Mensile, 6,50 euro, Poste Italiane SpA - Spedizione in abbonamento postale - D.L. 353/2003 (convertito in Legge il 27-02-2004, numero 46), articolo 1, comma 1 - DCB Milano
- NUMERO 157 - DICEMBRE 2009
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Abbonamento 2010 (nuovo o rinnovo) in omaggio 1839-2009
Dalla Relazione di Macedonio Melloni alla svolta di Akio Morita M A U R I Z I O
R E B U Z Z I N I
1839-2009 Dalla Relazione di Macedonio Melloni alla svolta di Akio Morita
Come dire, dal dagherrotipo all’acquisizione digitale di immagini. E consecuzioni
INTRODUZIONE
DI
GIULIANA SCIMÉ
F O T O G R A P H I A L I B R I
DODICI DICEMBRE (MA SOPRATTUTTO QUINDICI). Non voglio ricordare i quarant’anni dalla bomba alla Banca dell’Agricoltura, di Milano, che il 12 dicembre 1969 rappresentò l’apice di una strategia non ancora decifrata, quantomeno nei suoi registi e colpevoli. Non voglio tornare ai miei diciotto anni, quando nutrivo speranze e sogni di bellezza assoluta, lontana ed estranea da ogni possibile compromesso, ma forte soltanto del suo splendore. Non intendo ripassare né la vita del nostro paese, né la mia personale (soprattutto ora). Con casto pudore, ricordo soltanto l’omicidio di Giuseppe Pinelli, Pino Pinelli, anarchico milanese completamente estraneo ai fatti, entrato alla questura di Milano per la porta principale, in sella al suo ciclomotore, e uscito da una finestra dell’ultimo piano, la notte del quindici dicembre. Nel farlo, non soffio su alcuna polemica, attuale o di un passato che non vorremmo venisse scordato e archiviato, e neppure aggiungo alcuna opinione personale. I fatti, purtroppo, parlano da soli. Sulla tomba di Pino Pinelli, ora tumulato nel cimitero di Turigliano, a Carrara, terra di fieri libertari, è riportata l’epigrafe di Carl Hamblin, di Edgar Lee Masters, dall’Antologia di Spoon River. La macchina del “clarion” di Spoon River venne distrutta. E io incatramato impiumato, per aver pubblicato questo, il giorno che gli anarchici furono impiccati a Chicago: “Vidi una donna bellissima, con gli occhi bendati ritta sui gradini di un tempio marmoreo. Una gran folla le passava dinanzi, alzando al suo volto il volto implorante. Nella sinistra impugnava una spada, brandiva questa spada, colpendo ora un bimbo, ora un operaio, ora una donna che tentava ritirarsi, ora un folle. Nella destra teneva una bilancia; nella bilancia venivano gettate monete d’oro da coloro che schivavano i colpi di spada. Un uomo in toga nera lesse da un manoscritto: ‘Non guarda in faccia a nessuno’. Poi un giovane col berretto rosso balzò al suo fianco e le strappò la benda. Ed ecco, le ciglia eran tutte corrose sulle palpebre marce; le pupille bruciate da un muco latteo; la follia di un’anima morente le era scritta sul volto, ma la folla vide perché portava la benda”. Maurizio Rebuzzini
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La verità della Fotografia è nell’eresia dell’ordine che vince l’oblio... è orizzonte di qualcosa che muore o che è stato tradito... è l’appello del boia che precede il rituale... è lo stupore e la meraviglia che cedono all’irresistibile attrazione degli estremi. Pino Bertelli; su questo numero, a pagina 64 L’allineamento dipende soltanto da una consapevole interpretazione giornalistica; se proprio vogliamo sottolinearlo, la nostra di sempre, così diversa e autonoma in un panorama di settore altrimenti appiattito lungo una strada prevedibile e prevista. Maurizio Rebuzzini; su questo numero, a pagina 45 È un racconto toccante, espresso attraverso una serie di immagini che colpiscono cuore e mente, e viceversa. Angelo Galantini; su questo numero, a pagina 41 Il compito della fotografia è di andare a vedere ciò che viene censurato, nascosto, falsato. La lingua scritta della fotografia è al contempo fuori del sistema e dentro i gazebi del potere. Pino Bertelli; su questo numero, a pagina 65
Copertina E poi quarta di copertina. Doppio ritratto in sequenza, oppure ritratto in due tempi, di Dennis Hopper, realizzato da Terry Richardson: coprotagonista, un sigaro. Con l’occasione della monografia Dennis Hopper: Photographs 1961-1967, a cura di Tony Shafrazi, pubblicata da Taschen Verlag, da pagina 34 affrontiamo la personalità fotografica (appunto) del celebre e celebrato attore hollywoodiano
3 Fumetto Dettaglio da Nikon F, nel cinquantenario (1959-2009), con inconfondibile Nikkor (50mm f/1,4?), da Kukulcan, di Eric Sio, in Barbarella Speciale, del luglio 1970
7 Editoriale In ricordo di Dimitri Grignani, prematuramente mancato quindici anni fa. Il padre Dario ha attraversato molte stagioni della fotografia. È possibile che si debba arrivare a tanto (troppo!), per ricordarci gli uni degli altri, per una carezza sul volto, una mano su una spalla, una parola di incoraggiamento, un sorriso spontaneo? No. Guardiamoci attorno, e facciamoci dovere di essere belli. Niente di meglio, soltanto belli
8 Coppi (Orwell e Elvis) Gennaio 2010: tre anniversari tondi. Due, ventuno e otto gennaio: cinquant’anni dalla scomparsa di Fausto Coppi, sessanta da quella di George Orwell, settantacinque dalla nascita di Elvis Presley
DICEMBRE 2009
R , RIFLESSIONI IFLESSIONI, OSSERVAZIONI E COMMENTI OSSERVAZIONI E COMMENTI SULLA FOTOGRAFIA SULLA FOTOGRAFIA
12 Notizie Attrezzature, vicende e altre segnalazioni
Anno XVI - numero 157 - 6,50 euro DIRETTORE
RESPONSABILE
Maurizio Rebuzzini
14 La Cina che dorme Casellario di cinesi che schiacciano un pisolino
IMPAGINAZIONE
Gianluca Gigante
REDAZIONE
Angelo Galantini
17 Reportage
FOTOGRAFIE
Appunti e attualità del fotogiornalismo internazionale A cura di Lello Piazza
SEGRETERIA
Rouge
Maddalena Fasoli
HANNO
24 Sequenza minilab Oltre la nota e inquietante vicenda cinematografica, affascinanti sequenze scenografiche da One Hour Photo Ricerca iconografica di Filippo Rebuzzini
29 Immagini di luce Camera Toss è celebrato come espressività. Personalmente, la pensiamo diversamente. Infatti di Antonio Bordoni
34 I fantastici Sessanta La monografia Dennis Hopper: Photographs 1961-1967 rivela lo spirito di momenti osservati con occhio partecipe di Angelo Galantini
44 Doppio Halsman Ma anche, Halsman in doppio. Una raccolta di inediti, Unknow Halsman, e un romanzo su un tragico episodio della sua gioventù, quando fu accusato di parricidio di Maurizio Rebuzzini
50 Nikon F: 1959-2009 Soprattutto una: quella dei Ponti di Madison County
52 Classici con intelligenza
COLLABORATO
Pino Bertelli Antonio Bordoni Vito Liverani Giulia Ferrari Omega Fotocronache Loredana Patti Lello Piazza Franco Sergio Rebosio Ciro Rebuzzini Filippo Rebuzzini Gabriele Renna Redazione, Amministrazione, Abbonamenti: Graphia srl, via Zuretti 2a, 20125 Milano; 02-66713604; graphia@tin.it. ● FOTOgraphia è venduta in abbonamento. ● FOTOgraphia è una pubblicazione mensile di Graphia srl, via Zuretti 2a, 20125 Milano. Registrazione del Tribunale di Milano numero 174 del Primo aprile 1994. Poste Italiane SpA - Spedizione in abbonamento postale - D.L. 353/2003 (convertito in Legge il 27-02-2004, numero 46), articolo 1, comma 1 - DCB Milano. ● A garanzia degli abbonati, nel caso la pubblicazione sia pervenuta in spedizione gratuita o a pagamento, l’Editore garantisce la massima riservatezza dei dati forniti dagli abbonati e in suo possesso, fatto diritto, in ogni caso, per l’interessato di richiederne gratuitamente la rettifica o la cancellazione ai sensi della legge 675/96. ● FOTOgraphia Abbonamento 12 numeri 65,00 euro. Abbonamento annuale per l’estero, via ordinaria 130,00 euro; via aerea: Europa 150,00 euro, America, Asia, Africa 200,00 euro, gli altri paesi 230,00 euro. Versamenti: assegno bancario non trasferibile intestato a Graphia srl Milano; vaglia postale a Graphia srl - PT Milano Isola; su Ccp n. 28219202 intestato a Graphia srl, via Zuretti 2a, 20125 Milano; addebiti su carte di credito CartaSì, Visa, MasterCard.
Raccolta preziosa e originale: Life. The Classic Collection Ricerca iconografica di Ciro Rebuzzini
● Nessuna maggiorazione è applicata per i numeri arretrati. ● È consentita la riproduzione di testi e fotografie, magari citando la fonte (ma non è indispensabile, né obbligatorio farlo). ● Manoscritti e fotografie non richiesti non saranno restituiti; l’Editore non è responsabile di eventuali danneggiamenti o smarrimenti.
58 Agli altri, interessa!
Fotocomposizione DTP e selezioni litografiche: Rouge, Milano Stampa: Arti Grafiche Salea, Milano
Annunci pubblicitari con uso di richiami fotografici
Rivista associata a TIPA
60 Polaroid riconvertite Limited Gold Edition, a partire dalla 110A Pathfinder
64 Maurizio Rebuzzini Sguardi su un flâneur delle scritture fotografiche di Pino Bertelli
www.tipa.com
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1839-2009
la finestra di Gras Dalla Relazione di Macedonio Melloni 2009.unaRicordando pagina, una illustrazione alla svolta di Akio Morita
Come dire, dal dagherrotipo all’acquisizione digitale di immagini. E consecuzioni
1839. Dal sette gennaio al dodici novembre sedici pagine, tre illustrazioni
Tappe fondamentali, che si sono proiettate sul linguaggio e l’espressività, con quanto ne è conseguito e ancora consegue Relazione attorno al dagherrotipo diciotto pagine, tre illustrazioni
1839. Fotogenico disegno dieci pagine, quattro illustrazioni
1888. Box Kodak, la prima diciotto pagine, quarantacinque illustrazioni
1913-1925. L’esposimetro di Oskar Barnack ventiquattro pagine, cinquantotto illustrazioni
1947 (1948). Ed è fotografia, subito ventiquattro pagine, sessantadue illustrazioni
1981. La svolta di Akio Morita dodici pagine, ventisei illustrazioni
• centosessanta pagine • nove capitoli in consecuzione più quattro, tre prima e uno dopo • duecentosessantatré illustrazioni 1839-2009 Dalla Relazione di Macedonio Melloni alla svolta di Akio Morita di Maurizio Rebuzzini Prefazione di Giuliana Scimé 160 pagine 15x21cm 24,00 euro
F O T O G R A P H I A L I B R I Graphia srl • via Zuretti 2a - 20125 Milano 02-66713604 • graphia@tin.it
2009. Io sorrido, lui neanche un cenno dieci pagine, ventisette illustrazioni
Le paternità sono ormai certe otto pagine, tredici illustrazioni
2009. Alla fin fine cinque pagine, quindici illustrazioni
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overe verso se stessi, prima di altro. Forse, prima di tutto. Anch’io debbo imparare questa lezione, che mi è chiara nella sua semplice enunciazione, quanto difficile da applicare: antepongo gli altri a me, pospongo chi mi sta accanto a un generico dovere estraneo. E ne pago le conseguenze. Ancora, dovere verso se stessi, nella commossa partecipazione alla vita altrui. Così che, una volta ancora e una di più (questa), esulo dalla materia squisitamente fotografica (?), che dovrebbe essere protagonista assoluta di queste pagine, per parlare di una espressione di Vita che mi ha commosso, fino alle lacrime. Lo confesso: leggendo il breve necrologio che sto per riferire, ho pianto. Ancora adesso, all’impersonale tastiera (che nella mia vita ha nulla di impersonale, essendo diventata il mio specchio sul mondo), sto piangendo. Non me ne vergogno, anche se -forse- dovrei farlo. All’improvviso, l’amico Giuseppe Giovenzana, negoziante a Milano, che per recenti vicissitudini professionali è stato abbandonato da tutti (non da me), mi mostra un necrologio, apparso a pagina sessanta del Corriere della Sera di venerdì ventisette novembre. Lo leggo, mi sciolgo in lacrime davanti a lui e alla moglie Nicoletta. So bene a quale vicenda queste parole si riferiscono, e ne conservo un ricordo doloroso, per quanto di riflesso. Oltre la riproduzione qui accanto, la trascrizione: «Dimitri Grignani. Caro Didi, quindici anni senza vederti ma solo immaginare il tuo sorriso. Aiuta il tuo papà che non sa chiedertelo, e sentilo con me, Davide e Laura nel tuo ricordo. Mamma». Ricordo tutto. Lo ricordo ogni volta che passo davanti a quello che era il suo negozio, dietro via Torino, a Milano, del quale il padre Dario, magistrale operatore commerciale della fotografia, andava orgoglioso. Fino a quando la Vita ha presentato quel conto che sarebbe naturale ricevere altrimenti, con altre scadenze e tempi diversamente ritmati. Non è giusto sopravvivere ai propri figli. Improvvisamente, è esploso/riesploso un passato che in molti cuori aveva persino portato serenità. Complice la mia iper-emotività di fronte alle esistenze, mi sono impersonato nell’amico Dario, «che non sa chiederglielo», in sua moglie Marisa, che ho sentito soltanto per telefono, in ogni altro affetto che compone i tratti delle nostre Vite. Ora, avrei anche molto di più vicino che richiede la mia presenza e la mia attenzione. Ma qui e ora è questo ricordo che esige che il mio cuore si apra, che il nostro cuore si apra. Dario Grignani ha attraversato molte stagioni della fotografia, contribuendo a formare quelle radici dalle quali sono nati tutti i nostri alberi, il mio come il vostro: di tutti noi. È possibile, mi domando, che si debba arrivare a tanto (troppo!), per ricordarci gli uni degli altri, per una carezza sul volto, una mano su una spalla, una parola di incoraggiamento, un sorriso spontaneo? No. Guardiamoci attorno, e facciamoci dovere di essere belli. Niente di meglio, soltanto belli. Maurizio Rebuzzini
Sul Corriere della Sera del ventisette novembre è apparso un necrologio in ricordo del quindicesimo anniversario dalla prematura scomparsa di Dimitri Grignani.
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COPPI (ORWELL E ELVIS)
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Gennaio 2010: tre anniversari tondi, o quasi, che vanno ricordati, o quantomeno voglio ricordare. A ritroso, il due gennaio ricorre il cinquantesimo dalla prematura scomparsa di Fausto Coppi (mancato appena dopo aver compiuto quarant’anni, il precedente diciannove settembre; FOTOgraphia, settembre 2009); il ventuno gennaio datiamo il sessantesimo dalla scomparsa di George Orwell (Eric Arthur Blair, anche lui mancato prematuramente, a quarantasei anni), al quale dobbiamo le preveggenti profezie di La fattoria degli animali e 1984, soprattutto; ancora, l’otto gennaio rievochiamo i settantacinque anni dalla nascita di Elvis Presley, Elvis Aaron Presley all’anagrafe, che sarebbe mancato altrettanto prematuramente, il 16 agosto 1977, a quarantadue anni. A proprio modo, e indipendentemente tra loro, ognuno è stato guida per generazioni successive. Non me ne voglia nessuno, ma il mio ri-
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cordo personale privilegia la figura di Fausto Coppi, che ho vissuto di traverso attraverso evocazioni altrui che hanno accompagnato i primi anni della mia vita, in quella via Bordoni 2 che ho declinato a incipit del recente 1839-2009. Dalla Relazio-
ne di Macedonio Melloni alla svolta di Akio Morita, del quale vado particolarmente fiero. E proprio a Fausto Coppi, il Campionissimo, riservo il mio ricordo, dopo aver evocato gli altri anniversari coincidenti. Ancora, richiamo un ricordo per-
Realizzato a cura di Claudio Ferretti, Coppi ha vent’anni è un vinile che contiene le cronache radiofoniche delle imprese del Campionissimo. Pubblicato dalla Gazzetta dello Sport, nell’aprile 1980, successivamente è stato rieditato in un CD, arricchito di ulteriori testimonianze.
Sulla pagina accanto, l’ufficialità in cronaca del passaggio della borraccia da Gino Bartali alla maglia gialla Fausto Coppi. All’interno di Un anno di sport - Il 1952 nel mondo è visualizzato il dominio di Coppi sul Tour: un uomo solo al comando.
ARCHIVIO FOTOGRAPHIA (2)
sonale, che ho già accostato alla celebrazione dei novanta anni dalla nascita. Come ho appena accennato, Fausto Coppi è una delle leggende della mia vita, della quale ho sentito raccontare le gesta mentre mi affacciavo alla Vita (sono nato nel luglio 1951). Un flash lancinante, nei primi giorni del 1960, in un tempo nel quale potevo leggere i giornali che portava a casa un vicino, tipografo dove si stampavano il quotidiano milanese del pomeriggio La Notte e il settimanale Guerin Sportivo, allora in forma di quotidiano. La ricordo ancora, la notizia della morte prematura di Fausto Coppi, il due gennaio, sconfitto dalla malaria contratta in Africa. E poi, non il buio, ma una fantastica serie di rievocazioni, che ho seguìto con interesse amorevole. Risparmio qui le statistiche, che sono facilmente reperibili in Rete, per lasciarmi trasportare dal cuore, quella compagnia dolorosa della mia vita, che mi fa soffrire per molto di quanto vedo, lasciandomi poco per me stesso e la mia intimità. Già, Fausto Coppi e i suoi duelli con Gino Bartali, che le cronache del tempo declinavano anche in chiave politica, attribuendo all’uno e all’altro
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intenzioni che andavano oltre il pedalare. Così che, in anni successivi, ho provato amarezza per la canzone, la bella canzone, che Enzo Jannacci riservò a Bartali, lasciandone l’esecuzione a Paolo Conte (previo duellare con lui in qualche concerto dal vivo): «quel naso triste come una salita / quegli occhi allegri da italiano in gita / e i francesi ci rispettano / che le balle ancora gli girano». Fortunatamente, dopo qualche stagione, nel 1988, Gino Paoli ha fatto pari, con un ottimo Coppi. Un omino con le ruote contro tutto il mondo Un omino con le ruote contro l’Izoard e va su ancora e va su Viene su dalla fatica e dalle strade bianche La fatica muta e bianca che non cambia mai E va su ancora E va su Qui da noi per cinque volte poi due volte in Francia Per il mondo quattro volte contro il vento due Occhi miti e naso che divide il vento occhi neri e seri guardano il pavé E va su ancora E va su E va su... Poi lassù, contro il cielo blu con la neve che ti canta intorno E poi giù Non c’è tempo per fermarsi per restare indietro la signora senza ruote non aspetta più un omino che non ha la faccia da campione, con un cuore grande come l’Izoard e va su ancora e va su e va su e va su... Con tutto, e rinunciando a qualsiasi dualismo inutile e superfluo, onore ufficiale a Gino Bartali: se lo merita. Per decenni si è speculato sulla celebre fotografia di Carlo Martini del passaggio di borraccia Coppi-Bartali. Chi la passa a chi? Parliamone. La scena è impressa nella memo-
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I FOTOGRAFI DI ORWELL mendicanti che stanno meglio sono gli acrobati e i fotografi ambulanti. In condizione particolarmente favorevole Iche(per esempio intrattenendo le persone che fanno la coda davanti a un teatro), un acrobata può guadagnare ancinque sterline alla settimana. I fotografi ambulanti possono guadagnare quasi altrettanto, ma dipendono dalle condizioni atmosferiche. Essi hanno un astuto stratagemma per incrementare il lavoro: quando vedono avvicinarsi un’eventuale vittima, uno di loro le corre appresso con la macchina fotografica e fa finta di scattare una foto; poi, quando la vittima è vicina, esclamano: «Ecco qua, signore, la fotografia dev’essere venuta benissimo. Fa uno scellino». «Ma io non avevo chiesto nessuna fotografia», protesta la vittima. «Come, non l’aveva chiesta? Ma ci era parso che ci facesse segno con la mano! Peccato, una lastra sciupata! A noi costa sei pence». A queste parole di solito la vittima si impietosisce e dice che, dopotutto, la fotografia può anche accettarla. I fotografi esaminano la lastra e dicono che è rovinata, e che ne faranno un’altra senza aumentare la spesa. Naturalmente, la prima fotografia non l’avevano scattata; così, se la vittima rifiuta, non ci rimettono niente. George Orwell (da Senza un soldo a Parigi e a Londra) ria collettiva: Fausto Coppi, mezzo pedale davanti a Gino Bartali, con il braccio teso all’indietro per prendere o porgere una bottiglia. Ecco il dilemma, che sto per sciogliere con un documento ufficiale, inequivocabile, al quale accennammo già nel febbraio 2001, quando Vito Liverani, di Omega Fotocronache, elevò questa immagine a fotografia italiana di sport del secolo. Prima di farlo, parliamo di sport, etica ed eleganza... di altri tempi (purtroppo). Nonostante la contrapposizione tra fazioni di tifosi l’una contro l’altra armate, in gara Coppi e Bartali si sono spesso scambiati incoraggiamenti e cortesie. Nessuno dei due ha mai approfittato di una disgrazia dell’altro per andare in fuga, magari avvantaggiandosi su una foratura; e, addirittura, Coppi lasciò a Bartali una tappa del Tour nel giorno del suo compleanno.
Al Giro d’Italia, un tifoso porge l’acqua a Fausto Coppi, con un mestolo. Fausto Coppi con la maglia di Campione del Mondo 1953, al culmine degli anni di maggiori successi del Campionissimo: maglia rosa al Giro nel 1940, 1947, 1949 (accoppiata con il Tour), 1952 (ancora Giro e Tour) e 1953.
Due posati di Elvis Presley per la presentazione di Jailhouse Rock, album dell’ottobre 1957 dalla canzone omonima, registrata e pubblicata un mese prima. Otto gennaio: settantacinquesimo anniversario dalla nascita.
Eccoci: la lunga vicenda sportiva di Coppi e Bartali è immortalata da un’immagine-simbolo ripresa durante la tappa di montagna Losanna-Alpe d’Huez, la decima del Tour de France 1952. La fotografia, che fissa il passaggio della bottiglia tra Coppi e Bartali (o viceversa), appartiene alla storia sociale del nostro paese: in quante case, su quante pareti è ancora appeso il poster del duetto? La sua paternità è certa. La fotografia è di Carlo Martini, fotoreporter romano, classe 1915, mancato quarant’anni fa, dopo aver collaborato a lungo alla Gazzetta dello Sport. Interpellata al proposito, la moglie Gilda Rossi Martini ha rivelato anche un gustoso retroscena: «Mio marito Carlo -ci ha raccontato- raggiunse Coppi e Bartali con i quali si era accordato la mattina per riprendere la scena, e passò la bottiglia a uno dei due. Di bottiglia mi parlò e non di borraccia; non ricordo se Carlo mi specificò chi sorseggiò per primo, Coppi o Bartali». L’immagine-simbolo della concorrenza leale e sportiva non è quindi stata colta casualmente, ma è stata addirittura indotta, come accade spesso nella fotografia di cronaca (la realtà non è sempre esteticamente accattivante). Lo stesso Carlo Martini aveva già rivelato che l’idea della fotografia gli era venuta nel corso dello stesso Tour, osservando la ripresa televisiva di una scena molto simile, questa sì spontanea, dei due ciclisti che si scambiavano da bere. Dunque, è bastato ripetere la scena per l’obiettivo fotografico.
