FOTOgraphia 160 aprile 2010

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ANNO XVII - NUMERO 160 - APRILE 2010

Pubblicare sÏ, pubblicare no? La nostra misericordia davanti al dolore. Un pugno nello stomaco, sferrato a tradimento. Questa copertina è diversa ed estranea; si preferisce la fotografia lieve, anche nel fotogiornalismo, che raggiunge la mente passando dal cuore, e viceversa. Ma ci siamo sentiti in dovere di sottolineare come e quanto la fotografia possa essere terribile testimonianza dei fatti. Anche dei piÚ tragici.

OLIVIER LABAN-MATTEI / AFP

Mensile, 6,50 euro, Poste Italiane SpA - Spedizione in abbonamento postale - D.L. 353/2003 (convertito in Legge il 27-02-2004, numero 46), articolo 1, comma 1 - DCB Milano

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HAITI 12 GENNAIO 2010


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e comune di dialogo

Abbonamento 2010 (nuovo o rinnovo) in omaggio 1839-2009

Dalla Relazione di Macedonio Melloni alla svolta di Akio Morita M A U R I Z I O

1839-2009

i termini “fotografia”,

ecenni, scavalcando

Non è venduta in edicola. Per averla hai una sola possibilità: sottoscrivere l’abbonamento annuale. 12 numeri 65,00 euro

n i quali la natura si

R E B U Z Z I N I

1839-2009 Dalla Relazione di Macedonio Melloni alla svolta di Akio Morita

essione delle origini.

ma i princìpi restano.

Imaging), volgimento della Photokina

a e uno dopo

otografia: ommerciale reativa

MAURIZIO REBUZZINI

Come dire, dal dagherrotipo all’acquisizione digitale di immagini. E consecuzioni

INTRODUZIONE

DI

GIULIANA SCIMÉ

F O T O G R A P H I A L I B R I

Alla Photokina e ritorno, che sottotitola e precisa Annotazioni dalla Photokina 2008 - World of Imaging, alla Fiera di Colonia, dal ventitré al ventotto settembre, è un progetto che si è formato da solo, imponendosi. Al principio, l’idea che lo svolgimento di questo appuntamento fondamentale della tecnologia fotografica, e delle sue proiezioni relative, potesse richiedere qualcosa di più di un solo e semplice articolo giornalistico si è affacciata timidamente; poi, ora dopo ora, giorno dopo giorno, ha preso forma, si è definita da sola e affermata, manifestandosi in tutta la propria necessità. Alla Photokina e ritorno è un progetto/prodotto spontaneo, che dipende da una considerazione sovrastante, ma non inattesa: l’attuale rapporto con le novità tecniche annunciate e presentate nei padiglioni fieristici è assolutamente relativo. Anzitutto, la Photokina è uno spirito, che interpreta l’anima di un mondo (quello del commercio fotografico). Simultaneamente, e non in subordine, la Photokina è ciò che ognuno di noi va cercando nel mercato fotografico. Non si sovrappone a nulla, ma permette a ciascuno di esprimersi. Alla Photokina e ritorno spazia a largo raggio: con considerazioni che non si esauriscono nel solo ambito originario della tecnica e del commercio, ma si estendono alla promozione della Fotografia e a riflessioni di costume e, perché no, espressione creativa. Con tanti altri contorni. Soprattutto, la consecuzione dei suoi tredici capitoli (più uno) è stata compilata per proporre spunti di riflessione utili e proficui all’intero comparto della fotografia. Pardon, dell’imaging. Maurizio Rebuzzini

Oltre i debiti di riconoscenza, che -dove è stato opportuno farlo- ho certificato a Loredana Patti, Angelo Galantini, Antonio Bordoni e Ciro e Filippo (Rebuzzini), qui e ora non dimentico Arturo Cannetta. Averlo incontrato in una grigia mattina di ottobre, nel 1968, ha fatto la differenza nella mia vita.


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prima di cominciare NOI. NOI. NOI. E GLI ALTRI. Salto triplo attraverso questo numero di FOTOgraphia, per sottolineare quelle trasversalità che ne caratterizzano ogni edizione. A differenza di altre, le attuali vanno rilevate, perché non sono collegate tra loro soltanto in maniera giocosa, come spesso ci permettiamo di fare, ma in modo sostanzioso. Questa volta. Da pagina otto, rispondiamo ad affermazioni con le quali Gianni Berengo Gardin liquida frettolosamente il discorso sulla tecnologia digitale in fotografia, che, se avesse diritto di ospitalità, andrebbe articolato altrimenti e non espresso per e con slogan da tifoserie contrapposte (lo diciamo sempre, non soltanto spesso). Nel rispondere, evitiamo di ribattere punto su punto, come si sarebbe potuto anche fare, perché il dibattito deve volare più alto e portare altrove che alla sola sterile diatriba. Allo stesso momento, rispondendo a Gianni Berengo Gardin, confermiamo il senso (e spessore?) di riflessioni che ci appartengono di diritto, non essendo noi schierati con alcun pre-concetto o pre-giudizio di sorta. Quindi, con un balzo, approdiamo a pagina quarantadue, dalla quale presentiamo il progetto Mailand. Terra di mezzo, di Marisa Chiodo, espresso con dichiarate Opere fotodigitali. A parte la presentazione di queste immagini, e oltre la loro stessa presentazione, il testo di accompagnamento riconferma e ribadisce opinioni che riflettono sull’espressività implicita ed esplicita della stessa azione digitale: che sottolineiamo essere ben lontana dall’impoverimento culturale e creativo che si vorrebbe imputare alle tecnologie (che mai sono clinicamente responsabili di nulla: casomai, riferiamoci alle loro applicazioni improprie). Salto triplo, abbiamo promesso: da Gianni Berengo Gardin a Marisa Chiodo, e poi ancora a pagina sessantacinque, con Pino Bertelli. Qui non ci sarebbe nulla di ufficialmente legato e collegato ai primi due interventi redazionali, ma! Ma, tra le righe della consueta, erudita analisi sui risvolti fotografici di una personalità in esame (è la volta dello scrittore inglese Bruce Chatwin), leggiamo che «[Bruce Chatwin] Attirato dalla diversità degli altri, si è interessato all’esistenza di ciascuno». Eccoci qui, eccoci al nocciolo, alla sostanza della Vita: indipendentemente da tutto, non soltanto da molto, digitale e non digitale, rava o fava, interessiamoci all’esistenza di ciascuno. Soprattutto di coloro i quali sono diversi da noi. Questa è una delle strade da percorrere per la conoscenza. Una delle strade da percorrere lungo quel tragitto che ci fa essere migliori giorno per giorno, ora per ora. Come spesso annoto, il resto è mancia. M.R.

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Attirato dalla diversità degli altri, si è interessato all’esistenza di ciascuno. Pino Bertelli; su questo numero, a pagina 65 Anche questo è uno dei (tristi) segni dei nostri attuali tempi fotografici, frequentati da troppe parole inutili. Maurizio Rebuzzini; su questo numero, a pagina 43 Un terremoto, nel Belice come in Cina, è da sempre, sia detto senza malizia, una grande palestra per i fotografi: la disperazione dei sopravvissuti, i morti ricoperti di polvere bianca, che affiorano qua e là tra le macerie, trasfigurati nell’attimo della morte come se fossero calchi di Pompei, i soccorritori che a mani nude scavano in lacrime tra le macerie, i bambini inebetiti, che vagano nel vuoto e nel silenzio, tutto concorre alla realizzazione di immagini di straziante bellezza. Mauro Vallinotto; su questo numero, a pagina 40 Immaginare è creare ciò che esiste nel nostro cuore, è rompere i limiti di una realtà eccessiva, è annotare sui silenzi della storia le grida di dolore degli ultimi. [...] Il viaggio è un’interrogazione della coscienza collettiva, sempre. Pino Bertelli; su questo numero, a pagina 65

Copertina Haiti. 12 gennaio 2010. Pubblicare sì, pubblicare no? La nostra misericordia davanti al dolore

3 Altri tempi (fotografici) Dalla copertina del Catalogo Voigtländer, del 1940

7 Editoriale Etica e morale. In mancanza di altro, che sta sfuggendo dalla vita dei nostri giorni attuali, ci guidino e sostengano almeno un’etica e una morale individuali. Almeno

8 Discussione sterile. Ma! Non esiste una problematica di tecnologie contrapposte, digitale contro analogico. Tantomeno nei termini nei quali la pongono alcune considerazioni qualificate (?). Casomai, si dovrebbero approfondire altre consecuzioni

12 Notizie Attrezzature, vicende e altre segnalazioni

14 Ancora un Giorno Terza edizione di Un giorno nella vita dell’Italia, a cura del photo editor Chiara Mariani, in Sette, del quattro febbraio: sessantotto fotografi in azione


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. APRILE 2010

R , RIFLESSIONI IFLESSIONI, OSSERVAZIONI E COMMENTI OSSERVAZIONI E COMMENTI SULLA FOTOGRAFIA SULLA FOTOGRAFIA

17 Venti anni. Altrettanti 1990-2010: venti anni del mercato antiquario di Castel San Giovanni, in provincia di Piacenza. Auguri di Antonio Bordoni

Anno XVII - numero 160 - 6,50 euro DIRETTORE

RESPONSABILE

Maurizio Rebuzzini

IMPAGINAZIONE

Gianluca Gigante

20 Ai tempi della Pietra Polarock: facile dedurne l’origine e la storpiatura. Fotografia a sviluppo immediato, che accompagna le vicende cinematografiche dei Flintstone (gli antenati). E poi, ancora e con l’occasione: fotoricordo e dintorni Ricerca iconografica di Filippo Rebuzzini

24 Ici Bla Bla Appunti e attualità della fotografia internazionale a cura di Lello Piazza

32 A modo suo In traduzione, da My Way. Princìpi e filosofia tra e sopra le righe di 1839-2009. Dalla Relazione di Macedonio Melloni alla svolta di Akio Morita di Antonio Bordoni

34 Cronaca da Haiti Testimonianza diretta dai giorni del terremoto che ha sconvolto l’isola caraibica. Punto di vista obbligatoriamente mirato alla fotografia. La successione dei giorni e la conclusione sottotraccia. Amara di Mauro Vallinotto

42 Mailand. Terra di mezzo Avvincente e convincente espressività di Marisa Chiodo: che ha trasfigurato i suoi “Bukoni-Cantieri”, portandoli dal paesaggio del “vero” a quello del “reale” mentale di Maurizio Rebuzzini

52 Concorso autentico Meritata e autorevole, la vittoria di Pietro Masturzo al World Press Photo 2010 rivela anche che si tratta di una assegnazione sopra le parti, oltre le connivenze di Lello Piazza

REDAZIONE

Angelo Galantini

FOTOGRAFIE Rouge

SEGRETERIA

Maddalena Fasoli

HANNO

COLLABORATO

Pino Bertelli Antonio Bordoni Sara Casna Marisa Chiodo Giulia Ferrari Chiara Mariani Lello Piazza Franco Sergio Rebosio Ciro Rebuzzini Filippo Rebuzzini Mauro Vallinotto Redazione, Amministrazione, Abbonamenti: Graphia srl, via Zuretti 2a, 20125 Milano; 02-66713604; graphia@tin.it. ● FOTOgraphia è venduta in abbonamento. ● FOTOgraphia è una pubblicazione mensile di Graphia srl, via Zuretti 2a, 20125 Milano. Registrazione del Tribunale di Milano numero 174 del Primo aprile 1994. Poste Italiane SpA - Spedizione in abbonamento postale - D.L. 353/2003 (convertito in Legge il 27-02-2004, numero 46), articolo 1, comma 1 - DCB Milano. ● A garanzia degli abbonati, nel caso la pubblicazione sia pervenuta in spedizione gratuita o a pagamento, l’Editore garantisce la massima riservatezza dei dati forniti dagli abbonati e in suo possesso, fatto diritto, in ogni caso, per l’interessato di richiederne gratuitamente la rettifica o la cancellazione ai sensi della legge 675/96. ● FOTOgraphia Abbonamento 12 numeri 65,00 euro. Abbonamento annuale per l’estero, via ordinaria 130,00 euro; via aerea: Europa 150,00 euro, America, Asia, Africa 200,00 euro, gli altri paesi 230,00 euro. Versamenti: assegno bancario non trasferibile intestato a Graphia srl Milano; vaglia postale a Graphia srl - PT Milano Isola; su Ccp n. 28219202 intestato a Graphia srl, via Zuretti 2a, 20125 Milano; addebiti su carte di credito CartaSì, Visa, MasterCard. ● Nessuna maggiorazione è applicata per i numeri arretrati. ● È consentita la riproduzione di testi e fotografie, magari citando la fonte (ma non è indispensabile, né obbligatorio farlo). ● Manoscritti e fotografie non richiesti non saranno restituiti; l’Editore non è responsabile di eventuali danneggiamenti o smarrimenti. Fotocomposizione DTP e selezioni litografiche: Rouge, Milano Stampa: Arti Grafiche Salea, Milano

58 Il furore delle Immagini In mostra: Fotografia italiana dall’archivio di Italo Zannier nella Collezione di Fondazione di Venezia. Palpitante racconto della storia recente della fotografia italiana di Angelo Galantini

Rivista associata a TIPA

64 Bruce Chatwin Sguardi su un ladro di fuoco di Pino Bertelli

www.tipa.com

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1839-2009

la finestra di Gras Dalla Relazione di Macedonio Melloni 2009.unaRicordando pagina, una illustrazione alla svolta di Akio Morita

Come dire, dal dagherrotipo all’acquisizione digitale di immagini. E consecuzioni

1839. Dal sette gennaio al dodici novembre sedici pagine, tre illustrazioni

Tappe fondamentali, che si sono proiettate sul linguaggio e l’espressività, con quanto ne è conseguito e ancora consegue Relazione attorno al dagherrotipo diciotto pagine, tre illustrazioni

1839. Fotogenico disegno dieci pagine, quattro illustrazioni

1888. Box Kodak, la prima diciotto pagine, quarantacinque illustrazioni

1913-1925. L’esposimetro di Oskar Barnack ventiquattro pagine, cinquantotto illustrazioni

1947 (1948). Ed è fotografia, subito ventiquattro pagine, sessantadue illustrazioni

1981. La svolta di Akio Morita dodici pagine, ventisei illustrazioni

• centosessanta pagine • nove capitoli in consecuzione più quattro, tre prima e uno dopo • duecentosessantatré illustrazioni 1839-2009 Dalla Relazione di Macedonio Melloni alla svolta di Akio Morita di Maurizio Rebuzzini Prefazione di Giuliana Scimé 160 pagine 15x21cm 24,00 euro

F O T O G R A P H I A L I B R I Graphia srl • via Zuretti 2a - 20125 Milano 02-66713604 • graphia@tin.it

2009. Io sorrido, lui neanche un cenno dieci pagine, ventisette illustrazioni

Le paternità sono ormai certe otto pagine, tredici illustrazioni

2009. Alla fin fine cinque pagine, quindici illustrazioni


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editoriale E

ccoci qui. Possiamo fare finta di niente, e non tenere conto della copertina di questo numero di FOTOgraphia, autentico pugno nello stomaco? Per quanto diversa e lontana dalla fotografia lieve, che raggiunge la mente passando attraverso il cuore, e viceversa, ho ritenuto opportuno sottolineare come e quanto la fotografia possa essere terribile testimonianza dei fatti. Lo abbiamo ritenuto opportuno, in comunione di idee con coloro i quali posso condividere. Lo abbiamo certificato subito, e qui ribadisco: la nostra misericordia davanti al dolore. Tra le tante fotografie che hanno documentato il terremoto di Haiti, alcune pubblicate altre inedite, che oggi proponiamo con un attento testo a commento e presentazione di Mauro Vallinotto, photo editor di La Stampa, che dalla cronaca dei giorni si allunga sulla riflessione sottotraccia, questa in copertina è sicuramente la più forte e diretta in assoluto. In definitiva, tra le due ipotesi sempre latenti, pubblicare sì?, pubblicare no?, ha prevalso la prima: anche in considerazione della personalità di questa rivista, che non arriva all’esposizione in edicola, che si rivolge a un pubblico di profilo dichiaratamente fotografico, che non fa turbamento a fini commerciali. Così che, nel proprio insieme, come anche nella propria profondità, la copertina si offre e propone come elemento privilegiato di riflessione mirata: non universale, lo ribadisco, ma tra addetti consapevoli. Cosa entra in discussione? L’etica e la morale, come sempre dovrebbe essere in fotografia, soprattutto nella fotografia che osserva la vita nel proprio svolgersi. Etica e morale di chi agisce, etica e morale di chi osserva. Io, io non ho più molte certezze, ammesso e non concesso che ci siano state anche stagioni durante le quali posso averne avute, o creduto di averne. Non riesco più a identificarmi in ideologie e/o categorie (abbasso subito il tono, rivelando di non immaginarmi più neppure interista). Certamente, il socialismo utopistico, al quale in passato ho offerto il mio cuore, non si è rivelato, alla resa dei conti, per quanto aveva promesso sulla carta. Allora? Allora, ci guidi soprattutto l’inflessibilità di quell’etica e quella morale che ci fa distinguere naturalmente il bene dal male, il giusto dall’ingiusto. Non ho pre-giudizi, e dunque, nell’attuale condizione sociale, così confusa e contraddittoria, mi affido a me stesso, senza aggregazioni di bandiera. Tanto più, lo rilevo con amarezza, che ho incontrato chi della propria fede cattolica ha fatto spazzatura, chi del proprio comunismo ha fatto interesse privato, chi del proprio credo teorico ha fatto sudiciume. Etica e morale, dunque, nell’inflessibilità di essere sempre e comunque onesti, trasparenti e diretti. Dalla Fotografia, che noi tutti frequentiamo con intenso ardore, alla Vita, che è anche per quanto noi le consentiamo di essere. Una volta ancora, e una di più, mai una di troppo: si agisca per essere belli, per dare prima di ricevere, per elevarci sopra l’oscenità latente dei nostri giorni. Maurizio Rebuzzini

Etica e morale. La nostra misericordia davanti al dolore.

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Cinema Parliamone di Maurizio Rebuzzini

DISCUSSIONE STERILE. MA!

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Sull’autorevole e prestigioso quotidiano Il Sole 24 ore, voce dell’economia italiana (e internazionale), mercoledì tredici gennaio è stata pubblicata un’intervista con Gianni Berengo Gardin, a proposito della tecnologia digitale in fotografia. Disapprovo completamente, ne ho parlato a voce con lo stesso GBG, con il quale ci conosciamo da decenni, tanto da poterci considerare amici, e gli ho anticipato che ne avrei scritto, come sto facendo, per prendere le distanze e riportare i ragionamenti entro binari più leciti di quelli che si sono rivelati sulle qualificate pagine del quotidiano.

TESTUALE Prima di tutto, il testo originario; a seguire, i miei commenti e le mie disquisizioni al proposito. L’articolo di Daniele Lepido, ribadisco pubblicato da Il Sole 24 ore, lo scorso tredici gennaio, ha titolato perentoriamente «Scatti artificiali privi di pensiero», con il virgolettato ripreso dalle considerazioni espresse da Gianni Berengo Gardin. «Io sono un cronista non un creativo. La realtà la voglio documentare così com’è, senza stravolgerla, ma soprattutto accantonando qualsiasi tentazione di renderla più accattivante in maniera artificiale. Ecco perché il digitale non mi piace: si scontra con la mia mentalità di fotoreporter». È una bocciatura senza appello, quella che Gianni Berengo Gardin, classe 1930, uno dei padri nobili della fotografia moderna, fa del digitale. Lui che scatta esclusivamente in analogico e in bianco e nero non teme di fare alcuna battaglia di retroguardia. E non solo perché le sue foto[grafie], da cinquant’anni, parlano per lui, ma anche perché, alla base di questa scelta ontologica, c’è una filosofia precisa, «se vuo-

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PESCI MORTI

Non si tratta tanto di pensare che la fotografia digitale produrrebbe «Scatti artificiali privi di pensiero», come ha titolato l’intervista che Gianni Berengo Gardin ha rilasciato a Il Sole 24 ore, del tredici gennaio. La fotografia digitale non è causa, semmai effetto. La fotografia digitale rappresenta soltanto se stessa ed è allineata alle tecnologie del giorno d’oggi, con quanto ci offrono di bello o deprecabile. Ha ragioni da vendere Jean-Christophe Béchet, che ha accompagnato la propria riflessione Vues n° 0 con una erudita citazione di Christer Strömholm: «Sono i pesci morti che seguono le correnti» (in FOTOgraphia del maggio 2007). Però, articolerei. Sono pesci morti coloro i quali seguono le tecnologie senza capirne il senso e valore e senza applicarli (la fotoricordo, invece, li applica, seppure inconsapevolmente). Sono pesci morti coloro i quali umiliano le tecnologie, piegandole alla propria maleducazione. Sono pesci morti coloro i quali umiliano se stessi con un uso gratuito e stolto delle tecnologie. Sono pesci morti e, peggio ancora, sono proprio stronzi, coloro i quali, potendolo oggi fare grazie alle tecnologie, non rispondono al telefono avendo individuato il numero di chi chiama e si nascondono dietro la posta elettronica per comunicazioni che andrebbero svolte faccia a faccia. Sono pesci morti che non hanno capito che tutto ciò che facciamo andrebbe fatto per essere ogni istante più belli: noi stessi e chi ci sta attorno. Da Alla Photokina e ritorno, di Maurizio Rebuzzini: «Qualsiasi viaggio nella vita, se non fosse intrapreso per ragioni umane e con comprensione e amore, sarebbe un viaggio assolutamente inutile. Parlo sempre di qualcosa che vale la pena ricordare, dal momento che la tecnologia trasforma in realtà antichi sogni. La fonte della tecnologia applicata (anche fotografica) è quella stessa fonte che alimenta la vita e l’evoluzione dell’esistenza». le, la filosofia di uno che è un privilegiato», sostiene. Vecchie lastre e pellicole contro bit e computer? Certo, e la mia non è una presa di posizione snob, ma una scelta precisa, che affonda le proprie radici nel modo di concepire la fotografia. Si può spiegare meglio? Guardi, in giro vedo la pubblicità di una nota casa che produce macchine fotografiche che dice una cosa del tipo: “non pensare, scatta”. Ecco l’errore: io, prima di scattare, ci penso, eccome! Con il digitale viene meno questa attenzione, l’occhio si accomoda, perde

acume. Tanto, se faccio mille foto[grafie] una buona ci sarà, è il ragionamento. E invece? E invece c’è una bella differenza tra fotografia e immagine: la prima deve documentare, la seconda invece può essere creativa, anche se non necessariamente veritiera. Ecco perché mi piace parlare di etica delle fotografie. Cosa significa? Io metto dietro alle mie stampe un timbro che dice “foto non ritoccata al computer” [alla lettera: “Vera fotografia” - Non corretta, modificata o inventata al computer; ne abbiamo riferito

in FOTOgraphia dell’ottobre 2004, e ripetuto il successivo giugno 2005, richiamando un articolo dal mensile francese Rèponses Photo]. È una sorta di garanzia di genuinità, come si fa con il vino o il cibo. Niente finzioni: chi guarda le mie foto[grafie] deve ritrovare il mio stesso sguardo, senza ambiguità. L’importanza di essere testimone, di avere la fiducia di chi ri-osserva il tuo sguardo: sono tutte cose che contano. E allora chissà cosa ne pensa del fotoritocco... È il male assoluto (ride, ndr), un taroccamento per cambiare il dna del reale senza chiedergli il permesso. Eppure non può non riconoscere che il digitale abbia anche dei vantaggi. Sì, è vero. Per esempio, è interessante poter scattare a Iso diversi, variando la sensibilità della pellicola [dell’acquisizione] con un clic. Così come è molto comodo poter mandare le fotografie via e-mail, un attimo dopo averle scattate. Ma è vero che le pellicole non si trovano più? Figuriamoci! È una falsità, frutto della campagna terroristica di certe case che producono le fotocamere digitali. Ma lo sa che Kodak è uscita, l’anno scorso, con due pellicole nuove, nonostante la crisi e la ristrutturazione aziendale? E poi le confesso una cosa: a Milano, ho trovato dei rullini cinesi, in bianco e nero, a un euro. Non saranno un granché ma per un dilettante possono andare benone.

