magari coltivando ap-
prendimenti fotografici radicali, dalla storia al linguaggio, che certamente non hanno risvolti utilitaristici immediati, ma, altrettanto certamente, fanno le differenze della nostra vita, anche solo di quella fotografica, che si proietta ben oltre. Alla fine, un’ultima annotazione, che alleggerisce il tono che hanno preso queste note, andando a rilevare sottotraccia. Parlando di estetica, comunicazione, linguaggio e quanto altro interviene nel processo creativo, non potremmo considerare questi libri annotati (così tanto e con così tanta personalità) come autentiche opere d’arte? In effetti, lo sono anche. Con Oscar Wilde: «Bisognerebbe essere un’opera d’arte o, altrimenti, indossare un’opera d’arte». Con Vincent Van Gogh: «Spesso le persone fanno arte, ma non se ne accorgono». Con Albert Einstein: «L’arte suprema di un maestro è la gioia che si risveglia nell’espressione creativa e nella conoscenza». Con Francesco De Sanctis: «Materia dell’arte non è il bello o il nobile, tutto è materia d’arte: tutto ciò che è vivo: solo il morto è fuori dell’arte». Con Paul Klee: «L’arte non riproduce il visibile; piuttosto,
crea il visibile». Con Lester Bangs: «Il primo errore dell’arte è quello di presumere di essere seria». Con Emilio Cecchi: «L’arte, in fondo, come tante tra le cose più belle, vien meglio un po’ di nascosto». Con Theodor W. Adorno: «Il compito attuale dell’arte è di introdurre il caos nell’ordine». Con Thomas S. Eliot: «L’arte non migliora mai, ma... il materiale dell’arte non è mai esattamente lo stesso». Con Eugene Ionesco: «Un’opera d’arte è soprattutto un’avventura della mente». Con Neal Cassady: «L’arte è buona quando muove dalla necessità; questo tipo di origine ne garantisce il valore, e nient’altro». Con Lindsay Anderson: «L’arte è esperienza, non la formulazione di un problema». Con Pauline Kael: «L’irresponsabilità è parte del piacere di ogni arte; è la parte che le scuole non riconoscono». Con Albert Camus: «Se il mondo fosse chiaro, l’arte non esisterebbe». Con Henry Miller: «L’arte non insegna niente, tranne il senso della vita». Anonimo: «Arte è ciò di cui non si capisce il significato, ma si capisce avere un significato». Angelo Galantini
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AVEDON A LUCCA
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Nel proprio insieme e dettaglio, comprensivi di ogni possibile aggiornamento temporale, l’intenso programma del LuccaDigitalPhotoFest 2009, festival della fotografia approdato alla quinta edizione, è sintetizzato all’apposito sito www. ldpf.it. Con aggiornamenti in tempo reale, in Rete sono scanditi i tempi esatti dei settanta eventi, e più, che si susseguono dal quattordici novembre al successivo otto dicembre nella affascinante città toscana: mostre, comprensive di anteprime nazionali, workshop, incontri, Photocafè e lettura di portfolio. Ideale interscambio di idee ed esperienze, per quanto giovane, il LuccaDigitalPhotoFest si è già affermato e imposto come uno dei più consistenti appuntamenti italiani della fotografia: a questo proposito, ne abbiamo riferito e commentato in FOTOgraphia del febbraio 2006, sullo svolgimento della prima edizione, e novembre 2006, novembre 2007 e novembre 2008, in anticipo sulle rispettive edizioni. Qui e ora, a differenza di questi precedenti, non scendiamo in alcun dettaglio, non riassumiamo per luoghi espositivi e autori, per autori e luoghi espositivi, come invece fatto gli anni scorsi, ma ci concentriamo su una delle mostre in cartellone, emozionante come sa esserlo la più grande fotografia (senza, con questo, stabilire alcuna gerarchia con gli altri appuntamenti del programma: non sia mai!). Prima di farlo, prima di soffermarci sulla straordinaria selezione delle fotografie di Richard Avedon, fantastica favola realizzata per The New Yorker, nel 1995, ricordiamo soltanto che l’ospite d’onore dell’imminente LuccaDigitalPhotoFest 2009 è il grande fotografo giapponese Eikoh Hosoe (nato nel 1933), le cui immagini hanno scritto capitoli emozionanti della Storia della fotografia. La sera del ventotto novembre, nella tradizionale serata di gala al Teatro del Giglio, riceve il LuccaDigitalPhoto Award alla carriera.