OMEGA FOTOCRONACHE (2)
Da quando è stata pubblicata sulla Gazzetta dello Sport, con un certo ritardo rispetto al 4 luglio 1952, data dello scatto (le telefoto a quel tempo erano prerogativa solo delle grandi agenzie statunitensi), la fotografia dei due miti del ciclismo italiano, Fausto Coppi e Gino Bartali, è stata usata in mille e mille occasioni, è stata riprodotta in manifesti, pubblicata su riviste di ogni genere, fino a diventare un’immagine indelebile. Non più e non solo semplice documentazione di un evento sportivo, ma simbolo di un periodo, quello del dopoguerra italiano, di grande determinazione, di grande ottimismo e di reali sacrifici, del quale il ciclismo, in quegli anni uno degli sport più “poveri”, è stato una metafora perfetta. Tanti significati nascosti dietro la stampa bianconero di una fotografia, tutti questi sentimenti che affiorano al solo sguardo, dei quali, molto probabilmente, Carlo Martini non era con-
sapevole al momento dello scatto, ma che -piano piano- si sono aggiunti stratificandosi e portando l’immagine oltre se stessa, al di là dell’evento. Comunque sia, negli anni, la fotografia scattata da Carlo Martini è diventata un vero e proprio cult, è entrata a far parte dell’immaginario collettivo come raffigurazione dell’Italia del dopoguerra, superando il suo ambito semplicemente ciclistico. Ed oggi, in un mercatino, ho ritrovato la copia originale di uno speciale giornalistico, pubblicato l’8 gennaio 1953 come supplemento di Lo Sport Illustrato. La copertina di Un anno di sport è esplicita, colorata per l’occasione; in didascalia: «La foto[grafia] dell’anno. Giro di Francia 1952: Bartali passa l’acqua alla maglia gialla Coppi». Basta. Qui si conclude la diatriba. Onore a Gino Bartali, nel ricordo dei cinquant’anni dalla scomparsa di Fausto Coppi. M.R.
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F-MOUNT. Nel momento nel quale Nikon celebra i cinquant’anni dalla Nikon F originaria (1959-2009), con l’affascinante interpretazione rivolta in avanti, 50 Years of F-Mount, della quale siamo gelosi (su questo stesso numero, da pagina 50), Carl Zeiss intensifica la propria interpretazione del convincente innesto a baionetta. Vantando proprie alte prerogative ottiche, che hanno contribuito a scrivere capitoli fondamentali della Storia, non solo della fotografia, Zeiss propone la massima qualità d’immagine, che ora incontra la praticità del controllo automatico. È questo il valore della nuova serie Carl Zeiss ZF.2, in baionetta F-Mount. Questa nuova serie ottica è adatta alle reflex digitali dei nostri giorni. Grazie all’interfaccia elettronica (gestita da CPU), i nuovi Zeiss ZF.2 supportano tutte le regolazioni fondamentali della ripresa fotografica, come il tempo di otturazione, l’apertura del diaframma e l’esposizione programmata. La CPU è in grado di gestire anche le impostazioni manuali dell’esposizione, incluse quelle delle reflex non compatibili AI. Siccome i nuovi obiettivi trasmettono alla reflex i dati Exif, a partire dai parametri di esposizione, non è più necessario gestire manualmente queste informazioni basilari. I preziosi obiettivi Carl Zeiss a focale fissa, di inderogabile alta qualità ottica e fotografica, sono apprezzati per la notevole capacità di raccogliere la luce e la precisione nelle regolazioni manuali, che lasciano sempre il pieno controllo al fotografo. Operativamente, si esprimono al meglio nelle situazioni che richiedono la creatività più spinta e la massima qualità dell’immagine. In aggiunta e allineamento, la
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nuova serie ZF.2 combina le proverbiali superbe prestazioni Zeiss alla comodità degli automatismi di funzione. Martin Klottig, Responsabile Marketing presso la Divisione Obiettivi Fotografici di Carl Zeiss AG afferma che «Gli obiettivi ZF.2 sono strumenti ideali per i fotografi che vogliono concentrarsi più sul soggetto che sugli aspetti operativi della combinazione fotografica. Che si tratti di riprese di cerimonia, di documentare gli accadimenti del mondo o condividere le emozioni di viaggio, questi obiettivi sono perfetti per i fotografi che vogliono registrare rapidamente e con la massima cura i momenti unici della vita. Queste situazioni richiedono tecnologia al più alto livello, per cogliere al volo le azioni spontanee, senza richiedere impegno eccessivo ed assicurando ogni volta immagini fantastiche». La gamma Carl Zeiss ZF.2, in baionetta Nikon F, con CPU, si distribuisce su otto focali, sei delle quali immediatamente disponibili: Distagon T* 18mm f/3,5, Distagon T* 21mm f/2,8, Distagon T* 35mm f/2, Planar T* 50mm f/1,4, Makro Planar T* 50mm f/2 e Planar T* 85mm f/1,4. A seguire, in primavera si aggiungeranno il grandangolare Distagon T* 28mm F/2 e il Makro Planar T* 100mm f/2. Ancora, è in avanzata fase progettuale la revisione ZF.2 (con CPU) del grandangolare Distagon T* 25mm f/2,8. (Fowa, via Tabacchi 29, 10132 Torino).
NIKON IN LUNGO (ANCORA DI PIÙ). L’efficace configurazione attuale AF-S Nikkor 300mm f/2,8G ED VR II si propone come nuova frontiera della fotografia tele a mano libera. Successivo al precedente AF-S VR Nikkor 300mm f/2,8G IFED (di prima generazione VR), il nuovo lungo tele luminoso è dotato della più recente tecnologia di Riduzione Vibrazioni (VR II) e di una nuova modalità di messa a fuoco A/M, che lo rendono la scelta ideale dei foto-
grafi professionisti naturalisti, di sport e reportage. Nikon dichiara che «Il peso ridotto dell’AF-S Nikkor 300mm f/2,8G ED VR II e le dimensioni compatte lo rendono la scelta ideale per la fotografia tele a mano libera, in particolare quando viene utilizzato con un moltiplicatore di focale. Il nuovo sistema VR II offre quattro o più stop di compensazione aggiuntivi». Progettare l’evoluzione di un precedente modello è sinonimo dell’impegno costante di Nikon nell’interpretazione della propria gamma di dotazioni fotografica, intesa a soddisfare sempre meglio le esigenze dei fotografi e a rafforzare ulteriormente -in questo caso- la linea di obiettivi Nikkor ad alte prestazioni. Il nuovo AF-S Nikkor 300mm f/2,8G ED VR II è dotato della tecnologia di Riduzione Vibrazioni VR II di seconda generazione, che consente di scattare con tempi di otturazione fino a quattro stop più lenti delle condizioni standard, per ottenere immagini più nitide rispetto a quanto sarebbe possibile con la ripresa a mano libera. Inoltre, la rinnovata modalità A/M, che si aggiunge alle regolazioni M/A e M, consente di impostare la priorità di autofocus anche se l’anello di messa a fuoco viene ruotato durante la ripresa. Con un peso di appena 2900g, questo teleobiettivo soddisfa appieno tutte le esigenze di chi vive la fotografia con serietà e professionalità. L’AF-S Nikkor 300mm f/2,8G ED VR II è rivolto e indirizzato ai fotografi professionisti, per i quali massima rapidità e silenzio sono fondamentali per cogliere la natura in azione: l’autofocus con motore Silent Wave incorporato permette di scattare senza che l’azione naturale venga disturbata. A completare l’ampio spettro di funzioni delle quali è dotato, il “corpo” dell’obiettivo è completamente sigillato e, dunque, resistente agli effetti di polvere e umi-
dità: per cui, può essere utilizzato in qualsiasi condizione. Il disegno ottico è composto di undici elementi divisi in otto gruppi, incluse tre lenti in vetro ED e un rivestimento nano-crystal. In simultanea, Nikon presenta anche il duplicatore di focale Nikkor AF-S TC-20E III, ovviamente dedicato ai propri teleobiettivi. Per la prima volta al mondo, un moltiplicatore di focale è dotato di una lente asferica, che assicura una alta qualità dell’immagine nelle applicazioni proprie e caratteristiche delle osservazioni fotografiche da lontano o con selezione dell’inquadratura e composizione. Se servisse ancora farlo, questo duplicatore sfata anche i preconcetti secondo i quali utilizzare un moltiplicatore di focale significa sacrificare la qualità dell’immagine a vantaggio della praticità. Progettata per offrire immagini superlative, la costruzione ottica all’avanguardia del nuovo moltiplicatore di focale Nikkor AF-S TC-20E III è finalizzata alla migliore restituzione fotografica. In questo senso è significativa l’adozione di una lente asferica, che garantisce l’alta qualità formale della fotografia. Completamente compatibile con i sistemi VR, autofocus e accoppiamento esposimetro più avanzati, il moltiplicatore di focale AF-S TC20E III è un accessorio indispensabile in molte condizioni della fotografia d’azione. (Nital, via Tabacchi 33, 10132 Torino).
Mettiti in luce con Exmor R.
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LA CINA CHE DORME
U
Un brillante giovanotto di quarant’anni, il tedesco Bernd Hagemann, ha raccolto e pubblicato su un sito Internet circa settecento immagini di cinesi che stanno schiacciando un pisolino, nelle più diverse situazioni, scattate a partire dal 2002, in diverse località della Repubblica popolare: www.sleepingchinese.com. Questa fotostoria potrebbe/dovrebbe rappresentare un paradigma esemplare per molti appassionati di fotografia. A integrazione, è annun-
Semplice da navigare, il sito dedicato presenta le circa settecento fotografie di cinesi dormienti realizzate da Bernd Hagemann, divise per categorie. È prevista una votazione da parte dei visitatori, che possono scorrere tutte le fotografie con un pratico e agevole slideshow.
ciata un’edizione libraria Sleeping Chinese, pubblicata da Blacksmith Books, di Hong Kong (112 pagine 15x12cm; 10,95 dollari). Tra l’altro, rileviamolo subito, dormire in ogni occasione possibile, sfruttando ogni istante disponibile durante la giornata, è una delle costanti del mondo orientale, che si manifesta senza soluzione di continuità in paesi poveri, come è il quotidiano cinese, e ricchi, come può esserlo il Giappone. In oriente, si in-
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contrano sempre persone che dormono, in ogni luogo: senza soluzione di continuità, da giacigli improvvisati sulla strada a sedili di mezzi pubblici, da gente umile a eleganti e impettiti dirigenti d’azienda. Nato a Lemgo, una cittadina tedesca appartenente alla regione (Land) Nord Reno-Westfalia, Bernd Hagemann ha studiato materie economiche a Paderborn, nella stessa regione. Professionalmente, la sua carriera comincia con un impegno
come cronista di sport per la testata regionale Lippischen Landes-Zeitung. Assunto poi da una multinazionale tedesca, nel 2000, nel 2002 è stato inviato in Cina, prima a Pechino, e poi, dal 2003, a Shanghai. Bernd Hagemann non è un fotografo di professione, ma porta sempre con sé una macchina fotografica. La sua passione per la fotografia, i costumi e le culture del mondo, la sua dedizione a queste tematiche, gli ha fatto venire l’idea di dare un’im-
magine meno aggressiva del paese nel quale ha vissuto, che è indicato costantemente dai media come «la superpotenza nascente», oppure «il Drago Rosso che si è risvegliato». Guardate queste fotografie: non danno un’immagine dolce della Cina? Allora, dobbiamo continuare a guardare con attenzione, e un filo di paura, il Drago Rosso? Nonostante queste dolci fotografie, forse sì. A questo punto, è bene sottoli-
Sleeping Chinese, di Bernd Hagemann; Blacksmith Books, Hong Kong; 112 pagine 15x12cm; 10,95 dollari.
neare che, anche senza trasformarsi in Henri Cartier-Bresson, ed entrare alla Magnum Photos, Bernd Hagemann è diventato fotograficamente famoso, e il suo sito è stato visitato da oltre un milione di persone (un milione e ottocentomila, a metà ottobre): questo, non è altrettanto appagante che diventare fotografo professionista? Chissà? Forse sì. Comunque, visitate anche voi il suo sito, e votate, come fanno tutti, la fotografia che preferite. L.P.
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EUGENE SMITH 2009. Il quattordici ottobre scorso, presso la sede di The Asia Society (752 Park Avenue, New York), sono stati assegnati i trentamila dollari dell’edizione 2009 del prestigioso e autorevole premio W. Eugene Smith Grant in Humanistic Photography. Vincitore è risultato il fotografo cinese Lu Guang, per il suo lavoro sugli effetti dell’inquinamento dovuto all’impetuoso sviluppo industriale avvenuto nel suo paese [qui sotto]. Lu Guang, che si era già aggiudicato un riconoscimento al World Press Photo 2004 per un reportage sull’Aids in Cina, ha dedicato quattro anni alla sua indagine fotografica. Lu Guang nasce nel 1961, nella provincia cinese di Zhejiang. Comincia a fotografare nel 1980, quando è ancora un operaio. Dal 1993 al 1995, si trasferisce a Pechino, dove studia presso la Fine Arts Academy, dell’università Tsinghua; contemporaneamente, diventa libero professionista. La sua attenzione si focalizza soprattutto su temi sociali collegati all’ambiente, come quelli connessi alla vita dei minatori dell’oro e del carbone, all’epidemia Sars, all’Aids, alla droga. La giuria del premio intitolato a W. Eugene Smith ha poi premiato con cinquemila dollari la fotografa Krisanne Johnson, di Brooklyn, per
Questa rubrica riporta notizie che sono appartenute alla cronaca. Però, nel loro richiamo e riferimento molti motivi ci impediscono di essere tempestivi quanto la cronaca richiederebbe. Ciononostante riteniamo giusto proporle, perché siamo convinti che non abbiano perso la propria attualità, e continuino a offrire spunti di riflessione.
Causa il crollo delle inserzioni pubblicitarie, Condé Nast chiude altre quattro testate: Gourmet, Modern Bride, Elegant Bride e Cookie.
Il cinese Lu Guang si è affermato al W. Eugene Smith Grant in Humanistic Photography 2009, con un reportage sugli effetti dell’inquinamento dovuto all’impetuoso sviluppo industriale avvenuto nel suo paese.
il suo lavoro sulle donne che raggiungono la maggior età nello Swaziland, la regione al mondo con il più alto tasso di ammalati di Hiv. Alla finale sono arrivati Matt Eich (Norfolk, Virginia), per un reportage sulla povertà in alcune aree dell’Ohio; Johann Spanner (Copenhagen, Danimarca), che ha seguìto una setta di donne albanesi che, secondo una tradizione centenaria, vivono come uomini e in celibato; Joseph Sywenkyj (Campton, New Hampshire, ma originario di Kiev, Ucraina), per il suo progetto riguardante una coppia ucraina ammalata di Aids. La giuria del Premio era composta da Helen Marcus, past president del W. Eugene Smith Memorial Fund, Jeff Rosenheim, curatore presso il dipartimento di fotografia del Metropolitan Museum of Art, di New York, e Devika Dalet-Singh, fondatore e direttore della Photo-Ink Photography Gallery, di Nuova Delhi. Va ricordato che quattro italiani si sono già aggiudicati questo riconoscimento: Paolo Pellegrin, nel 2006; Ernesto Bazan, nel 1998; Dario Mitidieri, nel 1991; Letizia Battaglia, nel 1985. Quest’anno, l’Eugene Smith Grant è stato sostenuto da Open Society Institute, un organismo creato nel 1993 da George Soros, uomo d’affari e filantropo, Blurb Inc, la società che stampa su ordinazione libri online, Canon Usa e altri donatori privati. Al sito www.smithfund.org/apply/ smith sono aperte le iscrizioni per partecipare all’edizione 2010: termine di partecipazione trentuno maggio.
HOWARD CHAPNICK GRANT. Contemporaneamente al Premio intitolato a W. Eugene Smith Grant, sono stati assegnati i cinquemila dollari dell’Howard Chapnick Grant for the Advancement of Photojournalism. Ha vinto Richard Steven Street, uno scrittore che sta curando la pubblicazione di un libro dedicato a un corposo reportage sui braccianti messicani che ottenevano un contratto di lavoro negli Stati Uniti, realizzato nel 1956
da Leonard Nadel, un fotogiornalista che ha lavorato, tra gli altri, per Look, Cosmopolitan e Business Week.
BUONA NOTIZIA DAL SUDAN. Alla fine dello scorso settembre, il presidente sudanese Omar Hasan Ahmad al-Bashir ha abolito la censura di Stato sui giornali. In precedenza, prima di andare in stampa, tutti i quotidiani e i periodici venivano vagliati da un apposito ufficio governativo che, in caso di non gradimento, poteva impedirne la pubblicazione. In seguito al provvedimento, le testate giornalistiche non saranno più sottoposte a censura preventiva (http://www.isfreedom.org/alertnews1750.htm).
CATTIVA NOTIZIA DAGLI USA. All’inizio di ottobre, a causa del crollo delle inserzioni pubblicitarie, la casa editrice Condé Nast ha annunciato la chiusura di quattro testate: Gourmet [qui sopra], Modern Bride, Elegant Bride e Cookie. In precedenza, per raggiungere l’obiettivo di diminuire del cinque percento le spese di gestione, l’azienda aveva già chiuso le testate meno performanti, come Condé Nast Portfolio (FOTOgraphia, maggio 2009), Domino e Men’s Vogue. A seguito di queste chiusure, perdono il posto di lavoro circa centottanta persone.
LYNSEY ADDARIO VINCITRICE. La prima edizione del MacArthur Fellows Program o MacArthur Fellowship (definito anche Genius Award, il premio dei geni) è del 1981. Si tratta di un premio assegnato ogni anno
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Lynsey Addario ha ricevuto il MacArthur Fellows Program o MacArthur Fellowship (detto anche Genius Award, il premio dei geni).
dalla John D. and Catherine T. MacArthur Foundation a un numero compreso tra venti e quaranta cittadini americani (di qualunque età e in qualunque campo), per le proprie doti di creatività. Il premio consiste in un assegno di cinquecentomila dollari consegnati a ogni vincitore nell’arco di cinque anni, con rate quadrimestrali. Nell’edizione 2009, Lynsey Addario è stata l’unico fotografo a essere premiato tra i ventiquattro vincitori [qui sopra]; nella sua storia quasi trentennale, il MacArthur Fellowship è stato assegnato ad altri dieci fotografi: Richard Benson (1986), Lee Friedlander (1990), Wendy Ewald (1992), Susan Meiselas (1992), Robert Adams (1994), Cindy Sherman (1995), Alfredo Jaar (2000), Deborah Willis (2000), Camilo José Vergara (2002), Fazal Sheikh (2005). Nel 1984, è stato assegnato anche allo storico della fotografia Beaumont Newhall. Lynsey Addario è conosciuta e famosa per i suoi coraggiosi reportage in Afghanistan, Iraq, Darfur, Congo e Arabia Saudita. Recentemente è rimasta ferita in un attentato in Pakistan (FOTOgraphia, giugno 2009).
TALENTO FNAC 2009. Il venti novembre sono stati annunciati i vincitori della settima edizione del premio Talento Fotografico, ideato da Fnac per riconoscere e promuovere le giovani capacità della fotografia italiana. Presieduta da Giovanna Calven-
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Matteo Gozzi, menzione Internazionale di Talento Fotografico Fnac 2009, per la sua indagine sulle periferie di Ulaanbaatar, capitale della Mongolia. Maurizio Cogliandro, Talento Fotografico Fnac 2009, per il progetto Un passo dietro a te.
zi (photo editor di Sport Week), la giuria era composta da Elena Boille (photo editor di Internazionale), Elena Ceratti (ex Agenzia Grazia Neri), Simona Ghizzoni (fotografa), Gigi Giannuzzi (editore di Trolley Books), Carlo Roberti (direttore del Toscana Photographic Workshop) e Valeria Moreschi (Fnac Italia). Dopo aver esaminato gli oltre trecentocinquanta dossier, pervenuti da tutta Italia, la giuria ha premiato Maurizio Cogliandro, per il suo progetto Un passo dietro a te, un racconto per immagini che accompagna «nel vissuto quotidiano di città» e «in luoghi dell’anima» (dichiarazioni dell’autore) [in basso]. A seguire, sono state assegnate menzioni speciali: Internazionale, a Matteo Gozzi, per la sua indagine
fotogiornalistica sulle periferie di Ulaanbaatar, capitale della Mongolia [qui sotto]; TPW, a Calogero Russo, per un lavoro su quella che l’autore definisce «una movida lowcost», che ha luogo ogni notte nel cuore di Palermo, tra Vucciria e piazza Magione; e una menzione speciale a Bart Herreman, per il suo progetto Twiga (che in lingua swahili significa giraffa), dove, con grande abilità digitale e molta ironia, vengono creati mondi surreali inserendo animali della savana in ambienti a loro estranei. La mostra con le fotografie del vincitore è allestita dal quattordici gennaio nella Galleria Fotografica Fnac di Milano, in via Torino, angolo via della Palla, al secondo piano della sede commerciale.
giornali sono diminuite del ventiquattro percento rispetto allo stesso periodo del 2008 (-24%). In particolare, i quotidiani a pagamento hanno registrato una diminuzione di fatturato del venti percento, mentre i quotidiani Free Press hanno segnato andamenti in calo del ventotto percento (rispettivamente, -20% e -28%). I periodici in generale hanno registrato un fatturato in diminuzione del trenta percento: settimanali meno ventinove percento; mensili meno trentadue percento; altre periodicità meno diciassette percento (periodici -30%, settimanali -29%, mensili -32%, altro -17%).
BLACKARCHIVES. Fabio Massimo Aceto, Graziano Arici, Giovanbattista Brambilla, Gerald Bruneau, Basso Cannarsa, Remo Casilli, Leonardo Cendamo, Titti Fabi, Fulvia Farassino, Francesco Garufi, Grazia Ippolito, Daniele La Malfa, Marcello Mencarini, Roberto Ponti sono i fotografi che hanno fatto l’impresa: hanno fondato Blackarchives [qui sopra]. Questi quattordici fotografi, che fino alla sua liquidazione erano rappresentati dalla Agenzia Grazia Neri (della cui chiusura abbiamo scritto in FOTOgraphia, dello scorso novembre), si sono associati in una nuova avventura per continuare il loro mestiere fotogiornalistico. Si propongono di realizzare nuove produzioni e dare visibilità ai rispettivi ricchissimi archivi, che complessivamente contano più di settecentomila fotografie dedicate alla politica, alle celebrities, ai viaggi, alla moda, allo sport, alla cultura. È disponibile anche una vasta collezione di immagini storiche e decine di migliaia di fotografie geografiche (www.blackarchives.it). Ai quattordici fondatori si sono subito aggiunti altri sei fotogiornalisti: Riccardo Musacchio, Alberto Ramella, Alberto Roveri, Mark Edward Smith, Mauro Vallinotto e Chris Warde-Jones. Buona fortuna, cari amici, dal più profondo del cuore. PUBBLICITÀ IN PICCHIATA. Secondo l’Osservatorio Stampa Fcp (Federazione delle concessionarie di pubblicità) nel periodo gennaio-agosto 2009 le entrate pubblicitarie dei
Blackarchives, nuova agenzia fotografica creata da quattordici fotografi, che fino alla sua liquidazione erano rappresentati dalla Agenzia Grazia Neri.
Demi Moore... sfiancata sulla copertina di dicembre di W Magazine.