E ALLORA?! Allora, non mi trattengo da dire la mia, passo a passo, non prima di annotare questioni di fondo. Eccoci. Anzitutto, chiamo in causa il prestigio del quotidiano, che dà


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Parliamone Cinema spazio e fiato con estrema leggerezza e superficialità a una diatriba estranea alla propria materia istituzionale; ovverosia, non affronta un dibattito serio e approfondito, ma si limita a registrare una opinione, per quanto autorevole, personale e singola. Immediatamente a seguire, entrando nel merito, una volta ancora e una di più (e speriamo di non doverlo fare altre volte: basta!), osservo che il problema non sussiste, quantomeno non nei termini delle fazioni contrapposte, dei tifosi schierati a favore e/o contro. Non esiste una problematica digitale che possa riallacciarsi e ricondursi a queste opinioni di Gianni Berengo Gardin, che dovrebbe tenere anche conto dell’autorità delle sue parole, a seguito di un prestigio meritatamente conquistato ed edificato nei decenni della sua fotografia. Per cui, sapendo di essere credibilmente ascoltato, dovrebbe pesare ciò che va esprimendo. Allora: il problema digitale non esiste! E lo affermo dalla plausibile credibilità del mio intendere addirittura altri modi fotografici, che recentemente mi hanno riportato a scattare in grande formato 20x25cm con carta fotosensibile. Una parentesi, a questo proposito, dal mio 18392009. Dalla Relazione di Macedonio Melloni alla svolta di Akio Morita: «Non ho l’ambizione di essere nulla di più di quello che so di essere (un clown, che fa raccolta di attimi). Per questo non elevo oltre il lecito una operazione che accompagna questo libro. Però, ho la netta sensazione che l’allineamento passato-presente, origini-attualità dell’esposizione in ripresa di carta sensibile bianconero, per le successive acquisizione a scanner del negativo-matrice e gestione digitale (alle pagine 12 e 154 [del libro]) rappresenti qualcosa di meglio del solo giochino delle parti, che invece definisce tanti altri presunti richiami storici, suggeriti dall’ignoranza. «È qualcosa che si proietta in avanti, facendo tesoro ideologi-

co del passato: il tutto osservato da un punto di vista obbligatoriamente viziato, quello di giornalista fotografico, con compiti anche tecnici. Infatti, la conoscenza dipende dalla pratica, cioè dalla produzione e dalla propria attività professionale. Oggigiorno, non possiamo ignorare che l’attività produttiva dell’uomo sia l’attività pratica fondamentale, che determina anche ogni altra forma di attività. La conoscenza umana dipende soprattutto dall’attività produttiva materiale: attraverso questa, ciascuno riesce a comprendere grado a grado i fenomeni, le proprietà e le leggi della natura, come pure i propri rapporti con la natura e la realtà; inoltre, attraverso l’attività produttiva, a poco a poco ognuno raggiunge i diversi livelli di comprensione di certi rapporti reciproci fra gli uomini. Tutte queste conoscenze non possono essere acquisite al di fuori dell’attività produttiva». Messo nei termini nei quali lo

circoscrive Gianni Berengo Gardin, il problema digitale non esiste! E, soprattutto, lui rivela di non essere affatto a conoscenza di quanto parla. Anzitutto, allinea digitale-a-manipolazione, poi mischia le carte in tavola tra impegno professionale, e comunque fotografia consapevole e convinta, e fotoricordo. Quindi, in sovramercato, banalizza troppo le considerazioni, limitando l’efficacia tecnologica alla possibile regolazione di alte sensibilità Iso equivalenti. Non tiene conto del fatto che le fotografie che ci stanno emozionando e appassionando in questi giorni sono state realizzate con reflex digitali: a partire dalla World Press Photo of the Year 2010, di Pietro Masturzo, della quale riferiamo su questo stesso numero, da pagina 52.

PASSO A PASSO Da una parte, ci sono i (pochi) fotografi consapevoli del proprio gesto, che si esprimono con in-

tenzioni manifeste, sia in ambito professionale sia nel variegato e vivace mondo non professionale. Dall’altra, c’è l’Umanità, che ha diritto di intendere la propria fotografia come meglio crede. Ha ragione Gianni Berengo Gardin, quando afferma «io, prima di scattare, ci penso, eccome!». Anch’io ci penso, in tanti ci pensiamo... ma! Ma non possiamo condannare chi non ci pensa: sono fatti suoi. Io penso anche quando scrivo e parlo, altri non lo fanno: a ciascuno, il proprio. “Non pensare, scatta” non è una esortazione rivolta a noi, che intendiamo la Fotografia (Maiuscola volontaria e consapevole) in un certo modo, ma a coloro i quali vogliono realizzare fotoricordo senza avere inciampi tecnici sul proprio percorso: è sacrosanto e legittimo. Tanto più che questo slogan, headline si dice oggi, è coincidente con “Voi schiacciate il bottone, noi facciamo il resto”, con il quale venne promossa

NON ESISTE UNA FOTOGRAFIA SOLTANTO

Anticipiamo in estratto da un intervento approfondito sul senso e valore dell’immagine, scritto per noi da Piero Raffaelli, che sarà pubblicato in uno dei prossimi numeri, magari già sul prossimo di maggio. Scrive Piero Raffaelli: «La buona reputazione dell’immagine che non sa mentire precede la sua invenzione, risale all’epoca nella quale un filosofo inglese scrisse questa frase: “La contemplazione delle cose come sono, senza sostituzione o impostura, senza errore o confusione, è in sé la cosa più nobile di un’intera messe di invenzioni”. Era l’inizio del Seicento, l’alba della rivoluzione scientifica; Francis Bacon, italianizzato in Francesco Bacone, autore della riflessione, contemplava metodicamente i fenomeni naturali, per registrarne le cause sufficienti; Galileo Galilei, di due anni più giovane, osservava la superficie della Luna, osservava il moto del pendolo, osservava i satelliti di Giove e altro ancora. I due pionieri della rivoluzione scientifica procedevano a vista; lo sguardo era il loro (imperfetto) strumento scientifico, e il cannocchiale ne era già un buon perfezionamento. «La macchina-che-contempla-e-registra-le-cosecome-sono non era stata ancora inventata, ma la frase di sir Francis Bacon fa capire

che proprio di un affidabile strumento scientifico ci si aspettava l’avvento. «Quando poi la fotografia arrivò, la considerazione del filosofo inglese ne divenne lo slogan promozionale, certificato di autenticità, garanzia di impegno, atto di fede, presunzione ontologica, primo comandamento, e altro ancora. Dorothea Lange la affisse sulla porta della sua camera oscura, quasi fosse un credo nella pura verità oggettiva, non contaminata da ignobili invenzioni e perverse immaginazioni. Bacon era divenuto il patrono della fotografia documentaria [ne abbiamo già riferito, in richiamo, nell’aprile 2006, quando il World Press Photo ha intitolato Things As They Are, appunto le cose così come sono, la monografia su cinquant’anni di fotogiornalismo, riprendendo proprio l’osservazione di Francis Bacon]». E qui entra in campo colui che fotografa: selezionando il punto di vista, componendo l’inquadratura, che include ed esclude, mettendoci del suo. La realtà può essere fotografata così com’è? Un fatto può essere raccontato così come si è svolto? Nel suo Esercizi di stile, Raymond Queneau racconta un episodio di vita quotidiana, di sconcertante banalità, in novantanove variazioni sul tema, e applicando diversi generi letterari.

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Parliamone l’epocale Box Kodak, dal 1890. Ancora, non entriamo nel dibattito della «realtà documentata così com’è» [riquadro a pagina 9], che ci porterebbe lontano e che è ancora oggi uno dei nodi irrisolti del linguaggio fotografico. Qui il digitale conta veramente nulla, non soltanto poco. Casomai, possiamo rammaricarci per la facilità delle manipolazioni, che oggi sono alla portata di tutti, e che in un tempo passato richiedevano capacità tecniche, mezzi e tempo. Ma non importa. Per l’Umanità, la tecnologia fotografica digitale, espressione dei nostri tempi, tanto quanto lo sono altri accessori della vita quotidiana del giorno d’oggi, è assolutamente benefica e affascinante: consente di ottenere con sicurezza ciò che si desidera. E non è certo poco. Per quanto, come già affer-

mato, il problema digitale non esiste, è latente un certo dibattito di approfondimento e comprensione. A questo proposito, rimando una volta ancora alle pagine di 1839-2009. Dalla Relazione di Macedonio Melloni alla svolta di Akio Morita, sulle quali ho avuto tempo, modo e spazio per esprimere dettagliatamente opinioni al riguardo. Opinioni che la stimata e accreditata Giuliana Scimé ha sottolineato in prefazione; a proposito di quanto ho scritto come autore, Giuliana Scimé afferma che: «Esemplare è la sua attitudine nell’affrontare il dibattito contemporaneo sul digitale: non esprime giudizi, piuttosto la sua analisi esorta a considerare che cosa rappresenta, oggi, e quali possibili conseguenze creative potrebbe avere in futuro». E questo è l’unico territorio lecito di discussione.

In estratto, dal capitolo 2009. Io sorrido, lui neanche un cenno, uno dei due nei quali si affronta l’argomento (l’altro è 1981. La svolta di Akio Morita): «Non prendo neppure in considerazione l’opinione di chi, chissà perché, è arrivato a teorizzare che la tecnologia digitale impoverirebbe la fotografia della propria anima. Indipendentemente dagli strumenti, necessari ma non sufficienti, la fotografia dipende ancora (e sempre!) dai sentimenti di chi la realizza. Non facciamoci prendere in giro altrimenti. «Casomai, pensando al grande pubblico, ai fotografi che una volta si definivano -non senza una punta di disprezzo- “della domenica”, l’approccio digitale è assolutamente più conveniente alla fotoricordo di quanto non sia mai stato. Non dovendo portare l’apparecchio all’occhio, ma traguardando dal monitor collo-

cato sul retro (cosa che io non so comunque fare: ma non conta), il turista, il genitore davanti ai figli, il vacanziere non ha la sensazione di compiere un gesto “fotografico”, che lo allontanerebbe dalla propria fotoricordo, ma è serenamente allineato a un atteggiamento e una movenza meno indotti, più spontanei». La genuinità della fotografia, concludo, non dipende da come la si realizza, ma perché lo si fa: dal reportage alla fotoricordo, senza soluzione di continuità. Poi, la sua rilevanza, la sua autorevolezza, la sua potenza, la sua influenza e la sua credibilità si misurano anche, ma forse soprattutto, sulla rilevanza, autorevolezza, potenza, influenza e credibilità dell’autore e del giornale o libro che pubblica. Non come (che pure conta, ma è un altro discorso), ma perché e chi. Punto. ❖

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Notizie a cura di Antonio Bordoni

STRATEGIE OTTICHE. Ben avviata nel mondo della fotografia reflex, Sony sta incrementando con decisione la consistenza del proprio sistema. Sono in arrivo nuove configurazioni a (Alpha), che andranno a proporre qualcosa di innovativo nei rispettivi comparti d’azione, soprattutto nel senso delle dimensioni compatte dei relativi corpi macchina. Ma, soprattutto e prima di tutto, si registrano due obiettivi agli estremi e antipodi della gamma possibile di visioni e interpretazioni fotografiche. Entrambi disegni Carl Zeiss, partner di prestigio e valore, definiti da una apertura relativa generosa, e dotati di Super Sonic Motor (SSM), efficace e silenzioso, affrontano con piglio le esigenze e necessità della fotografia grandangolare, Distagon T* 24mm f/2, e del più consistente avvicinamento tele, 500mm f/4G.

Come è logico che sia, il grandangolare Carl Zeiss Distagon T* 24mm f/2 SSM si indirizza e rivolge alla fotografia d’azione, a quella di reportage e alle condizioni di scarsa illuminazione naturale; in contraltare, a propria volta, il lungo fuoco Carl Zeiss 500mm f/4G si offre e propone alla fotografia di natura, da affrontare anche a mano libera. (Sony Italia, via Galileo Galilei 40, 20092 Cinisello Balsamo MI).

SCANSIONE AUTONOMA. Reflecta X4-Scan è l’evoluzione del modello precedente X3Scan: ha un display LCD da 2,4 pollici, uno slot integrato per Card SD e SDHC e una batteria ricaricabile Li-Ion, con auto-

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nomia di due ore e mezzo, per circa duemila acquisizioni, che ne consente un utilizzo completamente indipendente da un computer o dall’alimentazione di rete. Quindi, opera come scanner Stand-Alone. Le scansioni possono essere memorizzate direttamente sulla Card in uso, per essere successivamente visualizzate su una cornice digitale o attraverso altre strumentazioni dedicate. Le stesse scansioni possono poi essere trasferite sul computer attraverso la presa USB 2.0. In due secondi, in qualità Fine, si possono scansionare negativi e diapositive in striscia (35mm) o intelaiate (5x5cm), alla risoluzione di 1800x1800 dpi a cinque Megapixel, con profondità colore a 30 bit e contrasto 3.0 Dmax. (Fowa, via Tabacchi 29, 10132 Torino).

EVOLUZIONE GXR. Ricoh GXR è un innovativo sistema fotografico a moduli intercambiabili. Oltre l’obiettivo, ogni modulo comprende anche il sensore di immagine e il processore. Nell’immediato futuro, questa interpretazione a moduli intercambiabili preannuncia di consentire l’utilizzo dei propri componenti anche oltre la sola ripresa fotografica. Siamo in attesa; staremo a vedere. Sono già disponibili due nuovi moduli fotografici, che vanno ad aggiungersi ai primi due del pro-

gramma, che hanno accompagnato il lancio del sistema GXR. Il primo è il modulo per zoom Ricoh 28-300mm f/3,5-5,6 VC, con dispositivo antivibrazioni. Grazie a un particolare algoritmo per la riduzione del rumore e al sensore CMOS retroilluminato, questa dotazione amplia le possibilità fotografiche e permette di riprendere sia in condizioni di luce scarsa, sia in condizioni di luce molto forte. Dedicato allo zoom grandangolare 10,7x (28-300mm di escursione focale equivalente), consente anzitutto la ripresa a centoventi fotogrammi al secondo; quindi, oltre numerose altre modalità, come la possibilità di scattare in RAW grezzo, rende disponibili nove diversi valori per i settaggi di ripresa e regola l’autofocus AF multi target. Il secondo modulo è dedicato all’obiettivo GR A12 28mm f/2,5 (sempre in equivalenza alla fotografia 24x36mm, riferimento d’obbligo). Utilizza un sensore CMOS 23,6x15,7mm (dimensione APS-C), che, in combinazione con il processore GR Engine III, produce immagini ricche di mezzi toni, altamente definite e con poco rumore. È dotato di ghiera per la messa a fuoco manuale di precisione. (M.Trading, via Cesare Pavese 31, 20090 Opera Zerbo MI).

PIENO FORMATO. Dotato di sistema di stabilizzazione ottica VR, lo zoom AF-S Nikkor 1635mm f/4G ED VR è il primo con escursione grandangolare con copertura completa del sensore di acquisizione FX, a pieno formato (24x36mm). In relazione alla propria versatilità ottimale, lo zoom si offre e propone come obiettivo “multi uso”, indirizzato a tutte le applicazioni della fotografia, senza soluzione di continuità. Nei fatti, coprendo l’intera ampia gamma di visioni grandangolari, dall’estremo 16mm al canonico 35mm, l’AF-S Nikkor 16-35mm f/4G ED VR è una alternativa concreta e conveniente ai professionali AF-S Zoom Nikkor 17-

35mm f/2,8D IF-ED e AF-S Nikkor 14-24mm f/2,8G ED. L’efficace stabilizzazione ottica VR consente di scattare con tempi di otturazione fino a quattro stop più lunghi di quelli standard. Quando si scatta in condizioni di illuminazione scarsa, associata all’apertura relativa (massima) f/4, la funzione di riduzione delle vibrazioni garantisce immagini perfettamente nitide, anche se realizzate a mano libera. L’innovativa progettazione ottica dello zoom tutto grandangolare Nikkor sfrutta l’esclusivo rivestimento antiriflesso NanoCrystal, combinato con due lenti in vetro ED a basso indice di dispersione e tre lenti asferiche, per ridurre al minimo distorsione e aberrazione, anche alla massima apertura. Inoltre, il sistema di riduzione delle vibrazioni di seconda generazione e il motore Silent Wave consentono operazioni estremamente silenziose e discrete, mentre il diaframma circolare con nove lamelle arrotondate definisce un piacevole effetto bokeh. L’AF-S Nikkor 16-35mm f/4G ED VR si adatta perfettamente alle reflex formato FX più compatte, come la Nikon D700, ed è stato concepito per soddisfare le esigenze di scatto “quotidiane”. Il solido corpo in lega di magnesio, resistente agli agenti atmosferici, rappresenta la scelta ideale sia per i fotografi appassionati in cerca di avventure fotografiche sia per i professionisti. È fornito con paraluce HB-23. (Nital, via Tabacchi 33, 10132 Torino). ❖


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Se volete sapere quali siano i migliori prodotti fotografici, video e imaging, o avete bisogno di un consiglio da esperti, cercate i qualificati e autorevoli logotipi dei TIPA Awards. Ogni anno, i direttori di ventotto riviste di fotografia e imaging, leader in Europa, votano per stabilire quali nuovi prodotti sono davvero i migliori nelle proprie rispettive categorie. I TIPA Awards vengono assegnati in base a qualità, prestazioni e valore, tanto da farne i premi indipendenti della fotografia e dell’imaging dei quali potete fidarvi.


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Fotogiornalismo Cinema di Lello Piazza

ANCORA UN GIORNO

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Cerco sempre di seguire con molta attenzione i giornali che, a mio giudizio, fanno un buon lavoro con l’informazione. E la fotografia, certo. In Italia, vedo regolarmente quotidiani come Il Fatto (debole per le fotografie), La Stampa, La Repubblica e L’Unità, ma tengo d’occhio anche Il Giornale e Libero, per i loro aspetti che considero negativi. Poi, i settimanali, come L’Espresso, Internazionale, Il Venerdì (di Repubblica) e il magazine del Corriere della Sera, che da qualche tempo è ritornato alla testata originaria Sette. In particolare, abbiamo già dato spazio alle prime due edizioni di Un

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Terza edizione di Un giorno nella vita dell’Italia, a cura del photo editor Chiara Mariani, in Sette, del quattro febbraio. Tutte le fotografie sono state realizzate lo stesso giorno, il quattordici gennaio, da sessantotto fotografi, contemporaneamente al lavoro in ogni angolo d’Italia.

giorno nella vita dell’Italia (rispettivamente, in FOTOgraphia del marzo 2008 e aprile 2009), una vera e propria impresa che il photo editor Chiara Mariani realizza per Sette, inviando in giro per il nostro paese quasi settanta fotografi. Chiara Mariani organizza tutto: la scelta dei soggetti, i fotogiornalisti ai quali assegnarli, il briefing con ciascuno di loro, la richiesta delle autorizzazioni (per esempio, non è affatto banale ottenere il permesso per fotografare personalità politiche, come il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, o luoghi proibiti, come l’acquedotto di Torino; e, a

volte, è necessaria la pazienza e l’ostinazione di un eroe omerico). Poi, affronta in tempo reale i mille problemi che l’inviato può incontrare sul campo. Infine, la battaglia conclusiva: l’editing delle immagini, discutendone con fotografi, grafici e direttori. Risultato: sessantotto fotografi contemporaneamente al lavoro in ogni angolo d’Italia e novanta pagine, più la copertina, dedicate ai risultati dell’impresa, cioè quasi l’intero numero di Sette, quest’anno in edicola con data quattro febbraio. Tutto questo, ovviamente, sovrapposto al lavoro redazionale ordinario. Da questa premessa si intuisce il


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Fotogiornalismo mio giudizio su Un giorno nella vita dell’Italia: positivo e convinto. Segnalo, comunque, la mia unica perplessità: la fotografia di Renata Polverini (candidata alla presidenza della Regione Lazio alle elezioni di fine marzo) e Gianni Alemanno (sindaco di Roma) non meritava una doppia e forse non meritava neppure di esserci, essendo l’unica di natura elettorale. Ma non aggiungo altro e lascio la parola a Chiara Mariani, attraverso la sua presentazione in apertura del servizio pubblicato. Al primo posto c’è l’attuario (il professionista che affronta l’analisi dei rischi di impresa e finanziaria connessi con l’esercizio di attività assicurative e previdenziali); all’undicesimo il filosofo; al cinquantottesimo il centralinista; al settantaquattresimo lo scrittore; al centonovesimo l’accordatore di pianoforte; al centotrentasettesimo l’autista di autobus; al centosessantatreesimo l’attore; al centottantanovesimo il fotogiornalista, preceduto dal vigile del fuoco e subito prima del macellaio e del postino. Ciò si evince dalla lista delle duecento attività lavorative, dalle migliori alle peggiori, stilata dal Wall Street Journal il cinque gennaio secondo criteri esplicitati in Career.com, che tengono in considerazione l’ambiente di lavoro, il salario, le prospettive per il futuro, la fatica fisica, lo stress. Questo il quadro parziale del

«Noi, per il terzo anno consecutivo, abbiamo chiesto a sessantotto fotografi di scattare altrettanti soggetti lo stesso giorno, il quattordici gennaio, con l’unico obbiettivo di offrire un’informazione visiva sobria, equilibrata ed esclusiva, fatta di immagini e relative didascalie accurate. Con l’ambizione di evitare il più possibile i cliché comodi e ostinati, i ritocchi al Photoshop esagerati, le messe in scena che rimpiazzano la realtà e la rendono più banale che accessibile; con il desiderio di coinvolgere la curiosità di chi guarda e legge, suscitare un nuovo interesse verso un soggetto dimenticato o magari mai conosciuto».

Paese che meglio di altri ha celebrato negli anni successivi al dopoguerra le glorie del fotogiornalismo, contribuendo con storiche pubblicazioni, da Life al National Geographic, a valorizzare l’informazione visiva. La crisi che tutto ha travolto non ha certo risparmiato la fotografia, già peraltro martoriata nell’ultimo decennio dai supermercati dell’immagine, finanziati da grandi magnati, che offrono in tempo reale immagini disponibili online a prezzi risibili. Il risultato è sotto gli occhi di chi vuol vedere: l’esclusiva ha perso di significato, tranne per le fotografie dei paparazzi, i ritratti posati delle star e poche altre eccezioni. Noi, per il terzo anno consecutivo, abbiamo chiesto a sessantotto

fotografi di scattare altrettanti soggetti lo stesso giorno, il quattordici gennaio, con l’unico obbiettivo di offrire un’informazione visiva sobria, equilibrata ed esclusiva, fatta di immagini e relative didascalie accurate. Con l’ambizione di evitare il più possibile i cliché comodi e ostinati, i ritocchi al Photoshop esagerati, le messe in scena che rimpiazzano la realtà e la rendono più banale che accessibile; con il desiderio di coinvolgere la curiosità di chi guarda e legge, suscitare un nuovo interesse verso un soggetto dimenticato o magari mai conosciuto. Ai fotografi il nostro grazie per la generosa passione verso una professione vistosamente scomoda. Chiara Mariani ❖


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Antiquariato e contorni di Antonio Bordoni

VENTI ANNI. ALTRETTANTI

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Da una nota dell’organizzatore Dante Tassi scopriamo che la mostra mercato di collezionismo e antiquariato fotografico di Castel San Giovanni, in provincia di Piacenza, compie quest’anno i suoi primi venti anni, da moltiplicare per due: il mercato si tiene due volte all’anno, la seconda domenica di aprile e la seconda di settembre. Presi da altro, impegnati con priorità quotidiane altrimenti orientate, non avevamo avuto modo di conteggiare questa data, prima della sua certificazione ufficiale. Dante Tassi, che agisce con l’identificazione Photo ’90 Val Tidone (appunto: 1990-2010, venti anni), e che si avvale della preziosa collaborazione della moglie Anna, autentica eminenza grigia del tutto, sta agli albori di quel fenomeno di mercati dell’usato fotografico che è proliferato su tutto il territorio nazionale, espandendosi senza alcuna soluzione di continuità dal Nord al Sud del nostro paese. Venti anni! Pochi o tanti, secondo le singole e rispettive anagrafi. Decenni di trasformazioni fotografiche senza precedenti, decenni di vite individuali: la nostra, tra le tante possibili.