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UNA FAVOLA Distribuita su ventisei pagine del The New Yorker, del 6 novembre 1995 (copertina dell’illustratore italiano Lorenzo Mattotti; www.mattotti.com), In Memory of the Late Mr. and Mrs. Comfort (In memoria dei compianti signor e signora Comfort) è una splendida favola fotografica di Richard Avedon: in totale, ventidue immagini di grande impatto, legate da un sottile filo narrativo, ma anche autoconclusive (se si vuole vederle così). Per la cronaca, quattro composizioni orizzontali, riprodotte sulla rivista in doppia pagina, e diciotto verticali, che si seguono e inseguono con ritmo visivo incessante. Realizzato con la collaborazione di Doon Arbus, figlia della fotografa Diane Arbus, grande amica di Richard Avedon, il servizio scandisce anche i tempi commerciali di una lunga lista di stilisti degli abiti (qui in veste di autentici costumi di scena), indossati dalla modella Nadja Auermann, filo conduttore del racconto, insieme a uno scheletro che ne accompagna e asseconda le performance interpretative. Come intuibile, tenendo so-
Il programma di mostre del LuccaDigital PhotoFest 2009 comprende l’esposizione delle ventidue immagini che hanno formato il corpus della straordinaria favola In Memory of the Late Mr. and Mrs. Comfort (In memoria dei compianti signor e signora Comfort), che Richard Avedon realizzò per il New Yorker, che la pubblicò il 6 novembre 1995.
prattutto conto della esplicita complessità dei set, i crediti delle immagini si completano quindi con le indicazioni degli art director di ogni scenografia, dei parrucchieri e truccatori e di quanti hanno contribuito alla produzione; The New Yorker riserva una intera pagina proprio al lungo elenco dei crediti. Questa serie fotografica di Richard Avedon è meno nota di altre, che si è soliti iscrivere nella Storia della fotografia. Però, alla resa dei conti, è una delle più affascinanti del periodo conclusivo del celebre autore newyorkese, che proprio in occasione della collaborazione con il New Yorker, che con lui aprì alla fotografia, ha dato avvio a una stagione espressiva particolarmente felice. Non dovremmo essere tanto lontani dal vero quando pensiamo a una complicità di intenti, che ha superato gli scogli e barriere che spesso circoscrivono e limitano la creatività fotografica, imponendo confini che ne mortificano le potenzialità. Proprio con e per il New Yorker, che in precedenza mai aveva usato la fotografia (va detto), dal 1992, Ri-
chard Avedon ha realizzato progetti avvincenti, che compongono tratti particolari della sua lunga parabola espressiva. La collaborazione è stata illuminante e splendente, caratterizzata altresì da una vigorosa freschezza, che riportò il fotografo agli entusiasmi delle sue prime esperienze, cinquant’anni indietro. Così come In Memory of the Late Mr. and Mrs. Comfort è definibile favola, senza andare a cercare altre collocazioni fotografiche certe (moda? concettualità? astrattismo?), altri tanti servizi di Richard Avedon per il New Yorker sono stati analogamente trasversali ai generi della raffigurazione visiva. Speriamo che la Storia abbia tempo e modo di soffermarsi su questa esperienza, concedendo tempi e modi a critici capaci di analizzarla e comunicarcela.
A LUCCA Allo stesso momento, In Memory of the Late Mr. and Mrs. Comfort, di Richard Avedon, accende e dà brillantezza e risalto all’intero progetto espositivo dell’imminente LuccaDigitalPhotoFest 2009, che si è assunto l’impegno (oneroso?) di muoversi in equilibrio tra le espressioni più fresche della creatività fotografica, da nazionale a internazionale, e le proposizioni che fissano e stabiliscono punti fermi del linguaggio fotografico.
Dando adeguato spazio a ogni applicazione della fotografia (soprattutto professionale), dal reportage alla ricerca senza soluzione di continuità, il festival toscano sottolinea quella che è l’autentica personalità del linguaggio fotografico, che non dovrebbe venir mai circoscritto entro delimitazioni che ne mortifichino le intenzioni. Nel dettaglio, senza nulla togliere ai tanti altri allestimenti in cartellone, che definiscono una coinvolgente serie di appuntamenti di alto livello, ciascuno di seguito agli altri, proprio In Memory of the Late Mr. and Mrs. Comfort fa la differenza di questa edizione: rivela come e quanto la fotografia possa rivolgersi al pubblico, sollecitando riflessioni e considerazioni autonome. Non c’è mai alcuna verità assoluta, nella fotografia; ma ciascuno vi si avvicina con esperienze proprie, per decifrare letture e interpretazioni altrettanto individuali. Senza distinzione alcuna, In Memory of the Late Mr. and Mrs. Comfort si rivolge imparzialmente a tutti: dal pubblico generico, magari digiuno di tanti approfondimenti che appartengono agli addetti, ai professionisti della fotografia (realizzata, analizzata o soltanto vista - mai solo guardata). E questo è ciò che dovrebbe sempre definire, qualifican-
Realizzato con la collaborazione di Doon Arbus, figlia di Diane, grande amica di Richard Avedon, il servizio In Memory of the Late Mr. and Mrs. Comfort si è allungato su ventisei pagine di The New Yorker. Modella Nadja Auermann.