DEMI MOORE... SFIANCATA. Demi Moore è tornata su una rivista statunitense dedicata alle celebrities, con una bizzarra apparizione sulla copertina di dicembre di W Magazine, dove, grazie a un’abile postproduzione, è stata privata dei suoi fianchi per far spazio agli “strilli” (?) [qui sotto]. Nell’occasione, l’attrice ha rilasciato una lunga intervista, illustrata con fotografie di Mert Alas e Marcus Piggott (chi è interessato la trova sul sito del mensile, www.wmagazine.com). Ma non è certo questa intervista il motivo che ci ha spinti a darne notizia. Siamo rimasti basiti, stupefatti,
sconcertati di come un art director e il suo direttore possano aver passato una copertina simile. Mentre il fianco sinistro è quello di una dea greca, quello destro sembra di una persona malata, o viceversa.
AUTUNNO FREDDO. Dei vari “bollettini di guerra”, che vengono rilasciati in questi mesi a proposito dei giornali, ecco un’altra sintesi deprimente. La Mondadori ha chiuso i primi nove mesi del 2009 con un calo del fatturato consolidato (cioè dell’intero gruppo) del 18,6 percento, rispetto allo stesso periodo 2008, pari a 1,1 miliardi. Per il gruppo di Segrate, il margine operativo lordo (cioè l’utile lordo prima di tasse, costi finanziari e ammortamenti), si è attestato a 68,2 milioni (meno 59,6 percento), mentre l’utile consolidato a 27,1 milioni (meno 53,9 percento). Segrate porrà rimedio tagliando i costi, cioè i posti di lavoro: meno seicentoventiquattro persone. Cairo Communication ha chiuso i primi nove mesi dell’anno con ricavi pari a 179,6 milioni di euro (dieci milioni in meno rispetto al 2008), anche se però registra, nel solo settore editoriale, un aumento del 32,9 percento del margine operativo lordo del periodo gennaio-settembre 2009. I dati più preoccupanti sembrano però quelli di Rcs, la società che pubblica, tra altro, il Corriere della Sera. I primi nove mesi si chiudono con ricavi netti pari a 1,6 miliardi, in calo del 17,2 percento (1,9 miliardi nello stesso periodo 2008). Il Gruppo Espresso denuncia un crollo del fatturato pari al 12,5 percento (191,7 milioni di euro). Male anche quelli che guadagnano: Mediaset ha registrato un utile netto su nove mesi quasi dimezzato rispetto al 2008 (pari comunque a 184,2 miliardi). RESTRIZIONI MILITARI. Un documento rilasciato il quindici settembre dal Comando Regionale Orientale di stanza presso il Bagram Air Field, ufficializza le nuove restrizioni sulla pubblicazione di immagini di militari americani uccisi in azione in Afghanistan. Testuale: «Agli inviati dei media sarà vietato di fotografare o filmare militari americani uccisi in azione». Questo a modifica di quanto
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scritto in un documento precedente rilasciato il ventitré luglio: «Se verranno soddisfatte certe condizioni [quali?], agli inviati dei media non sarà vietato di fotografare o filmare militari americani uccisi in azione». Attribuito dal Comando a ragioni di privacy, il cambiamento è avvenuto in seguito alla pubblicazione di una fotografia realizzata il quattordici agosto da Julie Jacobson, fotografa della Associated Press. La fotografia visualizza la morte del marine Joshua M. Bernard [qui sotto]. Sia la famiglia del soldato, sia il segretario alla Difesa, Robert Gates, chiesero alla AP di ritirare l’immagine. Nonostante pochissimi giornali l’abbiano pubblicata, quella fotografia è circolata su molti siti web. Il cambiamento sembra andare nella direzione contraria e opposta a quella assunta dalla amministrazione Obama, che ha mostrato una certa disponibilità a rendere più visibili alla stampa immagini che riguardano la morte di soldati americani. Le immagini di militari uccisi sono state pubblicate molto raramente e, finora, non ne era mai stata proibita la diffusione.
UN ALTRO SALUTO. Il ventisette ottobre è mancato Roy DeCarava, un fotografo nero nato a Harlem, New York, nel 1919 [al centro, in alto]. Roy DeCarava è stato un documentary photographer, che si è battuto a lungo per una migliore considerazione della produzione artistica nera, nell’arte in generale e nella fotografia in particolare, facendosi portavoce dei giovani fotografi afroamericani. Dopo il servizio militare, ha studiato pittura e disegno alla George Washington Carver Art School. Cominciò a fotografare per raccogliere materiale per i suoi disegni. Poi, nel 1950, Edward Steichen, mitico direttore
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Roy DeCarava è mancato il ventisette ottobre. Graduation: fotografia di Roy DeCarava, del 1949.
del Dipartimento di Fotografia del Museum of Modern Art, di New York, che stava preparando la grande, indimenticabile mostra del 1955, The Family of Man, visitò una esposizione di centosessanta fotografe di DeCarava, allestita presso la Mark Pepper’s Forty Fourth Street Gallery [qui sopra]. Steichen ne acquistò tre per la collezione del Museo, che poi espose anche tra le immagini di Family of Man. Nel 1952, Roy DeCarava fu il primo afroamericano a vincere un John Simon Guggenheim Memorial Fellowship. Questo riconoscimento cambiò la sua vita. Grazie al Premio, scattò circa duemila immagini, molte delle quali furono raccolte nel suo primo libro, The Sweet Flypaper of Life, che pubblicò nel 1955 in collaborazione con il poeta Langston Hughes. Ne 1963, fu cofondatore di Kamoinge, un’associazione nata per sostenere il lavoro artistico dei fotografi afroamericani. Herbert Randall, uno dei fotografi che più ha lavorato sulle battaglie per i diritti civili dei neri americani e che incontrò DeCarava nel 1963, afferma che arrivò al professionismo dopo aver visto The Sweet Flypaper of Life. «Prima di DeCara-
Provincia di Helmand: il marine Joshua M. Bernard colpito a morte. È questa la fotografia di Julie Jacobson, dell’AP, che ha sollecitato le nuove restrizioni sulla pubblicazione di immagini di militari americani uccisi in azione in Afghanistan.
va -ha affermato-, in fotografia, i neri apparivano sempre come servi. È grazie a Roy se hanno cominciato a risultare esseri umani». Nel 1975, Roy DeCarava cominciò a insegnare fotografia presso il New York’s Hunter College, e fu eletto Distinguished Professor of Art nel 1988. Nel 1996, il Museum of Modern Art gli ha dedicato una mostra retrospettiva, e due anni dopo l’International Center of Photography gli ha assegnato l’Infinity Award for Master of Photography. Nel 2000, Phaidon ha pubblicato The Sound I Saw, un libro di ritratti dei maestri del jazz. «Non è necessario che una cosa sia bella, per essere vera -ha dichiarato Roy DeCarava in un’intervista rilasciata nel 2001-. Ma se è vera, allora è bella. Le cose vere sono belle. Per questo, nel mio lavoro, ho sempre avuto una venerazione per la realtà».
FOTOGRAFIA ASTRONOMICA. In coincidenza con il 2009, Anno Internazionale della Astronomia, The Royal Observatory of Greenwich (Londra) ha organizzato la prima edizione di un concorso dedicato a tutti coloro che amano il cielo stellato: Astronomy Photographer of the Year. Il concorso si è appena concluso con la consegna di un assegno di mille sterline al vincitore assoluto, Martin Pugh, che ha superato tutti gli altri concorrenti con una bellissima immagine della Nebulosa del Cavallo [pagina accanto]. Non bisogna certo paragonare le fotografie in concorso con le incredibili immagini realizzate dai satelliti, come Hubble (FOTOgraphia, novembre 2009). Questi scatti sono realizzati da terra, con strumenti poco più che amatoriali. Ciononostante, le fotografie sono di elevata qualità, come testimonia l’immagine vincitrice; e, fino a una ventina d’anni fa, non si poteva certo immaginare che un giorno si sarebbero potute realizzare con strumenti alla portata di tutti. I dati tecnici della fotografia vincitrice: macchina fotografica dedicata Sbig STL-11000 CCD; telescopio riflettore da 12,5 pollici, con configurazione Ritchey-Chrétien, prodotto da RC Optical Systems;
ni sopra la media, rispettivamente con percentuali del cinquantatré e quarantotto percento (53% e 48%). Dei portafogli senza fotografie, ma con la ricevuta di una donazione a una associazione no profit, è stato restituito il venti percento (20%); mentre di quelli con nulla di particolare è stato restituito solo il quindici percento (15%).
montatura robotizzata Paramount ME, gestita da software Bisque; diciannove ore di esposizione. Per i risultati nelle altre categorie del concorso: www.nmm.ac.uk/visit/exhibitions/astronomy-photographer-ofthe-year/winners/deep-space/.
PRINCE’S RAINFORESTS PROJECT. Sezione importante del Sony World Photography Awards 2009 (FOTOgraphia, maggio, giugno, luglio e settembre 2009), il Prince’s Rainforests Project (PRP) ha messo in rete un libriccino in formato Pdf che racconta della deforestazione e fa il punto sullo stato dell’arte di questo tema decisivo per il futuro dell’umanità. Scaricabile gratuitamente all’indirizzo www.rainforestsos.org/book? utm_source=2009%2B10+21+prp+ newsletter&utm_medium=email&utm _campaign=newsletterlist, il libriccino è illustrato con le immagini di Daniel Beltrá, vincitore del Prince’s Rainforests Project 2009, e contiene le testimonianze di personalità del protezionismo internazionale, tra le quali il notissimo David Attenborough, il Capo Almir della tribù Suruí, che vive nell’Amazzonia brasiliana, e Jared Diamond, autore di un testo fondamentale: Armi, acciaio e malattie. Breve storia del mondo negli ultimi tredicimila anni (Einaudi, Super ET, 2005; 366 pagine, 11,50 euro).
BAMBINO SORRIDENTE NEL PORTAFOGLI. Per quello che può valere dal punto di vista statistico, riporto una notizia della quale fare prezioso tesoro.
SIA LODE ORA A ANGELO MEREU (E A SKY). Uno dei più bei progetti fotografici dedicati a Milano degli ultimi (quasi) vent’anni, è quello che il gioielliere con la passione per
Un gruppo di ricercatori dell’Università di Edimburgo ha sparso per la città duecentoquaranta portafogli (nessuno contenente denaro), simulandone lo smarrimento. In alcuni portafogli, era stata messa una fotografia di bambino o cucciolo di cane o famiglia felice; in altri, la ricevuta di versamento di una donazione a una associazione no profit; in altri ancora, niente di particolare. Lo scopo era quello di individuare, se esiste, un motivo che rende più probabile la restituzione di un portafogli ritrovato. È risultato che l’ottantotto percento (88%) di quelli che avevano all’interno la fotografia di un bambino sono stati restituiti al legittimo (e simulato) proprietario [qui sotto]. Anche le fotografie dei cuccioli e di famiglia hanno segnalato restituzio-
Martin Pugh: Astronomy Photographer of the Year, con questa bellissima immagine della Nebulosa del Cavallo.
I murales Armani, fotografati da Angelo Mereu, sul sito di SkyTv.
È stato restituito al legittimo proprietario l’ottantotto percento di portafogli smarriti contenenti la fotografia di un bambino (model released: fotografia scattata con bambini attori).
la fotografia Angelo Mereu ha riservato alle gigantografie pubblicitarie di Armani ostentate a Milano, all’angolo tra via Broletto e via dell’Orso. Stilisticamente coerenti, inquadrate con grande sapienza visiva, le immagini raccontano in una specie di rosario pagano l’evolversi del linguaggio comunicazionale dello stilista milanese. Questo lavoro, pubblicato qua e là in scatti singoli (anche in FOTOgraphia, del giugno 2004), non ha mai avuto il riconoscimento che si meriterebbe con una grande mostra (salvo quella del 2004, in occasione del cinquantesimo murale, presso l’Emporio Armani, di via Manzoni) o un suntuoso libro. Intanto, Barbara Ferrara di SkyTv gli dedica tre pagine sul sito dell’emittente: http://mag.sky.it/mag/ arts/2009/11/10/angelo_mereu_articolo.html [qui sopra].
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STEFANO UNTERTHINER. Vi ricordate la copertina di FOTOgraphia dello scorso febbraio? L’autore della splendida immagine è Stefano Unterthiner, forse il miglior fotografo naturalista italiano di questo inizio di secolo. Vogliamo segnalare uno straordinario servizio che ha pubblicato sul National Geographic originario (e, di conseguenza, anche sull’edizione italiana): sedici pagine! A memoria, non ricordo nessun altro fotografo naturalista italiano che abbia avuto l’onore di una pubblicazione sulla prestigiosa rivista, dove si sono avvicendati i più grandi personaggi della storia della fotografia naturalistica a livello mondiale, da Frans Lanting a Jim Brandenburg, da Nick Nichols a Paul Nicklen. Il servizio è dedicato all’arcipelago di Crozet, e in particolare all’isola di Possession, dove Stefano Unterthiner si è fermato per quattro mesi (ai quali bisogna aggiungere un mese di viaggio, tra andata e ritorno per raggiungere il posto in nave: nessun aeroporto lì). Una delle immagini pubblicate, quella che presentiamo [qui sopra], è stata Highly Commended nella categoria Animals in their Environment (animali nel loro ambiente) del concorso Wildlife Photographer of the Year 2009, del quale relazioneremo nel prossimo numero, oppure in quello ancora successivo.
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Una delle immagini di Stefano Unterthiner, pubblicate su National Geographic: anche Highly Commended nella categoria Animals in their Environment (animali nel loro ambiente) del Wildlife Photographer of the Year 2009.
LE COSE VANNO MALE... «Il numero di dicembre di Digital Journalist, sarà probabilmente il nostro ultimo numero». Così annuncia Dirck Halstead, direttore ed editore di uno dei più famosi mensili web dedicati al fotogiornalismo (www.digitaljournalist.org), in una email riservata del diciannove novembre. Corre anche voce che Canon non sarebbe più disposta a sponsorizzare le mostre annuali del World Press Photo, a Milano, presso la Galleria Carla Sozzani, e a Roma, presso il Museo di Roma in Trastevere. ... LE COSE VANNO BENE. Il diciotto novembre si è concluso a Dublino (Irlanda) un concorso europeo che ha visto coinvolti seicentoundici soggetti in rappresentanza di duecentottantaquattro Fondi Pensione (pubblici e privati) di trenta paesi, per un totale di asset gestiti pari a circa settecento miliardi di euro. L’Inpgi, fondo pensione dell’Ordine dei Giornalisti, è stato premiato come miglior fondo italiano per la strategia adottata, che permette «la massimizzazione della probabilità di pagare le pensioni a tutti gli iscritti entro un orizzonte temporale di cinquanta anni». Speriamo che adesso i giornalisti, dopo tante voci allarmistiche sul futuro delle loro pensioni, possano dormire sonni più tranquilli: www.inpgi.it. TAKE A VIEW. A dispetto della cri-
Emmanuel Coupe: Take a View 2009, con una veduta dell’Isola di Skye, in Scozia, The Old Man of Storr.
si della fotografia, nascono come funghi concorsi per la gratificazione di questo o di quel non professionista, di questo o quel professionista. Naturalmente, niente di male, anzi. Ecco il Take a View 2009, assegnato per la migliore fotografia dell’anno che ritragga un paesaggio del Regno Unito. La fotografia vin-
citrice è di Emmanuel Coupe, un fotografo di Parigi, che si è aggiudicato le diecimila sterline (sic!) del primo premio assoluto [in basso]. Insieme ad altri novantanove, selezionati tra le migliaia di fotografie che hanno partecipato al concorso, questo scatto è allestito in mostra, a partire dal cinque dicembre, presso il London’s National Theatre (www.take-a-view.co.uk).
FOR IMMEDIATE RELEASE. Hyderabad (India), 30 novembre 2009. Prima di chiudere la rubrica ricevo una allarmante email da Larry Kilman, del World Association of Newspapers and News Publishers (Wan-Ifra, www.wan-ifra.org), che sintetizzo telegraficamente, senza per questo perdere informazione. Alla vigilia del meeting internazionale di Hydebarad (India), il Wan-Ifra: 1) denuncia il massacro di più di trenta giornalisti negli ultimi fatti sanguinosi avvenuti il ventitré novembre nella provincia di Maguindanao (Filippine), e stigmatizza il clima di impunità che rende le Filippine il posto più pericoloso al mondo per gli inviati della stampa, dal momento che dal 1986 a oggi ben cento giornalisti sono statti assassinati nell’arcipelago del Sudest asiatico; 2) condanna la Cina per la mancanza di libertà di stampa e chiede la liberazione di giornalisti, scrittori e difensori dei diritti umani in carcere; 3) chiede al presidente Dmitry Medvedev di agire affinché siano risolti i casi dei cinque giornalisti assassinati in Russia dall’inizio del 2009; 4) condanna l’incarcerazione di ventisette giornalisti a Cuba, e denuncia il presidente Raul Castro per il suo discorso contro la libertà di stampa; 5) esprime la propria preoccupazione per le intimidazioni nei confronti della stampa da parte del governo turco; 6) richiama l’attenzione del governo pakistano sugli otto giornalisti uccisi nel paese dall’inizio dell’anno, e chiede azioni per assicurare la libertà di stampa; 7) condanna lo Yemen per l’incarcerazione di diversi giornalisti; 8) ricorda che più di settecentocinquanta giornalisti sono stati uccisi negli ultimi dieci anni nel mondo. A cura di Lello Piazza
SEQUENZA MINILAB
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Del film americano One Hour Photo abbiamo riferito in cronaca, dove e quando sottolineammo che la sceneggiatura si basa su un servizio di sviluppo e stampa di fotografie in un’ora (lapalissiano), svolto presso un lindo centro commerciale della provincia statunitense (FOTOgraphia, novembre 2002). In quell’occasione, tempestiva sull’uscita del film nelle sale italiane, rilevammo soprattutto il retrogusto della vicenda. Ricordiamolo: prendendo a pretesto il servizio di sviluppo e stampa delle fotoricordo, One Hour Photo narra una vicenda dai risvolti molteplici, con sconfinamenti verso la psicopatia e
I titoli di testa di One Hour Photo (di Mark Romanek; Usa, 2002) riprendono l’aspetto del negativo fotografico 35mm, alternando sullo schermo una avvincente sequenza di colori: richiamo esplicito e mirato all’essenza del film, la cui sceneggiatura e vicenda si basano appunto su un servizio di sviluppo e stampa di fotografie in un’ora (lapalissiano).
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l’omicidio (a conseguenza diretta). A seguire, nel maggio 2008, abbiamo richiamato lo stesso film, quando rimproverammo all’autorevole periodico American Photo di averlo escluso dalla sua classifica dei dieci film con presenza fotografica più significativi della storia del cinema. Del resto, consentiamoci una digressione, questa non fu la sola dimenticanza di American Photo, seppure una delle più gravi dal punto di vista della riflessione fotografica al cinema. Bizzarre inclusioni a parte, dalla classifica dei dieci film fondamentali della combinazione tra fotografia e cinema furono esclusi La dolce vita (di Federico Fellini; 1960), Smoke (di Wayne Wang; 1995), Occhio indiscreto (The Public Eye, di Howard Franklin; 1992), Flags of Our Fathers (di Clint Eastwood; 2006), Pretty Baby (di Louis Malle; 1978), Fur. Un ritratto immaginario di Diane Arbus (Fur: An Imaginary Portrait of
Diane Arbus, di Steven Shainberg; 2006), Il favoloso mondo di Amélie (Le fabuleux destin d’Amélie Poulain, di Jean-Pierre Jeunet; 2001). E, per l’appunto, One Hour Photo (di Mark Romanek; 2002). Così che, abbiamo forse già detto tutto, non soltanto molto su questa sceneggiatura. Ora torniamo al film per sottolineare sue componenti scenografiche di complemento. Però, prima di dare spazio alla presentazione delle illustrazioni che sintetizzano momenti particolari del film, così come li abbiamo isolati dal totale, che visualizzano in modo straordinario la sequenza di servizio di sviluppo e stampa con minilab, è opportuno riassumere l’essenza del film. Altrimenti, rischieremmo di non capirci.
RICHIAMO Nell’autunno 2002, il piccolo-grande mondo della fotografia (italiana) fu lusingato dall’uscita nelle sale di One Hour Photo, che fin dal titolo esprime a chiare lettere la chiave interpretativa di una vicenda a sfondo dichiaratamente fotografico. Però, lo stesso piccolo-grande mondo, soprattutto commerciale era (ed è ancora) inconsapevole che il film approda a riflessioni fotografiche che volano alte, oltre la semplicità del pretesto ufficiale e che, a tutti gli effetti, racconta una vicenda che non è affatto leggera, come potrebbe apparire. Alcune considerazioni sottolineate dalla trama, e sceneggiatura, rimangono nello specifico (appunto) fotografico; altre partono da questo per affrontare la Vita, l’Esistenza. Il titolo del film, One Hour Photo, è di facile traduzione: “Fotografie in un’ora” riprende il richiamo pubblico ufficiale dei servizi rapidi di sviluppo e stampa colore dei paesi anglosassoni, spesso utilizzato anche in altre nazioni, a volte anche in Italia. Nello specifico, il contenitore “One Hour Photo” dà corpo al minilab attorno al quale si snoda la vicenda del film di Mark Romanek (anche sceneggiatore, alla prima regia cinematografica), interpretato da un magistrale Robin Williams, al culmine delle proprie performance cinematografiche. Nella parte di Seymour “Sy” Parish, addetto al servizio rapido di stampa colore presso un lindo centro commerciale (SavMart), alle por-
te di una anonima città statunitense, Robin Williams vive un’esistenza in qualche modo di riflesso: alla famiglia Yorkin, che conosce e ama attraverso le fotografie che la moglie Nina gli porta regolarmente a sviluppare. Oltre le copie che consegna, contravvenendo tutte le logiche e regole del proprio mestiere (questo va detto, sottolineato e ribadito, a garanzia e tutela della privacy dei clienti), Sy stampa una propria serie aggiuntiva. Per mezzo di queste serene e allegre istantanee partecipa alla loro vita, ritagliandosi un morboso ruolo di ipotetico e amato “zio” («quando guardiamo i nostri album fotografici vediamo soltanto momenti felici; nessuno scatta fotografie dei momenti che vuole dimenticare», riflette il protagonista, che osserva che attraverso l’insieme delle proprie istantanee ciascuno lascia anche una indelebile traccia di se stesso: «io c’ero», può pensare). Straordinaria metafora della Vita e della Solitudine individuale, con eccezionali momenti di richiamo tra l’i-
stantanea fotografica e la realtà, One Hour Photo non esaurisce le proprie riflessioni nel solo riferimento fotografico, dal quale peraltro prende avvio. L’analisi è più profonda, ed è stata ben sottolineata da un direttore della fotografia capace di alternare l’aridità degli spazi dello psicopatico Sy, sempre bianchi, sempre puliti, sempre anonimi, sempre asettici (quasi sopraesposti di uno o due stop), con l’energia, il calore, la saturazione e la vivacità dei luoghi della vita di tutti i giorni. Oltre a questo, percepito in superficie, e a parte i piani di lettura propriamente e specificatamente cinematografici, la sceneggiatura e i dialoghi di One Hour Photo sono ricchi di annotazioni filosofiche sulla fotografia. Per esempio, a integrazione di quanto già ricordato, Robin Williams / Seymour “Sy” Parish si atteggia a profeta del perfetto servizio ai clienti; in cuor suo, si lamenta di chi stampa male, senza alcun rispetto per la clientela: «Io le stampo come se fossero le mie». Però è anche uno psicopatico, con macabro e inquietante teatrino di istantanee altrui allestito tra le pareti domestiche. Così, abbassando un attimo il tono, è psicopatico, o quasi, anche nel lavoro, quando sollecita un intervento tecnico sul minilab, afflitto da una minima e impercettibile dominante cyan.