Indipendentemente dalle cronologie esatte, dai richiami pertinenti, che possono sottolineare fatti, personalità e accadimenti, qui e ora lasciamo il cuore libero e ci facciamo assalire dai ricordi personali. Il resto, l’ufficialità, spetta ad altri, non certo a noi, non certo alla nostra visione e frequentazione del mondo.

FOTOgraphia Dalle proprie origini, nella primavera 1991, dopo una premessa il precedente novembre 1990, il mercato di antiquariato fotografico di Castel San Giovanni, in provincia di Piacenza, è stato ospitato in diverse sedi: fino al 1995, nel Palazzetto dello Sport; quindi, nella tensostruttura Dielectrix; e dal 2000, dopo una parentesi al Centro Commerciale Coop, nell’Area Indoor Sporting Club.

Lo ricordiamo bene. Quando avviammo l’esperienza (follia? delirio?) di FOTOgraphia, all’inizio del 1994, con il primo numero della rivista programmato per maggio, aggirandoci per i corridoi della mostra mercato di Castel San Giovanni raccogliemmo i primi abbonamenti: sulla fiducia, in mezzo a un tramestio di voci e contrattazioni, con quote di denaro incassate in piedi, ricevute firmate appoggiandoci ai banchi di vendita. Ha senso, ha motivo, questa rievocazione? Sì, se non si esaurisce nell’aneddotica personale e autoreferente, che non ci appartiene; no, al contrario, se fosse elevata al di sopra dello svolgimento della manifestazione, se togliesse alla stessa manifestazione il protagonismo che le spetta e che merita. Dunque, eccoci qui a raccontare e rivelare qualcosa che si manifesta

sottotraccia, oltre la cronologia di date e altro, e che rivela la presenza di un’anima e uno spirito ai quali Dante e Anna Tassi (più correttamente, ma non ufficialmente, Anna e Dante Tassi) hanno saputo dare senso e motivo di essere. Infatti, non conta tanto l’aver sottoscritto abbonamenti camminando tra i corridoi di una mostra mercato, né l’aver riscosso crediti a priori, quanto, sia chiaro, l’averlo potuto fare. Ovvero, conta che l’anima del mercato di fotografia di antiquariato e collezionismo di Castel San Giovanni (ribadiamo progenitore di tante altre iniziative italiane analoghe, ma non coincidenti) abbia consentito questo, abbia permesso incontri tra persone che effettivamente amano la fotografia, sia in assoluto sia attraverso la sua plausibile e legittima manifestazione tecnica, abbia creato i presupposti per complicità profonde e partecipazioni emotive.

ORIGINI E AVANTI Come spesso accade, anche questa avventura è nata quasi per caso, non osiamo dire “per scherzo”, ma forse è stato proprio così. Tutto inizia per passione e voglia di mettersi in gioco; così che, in una domenica del novembre 1990 (da cui l’i-

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Antiquariato e contorni

dentificazione, già ricordata, di Photo ’90), sotto il porticato delle scuole elementari di piazza XX settembre, a Castel San Giovanni vengono allestiti banchi di antiquariato fotografico (che in precedenza si erano visti in poche occasioni precedenti: corre l’obbligo ricordare la preistoria di AntiCamera, di Gallarate, a cura del Foto Club Il Sestante). Dopo una serie di telefonate e contatti concitati, in tempi nei quali non c’erano ancora i telefoni cellulari, quattro coraggiosi espositori-collezionisti si sono presentati alla mattina, di buon’ora, arrivando da Genova, Pavia, Roma e Gubbio. Complice una luminosa domenica di sole, le loro proposte tecnico-commerciali furono confortate da circa trecento visitatori. Da cui, si è generato lo stimolo che ha spinto Dante e Anna Tassi a organizzare un’edizione in grande stile, la seconda domenica di aprile 1991: tanti espositori e pubblico in quantità.

Pubblicato fino all’aprile 2006, il periodico di fotografia storica Scatti nel tempo ha raccolto colte testimonianze e consistenti contributi sull’affascinante vicenda dell’evoluzione tecnica e tecnologica.

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Da qui, la cadenza che si è confermata anno dopo anno delle due date annuali, ripetiamo la seconda domenica di aprile e la seconda domenica di settembre, in sedi che via via sono state modificate in relazione a vicende logistiche ed esigenze espositive.

CON CONTORNO Quindi, per completezza di manifestazione e accoglimento di pubblico, il mercato antiquario e collezionistico della domenica si è arricchito di incontri e appuntamenti che lo hanno accompagnato o preceduto, per il solito dal pomeriggio del sabato. Tra appuntamenti consueti, tipo la sala di posa con modelle, e originali, da conferenze a tema a presentazioni di libri, da mostre di spicco all’ormai tradizionale concerto musicale del sabato sera, il richiamo di Castel San Giovanni ha assunto una consistente dimensione, che da nazionale si è addirittura proiettata oltre: fino a richiamare, lo ricordiamo bene, accreditati storici della tecnologia fotografica per un incontro al vertice: Gianni Rogliatti, Ghester Sartorius, James L. Lager, Paul-Henry van Hasbroeck, leicisti (leichisti?) di prim’ordine, attorno lo stesso tavolo! Numeri? Cifre? Nel clou degli anni Novanta, la manifestazione ha toccato seimila visitatori in una sola giornata! E si sono registrate presenze internazionali, di compratori

10 aprile 1999. Dante Tassi, a destra, ha solennemente celebrato l’autorevolezza storica di Ghester Sartorius, terzo da destra, autore dell’erudita Carta d’Identità delle Leica (la nostra più recente segnalazione in FOTOgraphia, dello scorso marzo). (in alto, a sinistra) James L. Lager, storico americano della Leica, e Claude Allonas, ai tempi nello staff operativo Leica, si consultano prima di un incontro pubblico svolto a contorno del mercato di antiquariato fotografico di Castel San Giovanni. (in alto, a destra) Tra tecnica ed espressività. Incontro pubblico con Gianni Rogliatti, storico Leica, e Antonio Auricchio, raffinato autore.

Il genovese Arturo Rebora, straordinario artigiano che ha interpretato in modo sublime la fotografia di più alta classe (formale), presenta sempre a Castel San Giovanni le sue eccezionali realizzazioni.

inglesi, tedeschi e giapponesi. Ovviamente, il mercato fotografico di Castel San Giovanni ha un contorno geografico che lo favorisce, così come, siamo sinceri, asseconda anche altri appuntamenti analoghi. Castel San Giovanni, in provincia di Piacenza, è ben posizionata e facilmente raggiungibile dal nord-ovest: cinquanta chilometri da Milano, poco più di cento da Genova, centoquaranta da Torino, trenta da Pavia, settanta da Alessandria, cento da Brescia, cinquanta da Cremona. Ha un casello autostradale sulla A21 (Torino-Piacenza-Brescia), una stazione ferroviaria (nei giorni della manifestazione fanno fermata straordinaria alcuni InterCity della linea Genova-Bologna) ed è attraversato dalla via Emilia Pavese. Quindi, le colline circostanti offrono piacevoli mete di gita, escursione e, perché no, soste gastronomiche. Per non parlare, ancora, delle opportunità fotografiche, per chi ama la natura e le immagini che la raccontano. Altra differenza, che fa del contorno del mercato di Castel San Giovanni qualcosa di unico, è stata la pubblicazione del periodico di fotografia storica Scatti nel tempo, che purtroppo ha dovuto interrompersi (speriamo momentaneamente) nell’aprile 2006. Compilata con testimonianze e contributi eterogenei, questa è stata anche una palestra di opinioni e confronti di assoluto alto livello. E poi? Auguri per i prossimi vent’anni ancora. Almeno. ❖ Mostra mercato di materiale fotografico usato e d’epoca. Area Indoor Sporting Club, via fratelli Bandiera. Domenica 11 aprile, 9,00-17,00. Circolo Fotografico Photo ’90 Val Tidone, via don Conti 6/10, 29015 Castel San Giovanni PC; www.photo90.it.


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Cinema

di Maurizio Rebuzzini - Ricerca iconografica di Filippo Rebuzzini

AI TEMPI DELLA PIETRA

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Secondo capitolo della saga cinematografica dei Flintstones, film derivati dai celebri cartoni di (William) Hanna e (Joseph) Barbera, in Italia come Gli antenati, I Flintstones in Viva Rock Vegas attira la nostra attenzione sulla presenza della fotografia al cinema per un garbato e gustoso siparietto (The Flintstones in Viva Rock Vegas, di Brian Levant; Usa, 2000). Niente di stravolgente o inatteso, sia chiarito subito, ma la semplice affascinante declinazione della rituale fotoricordo abbinata alla visita a Rock Vegas, trasformazione obbligata di Las Vegas, ufficializzata dal titolo del film. Più avanti, proseguendo nelle analisi e considerazioni, sottolineiamo che si tratta di fotoricordo in veste di posa-con-sagoma, alla maniera delle fiere di paese di qualche stagione fa (anche in Italia), che gli americani definiscono Paper Moon, luna di carta, perché in origine il soggetto in posa si accomodava, per l’appunto, su una scenografia che lo collocava seduto su uno spicchio di luna [riquadro alla pagina accanto].

POLAROCK Per mille motivi, tutti intuibili, tutti perfino ovvi, la fotografia approda all’età della pietra dei Flintstone (eccoli) nella propria forma e dimensione a sviluppo immediato. La copia espulsa dall’apparecchio, che si presenta già finita e completa, è assolutamente congeniale al parallelo della sceneggiatura che allinea il presente sul passato remoto, andando a declinare curiose combinazioni della vita di tutti i giorni, interpretate in chiave idonea e adeguata. Approdate a Rock Vegas, le coppie di amici inseparabili Flintstone e Rubble, che danno vita alla rivisitazione del passato remoto in chiave di bizzarre attualità, si mettono in posa per la fotoricordo. In tempi successivi, prima Fred e Wilma Flintstone (all’anagrafe Wilma Slaghoople; rispettivamente interpretati da Mark Addy e Kristen Johnston), e poi Barney e Betty Rubble (anche qui l’ana-

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grafe corretta di Betty O’Shale; nell’interpretazione degli attori Stephen Baldwin e Jane Krakowski), si accomodano tra le sagome predisposte dalla fotografa (l’attrice Beverly Sanders). Inquadratura, lampo ed espulsione immediata della copia pronta subito [in due tempi successivi, qui sotto e a pagina 22]. L’apparecchio fotografico, ovviamente in pietra (e dintorni) è Polarock, della cui definizione intuiamo e deduciamo l’origine e la storpiatura. Tanto per richiamare, era già stata certificata Polarock anche la macchina fotografica portatile, ancora utilizzata per fotoricordo familiari (evviva!), dell’originario I Flint-

Siparietto fotografico da I Flintstones in Viva Rock Vegas ( The Flintstones in Viva Rock Vegas, di Brian Levant; Usa, 2000). La fotografa di Rock Vegas (l’attrice Beverly Sanders) inquadra e fotografa la coppia Fred e Wilma Flintstone (rispettivamente interpretati da Mark Addy e Kristen Johnston). Fotoricordo a sviluppo immediato del passato remoto, con Polarock di ispirazione contemporanea.

stones, firmato dallo stesso regista Brian Levant, del 1994 (The Flintstones). In quel primo film della fortunata serie, la Polarock viene usata da Wilma Flintstone, interpretata dall’attrice Elizabeth Perkins, moglie di Fred (l’attore John Goodman) [a pagina 22].

FOTORICORDO La fotoricordo, che in altri gerghi è identificata come fotografia istantanea, intendendo la registrazione degli istanti di vita, è uno dei capitoli più affascinanti della Storia della fotografia, per quanto sia anche uno dei meno raccontati, anche per la difficoltà oggettiva di farlo, ovvero-


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Cinema sia di rintracciare, catalogare e proporre esempi visivi adeguati (ovverosia fotoricordo in quanto tali). Per il vero, qualcuno ha anche cercato di farlo, limitandosi però al casellario sistematico di fotoricordo casuali. In questo senso, come registrato in FOTOgraphia del febbraio 2008, vanno annotate almeno due monografie a tema: Photo trouvée (a cura di Michel Frizot e Cédric de Veigy; in francese e inglese; Phaidon Francia, 2006; 285 fotografie; 320 pagine 16,6x21,8cm, cartonato con sovraccoperta; 39,95 euro) e Snapshots (a cura di Christian Skrein; in te-

desco e inglese; Hatje Cantz Verlag, 2004; 527 fotografie; 560 pagine 17,5x23,5cm, cartonato; 35,00 euro). Alle quali si può anche aggiungerne una terza, Anonymous - Enigmatic Images from Unknown Photographers (a cura di Robert Flynn Johnson; in inglese; Thames & Hudson, 2004; 220 fotografie; 208 pagine 25x25cm, cartonato con sovraccoperta; 33,20 euro), che però mette assieme sia fotoricordo vere e proprie sia fotografie di giornalismo realizzate da autori anonimi (appunto certificati nel e dal titolo del volume). Comunque sia, considerare la fo-

toricordo rappresenta un affascinante e particolare modo di guardare la Fotografia, la sua storia e la sua influenza sulla e dalla società. In definitiva, è una avvincente visione esterna al proprio privato, osservata dalla consecuzione di fotografie che appartengono a un casellario latente di arte accidentale. Andando a considerare il capitolo della fotoricordo, e riallacciandoci a un’idea già espressa in altre occasioni, le fotografie ritrovate, recuperate da album familiari, oppure individuate in quelle scatole (spesso da scarpe) nelle quali si accumulano i ricordi personali, solle-

PAPER MOON

Agganciandoci al cinema, come è doveroso fare in questo spazio redazionale dedicato e mirato, Paper Moon, che identifica il fenomeno statunitense delle fotografie da fiera di paese, è anche il titolo di un film di Peter Bogdanovich, del 1973. In effetti, il titolo si richiama a un momento dello stesso film, appunto quando la piccola Addie Loggins, coprotagonista della vicenda, interpretata da Tatum O’Neal, al suo esordio cinematografico, si siede su uno spicchio di luna per una fotoricordo. Quindi, sollecitati a farlo dal richiamo principale al siparietto fotografico di I Flintstones in Viva Rock Vegas, considerato e raccontato qui e oggi, allacciamoci alla fenomenologia della posa-con-sagoma, sottolineandone il fronte statunitense. Una monografia illustrata presenta bene questo straordinario capitolo della fotoricordo: Prairie Fires and Paper Moons (praterie incendiate e lune di carta?) offre e propone un’analisi visiva delle cartoline postali americane dei primi vent’anni del Novecento, nel cui ambito il capitolo delle pose con lune di carta è sostanzioso (per la cronaca e la eventuale ricerca in Rete del titolo, da tempo fuori catalogo: a cura di Hal Morgan e Andreas Brown; David G. Godine Publisher; Prairie Fires and Paper Moons: avvincente monografia del 1981, casellario sulla fotoricordo statunitense di inizio Novecento. Boston, 1981; 192 pagine 23,5x20,5cm; all’epoca, 15,95 dollari).

In carrellata, pose-con-sagoma negli Stati Uniti dei primi anni del Novecento: immancabilmente Paper Moon.

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Cinema citano proprio la riflessione sul pregio e merito della fotografia privata, nel cui ambito si possono individuare straordinari racconti sociali.

ALLE ORIGINI Come rilevato in 1839-2009. Dalla Relazione di Macedonio Melloni alla svolta di Akio Morita, che si sta imponendo come richiamo d’obbligo, la Box Kodak, del 1888, la prima delle quattro svolte senza ritorno riunite in questa Storia, stabilisce innumerevoli linee spartiacque, una delle quali segnala che l’espressività fotografica cambiò radicalmente, rendendo la pratica fotografica accessibile tutti. La facilità di uso della Box Kodak ha fatto la differenza, consentendo la nascita del fenomeno della fotografia di massa così come ancora oggi lo conosciamo e intendiamo: l’autentico hobby fotografico, con relativa conservazione accurata delle stampe, è cominciato allora, generato dall’invenzione di George Eastman e successivamente alimentato da tutti gli apparecchi fotografici semplici e semplificati che ne sono derivati, non soltanto Kodak, sia chiaro. Da un punto di vista non professionale, la fotoricordo ha definito la differenza sostanziale tra tutta la fotografia pre-1888 e quella successiva. Hanno iniziato ad essere realizzate istantanee di vita quotidiana, precedentemente estranee al percorso della fotografia: non più soltanto pose, dunque, ma anche istanti colti al volo, o quasi. Tanto che, annotiamo presto, da questo momento compaiono soggetti precedentemente esclusi dall’esercizio fotografico: momenti di vita ordinaria, gite, scampagnate, animali domestici in libertà, altri animali, bambini per la strada... e anche qualche sana buffoneria. Tutti soggetti impossibili con gli ingombranti strumenti della fotografia precedente: sia per oggettivi limiti tecnici e pratici, sia anche per soggettive valutazioni economiche. Con franchezza: le onerose lastre al collodio secco non si prestavano di certo né all’istantanea, né al gioco delle parti. Comunque, concludiamo il discorso Box Kodak e consecuzioni, oltre la fotoricordo familiare, proprio le dimensioni contenute e la sostanziale facilità di uso consentirono alla

I Flintstones, di Brian Levant (1994): John Goodman (Fred Flintstone) e Elizabeth Perkins (Wilma Flintstone). Con Polarock, ovviamente “rock”.

Ripetizione della posa-con-sagoma, e immancabile Polarock, con la seconda coppia di antenati (all’italiana): Barney e Betty Rubble (gli attori Stephen Baldwin e Jane Krakowski). Inquadratura, lampo ed espulsione immediata della copia pronta subito.

fotografia di scendere per la strada, applicandosi alla vita reale. Individuando un’altra prerogativa visiva e di contenuto, rileviamo che la fotografia pre-1888 è tutta chiusa in se stessa e rivolta a se stessa (autoreferente): fotografia da guardare, apprezzare e valutare come tale. Appunto, fotografia. Quella successiva, innescata dalla Box Kodak e consecuzioni, sollecita anche la riflessione e considerazione del soggetto rappresentato, non soltanto raffigurato. La differenza non è minima, né poca, ma sostanziale. La differenza, in provocazione, distingue l’osservazione della luna dalla sola individuazione del dito che la indica. La fotografia osserva la vita nel proprio svolgimento. Tanto per quantificare, le immagini di Jacob A. Riis che rivelarono le terribili condizioni di vita degli immigrati a New York, raccolte in How the Other Half Lives, sono del 1890. E la fotografia umanista di fine Ottocento indica un altro autore che si muove nello stesso identico modo: Lewis W. Hine. ❖

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foto Massimiliano Montani

I AM THE FIRST CHOICE

I AM Per la maggior parte dei fotografi la prima scelta in tema di ottiche ha un solo nome: Nikkor. Solo noi siamo progettate appositamente per gli apparecchi Nikon di oggi e di domani. Siamo sinonimo di qualità ottica, siamo fatti con materie prime eccellenti attraverso procedimenti avanzati e tecniche progettuali sofisticate. Abbiamo infatti incorporato un microprocessore che, in abbinamento al sistema computerizzato del corpo camera Nikon AF, consente lo scambio delle informazioni che assicurano una messa a fuoco rapidissima, la misurazione Matrix dell’esposizione, il fill-flash bilanciato e le altre innovazioni funzionali che caratterizzano le reflex Nikon. Obiettivi Nikkor: gli unici a permetterti di sfruttare al massimo le potenzialità della tua reflex Nikon.

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Ici Bla Bla a cura di Lello Piazza

RICATTI FOTOGRAFICI. A metà febbraio, ricevo una email e volentieri la rimbalzo ai lettori. Si tratta di un appello promosso da Cesare Colombo, accreditato operatore della cultura fotografica italiana. Al momento in cui scrivo, segnalo che si possono vedere le firme di altre persone che hanno aderito (oltre ai promotori) sul blog di Michele Smargiassi all’indirizzo: http://smargiassi-michele.blogautore.repubblica.it/2010/02/16/contro-i-foto-ricatti/. Naturalmente, questa segnalazione rappresenta anche la nostra adesione all’appello. «Con un gruppo di amici ho steso l’appello che potete leggere qui sotto. Ci è sembrato doveroso prendere posizione contro un fenomeno allarmante, anche se non l’unico, attualmente, a destabilizzare i rapporti sociali nel nostro paese. Mi auguro che si aggiungano molte adesioni, che l’appello circoli sui siti e dentro i blog, e che venga riprodotto sugli organi di stampa. Ringrazio fin d’ora tutti voi per l’attenzione e per la collaborazione nel promuovere questa iniziativa. «Un cordiale saluto da Cesare Colombo». No ai foto-ricatti: un appello Da diversi mesi, il mondo dell’editoria e del giornalismo fotografico è al centro di notizie di cronaca relative a vicende giudiziarie, nelle quali le immagini fotografiche sono utilizzate come pretesto di inaccettabili pratiche ricattatorie. Per ognuno di noi -fotografi, studiosi, operatori delle immagini-, il valore delle riprese è costituito dall’accuratezza della testimonianza, dalla completezza documentaria, in certi casi dalla creatività degli autori. Produrre, valutare e utilizzare fotografie in ambito giornalistico e documentario significa per noi far conoscere meglio il mondo attraverso di esse. Per questo motivo, siamo contro ogni manipolazione e ogni censura che non sia motivata da valori etici o dal rispetto della privacy. Ci appare quindi inammissibile che esistano e si diffondano pratiche mirate all’occultamento delle immagini, o alla loro pubblicazione, solo in cambio di somme di danaro dai soggetti ritratti, o di altri meno confessabili vantaggi.

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Questa rubrica riporta notizie che sono appartenute alla cronaca. Però, nel loro richiamo e riferimento molti motivi ci impediscono di essere tempestivi quanto la cronaca richiederebbe. Ciononostante riteniamo giusto proporle, perché siamo convinti che non abbiano perso la propria attualità, e continuino a offrire spunti di riflessione. Chi lavora per e attraverso le immagini -come noi tutti- non può accettare questo offensivo capovolgimento di ruoli. Tanto meno possiamo accettare che il discredito, le ombre sul nostro lavoro, attraverso ingiuste generalizzazioni, si diffondano e ci travolgano. Crediamo che le fotografie, e ogni tipo di immagine ottica, non debbano restare chiuse nelle casseforti. Esse nascono in vista della loro diffusione più estesa, per una civile informazione, per un’opinione pubblica più matura e, in prospettiva, per favorire una maggiore cultura visiva. Non dovrebbero mai essere usate strumentalmente attraverso minacce e ricatti. Tutto ciò infatti si trasformerebbe, alla fine, in un ricatto anche per la nostra professione, i nostri diritti, le nostre idee. E ovviamente anche in un peggioramento della qualità d’informazione nel nostro paese. I promotori: Gabriele Basilico, Gianni Berengo Gardin, Leonardo Brogioni, Giovanna Calvenzi, Marco Capovilla, Gianluigi Colin, Cesare Colombo, Roberto Koch, Roberto Mutti, Silvia Paoli, Luigi Tomassini, Roberta Valtorta.

