Mensile, 6,50 euro, Poste Italiane SpA - Spedizione in abbonamento postale - D.L. 353/2003 (convertito in Legge il 27-02-2004, numero 46), articolo 1, comma 1 - DCB Milano
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ANNO XVII - NUMERO 161 - MAGGIO 2010
Dal cinema IL TEMPO. IL TEMPO Riflessione RELAZIONI LATENTI Baseball (pretesto) LA FOTOGRAFIA È AMORE
LA SCUOLA DI DÜSSELDORF
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Non è venduta in edicola. Per averla hai una sola possibilità: sottoscrivere l’abbonamento annuale. 12 numeri 65,00 euro
Abbonamento 2010 (nuovo o rinnovo) in omaggio 1839-2009
Dalla Relazione di Macedonio Melloni alla svolta di Akio Morita M A U R I Z I O
R E B U Z Z I N I
1839-2009 Dalla Relazione di Macedonio Melloni alla svolta di Akio Morita
Come dire, dal dagherrotipo all’acquisizione digitale di immagini. E consecuzioni
INTRODUZIONE
DI
GIULIANA SCIMÉ
F O T O G R A P H I A L I B R I
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prima di cominciare IL RITORNO. Siamo in dirittura d’arrivo per la risoluzione della lunga vicenda innescata dalla conclusione dell’attività dell’originaria Polaroid Corporation. Due strade attuali, che potrebbero anche convergere tra loro, non si sa mai, stanno facendo rivivere il magico richiamo a polaroid, che per decenni è stato uno dei riferimenti più visibili del mercato fotografico internazionale. Anzitutto, chi ha rilevato il marchio aziendale Polaroid gli sta attribuendo una avvincente serie di prodotti fotografici: alcuni seguono la corrente del mercato dei nostri giorni, altri sono autenticamente innovativi e affascinanti. Consideriamo sopra tutto il programma Polaroid PoGo, che sta per proporre anche novità sostanziali, che ha in sé le prerogative di autentico coinvolgimento del pubblico. In contemporanea, Impossible Project, nato per rivitalizzare e far vivere la fotografia a sviluppo immediato, non è più tanto “impossibile”, perché è approdato a una produzione iniziale di pellicole autosviluppanti, adatte agli apparecchi Polaroid in circolazione. Si comincia con una emulsione in bianconero, e in estate arriverà il colore. Ne riferiamo, su questo stesso numero, a pagina 25. In parallelo, si moltiplicano i richiami storici della fotografia a sviluppo immediato, molti dei quali declinati sull’aspetto dell’intimità di coppia: a tutti gli effetti, una delle grandi rivoluzioni sociali conseguenti. Tra tanto disponibile, due segnalazioni: una dalla Rete, dove spesso sono proposte fotografie polaroid in tema (per esempio, http://shop. ebay.it/merchant/balltowne_W0QQ_trksidZp 4340?_rdc=1); l’altra cartacea, nella concretezza del periodico TicKL - Erotic Cabinet (www.tiklt.magazine.com).
Al principio o alla fine di ogni fotografia autentica c’è sempre il vuoto e l’oscurità, che fanno della libertà un bene per tutti. Pino Bertelli; su questo numero, a pagina 66 Nelle fotografie, e sempre ben visibili, ci sono le facce degli sconosciuti, e tutta la traumatica irregolarità di ogni vicenda umana. Nella semplicità della fotografia c’è sempre, evidente o latente, l’inesauribile complessità del reale. Piero Raffaelli; su questo numero, a pagina 37 Sì, questo è il mio consiglio. Sai com’è: domani e domani e domani, il tempo scorre a piccoli passi. Auggie Wren; su questo numero, a pagina 14 Amo il baseball americano, per il quale declino altresì la mia nostalgia per i decenni (tra)passati, che percorre trasversalmente un poco tutta la mia esistenza, anche quella fotografica: lo dico sempre esplicitamente. Maurizio Rebuzzini; su questo numero, a pagina 54
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Fotografare significa rendere visibile la propria e l’altrui esistenza, quando nulla è dato e tutto resta da costruire. Pino Bertelli; su questo numero, a pagina 64
Copertina Potsdam IV, di Laurenz Berges, esponente di spicco della “Scuola di Düsseldorf”. Una monografia critica, pubblicata in Italia da Johan & Levi Editore ricostruisce la storia e i contenuti di questa consistente corrente della fotografia tedesca contemporanea. Da pagina 40
28
3 Altri tempi (fotografici) Da un annuncio pubblicitario Certo-Camera, del 1929
7 Editoriale Fotografia: tra soggetto e sua rappresentazione
14
8 Onore ai Giovenzana Da una lettera di Nicoletta e Giuseppe Giovenzana di Giuliana Scimé
10 Notizie Attrezzature, vicende e altre segnalazioni
12 Il Tempo. Il Tempo
48
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Autentico cult cinematografico, lo statunitense Smoke è un film che rivela anche una particolare e affascinante riflessione fotografica: domani e domani e domani, il tempo scorre a piccoli passi Ricerca iconografica di Filippo Rebuzzini
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MAGGIO 2010
R , RIFLESSIONI IFLESSIONI, OSSERVAZIONI E COMMENTI OSSERVAZIONI E COMMENTI SULLA FOTOGRAFIA SULLA FOTOGRAFIA
16 Racconto di Natale di Auggie Wren
Anno XVII - numero 161 - 6,50 euro
Dal New York Times, del 25 dicembre 1990 di Paul Auster
DIRETTORE
RESPONSABILE
Maurizio Rebuzzini
IMPAGINAZIONE
20 Ici Bla Bla Appunti e attualità della fotografia internazionale a cura di Lello Piazza
Gianluca Gigante
44
REDAZIONE
Angelo Galantini
FOTOGRAFIE Rouge
SEGRETERIA
28 Alle origini di molto
Maddalena Fasoli
Quattro considerazioni eccellenti estrapolate da 1839-2009. Dalla Relazione di Macedonio Melloni alla svolta di Akio Morita, di Maurizio Rebuzzini: 1839 e dintorni, con proiezione in avanti. Molto in avanti di Antonio Bordoni
HANNO
34 Territori inesplorati Ogni immagine sta dentro una vasta rete di relazioni latenti, e questa rete esisteva prima del web Testo e fotografie di Piero Raffaelli
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40 Fotografia espressiva
Redazione, Amministrazione, Abbonamenti: Graphia srl, via Zuretti 2a, 20125 Milano; 02-66713604; graphia@tin.it.
Una delle più chiare espressioni della fotografia contemporanea si richiama alla “Scuola di Düsseldorf”. Attenta monografia a tema, pubblicata in Italia da Johan & Levi Editore: appunto, La scuola di Düsseldorf di Angelo Galantini
● FOTOgraphia è venduta in abbonamento. ● FOTOgraphia è una pubblicazione mensile di Graphia srl, via Zuretti 2a, 20125 Milano. Registrazione del Tribunale di Milano numero 174 del Primo aprile 1994. Poste Italiane SpA - Spedizione in abbonamento postale - D.L. 353/2003 (convertito in Legge il 27-02-2004, numero 46), articolo 1, comma 1 - DCB Milano.