SEQUENZE
Imprecisione scenografica, oppure errore del cinema, di quelli che vengono anche sottolineati e puntualizzati in siti Internet a questo riservati, compilati da spettatori attenti e severi. Ma non importa: licenza più che legittima e ininfluente (la possiamo rilevare solo noi addetti). In One Hour Photo, Nina Yorkin (l’attrice Connie Nielsen) consegna per lo sviluppo e stampa un rullino Fujicolor da 400 Iso. Una volta sviluppata la pellicola, l’addetto al minilab Seymour “Sy” Parish (Robin Williams) ha tra le mani un negativo colore Kodak 400VC.
Questo è il film. Anche se questo non è tutto il film: c’è altro, su cui non è però il caso soffermarsi ancora. Dal nostro punto di vista mirato, oggi scartiamo a lato, per rilevare componenti scenografiche complementari, altresì aggiunte al gioco con il quale lo stesso Sy codifica i propri clienti, riconoscendone tratti esistenziali: l’anziana che fotografa soltanto i suoi gatti, l’assicuratore che fa stampare copie colore di automobili incidentate, il giovane padre che scatta centinaia di ritratti alla sua neonata, il ragazzo che sancisce le sue conquiste femminili con pose compiacenti. Al culmine di tutto, e in scarto laterale, a questo punto non possiamo ignorare l’alta qualità spettacolare di alcune sequenze del film. Ne annotiamo e visualizziamo due tra le tan-
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te possibili; le altre riguardano l’uso di compatte, l’allestimento del teatrino domestico di istantanee altrui, soprattutto della citata famiglia Yorkin, la combinazione tra Fotografia e Vita. Anzitutto, segnaliamo i titoli di testa del film, che riprendono l’aspetto del negativo fotografico 35mm,
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alternando sullo schermo una avvincente sequenza di colori da stampa: dal bianco al magenta, dai toni caldi ai freddi, fino al verde conclusivo [a pagina 24]. Quindi, dopo una precedente sequenza di fasi di lavorazione di un negativo generico, che introducono
la storia che sta per essere raccontata, registriamo la lunga sequenza di Nina Yorkin (l’attrice Connie Nielsen), che consegna un rullino colore per lo sviluppo e stampa delle copie. Già abbiamo avuto modo di rilevarlo, e la ripetizione si impone: rappresentazione avvincente e seducente,
Lunga sequenza di lavorazione di una pellicola 35mm: Nina Yorkin (Connie Nielsen) consegna il rullino (Fujicolor da 400 Iso) all’addetto al minilab Seymour “Sy” Parish (Robin Williams), che subito compila la busta di lavorazione; in laboratorio, Sy estrae la coda di pellicola e applica il codice numerico di lavorazione, sulla pellicola e sulla busta; da qui, iniziano le fasi di sviluppo del rullino, con affascinanti visualizzazioni del passaggio della pellicola tra i bagni, ed espulsione finale del negativo sviluppato; controllo visivo della qualità dei fotogrammi (il negativo sviluppato è diventato Kodak 400VC [pagina accanto e sottolineatura a pagina 25]); inserimento nel minilab di stampa, con successiva sillabazione delle fasi che si susseguono, tutte riferite alla medesima inquadratura di una festa di compleanno, con mamma Nina accanto al figlio Jake (Gary Cole). Per l’appunto, uscita della copia dalla stampante, inserimento nella busta di lavorazione e riconsegna.
Ribadiamo un dettaglio scenografico da puntualizzare, tanto per sottolineare, una volta ancora e una di più, l’attenzione e cura con le quali il cinema americano nel proprio complesso confeziona i propri film. Nelle diverse fasi di lavorazione della pellicola colore, stampa delle copie e uscita dal minilab è sempre visualizzato lo stesso scatto, lo stesso fotogramma fotografico.
da mostrare al pubblico nei nostri negozi. [Esortazione e parole inutili, nell’apatia del commercio italiano della fotografia, che tanto lamenta e poco fa]. Confermiamolo, la sequenza è lunga e scandita: dalla consegna del rullino 35mm alla sua lavorazione, al ritiro delle copie stampate. Per passi cadenzati [in questa doppia pagina]: Nina Yorkin consegna il rullino (Fujicolor da 400 Iso) all’addetto al minilab Seymour “Sy” Parish, che subito compila la busta di lavorazione; in laboratorio, Sy estrae la coda di pellicola e applica il codice numerico di lavorazione, sulla pellico-
la e sulla busta; da qui, iniziano le fasi di sviluppo del rullino, con affascinanti visualizzazioni del passaggio della stessa pellicola tra i bagni ed espulsione finale del negativo sviluppato; controllo visivo della qualità dei fotogrammi (e qui registriamo che il negativo sviluppato è diventato Kodak 400VC [a pagina 25], licenza scenografica più che legittima, seppure curiosa e da sottolineare); inserimento nel minilab di stampa, con successiva sillabazione delle fasi che si susseguono, tutte riferite alla medesima inquadratura di una festa di compleanno, con mamma Nina ac-
canto al figlio Jake (l’attore Gary Cole). Per l’appunto, uscita della copia dalla stampante, inserimento nella busta di lavorazione e riconsegna. Niente di più. Tanto di bene, se pensiamo che, con i mezzi del cinema hollywoodiano, non soltanto economici, ma anche scenografici e di capacità, tutto questo è raffigurato con fantastico ed emozionante coinvolgimento del pubblico; una volta ancora, da farne prezioso tesoro all’interno dei nostri fotonegozi. Ma?!. M.R. Ricerca iconografica di Filippo Rebuzzini
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IMMAGINI DI LUCE Ispiratore del movimento Camera Toss, il texano Ryan Gallagher è interprete di quella che lui definisce Kinetic Photography (www.kineticphotography.net). Le sue serie riuniscono e propongono omogenee interpretazioni della luce che disegna giochi di forma e colore, prontamente registrati dal sensore digitale. Tutte datate 2005, e stampate in copie uniche
INCONSTANT SPEED OF LIGHT #01
UNIFORM VARIATIONS #33
PURPLE PERSUASIONS #44
DUALITIES #08
SHEETS AND STRIKES #01
Fenomeno fotografico sostanzialmente recente, databile dal 2005, Camera Toss è celebrato da qualcuno come espressività direttamente collegata alla consistente creatività delle macchine fotografiche giocattolo (da Holga a Diana, alla comunità Lomo). Personalmente, la pensiamo diversamente. In questo lancio in aria di apparecchi fotografici, che ha nel texano Ryan Gallagher il proprio profeta (che comunque realizza le proprie opere in altro modo), non riusciamo a intravedere nulla di più, né diverso, di un passatempo. Certamente piacevole e fonte di affascinanti immagini astratte, ma pur sempre e solo passatempo
CALLIGRAPHIES #80
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orsi e ricorsi della storia della fotografia; quantomeno di alcune delle sue applicazioni, che dipendono più da una sorta di gioco che altro. A volte, non sempre (per fortuna), alcune di queste giocose esperienze non si esauriscono in se stesse, e approdano ad astrattismi accolti nel mondo dell’arte, quantomeno di una presunta arte quotidiana, soprattutto motivata da intenzioni di arredamento: e per questo sono proposte da mercanti appunto specializzati in colorazioni dalle tinte forti, alle quali la fotografia è in grado di fornire interpretazioni quantomeno affascinanti. Così che, sfumature cromatiche a forte impatto visivo attraversano tutta la fotografia astratta, segnalandosi più per presunti e individuati contrasti e accoppiamenti di colori, sempre brillanti e vivaci, che per qualcosa d’altro, ovverosia profondo e significativo. In questo senso, ricordiamo le tracce di luce disegnate da una fonte luminosa oscillante, che nei decenni scorsi si “fotografavano” lasciando l’otturatore aperto, in un ambiente buio, con l’obiettivo che inquadra l’area di rotazione del pendolo. Queste spirali concentriche, casuali nella propria formazione geometrica prestabilita, quanto visivamente accattivanti, compongono ancora oggi le forme
o in tiratura numerata e firmata, le opere sono quotate soltanto in base a parametri oggettivi (più vicini alla colorazione d’arredamento che all’autentica opera d’arte): copia unica 59,4x79,2cm, settecento dollari; tiratura da dieci esemplari 59,4x79,2cm, duecentocinquanta dollari; tiratura da dieci esemplari 42x56cm, duecentotrenta dollari.
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di quella che viene anche definita Light Painting, cioè pittura con la luce (o della luce), che anima una porzione dell’arte contemporanea, ai confini estremi dell’espressività creativa dei nostri giorni. Ripetiamolo: non ha nessun rapporto con alcun movimento culturale e si manifesta soprattutto, o forse soltanto, alla luce delle proprie tinte forti, adatte a palati approssimativi e arredamenti grossolani.
CAMERA TOSS Nella propria forma, raffigurazioni analoghe definiscono anche l’attuale esperienza di Camera Toss, in ordine temporale recente trasgressione fotografica dei nostri giorni, approdata a una visibilità internazionale attraverso proprie esuberanti manifestazioni in Rete, a partire dalla condivisione di immagini resa possibile, e addirittura sollecitata, dalle comunità Internet più acclamate (come l’avvincente www.flickr. com, di straordinario successo planetario). Qualcuno ha inserito Camera Toss, della cui filoso-
fia stiamo per riferire, nell’ampio ed eterogeneo contenitore delle Toy Camera, macchine fotografiche giocattolo, che ha la propria origine e il proprio credo nei riferimenti Holga e Diana (tante le citazioni in FOTO graphia, a partire dalla segnalazione originaria, prima in Italia, del febbraio 1998 e dall’edizione speciale Gioco o son desto?, del successivo settembre 1998). Personalmente, coscienti e consapevoli delle infinite diramazioni, tecniche e sociali, delle macchine fotografiche giocattolo, la cui espressività è stata celebrata da numerosi autori di spicco, non ce la sentiamo di considerare Camera Toss nell’ampio e prolifico contenitore della trasgressione creativa della fotografia. Per quanto a questa si riferisca, e da questa voglia essere benedetta, per quanto sia approdata a pareti di compiacenti gallerie espositive, Camera Toss non supera il livello del solo gioco, quasi del passatempo, come rivelano le immagini condivise su diversi siti e all’indirizzo dedicato www.cameratoss.blogspot.com, voce quasi ufficiale della comunità.
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MAURIZIO REBUZZINI (2)
prattutto, vendita di apparecchi fotografici di questa particolare interpretazione della trasgressione visiva volontaria e consapevole. Per quanto possano essere significative del particolare evento, proponiamo alcune testimonianze, così come le abbiamo vissute e documentate: l’area delle Toy Camera in due librerie di Tokyo e le copertine di tre titoli dedicati, ognuno dei quali ricco di preziose interpretazioni fotografiche. In ogni caso, e oltre ogni superficialità, fatti concreti, diversi delle troppe parole inutili che spesso accompagnano i piagnistei italiani.
Area delle Toy Camera in due librerie di Tokyo: titoli sugli scaffali e apparecchi in vendita.
ARCHIVIO FOTOGRAPHIA (3)
Camera Toss consiste nel lanciare in aria una macchina fotografica, meglio se digitale, lasciando che un lungo tempo di esposizione registri una sorta di traccia di luce. Ovviamente, non si ottengono fotografie nell’autentico senso dei termini, ma immagini variegate, create dai raggi del sole che raggiungono casualmente il sensore. Per lanciare in aria senza danni l’apparecchio fotografico, occorrono attenzioni mirate; soprattutto lo si deve proteggere con rivestimenti che lo riparino al momento del suo ritorno a terra. Al proposito, è stata prodotta una configurazione Flee, dotata di due strati di protezione. Somiglia a un volano ed è provvista di trasmettitore bluetooth, che invia le fotografie al computer.
uriosamente, per quanto sia capillarmente diffuso a livello planetario, il fenomeno delle Toy Camera, macchine fotografiche giocattolo con le quali esprimere affascinanti creatività individuali, ha il proprio apogeo in Giappone, per il solito territorio votato alla massima proiezione tecnologica possibile. Da tempo, tra gli scaffali riservati all’editoria fotografica, tutte le librerie giapponesi di un certo peso, con sezioni ben scandite e ampia offerta di titoli, hanno allestito un particolare spazio appunto dedicato alle Toy Camera. Monografie illustrate, anzitutto, ma anche guide e, so-
Tre monografie giapponesi celebrative del fenomeno espressivo delle Toy Camera.
Di cosa si tratta, è presto detto. Camera Toss consiste nel lanciare in aria una macchina fotografica, meglio se ad acquisizione digitale di immagini, lasciando che un lungo tempo di esposizione impostato registri una sorta di traccia di luce. Ovviamente, non si ottengono fotografie nell’autentico senso dei termini, ma immagini variegate, create dai raggi del sole che raggiungono casualmente il sensore di acquisizione, passando attraverso l’obiettivo dell’apparecchio fotografico in volo. Ecco qui: i corsi e ricorsi, con i quali abbiamo esordito. Queste immagini hanno individuati legami di parentela apparente con le lontane fotografie del pendolo, che abbiamo già ricordato. Le attuali intenzioni sono magari diverse da quelle, e così la procedura (se ne dibatte quotidianamente all’indirizzo www.flickr.com/groups/cameratoss/discuss/). Ma, pur cambiando l’ordine dei fattori, come nella moltiplicazione, il risultato non cambia. Al proposito e in collegamento, ricordiamo che, in chiave di fotografia d’arte, oppure arte realizzata con fotografia, azioni trasgressive analoghe furono realizzate oltre trent’anni fa dall’artista statunitense Lew Thomas (www.lewthomas.com). In particolare, segnaliamo due opere, entrambe datate 1973: come rivelano gli stessi titoli, Jumping with Nikomat (trittico 84x36cm) e Throwing-Nikomat (doppio dittico 71x56cm) -rispettivamente, saltando con la Nikkormat e lanciando la Nikkormat, immagini che visualizziamo a pagina 32-, si tratta di una preistoria dell’attuale lancio in aria Camera Toss. A margine, dato il contenitore giornalistico di FOTOgraphia, è obbligatoria la chiarificazione della identificazione Nikomat e Nikkormat, che ai tempi distingueva queste reflex destinate al mercato giapponese e statunitense e a quello europeo: in Italia, Nikkormat (FOTOgraphia, dicembre 2007). Per lanciare in aria senza danni l’apparecchio fotografico, secondo i dettami dell’azione Camera Toss, occorrono attenzioni mirate; soprattutto lo si deve proteggere con rivestimenti che lo riparino al momento del suo ritorno a terra. Nello specifico, nota parallela, come visualizzato alla pagina accanto è stata prodotta una particolare configurazione Flee dotata di due strati di protezione. Somiglia a un volano ed è provvista di trasmettitore bluetooth, che a intervalli regolari invia le fotografie acquisite a un computer portatile.
TRASGRESSIONE? Come per altre manifestazioni della fotografia, anche Camera Toss ha il proprio profeta: lo statunitense Ryan Gallagher, di Austin, Texas, del quale in queste pagine proponiamo un sostanzioso saggio di opere, per il vero realizzate in ben altra maniera, non certo con lanci casuali verso l’alto. [In collegamento, annotiamo una curiosità storico-geografica (Austin, Texas): la celebre eliografia Veduta dalla finestra di Gras, di Joseph Nicéphore Niépce, del 1826-27, di 20,3x16,5cm, che si conteggia come la prima fotografia in assoluto della Storia, ritrovata nel 1952 da Helmut Gernsheim, è stata donata proprio alla University of Texas, di Austin, dove è ora conservata in una cornice 25,8x29cm]. Teorico della Kinetic Photography, nobilitazione del
Sheets and Strikes, di Ryan Gallagher: «Luce elettrica e fondi; una serie che rivela la trama attraverso il movimento». Dualities, di Ryan Gallagher (simile al disegno della luce a pendolo, che -oscillando- crea geometrie): «Forme a doppia illuminazione, doppio filamento luminoso, doppio tono, doppia realtà».
Purple Persuasions, di Ryan Gallagher: «Una scatola di luci natalizie non ancora aperta, apparecchio fotografico cinetico, movimento e colori volontariamente sfasati».
Calligraphies, di Ryan Gallagher: «Ispirazione dai più tradizionali supporti per la scrittura, il disegno, la pittura e la realizzazione di fotogrammi».
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Uniform Variations, di Ryan Gallagher: «Variazioni uniformi su un soggetto particolarmente uniforme; evoluzione della serie». Inconstant Speed of Light, di Ryan Gallagher: [nessun commento], ma soltanto «Velocità incostante della luce», oppure «Incostante velocità della luce»? O, anche, «Velocità di luce incostante»?
gesto Camera Toss (www.kineticphotography.net), Ryan Gallagher è un autore prolifico, approdato all’acclamazione mercantile: secondo il princìpio che nella nostra società il valore attribuito all’arte dipende da ciò che la gente è disposta a pagare, stampate in dimensioni generose 59,4x79,2cm, le sue opere sono quotate da duecentocinquanta dollari (in tiratura da dieci esemplari numerati) a settecento dollari (copia unica); le stampe di dimensioni inferiori 42x56cm, in tiratura da dieci esemplari numerati, sono quotate duecentotrenta dollari. Presentato in due occasioni italiane, entrambe fiorentine, a Digiarte 2007 (maggio 2007; www.digiarte.info/index.html) e al Festival della Creatività 2007 (novembre 2007; www.festivaldellacreativita.it), Ryan Gallagher ha riscosso consensi di vendita in una precedente esposizione alla 3x23 Gallery di Amburgo, in Germania (www.3x23.de). Non entriamo nel merito dell’espressività di Ryan Gallagher, allo stesso momento rappresentativo di se stesso e di un intero movimento para-fotografico, anche se questo autore texano agisce in altre maniere rispetto i dettami del movimento spontaneo Camera Toss, che in lui identifica il proprio ispiratore. Come è già trapelato tra le righe del nostro attuale commento, non attribuiamo alcuna personaliIn collegamento all’attuale Camera Toss, in chiave di fotografia d’arte, oppure arte realizzata con fotografia, ricordiamo analoghe azioni realizzate, oltre trent’anni fa, dall’artista statunitense Lew Thomas (www.lewthomas.com). Due opere del 1973: Jumping with Nikomat (Saltando con la Nikkormat; trittico 84x36cm) e Throwing-Nikomat (Lanciando la Nikkormat; doppio dittico 71x56cm).
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tà culturale né a Ryan Gallagher né a Camera Toss, che registriamo soltanto come fenomeni fotografici dei nostri confusi tempi (sociali, tecnologici e culturali): nulla di più e nulla da spartire con le profondità dell’applicazione consapevole, ragionata e capace delle macchine fotografiche giocattolo. Quindi, è per sola e semplice registrazione che riprendiamo i termini di una filosofia di fondo, così come la esprime lo stesso Ryan Gallagher, in veste di storico e ideologo del movimento che lo ha elevato a profeta (ma forse, è stato soltanto un pioniere). Nella definizione più semplice possibile, Camera Toss (da tossing/lanciare) esprime l’azione singolare di lanciare in aria una macchina fotografica, che registra mentre è in volo libero. La sua ipotesi artistica (espressiva?) si basa su intenzionalità soggette a interpretazione creativa. In questo senso, Ryan Gallagher rivela di essersi accostato a questa raffigurazione dopo aver realizzato immagini digitali notturne, registrate lasciando aperto l’otturatore nel buio. Non produsse alcuna figura o forma concreta, che appartengono ad altre intenzioni, ma le luci presenti hanno agito da sole. Da lì, ha moltiplicato questa azione in molte altre situazioni, lasciando libera la luce di manifestare astrattismi casuali, ma ricercati. Quindi, c’è stato il passaggio logico alla macchina fotografica in movimento. Condividendo questa esperienza nelle comunità Internet, Ryan Gallagher ha dato così avvio al fenomeno Camera Toss, che oggi abbiamo analizzato. Un solo punto, una sola questione, rimane ora in sospeso: il futuro. Se si muoverà in qualche direzione, dove andrà e approderà questa ipotizzata creatività fotografica? Personalmente, non intravediamo nulla che possa avere un qualche peso e spessore sul linguaggio espressivo, né sull’azione fotografica nel proprio complesso. A pochi anni dalla sua nascita, databile al 2005, pensiamo che i primi passi di Camera Toss possano essere anche gli unici. Ripetiamolo, lungo un cammino senza sbocchi: puro passatempo. Antonio Bordoni
Sul set di Gioventù bruciata; 1955.
Dennis Hopper in un ritratto a due tempi di Terry Richardson.
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ersonalità dai talenti multipli, celebrato attore di Hollywood, Dennis Hopper è stato prima fotografo che cineasta. Dal 1961 al 1967, ha documentato il turbolento esordio di una nuova era, con immagini spettacolari del movimento americano per i diritti civili e con tanti sorprendenti ritratti delle giovani popstar della sua generazione, la definita Beat Generation. Così che, come rilevato nel compendioso (e indispensabile?) Alla Photokina e ritorno, di Maurizio Rebuzzini, pubblicato dalla nostra casa editrice, alla Visual Gallery 2008, di contorno culturale alla fiera merceologica, le sue immagini hanno fatto rivivere gli anni Sessanta, registrati sia sotto il sole platinato di Hollywood, sia tra le pieghe del Greenwich Village, a New York, sia sulle assolate strade percorse da motociclisti e alternativi di ogni specie. La rassegna Easy Rider, il cui titolo ha ripreso la più nota delle sue interpretazioni cinematografiche (del 1969; Dennis Hopper regista e attore, accanto a Peter Fonda), è stata allestita con affascinanti ritratti di un mondo artistico in grande fermento. Testimonianza: «Pensavo che questi artisti sareb-
bero diventati famosi, sebbene, all’epoca, la maggior parte di loro non potesse vantare mostre personali. In un certo senso agivo come uno storico; almeno questo era quello che pensavo». Nella mostra, prodotta dalla Galerie Hans Mayer, di Düsseldorf, ritratti di David Hockney, Jasper Johns, Roy Lichtenstein, Claes Oldenburg, Robert Rauschenberg, James Rosenquist, Ed Ruscha e Andy Warhol. A margine, ricordiamo che nella libreria allestita tra gli spazi espositivi della Visual Gallery si sono rese disponibili copie della monografia Dennis Hopper. Fotografien von 1961 bis 1967, appunto il periodo presentato in mostra, che Hatje Cantz Verlag pubblicò nel 1988 in accompagnamento a una personale itinerata per l’Europa: e di questo libro si erano perse le tracce [a pagina 40].
IN ATTUALITÀ EDITORIALE A seguito di questa mostra (?), l’attento editore Taschen Verlag, che ha pure sede a Colonia, in Germania, dove si svolge la Photokina e la collegata Visual Gallery, ha realizzato l’attuale raccolta Dennis Hopper: Photographs 1961-1967, che ripropone i termini e l’intervallo temporale duran-
I FANTASTIC
L’incessante sequenza delle pagine della magistrale monografia Dennis Hopper: Photographs 1961-1967, pubblicata da Taschen Verlag, rivela lo spirito e clima di momenti fondamentali della cultura occidentale, osservati con occhio attento e partecipe da un protagonista di quella avvincente stagione. Per quanto selettiva, dal punto di vista di un costo di vendita e acquisto almeno impegnativo, una raccolta fotografica oggettivamente epocale te il quale l’autore, futuro cineasta, ha applicato i canoni di una fotografia attenta e partecipe. Preziosa nella sua forma, tanto da essere proposta a cinquecento euro (tiratura di millecinquecento copie numerate e firmate; cinquecentoquarantasei pagine 33x44cm, con custodia), la mono-
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Biker Couple; 1961 (stampa 2009, 35,5x28cm, firmata e incorniciata, nell’Art Edition di Dennis Hopper: Photographs 1961-1967).