GEOGRAFIA. Ricordo le fotografie di Felice Beato e Vittorio Sella. Ricordo Samuel Bourne, che con un socio di nome Shepherd si mise a produrre cartoline con visioni dell’India del suo tempo (seconda metà dell’Ottocento). Ricordo Henri Cartier-Bresson, instancabile viaggiatore, che peregrinò dalla Spagna alCarte geografiche sul mondo che loro conoscono, disegnate dagli scolari della Scuola Primaria Longhena, di Bologna, seguiti dall’insegnante Marzia Mascagni: visioni bellissime.

l’Unione Sovietica, dalla Cina all’India, portando ovunque la sua curiosità per i piccoli avvenimenti quotidiani vissuti dalla gente comune. Ricordo cosa scriveva, nell’editoriale del primo numero di Life, Henry Luce, fondatore del celebre gruppo editoriale Time Inc: «Vedere la vita, vedere il mondo; essere testimoni oculari dei grandi avvenimenti; vedere cose inconsuete -macchine, eserciti, folle, ombre nella giungla e sulla luna-, vedere il lavoro dell’uomo, i suoi dipinti, le torri, le scoperte; vedere cose che esistono a miglia e miglia di distanza, cose nascoste dietro le pareti, nelle stanze, cose pericolose; vedere le donne amate dagli uomini e vedere i bambini; vedere e assaporare il piacere dello sguardo; vedere ed essere stupiti, vedere e imparare cose nuove. Così vedere ed essere visti diventa ora e resterà in futuro il desiderio e il bisogno di metà del genere umano». Ma ricordo anche i fotografi di viaggio contemporanei, attraverso i loro libri -Marco Polo, di Michael Yamashita, Il Nilo, di Kazuyoshi Nomachi, L’Ultima Africa, di Gianni Giansanti- e, infine, per rimanere nel nostro paese, il mitico e quasi dimenticato Viaggio in Italia, a cura di Luigi Ghirri, Gianni Leone e Enzo Velati, con fotografie di Olivo Barbieri, Gabriele Basilico, Giannantonio Battistella, Vincenzo Castella, Andrea Cavazzuti, Giovanni Chiaramonte, Mario Cresci, Vittore Fossati, Carlo Garzia, Luigi Ghirri, Guido Guidi, Shelley Hill, Mimmo Jodice, Gianni Leone, Claude Nori, Umberto Sartorello, Mario Tinelli, Ernesto Tuliozi, Fulvio Ventura, Cuchi White e testi di Arturo Carlo Quintavalle e Gianni Celati (introvabile catalogo della mostra Viaggio in Italia, centotrentadue pagine; Il Quadrante, 1984). Qual era il motore di tutto questo


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Ici Bla Bla viaggiare? Era la Geografia (maiuscola d’obbligo), che si studiava sui banchi di scuola, erano le ore passate sulle cartine mute, erano le curiosità che nascevano dalla descrizione di paesaggi talmente distanti dall’ambiente che ci circonda, da rappresentare quasi una favola. Già da molti anni, la Geografia è la cenerentola delle materie scolastiche. Ma ora, secondo quanto riporta l’Associazione Italiana Insegnanti Geografia (Aiig), la riforma della scuola realizzata dal ministro Mariastella Gelmini, in via di approvazione, prevede addirittura la scomparsa della Geografia: non più cenerentola, dunque, ma una bella addormentata nel bosco. La legge la cancella dai programmi negli istituti professionali e tecnici (tranne nell’indirizzo turistico) e verrebbe confinata a una sola ora alla settimana nel biennio dei licei. Se credete all’importanza di questa materia andate sul sito www. aiig.it, a sottoscrivere una petizione per salvarla. Prima di chiudere questa riflessione-notizia voglio menzionare la Scuola Primaria Longhena, di Bologna, che lavora egregiamente con i bambini, in particolare sulla Geografia. Un’insegnate di questa scuola, Cristiana Costantini, mi ha raccontato questo fatto: «L’anno passato venne a trovarci un’insegnante dalla Finlandia; per farle dei regali, i bambini di quella classe disegnarono “carte geografiche” di loro fantasia, nelle quali collocarono la Finlandia. Vedendole, ci è venuta un’idea: abbiamo chiesto ai bambini di disegnare carte geografiche sul mondo che loro conoscono, e si sono materializzate visioni bellissime. È tutta invenzione loro: hanno ricreato lo Spazio del loro mondo immaginario. Un primo approccio con la geografia. In questo lavoro li ha seguiti l’insegnante di quella classe, Marzia Mascagni» [pagina accanto]. Questa è l’Italia civile, questa è l’Italia per la quale vale la pena vivere.

WEB O NON WEB. Questo è il problema! Parafrasando Amleto, ci si domanda cosa sia meglio per i giornali. Il bla, bla, bla mediatico dice che il futuro è online. Tanto che, lo scorso novembre, abbiamo segnalato che

il Wall Street Journal è il quotidiano d’America con più abbonati web. Ma i dati sono sempre contrastanti, altalenanti. Secondo i rilevamenti di Nielsen Online, al trentuno ottobre, il New York Times e Usa Today (i due quotidiani statunitensi più letti su Internet nelle loro versioni free) hanno perso entrambi il quindici percento di utenti rispetto all’ottobre 2008; il Washinghton Post è sceso del ventotto percento; il Wall Street Journal del dieci percento; e il Los Angeles Times ha perso il ventuno percento. Due potrebbero essere i motivi di queste perdite. Il primo riguarda il fatto che i dati statunitensi relativi al 2008 si riferirono al periodo elettorale, durante il quale si registra sempre più interesse da parte del pubblico per le news. Invece, il secondo attribuirebbe il calo al fatto che alcuni giornali hanno portato a pagamento parte dei contenuti dei loro siti. Ma ci sono anche percentuali inspiegabilmente in crescita. I dati confrontano l’ottobre 2009 con l’ottobre 2008; fonte Nielsen Online / Editor & Publisher. NyTimes.com: 17.394.000 utenti (-15%); UsaToday.com: 9.715.000 (-15%); Washingtonpost.com: 8.870.000 (-28%); Wall Street Journal Online: 8.004.000 (-10%); La Times: 7.661.000 (-21%); Daily News Online Edition: 6.733.000 (+44%); Boston.com: 4.760.000 (-22%); Chicago Tribune: 4.631.000 (-7%); SFGate.com / San Francisco Chronicle: 4.263.000 (-8%); New York Post: 4.222.000 (-16%); DallasNews.com / Dallas Morning News: 3.396.000 (+11%); Politico: 3.285.000 (-28%); Tbo.com: 3.272.000 (+219%); Chicago Sun-Times: 2.738.000 (-31%); Nj.com: 2.478.000 (+18%);

Atlanta Journal-Constitution: 2.457.000 (-7%); Newsday: 2.200.000 (-25%); Milwaukee Journal Sentinel: 2.136.000 (+107%); Star Tribune: 2.096.000 (-16%); Denverpost.com: 2.074.000:(+120%); Philly.com: 2.047.000 (+19%); MercuryNews.com: 2.020.000 (-7%); The Houston Chronicle: 1.909.000 (-35%); MiamiHerald.com: 1.907.000 (+4%); The Washington Times: 1.846.000 (-10%); KansasCity.com: 1.775.000 (-30%); Seattle Times Online Network: 1.739.000 (-15%); Baltimore Sun: 1.723.000 (-12%); Tampabay.com: 1.668.000 (-29%); Orlando Sentinel: 1.580.000 (-31%).

LUPI. Reazione al consistente servizio che abbiamo pubblicato nel numero scorso, nel quale Angelo Gandolfi ha sollevato forti dubbi a proposito di un lavoro sui lupi a firma del fotografo russo Sergey Gorshkov, pubblicato da BBC Wildlife. In difesa di Sergey Gorshkov mi ha scritto Florian Möllers, fotografo tedesco, responsabile del progetto Wild Wonders of Europe, un progetto iniziato nel maggio 2008, che ha lo scopo di mostrare che «l’Europa non è fatta solo di autostrade e città», e che ha coinvolto cinquantotto tra i migliori fotografi naturalisti del nostro continente, tra i quali mi limito a citare i finlandesi Jari Peltomäki e Lassi Rautiainen, i francesi Olivier Grunewald e Vincent Munier, i tedeschi Christian Ziegler, Ingo Arndt e Konrad Wothe, gli italiani Elio Della Ferrera, Manuel Presti e Stefano Unterthiner, il russo Sergey Gorshkov (proprio lui), lo spagnolo Juan Carlos Muñoz, lo svedese Staffan Widstrand, lo svizzero Franco Banfi, lo scozzese Laurie Campbell. Ecco cosa mi ha scritto: «Hi Lello, great to hear from you. Stiamo per

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Ici Bla Bla rilasciare un comunicato che conferma che il lavoro sul lupo di Sergey Gorshkov è stato realizzato in condizioni assolutamente naturali. Quei lupi sono animali liberati dalla stazione di ricerca biologica di Chistiy Les (nella zona della Central Forest Reserve, un’area protetta, poco abitata e molto selvaggia, circa quattrocento chilometri a nord-ovest di Mosca), diretta da Vladimir Bologov (il più famoso “lupologo” russo). Alcuni di questi lupi sono abituati all’uomo, e possono facilmente essere seguiti nella taiga; altri lupi del branco, no. «Nel suo lavoro fotografico, Sergey Gorshkov si avvalso dell’aiuto del personale della riserva, dei ricercatori della stazione e di alcuni cacciatori locali. «Da anni, Vladimir Bologov e il suo team si prendono cura di cuccioli di lupo orfani, che vengono portati alla stazione di ricerca biologica di Chistiy Les da cacciatori e contadini, affinché possano essere reintrodotti in natura da adulti. Alcuni cuccioli vengono anche da qualche zoo. Ti sarò grato se vorrai pubblicare questa notizia. Best wishes for now. Florian». Bene, adesso è più chiaro e credibile. Non è però la storia che veniva raccontata su BBC Wildlife, nella quale Sergey Gorshkov parlava di sé come del mitico e coraggioso eroe delle tundre e non come di un onesto fotografo naturalista che si reca in grandi aree protette e, con l’aiuto degli scienziati, riesce a scattare belle fotografie.

ANCORA DA SETTE. Su questo stesso numero, da pagina 14, rivelo di seguire con interesse alcuni giornali italiani, quelli che mi possono dare qualcosa dal punto di vista della cultura fotografica. Naturalmente, non trascuro i testi che mi appaiono più interessanti, saltando quelli che mi paiono frivoli o inutili. Capita raramente che, tra quelli frivoli, si trovi qualcosa di intrigante. Un caso recente, mi è capitato con il numero 4/2010 del settimanale Sette: copertina ed editoriale del direttore dedicati all’attrice Martina Stella. Sentite un po’: «Ogni volta che la incontro, mi accorgo di aver a che fare con un’intelligente, bellissima, vitale versione di un Sudoku. E in

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questi dieci anni l’ho incontrata spesso, grazie ai giornali dove ho lavorato». E più avanti: «Ninfetta, Lolita, rovinafamiglie...». Ciò che mi ha colpito di più è la domanda finale che si pone il direttore: «Ma il mistero rimane: perché Martina non ha preso a sedici anni un aereo per gli Usa?». Vi confesso che questo editoriale e la sconvolgente domanda finale mi hanno tolto il sonno per tutto il pomeriggio (devo questa citazione a Ennio Flaiano).

FINALMENTE LIBERATO IBRAHIM JASSAM MOHAMMED. Lo

È stato rilasciato Ibrahim Jassam Mohammed, il fotoreporter freelance che lavora per l’agenzia Reuters, incarcerato circa diciotto mesi fa con l’accusa di essere un collaborazionista della guerriglia irachena.

scorso dieci febbraio, Reuters ha annunciato il rilascio di uno dei fotoreporter freelance che lavorano per l’agenzia, Ibrahim Jassam Mohammed, incarcerato circa diciotto mesi fa con l’accusa di essere un collaborazionista della guerriglia irachena [a sinistra]. Nei suoi confronti, nessun accusa è stata provata. Durante la guerra dell’Iraq, la stessa consecuzione (liberazione dopo lunga detenzione, senza che nulla fosse provato contro di loro) è toccata a molti giornalisti e fotogiornalisti considerati pericolosi dalla Amministrazione, e fermati per sicurezza. Il più famoso di loro è Bilal Hussein, un fotogiornalista della Associated Press, liberato nell’aprile 2008, dopo due anni di detenzione (FOTOgraphia, giugno 2008).

POLAROID COLLECTION. La nota casa d’aste Sotheby’s annuncia che il prossimo ventidue e ventitré giugno verranno battute più di milleduecento fotografie dalla prestigiosa Polaroid Collection. Tra queste, più di quattrocento istantanee di Ansel Adams (alcune delle quali, come la famosa Winter Sunrise: Sierra Nevada from Lone Pine, del 1944, sono quotate sopra i cinquecentomila dollari). E poi scatti di Andy Warhol, Chuck Close, David Levinthal, Robert Frank e altri. Si stima che il valore delle immagini messe in asta sia compreso tra sette milioni e mezzo e undici milioni e mezzo di dollari. Si teme che questo possa essere l’inizio delle smantellamento della Collezione, creata dalla fine degli anni Sessanta, che comprende ventiduemila immagini di più di mil-

lecinquecento autori. Seimila di queste immagini sono in affitto presso la Maison Européenne de la photographie, di Parigi, e il Musée de l'Elysée, a Losanna, in Svizzera. Inoltre, nota aggiuntiva, separare dalla Collezione i pezzi più prestigiosi, quelli appetibili al collezionismo, smembra un insieme composto anche da autori non affermati, che così vengono a perdere l’autorevolezza di un contesto fotografico nel quale hanno trovato conforto e motivo.

PREMIO PONCHIELLI 2009. È la prima volta che il Premio Amilcare Ponchielli genera un evento fuori dai confini dell’Italia. Bene, ce ne rallegriamo. Si tratta di una mostra allestita a Londra, dal ventisette aprile all’otto maggio, presso il Free Word Centre (ex Print Room del quotidiano The Guardian), nell’ambito del London International Documentary Festival (http://www.lidf.co.uk/lidf 2010/): a cura di Benedetta Solari (photo editor freelance) e Giacomo Furlanetto (picture editor freelance). I lavori esposti sono quelli premiati lo scorso dieci giugno: Umumalayika, di Martina Bacigalupo (vincitrice); Congo Dandies, di Daniele Tamagni (finalista), e Japan, di Sirio Magnabosco (altro finalista). Nel periodo nel quale la mostra rimarrà aperta sono previste altre iniziative collaterali, quali incontri sulla fotografia e lettura di portfolio. Colgo l’occasione della segnalazione di questa notizia per una brevissima riflessione dedicata a coloro i quali desiderano iniziare la professione di fotogiornalisti o, più in generale, di fotografi. Due dei tre premiati dell’Amilcare Ponchielli sono partiti da workshop fotografici. Martina Bagicalupo, come assistente, e Sirio Magnabosco, come studente, hanno partecipato al Toscana Photographic Workshop. Naturalmente, i workshop non sono né una condizione necessaria, né una condizione sufficiente per riuscire. Certo, seguendoli (se tenuti da ottimi professionisti) aumentano le probabilità di riuscire, e queste probabilità aumentano ancora di più iscrivendosi ai corsi annuali che si tengono presso le importanti scuole di fotografia internazionali.


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Ici Bla Bla VENDUTE STAMPE MAGNUM. Michael Dell, uno degli uomini più ricchi del mondo, proprietario della azienda che produce i computer che portano il suo nome, ha comprato per cento milioni di dollari parte dell’archivio Magnum Photos, di New York (centottantacinquemila stampe). Dall’acquisto sono esclusi i diritti di pubblicazione, che restano proprietà di Magnum Photos. Questo immenso patrimonio, che include fotografie riprese tra gli anni Trenta e Novanta da autori come Henri Cartier-Bresson, Robert Capa, Raymond Depardon, Josef Koudelka, Bruce Davidson, René Burri, è stato trasferito presso l’Harry Ransom Center, un museo dell’Università di Austin, in Texas, dove Michael Dell vive. Così facendo, l’affermato

Biglietto con il quale Douglas Kirkland ha annunciato, l’anno scorso, il suo settantacinquesimo compleanno: classe e dolcezza.

Michael Dell, proprietario della azienda che produce i computer che portano il suo nome, ha comprato per cento milioni di dollari parte dell’archivio Magnum Photos, di New York: centottantacinquemila stampe accompagnate da etichette e codici che raccontano la storia delle vendite e pubblicazioni. Martin Luther King alla Selma March; Alabama, 1965; fotografia di Bob Adelman. Ernesto Che Guevara; Havana, 1963; fotografia di René Burri. Muhammad Ali; Chicago, 1966; fotografia di Thomas Hoepker.

industriale ha reso omaggio all’università nella quale ha studiato, senza però mai laurearsi. Le immagini acquistate sono quelle stampe che, prima che Magnum Photos digitalizzasse tutto il proprio archivio, nel 1998, giravano nelle redazioni dei giornali per la pubblicazione o per proporre servizi. Etichette e codici dietro ciascuna copia raccontano spesso la storia della sua vendita e pubblicazione e le condizioni applicate per l’utilizzo; a volte, sono segnate note a mano scritte dal fotografo. Insomma, una serie di dati dei quali, solitamente, gli storici e gli appassionati sono molto ghiotti [a sinistra]. Questa fantastica collezione verrà messa a disposizione del pubblico in una serie di mostre che si terranno nei prossimi due anni, riunite in un unico volume-catalogo. Mark Lubell, direttore dell’ufficio Magnum Photos di New York, ha comunque dichiarato che negativi e provini a contatto rimangono ben custoditi nei forzieri della agenzia. Mark Lubell ha anche aggiunto che Magnum Photos aveva ricevuto altre proposte di acquisto, ma che l’offerta di Michael Dell è risultata migliore di tutte, perché il Ransom Center possiede già una notevole collezione di fotografie, tra le quali fa bella mostra di sé la Veduta dalla finestra di Gras, realizzata da Joseph Nicéphore Niépce nel 1826-1827, conteggiata come prima fotografia della Storia (a pagina 148 di 1839-2009. Dalla Relazione di Macedonio Melloni alla svolta di Akio Morita, di Maurizio Rebuzzini).

CRITICHE (BRUSCHE) PER LE MIE CRITICHE (AFFETTUOSE). Capirei che a Roberto Mutti sia potuta saltare la mosca al naso per la critica al suo biglietto augurale (FOTOgraphia, febbraio 2010). Ma Roberto Mutti manda un biglietto a Natale da anni e non mi sono mai sognato di criticarlo: anzi, ricordo che una volta ne abbiamo celebrato insieme uno particolarmente divertente. Ma era anni fa, e non mi ricordo più di cosa si trattasse. (Per la cronaca, fino a qualche stagione fa, fino a quando si è sentito di farlo, anche il nostro direttore Maurizio Rebuzzini ha realizzato curiosi

biglietti augurali, spesso in declinazione fotografica: come 1993D, in anaglifo, con occhialini di visione; come 1997 alla maniera di Edwin H. Land che presenta la fotografia a sviluppo immediato, nel 1947). Ma non capisco quelli che si impicciano di fatti che non li riguardano. Sperando che possano meglio interpretare il mio pensiero, a loro propongo il biglietto con il quale il grande Douglas Kirkland ha annunciato, l’anno scorso, il suo settantacinquesimo compleanno. Nel biglietto c’è un ritratto di Douglas a due anni con la sua mamma e il Piccolo Principe, in un angolo, a garanzia della classe e della dolcezza di questo messaggio [qui sopra]. Imparate donne e uomini della fotografia italiana, imparate.

NOI AMIAMO SILVIO. Il ventisette gennaio è uscito nelle edicole Noi amiamo Silvio, un volume della Peruzzo Editore (settantamila copie di tiratura) che celebra le qualità del presidente del Consiglio, Silvio Berlusconi. Si tratta di un libro fotografico che lo ritrae durante manifestazioni pubbliche e momenti privati. Un portavoce dell’editore ha dichiarato: «Il Cavaliere ha chiesto di modificare alcune immagini, che al naturale non lo convincevano». Il ritocco migliorativo è il vecchio vizio del potere, che si manifesta spesso nei documenti visivi e in quelli scritti. Nel caso specifico, sul web è apparsa la segnalazione di un ritocco che riguarda: uno, la “clonazione” di parte del pubblico e delle bandiere di un comizio, per riempire una piazza semivuota; due, l’inserimento di un mazzo di fiori nella mano destra dell’oratore; tre, la creazione di un parapetto del pal-

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Ici Bla Bla

co del comizio. Il ritocco appare davvero grossolano e facilmente riconoscibile. Un ritocco anche alla didascalia: il comizio viene presentato come avvenuto nel 2008, mentre ci assicurano che si tratta di una manifestazione di dieci anni prima, del 1998 [qui sopra]. Nei vari blog sui quali è rimbalzata la notizia lanciata da http://precariosan.blogspot.com/2010/02/berl usconi-clona-i-consensi-nellalbum. html (tra i quali Adobe Disasters: http://photoshopdisasters.blogspot. com/2010/02/silvio-berlusconi.html; Corriere della Sera: http://www.corriere.it/politica/10_febbraio_02/libroberlusconi-foto-ritoccata_70d1b0681018-11df-9603-00144f02aabe.shtml; La Stampa: http://www.lastampa.it/ multimedia/multimedia.asp?IDmsezione=9&IDalbum=23881&tipo=FOTOGALLERY) si ipotizza che Berlusconi stesso sia stato introdotto nella fotografia con un ritocco. Anche nel resto del volume, tutte le immagini del presidente sono state ritoccate per migliorarne l’aspetto.

TRENTA DOLLARI. Dall’amico Amedeo Vergani, presidente del Gsgiv (Gruppo di Specializzazione dei Giornalisti dell’Informazione Visiva, della Federazione Nazionale della Stampa Italiana), abbiamo ricevuto una nota riguardante la copertina del settimanale Time dello scorso 27 aprile 2009, sulla quale è pubblicata un’immagine acquistata per 30 dollari, o poco più [a destra]. «Fotografie d’archivio pubblicabili anche per poche decine di centesimi e libere da qualsiasi vincolo di copyright. Le offrono ormai da anni,

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come sappiamo tutti, agguerritissime agenzie fotografiche on-line di cosiddetto microstock, incubo e nel contempo nuove frontiere per fotografi e fotoreporter di tutto il mondo. «Questa realtà, assieme a tutti i problemi, gli sconvolgimenti e le novità che determina, è stata riportata alla ribalta in questi ultimi giorni, dopo che Alan Mutter, eminenza grigia del giornalismo americano, ha lanciato un appello ai giovani Usa (http://www. lsdi.it/2010/02/12/basta-con-lo-sfruttamento-dei-giornalisti), invitandoli a riflettere sul proprio destino, dandoci un taglio con la piaga del lasciarsi sfruttare pur di vedersi pubblicato il proprio lavoro. Questo è detto, proponendo come esempio portante il caso dell’autore di una fotografia di copertina del settimanale Time, pagato con soli trentuno dollari e cinquanta centesimi. «La fotografia era stata pescata tra i sei milioni e rotti di immagini dell’archivio on-line iStockphoto, l’agenzia di fotografie a bassissimo costo che dal 2006 fa capo a Getty Images, che è invece una delle ammiraglie mondiali del settore e dove le immagini sono però in vendita secondo criteri e tariffe tradizionali [anche se sta applicando una politica di dumping sui prezzi; FOTOgraphia, marzo 2010). «La notizia della fotografia di copertina pagata 31,50 dollari è trapelata subito dopo la sua pubblicazione, nell’aprile 2009, e ha fatto scalpore negli Usa, anche perché l’autore dell’immagine, Robert Lam, s’era detto molto soddisfatto anche se, come era stato fatto rilevare in alcuni blog, sarebbe invece di circa tremila

Da Noi amiamo Silvio, Peruzzo Editore. Grossolano ritocco fotografico: uno, “clonazione” di parte del pubblico e delle bandiere di un comizio, per riempire una piazza semivuota; due, inserimento di un mazzo di fiori nella mano destra dell’oratore; tre, creazione di un parapetto del palco del comizio. Un ritocco anche alla didascalia: il comizio viene presentato come avvenuto nel 2008, mentre ci assicurano che si tratta di una manifestazione di dieci anni prima.