48 In lungo e largo Non prova sul campo. Ma autentica analisi pratica delle prerogative di impiego del grandangolare decentrabile e basculabile Canon TS-E 17mm f/4L Fotografie di Franco Canziani
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54 Amor di baseball A partire dalla avvincente monografia illustrata Baseball - Ballet in the Dirt, di Neil Leifer, un viaggio nella nostalgia individuale. A ciascuno, la propria di Maurizio Rebuzzini
COLLABORATO
Pino Bertelli Antonio Bordoni Franco Canziani Giulia Ferrari Lello Piazza Piero Raffaelli Franco Sergio Rebosio Ciro Rebuzzini Filippo Rebuzzini Giuliana Scimé Pio Tarantini
54
60 Canto della memoria
● A garanzia degli abbonati, nel caso la pubblicazione sia pervenuta in spedizione gratuita o a pagamento, l’Editore garantisce la massima riservatezza dei dati forniti dagli abbonati e in suo possesso, fatto diritto, in ogni caso, per l’interessato di richiederne gratuitamente la rettifica o la cancellazione ai sensi della legge 675/96. ● FOTOgraphia Abbonamento 12 numeri 65,00 euro. Abbonamento annuale per l’estero, via ordinaria 130,00 euro; via aerea: Europa 150,00 euro, America, Asia, Africa 200,00 euro, gli altri paesi 230,00 euro. Versamenti: assegno bancario non trasferibile intestato a Graphia srl Milano; vaglia postale a Graphia srl - PT Milano Isola; su Ccp n. 28219202 intestato a Graphia srl, via Zuretti 2a, 20125 Milano; addebiti su carte di credito CartaSì, Visa, MasterCard. ● Nessuna maggiorazione è applicata per i numeri arretrati. ● È consentita la riproduzione di testi e fotografie, magari citando la fonte (ma non è indispensabile, né obbligatorio farlo). ● Manoscritti e fotografie non richiesti non saranno restituiti; l’Editore non è responsabile di eventuali danneggiamenti o smarrimenti. Fotocomposizione DTP e selezioni litografiche: Rouge, Milano Stampa: Arti Grafiche Salea, Milano
Ricerca espressiva di Pio Tarantini. Storia di vita
Rivista associata a TIPA
62 Maestri all’asta Ventidue giugno: Asta al Curry, benefica a sostegno dei progetti e dell’attività dell’Associazione Pyari Onlus
64 Lisetta Carmi Sguardo sulla luce e la grazia (della fotografia) di Pino Bertelli
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www.tipa.com
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1839-2009
la finestra di Gras Dalla Relazione di Macedonio Melloni 2009.unaRicordando pagina, una illustrazione alla svolta di Akio Morita
Come dire, dal dagherrotipo all’acquisizione digitale di immagini. E consecuzioni
1839. Dal sette gennaio al dodici novembre sedici pagine, tre illustrazioni
Tappe fondamentali, che si sono proiettate sul linguaggio e l’espressività, con quanto ne è conseguito e ancora consegue Relazione attorno al dagherrotipo diciotto pagine, tre illustrazioni
1839. Fotogenico disegno dieci pagine, quattro illustrazioni
1888. Box Kodak, la prima diciotto pagine, quarantacinque illustrazioni
1913-1925. L’esposimetro di Oskar Barnack ventiquattro pagine, cinquantotto illustrazioni
1947 (1948). Ed è fotografia, subito ventiquattro pagine, sessantadue illustrazioni
1981. La svolta di Akio Morita dodici pagine, ventisei illustrazioni
• centosessanta pagine • nove capitoli in consecuzione più quattro, tre prima e uno dopo • duecentosessantatré illustrazioni 1839-2009 Dalla Relazione di Macedonio Melloni alla svolta di Akio Morita di Maurizio Rebuzzini Prefazione di Giuliana Scimé 160 pagine 15x21cm 24,00 euro
F O T O G R A P H I A L I B R I Graphia srl • via Zuretti 2a - 20125 Milano 02-66713604 • graphia@tin.it
2009. Io sorrido, lui neanche un cenno dieci pagine, ventisette illustrazioni
Le paternità sono ormai certe otto pagine, tredici illustrazioni
2009. Alla fin fine cinque pagine, quindici illustrazioni
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editoriale ARCHIVIO FOTOGRAPHIA
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rancamente, a volte bisogna approfondire i termini espressivi della fotografia, che stanno in equilibrio precario tra lo spessore e valore del soggetto originario e la sua rappresentazione, attraverso la raffigurazione. Su questo stesso numero, da pagina 54, presentiamo una avvincente monografia del fotografo statunitense Neil Leifer, sul baseball, illustrata con fotografie addirittura appassionanti: per se stesse, e ancora di più per chi (io, tra questi) possiede i connotati di decifrazione dello specifico gesto atletico. Anche soltanto riferendoci a questa raccolta, che usiamo utilitaristicamente, estendendone in avanti le considerazioni, la domanda è latente: si tratta di belle fotografie (non banalmente, fotografie belle) perché i soggetti sono originariamente belli? Oppure, è stato bravo il fotografo a sottolineare ciò che merita attenzione, evidenziandolo nel modo nel quale la può ricevere (l’attenzione dell’osservatore)? Ovviamente, non c’è una regola assoluta: espressione creativa, quantomeno, la fotografia non dipende da formule matematiche certe e inviolabili, ma presuppone infinite sfumature. Dunque, c’è spazio e tempo per considerazioni individuali. Sì, Neil Leifer è un bravo fotografo di sport, come certifica la sua luminosa carriera; altrettanto sì, i suoi momenti di baseball riguardano la massima espressione di questo sport, interpretato da giocatori di alto profilo. La combinazione è pertinente e approda a risultati superlativi. Teoricamente, la bellezza del soggetto aiuta. Lo affermo con cognizione di causa, pensando a molti ritratti fotograficamente modesti, così li considero, che però raffigurano personaggi straordinari, del mondo culturale, come di quello sociale: brutto ritratto, possiamo pensare; sì, però è James Joyce! E tanto può bastare, a volte. In contraltare, per rendere accattivante un soggetto brutto, il fotografo deve impegnare tutte le proprie capacità e tutto il proprio talento. Particolarmente vera in campo professionale, soprattutto della fotografia pubblicitaria, questa condizione si può riferire alla fotografia nel proprio insieme. Ora, usiamo ancora il baseball come richiamo e riferimento. La qualità estetica delle fotografie di Neil Leifer si allinea a quella di un fantastico servizio pubblicato da National Geographic, nell’aprile 1991. William Albert Allard non ha fotografato il baseball delle stelle, ma quello delle leghe minori: campi da gioco spelacchiati, spalti semideserti, divise rattoppate, spogliatoi improvvisati. Eppure: fotografie emozionanti e coinvolgenti. Uno: perché, comunque vada, la fotografia mette ordine nel disordine. Due: perché la fotografia è un linguaggio declinato con consapevolezza e volontarietà. Niente mai di oggettivo, ma sempre mediazione di un autore, che rivela secondo proprie intenzioni pre-concette. Ed è questo il grande valore della fotografia, che dipende e si basa su soggettività, da cogliere e decifrare. Una volta ancora, mai una di troppo: in relazione a inevitabili condizioni di etica e morale. Propria. Maurizio Rebuzzini
National Geographic, aprile 1991. Servizio centrale e copertina sul baseball delle leghe minori. Le fotografie di William Albert Allard sono emozionanti e coinvolgenti, per certi versi tanto quanto quelle sul baseball di vertice, fotografato da Neil Leifer, e raccolto in monografia (su questo numero, da pagina 54). La fotografia è un linguaggio declinato con consapevolezza e volontarietà. Niente mai di oggettivo, ma sempre mediazione di un autore, che rivela secondo proprie intenzioni pre-concette. Ancora: etica e morale.
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Testimonianza di Giuliana Scimé
ONORE
N
Nicoletta e Peppino Giovenzana mi hanno scritto una bellissima lettera, così intima di sentimenti e delicata che sarebbe violazione pubblicarla per intero. Riporto solo una piccola parte: «... dietro c’è l’essere escluso da un mondo di affascinante tecnologia, di incontri, soprattutto di incontri con le immagini fotografiche spesso attraenti, sempre rivelatrici di aspetti di vita e di luoghi che l’occhio non ha visto bene. Il negozio è un palcoscenico sul quale ogni giorno interpreti la verità tecnologica e condividi l’emozione delle immagini fotografiche. Dal minilab escono strisce chilometriche di fotografie che ti arricchiscono, ti informano, ti aprono al dialogo
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AI
GIOVENZANA
con la clientela della cui vita già conosci alcuni dati essenziali e inequivocabilmente veri. «Questo non è un lavoro, ma una continua gratificazione». Il glorioso negozio Giovenzana ha chiuso, una storia brutta e triste che ha un risvolto egoistico per tutti coloro che lo frequentavano: il punto d’incontro non c’è più. Con questa lettera, Nicoletta e Peppino Giovenzana hanno voluto esprimere il loro ringraziamento per un mio articolo che fu pubblicato sul Corriere della Sera in occasione di una mostra del ciclo Images on the Road, un’iniziativa particolare: fotografie esposte nelle vetrine del negozio che ogni
passante poteva apprezzare. Io non fatto nulla, il mio dovere di critico/giornalista che ha il privilegio di scrivere per la testata più prestigiosa d’Italia, e una delle più prestigiose internazionali. E come prezioso dono ho ricevuto questa lettera dalla quale emergono una serie infinita di considerazioni. Moltissimi hanno approfittato della generosità, meglio di quella unicità gioiosa e spontanea nel donare senza chiedere nulla in cambio che caratterizza i Giovenzana. Non discutiamo di quei “moltissimi” che non soffriranno per la mancanza di un punto d’incontro, ma soffriranno per la mancanza di beni materiali. Mettiamo a fuoco, invece, come i Giovenzana hanno vissuto il loro lavoro, e credo che veramente pochi possano considerare il lavoro non lavoro, ma “gratificazione”, quasi fosse un favore del Cielo. Cosa soprattutto affligge i Giovenzana per la perdita del negozio? «... l’essere escluso da un mondo ... l’emozione delle immagini fotografiche ... strisce chilometriche di fotografie che ti arricchiscono, ti informano, ti aprono al dialogo ...». Li affligge la “perdita” dell’immagine. La fotografia che bella o brutta (e si spera bella), comunque, è regalo costante che tiene vivi e vivaci, la mente ed il corpo. Non so come esprimermi. La fotografia ci tiene legati al tempo, non al tempo che passa e odio tutti coloro che la definiscono “momento di morte”, al contrario: il personaggio, anonimo che sia, il luogo... rimangono impressi per sempre in una vita che non può morire mai. È il tempo dell’attualità che ogni secondo è attuale in un rinnovarsi senza sosta. Non mi riferisco soltanto al fotogiornalismo che produce eventi e fatti, mi riferisco a tutta la fo-
tografia. E non importa che sia datata - abbigliamento, monumenti scomparsi o degradati, luoghi che hanno cambiato volto... denunciano l’età. È guardare, prendere coscienza ed assorbire quali vampiri immortali, nutrirsi di immagini/cibo, conoscere e capire, e tutta la gamma delle interiori pulsioni. Vi siete mai chiesti perché i fotografi, e tutti coloro che ruotano nel mondo della fotografia, sono fra i più longevi nelle arti? Ogni secondo assorbono linfa vitale. ❖
Va annotato: il negozio di Giovenzana, in largo Augusto, a Milano, uno dei riferimenti privilegiati del commercio fotografico italiano, è stato chiuso nelle settimane precedenti lo scorso Natale da coloro i quali hanno preso in mano le redini di un’attività pluridecennale. La vicenda aziendale è complessa, e non entro in merito: ci sono ragioni e responsabilità. Ognuno si faccia carico delle proprie. Personalmente, rilevo un aspetto trasversale, complementare: le persone. Indipendentemente dalle ufficialità che stanno impegnando una controversa situazione, Nicoletta e Giuseppe Giovenzana, Peppino nel quotidiano, sono stati abbandonati a se stessi, privati della dignità che spetta a ciascuno. Diavolo! In televisione assistiamo ad autodifese di personaggi coinvolti in turpi questioni (certe e accertate), ai quali si dà tempo e modo di dire la propria, e i Giovenzana debbono stare con se stessi, perché il mondo della fotografia li ha emarginati, a partire da coloro i quali (e sono tanti) hanno tratto consistenti benefici dalla loro generosità: non mi riferisco al mondo commerciale, che persegue proprie regole, ma a quello di contorno, che dovrebbe seguire altri parametri. Individualmente, io sono tra i pochi che li frequentano e ascoltano le loro ragioni: che paiono essere giusto tali, ragioni. Non me ne faccio bandiera, né vanto: soltanto, constato. Dunque, sono in posizione adeguata per confermare, una volta di più, mai una di troppo, il nostro personale dovere di essere trasparenti e diretti. Perché soltanto così di può dare prima di ricevere, essere e non soltanto M.R. convenire (in convenienza).