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DENNIS HOPPER, LUI MEDESIMO
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ato a Dodge City, nel Kansas, nel 1936, Dennis Hopper è un acclamato artista, attore, sceneggiatore e regista, che si è segnalato con le interpretazioni giovanili in Gioventù bruciata (Rebel Without A Cause, 1955) e Il gigante (Giant, 1956), in entrambi i casi accanto a James Dean. Ha cambiato il volto del cinema americano con Easy Rider (1969), che ha co-sceneggiato, diretto e interpretato; quindi, ha continuato ad agire in centinaia di film memorabili e in numerosi programmi televisivi. Tra le interpretazioni cinematografi-
che ricordiamo soprattutto quella del fotogiornalista di Apocalypse Now (di Francis Ford Coppola, del 1979). Dennis Hopper ha iniziato a dipingere da bambino e a fotografare nel 1961, quando la moglie (di allora) Brooke Hayward gli regalò una Nikon F, per il suo compleanno. Le sue opere pittoriche e fotografiche sono state esposte in tutto il mondo. Vive e lavora a Venice, in California, con la moglie Victoria Duffy e i tre figli, Marin, Ruthanna e Henry. Dennis Hopper, fotogiornalista in Apocalypse Now (con Nikon F).
grafia si allunga anche, e addirittura, su una ulteriore Art Edition, in cento copie numerate e firmate, altresì completate da una stampa originale 35,5x28cm incorniciata di Biker Couple, del 1961 (in copia 2009), altrettanto certificata dalla firma autografa di Dennis Hopper [qui sopra]. Dove sta, soprattutto, il valore di queste fotografie? Sicuramente, molto dipende dal loro autore. Forse, tutto è legato a questo. Infatti, Dennis Hopper è una personalità assolutamente particolare del panorama cinematografico statunitense, elevata da molti a icona recalcitrante e contraria all’establishment hollywoodiano: sia nelle proprie scelte professionali sia per stile di vita. Dunque, a diretta conseguenza, l’identificazione e lettura di queste fotografie non può prescindere dall’autore e dalla sua partecipazione alla trasformazione culturale di una generazione, della quale è stato, a un tempo, protagonista e osservatore.
Ancora una testimonianza, nella propria sostanza allineata a quella appena richiamata: «Ho agito in un modo che pensavo potesse avere un qualche impatto, un giorno. In un certo senso, è anche vero che queste fotografie hanno mantenuto viva e palpitante la mia stessa creatività». Come dire, causa ed effetto in rapporto reciproco. Negli anni Sessanta, allo stesso momento affascinanti e straordinari, ma anche tragici, sia per gli Stati Uniti sia per tutti i fermenti sociali e culturali del mondo intero, Dennis Hopper ha agito in simbiosi con la propria macchina fotografica, con la quale ha documentato la sua vita sui set cinematografici, gli incontri con amici, la visita a gallerie d’arte, gli spostamenti su autostrade alla ricerca del senso del proprio tempo. Ha fotografato personaggi che sarebbero diventati più che famosi, artisti, pop star, scrittori, attori e perfetti sconosciuti che sono ri-
Bruce Conner, nella vasca da bagno, Toni Basil, Teri Garr e Ann Marshall; 1965.
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masti tali. Lungo la sua strada, con occhio attento e intuitivo, ha registrato momenti significativi del cammino della sua generazione. A distanza di quasi cinquant’anni (diavolo, come scorre veloce il Tempo, come sfugge tra le dita delle mani che cercano di coglierlo, magari per non lasciarselo sfuggire invano), oggi rincontriamo o incontriamo per la prima volta istanti che hanno influito radicalmente sui decenni a seguire: una giovane ed estroversa Tina Turner in uno studio di registrazione, Andy Warhol nel suo primo West Coast Show, Paul Newman su un set cinematografico. Ma ci imbattiamo anche in fatti epocali nella propria sostanza concreta: sopra tutti, concediamocelo, la marcia per i diritti civili, da Selma a Montgomery, in Alabama, guidata dal leader nero Martin Luther King, nel marzo 1965, all’apice dell’American Civil Right Movement, all’indomani
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DENNIS HOPPER E L’ARTE (ANCHE AL CINEMA)
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pprezzato pittore, oltre che personalità del cinema statunitense e oltre che fotografo (da cui il nostro attuale interessamento), Dennis Hopper può vantare di essere stato il primo artista americano vivente ad esporre le proprie opere alla galleria Hermitage di San Pietroburgo, in Russia. Curiosamente, è poco considerato nel suo paese, ma stimato in Europa: «All’Hermitage ho avuto cinque sale, nelle quali sono stati esposti i miei lavori, ed è stato incredibile. Sono l’artista più famoso in Russia; invece, negli Stati Uniti nessuno conosce il mio lavoro». L’intreccio di Dennis Hopper con l’arte è anche il filo conduttore del film Ore contate, del 1990 (in originale, Catchfire), del quale è regi-
sta e interprete principale, accanto a Jodie Foster. In breve, la trama. Per un caso fortuito, Anne Benton, bella e giovane artista pop (appunto interpretata da Jodie Foster), assiste a un brutale assassinio di mafia. Fugge, ma è identificata dai malviventi, che la vogliono morta. Si rifugia in New Mexico, dove si assiste a un siparietto con una pittura di Georgia O’Keeffe della chiesa di Taos, fotografata anche da Paul Strand, nel 1932, e Ansel Adams, nel 1938. Qui è raggiunta da Milo (Dennis Hopper), killer nevrotico e solitario, suonatore dilettante di sassofono e ammiratore di Botticelli e Bosch, che si innamora di lei attraverso le sue opere artistiche.
Robert Fraser; 1965. Jane Fonda, con arco e frecce; Malibu, 1965. Martin Luther King; 1965.
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Dennis Hopper: Photographs 1961-1967, a cura di Tony Shafrazi; Taschen, 2009 (distribuzione Inter Logos, strada Curtatona 5/2, 41100 Modena; www.books.it); 546 pagine 33x44cm; millecinquecento copie numerate e firmate; 500,00 euro. ❯ Art Edition in tiratura di cento copie numerate e firmate, in confezione con una stampa originale 35,5x28cm firmata e incorniciata di Biker Couple, del 1961 (in copia 2009); 1500,00 euro.
A VENEZIA, NEL 1996
Dennis Hopper. Fotografien von 1961 bis 1967; Hatje Cantz Verlag, 1988; 100 pagine 24,3x35,9cm; sul mercato dell’antiquariato bibliografico.
resente alla Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia del 1996, per la sua partecipazione a Basquiat, di Julian Schnabel, nei panni di Bruno Bischofberger, Dennis Hopper si interessò alla Camogli Panorama 617/90 Gold nelle mani del nostro direttore Maurizio Rebuzzini. Ne fu affascinato; è scontato: non capita tutti i giorni di incontrare una macchina fotografica 6x17cm in legno, con Schneider Super-Angulon 90mm f/5,6 dorato. Oltre il fascino assoluto, a tutti comprensibile, fece capolino la competenza fotografica dell’attore. Subito, Dennis Hopper accettò di farsi fotografare con in mano la straordinaria combinazione fotografica, ma intervenne il suo agente, che glielo impedì. Nulla da fare... e l’incontro è rimasto in sospeso. Di quella domenica trentuno agosto, ricordata anche in 1839-2009. Dalla Relazione di Macedonio Melloni alla svolta di Akio Morita, in merito all’incontro con il regista Robert Zemeckis (per Ciro e Filippo), resta soltanto il ritratto in Polaroid 50x60cm eseguito da PhotoMovie. Polaroid 50x60cm di Dennis Hopper con Nikon 35Ti tra le mani.
PHOTOMOVIE
ARCHIVIO FOTOGRAPHIA
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della Bloody Sunday, quando seicento manifestanti progressisti furono attaccati dalla polizia con manganelli e gas lacrimogeni.
OLTRE L’APPARENZA MANIFESTA Per molti versi, oltre che per inevitabile preconcetto culturale (definito dalla conoscenza della personalità dell’autore), questo insieme fotografico si offre e propone come incessante sequenza filmica. È un racconto toccante, espresso attraverso una serie di immagini che colpiscono cuore e mente, e viceversa. Gli avvenimenti e le scene di vita quotidiana rivelano una libertà di osservazione e sperimentazione visiva che successivamente si sarebbe trasferita nella sceneggiatura del cinematografico Easy Rider, inequivocabile cult generazionale. A differenza della precedente raccolta Dennis Hopper. Fotografien von 1961 bis 1967, già ricordata, l’attuale Dennis Hopper: Photographs 1961-
1967 è quantitativamente più consistente. La messa in pagina è altresì arricchita di numerosi inediti che confermano il temperamento e la qualità di un tragitto fotografico magistrale e di una avvincente espressività fotografica. Pagina dopo pagina, la monografia distilla l’essenza di una fotografia brillantemente prodigiosa, non ne abbiamo dubbi. Ancora, appagamento dell’ascolto, oltre che piacere dell’osservazione visiva, il libro si completa con consistenti saggi che aggiungono riflessioni significative (purtroppo, non in italiano: a scelta, inglese, francese o tedesco): hanno scritto il curatore Tony Shafrazi e Walter Hopps, accreditato pioniere dell’arte della West Coast americana; quindi, una biografia dell’autore, compilata dalla giornalista Jessica Hundley, e estratti da interviste a personaggi della cultura statunitense contemporanea, curati da Victor Bockris. Angelo Galantini
Bikers; 1967. Paul Newman; 1964. Andy Warhol, con fiore; 1963.
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Per presentare Ermes Ricci, socio fondatore del Gruppo Polaser, nonché fotografo professionista, ceramista, viaggiatore, amante di altre culture e, infine, cuoco eccezionale (solo per gli amici), tornano alla mente parole di Jean-Jacques Rousseau: «Si è curiosi nella misura in cui si è istruiti». Purtroppo, oggi, i media hanno ridotto la curiosità a una forma tumorale, che si chiama “gossip”, e queste cellule impazzite stanno invadendo non solo un certo mondo dorato, ma sono ormai diventate parte integrante della nostra società. Per fortuna, ci sono ancora personaggi, come Ermes Ricci, per i quali la curiosità è una continua ricerca del nuovo, un’amplificazione del proprio sapere, un qualcosa che apre la mente e lascia entrare il seme della conoscenza. Sin da ragazzo, inizia a lavorare aiutando il padre, pasticciere; impara presto il mestiere e in poco tempo diventa un maestro dell’arte dolciaria. Per poter pubblicizzare al meglio la sua produzione, si rivolge a un professionista per fotografie da usare in un dépliant; resta deluso dal risultato, e quindi acquista una macchina fotografica per realizzare in
proprio le immagini che gli servono. Il risultato degli still life delle sue torte e dei suoi pasticcini lo riscontra subito dalla richiesta di servizi fotografici da parte di molti clienti, tra i quali diversi ceramisti. Morale: Ermes Ricci abbandona il laboratorio di pasticceria, per entrare in quello fotografico, spaziando a una fotografia a tutto tondo (still life, cerimonie, sport, cronaca). Intanto, gli amici, orfani dei suoi bigné e delle sue bavaresi, lo invitano spesso a casa loro per un pranzo o una cena; in realtà, per metterlo ai fornelli e poter così gustare le sue specialità culinarie (in modo particolare la paella); io stesso confermo che nemmeno in Spagna ho gustato una paella migliore. Nel frattempo, oltre la fotografia, l’imolese Ermes Ricci inizia ad “esplorare” il mondo: dai paesi nordici al Sudamerica, per poi spostarsi nella parte orientale del pianeta e approdare in India, dove ogni anno soggiorna per mesi, assimilando quella cultura, quelle atmosfere, quei sapori. Le sue “immagini a contatto con l’India” sono state pubblicate da Bacchilega Editore: Entro nel sogno, con la presentazione di Angela Staude Terzani. Sempre a cura dello stesso editore, a breve uscirà Il cancello magico, illustrato con ottanta immagini bianconero riprese con Hasselblad XPan. Nel Gruppo Polaser, Ermes Ricci è delegato agli allestimenti delle mostre fotografiche. Con la fotografia polaroid, predilige il ritratto a mosaico e i distacchi di emulsione, che poi “stende” su piccole piastrelle in ceramica, realizzate con la tecnica di origine giapponese raku. Sulla superficie dei mattoncini, in fase di cottura, si forma una ragnatela di piccole crepe (craquelè): stendendovi sopra l’emulsione, l’immagine assume un aspetto estetico di vissuto o antico. Vado da lui per porgli alcune domande, utili a descrivere il suo profilo d’autore, e lo trovo presso un forno artigianale, nel quale sta cuocendo alcune galline in ceramica. Mi chiede di tornare il giorno successivo, perché la ceramica ha bisogno di attenzioni particolari, senza le quali, a fine cottura, ci si può ritrovare con cocci frantumati. Ritorno, e stavolta è in cucina; sta preparando una paella valenciana in una enorme paellera; ogni tanto mescola gli ingredienti e tra una “girata” e l’altra prepara la sangria. Ermes sono venuto per quell’articolo... «Hai mangiato?». No, sono appena le sei del pomeriggio!
«Metti via l’orologio... Ora assaggi la paella e la sangria, e poi parliamo!». Non mi resta che rispondere come Garibaldi: Obbedisco! Terminiamo la deliziosa cena, ringrazio dell’ospitalità e gli ricordo ancora una volta che il motivo della visita è un altro. Ci sediamo e la conversazione si sposta sulla fotografia. Con quale delle tre arti (fotografia, ceramica, arte culinaria) hai iniziato prima? «Con l’arte culinaria ho iniziato da ragazzo; poi conobbi alcuni ceramisti, che mi convinsero a trasformare le mie sculture dolciarie in sculture di terra, quella “magica terra” usata già da secoli, soprattutto dai faentini, ma anche da molti imolesi. Infine, insoddisfatto delle fotografie di altri, iniziai a fotografare da solo le mie creazioni. Dopo qualche tempo, la fotografia divenne anche un lavoro». La fotografia polaroid... Come nasce la tua passione? «Nasce grazie alla mia costante curiosità nella ricerca di nuove forme espressive e all’incontro con Pino Valgimigli e Maurizio Galimberti». Tra i tanti modi di esprimerti con la polaroid, tu prediligi il ri-
un improbabile Amleto. La particolare tecnica del ritratto a mosaico permette di entrare in sintonia con il soggetto in modo maggiore rispetto la fotografia tradizionale, e quindi l’identità del soggetto fotografato passa in secondo piano». Hai viaggiato molto. Qual è la città che ami di più? «Grande Riviere, a Nord di Trinidad. È il luogo meno contaminato dalla civiltà moderna che ho incontrato». Fortunatamente, le pellicole polaroid continueranno a essere prodotte. Ma se Polaroid avesse cessato per sempre, a chi avresti riservato l’ultimo scatto. «Derek Walcott, un poeta caraibico, premio Nobel per la letteratura 1992». Descrivi una tua fotografia da lasciare ai posteri. «Devo ancora scattarla... qualcosa di integro... ma ogni volta che ci provo, l’uomo l’ha già distrutto». Ancora un buon bicchiere di sangria e... ciao Ermes. Lascio qui l’auto, e torno a casa a piedi. Pino Valgimigli
tratto a mosaico; quante volte ti sei sentito dire che imiti qualcuno? E qual è stata la tua reazione? «Me lo sono sentito dire tante volte. Ma io penso che tutti coloro che scattano fotografie o realizzano altre forme d’arte sono stati preceduti, a propria volta, da altri». Chi è la persona raffigurata “a mosaico” che ti è piaciuto di più fotografare? «Tanti. Uno su tutti: “Gigione”, un attore caratterista, fotografato come
www.polaser.org
«La limitazione dei mezzi determina lo stile, dà vita a nuove forme e dà impulso alla creatività»
AureA Tonini
Georges Braque Questa citazione dal pittore Georges Braque aiuta a comprendere lo slancio e spirito che guida e ispira gli artisti del Gruppo Polaser, eterogenei per interessi artistico-culturali e per provenienza da molte città italiane e anche dall’estero, accomunati dalla ricerca e sperimentazione di nuove possibilità espressive nelle molteplici forme dell’arte, dalla fotografia alla pittura, scultura, design, architettura, ceramica, letteratura, teatro, a altro ancora.
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uriosamente, due libri recenti e simultanei sono dedicati alla figura di Philippe Halsman, uno dei fotografi più significativi e importanti del secondo Novecento. In realtà, la nostra attuale combinazione, sulla quale stiamo per insistere e continuare, non è proprio evidente e palese come abbiamo appena sottolineato. Infatti, la combinazione tra la fantastica e suggestiva monografia illustrata Unknown Halsman e il racconto-romanzo-saggio Assassino del padre, che specifica essere la ricostruzione del Caso del fotografo Philipp Halsmann (e sulla grafia dei nomi approfondiamo in un apposito apparato a margine, pubblicato a pagina 46), non è ufficialmente tale, ma lo è diventata in relazione al nostro personale e individuale andare per librerie, spulciare tra gli scaffali. A cura del figlio Oliver Halsman Rosenberg, artista a propria volta, e pubblicata lo scorso autunno 2008, Unknow Halsman fa parte di una genìa di raccolte e retrovisioni che sta per invadere il territorio della fotografia contemporanea -nostra profezia e deduzione personale, della quale fare prezioso tesoro-, mentre il racconto di Assassino del padre, di Martin Pollack, vi si accosta in modo assolutamente casuale e non previsto, né prevedibile: traduzione italiana di un testo del 2002, pubblicata la scorsa primavera. I due titoli sono qui accostati soltanto perché si riferiscono alla stessa persona, ovverosia al fotografo che conosciamo come Philippe Halsman, nato Philipp Halsmann. Per il resto, nessuna altra in-
DOPPIO HALSMAN Oppure, ed è lo stesso: Halsman in doppio. Una monografia di inediti di Philippe Halsman, o di fotografie poco viste, è temporalmente coincidente con l’edizione italiana di un romanzo/saggio che ricostruisce una controversa vicenda della sua gioventù, quando ancora Philipp Halsmann fu accusato dell’assassinio di suo padre. E condannato per questo. Dalle immagini alle parole, con percorso in andata e ritorno
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tenzione originaria è stata minimamente prevista. L’allineamento dipende soltanto da una consapevole interpretazione giornalistica; se proprio vogliamo sottolinearlo, la nostra di sempre, così diversa e autonoma in un panorama di settore altrimenti appiattito lungo una strada prevedibile e prevista. Comunque, con ordine.
UNKNOWN HALSMAN Come appena anticipato, Unknown Halsman è una monografia illustrata, approntata dal figlio del celebre fotografo statunitense (di origine lettone) Philippe Halsman. A propria volta artista e grafico di valore e successo, Oliver Halsman Rosenberg ha agito con passione e dedizione, oltre che competenza (fotografica) e abnegazione (familiare). Ascoltata e appresa una delle parole d’ordine che stanno attraversando la fotografia statunitense d’autore, tanto che l’apprezzato Elliott Erwitt la richiama in ogni suo intervento pubblico (siamo stati testimoni in diverse occasioni successive), ha dato senso e consenso alla rivisitazione d’archivio, alla rilettura dei negativi originari, alla identificazione di immagini inedite. Con il senno acquisito, piuttosto che in relazione alla trasformazione dei gusti e opinioni, a distanza di tempo, scatti fotografici precocemente abbandonati a se stessi rivelano valori e significati di stravolgente attualità, degni di una propria rinnovata, o originale, proiezione pubblica. Così, nel momento nel quale raccoglie immagini di un passato sostanzialmente remoto, l’attuale Unknown Halsman rivela una freschezza e modernità con le quali è piacevole e benefico incontrarsi. Complice una messa in pagina adeguatamente oltre le righe e le consuetudini, si incontra una rac-
colta fotografica capace di arricchire e impreziosire persino la vita e l’animo di chi di fotografie ne ha viste e assimilate molte (azzardiamo: noi, tra questi). Non si tratta mai di secondi scatti, resi inutilizzabili e inutili da quello selezionato e ufficialmente proposto alla Storia, quanto di un aspetto della fotografia di Philippe Halsman complementare a quello noto e riconosciuto, che soprattutto conteggia il record di centouno copertine di Life. Fotografie fresche, accademicamente “fotografie altre”, che aggiungono un ulteriore tassello alla definizione e descrizione di una personalità fotografica che è stata unica, che ha vantato eccezionali complicità di intenti (a partire da quella con il pittore Salvador Dalí), che ha fatto saltare davanti al suo obiettivo i potenti e le star system del Novecento (oltre gli utilizzi originali, molti in copertine di Life, segnaliamo la monografia Jump Book, pubblicata nel 1986 da Harry N. Abrams), che ha segnato fantastici momenti della e nella ritrattistica fotografica moderna, con slittamento consapevole e volontario verso l’ironia e la raffigurazione fantastica.
Autoritratto di Philippe Halsman; 1950 circa (da Halsman Unknown).
Provinatura di negativi bianconero 6x6cm di un ritratto di Salvador Dalí con in mano la copertina di Time Magazine, del 14 dicembre 1936, con un suo autoritratto (a sinistra); 1954 (da Halsman Unknown).
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PHILIPP HALSMANN, IN ARTE PHILIPPE HALSMAN risvolto di copertina si precisa che «Le fotografie di Philipp Halsmann sono esposte in tutte le gallerie del mondo». No! Nessuna fotografia di Philipp Halsmann ha avuto tale onore e privilegio, né è significativa nella Storia. Lo sono, invece, le fotografie di Philippe Halsman. Così come, per concludere, neppure il credito alla copertina ci sembra legittimo. Il bravo Yale Joel, dello staff di Life, non ha realizzato alcun ritratto di Philipp Halsmann. Sappiamo per certo che nel 1952 ha fotografato a New York Philippe Halsman, dietro una delle innumerevoli biottica grande formato che hanno segnato i passi tecnici e infrastrutturali della sua lunga epopea: e qui testimoniamo. Ritratto di Philippe Halsman, realizzato
compagna l’edizione italiana di Assassino del padre, sul cui titolo avremmo anche da obiettare, essendo un’affermazione che contrasta con le rilevazioni e conclusioni del testo. Ma, tant’è. Per quanto sia vero che la vicenda narrata riguarda un giovane Philipp Halsmann, così all’anagrafe, è altrettanto vero che non è legittimo identificare, come è stato fatto anche nel sottotitolo, riportato perfino in copertina, “Il caso del fotografo Philipp Halsmann”. Delle due, una soltanto: o è “il caso di Philipp Halsmann” o è quello del “fotografo Philippe Halsman”, da Yale Joel, nel 1952, a New York. identificazione adottata all’arrivo negli Stati Uniti, dopo l’espulsione dall’Austria e in anticipo sull’affermazione, prevista e preventivata, del nazismo in Europa. Infatti, anche la dizione sulla biottica 4x5 pollici autocostruita, con aiuto della Fairchild Camera and Instrument, che appare in copertina, riporta “Halsman”, pochi centimetri sotto l’“Halsmann” del sottotitolo. Ancora si sbaglia, quando nel
Provinatura da una striscia di negativi bianconero 6x6cm: viaggio in Europa, nel 1959, con un ennesimo autoritratto con macchina fotografica (da Halsman Unknown).
Ritratto multiplo di Jean Cocteau, del 1954, e tecnica analoga per una fotografia di acconciatura, del 1930 circa (da Halsman Unknown).
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Fotografo ironico e brillante, Philippe Halsman ha illuminato la ritrattistica del secondo Novecento. Quindi, pur appartenendo a una genìa che si affermerà nell’immediato futuro (lo profetizziamo, ribadendo quanto già considerato), questo Unknow Halsman è sostanzialmente e sostanziosamente diverso dall’analogo e precedente Unknown Weegee, che la scorsa estate 2008 ha dato fiato alle mostre milanesi d’agosto (FOTOgraphia, luglio e settembre 2008). A parità di minimo comun denominatore,
Assassino del padre ( Il caso del fotografo Philipp Halsmann), di Martin Pollack; Bollati Boringhieri, 2009; 248 pagine 13,5x22cm; 22,00 euro [dall’originario Anklage Vatermord. Der Fall Philipp Halsmann (Paul Zsolnay Verlag, 2002), che in copertina dà visibilità all’incidente in montagna e non alla successiva personalità dell’imputato coinvolto].