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dola, la fotografia offerta in spazi e tempi pubblici. Altro discorso, è quello che si può circoscrivere e indirizzare ai soli esperti. Tra parentesi, e in conclusione, c’è ancora altro da sottolineare, e lo sot-
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tolineo. In un paese come è l’Italia, nel quale un malpronunciato intendimento crociano esige rigorosi termini di “cultura” (che poi diventa kultura, alla maniera dei tardi anni Sessanta), che impongono seriosità assoluta di atteggiamenti, anche a discapito delle serietà degli svolgimenti, In Memory of the Late Mr. and Mrs. Comfort offre e propone dettagli brillanti, che non dimenticano la matrice fotografica della propria espressività. Ripeto: in un paese come è l’Italia, nel quale chi (come me?) intende la fotografia anche per i propri sconfinamenti sociali e di costume quotidiano viene considerato perlomeno con snobistica sufficienza, arrivano composizioni di Richard Avedon nelle quali fa perfino capolino la raffigurazione dell’oggetto macchina fotografica (orrore! superficialità!). Addirittura, è proprio una macchina fotografica che dà avvio al racconto di In Memory of the Late Mr. and Mrs. Comfort: con scatto pneumatico azionato dallo scheletro co-protagonista, insieme alla modella Nadja Auermann, dell’intera favola. Speriamo che i crociani, convinti tali o inconsapevolmente tali, ma in ogni caso grulli e babbei come sanno esserlo solo gli ignoranti (anche solo di pensiero) non abbiano da arricciare il proprio delicato naso! M.R.
LuccaDigitalPhotoFest 2009. Dal 14 novembre all’8 dicembre. Associazione Toscana Arti Fotografiche, via Guidiccioni 188, 55100 Lucca; 0583-5899215; www.ldpf.it, info@ldpf.it.
MOSTRA VERGOGNOSA
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LELLO PIAZZA (8)
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Dietro il paravento di una affermazione dal contenuto etico incontestabile, e precisamente «La salute è il valore più importante, e Milano è in prima linea per tutelare questo capitale, per promuovere la ricerca scientifica, per diffondere una cultura della salute» (in www.comune.milano.it), il sindaco Letizia Moratti, assieme all’assessore alla Salute Giampaolo Landi di Chiavenna, ha avuto la brillante idea di sperperare i soldi dei cittadini per realizzare una mostra fotografica en plein air (en plain air, per il Comune), in corso Vittorio Emanuele, in centro città, a ridosso di piazza del Duomo, inaugurata a metà dello scorso luglio. Una celebrazione di vip (seppure con disagio, allineiamoci alle definizioni ormai acquisite: che povertà di pensiero e parola!?) per affermare un concetto: quello che Milano terrebbe alla salute dei cittadini, che contrasta con tutti i rilevamenti che riguardano l’inquinamento nella città, recentemente eletta a capitale europea dello smog. Infatti, prima ancora che finisse febbraio, erano già stati conteggiati trentacinque giorni, su cinquantanove, nei quali, in città, si era rilevata una concentrazione di polveri sottili superiore ai cinquanta microgrammi per ogni metro cubo. L’Europa fissa proprio in trentacinque il numero massimo di giorni per anno che si concedono alle città per il superamento dei limiti. Ancora, è dell’inizio di ottobre la notizia che la Comunità Europea ha avviato una procedura di infrazione nei confronti del Go-
verno Italiano per eccesso di inquinamento in alcune regioni d’Italia, tra le quali proprio la Lombardia. E poi ventotto vip mostrano le loro facce perché vogliono farci credere che stanno pensando alla nostra salute! Per non sottolineare anche che lo fanno proponendo se stessi, la propria immagine, in pose fotografiche a dir poco compiacenti: faccioni a tutta inquadratura, stile fototessera elettorale: se la cantano e se la suonano. A Milano, quando qualcuno cerca di convincerti di una falsità palese, solitamente si porge un suggerimento esplicito (che qui declino nella sua forma più leggera e leggiadra): ma va a ciapà i ratt (ovvero: vai a prendere i topi, vai a perdere tempo altrove, vai...!). Per dovere di cronaca, ecco i vip ritratti nelle gigantografie esposte, che compongono la promessa di Prevenire con un click - I volti della salute, allestita con ritratti dei testimonial dell’Anno della Salute 2009, che hanno certificato «l’impegno
Le parole sono povere per raccontare, raccogliendolo, lo sconcerto che qualsiasi cittadino milanese avrebbe dovuto/potuto provare incontrando l’incessante carrellata di ritratti pubblici che hanno testimoniato la parodistica condizione di Milano è il benessere dei suoi cittadini, lungo il centrale corso Vittorio Emanuele.