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foto Massimiliano Montani
I AM THE FIRST CHOICE
I AM Per la maggior parte dei fotografi la prima scelta in tema di ottiche ha un solo nome: Nikkor. Solo noi siamo progettate appositamente per gli apparecchi Nikon di oggi e di domani. Siamo sinonimo di qualità ottica, siamo fatti con materie prime eccellenti attraverso procedimenti avanzati e tecniche progettuali sofisticate. Abbiamo infatti incorporato un microprocessore che, in abbinamento al sistema computerizzato del corpo camera Nikon AF, consente lo scambio delle informazioni che assicurano una messa a fuoco rapidissima, la misurazione Matrix dell’esposizione, il fill-flash bilanciato e le altre innovazioni funzionali che caratterizzano le reflex Nikon. Obiettivi Nikkor: gli unici a permetterti di sfruttare al massimo le potenzialità della tua reflex Nikon.
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Notizie a cura di Antonio Bordoni
PENTAX DAY 2010. Appuntamento per gli appassionati Pentax, e non solo per loro, sia chiaro: domenica sei giugno al Lingotto, di Torino, per la quindicesima edizione dell’annuale Pentax Day. Organizzata da Fowa, distributore del marchio, e dall’autorevole Asahi Optical Historical Club, l’avvincente manifestazione fa tappa in una sede ampia, prestigiosa e facile da raggiungere: Camplus City Heart Lingotto Torino, all’interno del complesso del Lingotto, in via Nizza 230 (8Gallery, Rampa Nord, quarto piano), dalle 9,30 alle 18,30. Come tradizione, anche questa edizione del Pentax Day combina la convention annuale del Club, incentrata soprattutto sull’approfondimento di aspetti storici della produzione del prestigioso marchio giapponese, con la presentazione dell’attualità tecnico-commerciale e delle novità Pentax, curata da Fowa. Quindi, tanta contemporaneità tecnologica accompagna un’ampia esposizione di pezzi storici e rarità, che quest’anno approfondisce i temi legati al consistente sistema ottico Takumar e Pentax. Storia: fondata nel 1919, da Kumao Kajiwara, con la denominazione originaria Asahi Kogaku Goshi Kaisha, Pentax è nata come fabbricante di obiettivi, e nel corso della sua lunga evoluzione ha portato innovazioni fondamentali nell’interpretazione fotografica, a partire dal trattamento multistrato antiriflesso SMC (Super Multi Coated), antesignano
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delle attuali finiture delle lenti. Nel 1952, Pentax è stata anche la prima azienda giapponese a proporre un proprio sistema reflex a obiettivi intercambiabili, e da allora non ha mai interrotto questo tragitto di ricerca e passione. L’esposizione storica del Pentax Day 2010, che il Club definisce Museo del giorno, include pezzi di assoluto pregio e rarità, ben difficili da vedere in altre circostanze. In abbinamento, come già rilevato, le reflex stabilizzate K-7 (14,6 Megapixel con mirino al cento percento, tenuta a polvere e infiltrazioni, livella automatica, otturatore silenzioso, esposimetro a settantasette aree e molto altro ancora) e K-x (dodici Megapixel e straordinaria resa alle alte sensibilità); quindi, il sistema di obiettivi SMC Pentax-DA Star SDM, con motore di messa a fuoco ad ultrasuoni e i raffinati obiettivi DA Limited, definiti da focali fisse, estrema compattezza e pregiata costruzione metallica. Il programma della manifestazione è pubblicato sul sito http:// www.aohc.it/pentaxday/index.htm. (Asahi Optical Historical Club, Dario Bonazza, via Badiali 138, 48100 Ravenna; www.aohc.it, info@aohc.it / Fowa, via Tabacchi 29, 10132 Torino).
UNIVERSALE STANDARD. Dotato del sistema di stabilizzazione OS, tecnologia proprietaria, il nuovo Sigma 17-50mm f/2,8 EX DC OS HSM è uno zoom standard di generosa apertura relativa, progettato per le reflex di ultima generazione. È definito da una costruzione sostanzialmente compatta, con ingombro totale contenuto entro 91,8mm di lunghezza. L’apertu-
ra relativa f/2,8 si mantiene costante a tutte le selezioni focali, dall’inquadratura grandangolare 17mm al 50mm, da 72,4 a 27,9 gradi di angolo di campo. Quindi, il sistema di stabilizzazione OS (Optical Stabilizer) permette di scattare con tempi di otturazione circa quattro volte più lunghi delle condizioni senza stabilizzazione; può essere usato anche con le reflex Sony e Pentax, che già presentano e offrono al proprio interno un sistema di stabilizzazione autonoma. L’effetto del sistema anti vibrazioni è visibile direttamente nel mirino, così che ci si può rendere conto dell’avvenuta stabilizzazione e procedere a una accurata messa a fuoco del soggetto inquadrato. Nel disegno ottico di diciassette elementi divisi in tredici gruppi, due lenti in vetro ottico a basso indice di dispersione FLD (“F” Low Dispersion) offrono risultati analoghi a quelli propri e caratteristici di lenti alla fluorite; inoltre, due lenti in vetro ottico e una ibrida, tutte asferiche, correggono in misura ottimale ogni ulteriore aberrazione ottica residua. Il rivestimento Super Multi Strato riduce il flare e le immagini fantasma. Così che, lo zoom Sigma 17-50mm f/2,8 EX DC OS HSM offre un contrasto periferico migliorato e produce immagini molto definite e contrastate, anche alle massime aperture di diaframma. Il motore ipersonico HSM incorporato provvede a una messa a fuoco AF veloce e silenziosa; è sempre possibile il passaggio immediato alla messa a fuoco manuale. Alla distanza minima di accomodamento di 28cm, a tutte le focali, corrisponde un rapporto di ingrandimento massimo di 1:5. Il sistema di messa a fuoco interna elimina la rotazione della lente frontale, permettendo di utilizzare accessori meccanici e ottici direzionali, come il paraluce a petali e il polarizzatore circolare. In montatura per reflex Canon Eos, Nikon, Pentax, Sigma e Sony, con sensore di acquisizione digitale in formato APSC. (M.Trading, via Cesare Pavese 31, 20090 Opera Zerbo MI).
A VOLTE, TORNANO. Kodak riafferma i princìpi e valori della fotografia grande formato (evviva!), presentando al mercato due sostanziose confezioni 4x5 e 8x10 pollici (10,2x12,7 e 20,4x 25,4cm), del performante negativo colore Professional Ektar 100. Così anche chi utilizza (ancora) pellicola piana ha a disposizione la grana più fine al mondo, fino a ieri disponibile nei formati 35mm e rullo 120. Come sottolineato nell’ambito dei prestigiosi TIPA Award 2009 (FOTOgraphia, maggio 2009), quando l’emulsione si aggiudicò il premio come Migliore pellicola, «Kodak Professional Ektar 100 non è solo un’altra pellicola negativa a colori di 100 Iso di sensibilità. Nei formati 35mm e rullo 120, Ektar 100 è un nuovo tipo di pellicola che incorpora Kodak Vision, tecnologia di provenienza cinematografica, per fornire grana ultrafine, saturazione elevata, colori ultra-brillanti e ingrandimenti migliori sia in stampa sia in scansione». Dunque, si propone come scelta ideale per la fotografia naturalistica, di viaggio, di moda e di still life, nelle quali l’enfasi è spesso posta sui colori e sui dettagli. Il negativo colore Kodak Professional Ektar 100 si caratterizza per alta saturazione e colori ultra-vividi e incorpora la Kodak Vision Motion Picture Film Technology, che consente di ottenere una grana fine ineguagliabile. (Kodak, viale Matteotti 62, 20092 Cinisello Balsamo MI). ❖
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Cinema
di Maurizio Rebuzzini - Ricerca iconografica di Filippo Rebuzzini
IL TEMPO. IL TEMPO Autentico cult, Smoke (di Wayne Wang; Usa, 1995) è un film nel quale il racconto lineare ha ceduto il posto a una serie di situazioni che hanno come epicentro una tabaccheria di Brooklyn, nella quale i clienti riflettono e filosofeggiano, a partire dall’elogio del fumo.
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Film statunitense girato nel 1994, e arrivato nelle sale l’anno dopo, Smoke è presto diventato uno dei cult della cinematografia internazionale. Non si tratta di un racconto lineare, ma di situazioni concatenate che hanno come epicentro una tabaccheria di Brooklyn, nella quale i clienti riflettono e filosofeggiano, a partire dall’elogio del fumo: «Una volta fumavo, le sigarette Raleigh. In ogni pacchetto c’era un buono regalo»; «Proprio lui. Beh, [Sir Walter] Raleigh è quello che ha introdotto il tabacco in Inghilterra, e poiché era un favorito della regina -la chiamava Bessil fumo a corte diventò subito di moda. Sono sicuro che la vecchia Bess s’è fumata qualche sigaro con lui». La genesi e il percorso creativo della sceneggiatura e del “girato” di Smoke sono unici nel panorama della narrazione visiva contemporanea. Prima di arrivare all’esplicito riferimento alla fotografia, che è il nostro punto di vi-
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sta privilegiato, vale la pena ricordarli. Il 25 dicembre 1990, il New York Times pubblicò un racconto natalizio che aveva commissionato a Paul Auster (1947), già autore di sei romanzi. Il racconto di Natale di Auggie Wren (che abbiamo pubblicato in FOTOgraphia del dicembre 1999 e replichiamo ancora su questo numero, immediatamente a seguire queste note) è presentato in forma narrativa da uno scrittore, che lo riferisce a un tabaccaio di Brooklyn, nella zona di Park Slope (dove Paul Auster vive da tempo), con l’hobby della fotografia: cominciamo ad avvicinarci. Il regista Wayne Wang, che aveva già firmato Slamdance (1987), Il delitto di mezzanotte (1987) e Mangia una tazza di tè (1989), lesse il racconto e chiese allo scrittore di trasformare l’idea in sceneggiatura cinematografica. Attorno al mondo della tabaccheria The Brooklyn Cigar Co, appena abbozzato nel rac-
Interno dell’appartamento di Auggie Wren: Auggie e Paul sono seduti al tavolo di cucina e guardano gli album fotografici di Auggie. Quattordici album, identificati dall’anno, dal 1977 al 1990.