“sconosciuto” l’uno e l’altro, le due proposte sono divergenti nei contenuti. L’inedito di Weegee, del quale abbiamo approfondito in lungo e largo, si basa sulla raccolta di stampe (per quanto vintage) che appartengono alla collezione dell’International Center of Photography di New York, che fanno parte del fondo donato dalla compagna del fotografo, Wilma Wilcox, composto da commoventi cimeli di una intera esistenza. Dunque, si tratta di fotografie e stampe che Weegee aveva realizzato per sé, spesso senza alcu-
TIME & LIFE PICTURES
opo averlo fatto seguendo i canali ufficiali e legittimi, anche da pagine contestiamo l’identificazione “Philipp Halsmann”, Dconqueste la quale l’editore Bollati Boringhieri ac-
na diligenza formale (tanto che a volte i bordi di contorno sono storti, per un uso affrettato e non accurato del marginatore), come possibile promemoria. A clamorosa differenza, gli inediti, o poco conosciuti, di Philippe Halsman si basano invece su una reinterpretazione in chiave attuale e su altra esperienza di un archivio tanto vasto da consentire sistematiche letture e riletture individuali pressoché infinite. Da cui, se volessimo anche vederla così, questa raccolta, alla quale ci riferiamo, non è una selezione conclusiva ed esaustiva, ma rappresenta soltanto se stessa: ovverosia, è una delle tante, ulteriori valutazioni di un fondo fotografico che può/potrebbe riservare ancora tante sorprese. L’eventuale rilevazione pubblica di questa potenziali-
tà espressiva dipende da fattori incontrollabili, per cui non è escluso che nulla avvenga più; però, è doveroso che noi si sappia che qualcosa potrebbe/dovrebbe avvenire.
ASSASSINO? La vicenda raccontata dal racconto-romanzo-saggio Assassino del padre, di Martin Pollack, che Bollati Boringhieri ha tradotto dall’originale Anklage Vatermord. Der Fall Philipp Halsmann, pubblicata dal viennese Paul Zsolnay Verlag, nel 2002, è a dir poco inquietante. In breve, è la ricostruzione e resoconto del caso giudiziario che ha coinvolto il giovane Philipp Halsmann dall’autunno 1928, in Tirolo. Lunedì dieci settembre, suo padre Morduch Hal-
Unknown Halsman. A cura di Oliver Halsman Rosenberg; DAP - Distributed Art Publishing, 2008; 111 fotografie; 144 pagine 26,7x36,6cm, cartonato; 75,00 dollari.
Provinatura di negativi bianconero 6x6cm: Ultra Violet; 1968 (da Halsman Unknown).
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Salute to Fashion; autoritratto; 1951 (da Halsman Unknown).
Tippi Heldren, Melanie Daniels in Gli uccelli, di Alfred Hitchcock; 1962 (da Halsman Unknown). Bijoux, per French Vogue; 1935 circa (da Halsman Unknown).
Bambi Lynn è Alice nel paese delle meraviglie (copertina di Life); 1947 (da Halsman Unknown).
Biglietto augurale del nuovo anno: Yvonne Halsman (la moglie) mascherata da babbo natale trafuga una Gioconda con il volto di Philippe Halsman; 1962 (da Halsman Unknown).
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smann muore, precipitando durante una gita in montagna in compagnia di Philipp, unico presente al fatto, presto accusato di parricidio. Condannato in prima istanza a dieci anni di carcere duro, aggravato da una giornata di digiuno ogni anno, in appello si scende a quattro anni di carcere duro, per reato di omicidio con dolo, alleggerito da circostanze attenuanti. Una via di mezzo compromissoria, che accontenta tutti e nessuno: pena mite, se Philipp Halsmann è un parricida; troppi, se è innocente. In ogni caso, fu immediatamente graziato ed espulso dall’Austria. Ora: l’autore del racconto, basato sulla sistematica raccolta di documenti dell’epoca, non si esprime mai chiaramente, non prende posizione. Di certo, c’è solo che le circostanze della morte di Morduch Halsmann, dentista a Riga, in Lettonia, sono quantomeno equivoche, che il figlio Philipp non fa nulla per screditarsi, che la sua posizione è inquietante e che, comunque, il clima politico e sociale dell’epoca e del luogo sono ostili a un accusato di religione ebraica. Addirittura, si può pensare a un caso Dreyfus austriaco; non sono lontani i fantasmi del nascente nazismo.
A differenza delle incognite del testo, il titolo italiano non lascerebbe dubbi: Assassino del padre, rispetto l’originario tedesco Accusa di parricidio. Ma non è così semplice, né semplificabile. In una atmosfera avvelenata, come è stata la fine degli anni Venti in Tirolo, regione lontana mille miglia dalla capitale Vienna, ammesso che fosse possibile identificarla, la verità si è nascosta tra le pieghe di molteplici equilibri e insormontabili controversie, delle quali il giovane Philipp Halsmann ha pagato il conto, magari appesantito da sostanziosi interessi. In ogni caso, Assassino del padre è uno di quei libri che si possono ancora leggere; e lo dovrebbero fare coloro i quali si occupano di fotografia, che su queste pagine vengono a contatto diretto con una vicenda poco conosciuta, per nulla conosciuta, che riguarda uno dei protagonisti dell’espressività fotografica del secondo Novecento. Però, come spesso annotiamo, non è più tempo per credere che la Fotografia possa essere ancora affrontata e frequentata con tale e tanta concentrazione. In Italia, quantomeno. Angelo Galantini
NIKON F: 1959-2009
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Grande invidia per la freschezza con la quale Nikon ha celebrato i cinquant’anni della Nikon F, la prima reflex della propria genìa, allungatasi nei decenni; in assoluto, la prima reflex professionale a sistema della storia evolutiva degli apparecchi fotografici. Invece di celebrare passivamente il passato, verso il quale anche noi proiettiamo spesso (troppo spesso?) la nostra osservazione personale, Nikon ha solennemente certificato cinquant’anni di montatura a baionetta F: per l’appunto 50 Years of F-Mount, con tanto di logotipo dedicato, sistematicamente proposto su tutte le comunicazioni ufficiali, annunci pubblicitari compresi. Tra questa interpretazione fresca e brillante e le nostre contemplazioni della fotografia il divario è notevole, addirittura di sostanza: distingue una proiezione in avanti (la loro) da una inviolabilmente indietro (la nostra); caratterizza e qualifica una attenta presenza con se stessi da una sorta di retrovisione fine a se stessa (per quanto, mai nostalgica, mai malinconica). Grande invidia per un’idea, un’ipotesi, una visione che a noi manca completamente. Bravi, e punto! Dopo aver evocato i novant’anni dalla fondazione (1917-2007), il dicembre di due anni fa, e i sessanta dalle Nikon a telemetro originarie, avviate nel 1948 (FOTOgraphia, novembre 2008), non ci sarebbe molto da aggiungere, per sottolineare questo terzo anniversario tondo consecutivo: cinquant’anni di Nikon F, ovverosia F-Mount, dal 1959. I dati tecnici e i richiami sono così noti e conosciuti, da non concedere ulteriore spazio ad alcuna altra celebrazione. Se non che, alla nostra solita maniera, non rinunciamo a una di quelle visioni trasversali e diagonali che rappresentano il succo di queste stesse pagine:, il senso del nostro giornalismo di settore, condito con richiami, riferimenti, rimbalzi e, perché no?, chiose di assoluta e inderogabile personalità. La nostra. Per questo, ricordiamo una Nikon F sopra tutte, andandola a se-
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lezionare tra le infinite citazioni del cinema, che peraltro abbiamo già sintetizzato lo scorso marzo, riferendo l’attraversamento scandito dai dieci pannelli tematici Nikon sul grande schermo, che il distributore italiano Nital ha presentato nel proprio stand, al PhotoShow 2009. A questo punto, occorre ribadire ancora che tra l’altro, e tra tanto, la sottolineatura della presenza di Nikon in film di vario genere e diverse date di produzione certifica anche i tratti di una leggenda e un mito che non si esauriscono nel solo ambito degli addetti, per abbracciare il costume e, perché no?, la stessa vita. Così, non ci è difficile riconoscere, e dunque rilevare, come più, meglio e più approfonditamente di altri marchi fotografici (e non soltanto), quello Nikon è assolutamente trasversale e universale. Nikon F al cinema, dunque. Quella di Blow up, di Michelangelo Antonioni, del 1966? No, è troppo scontato; perfino ovvio. Quelle di È una sporca faccenda tenente Parker, di John Struges, del 1974, o di Starsky & Hutch, di Todd Phillips, del 2004? No, troppo di passaggio. Quelle della guerra in Vietnam, da Apocalypse Now, di Francis Ford Coppola, del 1979 (interpretazione di Dennis Hopper richiamata su questo stesso numero, a pagina 36), a Full Metal Jacket, di Stanley Kubrick, del 1987, a We Were Soldiers, di Randall Wallace, del 2002 (FOTOgraphia, febbraio 2009)? No, si tratta di combinazioni inevitabili nelle rievocazioni di quel tragico capitolo, che si è manifestato nel corso degli anni Sessanta. E neppure la Nikon F Photomic, tutta camuffata con nastro isolante nero, in City of God, titolo internazionale dell’originario brasiliano Cidade de Deus, di Fernando Meirelles, del 2002, film non certo popolare. Diavolo! E allora, quale? La Nikon F nera, con proprio motore di avanzamento della pellicola, di I ponti di Madison County (The Bridges of Madison County), di Clint Eastwood
Clint Eastwood, interprete (e regista) di I ponti di Madison County.
(regista e interprete), del 1995. Quella, ma veramente quelle, più di una, anche se ne visualizziamo una soltanto: immancabili Nikon F con segni evidenti di usura di uso, tra le mani di Clint Eastwood, nei panni del fo-
tografo (ipotizzato) del National Geographic Magazine Robert Kincaid, che durante un reportage incontra una donna sposata (Francesca / Meryl Streep): si amano intensamente, ma poi non hanno la forza di restare assieme. Ognuno torna alla propria vita, che non sarà più quella di prima, con nel cuore la sequenza di quattro giorni che hanno indelebilmente segnato le rispettive esistenze. Così schematizzata, la trama può
A parte l’essenza e spirito del film I ponti di Madison County, dall’omonimo romanzo di Robert James Waller, sottolineiamo la presenza scenografica di affascinanti Nikon F: nel cinquantenario.
risultare scontata, ma invece ci sono le premesse per qualcosa di vigoroso e originale. I ponti di Madison County è un film tratto dall’omonimo best seller di Robert James Waller, edito in Italia da Frassinelli (Milano, dal 1993), emozionante testo già venerato da una generazione trasversale di appassionati di fotografia, ma non soltanto di questa. In rispetto al romanzo, sullo schermo, Robert Kincaid è alto, atletico,
affascinante. Guida un pickup Chevrolet, suona la chitarra, è vegetariano e fuma Camel. Incarna il perfetto stereotipo del fotoreporter. Sia detto, Nikon F a parte, per I ponti di Madison County, la fotografia rappresenta soltanto un pretesto per giustificare l’incontro tra due esistenze. Il soggetto della vicenda è l’amore, con tutte le sue implicazioni controverse. Quello che è stato definito il fenomeno della letteratura statunitense contemporanea è un grande romanzo di sentimenti, ai quali l’ipotesi fotografica (Nikon F, ma anche Gitzo, Kodachrome e affini) fa da semplice corollario, o quantomeno da commovente e appassionante collante. Inesattezze di traduzione a parte -per esempio, “il flessibile dello scatto” invece dello “scatto flessibile”-, la narrazione è comunque fotograficamente adeguata: le sessioni di ripresa sfruttano la luce dell’alba e del tramonto, Robert Kincaid è uno scrupoloso professionista che ogni sera ripulisce la propria attrezzatura, e poi si parla anche di quel bagliore di luce che immediatamente dopo il tramonto, e prima del buio, illumina il cielo con una incantevole brillantezza. Il resto è romanzo e cinema, magari è anche melodramma; e non potrebbe, né dovrebbe, essere altrimenti. Nella fantasia letterario-cinematografica, Robert Kincaid viene chiamato a lavorare per il National Geographic grazie a una fotografia pubblicata su un calendario. Quanto di più lontano dalla realtà dei nostri tempi. Una volta ottenuto l’incarico, comincia il lavoro. Prima di partire, si attiva una interminabile serie di preparativi: ricerche, contatti da prendere, permessi da richiedere, visti da ottenere, preventivi, prenotazioni, itinerari da pianificare, condizioni meteorologiche da valutare, vaccinazioni, biglietti, pellicole da testare, attrezzatura da controllare e imballare. Liste da fare e rifare (nella realtà, per una reportage sul cotone, apparso nel 1994 su National Geographic, Cary Wolinsky afferma di aver letto più di sessantacinque libri e contattato oltre centosessanta persone; il progetto lo portò in undici paesi diversi, dal Messico all’India). E, sopra tutto, Nikon F. Nel cinquantenario. M.R.
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CLASSICI CON INTELLIGENZA
Q
Quante tante monografie illustrate sono state realizzate, attingendo dal capiente archivio fotografico di Life? Tante, per quanto mai troppe (fino all’apprezzata edizione italiana Life. I grandi fotografi, pubblicata da Contrasto). I punti di vista dei curatori che da decenni si cimentano sono stati veramente eterogenei: hanno spaziato dalla celebrazione cronologica di date alla rievocazione di argomenti (cinema, guerre, costume, ferrovie e tanto altro ancora), con compilazioni sempre attente e coinvolgenti. Tali -ovvero coinvolgenti-, almeno per coloro i quali, noi tra questi, sanno emozionarsi di fronte alla Fotografia, colgono il senso e ritmo del tempo che scorre e delle tracce (indelebili?) che lascia dietro di sé. Così, in un’epoca di consumi rapidi e cibi precotti, dai quali c’è chi sta lontano, ancora noi tra questi, si potrebbe aver considerato concluso il luminoso capitolo delle monografie illustrate di Life, che ormai dovrebbero aver detto tutto, aver rivelato tutto, aver mostrato tutto. Errore! Una volta ancora, e una di più (evviva!), l’intelligenza riesce di nuo-
Ballerinas (1936), di Alfred Eisenstaedt. Fotografia scattata a New York City.
Life. The Classic Collection; centouno fotografie della storia della celebre rivista, venticinque delle quali estraibili, per essere incorniciate e appese a parete (in dimensione 20,2x25,5cm); Books International, 2008; 144 pagine 25,3x34cm, cartonato con sovraccoperta; 29,95 dollari.
Le illustrazioni che accompagnano questa presentazione, oppure recensione, fate voi, sono estratte dalla serie di venticinque fotografie staccabili dalla raccolta Life. The Classic Collection, adatte ad essere incorniciate e appese a parete (20,2x25,5cm). I soggetti sono stati scelti in base a nostri intendimenti giornalistici e redazionali, che non stabiliscono alcuna scala gerarchica tra ciò che visualizziamo e quanto abbiamo invece volontariamente accantonato (per mille motivi, nessuno dei quali di giudizio sulle immagini). Quindi, invece di riprodurre in proprio le singole fotografie, come avremmo anche potuto fare, usiamo file salvati dal sito http://images.google.com/hosted/life, che offre l’intero archivio fotografico storico della casa editrice, organizzato per molteplici chiavi di ricerca.
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Come preavvertito nelle istruzioni introduttive, le immagini recuperate non possono essere usate commercialmente, ma debbono restare in ambiti sostanzialmente privati. In deroga, che ci siamo concessi da soli, le pubblichiamo complete e comprensive del watermark “Life”, in basso a destra, sovraimpresso sul soggetto. Così facendo, richiamiamo l’esistenza di questo sito, anticipato lo scorso dicembre 2008, nella rubrica Reportage, dal quale si accede a una sostanziosa fetta di storia del fotogiornalismo statunitense. I file sono forniti in risoluzione adatta alla stampa fotografica (e litografica) in formato 8x10cm a 300dpi, ovverosia 15x20cm abbondanti ai 150dpi delle comuni stampanti domestiche. Ribadiamo: solo per uso privato.
vo a stabilire una sostanziosa differenza. La divisione Life Books ha raccolto e pubblicato un’altra, ennesima selezione storica di fotografie, disponibile negli Stati Uniti dalla fine dello scorso anno, in tempi di regali di Natale (?), e arrivata in Europa nei primi mesi di quest’anno.
Certo, la distribuzione di questo tipo di opere librarie non è capillare, ma gli indirizzi specializzati ai quali rivolgersi non mancano: sia dal vivo, tra gli scaffali di attente librerie, sia attraverso l’ormai immancabile (e indispensabile?) ricerca in Rete. Il titolo della raccolta fotografica al-
Jack and Bobby (1960), di Hank Walker. I fratelli Kennedy in colloquio privato, in un hotel di Los Angeles.
Drum Major at the University of Michigan (1950), di Alfred Eisenstaedt. Fotografia scattata a Anna Arbor. The Mahatma (1946), di Margaret Bourke-White. Life in 3-D (1952), di J. R. Eyerman. Una delle più celebri raffigurazioni del cinema tridimensionale: Hollywood, ventisei novembre; sullo schermo, Bwana Devil, di Arch Oboler, il primo film 3-D.
la quale ci riferiamo è addirittura provocatorio, apparentemente disarmante: Life. The Classic Collection, che ripete e ribadisce il percorso di tante altre edizioni precedenti. Tanto che, di primo acchito, verrebbe da pensare “che noia!”, “ancora!”, “e... basta!”. Invece, come ap-
CENTOUNO E VENTICINQUE
C
High Above Forbes Field (1960), di George Silk. Lo sport, il baseball nello specifico, osservato anche con occhio trasversale: Pittsburgh, Pennsylvania, ottobre.
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ome rilevato nel corpo centrale dell’attuale intervento redazionale, Life. The Classic Collection presenta e propone centouno fotografie, tutte a piena pagina, sette in doppia pagina. Venticinque di queste, un quarto del totale, si possono togliere dal volume, per essere incorniciate e appese a parete: in dimensioni
20,2x25,5cm. Con specifica opportuna, che certifica le venticinque fotografie staccabili, nello stesso ordine di pubblicazione, le centouno fotografie sono (titoli originari della monografia; in corsivo quelli non descrittivi, ma identificativi dell’immagine; tra parentesi quadra, nostri chiarimenti; in neretto quelle staccabili):
Soggetto Louis Armstrong Jeanne Crain Noël Coward An Affair to Remember [Madonna] Rita Hayworth Ingrid Bergman Fred Astaire The Duke and Duchess of Windsor Marilyn Monroe Ballerinas Ma Joad Dalí Atomicus Jackie and Jack Jack and Bobby RFK Slain Jackson Pollock The Fab Four Muhammad Ali The Mahatma Flavio Da Silva Marlene Dietrich Ernest Hemingway Alexander Solzhenitsyn Gary Cooper Pablo Picasso
Marlon Brando and Kim Hunter Audrey Hepburn and Grace Kelly Orson Welles Harry S. Truman Jackie Robinson St. Peter’s Square The Turkish Cavalry Servitude in South Africa Route 66 Premiere at La Scala, Milan Tahiti The Taj Mahal The Law in Spain Ice Skating Waiter, St. Moritz The Eiffel Tower The Chrysler Building [Margaret Bourke-White] Going Under At the Drive-In The Statue of Liberty Faces of Ground Zero Falling Soldier Three Dead Americans Also in the Pacific Theater D-Day, Omaha Beach Buchenwald The American Way
Anno 1966 1946 1955
Autore Philippe Halsman Peter Stackpole Loomis Dean
1986 1941 1949 1945 1956 1956 1936 1938 1948 1961 1960 1968 1949 1964 1966 1946 1961 1952 1958 1981 1949 1949
Bruce Weber Bob Landry Gordon Parks Bob Landry Philippe Halsman Milton H. Greene Alfred Eisenstaedt Horace Bristol Philippe Halsman Paul Schutzer Hank Walker Bill Eppridge Martha Holmes John Loengard Gordon Parks Margaret Bourke-White Gordon Parks Milton H. Greene John Bryson Harry Benson Peter Stackpole Gjon Mili
pena rilevato, si impone l’intelligenza dei curatori, che hanno compiuto un affascinante passo in avanti. Oltre presentare centouno fotografie (appunto classiche) del fotogiornalismo di Life, autentiche icone del Novecento (tutte a piena pagina, sette su doppia pagina), la raccolta ne offre venticinque da staccare dal volume, un quarto del totale, pronte per essere incorniciate e appese alla parete: in buona dimensione 20,2x25,5cm. Ecco qui l’idea nuova, l’idea che dà senso e sapore all’intera edizione. Insomma, l’idea che rivela anche come certa editoria internazionale sia adeguatamente più intelligente di altre (soprattutto italiane, dedite più alla ricerca di confortanti commissioni/commistioni pubbliche che all’esercizio del
1947 1956 1941 1948 1955 1978 1949 1950 1947 1934 1954 1967 1951 1932 1948
Eliot Elisofon Allan Grant W. Eugene Smith W. Eugene Smith Ralph Morse David Lees David Douglas Duncan Margaret Bourke-White Andreas Feininger Alfred Eisenstaedt Eliot Elisofon Larry Burrows W. Eugene Smith Alfred Eisenstaedt Dmitri Kessel
1935 1982 1958 1939 2001 1936 1943 1944 1944 1945 1937
Oscar Graubner Grey Villet J. R. Eyerman Herbert Gehr Joe McNally Robert Capa George Strock W. Eugene Smith Robert Capa Margaret Bourke-White Margaret Bourke-White
MacArthur Comes Ashore The Walk to Paradise Garden Among the Mourners The War in Korea Aboard Yankee Papa 13 Andrea Mead Lawrence NFL Championship Game Shastri’s Funeral Reaching Out Franklin Roosevelt’s Wild West Tomoko Uemura in her Bath The Civil Rights Movement The March on Washington In the Womb Photographer [Dennis Stock] Diver Snow Monkey Rhesus Monkey Lion Children at a Puppet Theatre Black Power Salute High Above Forbes Field Cowboy Solar Eclipse The Right Stuff Apollo 11 Lift-Off
1945 1946 1945 1950 1965 1947 1966 1966 1966 1936 1971 1963 1963 1965 1951 1962 1970 1939 1965 1963 1968 1960 1949 1979 1959 1969
Carl Mydans W. Eugene Smith Edward Clark David Douglas Duncan Larry Burrows George Silk Arthur Rickerby Larry Burrows Larry Burrows Margaret Bourke-White W. Eugene Smith Charles Moore Paul Schutzer Lennart Nilsson Andreas Feininger George Silk Co Rentmeester Hansel Mieth John Dominis Alfred Eisenstaedt John Dominis George Silk Leonard McCombe Henry Groskinsky Ralph Morse Ralph Morse
Ovviamente, molte identificazioni vanno decodificate. Per esempio, Falling Soldier e D-Day, Omaha Beach, entrambe di Robert Capa, sono, rispettivamente, il miliziano spagnolo colpito a morte e lo sbarco in Normandia; V-Day, Times Square, New York City, di Alfred Eisenstaedt, è il bacio tra il marinaio e la crocerossina; Tomoko Uemura in her Bath, di W. Eugene Smith, è la deposizione che fa parte dell’ampio servizio
Afternoon Dress Princesses All Dancer Whippet Snake Pigeons America’s Cup American Gothic Busted Boo! Life in 3-D In a World Before iPhones Guess Who’s Coming to Dinner Huck Finn in the Flesh You May Kiss the Bride Harmonizing Drum Major at the University of Michigan Don’t Worry! The Duck’s Fine! Like, Y’know, I’m a Teenager C’mon, Let’s Play Ball! Pedal to the Metal Sorta Synchronized Hoppin’ V-Day, Times Square, New York City
1961 1981 1968 1964 1982 1966 1962 1942 1957 1960 1952 1959 1955 1945 1946 1956
Gordon Parks Patrick Lichfield Bill Eppridge Nina Leen Michael Melford Larry Burrows George Silk Gordon Parks Bill Beall George Silk J. R. Eyerman Joe Munroe Jytte Bjerregaard Myron Davis Allan Grant Al Fenn
1950 1949 1951 1954 1949 1953 1943
Alfred Eisenstaedt Loomis Dean Gordon Parks Yale Joel Ralph Crane Philippe Halsman Gjon Mili
1945 Alfred Eisenstaedt
sull’inquinamento da mercurio a Minamata, in Giappone; The Mahatma, di Margaret Bourke-White, è il celebre ritratto di Gandhi in meditazione, con un arcolaio in primo piano. E così via. Ancora, e poi basta, rileviamo che l’identificazione In a World Before iPhones, per una fotografia di Joe Munroe, del 1959, è sicuramente attuale. Il suo riferimento ai nostri giorni è presto smascherato.