della città a favore della salute e del benessere» (testuale e cabarettistico al tempo stesso). Esponenti del mondo politico e istituzionale, medico-scientifico, universitario, culturale e della comunicazione fotografati da Paolo Liaci (la maggior parte), Bob Krieger, Davide Ippolito (almeno tre), Gianni Congiu e Fabrizio Cornelutti; nell’ordine nel quale li
«E poi ventotto vip mostrano le loro facce perché vogliono farci credere che stanno pensando alla nostra salute! Per non sottolineare anche che lo fanno proponendo se stessi, la propria immagine, in pose fotografiche a dir poco compiacenti: faccioni a tutta inquadratura, stile fototessera elettorale: se la cantano e se la suonano. A Milano, quando qualcuno cerca di convincerti di una falsità palese, solitamente si porge un suggerimento esplicito (che qui declino nella sua forma più leggera e leggiadra): ma va a ciapà i ratt (ovvero: vai a prendere i topi, vai a perdere tempo altrove, vai...!)».
presenta il Comune di Milano: Letizia Moratti, Roberto Formigoni, Diana Bracco, Luciano Bresciani, Manfredi Palmeri, Giampaolo Landi di Chiavenna, Luigi Rossi Bernardi, Don Verzè, Umberto Veronesi, Silvio Garattini, Gianni Ravasi, Claudio Mencacci, Antonino Di Pietro, Emilio Trabucchi, Michele Perini, Ferruccio De Bortoli, Paolo Bianco, Luigi Roth, Carlo Tognoli, Francesca Merzagora, Ughetta Radice Fossati, Maria Rita Gismondo, Cristina Mondatori, Susanna Messaggio, Eliana Liotta, Marcello Fontanesi, Enrico Decleva, Carlo Pedersoli, Rodolfo Masto, Antonio Cesarani. Una frase-simbolo riferita alla salute e allo star bene accompagna ogni ritratto: paradossalmente, potrebbe costituire il solo autentico valore della mostra all’aperto. Bella for-
za: pillole di saggezza rintracciate in Rete con una banale ricerca da un qualsivoglia motore di ricerca. Comunque, in alternanza con tante (troppe!) ripetizioni dello slogan Milano è il benessere dei suoi cittadini, riportato sotto molti ritratti, a partire da quello del sindaco (della sindachessa): «La vita non è vivere, ma vivere in buona salute» (Marco Valerio Marziale); «La salute è il primo dovere della vita» (Oscar Wilde); «La salute è così al di sopra di tutti gli altri beni materiali che in verità un mendicante sano è più felice di un re malato» (Arthur Schopenhauer) [ma andiamo a chiederlo al mendicante]; «La medicina, ormai da molto tempo, dispone di tutti gli elementi, e si è trovata la strada che ha consentito di fare molte importanti scoperte. E si continuerà nel futuro, se si por-
terà avanti la ricerca a partire da quanto è già stato scoperto» (Ippocrate); «Lo scopo della scienza non è la credenza, ma l’investigazione» (Camille Flammarion); «La scienza senza coscienza è solo la rovina dell’anima» (François Rabelais). Basta! Non ne posso più! L.P.