Lo scrittore Paul Benjamin (interpretato dall’attore William Hurt) arriva alla tabaccheria The Brooklyn Cigar Co all’ora di chiusura. Sul banco, intravede una macchina fotografica vicino al registratore di cassa (la reflex Canon AE-1, coprotagonista di Smoke). Dialoga con il tabaccaio Auggie Wren (Harvey Keitel), che lo invita a vedere le sue fotografie.
conto natalizio, fu costruita una vera e propria socialità newyorkese, che ha dato vita anche a un seguito, che va subito precisato. Alla fine delle riprese di Smoke, la troupe si era tanto affezionata al set da fermarsi per un’altra sceneggiatura estemporanea, in una certa misura consequenziale. Si sono aggiunte partecipazioni volontarie, così si dice, ed è nato Blue in the Face: dialoghi e monologhi riguardanti soprattutto Brooklyn, siparietti, interviste e giochi in libertà, ai quali danno ulteriore corpo, tra gli altri, il cantante Lou Reed, la star Madonna e gli attori Michael J. Fox e Lily Tomlin. Ma questa, come spesso si dice, è un’altra storia. Allungandosi dal Racconto di Natale, il cinematografico Smoke è la storia dell’amicizia tra uno scrittore in crisi di ispirazione (Paul Benjamin, interpretato da William Hurt) e un tabaccaio di Brooklyn con l’hobby del-
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Cinema la fotografia (sullo schermo, un fantastico Harvey Keitel, nella parte di Auggie Wren, che nella prima scena del film, dietro il banco, sfoglia proprio una rivista di fotografia). Già nel Racconto fa capolino una macchina fotografica, nel film una reflex Canon AE-1, che alla resa dei conti occupa una posizione di prestigio nella sceneggiatura. In uno dei quadri di Smoke, Paul Benjamin arriva alla tabaccheria The Brooklyn Cigar Co, attorno la quale ruota l’intera vicenda (e all’interno della quale si svolgono i dialoghi del conseguente Blue in the Face), all’ora di chiusura, mentre Auggie Wren sta abbassando la saracinesca. Insieme, rientrano nel locale, e Paul Benjamin intravede una macchina fotografica vicino al registratore di cassa (appunto la reflex Canon AE-1) [pagina accanto, in basso]. Dalla sceneggiatura. Paul: Sembra che qualcuno abbia dimenticato una macchina fotografica. Auggie [voltandosi]: Sì, io. Paul: È tua? Auggie: Sì, è un aggeggio che ho da un sacco di tempo.
«Sono tutte uguali», afferma Paul Benjamin. «Esatto. Più di quattromila foto[grafie] dello stesso posto, alle otto in punto del mattino», risponde Auggie Wren, che aggiunge: «Non capirai mai se non rallenti, mio caro. Il posto è lo stesso, ma ogni foto[grafia] è diversa dall’altra. Ci sono mattine col sole e quelle con le nuvole, c’è la luce estiva e quella autunnale. Ci sono i giorni feriali e quelli festivi. C’è la gente con cappotto e stivali e la gente in calzoncini e maglietta. Qualche volta, la gente è la stessa; qualche volta, è diversa. E talvolta, la gente diversa diventa la stessa; mentre quella di prima scompare. La Terra gira intorno al sole e ogni giorno la luce del sole colpisce la Terra con un’inclinazione diversa». Ovvero: «Sai com’è: domani e domani e domani, il tempo scorre a piccoli passi».
Primo piano cinematografico delle pagine degli album di Auggie Wren, con (sei) quattro fotografie in bianconero dello stesso luogo: l’angolo tra la Terza Strada e la Settima Avenue, dove c’è la tabaccheria The Brooklyn Cigar Co, alle otto del mattino. Nell’angolo in basso a sinistra di ogni stampa c’è una piccola etichetta bianca con la data: all’americana, mese, giorno e anno.
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Cinema
Paul: Non sapevo che facessi fotografie. Auggie [porgendo i sigari a Paul]: Penso che si possa chiamare un hobby. Non mi prende più di cinque minuti, ma lo pratico ogni giorno. Con la pioggia o col sole, con la neve o col vento. Un po’ come i postini. [Pausa] Qualche volta, ho l’impressione che l’hobby sia il mio vero lavoro e che il lavoro serva solo a pagarmi l’hobby. Paul: Quindi, non sei soltanto uno che passa i giorni qui dentro a dare il resto. Auggie: Questo è ciò che vede la gente, ma non è necessariamente ciò che io sono. Paul [guardando Auggie con occhi nuovi]: Come hai cominciato? Auggie: A far fotografie? [Sorride] È una lunga storia. Ci vorrebbero almeno due o tre bicchieri per raccontarla. Paul [annuendo]: Guarda un po’, un fotografo... Auggie: Beh, non esageriamo. Scatto fotografie. Inquadro qualcosa nel mirino e schiaccio il pulsante. Non è il caso di menarla tanto con tutte quelle cazzate sull’arte. Paul: Un giorno vorrei vedere le tue foto[grafie]. Auggie: Perché no... Dato che ho letto i tuoi libri, non vedo perché non dovrei mostrarti le mie foto[grafie]. [Pausa. Improvvisamente imbarazzato] Sarebbe un onore. A questo punto, in dissolvenza, si arriva all’interno dell’appartamento di Auggie Wren, dove Auggie e Paul sono seduti al tavolo di cucina. Il piano è interamente occupato da grandi album di fotografie con la copertina nera. In tutto sono quattordici, e
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sulla costa di ciascuno è indicata l’annata, dal 1977 al 1990. L’album del 1987 è aperto davanti a Paul. Primo piano di una pagina dell’album con sei fotografie in bianconero dello stesso luogo (nell’inquadratura cinematografica se ne vedono quattro): l’angolo tra la Terza Strada e la Settima Avenue, dove c’è la tabaccheria The Brooklyn Cigar Co, alle otto del mattino. Nell’angolo in basso a sinistra di ogni stampa c’è una piccola etichetta bianca con la data: all’americana, mese, giorno e anno [a pagina 13]. Paul volta pagina e appaiono altre sei fotografie analoghe a quelle della pagina precedente. Paul volta pagina di nuovo: stessa cosa. Un’altra pagina: stessa cosa. Ancora dalla sceneggiatura. Paul [stupefatto]: Sono tutte uguali. Auggie [sorridendo, fiero di sé]: Esatto. Più di quattromila foto[grafie] dello stesso posto: l’angolo tra la Terza Strada e la Settima Avenue, alle otto in punto del mattino. Quattromila giorni, uno dopo l’altro fotografati con ogni sorta di tempo. [Pausa] Ecco perché non posso prendermi una vacanza. Devo essere là ogni mattina. Ogni mattina, nello stesso posto, allo stesso momento [in questa pagina]. Paul [sfogliando l’album e scuotendo ancora la testa]: Sono senza parole. Auggie [sempre sorridendo]: Non capirai mai se non rallenti, mio caro. Paul: Che vuoi dire? Auggie: Che vai troppo in fretta. Quasi non le guardi, le fotografie. Paul: Ma sono tutte uguali. Auggie: Il posto è lo stesso, ma ogni foto[grafia] è diversa dall’altra. Ci sono mattine col sole e
Auggie Wren (Harvey Keitel) è un tabaccaio di Brooklyn con l’hobby della fotografia. Ogni mattina, alle otto in punto, fotografa l’angolo della propria tabaccheria. In Smoke, presenta a Paul Benjamin (William Hurt) gli album nei quali ha raccolto quattordici anni di fotografie: «Sai com’è: domani e domani e domani, il tempo scorre a piccoli passi».
quelle con le nuvole, c’è la luce estiva e quella autunnale. Ci sono i giorni feriali e quelli festivi. C’è la gente con cappotto e stivali e la gente in calzoncini e maglietta. Qualche volta, la gente è la stessa; qualche volta, è diversa. E talvolta, la gente diversa diventa la stessa; mentre quella di prima scompare. La Terra gira intorno al sole e ogni giorno la luce del sole colpisce la Terra con un’inclinazione diversa [a pagina 13]. Paul [sollevando gli occhi dall’album e guardando Auggie]: Rallentare, eh? Auggie: Sì, questo è il mio consiglio. Sai com’è: domani e domani e domani, il tempo scorre a piccoli passi. Attenzione: questa riflessione sulla Fotografia (maiuscola!) appartiene a tempi e stagioni di sostanzioso impegno sulla stessa fotografia. Tempi e stagioni che vorremmo poter ri-vivere ancora. ❖
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Cinema Racconto di Paul Auster
DI NATALE DI AUGGIE WREN
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Questa storia me l’ha raccontata Auggie Wren. Ma Auggie, dal momento che non ci fa bella figura -o non bella come vorrebbe- mi ha chiesto di non usare il suo vero nome. A parte questo, tutta la faccenda del portafoglio perduto, della nonna cieca e della cena di Natale è la stessa che mi ha raccontato lui. Auggie e io siamo grandi amici da undici anni. Lui lavora nella vecchia Brooklyn, in una tabaccheria di Court Street dove io vado spesso, perché è l’unica tabaccheria che ha i miei sigari preferiti. Per molto tempo non gli ho prestato molta attenzione: per me, Auggie Wren era l’omino dalla felpa blu col cappuccio, quello che mi vendeva i sigari e le riviste, l’irriverente e caustico tipetto che aveva sempre la battuta pronta sul tempo, sui Mets e sui politici di Washington. Tutto finiva lì. Ma un giorno di molti anni fa, Auggie, sfogliando una rivista in negozio, s’è imbattuto nella recensione di un mio libro, e mi ha riconosciuto nella fotografia che accompagnava l’articolo. Da quel giorno, tra noi le cose sono cambiate: per Auggie non ero più un cliente qualunque, ero diventato un personaggio illustre. Molta gente mostra un’indifferenza totale per i libri e gli scrittori, ma Auggie si considera un artista e, una volta scoperto il segreto della mia identità, ha cominciato a trattarmi come un alleato, un confidente, un compagno d’armi. A dir la verità, io lo trovavo assai imbarazzante. Poi, com’era quasi inevitabile, un giorno mi ha chiesto se volevo vedere la sua collezione di fotografie. E me l’ha chiesto con tanto entusiasmo e con tanta gentilezza che non ho potuto fare a meno di accettare. Chissà cosa mi aspettavo, ma certo non quello che Auggie mi ha fatto vedere il giorno dopo.