Copertina del settimanale Time, del 27 aprile 2009: fotografia pagata 31,50 dollari.

dollari la tariffa in uso per l’immagine di copertina di riviste che, come Time, hanno tirature che sfiorano i tre milioni e mezzo di copie. «L’appello di Alan Mutter è stato ora rilanciato in Italia nel sito Internet di Libertà di Stampa - Diritto all’Informazione (www.lsdi.it), prestigioso osservatorio italiano sui problemi e sulle nuove frontiere del giornalismo internazionale. «La realtà delle agenzie fotografiche di microstock è un problema apertissimo nel mondo di coloro i quali si occupano, oltre che di fotogiornalismo, di tutti quei generi di fotografia che hanno sbocco in pubblicazioni e utilizzi che vanno dall’editoria in generale alla pubblicità. Se ne discute anche in Italia: da una parte, c’è chi inorridisce all’idea che vengano immesse sul mercato immagini pubblicabili anche per pochi centesimi; e dall’altra, c’è chi sostiene invece che le agenzie di microstock permettono ritorni economici anche più che soddisfacenti attraverso la moltiplicazione delle opportunità di vendita dei diritti delle singole immagini ad una platea infinita di consumatori senza grandi possibilità, che altrimenti non acquisterebbero o, ipotesi non del tutto infondata, se la sfangherebbero rubacchiando qua e là le fotografie a loro necessarie. «In sostanza, il quesito è: meglio pubblicare poco, ma a tariffe immediatamente remunerative, oppure sperare di azzeccare un’immagine e ottenere lo stesso risultato economico vendendola per migliaia di volte? A chi legge, le risposte possibili».

09/11 (NINE ELEVEN). All’inizio di febbraio, la polizia di New York City ha reso pubbliche le immagini scattate dai suoi elicotteri l’11 settembre 2001, in occasione dell’attacco terroristico al World Trade Center, per l’impatto di due voli civili, American 11 e United 175, che avevano portato due aeroplani a schiantarsi contro le Torri gemelle, i due edifici più alti della città. Pubblichiamo qualcuna di queste immagini che, pur terribili, sembra non aggiungano nulla a quanto già si sapeva o si ipotizzava sul terribile attacco. Non si capisce perciò perché la polizia le abbia secretate fino a ora [pagina accanto].


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Ici Bla Bla La pubblicità di queste immagini è avvenuta grazie a un intervento della rete televisiva americana ABC News che, nel 2009 e in base al Freedom of Information Act (regolamentazioni sulla libertà di stampa), ne aveva fatto richiesta al National Institute of Standards and Technology, dove le immagini erano state archiviate dopo l’inchiesta sul crollo delle Torri.

La polizia di New York City ha reso pubbliche le immagini scattate dai suoi elicotteri l’11 settembre 2001, in occasione dell’attacco terroristico al World Trade Center.

LA FOTOGRAFIA (DIGITALE) PIÙ GRANDE DEL MONDO. Forse è davvero la più grande, non so; è comunque molto grande, e vale la pena segnalarla, per la notevole performance tecnica che ci sta dietro. Il risultato finale è un mosaico di milleseicentosessantacinque scatti, ciascuno di 21,4 Megapixel, realizzati con una Canon Eos 5D Mark II con tele 400mm, il tutto comandato da un robot opportunamente programmato [qui sotto]. Per realizzare tutti questi scatti sono stati necessari centosettantadue minuti. I 102GB (Gigabyte) di file grezzo RAW sono stati poi riuniti da un apposito software installato su un computer con 48GB di memoria RAM e sedici processori. Questo secondo lavoro è durato novantaquattro ore. L’immagine finale ha una dimensione di ventisei Gigapixel (297.550x87.500 pixel), cinquecentoventi volte (sic!) un usuale file da cinquantacinque Mega, con il qua-

Eve Arnold, novantotto anni, Sony Lifetime Achievement Award 2010.

Fotografia digitale più grande del mondo: mosaico di 1665 scatti, ciascuno di 21,4 Megapixel, realizzati con una Canon Eos 5D Mark II con 400mm. I 102GB (Gigabyte) di file grezzo RAW sono stati riuniti da un software installato su un computer con 48GB di memoria RAM e sedici processori.

SONY LIFETIME ACHIEVEMENT AWARD 2010. Il premio Sony 2010

Alexei Brodovitch, geniale fotografo russo, che è stato art director di Harper’s Bazaar dal 1938 al 1958. Tra i suoi lavori più famosi c’è la serie di scatti dedicati a Marilyn Monroe, che si concludono con le immagini riprese sul set del suo ultimo film (Gli spostati, 1961). Eve Arnold ha percorso in lungo e largo la Russia, il Sudafrica, l’Afghanistan e la Cina. Con le immagini scattate in Cina, nel 1980 ha realizzato la sua prima mostra solo, presso il Brooklyn Museum, di New York. Sempre nel 1980, l’American Society of Magazine Pho-

alla carriera verrà assegnato alla fotogiornalista americana Eve Arnold, novantotto anni il ventuno aprile di quest’anno, nell’ambito del World Photography Festival, che si terrà a Cannes, in Costa Azzurra, dal ventidue al ventisette aprile [a destra]. Sempre in questo ambito le verrà anche dedicata una retrospettiva, con immagini provenienti dalla Tosca Photography Fund Collection e curata da Zelda Cheatle. Eve Arnold comincia la sua carriera nei primi anni Cinquanta. Entra a Magnum Photos nel 1951, grazie a una serie di fotografie scattate ai lavoratori immigrati a Long Island, diventa full member nel 1957, e rappresenta una delle prime donne a entrare nella agenzia. Eve Arnold è uno dei tanti brillanti discepoli (tra i quali si registra anche Irving Penn) della New School for Social Research, di

tographers le assegna il Lifetime Achievement Award. Nel 1995, diventa fellow della Royal Photographic Society, di Londra, ed è nominata Master Photographer dall’International Center of Photography, di New York. I due precedenti Lifetime Achievement Award Sony sono stati assegnati all’americano Phil Stern (2008) e al francese Marc Riboud (2009).

le si pubblica agevolmente una doppia pagina su FOTOgraphia. Il punto di ripresa è stato collocato sul tetto della Haus der Presse (Casa della Stampa), alla periferia di Dresda, in Germania. Ingrandendo, si possono agilmente cogliere particolari che mostrano l’ingresso del Congress Center e del Maritim Hotel, il famoso Semperoper (il teatro di Dresda) osservato dal retro, il Castello e la chiesa di Nostra Signora.

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Ici Bla Bla La galassia di Andromeda fotografata all’infrarosso dal Wide-field Infrared Survey Explorer, o Wise, il nuovo telescopio spaziale della Nasa. Quattro sensori sensibili all’infrarosso: la luce di lunghezza d’onda da 3,4 a 4,6 micron è riprodotta in blu, 12 micron in verde, 22 micron in rosso. Il blu evidenzia le stelle adulte, mentre le macchie gialle e rosse rappresentano gas stellare illuminato da stelle appena nate.

cesco hanno riguardato soggetti in culla, matrimoni napoletani, momenti di camorra, riti religiosi e carnevaleschi in Sardegna e scene di guerra, dall’Afghanistan alla Palestina. Il secondo riconoscimento, il Premio Antonio Russo per la sezione fotografia, gli è stato assegnato da una giuria composta da Aldo Forbice, Fausto Biloslavo, Toni Capuozzo, Gabriella Simoni, Franco Pagetti, Guido Alferj, Francesca Sforza e Luigi Vicinanza (direttore del quotidiano d’Abruzzo Il Centro), oltre che dai rappresentanti della Fondazione Russo, della Regione Abruzzo, della Provincia di Chieti, del Comune di Francavilla al Mare e della Fondazione Carichieti, con la seguente motivazione: «Per il suo lavoro di reporter di guerra, svolto sempre in modo professionale, onesto e coraggioso».

LA GIORDANIA DI ANGELO MEREU. La mostra di immagini che

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LA GALASSIA DI ANDROMEDA ALL’INFRAROSSO. Il Wide-field In-

A FRANCESCO CITO QUEL CHE È DI FRANCESCO CITO. Me ne

frared Survey Explorer, o Wise, il nuovo telescopio spaziale della Nasa, ha registrato una straordinaria immagine della immense galassia di Andromeda, nota agli astronomi come M31 [qui sopra]. Il Wise ha utilizzato i suoi quattro sensori sensibili all’infrarosso: la luce di lunghezza d’onda da 3,4 a 4,6 micron è riprodotta in blu, 12 micron in verde, 22 micron in rosso. Il blu evidenzia le stelle adulte, mentre le macchie gialle e rosse rappresentano gas stellare illuminato da stelle appena nate. Tra le grandi galassie, Andromeda è la più vicina alla Terra. Viaggiando alla velocità della luce (velocità limite insuperabile e irraggiungibile, perché a quella velocità la massa di un corpo diventa infinita, almeno secondo le equazioni della relatività generale formulate da Albert Einstein), ci vorrebbero due milioni e mezzo di anni per raggiungerla.

scuso, ma non sempre ricevo per tempo tutte le segnalazioni meritevoli di essere pubblicate. In questo caso, riesco a dare due doverose notizie solo ora. Le notizie riguardano due premi vinti dall’eccellente fotoreporter Francesco Cito, a volte dimenticato da chi si occupa di fotogiornalismo [a destra]. Il primo di questi premi è il San Pietroburgo, che gli è stato conferito il ventiquattro settembre nell’ambito di una manifestazione fotografica russa dal titolo Dalla culla alla tomba, svoltasi lo scorso autunno presso la Sala Centrale delle Fiere Manezh (ex scuderie zariste), a San Pietroburgo. Marina Dzhigarkhanian, responsabile della manifestazione, ha chiesto ai partecipanti immagini descrittive della vita dell’uomo, dalla nascita alla morte. In totale, sono state esposte millecinquecento fotografie, tra le quali le settanta a firma di Fran-

il bravo fotografo non professionista, più volte da me celebrato in queste pagine, ha realizzato con i suoi scatti nel deserto giordano e nella magica gola di Petra è visitabile fino al trenta aprile, presso la gioielleria Giolina e Angelo, via Solferino 22a, a Milano [qui sotto]. Presentata da un ottimo testo di Viviano Domenici, la selezione celebra gli incredibili colori delle rocce e delle sabbie di Wadi Rum e delle misteriose architetture scolpite millecinquecento anni fa dai Nabatei. ❖ Una visione di Petra, in Giordania, realizzata da Angelo Mereu, in mostra fino a fine aprile.

Francesco Cito: due riconoscimenti recenti.


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Curiosità di Antonio Bordoni

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A MODO SUO

Per quanto specificato in introduzione a 1839-2009. Dalla Relazione di Macedonio Melloni alla svolta di Akio Morita, per l’occasione opportunamente intitolata Istruzioni all’uso, in occasione delle presentazioni pubbliche del libro, l’autore Maurizio Rebuzzini precisa e sottolinea una condizione di fondo della sua visione. Una volta annotato che tutti i racconti della Storia della fotografia sono soggettivamente personali, definiti e guidati da preconcetti geografici (per lo più americanocentrici) e/o culturali, rivela ufficialmente che «Anche questa mia lettura è altrettanto parziale», e subito precisa che «però, è volontariamente e coscientemente parziale e mirata. Oltre che inviolabilmente mia». In effetti, come già riscontrato lo scorso novembre, quando presentammo per la prima volta questa Storia, l’autore Maurizio Rebuzzini La vede così e La racconta così. Tanto che, in prefazione al libro, l’accreditata e autorevole Giuliana Scimé, voce sopra le parti, annota che «Ha considerato una storia, quella della fotografia, da angolature classiche e anticonformiste, come è nella sua natura e preparazione di uomo colto ed intelligente, e come deve essere per non soggiacere a ribollite che oramai si sono consunte, nella cucina poverissima di idee e ridondante di errori che blocca la digestione alle nostre menti». Per prendere coscienza di che cosa è la fotografia e di quanto abbia inciso sul nostro modo di essere e vivere, il testo affronta e analizza quattro momenti specifici, che hanno impresso svolte senza ritorno, che l’autore precisa essere stati anche (o soprattutto) strani eventi che si sono permessi il lusso di accadere. Dopo le origini della fotografia, con le date ufficiali del 1839: la Box Kodak, di George Eastman

(1888), dalla quale la fotografia è approdata all’osservazione della vita nel proprio svolgersi (e tanto altro ancora); la Leica, di Oskar Barnack (1913-1925), dalla cui versatilità di impiego datiamo l’idea di istantanea e i princìpi del fotogiornalismo moderno; la fotografia a sviluppo immediato, di Edwin H. Land (polaroid, 1947 e 1948), le cui successioni sociali e creative hanno impreziosito il secondo Novecento, e oltre; l’acquisizione digitale di immagini, avviata da Akio

A MODO MIO

Morita, presidente Sony (1981), dalla quale è partita la rivoluzione forse più sconvolgente di tutto il percorso fotografico. Racconto originale, racconto che non si accoda a quanto (tanto) già scritto sulla Storia, sia espressiva sia tecnica, racconto che allinea la consecuzione tra tecnica e creatività e tra espressione e società, 1839-2009. Dalla Relazione di Macedonio Melloni alla svolta di Akio Morita è autenticamente scritto a modo suo. Da cui, per quel sapore del-

E ora la fine è vicina E quindi affronto l’ultimo sipario Amico mio, lo dirò chiaramente Ti dico qual è la mia situazione, della quale sono certo Ho vissuto una vita piena Ho viaggiato su tutte le strade Ma più. Molto più di questo L’ho fatto a modo mio Rimpianti, ne ho avuti qualcuno Ma ancora, troppo pochi per citarli Ho fatto quello che dovevo fare Ho visto tutto senza risparmiarmi nulla Ho programmato ogni percorso Ogni passo attento lungo la strada Ma più, molto più di questo L’ho fatto a modo mio Sì, ci sono state volte, sono sicuro lo hai saputo Ho ingoiato più di quello che potessi masticare Ma attraverso tutto questo, quando c’era un dubbio Ho mangiato e poi sputato Ho affrontato tutto e sono rimasto in piedi L’ho fatto a modo mio Ho amato, ho riso e pianto Ho avuto le mie soddisfazioni, la mia dose di sconfitte E allora, mentre le lacrime si fermano, Trovo tutto molto divertente A pensare che ho fatto tutto questo; E se posso dirlo - non sotto tono «No, oh non io L’ho fatto a modo mio» Cos’è un uomo, che cos’ha? Se non se stesso, allora non ha niente Per dire le cose che davvero sente E non le parole di uno che si inginocchia La storia mostra che le ho prese E l’ho fatto a modo mio!

la conoscenza che attraversa le pagine di FOTOgraphia, senza soluzione di continuità dal sommario all’epilogo di ogni suo numero, corre l’obbligo richiamare una delle linee conduttrici del libro: My Way, in legittima traduzione A modo mio, è uno dei motivi musicali che accompagnano ossessivamente le giornate di Maurizio Rebuzzini, tanto da essere elevato a stile di vita. My Way è una delle canzoni più famose di tutti i tempi. Originariamente scritta in francese da Claude François, con il titolo Comme d’habitude (Come al solito), è stata successivamente adattata in inglese (non soltanto tradotta) da Paul Anka, che ne ha compilato un testo completamente nuovo, a sé stante, che niente ha in comune con l’originale: è la storia di un uomo che traccia un bilancio della sua vita e non ha rimorsi, avendo sempre vissuto a modo suo (beato lui, senza condizionamenti esterni). A parte l’indiscutibile valore della melodia, che nel corso degli anni è stata eseguita da molti cantanti, di diversa estrazione musicale, che si sono accodati alla prima interpretazione di Frank Sinatra, il crescendo a effetto, l’emozione della voce che si impenna sulle ultime due parole del refrain, appunto “my way”, sono la chiave di un successo che ha superato i confini statunitensi, imponendosi in tutto il mondo, Italia compresa (dove si registrano numerose esecuzioni tradotte, alcune delle quale dichiarano Alla mia maniera). A differenza del testamento morale che scandisce il testo, Maurizio Rebuzzini proietta in avanti e nel futuro le riflessioni di A modo mio: una visione positiva e propositiva, piuttosto di una osservazione indietro. Dalla Vita alla Fotografia e, con percorso inverso, altrettanto realistico, dalla Fotografia alla Vita. ❖

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«Da Haiti, i fotografi documentano i miracolosi salvataggi dei bambini estratti ancora vivi dalle macerie giorni dopo il sisma, raccontano in prima fila gli scontri a fuoco tra gruppi di saccheggiatori e poliziotti, ci trasmettono l’orrore dei linciaggi terminati con i corpi nudi e legati trascinati nelle strade della capitale, come quello dei corpi rimossi a decine con i bulldozer, una moderna versione di Auschwitz. Molte immagini urtano anche gli animi meno sensibili, altre sono oggetto di dibattito (pubblicare sì, pubblicare no), perché, pur nella loro violenza, sono la documentazione oggettiva, essenziale, di cosa rappresenta, nella nostra soporifera società, la morte contemporanea di centinaia di migliaia di persone in un’area ristretta come quella di Haiti». Per nostro senso del dovere, nell’etica e morale che comunque ci caratterizza, fino a distinguerci (addirittura), qui e oggi pubblichiamo fotografie che non si sono viste, o che si sono viste poco. Alcune sono terribili, ma la misericordia che si deve alle vittime ci impone di annotare quanto l’Uomo, appena è messo in condizioni probabili, riesca spesso ad essere orrendo e spaventoso. Davanti al dolore degli altri, noi testimoniamo comunque questa mostruosa condizione.

di Mauro Vallinotto

C

ome si gestisce in un quotidiano la copertura mediatica di un terremoto, e in particolare di un evento catastrofico, come quello che ha colpito Haiti, lo scorso gennaio? Attraverso quali risorse fotografiche, con quali vincoli etici e morali, combattuti tra la necessità di informare i lettori e il rispetto e la pietà, altrettanto doverosi, che si devono alle vittime di questa spaventosa tragedia? Quali i confini delle immagini di denuncia, che ritraggono le vittime, le migliaia di vittime, nelle più as-

OLIVIER LABAN-MATTEI / AFP

CRONACA

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surde situazioni di morte? E le case parzialmente rimaste in piedi, ma sezionate e violentate dalle scosse, che offrono a una lettura dai contenuti vagamente morbosi il loro vivere quotidiano? Qui una cucina, con i neri paioli miracolosamente appesi alle pareti, là una camera da letto, con le immagini della Madonna frammischiate nella polvere a quelle della Santeria e dei riti voodoo? E il ruolo dei fotografi di tutto il mondo, freelance o dipendenti delle grandi agenzie, che, nei giorni successivi al terremoto, sono calati, tra mille difficoltà, sull’isola caraibica come mosche sul miele? Questa vorrebbe essere una testimonianza di

quei giorni vissuti in maniera virtuale davanti ai monitor dei computer, dove le centinaia di immagini trasmesse dai luoghi della catastrofe si sono composte in un surreale caleidoscopio di vita e morte, di bellezza e disperazione, di altruismo e viltà. La giornata del dodici gennaio si trascina stancamente al proprio epilogo. Nella redazione di La Stampa, licenziata la prima pagina con una forte immagine dell’inaugurazione, a Santiago del Cile, del Museo della Memoria, dedicato alle vittime del colpo di stato di Pinochet, i giornalisti del turno di notte si preparano ai controlli di routine, un occhio al computer, con i lanci delle agenzie,

Port-au-Prince, quindici gennaio: un incaricato getta un cadavere all’obitorio dell’ospedale generale.

Port-au-Prince, quattordici gennaio: un edificio distrutto. Il terremoto di Haiti ha causato cinquantamila vittime, duecentocinquantamila feriti e un milione e mezzo di senzatetto.

DA HAITI JULIEN TACK / AFP

Dalle poche immagini di partenza alle tante delle conseguenze del terribile terremoto che ha sconvolto l’isola caraibica, stravolgendone perfino le perfide contraddizioni della sua precedente vita “normale”, che poi tanto tale (normale) non è mai stata. Ne riferisce Mauro Vallinotto, che testimonia dall’interno. Photo editor del quotidiano La Stampa, che anche grazie a lui è uno dei più attenti sull’uso della fotografia, racconta la successione dei giorni. E poi conclude. Con l’amarezza di sempre; con l’amarezza inevitabile nel riassunto di certe riflessioni fotografiche

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(in alto, sulla doppia pagina) Diciassette gennaio: saccheggi nei pressi del mercato Hyppolite, di Port-au-Prince e cariche della polizia.

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l’altro al televisore, sintonizzato sulla Cnn. E proprio dagli schermi della televisione di Atlanta, verso le 23,30, arrivano le prime, tragiche notizie sul terremoto che ha colpito Haiti. Che il sisma sia stato di spaventosa violenza lo si capisce subito dalle scarne informazioni che giungono dalla capitale Port-auPrince, dai messaggi disperati lanciati su Twitter, dalle telefonate con i cellulari fatte rimbalzare dagli emigrati haitiani in Florida. In questa situazione di totale caos informativo, si prepara la ribattuta della prima pagina, con un servizio nelle pagine interne; il tutto, nell’attesa delle prime fotografie che dovrebbero

JOSHUA LEE KELSEY / PIX/IMAGO/MILESTONEMEDIA

IMAGO/MILESTONEMEDIA

OLIVIER LABAN-MATTEI / AFP

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giungere dalle grandi agenzie stampa, dall’Associated Press alla Reuters, alla France Presse. Finalmente, intorno all’una della notte del tredici, appena in tempo per la chiusura del giornale, qualche fotografia, per quanto non particolarmente buona, comunque arriva. Ma il problema, per gli addetti ai lavori è solo rinviato alla mattina successiva.


EDUARDO MUNOZ / REUTERS

OLIVIER LABAN-MATTEI / AFP

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Giornalisti e fotografi di tutto il mondo cercano di arrivare a Port-au-Prince, da Miami come dalla vicina Santo Domingo, che nel frattempo ha sigillato il confine, per evitare un’ondata di profughi. In pochi ce la fanno. Qualcuno riesce a salire sui C130 dell’esercito Usa, che portano i primi soccorsi agli sfollati, mentre Maurizio Molinari, il cor-

rispondente da New York di La Stampa, noleggiato un Cessna con un paio di colleghi americani, sbarca ad Haiti, primo tra gli italiani, nel pomeriggio del tredici. Per i fotografi, all’inizio non va tanto meglio. Con le comunicazioni interrotte, gli stringer (i collaboratori locali delle agenzie) dispersi o non rintracciabili, grazie a Internet, si crea una serie di inaspettati canali alternativi di informazione e trasmissione di immagini. Così, se da un lato le immagini dei fotografi della Reuters o del Miami Herald si assicurano le prime pagine dei quotidiani di tutto il mondo, nelle pri-

(al centro, sulla doppia pagina) Ritrovamenti di sopravvissuti e primi soccorsi. A centro pagina, giornalisti americani intervistano Sarla Chand, di sessantasei anni, del New Jersey, estratta dalle macerie del Montana Hotel, dove è rimasta sepolta per cinquanta ore.

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Un ragazzo fotografa con un telefonino un cadavere bruciato nel centro di Port-au-Prince. (in alto) Un uomo si fa strada in mezzo a corpi senza vita accatastati all’esterno della camera mortuaria a Port-au-Prince.

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me ore sono Twitter, Flickr e i siti di molte organizzazioni umanitarie che operano da anni nell’isola ad offrire un primo drammatico bilancio della tragedia. Molte di queste immagini, di buona definizione, verranno poi rilanciate (a pagamento!) da altre agenzie; ma intanto, nella sete di notizie e immagini delle prime ore di una tragedia di queste proporzioni, le fotografie scattate dai cooperatori umanitari vengono messe sui siti della Caritas Internationalis (www.caritas.org) e dell’Esercito della Salvezza canadese (www.salvationarmy.ca). I morti accatastati nelle vie sono documentati

CAROLYN COLE / LOS ANGELES TIMES / POLARIS/PHOTOMASI

STAN HONDA / AFP

JUAN BARRETO / AFP

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dalla Croce Rossa Internazionale (www.icrc.org), mentre gli scatti aerei del palazzo presidenziale, imploso su se stesso, delle tendopoli improvvisate nei cortili e delle migliaia di case ridotte in polvere sono opera dei fotografi a bordo degli elicotteri della Guardia Costiera americana (www.uscg.mil). Praticamente, ora dopo ora, giorno dopo giorno,


BRIAN VANDER BRUG / LOS ANGELES TIMES / POLARIS/PHOTOMASI

CAROLYN COLE / LOS ANGELES TIMES / POLARIS/PHOTOMASI

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la copertura fotografica si fa massiccia. Dalle poche decine di fotografie giunte nella notte tra il dodici e il tredici gennaio, si passa alle trecento, cinquecento, ottocento dei giorni successivi. France Presse e Reuters, AP e Polaris si sfidano a colpi di immagini sempre piĂš drammatiche. Dal primo giorno sono sul posto anche i cinesi della Xinhua e gli inviati dei

maggiori quotidiani statunitensi, dal New York Times al Los Angeles Times. A questo punto, la crisi dell’editoria a livello mondiale, che impone a tutti tagli e risparmi, soprattutto ai mostri sacri del giornalismo americano, produce un gioco perverso: tra accordi, contratti e rivendite dei servizi prodotti, capita di ricevere le stesse identiche immagini da agenzie diverse e in concorrenza tra loro. A tutto questo si aggiungono, nei giorni successivi, le produzioni di alcuni coraggiosi freelance italiani, supportati da agenzie come Contrasto e Prospekt, affiancati dai mostri sacri del fotogiornalismo mondiale.