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MAURIZIO MORETTI
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Lo conosco sì, lo conosco Maurizio Moretti, lo conosco bene. Ci siamo incontrati sull’onda degli incendi libertari di una stagione (mai finita), nella quale i figli gioiosi del Sessantotto rubavano la luna e insegnavano ai padroni dell’immaginario la paura (di pisciarsi addosso), che per secoli avevano esercitato sui poveri della Terra. Eravamo dei cani perduti, senza collare; quello che a noi interessava e ci univa era la costruzione di una società senza stato (Pierre Clastres, La società contro lo stato. Ricerche di antropologia politica; Feltrinelli, 1977), una comunità planetaria di liberi e uguali, che avrebbe messo fine alla servitù volontaria secondo la filosofia insolente di un eretico del Cinquecento, Étienne de La Boétie: «Questo tiranno solo, non c’è bisogno di combatterlo, non occorre sconfiggerlo, è di per sé già sconfitto, basta che il paese non acconsenta alla propria schiavitù. Non bisogna togliergli niente, ma non concedergli nulla. [...] Vi sono tre tipi di tiranni: gli uni ottengono il regno attraverso l’elezione del popolo, gli altri con la forza delle armi, e gli altri ancora per successione ereditaria. [...] Siate decisi a non servire più, ed eccovi liberi» (Étienne de La Boétie, Discorso sulla servitù volontaria; Jaca Book, 1979; Leonardo Facco Editore, 2007).
DI CANI PERDUTI SENZA COLLARE Nel Sessantotto, anche i vini vennero più buoni e ritornarono le lucciole nei campi di grano, insieme ai libri del giovane Marx, Kropotkin, Bakunin, Errico Malatesta... la Rivoluzione sociale di Spagna, i carri armati di Budapest, Praga. La grammatica del sampietrino dei situazionisti (in modo particolare di Guy Debord, Raoul Vaneigem, Asger Jorn) ci faceva conoscere lo spirito di una rivolu-
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zione dei costumi e la nostra opposizione ai tagliagole del Partito comunista e ai bastardi/burocrati della politica era netta, come diceva mio padre, fiancheggiatore di partigiani: «Il pane si spezza, non si taglia!».
ulivo cotte sotto la cenere, lanciatore di coltelli nelle periferie invisibili delle città, fotografo in utopia... è un eretico dell’eresia, un situazionista dell’immagine rovesciata o non mercantile, che “canta” le gesta e i sogni
«Con le budella dell’ultimo papa, bruceremo l’ultimo padrone!» «È vietato vietare!» «Viviamo senza tempi morti, godiamo senza limiti!» «Corri, compagno, il vecchio mondo è davanti a te!» Internazionale Situazionista, scritte sui muri del Quartiere Latino in fiamme, Parigi, maggio 1968 In quegli anni di feconda allegria, abbiamo sognato di ballare sulla testa dei re, despoti, generali, preti; forse non ci siamo riusciti. Un’intera generazione di ribelli ha lasciato i maglioni sporchi di sangue sui marciapiedi del mondo, per conquistare una vita più giusta e più umana per tutti; e anche se i ragazzi del Maggio non sono riusciti a spegnere il sole della libertà imposta o della democrazia autoritaria, dopo questa tempesta libertaria del “tempo delle ciliege” rosse e nere e i baci al profumo di tiglio sulle barricate, niente è stato più come prima. Maurizio Moretti. Marinaio di navi da carico sulle rotte dei mari del Sud, operaio senza partiti, attore estraniante, ideatore del Teatro in birreria (Quartiere Latino di Follonica, nella Maremma Toscana), tra i fondatori e redattore della rivista di critica radicale Tracce (con Massimo Panicucci e Pino Bertelli), fabbricatore di fionde di legno di
degli ultimi, degli indifesi, dei ribelli senza quartiere. Le situazioni costruite delle sue fotografie non obbediscono alla spontaneità o all’occasionalità del momento, mettono in “forma”, cioè affabulano l’ordinario all’interno di un’etica e un’estetica del dolore o del sorriso, e si riappropriano di quella pietà laica o del ludico libertario che sovvertono l’ordine delle cose. Il vero uccide l’impostura, e solo l’oblio e il bello restituiscono la meraviglia e lo stupore alla vita quotidiana.