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Dopo avermi portato in una piccola stanzetta senza finestre nel retro del negozio, Auggie ha aperto uno scatolone e ha tirato fuori dodici album identici di fotografie. Poi mi ha spiegato che quello era il lavoro di una vita. Non gli prendeva più di cinque minuti al giorno: ogni santo giorno degli ultimi dodici anni, Auggie s’era messo all’angolo fra Atlantic Avenue e Clinton Street alle sette in punto del mattino e aveva scattato una fotografia a colori della stessa scena. Ormai, la raccolta ammontava a più di quattromila fotografie. Ogni album era un anno, e tutte le fotografie erano ordinate in sequenza, dal Primo gennaio al trentuno dicembre. Sotto ciascuna istantanea, c’era scritta scrupolosamente la data. Mentre sfogliavo gli album esaminando le immagini, non sapevo cosa pensare. All’inizio, ho avuto l’impressione che fosse la cosa più strana e sorprendente che avessi mai visto. Tutte le fotografie erano uguali. Per me, quella raccolta era un mattone monotono e ripetitivo: la stessa strada e le stesse case all’infinito, un delirio implacabile e ridondante d’immagini. Non sapendo cosa dire, continuavo a voltare le pagine annuendo con la testa per fingere un certo gradimento. Auggie, imperturbabile, mi guardava con un largo sorriso, ma dopo alcuni minuti m’ha interrotto dicendo: - Vai troppo svelto. Se non rallenti non riuscirai mai a capire. Naturalmente, aveva ragione. Se non ci diamo il tempo di osservare, non riusciamo a vedere nulla. Allora ho preso un altro album e mi sono sforzato di stare più attento ai dettagli, di notare i cambiamenti del tempo, di osservare la diversa angolazione della luce col passare delle stagioni. Infine, sono persino riuscito a cogliere le variazioni del
traffico e a prevedere la sequenza dei giorni (il trambusto dei giorni lavorativi, la relativa immobilità dei giorni festivi, il contrasto tra il sabato e la domenica). Poi, a poco a poco, ho cominciato a riconoscere la gente che si vedeva in secondo piano, i passanti che andavano al lavoro, le stesse persone immortalate nello stesso posto dall’istantanea quotidiana di Auggie. Dopo aver imparato a riconoscere le persone, mi sono messo a studiarne il portamento, il modo di camminare nei diversi giorni, e a cercar di dedurre da quegli indizi superficiali di che umore erano, quasi potessi immaginare la loro vita e penetrare l’invisibile dramma murato nel loro corpo. Quando ho preso un altro album, non ero più annoiato e perplesso come all’inizio. Avevo capito che Auggie fotografava il tempo -sia il tempo naturale sia quello umano- e che lo faceva piazzandosi in un angolino del mondo con l’intenzione di farlo suo, montando di guardia nello spazio che si era scelto. Vedendomi assorto nell’osservazione del suo lavoro, Auggie ha continuato a sorridere compiaciuto. Poi, quasi mi avesse letto i pensieri, mi ha recitato un verso di Shakespeare. - Domani e domani e domani, ha mormorato sottovoce, - il tempo scorre a piccoli passi -. A quel punto, ho capito che sapeva perfettamente quel che faceva. Tutto questo è successo più di duemila istantanee fa. Da quel giorno, Auggie e io abbiamo discusso più volte il suo lavoro, ma è soltanto la settimana scorsa che Auggie mi ha detto come si è procurato la macchina fotografica e come ha iniziato a fare fotografie. La storia che mi ha raccontato riguarda proprio questi argomenti, e io sto ancora cercando di coglierne il significato. All’inizio della settimana scor-
sa, un editor del New York Times mi ha telefonato chiedendomi se volevo scrivere una novella da pubblicare sul quotidiano di Natale. Il mio primo impulso è stato quello di rifiutare, ma siccome la persona era molto affabile e insistente, alla fine del colloquio gli ho detto che ci avrei provato. Ma quando ho attaccato il telefono m’è venuto il panico. Che ne sapevo di Natale? Che ne sapevo di novelle scritte su commissione? Nei giorni successivi, in preda alla disperazione, ho combattuto con i fantasmi di Dickens, di O. Henry e di altri maestri dello spirito di Natale. Il solo termine “novella di Natale” evocava in me spiacevoli associazioni, che mi facevano venire in mente insopportabili effusioni di sentimentalismo ipocrita e sdolcinato. Anche nel migliore dei casi, le novelle di Natale non erano altro che sogni dorati e illusori, fiabe per adulti. Mi venisse un colpo se mi mettevo a scrivere una cosa del genere! D’altra parte, com’era possibile proporsi di scrivere una novella di Natale priva di sentimento? Era una contraddizione in termini, un rebus irrisolvibile. Era come cercare d’immaginarsi un cavallo da corsa senza gambe o un passero senz’ali. Poiché non ero venuto a capo di nulla, giovedì sono uscito a fare una lunga passeggiata nella speranza che l’aria fresca mi chiarisse le idee, e poco dopo mezzogiorno sono andato in tabaccheria a far provvista di sigari. Come al solito, dietro il banco c’era Auggie; e quando lui mi ha chiesto come andava, io, senza volerlo, mi sono trovato a confessargli i miei guai. Dopo avermi ascoltato, Auggie ha detto: - Una novella di Natale? Tutto qui? Amico mio, se mi offri il pranzo ti racconto la migliore novella di Natale che tu abbia mai
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Racconto Cinema ascoltato. E ti garantisco che è vera, da cima a fondo. Allora, siamo andati alla fine dell’isolato, da Jack’s, un posticino affollato e chiassoso dove si mangiano ottimi panini al prosciutto e dove ci sono fotografie delle vecchie squadre dei Dodgers appese al muro. Ci siamo seduti a un tavolo della sala interna, abbiamo ordinato da mangiare, e a quel punto Auggie è partito in quarta. Ecco il suo racconto. Era l’estate del Settantadue. Un bel mattino, un giovanotto sui diciannove o vent’anni entra in negozio e si mette a rubare qua e là. Un ladruncolo più patetico di quello non s’era mai visto. Defilandosi accanto all’espositore dei giornali nell’angolo più distante, il ragazzo si riempiva di libri le tasche dell’impermeabile. In quel momento al banco c’era gente, e quindi non lo vedevo, ma appena l’ho individuato mi sono messo a gridare. Lui è fuggito come una lepre, e quando io sono riuscito a schizzare fuori dal banco era già arrivato in Atlantic Avenue. L’ho rincorso per mezzo isolato, ma poi ho smesso, perché ero scoppiato. E siccome al ragazzo in fuga era caduto qualcosa per terra, mi sono chinato a vedere cos’era. Era il suo portafogli. Non c’erano soldi, ma oltre alla patente c’erano tre o quattro fotografie. Avrei potuto chiamare la polizia e farlo arrestare -sulla patente c’erano nome e indirizzo-, ma non me la sono sentita. Era un povero teppistello, e quando ho guardato le fotografie non sono riuscito a incazzarmi. Si chiamava Robert Goodwin. Ricordo che in una foto aveva il braccio sulla spalla della madre o della nonna, in un’altra aveva nove o dieci anni, un gran sorriso in faccia ed era vestito da giocatore di baseball. Non me la sono proprio sentita. Probabilmente, ormai era drogato. Un miserabile ragazzotto di Brooklyn senza arte né parte... che me ne fregava in fondo di due tascabili da quattro soldi? Così, ho tenuto il portafogli. Ogni tanto mi veniva l’impulso
di spedirglielo, ma poi rimandavo sempre e non mi decidevo mai. A un certo punto è arrivato Natale, e io mi sono trovato solo senza compagnia. Di solito il capo m’invitava a casa sua, ma quell’anno lui e la moglie erano andati dai parenti in Florida. Così, quella mattina, mentre ero seduto in casa un poco depresso, ho visto il portafogli di Robert Goodwin su un ripiano della cucina e mi sono detto: “Che diavolo, perché non fare una buona azione ogni tanto?”. Così, mi sono infilato il cappotto e sono partito per restituire il portafogli di persona. L’indirizzo era nel quartiere popolare di Boerum Hill. Quel giorno faceva un freddo cane. Ricordo d’essermi perduto più volte, prima di trovare la casa giusta. Da quelle parti sembra tutto uguale e si continua a girare in tondo nello stesso posto convinti di essere altrove. Insomma, alla fine arrivo all’appartamento che cerco e suono il campanello. Silenzio assoluto. Penso che non ci sia nessuno, ma riprovo per esser sicuro. Aspetto un altro po’, e mentre sto per andarmene sento arrivare qualcuno che strascica i piedi. - Chi è? -, chiede la voce di una vecchia. Io rispondo che sto cercando Robert Goodwin. - Sei tu, Robert? -, dice la vecchia. Poi sento sbloccare un dozzina di serrature e vedo aprirsi la porta. La vecchina ha perlomeno ottant’anni, forse novanta, e immediatamente mi accorgo che è cieca. - Sapevo che saresti venuto, Robert, sapevo che non avresti dimenticato nonna Ethel a Natale, - dice lei, e si fa avanti con le braccia aperte. Non c’era molto tempo per pensare, capisci, dovevo dire qualcosa alla svelta. Così, prima di rendermene conto, ho risposto: - Sì, nonna Ethel, sono venuto a trovarti perché è Natale -. Non chiedermi perché l’ho fatto, non ne ho la più pallida idea. Forse non volevo deluderla, non so. Mi è venuta così. Ed eccomi lì a ricambiare il suo abbraccio sulla porta.