Volo di aquiloni nel campo profughi di Daihatsu. (in alto) Angelo Meyanse, tredici anni, raccoglie i mattoni di una chiesa distrutta per riedificare la propria casa. (al centro) A una settimana dal terremoto, proseguono i saccheggi per le strade della capitale di Haiti, Port-au-Prince.

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Su Haiti sono confluiti aiuti umanitari da tutto il mondo: bambina ricoverata in un ospedale militare israeliano, allestito nello stadio di Port-au-Prince; bambino di due anni salvato da una squadra di soccorso spagnola.

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GERALD HERBERT / AP/LAPRESSE

ZIV KOREN / POLARIS/PHOTOMASI

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Un terremoto, nel Belice come in Cina, è da sempre, sia detto senza malizia, una grande palestra per i fotografi: la disperazione dei sopravvissuti, i morti ricoperti di polvere bianca, che affiorano qua e là tra le macerie, trasfigurati nell’attimo della morte come se fossero calchi di Pompei, i soccorritori che a mani nude scavano in lacrime tra le macerie, i bambini inebetiti, che vagano nel vuoto e nel silenzio, tutto concorre alla realizzazione di immagini di straziante bellezza. Così, con il World Press del 2010 ancora da assegnare, è comprensibile che su Port-au-Prince facciano rotta in tanti. Ma Haiti è una sorta di buco nero nel panorama del giornalismo d’inchiesta: per la sua estrema pericolosità, l’isola caraibica è da sempre poco frequentata dalla stampa internazionale, tanto che, per ricordare un reportage fotografico degno di nota, occorre andare allo straordinario lavoro di Francesco Giusti, che nel 2004 visse quella realtà per mesi. Così, nella sovraesposizione mediatica nei giorni seguenti la terribile scossa, quelli che erano mali endemici della società haitiana, ma pur sempre limitati a determinate situazioni socio-politiche, violenze, rapine e assassinii, nella situazione di caos totale si amplificano fino a diventare un tratto quotidiano del paesaggio urbano. Mentre alcuni inviati trasmettono i propri servizi dal compound fortificato dell’Onu, all’interno dell’aeroporto, molti fotografi su motociclette a noleggio rischiano la vita tra le distruzioni, per raccontare la tragedia di un’intera popolazione. Documentano i miracolosi salvataggi dei bambini estratti ancora vivi dalle macerie giorni dopo il sisma, raccontano in prima fila gli scontri a fuoco tra gruppi di saccheggiatori e poliziotti, ci trasmettono l’orrore dei linciaggi terminati con i corpi nudi e legati trascinati nelle strade della capitale, come quello dei corpi rimossi a decine con i bulldozer, una moderna versione di Auschwitz. Molte immagini urtano anche gli animi meno sensibili, altre sono oggetto di dibattito (pubblicare sì, pubblicare no), perché, pur nella loro violenza, sono la documentazione oggettiva, essenziale, di cosa rappresenta, nella nostra soporifera società, la morte contemporanea di centinaia di migliaia di persone in un’area ristretta come quella di Haiti. Certo, ci sono le confortanti fotografie dei bambini curati e sfamati negli ospedali da campo, gli orfanelli che ritrovano il sorriso giocando a pallone nelle tendopoli improvvisate e quelle dei loro più fortunati (?) coetanei ripresi mentre scendono infagottati dagli aerei sulla pista innevata dell’aeroporto di Toronto. Per molti giorni si susseguono frammenti di miseria e nobiltà, Inferno e Paradiso, di vita che riprende nonostante tutto e tutti. Poi, come in ogni grande tragedia umana, trionfa finalmente l’assuefazione: le immagini si diradano, la routine del quotidiano riprende il sopravvento. Giornali e tv si superano nella corsa alla rimozione. Una ragazza è trovata ancora viva dopo venti giorni? Magnifico, facciamone una photogallery, però sul sito web. Ma solo, sia chiaro, fino alla prossima tragedia. ❖


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Alla Photokina e ritorno Annotazioni dalla Photokina 2008 (World of Imaging), con richiami e riferimenti che non si esauriscono con il solo svolgimento della Photokina

Riflessioni, Osservazioni e Commenti sulla Fotografia: spunti utili e proficui sia al comparto tecnico-commerciale sia al mondo della fotografia espressiva e creativa

Alla Photokina e ritorno dodici pagine, ventinove illustrazioni

Reflex con contorno ventotto pagine, settantuno illustrazioni

Visioni contemporanee venti pagine, quarantotto illustrazioni

I sensi della memoria dieci pagine, ventisette illustrazioni

La città coinvolta dieci pagine, ventisei illustrazioni

E venne il giorno (?) sei pagine, quindici illustrazioni

E tutto attorno, Colonia sei pagine, diciassette illustrazioni

Ricordando Herbert Keppler due pagine, due illustrazioni

Ciò che dice l’anima sei pagine, undici illustrazioni

Sopra tutto, il dovere quattro pagine, otto illustrazioni

• centosessanta pagine • tredici capitoli in consecuzione più uno • trecentoquarantatré illustrazioni

In forma compatta dieci pagine, venticinque illustrazioni

Tanti auguri a voi venti pagine, cinquantadue illustrazioni

Alla Photokina e ritorno di Maurizio Rebuzzini 160 pagine 15x21cm 18,00 euro

F O T O G R A P H I A L I B R I Graphia srl • via Zuretti 2a - 20125 Milano 02-66713604 • graphia@tin.it

Saluti da Colonia sei pagine, nove illustrazioni

Citarsi addosso sette pagine


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MAILAND TERRA DI MEZZO


EXFIERAMILANO; 2008 (163X240cm)

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di Maurizio Rebuzzini

EXFIERAMILANO; 2008 (163X240cm)

M

arisa Chiodo è un’autrice fotografa che non fa mistero, ma neanche bandiera, delle proprie procedure creative. Non partecipa al dibattito, sterile e inutile, a favore di qualsivoglia interpretazione e, per contrasto, non si esprime contro nulla. Semplicemente, agisce per come si sente di fare e con i mezzi che ritiene idonei alle proprie intenzioni espressive. Così, rilevazione d’obbligo, da anni ha esteso il momento della ripresa fotografica originaria a successive interpretazioni al computer: camera chiara, non più oscura, dei nostri attuali tempi, tecnologici e sociali. Ne ho già scritto in altre occasioni, e qui occorre ribadirlo, anche se sono consapevole che lo si dovrà fare (ribadirlo) ancora tante altre volte: anche questo è uno dei (tristi) segni dei nostri attuali tempi fotografici, frequentati da troppe parole inutili. Mi auguro che queste mie, declinate con consapevolezza e competenza, siano rilevazioni opportune, che riportino l’eventuale dibattito entro confini leciti. In questo senso, prima di cominciare, ci conforti quanto rilevato da Giuliana Scimé, voce più che autorevole, in prefazione al pamphlet 1839-2009. Dalla Relazione di Macedonio Melloni alla svolta di Akio Morita, dal quale sto per estrarre quanto calza a pennello all’eccellente creatività di Marisa Chiodo, protagonista unica di queste pagine. Annota Giuliana Scimé: «Esemplare è l’attitudine di Maurizio Rebuzzini nell’affrontare il dibattito contemporaneo sul digitale: non esprime giudizi, piuttosto la sua analisi esorta a considerare che cosa rappresenta, oggi, e quali possibili conseguenze creative potrebbe avere in futuro. Già, perché è la creatività che prende la passione di Rebuzzini, consapevole, fra i pochissimi, che l’evoluzione della tecnica, se è encomiabile meraviglia, sarebbe fine a se stessa se non venisse al servizio dell’idea. E tutti questi nodi non sono isolati contrappunti, ma momenti focalizzanti di un racconto armonico che Maurizio Rebuzzini conduce con maestria, ed inevitabile per lui, gentile ironia».

A proposito delle sue immagini, l’autrice Marisa Chiodo è esplicita e diretta: «I miei amati “Bukoni -Cantieri” li ho colorati oltremodo, come modellando crete originarie, portandoli dal paesaggio del “vero” al paesaggio del “reale” mentale. Un salto stilistico, un modo di raccontare che mira a fantasticare NELL’ERA DIGITALE qui, e rilanciamo queste annotazioni verso l’espressiviun futuro più bello, vitale, immaginifico. Eccoci tà d’autrice di Marisa Chiodo. leggiamo insieme da 1839-2009. Dalla Relazione Forse. Nonostante le forti e troppo estese, a di Appunto, Macedonio Melloni alla svolta di Akio Morita, nello specifico volte terribili, dissonanze attuali». Ciò è dal capitolo (clou?) 1981. La svolta di Akio Morita.

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EXFIERAMILANO (TRITTICO); 2008 (120X80cm)

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«La possibile gestione individuale dell’immagine fa parte del pacchetto di innovazioni conseguenti la svolta impressa da Akio Morita. Può rappresentare una tragedia espressiva, ma anche una straordinaria fonte di creatività applicata. Come tutto, del resto, dipende sempre e soltanto da chi la effettua e perché lo fa (e il suo valore espressivo risponde anche a come lo fa) [...]. «Del resto, ancora prima di pensare a interventi modificatori, oggi in comoda e semplice postproduzione digitale, ieri l’altro in subordine a capacità individuali in camera oscura e dintorni, bisogna annotare che la fotografia dipende comunque da interpretazioni e volontà individuali dell’autore: che stabilisce cosa e quanto includere nella propria inquadratura, cosa e quanto escludere dalla composizione, da che punto osservare e con che prospettiva raffigurare il proprio soggetto [...]. «Il discorso riguarda tanto la fotografia d’autore, che ogni autore interpreta giusto in relazione e dipendenza delle proprie intenzioni espressive, quanto quella documentativa. Qui mi interessa quella d’autore, realizzata declinando l’intera gamma di flessioni del linguaggio fotografico applicato: dalle scelte in fase di ripresa alle eventuali alterazioni in fase di stampa del fotogramma originario [...]. «(Anche grazie alla svolta di Akio Morita) Viviamo il tempo della Fotografia nell’epoca della propria falsificazione tecnica e ne dobbiamo fare prezioso tesoro. Espressivo e creativo. «Si sta manifestando una espressività caratteristica dell’era digitale? Ma poi, cosa è una fotografia digitale? Un’immagine manipolata? Una copia ottenuta con stampanti a getto di inchiostro o a sublimazione? Comunque sia, una stampa da file? [...]. «Cosa mi aspetto? Una espressione visiva e creativa che metta a frutto le peculiarità sottotraccia della tecnologia digitale. Sopra tutte, ne considero discriminante una in particolare. Per quanto la fotografia con pellicola scandisce passaggi tecnici distinti e separati (scatto, trattamento della pellicola, stampa delle copie), dilatando in avanti il Tempo, la fotografia digitale ha una facoltà straordinariamente diversa. A partire dall’osservazione su monitor delle immagini appena acquisite, la fotografia digitale si esprime in termini di autentica istantaneità. «Eccoci: la fotografia argentica passa da un prima a un dopo, quella digitale ha anche il durante. E vorrei che questo durante facesse una qualche differenza, così come ha già magistralmente interpretato la fotografia a sviluppo immediato, che poi ha edificato la propria espressività anche sulla copia unica».

EXFIERAMILANO; 2008 (163X240cm)

IL PROGETTO, LA SERIE Il durante è sostanzialmente assente dalle interpretazioni di Marisa Chiodo, quantomeno dalla serie Mailand. Terra di mezzo oggi in passerella. In altri tempi, in progetti precedenti, forse c’è stato; probabilmente ha definito le avvincenti Coincidenze InVisibili, che abbiamo presentato e commentato nel marzo 2006. Ma non è questo che conta, qui e ora, quando la discriminante creativa, altrimenti trasversale. La parola all’autrice, che così accompagna le immagini di Mailand. Terra di mezzo, ufficialmente presentate come “Opere fotodigitali”: punto e basta, non ne parliamo più. Rispondendo a se stessa, rilevando perché ha fotografato e raschiato e ricolorato alcuni cantieri milanesi, Marisa Chiodo annota: «Questo mio lavoro non è una registrazione temporale. Del come era prima. Del come è oggi. Del come sarà domani. «La documentazione utile per un archivio storico mi è estranea. Troppo difficile per la mia anima franata. D’altronde, molti altri ben più bravi e continuativi fotografi lo fanno da tempo e continuano a farlo con risultati via via sempre più eccellenti. Perché mai ripetere?

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«I miei “Bukoni-Cantieri” vogliono solo essere una sequenza di occhiate su Milano. Sono attimi. Sono sensazioni. Sono giorni altri e alterni. Sono sguardi di umori neri e meno neri. Sono piccoli atti significanti della ricerca disperante di che senso ha vivere, di che senso ha continuare a fare e dare e ri-dare arte e, forse, anche un po’ di bellezza, nonostante tutto. «I miei amati “Bukoni-Cantieri” li ho colorati oltremodo, come modellando crete originarie, portandoli dal paesaggio del “vero” al paesaggio del “reale” mentale. Un salto stilistico, un modo di raccontare che mira a fantasticare un futuro più bello, vitale, immaginifico. Forse. Nonostante le forti e troppo estese, a volte terribili, dissonanze attuali. «Milano, una città, la mia città in una difficile salita di ritrovamento e di innovazione, alla ricerca di un domani più armonico. Forse. Le mie immagini vorrebbero essere un augurio, un auspicio, una speranza. Per saltare via, a piè pari, questi giorni, questi anni avvolti d’attesa fra macerie strazianti». Se questa non è arte (condivisibile o meno, apprezzabile o meno: a ciascuno, il suo), ditemi voi cosa è.

EXAREAALFAROMEO (TRITTICO); 2008 (120X80cm)

EXFIERAMILANO; 2008 (163X240cm)

L’AUTORE, AVANTI TUTTO Estranei all’etica e morale del fotogiornalismo, che è tutt’altro discorso, si mente con la Fotografia? Bene! Così facendo, le si restituisce la dignità che le è stata depredata dall’orrenda qualifica di oggettività realistica. Si mente a parole, perché non si dovrebbe farlo, poterlo fare, anche con le immagini? Marisa Chiodo mente? Bene! Così facendo, restituisce alla fotografia la dignità che le è stata depredata dall’orrenda qualifica di oggettività realistica. Autrice di statura, con Mailand. Terra di mezzo, Marisa Chiodo offre una selezionata e qualificata serie di immagini guidate dalla propria creatività espressiva. È opportuno riflettere sulla sostanza della questione. Si è soliti affermare che quando si ha un minimo dubbio, non ci sarebbero dubbi. Nel senso che il dubbio può essere sia una delle più evidenti manifestazioni di intelligenza, sia una condizione esistenziale con la quale convivere. Indipendentemente dal mio apprezzamento individuale, che riguarda me stesso, e forse l’autrice, di fronte a questo progetto non ho soltanto un minimo dubbio: sono addirittura sepolto dai dubbi. Uno, articolato, sopra tutti! Contribuisce/contribuirà questa serie all’agognato balzo in avanti della Fotografia (italiana), che da tempo ci si auspica? Quel balzo in avanti grazie al quale la forma dell’immagine abbia senso per se stessa, e basta, e non alteri i discorsi, le riflessioni, le osservazioni e quanto d’altro sui contenuti? L’operazione con la quale Marisa Chiodo elimina in un sol colpo le parole inutili sulla produzione digitale di immagini è/sarà anche operazione capace di convincere la più approfondita e qualificata discussione sulla Fotografia? Sulle sue emozioni, sulle sue fantastiche visioni, sulla sua coinvolgente e appassionante mediazione? In effetti, in un’epoca -quale è la nostra odierna- nella quale produrre “buone” fotografie inutili è più che facile, scontato addirittura, la Parola dovrebbe poter andare oltre, fino a occuparsi della sostanza dell’immagine: i sui Tempo, Spazio, Anima, e ancora altro.

CIÒ CHE DICE L’ANIMA Come ho intuito, e ormai accettato, alla fine del giorno verrò punito per la mia gentilezza. Ma non ne posso fare a meno, e continuo a considerare ogni percorso fotografico individuale anche per quanto può e riesce a dare a quel complesso collettivo e globale di nozioni al quale ciascuno di noi può attingere, in un

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EXAREAALFAROMEO; 2008 (163X240cm)

EXAREAALFAROMEO (TRITTICO); 2008 (120X80cm)

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viaggio di continua andata-e-ritorno. Diciamola come più ci piace, ma la questione è proprio questa. Viviamo e pensiamo per quanto le esperienze nostre si integrano a quelle altrui, per quanto le esperienze altrui arricchiscono le nostre. Del resto, come sono solito pensare (e l’ho già riferito alla tecnologia, qui declino sulla creatività), qualsiasi viaggio nella vita, se non fosse intrapreso per ragioni umane e con comprensione e amore, sarebbe un viaggio assolutamente inutile. Parlo sempre e soltanto di qualcosa che vale la pena di ricordare, dal momento che l’anima e l’emozione possono spesso trasformare in realtà antichi sogni. La fonte dell’arte è quella stessa fonte che alimenta la Vita e l’evoluzione dell’esistenza. Così facendo, alimenta anche la nostra immaginazione e i sogni di tutti noi. Lo scrittore Hanif Kureishi ha puntualizzato che «Se vivere è un’arte, è un’arte strana, che dovrebbe comprendere tutto, e in particolare un forte piacere. La sua forma evoluta dovrebbe comprendere un numero di qualità fuse insieme: intelligenza, fascino, fortuna, virtù, nonché saggezza, gusto, conoscenza, comprensione, oltre all’accettazione del fatto che l’angoscia e il conflitto fanno parte della vita. [...] Le persone di cui penso che vivano con talento sono quelle che hanno vite libere, che formulano grandi schemi e li vedono realizzati. E loro sono anche la migliore compagnia». Ribadisco, sottolineandolo: qualità fuse insieme. Ribadisco, sottolineandolo: intelligenza, fascino, fortuna, virtù, saggezza, gusto, conoscenza, comprensione. Le persone che vivono con talento hanno vite libere, formulano grandi schemi e li vedono realizzati. Loro sono la migliore compagnia. Io conosco Marisa Chiodo. La sua è una fantastica compagnia: dal vivo, e attraverso le sue immagini. A partire dalle nostalgie individuali, e dai rimpianti intimi, che si manifestano anche in immagini, odori e suoni che sono stati impressioni dell’infanzia, sono spesso propenso ad amplificare queste memorie nell’esistenza quotidiana, che conduco soprattutto nel particolare e variegato mondo della fotografia. Con Francesco Guccini: «La luce del giorno è un momento, che irrompe veloce e smarrita; metafora lucida di quella che è la nostra vita». Nella fotografia di Marisa Chiodo intravedo lo spessore e il valore di una qualità esistenziale sognante, non solo nostalgica. Le immagini appaiono quasi una distorsione del tempo e riportano indietro, ma anche avanti (!), così che il Tempo possa essere rivissuto ancora e ancora. La sua operazione, che così identifico e certifico, non si ferma alla forma del lavoro. Il suo non è un gioco, che poi sarebbe gioco del topo col gatto, ma autentica e autorevole affermazione di princìpio, di comunicazione visiva, di Fotografia. Oltre la non cultura del gioco fine a se stesso, Marisa Chiodo puntualizza il lessico implicito nell’uso degli strumenti, cercando allo stesso tempo di prenderne le distanze. Delle due idee, entrambe. Il progetto visivo di Marisa Chiodo risponde appieno alla semplificazione (non banalizzazione) con la quale l’eccezionale designer Bruno Munari ha sintetizzato il processo della creazione artistica: «Fantasia: tutto ciò che prima non c’era, anche se irrealizzabile. Invenzione: tutto ciò che prima non c’era, ma esclusivamente pratico e senza problemi estetici. Creatività: tutto ciò che prima non c’era, ma realizzabile in modo essenziale e globale. Immaginazione: la fantasia, l’invenzione e la creatività pensano, l’immaginazione vede». E lascia libero quello spazio individuale nel quale ciascuno può cercare le proprie strade e verifiche. Con Franco Battiato: «E il mio maestro mi insegnò com’è difficile trovare l’alba dentro l’imbrunire». ❖

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Qualche giorno fa, ho riletto alcune poesie di Baudelaire. I primi versi di L’uomo e il mare mi hanno ricordato Maria Vodarich. Uomo libero, sempre tu amerai il mare! Il mare è il tuo specchio; tu miri, nello svolgersi infinito delle sue onde, la tua anima. Maria Vodarich nasce e vive la prima infanzia nella maggiore isola dell’Adriatico, l’isola di Cres, nel golfo del Quarnaro, in Croazia. Quando lei ha undici anni, la famiglia si trasferisce in Italia, e approda in un’altra città di mare, a Cesenatico. Nell’autunno 1956, l’esercito sovietico invade l’Ungheria, e dal ventitré ottobre al dieci novembre vi fu una sollevazione popolare antisovietica del popolo ungherese, repressa nel sangue; morirono oltre tremila persone, tra civili e soldati russi, migliaia i feriti e circa duecentocinquantamila ungheresi lasciarono il loro paese, rifugiandosi in occidente. Nell’allora repubblica Jugoslava, che non era ben vista dall’Unione Sovietica, perché non faceva parte del Patto di Varsavia, la paura di un’invasione era abbastanza alta e anche molti slavi si trasferirono in occidente.