SULLA FOTOGRAFIA DELL’ERESIA La fotografia dell’eresia è un modo di vedere il mondo e di raccontarlo. Non è indecente mostrare i propri amori e la propria collera; ogni uomo, come ogni epoca, possiede una realtà solo grazie alla capacità di gridare che Dio è morto! e ai nuovi dèi va tagliata la testa: «l’idea degli anarchici di annientare qualsiasi autorità [è] tra le più
belle che mai siano state concepite, e non si deplorerà mai abbastanza la scomparsa della razza di costoro, che la volevano attuare» (Emil M. Cioran, Storia e utopia; Adelphi, 1982). L’imbecillità regna, ma non governa. Si vive e si muore alla confluenza di un’enorme quantità di “segnali” e di stravaganti pagliacci mediatici che manipolano la “società dello schermo” in favore di crimini istituzionali mai passati in giudicato, che sostituiscono «l’immagine alla cosa, la copia all’originale e la rappresentazione alla realtà» (Ludwig A. Feuerbach, citazione a memoria) e orchestrano il consenso delle masse sui loro stessi cadaveri. La fotografia ereticale, o di strada, di Maurizio Moretti è una sorta di “album di famiglia”, nel quale le lotte sindacali, i “fatti” del G8 di Genova o l’innocenza autentica dei bambini che ha incontrato sulla propria strada coesistono all’interno di una verità scettica, mai sconfitta; è una verità libertaria che si evolve in critica della ragione e sovversione non sospetta dell’ordine costituito. Le sue fotografie non hanno patria, né maestri riconosciuti: sono frammenti, tessere, squarci di uno stesso mondo, quello dell’incosciente o del meraviglioso “surrealista”, che mette «sulla stessa linea di mira la testa, l’occhio e il cuore» (Henri Cartier-Bresson). È un fotografare che impara a vedere mentre accede alla creazione dell’immagine; è dimenticare se stessi nel presente, e tra uno scatto e l’altro trovare il transitorio, il fuggitivo, il contingente della propria infanzia. La fotografia eretica di Maurizio Moretti ha coscienza del proprio stato di “fuori gioco”. In dispregio alla viltà del mercantilismo, della propaganda politica o religiosa, le sue immagi-
ni lavorano al lato dell’esistenza, in margine alla paura, in fondo o sopra i profumi impalpabili della ribellione o di là dai paraventi e dall’alito cattivo del popolo. Lo spettacolo di una civiltà senza domani è tutto qui. L’immaginario dal vero sul quale lavora l’uomo che venne da Genova si situa in rapporto a ciò che percepisce, e la morale alla quale si affranca è nelle parole del grande fotografo anarchico Henri Cartier-Bresson: «Fotografare è trattenere il respiro quando tutte le nostre facoltà di percezione convergono davanti alla realtà che fugge: in quell’istante, la cattura dell’immagine si rivela un grande piacere fisico e intellettuale» (Henri Cartier-Bresson, L’immaginario dal vero, Abscondita, 2005). Lo sappiamo: la fotografia, tutta la fotografia, almeno quella più importante, non ha regole. La poesia è l’epifania di un “segno” che fa pervenire alla coscienza di sé i disertori di ogni geometria estetica; fotografare significa tenere nel più grande rispetto se stessi e ciò che è oggetto della nostra attenzione. Il resto è merce o spazzatura smerciata come arte. L’epoca dell’uguaglianza, auspicata dalla rivolta planetaria del Sessantotto, non è arrivata; di contro, abbiamo conosciuto l’epoca del terrore e della società dello spettacolo integrato, che lo produce e lo fomenta. Del resto, «l’insediamento del dominio spettacolare è una trasformazione sociale così profonda da aver cambiato radicalmente l’arte di governare» (Guy Debord, Commentari sulla società dello spettacolo; Sugarco, 1990). L’arte, l’informazione, i saperi, la politica, le fedi, i terrorismi conseguono il proprio successo nei mezzi di comunicazione esistenti; il carattere principale della comunicazione è l’intimidazione, l’illusione, la passività. Dove la disinformazione regna, impera il cielo falso dei padroni dell’immaginario; nelle democrazie consumeriste (come nei regimi comunisti) organizzare il silenzio
significa imbavagliare la verità a sostegno dei poteri istituzionali: chi diffonde l’impostura è complice, e chi ci crede, imbecille. Illusionisti, imbonitori, protettori producono false speranze, e l’economia onnipotente del mercato organizza le nuove forche; la storia della violenza è scritta dallo Stato, quindi è educativa: dovunque regna lo spettacolo, si ode il canto delle armi e i profitti delle Borse internazionali salgono. Il governo dello spettacolo detiene tutti i mezzi della falsificazione: è padrone dei sogni, della memoria storica. Sulla cancellazione dei diritti dell’uomo è, in definitiva, l’espressione più eclissante dell’autoritarismo e del dispotismo, licenziati come democrazia rappresentativa. La fotografia libertaria di Maurizio Moretti è un catalogo di aneddoti. L’irriverenza del fotografo verso tutto ciò che figura l’ordine rappresentativo non è celata: anzi, è giocata sul rovesciamento di prospettiva di qualcosa che è codificato, imposto o diffuso come ordine del discorso. La tessitura estetica del corsaro genovese è semplice, poco elaborata, non proprio d’artista d’avanguardia. È altro che Maurizio Moretti cerca nella scrittura fotografica; nelle sue immagini c’è una forma spezzata del vedere e del rubare all’accadere, una sorta di decostruzione e ricostruzione degli avvenimenti o dei ritrattati che capitano davanti alla sua macchina fotografica. Dove c’è bellezza, c’è anche giustizia. La fotografia rende liberi ad Auschwitz, come alla Fiat; si tratta di aver compreso l’insegnamento dei maestri carbonari: senza i fanatici dell’obbedienza, ogni ordine crolla! Le cattive cause esigono carattere, coraggio e bellezza; ogni apologeta dello Stato è un assassino in potenza, affetto da entusiasmo cronico. Il disonore dei poeti è dentro la “cacciata dal tempio” e i mercanti fioriscono sull’indecenza del boia. Ma non c’è storia, che non sia storia di spiriti in rivolta.