Non le ho detto che ero il nipote, non in maniera esplicita, perlomeno, ma era implicito. Però, non volevo imbrogliarla, era un gioco che entrambi avevamo deciso di giocare senza discutere le regole. Voglio dire, quella donna sapeva che io non ero il nipote. Era vecchia e svanita, ma non al punto da non accorgersi della differenza tra un estraneo e la carne della sua carne. Tuttavia, era felice di fingere, e siccome io non avevo niente di meglio da fare, ero contento di reggere la parte. Così, siamo entrati in casa e abbiamo passato la giornata insieme. Per inciso, l’appartamento era una topaia, ma che altro ci si poteva aspettare da una cieca che doveva fare le pulizie da sola? Ogni volta che mi chiedeva qualcosa sulla mia vita io le mentivo. Le dicevo che avevo trovato un buon lavoro in una tabaccheria e che stavo per sposarmi, le raccontavo varie storielle e lei faceva finta di credere a tutto. Mi fa piacere, Robert, - diceva annuendo e sorridendo, - l’ho sempre detto che prima o poi le cose si sarebbero aggiustate... Insomma, dopo un po’ mi viene una gran fame, e poiché ho l’impressione che in casa non ci sia granché, vado al negozio più vicino e compro un sacco di roba: pollo allo spiedo, minestrone, insalata di patate, torta al cioccolato e così via. Ethel ha due bottiglie di vino tenute da parte in camera da letto, e così fra tutti e due riusciamo a mettere insieme una discreta cenetta di Natale. Ricordo che a forza di bere vino siamo diventati un po’ brilli: così, quando abbiamo finito di mangiare, siamo andati a metterci più comodi in salotto. Siccome mi scappava la pipì, ho chiesto scusa e sono andato al gabinetto. A quel punto, le cose hanno preso una piega completamente diversa. Era già abbastanza pazzesco fare la scena di essere il nipote di Ethel, ma quel che ho fatto dopo è stata una follia che non mi potrò mai perdonare.
Appena sono entrato in gabinetto, ho visto sei o sette macchine fotografiche accatastate contro il muro accanto alla doccia. Erano macchine trentacinque millimetri nuove di zecca e di buona marca, ancora confezionate nella scatola. Ho immaginato che fossero di Robert, quello vero, e che fossero il bottino di un colpo recente. Non avevo mai scattato una fotografia in vita mia, né avevo mai rubato nulla, ma quando ho visto quelle macchine in bagno mi è venuto di prenderne una. Così, senza motivo. E senza pensarci due volte, ne ho presa una e sono tornato in salotto. Benché fossi stato in gabinetto pochi minuti, nonna Ethel s’era addormentata in poltrona. Troppo Chianti, probabilmente. Fatto sta che, mentre lei dorme di gusto come un bambino, io vado in cucina a lavare i piatti e poi, pensando che fosse inutile svegliarla, decido di tornare a casa. Non potendo nemmeno lasciarle un biglietto di addio perché è cieca, metto il portafogli del nipote sul tavolo, prendo la macchina fotografica e me la svigno alla chetichella. Fine della storia. - Non sei più tornato a trovarla? - Una volta, tre o quattro mesi dopo. Mi sentivo così turbato per il furto della macchina fotografica che non avevo il coraggio di usarla. Perciò, alla fine ho deciso di restituirla, ma nonna Ethel non abitava più là. Non so che fine abbia fatto. Al suo posto c’era un altro inquilino che non mi ha saputo dire dov’era. - Probabilmente era morta. - Sì, probabilmente. - Questo significa che aveva passato l’ultimo Natale con te. - Suppongo di sì. Non ci avevo mai pensato. - Hai fatto bene, Auggie, è stato un bel gesto verso quella vecchietta. - Le ho mentito e l’ho derubata. Non vedo come si possa chiamare una buona azione. - L’hai resa felice. E la mac-
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Racconto china fotografica era comunque rubata: in realtà non apparteneva a chi l’hai presa. - Per l’arte tutto è lecito, eh, Paul? - Non la metterei così, però tu almeno hai fatto buon uso di quella macchina. - Ecco, adesso la novella di Natale ce l’hai, vero? - Sì, - ho risposto - penso di sì. Vedendo Auggie sorridere malizioso con una luce misteriosa e intimamente compiaciuta negli occhi, m’è sorto il dubbio che la storia fosse tutta inventata, ma al momento di chiedergli se mi avesse preso in giro ho capito che non me l’avrebbe mai detto. Era riuscito a farsi prendere sul serio, e quella era l’unica cosa che contava. Nessuna storia è falsa, finché una sola persona ci crede. - Sei grande, Auggie, - gli ho detto. - Grazie per l’aiuto, è sta-
to prezioso. - Non c’è di che, - mi ha risposto lui continuando a guardarmi con quella strana luce folle negli occhi. - D’altra parte, se non potessi confessarti un segreto che amico saresti? - Ti devo un grande favore. - Figurati. Scrivila come te l’ho raccontata e non mi devi un bel niente. - Salvo il pranzo. - Certo, salvo il pranzo. Ricambiando il sorriso di Auggie con un sorriso, ho chiamato il cameriere e ho chiesto il conto. ❖ Dal New York Times del 25 dicembre 1990. Il racconto è inserito anche nella sceneggiatura di Smoke [che commentiamo da pagina 12], regia di Wayne Wang; Usa, 1995 (pubblicata in Italia da Einaudi, nel 1995). Una versione illustrata del racconto è stata pubblicata in Italia da Federico Motta Editore, nel 1998.
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Ici Bla Bla a cura di Lello Piazza
Questa rubrica riporta notizie che sono appartenute alla cronaca. Però, nel loro richiamo e riferimento molti motivi ci impediscono di essere tempestivi quanto la cronaca richiederebbe. Ciononostante riteniamo giusto proporle, perché siamo convinti che non abbiano perso la propria attualità, e continuino a offrire spunti di riflessione.
STEVE McCURRY. La Repubblica del diciassette marzo esce con un trafiletto, segnalando che i visitatori della mostra di Steve McCurry (della quale ho parlato con ammirazione lo scorso marzo) sono arrivati a centoventimila. Per quanto breve, l’articolo contiene un paio di passaggi da sottolineare. Il primo riguarda l’imprecisione con la quale si riportano le vittorie di Steve McCurry al World Press Photo, una imprecisione che non riguarda solo Repubblica ma moltissimi giornali, dove spesso chi scrive di fotografia non sa nemmeno cosa sia il World Press Photo e attinge informazioni dai comunicati stampa di chi organizza la mostra, spesso altrettanto imprecisi. Dire che Steve McCurry ha vinto due volte il World Press non significa nulla. Se qualcosa si dovrebbe intuire, sarebbe che per due volte è stato nominato fotografo dell’anno, cioè il massimo tra i riconoscimenti assegnati nella competizione. Ma non è così. Steve McCurry non è mai stato eletto fotografo dell’anno, anche se ha raggiunto un traguardo da nessun altro mai raggiunto, quello di vincere quattro primi premi di categoria nella stessa edizione, con altrettanti quattro reportage diversi. Era il 1984, e Steve McCurry vinse in: Daily Life Single (con una fotografia riguardante i rifugiati in Pakistan in fuga dall’Afghanistan invaso dai russi), Daily Life Stories (con un straordinario reportage sui treni indiani), Nature Single (con un’immagine di tempesta di sabbia nel deserto indiano del Rajastan) e Nature Stories (con un altro avvincente reportage sui monsoni, sempre in India). Quindi, Steve McCurry è stato premiato di nuovo al World Press Photo nel 1991, con tre primi premi, nelle categorie General News Stories (reportage sulla prima guerra del Gol-
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Haltadefinizione, marchio della società novarese HAL9000, ha messo in Rete, consultabili gratuitamente, una serie di icone della storia dell’arte figurativa, come l’ Ultima Cena, di Leonardo: circa sedici miliardi di pixel.
fo), Nature Single (con la famosissima immagine dello svasso, completamente coperto di petrolio, con il suo occhio rosso che brilla come un rubino in mezzo alle piume insudiciate e nere, sempre scattata durante la guerra del Golfo) e Children’s Award (un tempo assegnato da una giuria di ragazzi sotto i diciassette anni, ancora per una immagine proveniente dalla guerra del Golfo). Il secondo motivo di riflessione riguarda la cifra alla quale sarebbero giunti i visitatori: centoventimila, secondo Repubblica. A marzo, ho segnalato che dall’undici novembre, giorno di apertura, al ventuno gennaio (settantuno giorni, comprensivi delle festività di Natale e fine anno), i visitatori erano stati circa cinquantasettemila. Quindi, per arrivare a centoventimila, più di sessantamila persone avrebbero dovuto visitare la mostra nel periodo di tempo che intercorre dal ventidue gennaio al diciassette marzo (cinquantacinque giorni). La cifra viene sicuramente dallo stesso Assessorato alla Cultura del Comune che ci aveva comunicato i cinquantasettemila di gennaio. Questa nuova cifra ci sembra poco credibile. Per dirla con Benigni, potremmo affermare che i visitatori sono stati un milione, secondo la questura. Oppure, potremmo ispirarci alla storiella dei due pescatori davanti a un bicchiere di vino, in una vecchia osteria lungo il Lambro: uno dei due mena vanto delle dimensioni dei pesci che pesca, affermando che in uno di questi aveva addirittura trovato una lanterna accesa. L’altro risponde, ironicamente, di aver pescato un’anguilla lunga venti metri. Alle proteste del primo, il secondo risponde «ti smôrza i to lümit che mi scürti la mia anguila» (Spegni la tua lanterna e io accorcio l’anguilla).