Rhesus Monkey (1939), di Hansel Mieth. La fotografia naturalistica è sempre stata ben interpretata da Life. Ne è testimonianza questa scimmia, fotografata a Santiago, Porto Rico.
Torniamo indietro di venti anni, all’autunno 1989, quando Time Magazine realizzò una edizione speciale in occasione dei centocinquant’anni della fotografia (1839-1989), certificandone l’indirizzo esplicito al fotogiornalismo. Se includiamo la fotografia della bandiera statunitense issata sul monte Suribachi, nel 1945, che fa capolino sotto il riquadro centrale di richiamo, la copertina di questo fascicolo richiama undici soggetti: quattro dei quali fanno anche parte dell’attuale selezione Life. The Classic Collection. In ordine: Rita Hayworth (1941), di Bob Landry (uno dei venticinque soggetti estraibili dalla monografia); V-Day, Times Square, New York City (1945), di Alfred Eisenstaedt (altra fotografia estraibile); Among the Mourner (1945; soldato che suona la fisarmonica), di Edward Clark; Life in 3-D (1952), di J. R. Eyerman (ancora uno dei venticinque soggetti estraibili dalla monografia).
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At the Drive-In (1958), di J. R. Eyerman. Fotografia scattata a Salt Lake City; sullo schermo, I dieci comandamenti, di Cecil B. DeMille.
The March on Washington (1963), di Paul Schutzer. Ventotto agosto, imponente marcia per i diritti civili e contro la segregazione razziale. È in quel giorno che Martin Luther King pronunciò il celebre discorso che esordì con «I have a dream», ho un sogno.
Huck Finn in the Flesh (1945), di Myron Davis. Scattata a Oskaloosa, in Kansas, questa fotografia fu originariamente pubblicata con la sua descrizione più lineare: A Boy with his Dog, un ragazzo con il suo cane.
Apollo 11 Lift-Off (1969), di Ralph Morse. Il decollo di Apollo 11 (sedici luglio), la prima missione spaziale con destinazione Luna. Ne abbiamo riferito ampiamente lo scorso luglio.
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proprio compito istituzionale). Dal punto di vista formale, l’operazione editoriale è altrettanto impeccabile. Ogni fotografia da staccare dal volume, sulle cui pagine è trattenuta da quattro linguette ai vertici, è protetta da una velina di salvaguardia; una volta tolta la copia, sulla pagina rimane comunque la riproduzione litografica, sì da non compromettere la consecuzione visiva dell’intera opera illustrata. Quindi, da non sottovalutare, tutte le fotografie sono adeguatamente didascalizzate e commentate. Per la cronaca, ancora, oltre le
centouno fotografie della Life. The Classic Collection, la monografia propone altre sei immagini: cinque a corredo della breve introduzione, più una finale della classica posa in studio dei fotografi dello staff, ordinati nell’inquadratura (riconosciuti molti soggetti, capiamo di essere all’inizio degli anni Sessanta). Di più, non c’è da osservare, considerato che le fotografie in quanto tali esulano da qualsivoglia commento che possa aggiungere qualcosa ancora al proprio valore, affermatosi nell’immaginario collettivo e specialistico: appunto, Classic Collection, e più classic di così è difficile
immaginare: ne riflettiamo nell’apposito riquadro, pubblicato qui sotto. Magari, ci sarebbero da commentare sia alcune scelte sia la sequenza delle fotografie staccabili dal volume, tutte riferite alla cultura e socialità degli Stati Uniti, in equilibrio tra storia, avvenimenti epocali e momenti di relax. Ma, facendolo, non si aggiungerebbe né toglierebbe nulla al senso complessivo e globale della affascinante monografia: consapevolmente americanocentrica. Ancora, e sulla stessa lunghezza d’onda, volendolo fare, ma non è proprio il caso, si potrebbe sottilizzare sulla combinazione dei capitoli
The Walk to Paradise Garden (1946), di W. Eugene Smith. È risaputo: i figli del fotografo simboleggiano il cammino della vita (Croton, New York).
Route 66 (1947), di Andreas Feininger. Fotografia scattata a Seligman, in Arizona.
CLASSICI TRA I CLASSICI
A
lmeno quaranta delle centouno fotografie riunite in Life. The Classic Collection sono più classiche di altre. In base a una valutazione nostra personale ci riferiamo a:
Marilyn Monroe, di Milton H. Greene; Dalí Atomicus, di Philippe Halsman; Jack and Bobby, di Hank Walker; RFK Slain, di Bill Eppridge; The Fab Four, di John Loengard; The Mahatma, di Margaret Bourke-White; Ernest Hemingway, di John Bryson; Pablo Picasso, di Gjon Mili; Orson Welles, di W. Eugene Smith; Jackie Robinson, di Ralph Morse; Servitude in South Africa, di Margaret Bourke-White; Premiere at La Scala, Milan, di Alfred Eisenstaedt; The Law in Spain, di W. Eugene Smith; Ice Skating Waiter, St. Moritz, di Alfred Eisenstaedt; The Chrysler Building [Margaret Bourke-White], di Oscar Graubner; Falling Soldier, di Robert Capa; Also in the Pacific Theater, di W. Eugene Smith; D-Day, Omaha Beach, di Robert Capa; Buchenwald, di Margaret Bourke-White; The American Way, di Margaret Bourke-White;
MacArthur Comes Ashore, di Carl Mydans; The Walk to Paradise Garden, di W. Eugene Smith; Aboard Yankee Papa 13, di Larry Burrows; Reaching Out, di Larry Burrows; Franklin Roosevelt’s Wild West, di Margaret Bourke-White; Tomoko Uemura in her Bath, di W. Eugene Smith; In the Womb, di Lennart Nilsson; Photographer [Dennis Stock], di Andreas Feininger; Diver, di George Silk; Snow Monkey, di Co Rentmeester; Rhesus Monkey, di Hansel Mieth; Children at a Puppet Theatre, di Alfred Eisenstaedt; Black Power Salute, di John Dominis; American Gothic, di Gordon Parks; Life in 3-D, di J. R. Eyerman; In a World Before iPhones, di Joe Munroe; Guess Who’s Coming to Dinner, di Jytte Bjerregaard; Drum Major at the University of Michigan, di Alfred Eisenstaedt; Hoppin’, di Gjon Mili; V-Day, Times Square, New York City, di Alfred Eisenstaedt.
In selezione più rigorosa e stretta, scendiamo a venti; ma di meno non si può fare: Marilyn Monroe, di Milton H. Greene; Dalí Atomicus, di Philippe Halsman; RFK Slain, di Bill Eppridge; The Mahatma, di Margaret Bourke-White; Pablo Picasso, di Gjon Mili; Servitude in South Africa, di Margaret Bourke-White; Premiere at La Scala, Milan, di Alfred Eisenstaedt; The Law in Spain, di W. Eugene Smith; Ice Skating Waiter, St. Moritz, di Alfred Eisenstaedt; Falling Soldier, di Robert Capa;
D-Day, Omaha Beach, di Robert Capa; Buchenwald, di Margaret Bourke-White; The American Way, di Margaret Bourke-White; The Walk to Paradise Garden, di W. Eugene Smith; Tomoko Uemura in her Bath, di W. Eugene Smith; In the Womb, di Lennart Nilsson; Photographer [Dennis Stock], di Andreas Feininger; Children at a Puppet Theatre, di Alfred Eisenstaedt; Life in 3-D, di J. R. Eyerman; V-Day, Times Square, New York City, di Alfred Eisenstaedt.
e la consecuzione delle immagini, che riprendono -ripetendoli- schemi e passi già adottati in precedenti raccolte, ma lasciamo perdere: sarebbe ridicolo, oltre che superfluo. Quando si incontrano icone della Storia della fotografia, c’è soltanto da stare zitti, e ascoltare in silenzio il loro messaggio, che ancora oggi raggiunge la mente e il cuore con lancinante energia. Magia e potere della Fotografia, con la nostra consueta maiuscola volontaria e convinta. A.G. Ricerca iconografica di Ciro Rebuzzini
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AGLI ALTRI, INTERESSA!
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(ai tempi della propria attualità tecnica in coppia con un più luminoso 150mm f/2,8). La mano sinistra comanda l’inevitabile scatto flessibile, e la destra mostra una confezione di dentifricio NeoEmoform: Cheeeese! è l’headline, che subito sottolinea anche “Sorriso sicuro”. Ecco qui: annunci pubblicitari con combinazione fotografica manifesta. Alternativamente, d’attrazione (Neo Emoform), piuttosto che di evocazione e atmosfera (Chanel, Louis Vuitton e Moncler). In ogni caso, esempi di proposte commerciali che fanno esplicito uso della fotografia per vendere il proprio prodotto... altro. Ciò a dire, che la fotografia fa vendere (gli altri), ma non se stessa. Infatti, a parte l’esiguità degli inviti che arrivano al grande pubblico consumatore (potenziale), dobbiamo ammettere che raramente l’industria fotografica sollecita e promette di assolvere sogni e desideri. Per lo più, si limita all’aridità del proprio oggetto macchina fotografica. Le eccezioni ci sono pure: pochi e presto identificati annunci che su-
Campagna stampa del dentifricio NeoEmoform, pubblicata su quotidiani nazionali. Per quanto ci compete, Linhof Color su immancabile treppiedi, Schneider Xenotar 135mm f/3,5 e scatto flessibile. Al pubblico, il richiamo stereotipato Cheeeese!, che promette “Sorriso sicuro”.
perano la visualizzazione semplificata dell’oggetto, per proporre emozioni (niente nomi, per favore). Ma le eccezioni, al solito, sono utili soprattutto per confermare la regola. E la regola pare essere quella della fotografia che è più utile ad altri che al proprio comparto. C’è di che riflettere, se proprio gli operatori commerciali volessero guardarsi in faccia per individuare insieme direzioni verso le quali incamminarsi, per migliorare lo stato delle cose. Ci sarebbe di che parlare, se soltanto il mercato fotografico italiano volesse allargare i propri orizzonti visivi oltre le sterili questioncine quotidiane del prezzo e della concorrenza orizzontale. Noi rimaniamo convinti che l’autentica concorrenza non sta tra le nostre fila, non contrappone un marchio a un altro, un prodotto a un altro analogo. Piuttosto, fa scontrare tra loro ogni possibile utilizzo del tempo libero. La fotografia fa vendere (gli altri). Speriamo che al più presto sia declinata in modo da far vendere di più e meglio anche se stessa. M.R. ARCHIVIO FOTOGRAPHIA
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Prima dell’attuale partecipazione della digitale M9 in un attuale spot Chanel, con l’interpretazione della commovente Audrey Tautou, già ammirata nel delicato Il favoloso mondo di Amélie, di Jean-Pierre Jeunet, del 2001 (FOTOgraphia, ottobre 2005), e protagonista del cinematografico Coco avant Chanel, di Anne Fontaine, del corrente 2009 (in Italia come Coco avant Chanel - L’amore prima del mito), la Leica è stata già celebrata in altri, precedenti, filmati pubblicitari. Soprattutto una, tra le tante citazioni possibili: l’elegante e raffinata Leica M3 di un corto Nescafé, di una dozzina di anni fa. Senza andare troppo indietro nel tempo, anche altri recenti annunci pubblicitari hanno utilizzato il richiamo fotografico per promuovere... qualcosa d’altro. Così, a memoria, va subito ricordata la campagna del cronografo automatico Tambour LV277, di Louis Vuitton: avvolto nella nebbia, un bel ragazzo dei nostri giorni tiene tra le mani una Hasselblad. L’headline collega il soggetto (orologio) con il complemento oggetto (macchina fotografica): Un viaggio in un istante. Addirittura clamoroso è, poi, il soggetto Moncler, realizzato da Bruce Weber, celebrato fotografo della moda contemporanea: autoritratto dormiente, su un letto letteralmente cosparso di un consistente insieme di proprie (?) macchine fotografiche. Citazioni colte e raffinate: Rolleiflex biottica a profusione, con immancabile pentaprisma, Plaubel Makina 67, Pentax 6x7 (cm), con e senza l’utile ed elegante impugnatura in legno, Polaroid 195 e altro ancora. Infine, ultimo ma non ultimo, è affascinante e avvincente la campagna stampa del dentifricio NeoEmoform, rivolta (la campagna) e indirizzato (il prodotto) a un pubblico assolutamente ampio. Dietro l’immancabile panno nero, adatto alla migliore osservazione del vetro smerigliato 4x5 pollici di una Linhof Color su immancabile treppiedi, il fotografo traguarda verso l’osservatore dallo Schneider Xenotar 135mm f/3,5
Alla Photokina e ritorno Annotazioni dalla Photokina 2008 (World of Imaging), con richiami e riferimenti che non si esauriscono con il solo svolgimento della Photokina
Riflessioni, Osservazioni e Commenti sulla Fotografia: spunti utili e proficui sia al comparto tecnico-commerciale sia al mondo della fotografia espressiva e creativa
Alla Photokina e ritorno dodici pagine, ventinove illustrazioni
Reflex con contorno ventotto pagine, settantuno illustrazioni
Visioni contemporanee venti pagine, quarantotto illustrazioni
I sensi della memoria dieci pagine, ventisette illustrazioni
La città coinvolta dieci pagine, ventisei illustrazioni
E venne il giorno (?) sei pagine, quindici illustrazioni
E tutto attorno, Colonia sei pagine, diciassette illustrazioni
Ricordando Herbert Keppler due pagine, due illustrazioni
Ciò che dice l’anima sei pagine, undici illustrazioni
Sopra tutto, il dovere quattro pagine, otto illustrazioni
• centosessanta pagine • tredici capitoli in consecuzione più uno • trecentoquarantatré illustrazioni
In forma compatta dieci pagine, venticinque illustrazioni
Tanti auguri a voi venti pagine, cinquantadue illustrazioni
Alla Photokina e ritorno di Maurizio Rebuzzini 160 pagine 15x21cm 18,00 euro
F O T O G R A P H I A L I B R I Graphia srl • via Zuretti 2a - 20125 Milano 02-66713604 • graphia@tin.it
Saluti da Colonia sei pagine, nove illustrazioni
Citarsi addosso sette pagine
POLAROID RICONVERTITE
L
Lo scorso trenta luglio, sul sito PolaPremium, organizzazione austriaca che ha raccolto il timone della vicenda Polaroid, creando una comunità di ricerca e individuazione di materiali di consumo e apparecchi (www.polapremium.com), è stata annunciata la disponibilità di una edizione speciale di dieci apparecchi derivati Polaroid, realizzati dalla Alpenhause Kamera Werke, di Santa Paula, in Ca-
Offerte sul sito PolaPremium, a fine luglio, le dieci Limited Gold Edition, derivate dalla Polaroid 110A Pathfinder, sono state vendute in un attimo: millecentoundici euro (esattamente 1111,00 euro).
Applicazione gratuita per iphone, una volta installata, Polarize aggiunge alle fotografie, scattate o recuperate dalla libreria di immagini, la cornice caratteristica delle polaroid integrali, tipo 600. Inoltre, si può scrivere sul bordo perimetrale, come con un pennarello. A completamento del progetto, su Facebook è presente un’area dedicata Polarize, nella quale si raccolgono le immagini simil polaroid.
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lifornia, che non nasconde la propria origine tedesca. Nonostante il prezzo di vendita sostanzioso, di millecentoundici euro (1111,00 euro), questi dieci esemplari Limited Gold Edition sono stati venduti in un baleno. Si sono esauriti poche ore dopo l’inizio della vendita, a mezzogiorno di venerdì trentuno luglio. Per la cronaca, almeno uno è finito in Italia. Lo sappiamo per certo: l’ha acquistato Franco Sergio Rebosio, di Limbiate, alle porte di Milano (ma ormai nella neoprovincia di Monza Brianza), uno degli abbonati a FOTOgraphia della prima ora, che non ci ha mai abbandonati. Delle sue escursioni fotografiche ci siamo occupati nel settembre 1998 (monografico Gioco o son desto?, relativo alla fotografia con apparecchi giocattolo) e giugno 2002 (Nudi con Eura). A tutti gli effetti, e con quel pizzico di feticismo che accompagna sempre, o quasi, l’attenzione fotografica, possiamo esprimerci nei termini di autentico capolavoro tecnico, erede di quella genìa di trasformazioni di antiche Polaroid che da tempo attraversano il mondo della fotografia contemporanea. Si sa di altre combinazioni; a margine di queste stesse note, richiamiamo una realizzazione italiana autonoma (in doppio) [a pagina 62], e non torniamo sulla produzione Littman 45 Singles, anticipata lo scorso maggio, il cui nostro richiamo all’origine Polaroid è stato addirittura minacciato di azione legale. Diamine, lasciamo perdere: non abbiamo nulla da spartire con coloro i quali, come si è rivelato William Littman, che abbiamo osato pensare diverso, sono talmente autoreferenti da perdere ogni contatto con la realtà e il senso civile delle proporzioni.
LIMITED GOLD EDITION I dieci esemplari dell’attuale Limited Gold Edition riservata a PolaPremium sono stati realizzati da Steven Icanberry, di Alpenhause Kamera Werke, che li ha certificati con propria firma autografa sul fondo, accanto l’innesto a vite per treppie-
di, passo 3/8 di pollice. Ripetiamolo: per quanto iscrivibile a une genìa nota da tempo, questa interpretazione si distingue per valori formali ed estetici di alta classe. Realizzate a partire dalla celebre Polaroid 110A Pathfinder, in produzione regolare dal 1957 al 1961, queste dieci combinazioni rinnovate dispongono di dorso per châssis 4x5 pollici, anche delle serie per pellicole a sviluppo immediato (piane, delle serie “50”, e a filmpack, delle serie “550” e Fujifilm). Alle origini delle Polaroid non automatiche, con obiettivo di ripresa provvisto di ghiera manuale dei diaframmi e selezione altrettanto manuale dei tempi di otturazione (centrale), la Polaroid 110A Pathfinder è stata dotata di Rodenstock Ysarex 127mm (cinque pollici) f/4,7, abbinato alla messa a fuoco telemetrica e combinato con il mirino esterno di inquadratura, dotato di correzione e compensazione automatica del parallasse. Il suo utilizzo è limitato ai rollfilm serie “40”, che sono andati esaurendosi nel corso degli anni Sessanta. Prima di successive versioni altrettanto non automatiche per filmpack serie “600”, che sarebbero arrivate dopo il 1965 (con la Polaroid 180), e avrebbero raggiunto il top di gamma con la Polaroid 195, la 110A Pathfinder ha disegnato una straordinaria stagione, dalla quale si può oggi attingere, per riconvertire l’antico corpo macchina all’agevole (?) formato di esposizione 4x5 pollici: appunto! Le affascinanti dieci Limited Gold Edition, numerate e firmate, sono rivestite in pelle: si presentano con una brillante finitura rosso brillante, abbinata alla maestosità di un corpo macchina dorato. Il Golden Alpenhause Kamera kit comprende anche una Polaroid Camera Bag originale e un CD contenente la riproduzione di manuali d’uso di apparecchi storici Polaroid e altre curiosità. Come già annotato, e la ripetizione si impone, il dorso 4x5 pollici consente di utilizzare tutti gli châssis e magazzini
Per la cronaca: informazioni dettagliate sulle specifiche tecniche della configurazione Limited Gold Edition, realizzata a partire da antiche Polaroid 110A Pathfinder.
PolaPremium è una organizzazione austriaca che ha raccolto il timone della vicenda Polaroid, creando una comunità di ricerca e individuazione di materiali di consumo e apparecchi.
portapellicola previsti per questa combinazione: sia per pellicole a sviluppo tradizionale, sia per pellicole a sviluppo immediato.
CONVERSIONI Alpenhause Kamera Werke, di Santa Paula, California, è un artigianato specializzato nella trasformazione di antichi apparecchi Polaroid per rollfilm delle origini, che da tempo non sono più in commercio (e a breve anche i filmpack dei nostri giorni andranno a esaurimento). In generale, vengono convertiti al formato di ripresa 4x5 pollici, con dorso 4x5 pollici e vetro smerigliato (www.alpenhause.com). In linea di massima, la conversione è più agevole, oltre che opportuna, con gli apparecchi folding, a base ribaltabile, dotati di obiettivo non automatico. Per esempio, e confermando, il Rodenstock Ysarex 127mm f/4,7, con otturatore centrale Prontor-SVS (tempi da un secondo a 1/300 di secondo), della 110A Pathfinder: obiettivo che copre adeguatamente il formato di ripresa 4x5 pollici (10,2x12,7cm), ed è abbinato al telemetro di mes-
sa a fuoco e dotato di correzione automatica del parallasse, rispetto l’osservazione nel mirino esterno. Ancora oggi, a cinquant’anni di distanza dalla sua stretta attualità tecnica, il nobile Rodenstock Ysarex 127mm f/4,7 è un obiettivo che offre eccezionali prestazioni fotografiche: contrastato e nitido, è qualificato da una brillante interpretazione fotografica, che ha attraversato i decenni senza perdere per strada il proprio smalto originario. Quindi, l’efficacia delle attuali conversioni, tra le quali la Limited Gold Edition in cronaca, si basa sulla energica costruzione in alluminio dell’originaria Polaroid 110A Pathfinder, prodotta in un tempo e clima nei quali si pensava a oggetti e strumenti che potessero durare una vita! Sulla base del disegno originario, viene modificato soltanto il dorso di chiusura, sul quale si colloca un apparato in alluminio anodizzato, con vetro smerigliato di inquadratura e composizione, alternativo all’inquadratura rapida attraverso il mirino esterno. Come già accennato (e come sanno coloro i quali, per diritto di anagrafe, hanno frequentato la fotografia grande formato degli anni scorsi), questo tipo di dorso 4x5 pollici (non “internazionale” / Graflok) accetta sia châssis in formato (per pellicole a sviluppo tradizionale), sia lo châssis Polaroid 545, per pellicole piane della serie “50”, sia i magazzini Polaroid 405 e 550, rispettivamente per filmpack della serie “600” e “550” (anche in versione Fujifilm), sia i magazzini a inserimento diretto, per pellicole a rullo 120 e 220 ed esposizione 6x7 e 6x9cm. Nel caso di conversioni di antichi apparecchi Polaroid originariamente dotati di obiettivi automatici, rimossi e sostituiti, Alpenhause Kamera Werke utilizza un Wollensak Raptar
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MADE IN ITALY
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ante Tassi, di Castel San Giovanni, in provincia di Piacenza, dove da decenni organizza e svolge il doppio appuntamento annuale della Mostra mercato di materiale fotografico usato e d’epoca (www.photo90.it), ha realizzato proprie conversioni al 4x5 pollici di antichi apparecchi Polaroid in disuso, per mancanza di rollfilm. Anche lui è partito da configurazioni Polaroid 110A Pathfinder, ovviamente meno diffuse in Italia di quanto non lo siano state in America, e dunque meno reperibili al giorno d’oggi. Due i modelli: uno realizzato con la collaborazione di Arturo Rebora, al quale si deve anche la produzione delle preziose e affascinanti Camogli 6x9, 6x12 e 6x17cm, di una dozzina di anni fa, l’altro confezionato in proprio. I due esemplari differiscono per il dorso 4x5 pollici. Uno è fisso e l’altro è di origine Sinar, con tanto di attacco internazionale Graflok, capace di accogliere ogni tipo di magazzino portapellicola, oltre gli châssis in formato. Avendo mantenuta la dotazione ottica originaria Rodenstock Ysarex 127mm f/4,7, l’accoppiamento al telemetro non è stato modificato. Soltanto, nel caso di inquadratura rapida dal mirino ottico esterno, bisogna tenere conto dell’ampliamento dal formato originario, di poco superiore al 6x8cm, al 4x5 pollici (10,2x12,7cm) adeguatamente coperto dall’obiettivo di ripresa.