SULLA FOTOGRAFIA DELL’UTOPIA La scrittura fotografica di Maurizio Moretti è elaborata sulle tematiche dell’utopia. Il fotografo è un distruttore di luoghi comuni, un seminatore di albe diverse e tramonti irriverenti. La sua fotografia in forma di utopia ha coscienza di avere coscienza che nulla è impossibile per i cuori in amore, tutto è nelle nostre mani e nell’insurrezione dell’intelligenza. A leggere in profondità i suoi reportage di taglio civile non è difficile cogliere il rapporto amicale che instaura con i soggetti fotografati: gli uomini, le donne, i bambini sono presi nella propria nudità politica/sociale e consegnano le proprie esistenze alla semplicità tecnica del fotografo. Di più. È proprio nella fotografia di strada che Maurizio Moretti lavora con maggiore finezza che nella ritrattistica. È qui che introduce un’estetica della ragione e una singolarità dello sguardo che disvelano idolatrie e convenienze. Per esempio, le sue immagini sulle angherie della polizia al G8 non entrano nella notizia eclissante, né, tantomeno, sono alla ricerca del colpo giornalistico. Invece, sono fotografie schierate dalla parte dei più deboli, di quelli che non vogliono subire imposizioni e riduzioni dei propri diritti. Lungo i suoi trent’anni di trattazione di immagini, video, libri, Maurizio Moretti ha lavorato contro i possessori della felicità concessa. Si è fatto fotografo dell’epifania libertaria e portavoce degli ultimi, senza guardare il colore della pelle, della sessualità o delle culture; si è opposto a ogni forma di autocrazia, e non sono poche le congiure alle quali ha partecipato come delegato dell’insubordinazione. Le sue fotografie, i video, gli scritti -dispersi in riviste libertarie, giornali anonimi, mostre occasionali- sono stati tracce, percorsi o Creuza de mä, nei quali ha incontrato clandestinamente, anche, altri poeti di strada, altri sognatori e viandanti delle stelle, con i quali
spezzare il pane e cantare ancora Bella ciao. La ritrattistica di Maurizio Moretti è di taglio diverso, più tenero, meno incollerito rispetto ai reportage sociali. I corpi che scippa alla realtà suscitano amorevolezze, scollature che si contrappongono alle banalità quotidiane; tuttavia, sono la cartografia del desiderio e l’epifania del piacere che fuoriescono dalle sue derive fotografiche a restituire la visione del mondo di uno spirito libero, che non rinuncia mai alla propria libertà di pensiero, di giudizio e di coscienza. La macchina fotografica, come un coltello, ritaglia nella storia pezzi di verità sui quali è difficile soffermare lo sguardo senza piangere, o vergognarsi della propria inettitudine. «A voler amare gli uomini, ci si vota alla sofferenza, si va verso un inevitabile solitudine. [...] Il piacere si dà, ma non esclude l’edificazione, la costruzione di sé» (Michel Onfray, Il cristianesimo edonista. Controstoria della filosofia / Volume II; Fazi Editore, 2007). La grande fotografia afferma la propria ignoranza in fatto di merce, e fotografare è imparare a vivere come a ben morire. L’immagine del mondo passa attraverso i mass-media, e la fotografia racconta, mente o decifra le differenze di cultura e di pensiero. Però, non esiste un’oggettività del dolore, e quando il disincanto di Maurizio Moretti si occupa di bambini ne escono immagini singolari, ammantate di un’aura trasognata che, anche se non dice in modo compiuto ciò che afferma, lascia emergere la bellezza del diverso e del molteplice come ascesi del dispendio e dell’irragionevolezza estetica. A vedere in profondità i bambini che ha esposto nella mostra Maurizio Moretti fotografo. Bambini 1985-1990 (Quartiere Latino, Follonica, Grosseto, lo scorso luglio; appena tredici immagini) si vedono bene i filamenti strutturali ed emozionali del fotografo: c’è una fascinazione dell’infanzia, la perdita dell’innocenza,