La tua famiglia fu tra queste? «Certamente. Il timore di una invasione sovietica era tangibile, e i miei genitori, che avevano cinque figli, ci portarono in un paese dove avremmo potuto crescere senza paure e avere migliori prospettive future». La tua prima infanzia l’hai vissuta in un’isola. Come reagisti all’allontanamento dai tuoi amici, dalla tua Terra, per un altro paese? «Fu un distacco molto forte, direi una lacerazione». Arrivi a Cesenatico, non più un’isola, ma pur sempre una città di mare, quasi dirimpetto alla tua isola natale. Come ti integrasti nella nostra Terra? «Francamente fu facile, perché i romagnoli sono sempre stati aperti e ospitali. Proprio questo carattere socievole mi permise di stringere subito amicizie con tanti miei coetanei, e poi capivo già l’italiano e lo parlavo, seppure in forma dialettale (dialetto istriano, simile al dialetto veneto)». Frequenti le scuole medie e inizi a lavorare presto. Quali erano i tuoi interessi da ragazza? «Erano quelli della maggior parte dei miei coetanei: il ballo, le scampagnate in bicicletta con gli amici, al mare o in pineta; e poi mi piaceva la pittura (iniziai anche a dipingere). In particolare, mi piacevano le fotografie; anzi, quando andavo a casa di qualcuno, chiedevo sempre di vedere l’album di famiglia. «La passione per la fotografia era già allora latente, tanto è vero che, passando davanti ai negozi di fotografia, entravo per osservare da vicino le fotografie esposte: chiedevo informazioni sui soggetti e mi informavo anche sugli aspetti tecnici». Quindi, inizi presto a fotografare? «Veramente, prima conobbi mio marito, ci fidanzammo, ci sposammo, nacquero i miei due figli e poi... cominciai a fotografarli, prima con una compatta e in seguito, visto che avevo già iniziato a spaziare in altre tematiche, passai alla reflex. Ebbe così inizio il mio percorso fotografico, proseguito con l’iscrizione al Fotoclub di Cesenatico, come socia fondatrice». Quali erano le tematiche preferite? «Naturalmente, il mare, i fiori e la natura in genere, che avevo fotografato


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qualche volta anche in polaroid, grazie a Claudio Bocchini, un socio del fotoclub, che mi aveva insegnato i primi rudimenti dello sviluppo immediato. «Nel maggio 2000, avendo vinto un concorso dove in giuria c’era Moreno Diana, allora vice-presidente del Polaser, scoprii l’esistenza di questo Gruppo, unico nel proprio genere, e dopo un paio di mesi sono diventata anch’io una polaseriana». Iniziasti subito a partecipare a ogni progetto e continuasti a partecipare individualmente a concorsi fotografici, proponendo la fotografia polaroid, che fino a quel momento non era molto considerata nei vari concorsi… «Invece, proprio grazie a quelle fotografie, ho ottenuto diversi riconoscimenti, vincendo anche alcuni concorsi di spicco». [Diverse sue fotografie sono state selezionate da Barbara Hitchcock, direttrice della Collezione Polaroid, che le ha inserite nella prestigiosa raccolta]. La pellicola polaroid si presta a molteplici manipolazioni, dalla

il distacco, il velo gelatinoso fluttua nel mezzo liquido, si contorce, chiede e ottiene una nuova vita. Ma i sorprendenti risultati non sono garantiti dalla conoscenza tecnica, ma dalla sensibilità poetica separatamente intese: l’opera di Maria, nel proprio complesso, dimostra il perfetto accordo tra quello che si sente di fare e come lo si esprime»]. La parola “pellicola” cosa ti suggerisce? «Sicuramente, ti rispondo polaroid, perché da quando sono stata contagiata da questo fantastico “virus”, con il suo fascino ammaliatore, viaggio con la fantasia in meravigliosi mondi onirici». Negli anni, le tematiche predilette da Maria Vodarich restano sempre le “marine” e la natura. In tutte le sue fotografie c’è una poesia di fondo che spesso va oltre l’immagine; anzi, osservando le sue opere, lo spettatore è portato a superare l’immagine stessa, trasportato dalla poesia (e il naufragar m’è dolce in questo mare). Pino Valgimigli

pressione sull’emulsione delle pellicole integrali ai distacchi di emulsione, ai transfer. C’è un motivo particolare che ti ha portato a esprimerti proprio con il trasferimento di emulsione? «Il distacco di emulsione ha la leggerezza dell’acquerello e mi riporta a percorrere un capitolo delle Lezioni americane, di Italo Calvino: granelli di polvere che turbinano in un raggio di sole in una stanza buia (Lucrezio, De rerum natura). [Così ha scritto Cristina Paglionico: «Con questa tecnica creativa, Maria Vodarich ottiene immagini di una materialità diversa e misteriosa: dopo

www.polaser.org

«La limitazione dei mezzi determina lo stile, dà vita a nuove forme e dà impulso alla creatività»

DAVIDE NAPOLI

Georges Braque Questa citazione dal pittore Georges Braque aiuta a comprendere lo slancio e spirito che guida e ispira gli artisti del Gruppo Polaser, eterogenei per interessi artistico-culturali e per provenienza da molte città italiane e anche dall’estero, accomunati dalla ricerca e sperimentazione di nuove possibilità espressive nelle molteplici forme dell’arte, dalla fotografia alla pittura, scultura, design, architettura, ceramica, letteratura, teatro, a altro ancora.


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CONCORSO A Meritata e autorevole, la vittoria dell’italiano Pietro Masturzo al World Press Photo 2010, per fotografie scattate nel 2009, rivela anche che si tratta di una assegnazione sopra le parti, non condizionata da interessi gratuiti e accordi di corridoio. Effettivamente, la giuria 2010 ha esaminato le fotografie, senza occuparsi di chi le ha scattate, presentate e/o pubblicate. Soprattutto, senza vincoli con il potere del fotogiornalismo internazionale e delle agenzie e testate che lo animano e governano. Estraneo ed esterno a questo potere, forte soltanto della sua capacità fotografica, Pietro Masturzo è quel Davide che affronta Golia. E vince

di Lello Piazza World Press Photo. Le immagini premiate nel 2010. Catalogo pubblicato da Contrasto (www.contrasto.it). ❯ Galleria Carla Sozzani, corso Como 10, 20154 Milano; 02-653531. Dal 9 maggio al 6 giugno; lunedì 15,30-19,30, martedì-domenica 10,30-19,30, mercoledì e giovedì fino alle 21,00. Con il coordinamento di Grazia Neri. ❯ Museo di Roma in Trastevere, piazza Sant’Egidio 1b, 00153 Roma; 06-5813717. Dal 13 maggio al 3 giugno; martedì-domenica 10,00-20,00. A cura dell’Agenzia Contrasto. ❯ LuccaDigitalPhotoFest 2010; tra novembre e dicembre (date da stabilire). Associazione Toscana Arti Fotografiche, via Guidiccioni 188, 55100 Lucca; www.ldpf.it, info@ldpf.it.

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G

razie, Pietro Masturzo. Noi ti dobbiamo dire grazie, tutti noi. Per una serie di motivi. Primo tra tutti il fatto che ci hai dato una importante conferma, una conferma che ci rassicura in questa realtà che temiamo troppo simile a quella italiana, nella quale vengono premiati solo gli amici degli amici, o solo coloro i quali hanno agganci con il potere. Eravamo abituati alle nostre consuetudini parrocchiali, dove regnano raccomandazione e corruzione. Avevamo trasferito al World Press i sospetti e le certezze che nutriamo nei confronti di tutto ciò che viene premiato, promosso, incaricato. E da anni, borbottando tra noi, ci dicevamo: al World Press premiano solo i fotografi che appartengono alle grandi agenzie, ai grandi giornali, al giro di coloro che fanno lobby. E invece no, la tua storia è lì a dimostrare che quest’anno la giuria ha premiato te, Pietro Masturzo, te fotografo ignoto, te a cui nessuno ha promesso un assegnato, pur sapendo che saresti andato a Teheran nel periodo delle elezioni presidenziali. Evviva Pietro Masturzo, evviva a te, evviva anche al World Press Photo: almeno alla coraggiosa giuria 2010, presieduta dall’intransigente Ayperi Karabuda Ecer. E grazie, grazie di averci detto che il mondo è migliore di quello che temevamo.

IL FATTO! UN ITALIANO AL VERTICE

L’edizione 2010 del World Press Photo, per fotografie scattate nel 2009, conclusasi il dodici febbraio scorso con l’annuncio dei vincitori, ha eletto fotografo dell’anno Pietro Masturzo, trent’anni, napoletano, per una delle nove immagini di un repor-


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AUTENTICO

tage realizzato sui tetti di Teheran nei giorni nei quali la piazza si ribellava ai risultati delle elezioni del giugno 2009, che hanno confermato Mahmoud Ahmadinejad presidente in Iran. Questa immagine mostra una donna che grida nella notte da un tetto di una casa della capitale

[qui sopra]. ÂŤEra il ventiquattro giugno, pochi giorni dopo le elezioni presidenziali che avevano confermato Mahmoud Ahmadinejad -dichiara Pietro Masturzo a Marcello Mencarini, che lo intervista per il blog del settimanale Panorama-. Ho sentito voci che venivano dai tetti. Mi sono informato, e al-

World Press Photo of the Year 2009: Pietro Masturzo, Italia. Sui tetti di Teheran.

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Primo premio General News Stories: Marco Vernaschi, Italia, per Pulitzer Center. Guinea Bissau.

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cuni studenti iraniani mi hanno detto che era una protesta che riprendeva quella del Settantanove, quando Khomeini aveva invitato tutto il popolo a salire sui tetti e gridare “Allah(u) Akbar”, Allah è grande. Ho documentato quello che stava accadendo. Ho provato un’emozione immensa e ho cominciato a scattare. C’era molta tensione, le persone che mi avevano accompagnato sui tetti avevano paura di essere riprese e riconosciute». Ricordate il film La battaglia di Algeri, di Gillo Pon-

tecorvo, del 1966, Leone d’Oro alla Trentunesima Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica, di Venezia? Nel film si ricorda che, nel 1957, il capo della rivoluzione algerina, Alì La Pointe, con un bambino, una donna e un altro compagno, saltano in aria nel loro nascondiglio sepolto nella Casbah, per opera dei parà del colonnello Philippe Mathieu. Dopo questo fatto di sangue, il controllo della città sembra riconquistato e per quasi tre anni tutto, ad Algeri, rimane tranquillo. Poi, improvvisamente, una sera del dicembre 1960, al tramonto, i fotogrammi e la colonna sonora del film rivelano una città percorsa da grida magiche, che in un parossistico crescendo coprono tutto come uno tsunami. Quelle grida rappresentano il concepimento della libertà dell’Algeria, una libertà che nascerà circa due anni dopo. Mi vengono sempre le lacrime, quando rivedo quella scena e ascolto quel canto magico. E così mi commuovo, immaginandomi l’atmosfera che deve aver vissuto Pietro Masturzo, sui tetti di Teheran, con poche grida isolate, primi incerti vagiti di una libertà non ancora annunciata. Perché mi sembra importante, cito un’altra testimonianza di Pietro Masturzo a proposito dell’immagine vincitrice: «La fotografia è piaciuta subito, tant’è che durante una mostra realizzata a Sorrento, lo scorso dicembre, nel Chiostro di San Francesco, qualcuno ha pensato bene di rubarla». Concordo: se avessi visto quella mostra avrei avuto anch’io la stessa tentazione.


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SECONDO IN ITALIA, PRIMO NEL MONDO

Fotografiche), noto come Portfolio Italia Gran Premio Epson - Premio Kiwanis. Composta da Maria Teresa Cerretelli, Marta Daho, Maurizio De Bonis, Tiziana Faraoni (presidente), Carlo Gallerati, Maurizio Garofalo, Cosmo Laera, Enzo Gabriele Leanza, Sara Munari, Massimo Mussini, Roberto Mutti, Marco Pinna e Maurizio Valdarnini, la giuria 2009 ha assegnato il secondo premio al portfolio Sui tetti di Teheran, di Pietro Masturzo, composto da quattordici immagini (il primo premio è andato al romano Chris Rain, per il suo portfolio di sedici immagini in bianconero I’m the snow).

(pagina accanto, in alto) Primo premio Sport Action Stories: Donald Miralle Jr, Usa. Ironman World Championships, Hawaii. (pagina accanto, al centro) Primo premio People in the News Stories: Charles Ommanney, Inghilterra, Getty Images per Newsweek. Insediamento del presidente Barack Obama. Washington DC, 20 gennaio.

CRISTIANO LUCARELLI

Pietro Masturzo (www.pietromasturzo.com) si laurea a Napoli, in Relazioni Internazionali. Si trasferisce, quindi, a Roma per studiare fotografia, che diventa la sua professione nel 2007. Da allora, ha collaborato con diverse agenzie di fotogiornalismo e ha pubblicato sui principali giornali italiani. Come ha iniziato a fotografare? «Come fanno i bambini, quando si ritrovano una macchina fotografica tra le mani: ci ho guardato dentro, ho fatto uno scatto, ed è diventata il mio giocattolo preferito». Attualmente, collabora con il collettivo di fotogiornalisti Kairos Factory (www.kairosfactory.com), che ha fondato nel 2009 con altri tre giovani fotografi napoletani, Raffaele Capasso, Francesco Claudio Cipolletta, Raffaele Gallo. Le immagini che hanno vinto il World Press 2010 sono state presentate all’ultima edizione di Visa pour l’Image, a Perpignan, all’inizio dello scorso settembre, dove e quando hanno raccolto molti complimenti, ma nessuna delle agenzie interpellate ha accettato di distribuirle e nessun photo editor presente si è detto disposto ad acquistarle per il suo giornale. Con queste immagini, Pietro Masturzo ha partecipato a FotoLeggendo 2009, organizzato dalla Associazione Culturale Officine Fotografiche. Questo concorso è una delle manifestazioni italiane dedicate alla lettura di portfolio ed è inserito nel Circuito nazionale organizzato dalla Fiaf (Federazione Italiana Associazioni

Primo premio Sport Features Singles: Robert Gauthier, Usa, Los Angeles Times Magazine. Tifosi degli Yankees cercano di distrarre l’esterno sinistro degli Angels, Juan Rivera. Yankee Stadium, 25 ottobre.

Nei cinquantacinque anni di World Press Photo, Pietro Masturzo è il secondo italiano insignito del primo premio assoluto World Press Photo of the Year. Fotografia dell’anno è una delle nove immagini di un reportage realizzato sui tetti di Teheran, lo scorso giugno, nei giorni nei quali la piazza si è ribellata ai risultati delle controverse elezioni [a pagina 52].

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Primo premio Nature Stories: Paul Nicklen, Canada, National Geographic. Penisola Antartica, Georgia del Sud.

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GLI ALTRI ITALIANI AL WPP 2010

Dopo Francesco Zizola, eletto fotografo dell’anno nel 1966, Pietro Masturzo è il secondo italiano che, in cinquantacinque anni di svolgimento, si aggiudica il massimo riconoscimento dell’autorevole World Press Photo of the Year. Pietro Masturzo si è guadagnato anche il primo premio nella sezione People in the News Stories.

Non è stato l’unico italiano premiato a questa edizione 2010, per fotografie scattate nel precedente 2009. Altri fotogiornalisti del nostro paese si sono guadagnati riconoscimenti. E ciò è ancora più sorprendente, se si pensa alla crisi gravissima che, in Italia, colpisce da anni questo settore professionale. Gli altri fotogiornalisti italiani premiati sono ben otto. Eccoli, in ordine più o meno casuale.


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Michele Borzoni, trentuno anni, fiorentino del collettivo TerraProject, si è aggiudicato il primo premio nella sezione People in the News Singles con uno scatto che riguarda scontri etnici a Srinagar (Kashmir, India). Un altro primo, nella sezione General News Stories, è stato assegnato a Marco Vernaschi, trentasette anni, piemontese basato a Buenos Aires, per un reportage sulla Guinea Bissau realizzato all’interno di un progetto sostenuto dal Pulitzer Center [a pagina 54]. Francesco Giusti, quarantuno anni, è secondo nella sezione Arts and Entertainment Stories, con un lavoro sulla Société des ambianceurs et des personnes élégantes (o Sape), lanciata nel 1979 dal musicista africano Papa Wemba (per esteso Jules Shungu Wembadio Pene Kikumba), i cui affiliati interpretano una sorta di moda dandy, nata dopo l’indipendenza del Congo. Altro secondo, nella sezione Contemporary Issues Singles, con un’immagine di giraffa morta per la siccità lungo una pista del Kenya, è stato Stefano De Luigi, quarantacinque anni, dell’agenzia VII [qui sopra]; e ancora secondo, nella stessa sezione, ma estesa alle Stories, è Alessandro Imbriaco, trent’anni, dell’agenzia Contrasto, per il suo reportage dedicato ai nomadi del campo del Casilino a Roma. Ancora, il terzo premio di Contemporary Issues Stories è andato a Tommaso Ausili, dell’agenzia Simephoto di Milano, per una serie di scatti realizzati in un mattatoio. Non è finita, ancora due terzi premi: uno nella sezione Nature Singles, a Paolo Patrizi, basato a Tokyo, per una fotografia raffigurante l’evoluzione di uno stormo di storni; l’altro, a Luca Santese, venticinque anni, milanese, del collettivo Cesuralab, nella sezione Daily Life Singles, per un’immagine dedicata alla crisi che ha colpito Detroit, capitale statunitense dell’automobile.

Grazie a Dio, la differenza la fanno ancora le persone, le capacità individuali. Forse. Così, registriamo che La Stampa, di Torino, ha dedicato due intere pagine alle fotografie premiate al World Press Photo 2010, con un lancio dalla prima pagina per il fotografo dell’anno, Pietro Masturzo. Non dovremmo essere lontani dal vero e giusto, quando ipotizziamo che ci sia la volontà, non soltanto lo zampino, del photo editor Mauro Vallinotto, che sa dare alla fotografia gli spazi e la visibilità che merita.

MENZIONE SPECIALE

Brillantemente presieduta dalla signora Ayperi Karabuda Ecer, attuale vicepresidente di Reuters, per dodici anni direttore della sede di Parigi di Magnum Photos e, in seguito, direttore dell’agenzia Sipa, sempre a Parigi, la giuria, ha segnalato con una menzione d’onore il video circolato su YouTube, dell’assassinio di Neda Agha-Soltan, da parte della polizia iraniana (FOTOgraphia, luglio 2009). È la prima volta che una giuria World Press Photo assegna un riconoscimento a un’opera non professionale. Le cifre ufficiali, in conclusione. Trecentosettanta fotogiornalisti italiani hanno partecipato all’edizione 2010 del World Press Photo, per fotografie scattate nel 2009. In totale sono arrivate più di centomila fotografie (101.960, per la precisione), da quasi seimila fotogiornalisti (5847), di centoventotto nazionalità. Tutte le immagini premiate si possono vedere al sito www.worldpressphoto.org. ❖

Secondo premio Contemporary Issues Singles: Stefano De Luigi, Italia, VII Network per Le Monde Magazine. Giraffa morta per siccità. Kenya, settembre. (pagina accanto, in alto) Primo premio Nature Singles: Joe Petersburger, Ungheria, National Geographic. Martin pescatore in caccia, Ungheria.

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IL FURORE DEL


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Dopo il titolo, adottato anche per la nostra presentazione, il sottotitolo esplicito ed esplicativo della mostra allestita a Venezia, dal sedici aprile: Fotografia italiana dall’archivio di Italo Zannier nella collezione di Fondazione di Venezia. Di questo esattamente si tratta: della visibilità di un progetto avviato con l’acquisizione del fondo librario e dell’archivio di Italo Zannier, uno dei protagonisti di spicco della cultura fotografica dei nostri tempi di Angelo Galantini

A

llestita presso la Fondazione Bevilacqua La Masa, nella sede della Galleria di piazza San Marco, a Venezia (ovviamente!), la convincente mostra Il furore delle Immagini dà avvio a un progetto culturale della Fondazione di Venezia, intrapreso a partire dall’acquisizione del fondo librario e dell’archivio fotografico di Italo Zannier, in ripetizione (dal sommarietto) uno dei protagonisti di spicco della cultura fotografica dei nostri tempi. Come sottolineato dalle note anticipatorie e di presentazione, l’esposizione rappresenta una preziosa e rara opportunità per incontrare materiali raccolti nel Luigi Veronesi: Fotogramma; senza data. Collezione della Fondazione di Venezia - Archivio Italo Zannier. Carlo Naya: Venezia al chiaro di luna; 1870 circa. Collezione della Fondazione di Venezia - Archivio Italo Zannier.

ELLE IMMAGINI

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corso di una intera vita da uno dei maggiori studiosi della fotografia in Italia. Friulano di Spilimbergo, docente universitario, fotografo lui stesso, ironico e appassionato, Italo Zannier ha raccolto con “furore” (eccoci!) un corpus di immagini unico, dando vita in cinquant’anni a una avvincente Collezione: «Ma non chiamatela collezione, per favore: è un archivio, un archivio di lavoro», tiene a precisare. C’è molto, potrebbe mancare nulla. Soprattutto, questa Collezione, così personale, così viva, offre e propone un insieme di fotografie complementari a quelle con le quali si è soliti raccontare la Storia, fosse anche soltanto quella italiana. Immagini sottotraccia, rispetto le fotografie più note al grande pubblico, che comunque appartengono al bagaglio di chi osserva la comunicazione visiva per mestiere, tracciano una linea narrativa autenticamente originale, che per la prima volta supera i confini degli addetti, per proporsi in termini e con connotati universali. Riccardo Moncalvo: Il gesto; 1937. Collezione della Fondazione di Venezia - Archivio Italo Zannier. (centro pagina) Gino Turina: Sere d’estate; 2000. Collezione della Fondazione di Venezia - Archivio Italo Zannier.

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L’ACQUISIZIONE

Nel 2007, garantendone la permanenza in città, la Fondazione di Venezia ha acquisito il fondo librario e l’archivio fotografico di Italo Zannier: circa milletrecento fotografie originali (dal dagherrotipo all’immagine digitale) e circa dodicimila volumi, oltre a inviti, locandine e opuscoli di eventi fotografici, dal dopoguerra ai giorni nostri, riviste e carteggi con futuri maestri della fotografia e protagonisti della cultura italiana. Il fondo e l’archivio sono stati catalogati, classificati e schedati dalla Fondazione di Venezia, in collaborazione con l’Agenzia Contrasto. La biblioteca di Storia del Design dell’Università Iuav, di Venezia, è destinataria, in comodato d’uso, del patrimonio librario, con l’impegno di renderlo fruibile a studenti e studiosi della materia. Per l’archivio fotografico, dopo un meticoloso lavoro di perizia, restauri e digitalizzazione di tutti gli originali, con la mostra Il furore delle Immagini, alla Fondazione Bevilacqua La Masa, dal sedici aprile al diciotto luglio, si avvia la fase di valorizzazione.

FOTOGRAFIE CON CONTORNO Curata da Denis Curti, la retrospettiva attraversa la storia della fotografia italiana, dagli esordi fino alle tendenze contemporanee. Corredate da una significativa quantità e qualità di libri e album fotografici, duecentosessanta immagini permettono una approfondita lettura storica delle opere dell’archivio edificato nei decenni dall’attento Italo Zannier. Mediante l’appassionato “racconto” della Collezione (consentiamoci una delle nostre Maiuscole volontarie e consapevoli), la mostra delinea le tappe fondamentali dell’evoluzione tecnica ed estetica della maravigliosa invenzione. Aprono l’esposizione autori italiani di fine Ottocento, come Carlo Naya con la stampa, fuori dimensioni per l’epoca, Venezia al chiaro di luna, del 1870 (stampa all’albumina con viraggio, su carta colorata [a pagina 58]), e un suo rarissimo dagherrotipo del 1850 circa (ritratto di un uomo), peraltro anticipatore di altre tante espressioni delle origini, ancora in forma di dagherrotipo, piuttosto che ambrotipi, ferrotipi, cianotipie, stampe all’albumina, carte-de-visite.


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Le stesse preziose albumine, in dimensioni diverse e con soggetti dal paesaggio al ritratto, accompagnano il visitatore verso le carte salate di fine secolo e attraverso molteplici altre interpretazioni della copia fotografica, che hanno arricchito tutto il secolo dell’invenzione (e che sono sostanzialmente sconosciute al grande pubblico, anche a quello che si limita alla loro relativa riproduzione litografica su libri e monografie, dove tutto è appiattito in un sapore tipografico omogeneo e omogeneizzante: gli originali fotografici dell’Ottocento sono ben altro!, sia detto per inciso). Il percorso espositivo di Il furore delle Immagini prosegue con l’approfondimento di temi legati alla fotografia italiana degli anni Trenta e Quaranta del Novecento e al neorealismo, nel cui ambito spiccano le esperienze dell’associazionismo di metà secolo, vivace e brillante (l’associazionismo) come non sarebbe più stato (ahinoi). È obbligatorio richiamare almeno quattro storicità sopra tutte, che furono al centro del dibattito culturale sulla fotografia italiana, negli anni Cinquanta: La Bussola (fondata e diretta da Giuseppe Cavalli), La Gondola (che a Venezia, con i fondatori Paolo Monti, Gino Bolognini, Luciano Scattola e Alfredo Bresciani, si oppose alla visione idealizzata e “conservatrice” della Bussola), l’Associazione Fotografica Misa (non acronimo, ma richiamo al fiume torrentizio che sfocia nell’Adriatico, dopo aver attraversato Senigallia, sede dell’Associazione), il Gruppo Friulano per una Nuova Fotografia. Mario Giacomelli, tra i fondatori del Misa, ha ricordato così i momenti delle origini: «Un gruppo libero dalle polemiche in atto tra formalismo e neorealismo, nel quale ognuno parlava il proprio linguaggio, con umiltà di fronte al soggetto, liberi da ideologie politiche, pensando all’amicizia, al dialogo, al rispetto di ognuno di fronte alla realtà». Ancora avanti, si approda alle tendenze artistiche contemporanee, nel cui ambito le creazioni di Paolo Gioli, Franco Vaccari e Nino Migliori (prima e sopra gli altri) testimoniano il momento nel quale la fotografia

DAL FURORE ALL’ANSIA

Altro, oltre Il furore delle Immagini, a Venezia, dal sedici aprile al diciotto luglio. Il ventidue aprile, al Museo Nazionale Alinari della Fotografia, a Firenze, inaugura la mostra Ansia d’Immagini - Italo Zannier fotografo 1952-1976 (Mnaf, piazza Santa Maria Novella 14ar; 055-216310; www.mnaf.it; fino al ventidue maggio; da giovedì a martedì, 10,00-19,00). Curata da Angelo Maggi, l’esposizione si presenta come memoria di un periodo storico della fotografia italiana, caratterizzato dal neorealismo, del quale Italo Zannier è stato un protagonista, anche con la fondazione del Gruppo Friulano per una Nuova Fotografia e la stesura del “Manifesto” programmatico dello stesso neorealismo fotografico. L’allestimento presenta una selezione dalle oltre quarantasettemila immagini che costituiscono l’archivio completo dell’attività fotografica svolta dall’autore, oggi conservato nelle Raccolte Museali della Fratelli Alinari insieme a cinquemila stampe fotografiche originali.