CAPOLAVORI SUL WEB. Haltadefinizione, marchio della società novarese HAL9000, ha messo in Rete, consultabili gratuitamente, una serie di icone della storia dell’arte figurativa, da La deposizione, del Pontormo, alla Sacra Sindone, dalla Canestra di frutta, di Caravaggio, all’Ultima Cena, di Leonardo. La consultazione, che può esplorare fino i più minuti dettagli delle opere e permette di scoprire particolari assolutamente invisibili a oc-
chio nudo, avviene andando all’indirizzo http://www.haltadefinizione.com. Per dare un’idea della qualità delle immagini, riporto solo le caratteristiche tecniche del file che contiene l’Ultima Cena [qui sopra]: dimensione, circa sedici miliardi di pixel (172.181x93.611 pixel); profondità di colore, 16 bit per canale; numero di scatti per comporre il file, milleseicentosettantasette (1677); calcolo per la fusione degli scatti eseguito grazie a un computer con sedici Gigabyte di memoria RAM, dotato di due processori Quad Core AMD Opteron e disco fisso da due Terabyte; macchina fotografica Nikon D2Xs con AF-S Nikkor 600mm f/4D IF-ED II; software di acquisizione in tempo reale Nikon Camera Control Pro; software di verifica e postproduzione Nikon Capture NX; dispositivo di puntamento con testa panoramica motorizzata Clauss Rodeon V. Autore e regista dei milleseicentosettantasette scatti il noto film maker Peter Greenaway. Andate a dare un’occhiata sul web. Farete un viaggio emozionante.
REQUIEM PER I FOTOGIORNALISTI INGLESI? Riceviamo da Amedeo Vergani, presidente del Gisgiv (Gruppo di Specializzazione dei Giornalisti dell’Informazione Visiva - Associazione Lombarda dei Giornalisti); e pubblichiamo. Nel Regno Unito monta l’allarme dei fotogiornalisti, per due diversi provvedimenti governativi che si
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Ici Bla Bla profilano all’orizzonte e che potrebbero radicalmente modificare il quadro della professione. In peggio naturalmente. 1) I fotografi perderanno la protezione del copyright sul proprio lavoro? Sull’Online Journalism Blog, Philip Dunn commenta, invitando i colleghi alla mobilitazione (Philip Dunn è un ex fotografo del Sunday Times, professionista da quarant’anni; ora dirige corsi di fotografia a Minorca e in Scozia e produce Dvd didattici): «Questa allarmante e offensiva proposta diventerà legge dello Stato in Gran Bretagna, se passerà il Digital Economy Bill, che attualmente è in discussione in Parlamento. La legge è sponsorizzata da un ministro non eletto, lord Peter Mandelson, primo Segretario di Stato e responsabile per l’innovazione e le professioni, uno dei principali esponenti del New Labour». Ecco, spiega Philip Dunn, come la legge colpirà il copyright: «L’idea che l’autore di una fotografia abbia i pieni diritti sul proprio lavoro -come prevedono le norme internazionali e il Copyright Act del 1988- sarà completamente superata. Se l’autore vorrà mantenere ogni controllo sul proprio lavoro dovrà registrare quell’opera (e ciascuna sua versione) presso una nuova Agenzia, che non è ancora stata realizzata. «Particolari su come questo organismo verrà costituito -e quanto costerà ciascuna registrazione- vengono lasciati deliberatamente nel vago dal progetto di lord Mandelson. «Se non verranno registrate presso questa quasi-ong che dovrebbe essere l’ Agenzia, le immagini potranno essere rubate e usate dovunque e da chiunque, dando per scontato che il ladro cercherà di fare il minimo sforzo per trovare il vero autore delle fotografie. «È il sistema del cosiddetto orphan work: cioè di un’opera coperta da copyright, ma della quale è difficile o impossibile individuare, e quindi contattare, chi ne detiene i diritti. «Attualmente, la legge internazionale -attraverso la Convenzione di Berna per la Protezione del lavoro letterario e artistico- riconosce i diritti di proprietà del creatore. Questo consente ai proprietari dell’immagine di controllare come
il loro lavoro venga usato. «Ora, le norme internazionali vengono ignorate dal governo britannico, e questa legge spazzerà via più di centocinquanta anni di legislazione britannica sul copyright. «Se ci sarà un grosso passo verso uno stato di polizia e la soppressione dell’informazione sarà proprio questo progetto. Infatti, gran parte del progetto di legge non passerà per il Parlamento, visto che un articolo del Digital Economy Bill (Section 42, sections 16a, 16b e 16c) prevede che la gestione del settore venga affidata direttamente agli uffici di Mandelson, senza bisogno di norme specifiche. Nessuna norma verrà quindi discussa e votata. «Lord Mandelson manovra nell’ambiguità, è uno che ci sa fare. E il governo è determinato a far passare questa legge senza emendamenti, ed entro il sei maggio, data delle elezioni generali». Su Copyright Action si può trovare un’analisi approfondita della questione. Così come sulla seconda questione che Philip Dunn pone. 2) I fotografi potrebbero perdere la libertà di scattare fotografie nei luoghi pubblici? «Non contenti di aver cancellato il copyright sulle fotografie, un altro ramo del Governo sta pensando a introdurre delle limitazioni disastrose alla libertà di scattare fotografie nei luoghi pubblici. «Infatti, l’Information Commissioner’s Office (Ico) sostiene ora che una fotografia scattata in luogo pubblico possa contenere “dati privati”. Questo significherebbe che se scatti una fotografia per strada e c’è qualche privato cittadino nell’immagine, quest’ultimo avrebbe il diritto di chiedere un compenso o di impedire la pubblicazione di quella fotografia. «Se venisse applicata ai fotografi professionisti, l’interpretazione dell’Ico sarebbe naturalmente una splendida carta che politici, ladri e pubblici ufficiali corrotti potrebbero usare per impedire che qualcuno li fotografi in pubblico e utilizzi quelle immagini. Quanti fotografi saranno chiamati in tribunale? Quanto verranno mostrati ai cittadini i comportamenti scorretti dei politici? Quanti innocente appassionati di fotografia verranno minacciati e in-
fastiditi dalla gente per strada? «Non importa che la Gran Bretagna abbia più telecamere a circuito chiuso nelle strade di qualsiasi altro paese al mondo: in futuro, se scatti una fotografia in un luogo pubblico e questa immagine, per esempio, viene pubblicata su Flickr, potrai essere perseguito».
ROBOT GIORNALISTA. Lo scorso nove marzo è stata data la notizia (forse da lungo attesa dagli editori) della realizzazione di un robot in grado di scrivere un articolo (per ora solo di baseball), ricco di spunti e statistiche. Il robot è stato battezzato Stats Monkey, e firma gli articoli come The Machine (la macchina), tanto per tenere le distanze. Messo a punto dai ricercatori di Infolab, il laboratorio di intelligenza artificiale della Northwestern University (http://infolab.northwestern. edu/projects/), nei pressi di Chicago (Usa), la Macchina utilizza le informazioni di base che trova sul web, riguardanti ogni incontro: risultato, principali fasi di gioco e protagonisti. Oltre al testo, la Macchina è in grado di fornire (sempre pescandole dal web) la fotografie del miglior giocatore in campo e di scrivere un titolo che farebbe la gioia del caporedattore. I due specialisti di intelligenza artificiale che l’hanno creato, Larry Birnbaum e Kris Hammond, e che hanno usato come consulente un giovane cronista di ventisette anni, John Templon, hanno però assicurato che il loro obiettivo non è quello di sostituire i giornalisti (quelli in carne e ossa), ma di aiutarli nel loro lavoro. ROBOT GIAPPONESE: GIORNALISTA E FOTOGIORNALISTA. «Voi suonate le vostre trombe, noi suoneremo le nostre campane». Chi l’ha detto? Pier Capponi, nel 1494, davanti alle truppe francesi di Carlo VIII, che volevano occupare Firenze. Questa celebre esclamazione, potremmo usarla come titolo per questa seconda notizia, che segue a ruota quella precedente. Gli scienziati dell’Intelligent Systems Informatics Lab (Isi), della Tokyo University, sono riusciti anche loro a creare un robot giornalista, anzi fotogiornalista: perché, oltre a scovare notizie, è in grado di scattare fotografie. Sembra più sofisticato dell’america-
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Ici Bla Bla no Machine, perché, oltre a trovare le notizie, sa distinguere le più importanti in base al criterio della notiziabilità dei fatti. Inoltre, sa porre domande in base alle cinque fondamentali “W” del giornalismo: who, what, where, when e why (chi, cosa, dove, quando, perché). Ovviamente, questo robot è un mago nelle ricerche sul web, che costituisce la sua fonte di informazione. Non cerca, dunque, la notizia, ma lucra, quindi e probabilmente, sul lavoro degli altri che l’hanno trovata per lui e l’hanno messa in Rete. Ma questo non è quello che facciamo anche noi, costantemente? Tutti a pescare notizie dalle poche agenzie internazionali che le producono e poi, via, a scrivere l’articolo a partire da quelle.