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l’amore per l’avventura inconciliabile con la ”vita reale”. Le didascalie delle fotografie sono spoglie -Verena, Simona, Nicola, Federica, Capelli salati, Matteo, Buccia di fico, Bambina svizzera, Bambino svizzero, Mutandine bianche, Merlo sulla spalla, Sara, Cocomero rosso-, la forza dei colori, la distanza dell’inquadratura, l’autenticità dei sentimenti caricano questi ritratti di significati profondi e costruiscono una nobiltà dell’immagine su un’immagine della nobiltà eidetica. La fotografia in utopia di Maurizio Moretti lavora su luoghi immaginari ma li coglie nella realtà: vede l’inesistente nella strada. È da lì che costruisce qualcosa di reale, e attraverso la scoperta di istanti infiniti mostra che ci sono sempre più stupidi incapaci di pensare e fotografare al di fuori delle categorie della propria epoca. Gli uomini dotati di libertà si oppongono ai tenutari dell’arte, della politica, delle fedi: frequentano cattive compagnie”, osterie di porto e libertari intemerati. L’esercizio di questa ascesi ereticale li porta ad amare il proprio destino, anche il più estremo, e la felicità alla quale vanno incontro li trasforma in santi, diavoli o angeli del non-dove, che si chiamano fuori dal confortorio della “buona condotta”. Nei loro sogni a occhi aperti non disdegnano il furto, il crimine, l’assassinio. La libertà libera (Rimbaud) passa sul ribaltamento di prospettiva di un mondo rovesciato. Meglio ladro che fotografo!, grida Ando Gilardi, amico e maestro: «Non ho simpatia verso chi usa un potere, che crede di avere o che gli viene attribuito, per rendere infelice qualcuno. [...] Dove c’è buona fede, c’è sempre un lampo di poesia. [...] Se l’anima è bella è bella anche l’immagine. [...] L’arte non ha diffuso la peste, ma la guerra, la dittatura, la superstizione, i privilegi, i roghi, i genocidi, l’antisemitismo» (Ando Gilardi, Meglio ladro che fotografo. Tutto
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quello che dovreste sapere sulla fotografia ma preferirete non aver mai saputo; Bruno Mondatori, 2007). L’innocenza ritrovata dell’umanità è nella critica radicale dell’ingiustizia e nell’abolizione della proprietà privata delle idee. La fotografia in utopia, anche quella di Maurizio Moretti, caratterizza l’originalità di un pensiero, è l’essenza di fondo di una reale visione iniziatica, che si colloca, al di là del bene e del male, all’incrocio di tutte le passioni, i desideri, le gioie (comprese le “diversità” sessuali), si apre alla comunione del piacere con gli eresiarchi di ogni tempo e disvela il giusto e l’ingiusto alla “dissolutezza” agnostica della verità e della bellezza. La fotografia in utopia combatte contro il vuoto e l’oscurità... contro la teocrazia dei saperi, dei credi, delle politiche di domesticazione sociale... contro lo spettacolo della civiltà dei simulacri. Quanto più un momento storico sarà segnato dallo spirito dell’utopia (con i mezzi necessari che ciascuno crede), tanto più la filosofia dell’amore dell’uomo per l’uomo avrà la possibilità di trionfare sulla mediocrità e lasciare alle giovani generazioni secoli di straordinaria bellezza. Non tutti hanno la fortuna di morire stupidi o giovani. Gli eroi, come i santi e i coglioni, hanno fatto di tutto per finire negli archivi di polizia, monumenti nelle piazze o nomi di strade. Il sale della miseria e l’indecenza del successo che hanno inseguito tutta una vita ha impedito loro di comprendere che la vita vera emerge nel non radicarsi da nessuna parte, non appartenere a nessun gruppo, non osannare nessuna bandiera, che non sia il proprio eterno amore per l’umanità intera; e non c’è nessuna storia che non sia storia dell’anarchia e dell’anima liberata. Riprendere dall’inizio. Pino Bertelli (Piombino, 7 volte luglio 2009, dal vicolo dei gatti in amore)
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