Carlo Wulz: Wanda Wulz; 1926 circa. Collezione della Fondazione di Venezia - Archivio Italo Zannier.

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Nino Migliori: Il tuffatore; 1951. Collezione della Fondazione di Venezia - Archivio Italo Zannier.

italiana riflette su se stessa e sul suo linguaggio. Da qui, fotografie di Luigi Ghirri, Gabriele Basilico, Mario Cresci, Guido Guidi, Mimmo Jodice, Mario Giacomelli e molti altri protagonisti della fotografia italiana che si allunga sui nostri giorni attuali.

Mimmo Jodice: Gli occhi di San Pietro; 1999. Collezione della Fondazione di Venezia - Archivio Italo Zannier.

DOCUMENTI E SCOPERTE In collaborazione con Angela Vettese, il curatore Denis Curti ha composto una mostra nella quale le immagini dialogano con testi e documenti. Tra i documenti più interessanti si possono individuare lettere, anche confidenziali, di maestri della fotografia, da Paolo Monti a Mario Giacomelli, a Tazio Secchiaroli, che

assieme a Federico Fellini ha annotato una dedica al fondamentale libro sui Paparazzi, di Italo Zannier, ringraziandolo per averlo definito, in un articolo, il fotografo della Dolce Vita (e prima del film di Fellini). Tra tante altre testimonianze, tutte da scoprire, tutte da godere, tutte in impagabile arricchimento individuale (beati noi), segnaliamo anche un libro di Nadar, con dedica autografa, scritta dopo un infortunio dovuto a un incidente in mongolfiera, e i lavori di Marco Antonio Cellio, oscuro e geniale scienziato seicentesco, inventore di una “macchina per disegnare” basata su ingegnose proiezioni di specchi, al quale Italo Zannier ha dato onore e visibilità. In definitiva, quello di Marco Antonio Cellio fu un elaborato marchingegno che, due secoli dopo, nei controversi giorni ufficiali del 1839, avrebbe addirittura messo in dubbio la priorità della “maravigliosa invenzione” di Louis Jacques Mandé Daguerre. Il rarissimo trattato Fosforo o’ vero la pietra bolognese preparata per rilucere tra l’ombre, che Marco Antonio Cellio scrisse nel 1680, e che Italo Zannier ha rintracciato casualmente (e sugli accidenti del Caso si dovrebbe approfondire: altrove, in altri tempi e modi, e altrimenti), ha rivelato la straordinarietà dei suoi studi alchemici. A dispetto di ogni storiografia accreditata, Italo Zannier è solito affermare che proprio l’italiano Marco Antonio Cellio prima di tutti inventò una tecnica che assomigliava alla fotografia. Ma, forse, era già fotografia, in pieno Seicento, due secoli in anticipo sulle date ufficiali: per il cui approfondimento, giocando in casa nostra, rimandiamo all’ottimo 1839-2009. Dalla Relazione di Macedonio Melloni alla svolta di Akio Morita, del nostro direttore Maurizio Rebuzzini, riferendoci sopra tutto, e oltre tanto altro (sempre e comunque compilato con gusto e competenza), al capitolo iniziale 1839. Dal sette gennaio al dodici novembre. Nel proprio insieme, tutti questi documenti allestiti in Il furore delle Immagini sono idealmente racchiusi in una scatola di meraviglie, entro la quale perdersi, oppure ritrovarsi (a ciascuno, il proprio), seguendo le tracce che l’attento Italo Zannier ha raccolto nei decenni, alla ricerca della storia della fotografia italiana. Parallelamente alla mostra e in collegamento ideale, la Fondazione di Venezia promuove una serie di workshop, incontri e seminari coordinati dall’Agenzia Contrasto, che valorizzano e completano il progetto espositivo. Un workshop specifico e un concorso fotografico saranno riservati agli studenti delle scuole superiori della provincia di Venezia. Una ulteriore opportunità di approfondimento si ha da un documentario video sulla Collezione Italo Zannier e i protagonisti della fotografia in Italia, realizzato in occasione della stessa mostra. ❖ Il furore delle Immagini. Fotografia italiana dall’archivio di Italo Zannier nella collezione di Fondazione di Venezia; a cura di Denis Curti. Fondazione Bevilacqua La Masa, Galleria di piazza San Marco, San Marco 71c, 30124 Venezia; 041-5237819; www.bevilacqualamasa.it. Dal 16 aprile al 18 luglio; mercoledì-domenica 10,30-17,30. Catalogo Marsilio Editore.


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Sguardi su Cinema di Pino Bertelli (11 volte febbraio 2010)

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BRUCE CHATWIN

Bruce Chatwin è stato un grande viaggiatore, un incantato narratore di storie, una sorta di antropologo/raccoglitore di segni dei popoli nomadi, non importa quanto inventati o scientificamente attendibili. È stato un cacciatore di sogni e ha raccontato ciò che lo ha reso felice; i suoi libri, del resto, sono assemblaggi di appunti, taccuini di viaggio, citazioni erudite e invenzioni letterarie che si richiamano a una filosofia dell’esistenza vissuta come critica radicale alla storiografia imperante, e implicano lo smascheramento dell’universo mercantile come unico modello di mondo possibile.

UN LADRO DI FUOCO Bruce Chatwin nasce nello Yorkshire (Inghilterra), a Sheffield, nel 1940. Frequenta buone scuole, ma l’insegnamento istituzionale non fa per lui. A diciotto anni, inizia a lavorare per la casa d’aste londinese Sotheby’s, e diviene presto un acuto osservatore e critico d’arte. A ventisei anni, lascia tutto (alcuni dicono per una precoce malattia agli occhi), e si interessa all’archeologia, all’architettura, all’antropologia; più ancora, studia le culture dei popoli nomadi e le loro migrazioni. Frequenta l’università di Edimburgo, per qualche tempo, poi inizia a viaggiare in Afghanistan, Africa, America Latina. Scrive sull’indipendenza algerina, della Grande Muraglia cinese, intervista importanti personaggi in Francia (lo scrittore André Malraux, tra i tanti), in Unione Sovietica (Nadežda Jakovlevna Mandel’štam, scrittrice e moglie del poeta acmeista Osip Mandel’štam, vittima delle purghe staliniane) e traccia sulla carta l’irrequietezza dei propri “desiderata”. Passa diversi mesi in Patagonia. Raccoglie le sue osservazioni nel libro In Patagonia

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(1977), e la singolarità dei sui scritti (articoli, brani di diario, corsivi politici) lo proiettano nell’alveolo dei grandi scrittori inglesi del Novecento. Pubblica poi Il Viceré di Ouidah (1980), Sulla collina nera (1982), Ritorno in Patagonia (con Paul Theroux, 1986), Le vie dei canti (1987), Utz (1989), Che ci faccio qui? (1989). Mostra subito l’abilità del saccheggio e la disinvoltura nel trasformare il racconto orale in qualcosa che ha a che vedere col trattato, col ricordo, con la lettera aperta per gli amici... libri mai finiti, una sconfinata catenaria di idee che si fanno detestare o amare.

Non è la verità dell’incontro quella che Bruce Chatwin ha fissata nelle sue pagine austere, ma la tragicità del reale. Non sono le gesta del santo, del martire o dell’eroe che hanno attanagliato la sua esistenza e incendiato il suo immaginario... è stata l’epifania dell’apparizione, la caduta dei muri della morale, la poetica della rêverie (fantasticheria, immaginazione, abbandono al sogno a occhi aperti), che lo hanno sprofondato in uno stato di coscienza magica, e ha privilegiato il desiderio e il piacere dell’anima in volo. «Di quale altra libertà psicologica godiamo oltre a quella di

«La vera casa dell’uomo non è una casa, è la strada. La vita stessa è un viaggio da fare a piedi» Bruce Chatwin Qui, non ci interessa raccontare né la sua omosessualità mai dichiarata, né le vicende familiari. All’età di venticinque anni, si era sposato con Elizabeth Chanler. Non fu un matrimonio felice e non ebbero figli. Lei chiese la separazione dopo quindici anni di prolungate assenze del marito, amori trasversali, incomprensioni profonde; vendettero i loro beni, e poco prima della morte di Bruce Chatwin si riconciliarono e andarono a vivere nel sud della Francia. Bruce Chatwin ha chiuso la sua vita straordinaria su una sedia rotelle, afflitto dall’Aids, a Nizza, nel 1989, a soli quarantotto anni. Negli anni Novanta vengono pubblicati suoi libri postumi: L’occhio assoluto. Fotografie e taccuini (1993), Anatomia dell’irrequietezza (1997) e Sentieri tortuosi (ancora fotografico, 1998).

fantasticare? Psicologicamente parlando, è proprio nelle rêveries che siamo degli esseri liberi» (Gaston Bachelard). Ancora. La filosofia libertaria di Bruce Chatwin è fondata sulla soggettività radicale e sull’estetica dei sentimenti struccati. Ciascuno è scultore della propria statua ed è responsabile del proprio essere e del proprio divenire. Più di ogni altra identificazione, Bruce Chatwin è stato un flâneur, un bracconiere di emozioni, un trovatore di storie che ha raccontato, o meglio, disseminato secondo un’arte ateologica del piacere... e il reale non regge mai il confronto con il fantastico. Il desiderio libertario che ha permeato il suo cammino è per definizione Nomade, perché poggia il proprio sentire sulla mancanza, nell’oblìo, nelle figure d’affezione (archetipiche, erotiche, sensuali), che come

nell’immaginario eidetico dei bambini non chiedono nulla e hanno diritto a tutto. Fuori dai territori civilizzati, la sua deriva ludica ha ritrovato l’eresia della dolcezza ed è andata ad architettare un nuovo ordine armonioso. Sono le tematiche elaborate da Fourier, Foucault, Bachelard, intrecciate alle follie etiche di Nietzsche, Artaud, Cioran, che irrompono nelle passioni disperate, ma anche gioiose, della realtà, e scaturiscono nelle eresie etiche ed estetiche di Debord, Vaneigem, Onfray: tutta una ciurma di naufraghi dell’amore e della libertà, che hanno infranto il culto degli idoli e dei demiurgi che li governano. Tutti sono legati al pensiero dionisiaco che fa dell’uomo il principe di sé, senza servi né padroni. Sono loro che hanno gridato che la vita è una festa! Che la baldoria cominci! La meraviglia dell’imbecille guarda le urne elettorali e il confessionale come fuga dalla realtà, e solo il peccato, la trasgressione, la rivolta sono i grimaldelli espressivi per uscire dalla cristianizzazione dell’anima e dall’euristica della paura come forma normale di delirio della civiltà dello spettacolo. I ladri di fuoco hanno raccolto il disprezzo dei popoli; tuttavia, nella bellezza, nell’amore, nella felicità del margine hanno trovato la possibilità di sconfiggere il dolore dei secoli e ci hanno insegnato a ben vivere come a ben morire. Bruce Chatwin è stato un ladro di fuoco. Ha sempre visto in termini di immagini. Ciò che ha osservato, è sempre partito da ciò che desiderava. Aristocratico dell’anarchia, ha proceduto di utopia in utopia e infranto leggi e norme imposte dai valori e codici comuni. Ha respinto la dignità obbligatoria e ci è volu-


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Sguardi Cinema su to del genio per fare della libertà e dei diritti dell’uomo, la più nobile di tutte le esperienze tradite. Attirato dalla diversità degli altri, si è interessato all’esistenza di ciascuno. Autodidatta dell’esistenza errante, ha scoperto presto l’avventura dell’andare avanti, dell’attuare il bene dentro e fuori di sé, del chiamarsi fuori dall’epoca del fucile e del mercato. Ha saputo benissimo che nessuno è più ricco di un uomo libero, perché nell’uomo libero si trova la vita autentica. E verità, bene e giustizia sono una sola cosa. «La vita dell’uomo diviene autentica quando fa di quest’unica cosa la stella verso cui orientare la libertà» (Vito Mancuso). Dio non c’entra. E nemmeno lo Stato. Cambiare se stessi in rapporto con l’organizzazione dell’esistere, significa cambiare l’ordine del mondo. Non essere né complici, né spettatori. Rompere il monopolio dell’educazione, significa bruciare venti secoli di cristianesimo e fare del nichilismo della politica istituzionale la discarica di tutti le ingiustizie popolari rimaste invendicate. Che ci faccio qui?, scrive Bruce Chatwin; e Rimbaud, Io sono un altro. «I popoli anarchici, come i nomadi del deserto, odiano e distruggono le immagini» sacralizzate (Bruce Chatwin), perché sanno che la storia del pensiero forse altro non è che la giustificazione del genocidio. Immaginare è creare ciò che esiste nel nostro cuore, è rompere i limiti di una realtà eccessiva, è annotare sui silenzi della storia le grida di dolore degli ultimi. Non c’è giustizia né bene degli uomini se non a prezzo di una rivoluzione sociale. Il viaggio è un’interrogazione della coscienza collettiva, sempre. La minaccia è leggibile sulle lacrime dei bambini che muoiono per fame, e le banalità sessuali dei turisti sono offensive. Gli schiavi di corte, come i servi del liberismo economico, hanno il medesimo statuto dei poveri della Terra, eppure non sono ancora molti ad avere

compreso che la povertà è ricchezza dei popoli: «Quando uno sogna da solo, è solo un sogno. Quando si sogna insieme, è la realtà che comincia» (Helder Camara). Le vie dei canti mostrano la fratellanza degli umili e ricordano a tutti che il giusto mezzo per giungere a una vita planetaria che poggia sul diritto e la dignità di chi non ha diritti, è più preziosa dell’oro.

LO SGUARDO DEL FLÂNEUR A partire dal suo primo libro, In Patagonia, Bruce Chatwin mostra una certa attenzione alla scrittura fotografica: sa per certo che il solo fotografo buono è un fotografo morto! Perché non c’è nessuno più prono alle frustate o alle lusinghe del potere, quanto un fotografo in cerca di notorietà o di un posto riconosciuto in società. Dietro ogni fotografia, c’è uno stupido con la smania dell’arte; più ancora, c’è un buffone che lecca il culo al suo padrone in cambio di una mostra nei gazebo mercantili dell’ordine costituito. L’esercizio della fotografia non si concilia molto con il rispetto dell’uomo. «Invidiano coloro che hanno trovato la liberazione e la pace [non solo nella fotografia], ma restiamo con chi non ha incontrato né l’una né l’altra» (Emil Cioran). Nell’estetica della lacerazione accettata come “prova d’autore”, c’è l’incuriosità di essere “profondi”, e l’impresa o la prodezza eccezionale si accorda con la mediocrità abissale che la anima. Non si nasce impunemente fotografi o politici, se non siamo inclini a lavorare nella spazzatura o nel bordello splendente del parlamento. A ritroso. Si incontra la fotografia nell’agorà, nella strada o sulla via di Auschwitz. Avendo frequentato nella mia vita non pochi fotografi e qualche criminale donato alla politica, ho notato che si interessavano alle persone che fotografavano o che adulavano i loro discorsi... soltanto quando si tramutavano in ammiratori, discepoli

o semplici sostenitori delle loro scelleratezze sociali. Ogni fotografo, come ogni politico, è ossessionato della propria arte o dei propri ideali, fino alla deificazione di sé; e non smette, in nessuna circostanza, di immolarsi sul sagrato del successo, fino a quando il cappio del boia o un colpo di fucile mette fine alla farsa. Quando Bruce Chatwin viaggia, nel suo zaino di pelle (ricevuto in eredità dal regista tedesco Werner Herzog e che tiene in grande considerazione) porta con sé la macchina fotografica, e nella sua flânerie sentimentale coglie frammenti di vita quotidiana gravidi di intelligenza, amarezza e povertà. Tra le pagine di In Patagonia possiamo leggere le sue attenzioni e le sue curiosità fotografiche. Così, vediamo un carro ferroviario abbandonato su un binario, un camioncino Dodge, una famiglia in un interno, una casa di contadini gallesi, una casa borghese inglese, la croce di una tomba a Rio Pico, la stazione di Jaramillo, la facciata di una casa di lamiere di Punta Arenas, la casa aristocratica di Charley, una fonderia, il ghiacciaio Moreno del Lago Argentino, il relitto di una nave a Punta Arenas, la caverna del Last Hope Sound. Non è importante sapere se tutte le fotografie sono state realizzate da Bruce Chatwin, perché l’intero libro è appunto una sequenza di immagini o situazioni visive descritte con grande forza autoriale. Ciò che vale, è il rapporto che fuoriesce tra parole e situazioni fotografate; come quando Bruce Chatwin descrive l’attentato degli anarchici ebrei-russi contro il capo della polizia, colonnello Ramón Lorenzo Falcón (aveva fatto sparare contro gli anarchici e la popolazione che manifestavano per i soprusi subìti dagli immigrati, e inzuppato le strade di sangue): «Sdegnando la protezione di guardie armate, il colonnello Falcón ritornava in automobile dal funerale del suo amico, il direttore della Prigione di Stato. Con

lui c’era il suo giovane segretario, Alberto Lartigau, che stava imparando a diventare uomo. A un angolo dell’Avenida Quintana, Simón Radowitzky, vestito di scuro, aspettava con un pacco in mano. Con perfetto tempismo buttò il pacco nell’automobile, balzò indietro per evitare l’esplosione e corse verso un edifico in costruzione». Fu sfortunato. Alcuni passanti avvertirono due poliziotti. Un proiettile lo colpì sotto il capezzolo destro, e Simón cadde stringendo i denti sotto i colpi. «Viva la Anarquía!», gridò balbettando ai suoi catturatori. «Io non sono niente, ma per ognuno di voi ho una bomba». Il colonnello Falcón spirò all’ospedale, per le orrende ferite, e il suo segretario sopravvisse a un’amputazione fino a sera. Simón Radowitzky scomparve nelle galere argentine, partecipò a insurrezioni dei prigionieri politici, fu più volte violentato dalle guardie del carcere; poi, un napoletano (Pasqualino Ruspoli) e due anarchici argentini lo fecero evadere. Fu ripreso, e qualche anno dopo venne espulso dal suolo argentino. La “vittima della borghesia” aveva vinto. Simón Radowitzky morì negli Stati Uniti per un attacco di cuore, nel 1956. Accanto, aveva la sola donna della sua vita, in lacrime. Per la libertà, come per l’amore, non ci sono catene. Lo sguardo fotografico di Bruce Chatwin è quello del flâneur: basta vedere le sue immagini in L’occhio assoluto. Fotografie e taccuini e Viaggio in Afghanistan (1998), per comprendere la sensibilità e l’amorevolezza verso l’altro: in modo particolare, le donne, i bambini, i giovani sono fotografati secondo la figurazione che molto ricorda la ritrattistica popolare del Rinascimento italiano, che è al fondo del cinema sulla “trilogia della vita” di Pier Paolo Pasolini, Il Decameron, I racconti di Canterbury, Il fiore delle mille e una notte. C’è una sensualità aperta nello sguardo per nulla “assoluto” di

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Sguardi su Bruce Chatwin; quando fissa sulla pellicola delle angurie al mercato, si ha la sensazione di immergersi nei colori di una “natura viva”; quando fotografa i villaggi afghani, sembra restituire la visione fantastica di costruzioni infantili; e anche le tende degli accampamenti nomadi, o la gente sui cammelli in deserti di pietre, sono fissati sulla scorza dell’accadere, e restituiscono la ritrattistica semplice di un’esistenza dura, fin troppo bella, alla ricerca forse di un tempo perduto o solo sognato dall’uomo con la macchina fotografica. Lo sguardo del flâneur di Bruce Chatwin si coglie appieno nelle fotografie a colori di L’occhio assoluto (titolo infelice). La simbologia del fotografo è elementare: linee, assi, strappi di tende, cupole di templi, cortili disegnati, pezzi di barche, rettangoli, quadrati, cerchi... tutto ripreso con pregevole perizia tecnica. Poi, villaggi di fango e sterco di vacca, case marroni incorniciate di bianco, piramidi distrutte, pitture rupestri, villaggi scavati nella roccia, eremi, deserti, fiori: tutta la fotografia di Bruce Chatwin si accorpa con il romanzo autobiografico che l’accompagna. C’è amore in queste immagini, c’è emozione, c’è il tornare là dove il tempo non conta. Lo sguardo del flâneur di Bruce Chatwin riporta non poco ai vagabondaggi parigini di Apollinaire, al dandysmo di Baudelaire, ai passaggi libertari di Benjamin; e anche la deriva surrealista di Breton sembra passare nel fondo delle sue fotografie. Le sue immagini sono nuda poesia, e il loro linguaggio va oltre la portata del tempo: fissano l’istante nel presente e lasciano al futuro le lacrime di poeti/profeti inascoltati. Bruce Chatwin si fa messaggero delle stelle e se la sua comprensione dell’istante braccato, libero e aperto a tutti mostra l’innocenza del suo cuore, la fotografia innocente non lo è mai. È là dove avviene la bellezza della fotografia che nascono le speranze di un mondo mi-

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gliore. La sopravvivenza è clandestina e non ha casa. Lo sradicamento è una violenza, e la paura del dolore che cade in fotografia è un avvertimento e un monito. La ricerca della felicità è difficile, e solo nel gioco, nel piacere, nel desiderio appagato si riconosce il reale al di là del reale. La felicità è nemica di chi detiene il potere, ed è il poeta, l’artista, il ribelle che ce lo ricorda. Perdersi dentro l’umanità dolente è un atto d’amore, e l’amore parla a lune impazzite che s’incendiano di verità sul tramonto degli oracoli. Bruce Chatwin «ha lo sguardo impavido e scanzonato di chi sa che la macchina fotografica è una maschera di curiosità che è capace di lasciare misteriose e seducenti tracce di luce, ombra e colore indipendenti dal tempo» (Ulf Peter Hallberg), è la visione abbacinata del flâneur che si guarda intorno, s’invola per strade, deserti, mari... con l’inesauribile nostalgia o malinconia di vita che si fonda sulla solitudine o sull’allegrezza dei solitari, i soli che vivono la strada come naufraghi della follia sociale e spreco dei destini umani. In questo senso, lo sguardo del flâneur di Bruce Chatwin contiene qualcosa di geniale e incompiuto. Le sue fotografie sono elegie, collage, citazioni sulla dimenticanza, l’incuria, la violenza della modernità (dell’Occidente liberale o delle chiese monoteiste), e mostrano che la fotografia muore con il passato. Tendere alla verità della fotografia è un tentativo di superare la rappresentazione e smascherare il diritto all’infamia. Il flâneur non ha patria né fede, è un’analfabeta della normalità, è il poeta dell’utopia, il solo a sapere che casa è là dove attacca il cappello o appoggia la macchina fotografica. Il flâneur ha compreso che la vita buona è nella verità come nell’immaginario, ed è la fonte libertaria e liberatrice in grado di trasformare una vita falsa in una vita autentica. ❖

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