Le due versioni delle conversioni di Dante Tassi: da Polaroid 110A Pathfinder al 4x5 pollici. A sinistra, la prima versione, realizzata in collaborazione con Arturo Rebora, di Genova; a destra, quella con dorso derivato dal banco ottico Sinar.
Il dorso 4x5 pollici fisso di Arturo Rebora comporta una costruzione più compatta e portatile, agevole nella combinazione con l’inquadratura a mirino esterno, per riprese a mano libera. Mentre il dorso internazionale Graflok da Sinar impone ingombri più sostanziosi. Riferimento utilitaristico del mondo polaroid, che qui (ri)trova pellicole e apparecchi, PolaPremium offre anche una concentrata e intelligente galleria fotografica.
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Due riprese bianconero del piacentino Dante Tassi, realizzate con le sue Polaroid 110A Pathfinder convertite al grande formato 4x5 pollici.
127mm f/4,5, analogamente accoppiato al telemetro. Tra le varie conversioni proposte, tutte presentate nel sito www.alpenhause.com, e oltre la Limited Gold Edition già esaurita, Alpenhause Kamera Werke ha in catalogo anche una affascinante Rattlesnake Camera. Si racconta dell’incontro con un serpente a sonagli, che è passato a nuova vita nelle finiture di una conversione 4x5 pollici da una antica Polaroid 110B, con Rodenstock Ysarex 127mm f/4,7, otturatore Seiko con tempi fino al cinquecentesimo di secondo e scala di diaframmi fino a f/90. A.Bor.
MAURIZIO REBUZZINI
M
Maurizio Rebuzzini è il nostro direttore. È colui che ha accolto nella (sua) rivista FOTOgraphia i nostri Sguardi sulle scritture fotografiche: una rubrica corsara e un po’ insolente, nella quale sono deposti o innalzati autori e poeti dell’immagine fissa, che non sempre hanno fatto la storia della fotografia. Addirittura, qualcuno di questi “fuori gioco” se ne sta al limitare del bosco di ogni forma culturale/politica istituzionalizzata; sovente ci soffermiamo su fotografi censurati dal mercato o disertori della fotografia celebrata nei templi dell’edonismo d’accatto. Insomma, siamo dalla parte dei “quasi adatti” della cultura fotografica, e nulla o poco ci piace di quanto corre nei prontuari dell’accademia, dell’avanguardia narcisista o dell’arte fine a se stessa. Il mercimonio della fotografia, anche quella più celebrata, spinge talora i fotografi nelle macellerie dell’immagine “colta”, e molti si fanno demiurghi di verità o proclami che celano o adorano il cadavere della fotografia che si nasconde nella Bibbia e in tutti i luoghi di potere dell’iconografia dominante.
IL FLÂNEUR DELLE SCRITTURE FOTOGRAFICHE L’archivio fotografico di Maurizio Rebuzzini è vasto, la sua conoscenza dell’immagine fotografica anche. La sua scrittura gli fa onore, quanto il suo Toscano, sempre accesso sull’ultima rivolta dell’iconografia sdoganata dai santuari del consenso. Maurizio Rebuzzini è l’uomo della conoscenza e della deriva fotografica, un flâneur che interpreta se stesso e non teme né vezzeggiatori, né servi; la sua “voce fotografica” è quella di “mille padri” della storiografia fotografica, e sin dalla fanciullezza sa che non c’è uomo di valore che lo può danneggiare, perché
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quasi sempre i suoi detrattori valgono meno di lui. La fotografia lo abita, lo percorre, lo agita, l’ossessiona; e i suoi scritti o le sue fotografie fanno ricorso all’ironia, alla metafora, al princìpio del piacere e al princìpio di realtà. Sa che vi è più ragione in una fotografia che nella migliore saggezza dettata dagli sciamani della civiltà dell’immagine.
Quando è vissuta nel “sangue dei giorni”, la fotografia acquista un’eccezionale carica di verità e, come si coglie in molti scritti di Rebuzzini, la fotografia è là dove non ci si aspetta e la si aspetta là dove non c’è mai e non c’è mai stata. «Le fotografie sono usate per mentire e per fornire indicazioni distorte», anche (Marco Belpo-
«Là dove il rivoluzionario immaginava che la fine del proprio compito coincidesse con la fine della storia, il libertario, convertito alle necessità del divenire rivoluzionario dell’individuo, dà la sua opera all’eternità, sapendo che è impossibile vedere un giorno la fine della storia» Michel Onfray I suoi editoriali, i suoi articoli, gli autoritratti, le fotografie di viaggio non sono propedeutiche al sistema, e sovente diventano formazioni creative per quanti si avvicinano al suo fare-fotografia. Maurizio Rebuzzini non fa ricorso ad artifici o strategie dell’immagine parlata e, a saper leggere o vedere, il suo vento sapienziale del “fotografico” è colmo di sudore e lacrime: sa che la filosofia della fotografia che conta è innanzitutto la confessione di un’anima in volo o di un corpo che geme nella polvere, e non confonde l’immediato col giusto. Di più: è un tessitore di parole, immagini, sogni scritti e riscritti continuamente, quasi a seminare l’affermazione di una libertà che si autentifica al momento che si afferma.
liti, La foto di Moro; I sassi nottetempo, 2008 [FOTOgraphia, giugno 2009]). L’inautenticità del bello non riguarda solo le immagini di Armani, Dolce&Gabbana, Versace: questa è la spazzatura pubblicitaria più circuitata. La menzogna visiva passa nell’impero dei media e anche il “faccendiere” più banale, che è asceso al potere per mezzo di connivenze mafiose e criminalità internazionali, diventa credibile. Per Putin (come per tutti i capi di stato legati a doppio filo con le multinazionali, la banca mondiale, il debito estero, le guerre del petrolio, del gas, dell’uranio, dell’acqua e dei terrorismi suscitati da conflitti di religione delle chiese monoteiste) il diritto alla parola e il rispetto dei
diritti umani equivalgono a una sentenza di morte. In Italia è in atto la germinazione di un “nuovo fascismo” e un piccolo uomo che si atteggia a dittatore di provincia (Silvio Berlusconi, mi pare si chiami), con l’aiuto di gente come Veltroni, D’Alema, Fassino, Bersani, Franceschini e tutta la ciurma della sinistra contaminata dal potere e il sostegno forte di un ex-fascista come Gianfranco Fini, vorrebbe mettere il bavaglio alla circolazione delle idee: quasi non sapesse la fine che ha fatto un celebre Duce. L’immagine della sua impiccagione per i piedi a un distributore di Milano non è mai stata cancellata dall’immaginario sociale degli italiani che si sono liberati (con la guerra di Resistenza) del regime fascista. I dittatori, come gli stupidi, sono sempre ammazzati troppo tardi! La Fotografia è “segno”, la sua nascita non può essere che nell’imperfezione dell’utopia realizzata. Detto meglio: la verità della Fotografia è nell’eresia dell’ordine che vince l’oblio... è orizzonte di qualcosa che muore o che è stato tradito... è l’appello del boia che precede il rituale... è lo stupore e la meraviglia che cedono all’irresistibile attrazione degli estremi. La Fotografia è una scrittura dell’erranza e dell’ebbrezza di un cammino da tracciare che si coniuga col futuro, o non è niente. La macchina fotografica non mente neanche quando costruisce una menzogna. Davanti alle immagini dei genocidi, delle carestie, della fame nel mondo si resta basiti di tanto dolore; tuttavia, è la costruzione pubblicitaria del mercato che attira i nostri sguardi, una proliferazione di falsità consumistiche costruite per raggiungere il consenso (e quindi il successo elettorale). «L’uomo guarda sempre attraverso la propria ignoranza e la
propria paura. [...] I nazisti furono i primi a usare sistematicamente la propaganda fotografica» (John Berger, Sul guardare; Bruno Mondadori, 2003): avevano compreso bene che l’immagine fotografica “fissa” nella storia l’apparizione di un evento, non importa molto se questo “evento” è costruito secondo le richieste della politica dominante, e magari qualche tempo dopo si scopre che era solo un falso. In questo senso, la fotografia smette di esser un mezzo di espressione creativa e diventa quello che in generale è: il “riflesso” dell’ideologia instaurata fin nelle pieghe più profonde della società dello spettacolo dai padroni del consenso (Guy Debord e Gianfranco Sanguinetti, I situazionisti e la loro storia; Manifestolibri, 1999 e 2006; con saggi di Giorgio Agamben, Enrico Ghezzi, Luisa Passerini, Alberto Piccinini, Francesco Poli, Filippo Scarpelli, Roberto Silvestri e Paolo Virno. Giorgio Agamben scrive: «Lo spettacolo non è la pura forma della separazione: dove il mondo si è trasformato in immagine e le immagini diventano reali, la potenza pratica dell’uomo si distacca da se stessa e si presenta come un mondo a sé. È nella figura di questo mondo separato e organizzato attraverso i media, in cui le forme dello Stato e dell’economia si compenetrano, che l’economia mercantile accede a uno statuto di sovranità assoluta e irresponsabile della vita sociale»).
DELL’UOMO CHE AMA LA FOTOGRAFIA Nelle schede di consultazione, il nostro direttore è così definito: Maurizio Rebuzzini è direttore di FOTOgraphia, mensile di riflessione e approfondimento. Oltre le tematiche ufficiali della fotografia, si occupa di aspetti paralleli. In particolare, ha approfondito alcune delle combinazioni della fotografia che si proiettano al di fuori dei propri confini istituzionali: tra le quali, le fenomenologie della presenza della fotografia nel cinema (da cui le sele-
zioni a quattro mani con Filippo Rebuzzini Fotografia & Cinema. Fotogrammi celebri, esposta alla Galleria Grazia Neri, di Milano, all’inizio del 2007 [FOTOgraphia, dicembre 2006], Fotogrammi. Fotografi e fotografia nel cinema, al LuccaDigitalPhotoFest 2008 [FOTOgraphia, novembre 2008] e Nikon sul grande schermo, per conto di Nital, al PhotoShow 2009 [FOTOgraphia, marzo 2009]), nei fumetti, nella narrativa; e poi si segnala la sistematica raccolta di oggetti a ispirazione e richiamo fotografici. Ha curato mostre e programmi fotografici. È docente a incarico di Storia della Fotografia, presso la Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università Cattolica del Sacro Cuore, sede di Brescia. È curatore della sezione della storia degli apparecchi fotografici del MNAF - Museo Nazionale Alinari della Fotografia, di Firenze [FOTOgraphia, dicembre 2006 e ottobre 2008]. Maurizio Rebuzzini è tutto questo, ma è anche altro. A sfogliare la sua fotovita possiamo vedere che è un passatore della fotografia, un lampadiere dell’immagine buona, materica, riuscita, che fa pensare al “rumore” della fotografia e in qualche modo lavora per dare corpo, immagine, voce a chi ne è stato escluso per evidenti meriti di disobbedienza al potere. In questo senso, è un irriducibile sognatore e sa che -come l’amore non può che essere salvato dall’amore- la fotografia non può che essere salvata dalla Fotografia. L’uomo che ama la fotografia (come l’ama Maurizio Rebuzzini) accede al ludismo, alla libertà, al sublime come surrealtà dell’esistenza, e là dove altri vedono la funzione, il gregarismo, la dipendenza, si trascolora in cacciatore di immagini e, attraverso la politica di resistenza che lo avvolge, reagisce al crollo dell’unidimensionalità (non solo) della fotografia insegnata e s’invola verso le periferie invisibili pasoliniane, dove riconosce altre verità e altri valori con i quali accendere i fuochi nella notte, per
girarci intorno e incamminarsi verso la comunità che viene.
DELLA FOTOGRAFIA TRA NOI, LEGGERA
Il compito della fotografia è di andare a vedere ciò che viene censurato, nascosto, falsato. La lingua scritta della fotografia è al contempo fuori del sistema e dentro i gazebi del potere. La fotografia dominante è parte della società dello spettacolo che vive, e difficilmente punta al cuore del linguaggio del quale ha rinunciato ad esplorare le possibilità etiche ed estetiche. La fotografia mercantile è “udibile” ovunque, e come una sotto-lingua s’instaura in prossimità del suo oggetto di attenzione. Per disfarsi della cattiva fotografia, basta una torcia e un Lazarillo de Tormes. La grande fotografia vive e muore nella poesia che edifica, al di là del bene e del male. La fotografia tra noi, leggera, ci ha fatti conoscere, ma da molto tempo mi ero imbattuto in questo viandante delle immagini. Maurizio Rebuzzini mi affascinava e mi affascina ancora, per quel suo parlare di fotografia fuori dalle cordate e dalle convenienze politiche. Nelle sue parole, ma anche nelle sue immagini e nel suo modo di “collezionare” (raccogliendoli disordinatamente, o ordinatamente?) libri, riviste, macchine, oggetti che hanno a che fare con la fotografia... vedevo e vedo ancora qualcosa che accoglie la fotografia, non la profana. C’è una sana follia nel suo essere storico, critico, fotografo; più ancora, trovo in lui una percezione dell’esistere, un’aristocrazia del gesto, una regalità della parola, schermati da ogni adulazione e autocelebrazione. La sua riservatezza è accentuata da un retrogusto sessantottino, che disperde al tavolo di un bar, in treno o in una passeggiata per le strade di Milano (o Bologna, o Piombino, fa lo stesso). Non mette limiti alla sua libertà né a quella degli altri, e ignora la genuflessione in cambio di favo-
ri di basso consumo. È là dove si promuovono, professano, decidono eventi fotografici, ma non rinuncia alla sua collera o al dissidio. Come altri, per l’amore della fotografia, non ha accumulato ricchezze ma ha dilapidato energie, amori, amicizie. L’intensità del suo pensiero fotografico ha radici profonde, e a ogni giro di pagina ridiventa semenza per una nuova avventura fotografica. La visone libertaria della fotografia di Maurizio Rebuzzini si chiama fuori dai moralismi della propria epoca; e senza troppo dire di oppressi e oppressori, servi e padroni, profeti o generali, il suo lavoro sui linguaggi fotografici esprime una critica radicale del superfluo, dell’ovvio e dell’ottuso. Le citazioni sono forbite, i rimandi storici di grande spessore autoriale, le invenzioni scritturali sono lasciate a chi vuole conoscere meglio e più a fondo la fotografia come finestra sul mondo. I funzionari del pensiero fotografico non lo amano molto, e del resto Maurizio Rebuzzini non si fa amare affatto, per quel suo girovagare tra l’umorismo libertario e il cinismo fotografico. Scrive di ciò che ama e ama ciò che approfondisce, al di qua di modalità sovversive linguistiche, sulle quali occorre ritornare sempre. Non celebra popoli in rivolta, né martiri della rivoluzione. Racconta come la fotografia, a volte, possa essere un dispositivo o un grimaldello a favore degli ultimi. I suoi editoriali sono spregiudicati; non c’è segno di culto dello stile, né idolatria per i personaggi (o i buffoni) della politica. C’è la sapienza tragica di una realtà assoggettata ai valori dominanti e indica la fine dei cenacoli e degli dèi, lasciando a chi legge la libertà di agire secondo i propri desideri e piaceri. Né estetizzazione della politica, né politicizzazione dell’arte, dunque, ma -sulle tracce dei grandi utopisti- nei suoi scritti si scorge l’emozione e l’eresia della tradizione libertaria, ludica che attraverso la trasfigurazione dell’arte passa alla libera-
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zione della vita quotidiana. L’apologia di Maurizio Rebuzzini non è di quelle povere. Non è scritta nemmeno in lingua rovescia. È qualcosa che riguarda un’estetica radicale della fotografia, che è sempre quella di rifiutare l’imbecillità. Non si tratta di promuovere un’arte della fotografia senza museo o di mettere al posto delle gallerie d’arte delle osterie o bordelli del libero amore (anche se l’idea non ci sembra malvagia, anzi!). Maurizio Rebuzzini non rivendica questo nei suoi testi, e rigetta anche la cultura dell’ostaggio, che opera su meritocrazie decise dai mercanti. Evita ogni forma di coinvolgimento che possa tradire la Fotografia; sa che la cultura (anche) fotografica si consuma là dove impera l’ignoranza o il mercimonio, ed è un confortorio dove il diverso, il “quasi adatto” e il folle sono proibiti. I mangiatori di immagini sono
i referenti più importanti per la continuazione delle fosse comuni della fotografia, specie quella sociale; la barbarie è la ricerca del consenso e la rimunerazione del successo. La messinscena sono le cerimonie sulle Terrazze Martini o nei musei dei grandi industriali: qui, gli acquerelli di Hitler vanno bene come le fotografie di Newton; e la fotografia rende liberi alla Fiat come ad Auschwitz. Maurizio Rebuzzini non c’entra nulla con tutto questo. Tuttavia, l’amore per la fotografia e per la libertà di pensiero l’ha portato sovente a diffidare di ogni forma d’arte e di ogni autorità, credo. Sa che i poteri centrali hanno «acceso roghi, aperto prigioni, riempito manicomi, imposto tribunali, forgiato gabbie, hanno impiccato, bruciato vivi, decapitato, ghigliottinato o sottoposto a trattamenti altrettanto divertenti, i sostenitori di un’arte libera, opposti
Diavolo! Non posso esimermi da una postilla. Anzitutto, rivelo il disagio e imbarazzo personale, per almeno due motivi. Il primo, fondamentale, riguarda la pubblicazione sulla rivista che dirigo e governo (in assoluta dittatura, lo so bene) di uno Sguardo su di me! Ci ho pensato a lungo, mi sono consultato con chi mi sta accanto su queste pagine, e alla fine ho ceduto alle considerazioni altrui. Se soltanto avessi avuto un minimo dubbio, non se ne sarebbe fatto nulla; ma consistenti ragioni mi hanno convinto. A questo punto, nelle fasi operative di lavorazione della rivista, secondo i canoni e princìpi che governano la trasformazione sulle sue pagine, è intervenuto il secondo imbarazzo: quello di fare da redattore a un testo che mi riguarda direttamente. Al solito, non sono intervenuto sulle opinioni di chi ha scritto (con Voltaire: non condivido le tue opinioni, ma sarei disposto a dare la vita [mica vero] affinché tu possa esprimerle; e Pino Bertelli sa bene quante volte non sia allineato con le sue considerazioni, ma!). Però, ho dovuto comunque editare un testo nel quale si parla di me. A questo proposito, mi ritaglio e concedo un diritto di minima replica: non precisazione, proprio replica. Prima di tutto, rimprovero a Pino Bertelli di aver rivelato un mio aspetto che tengo per me, visto che -nel bene e nel male- agisco nel mondo fotografico per e con altri compiti, per e con altri doveri. Non mi garba sottolineare che io stesso sono fotografo: professionalmente, lo sono stato in sala di posa, soprattutto still life; ma sono fotografo per portamento e cuore. Non importano le ricerche che ho svolto, e magari svolgo ancora, né quelle che immagino e progetto, e spesso rimangono latenti e latitanti: mi sento fotografo nell’anima, e certamente lo sono (lascio ad altri le false ritrosie e le colpevoli modestie verbali). In secondo luogo, rispondo a quel suo individuato “retrogusto sessan-
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ai praticanti della politica come meccani del peggio, alimentatori di cimiteri» (Michel Onfray, La politica del ribelle. Trattato di resistenza e insubordinazione; Fazi Editore, 2008). Il comunismo, il fascismo, il nazismo si adoperarono con zelo nell’opera di distruzione dell’intelligenza; le democrazie consumeriste non sono poi così lontane da quella strada: le violenze, i massacri, le oppressioni dei loro eserciti sono l’esatta continuazione dei discorsi che lasciano sui tavoli dell’Onu o nei raduni armati dei “grandi” della Terra. Non esiste peggiore schiavitù del piegare la propria arte e la propria libertà agli imperativi del potere. A guisa di chiusura del nostro piccolo studio su questo flâneur delle scritture fotografiche, vogliamo ricordare che Maurizio Rebuzzini, a dispetto di tutto, continua la sua seminagione libertaria dell’immagine fotografi-
ca (nel cinema, nei fumetti, nella strada...) e i suoi scritti non danno definizioni di vita o insegnano al comportamento o all’apprendimento dei linguaggi fotografici. Niente di tutto questo. Maurizio Rebuzzini sa «che c’è sempre qualcuno che preferisce la giustizia alla propria madre, e altri l’ingiustizia al disordine» (Michel Onfray). Così, nei suoi lavori esorta a godere e far godere della fotografia; e all’onnipotenza del corpo politico e dei meccanismi culturali atti alla sottomissione delle genti, lascia emergere quella politica del cuore che si batte contro la filosofia della miseria e la miseria della filosofia fotografica corrente e si affranca con chi, ovunque nel mondo, rivendica i diritti più elementari dell’uomo. Pino Bertelli (Piombino, una volta ottobre 2009, dal vicolo dei gatti in amore)
tottino”. Sono stato e sono un “cane sciolto”, come ha stabilito un certo gergo di quei lontani anni (lontani solo per sentenza di calendario). Ho svolto le mie azioni, e subìto le sentenze della storia. Alla fine, ho capito che tutto quello che ho fatto non l’ho mai fatto per organizzazioni sovrastanti (concrete o utopistiche che siano state): l’ho sempre fatto per me stesso, perché ci ho creduto. Con Michele Serra (nel suo caso in riferimento al coinvolgimento del suo Partito comunista in vicende fosche e tenebrose): «Non me ne frega niente se la storia mi sta togliendo tutto. Le ho già preso tantissimo, vivendo come ho creduto e come ho voluto. Ciò che è stato fatto per il partito è ormai polvere, nuvole. Ma ciò che abbiamo fatto per noi stessi, è ciò che noi stessi oggi siamo». Comunque, ciao, Pino, e tante grazie. Il tuo testo è come una buona e nobile fototessera. Non sono così bello come mi hai dipinto: sono soltanto un clown, e faccio raccolta di attimi (da e con Heinrich Böll). maurizioR Ancora: contravvenendo allo stile degli Sguardi di Pino Bertelli, solitamente pubblicati senza illustrazioni (con due sole eccezioni precedenti: per Gianni Giansanti, lo scorso luglio, e Fernanda Pivano, a settembre: a che straordinaria compagnia mi accodo!), certifico qui la prima testimonianza fotografica che mi riguarda. Dovrei avere tra due e tre anni. Mia sorella Nella avrebbe individuato il luogo: Piazzatorre, nell’alta Val Brembana, in provincia di Bergamo. La stampa originaria è di piccole dimensioni 6,4x3,9cm, più mezzo centimetro di bordo frastagliato; certamente, si tratta di una copia a contatto dal negativo (che ha preso luce). A tracolla, la custodia di una macchina fotografica, evidentemente quella che sta scattando. Comunque, la fotografia è stata sempre estranea alla mia famiglia di nascita, come anche i libri (nessun rimprovero, nessun rammarico: erano i tempi e le possibilità). Anche questa macchina fotografica ha nulla da spartire con la mia famiglia. Crescendo, alle scuole superiori, in anni di agitazione e sogni, sono capitato in una classe nella quale di sedici che eravamo, almeno quindici erano interessati alla fotografia e pensavano di orientarsi verso il mondo fotografico: uno solo, no di certo. Chi, tra i sedici? La vita è proprio curiosa. M.R.
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