ITALIANI A PARIGI. Due italiani, per la prima volta, sulle cancellate dei Jardins de Luxembourg. Esprit nomade, nomades des déserts de sable, d’herbe, de neige (Spirito nomade, nomadi dei deserti di sabbia, di erba e di neve), di Tiziana e Gianni Baldizzone, che si è inaugurata il trenta marzo a Parigi e durerà fino al sette luglio, è una mostra fotografica che viene esposta sulle cancellate dei Jardins de Luxembourg, nel cuore della capitale francese [qui sotto]. È la ventiduesima di una serie che ha debuttato nel 2000 con le famosissime immagini della Terra vista dal cielo, di Yann Arthus-Bertrand (esposte anche a Milano, nel 2004), che prevede due eventi ogni anno, e che si svolge sotto il patrocinio del Senato Francese.
Esprit nomade, nomades des déserts de sable, d’herbe, de neige (Spirito nomade, nomadi dei deserti di sabbia, di erba e di neve), di Tiziana e Gianni Baldizzone, è esposta fino al sette luglio sulle cancellate dei Jardins de Luxembourg, nel cuore di Parigi.
Però, Esprit nomade ha un significato particolare. Per la prima volta, in undici anni, non sono francesi gli autori delle fotografie, ma italiani. Conoscendo la predilezione che i cugini d’Oltralpe hanno per le opere dei propri concittadini, il successo ottenuto dai coniugi Baldizzone ha dell’incredibile. Frutto di venticinque anni di vagabondaggi nei deserti del Sahara e del Gobi, nelle grandi steppe dell’Asia Centrale, nella taiga siberiana, nelle sconfinate praterie del Tibet, il loro lavoro è esposto in ottanta stampe a colori, di dimensioni 120x180cm. Dallo stesso lavoro, sono stati realizzati anche due libri, uno dedicato ai bambini, Les Enfants Nomades, des déserts de sable, d’herbe et de neige (Éditions de La Martinière Jeunesse, 2010; 24x24cm, 72 pagine; 14,00 euro), l’altro per gli adulti, Esprit Nomade, nomades des déserts de sable, d’herbe et de neige (Éditions de La Martinière, 2010; 27x27cm, 232 pagine; 37,00 euro). Segnaliamo che la mostra è stata resa possibile grazie al supporto di Pmu (società che gestisce le scommesse alle corse dei cavalli, sic!), Regione Piemonte, Sncf (Ferrovie Francesi), Enel, Nikon, Oliviers & Co (società alimentare), Fuji, Polka (rivista di fotografia), Éditions de La Martinière, Central Color (laboratorio di photofinishing, di Parigi), Survival (società no profit per la difesa delle popolazioni indigene). Tiziana e Gianni Baldizzone hanno promesso di raccontarci la storia di questa loro felice avventura per uno dei prossimi numeri di FOTOgraphia.
DECALOGO DI FOTOGIORNALISMO. La bozza del Decalogo di autodisciplina dei fotogiornalisti è stata approvata a Roma, presso la sede nazionale dell’Ordine. Eccone i contenuti (ci assicurano che verrà rilasciata a breve una stesura in lingua italiana migliore dell’attuale, naturalmente fatti salvi i contenuti). Premessa. Nel mondo dell’informazione diventa sempre più forte l’esigenza di un fotogiornalista preparato, non solo tecnicamente, ma anche rispettoso delle leggi che regolano la professione. In coerenza con queste riflessioni è nata l’esigenza di definire regole base e indi-
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cazioni su come deve operare il fotoreporter che sia anche iscritto all’Ordine dei Giornalisti. Il “decalogo” nasce nel pieno rispetto dei doveri previsti dall’articolo 2 della legge sull’ordine professionale, il documento che contiene i fondamentali riferimenti deontologici della professione giornalistica e delinea anche norme di comportamento dedicate espressamente ai giornalisti che si esprimono attraverso l’immagine. Finalità del “decalogo” è di garantire una libera e corretta informazione nel rispetto delle leggi e della dignità delle persone. 1. Il fotogiornalista non deve alterare la verità sostanziale dei fatti; non deve omettere elementi essenziali alla completa ricostruzione dell’avvenimento; non deve enfatizzare dettagli morbosi o di violenza. 2. Il fotogiornalista deve rendere note la propria identità e professione, salvo che ciò comporti rischi per la sua incolumità o renda altrimenti impossibile l’esercizio della funzione informativa nell’acquisire immagini, sempre che queste ultime non contrastino con il rispetto del diritto alla riservatezza, alla trasparenza e alla correttezza, indipendentemente dalla notorietà dei personaggi. 3. Il fotogiornalista non deve condizionare, con la propria presenza, il normale svolgersi di un evento, né deve diventare causa di comportamenti -anche violenti-, che altrimenti non si sarebbero verificati. 4. Il fotogiornalista non deve diffondere immagini non schermate del minore a qualunque titolo coinvolto in un fatto di cronaca e che possano contribuire alla sua identificazione, fatti salvi l’interesse del minore stesso e i princìpi fissati nella Carta di Treviso [FOTOgraphia, maggio 2009]. 5. Il fotogiornalista deve rispettare sempre e comunque i diritti e la dignità del malato, del ferito e delle persone disabili, siano esse portatrici di handicap fisico o mentale. 6. Il fotogiornalista deve rispettare il segreto professionale, quando ciò sia richiesto dal carattere fiduciario di esso, per salvaguardare il rapporto di fiducia tra la stampa e i lettori previsto dall’articolo 2 della legge sull’ordine professionale, rispetto al codice deontologico sulla privacy e a tutte le carte previste a tu-
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Ici Bla Bla
ANCHE TU FOTOREPORTER. L’Associazione Photoaid, agenzia no profit per il reportage sociale (www.photoaid.eu), invita tutti coloro che amano il fotoreportage ispirato alla tematica sociale a partecipare al Photoaid Contest 2010 - Anche tu fotoreporter. Il termine per le iscrizioni scade il trentuno agosto. Paolo Pellegrin, fotogiornalista Magnum Photo, presiederà la giuria che dovrà giudicare i lavori pervenuti. Oltre ad aggiudicarsi una reflex Nikon D300s, il primo classificato avrà la possibilità di affiancare un fotografo di Photoaid durante una missione sul campo (un reportage all’estero). Il regolamento concorso può essere visionato all’indirizzo www.photoaid.eu.
CALENDARIO SPORCACCIONE. Ho già avuto modo di esprimere le mie perplessità sul valore dell’ultimo calendario Pirelli [FOTOgraphia, febbraio 2010].
Quasi a sostegno della mia opinione, al momento di scrivere questo testo, trovo all’indirizzo web del sito Jezebel (http://jezebel.com/5498008/ terry-richardson-responds-im-reallyhurt-by-the-recent-and-false-allegations-of-insensitivity-and-misconduct) la notizia che Terry Richardson, autore delle fotografie del calendario, è stato accusato di molestie sessuali da alcune delle sue modelle, molestie subite mentre lavoravano sul set. Per esempio, la modella danese Rie Rasmussen avrebbe dichiarato che il fotografo ha abusato del suo potere, chiedendo alle ragazze rapporti sessuali. Alcune delle quali, per paura di perdere il lavoro, avrebbero soddisfatto le sue richieste. Nel suo blog, il fotografo ha smentito tutte le accuse, ma ha rimosso dalla sua pagina internet le immagini che lo ritraggono in atteggiamenti ambigui con le modelle [qui sotto].
Realizzando un sito web che ha riempito di fotografie false che lo ritraggono con la maglia del Paris St. Germain, il non-calciatore Gregory Akcelrod è riuscito a farsi ingaggiare dal Cska di Sofia, squadra vice-campione di Bulgaria.
ti a coppe, con in mano gagliardetti [qui sopra]. Ha condito il tutto con un curriculum inventato, interviste inventate, video taroccati delle sue mirabolanti imprese calcistiche. Il Cska ci è cascato, arruolandolo. I tifosi del St. Germain, però, venuti a conoscenza del fatto, lo hanno sbugiardato. Carriera sportiva finita per il furbacchione Greg Akcelrod.
MENTIRE CON LA FOTOGRAFIA (SUL WEB). Gregory Akcelrod è un
DA SETTE A QUATTORDICI EURO. Dall’ottimo sito di Fotografia&In-
non-calciatore che è riuscito a farsi ingaggiare dal Cska di Sofia, squadra vice-campione di Bulgaria. Come c’è riuscito? Ha realizzato un sito web che ha riempito di fotografie false che lo ritraggono con la maglia del Paris St. Germain (squadra della quale non ha mai fatto parte) durante partite importanti, contro il Barcellona o altre squadre famose, davan-
formazione (www.fotoinfo.net) scopriamo questa storiella. Il Comune di Milano, in associazione con Fratelli Alinari Gruppo 24ore e Blurb (www.blurb.com), la multinazionale che offre un service on line per stampare o le proprie immagini o addirittura un libro con le proprie immagini, hanno organizzato un concorso dal titolo: Sogno Milano La città attraverso la fotografia contemporanea (per il bando, http://sognomilano.alinari.it/materiale/bando. pdf, scadenza nove aprile). Anche se alla pubblicazione di queste note saranno già stati annunciati addirittura i vincitori, riporto notizia per l’apparente iniquità delle sue regole. Lascio la parola a Marco Capovilla, giornalista e vicepresidente di Fotografia&Informazione: «Non stiamo parlando del listino prezzi delle stampe 20x30cm di un laboratorio di stampa amatoriale on line. Sette euro a fotografia rappresenta il compenso per ogni fotografia previsto dal nuovo, grandioso concorso lanciato da tre prestigiosissimi soggetti». Come si arriva alla cifra di sette euro a fotografia? Molto semplice. Sono previsti da dieci a venti vincitori. Ognuno di loro riceverà cinquecento euro e, in cambio, dovrà consegnare all’organizzazione tra trentacinque
Terry Richardson, autore delle fotografie del calendario Pirelli 2010, è stato accusato di molestie sessuali da alcune delle sue modelle. Eniko Mihalik
tela delle dignità del fotogiornalista e dei cittadini. 7. Il fotogiornalista non deve manipolare o ritoccare immagini che si riferiscono a episodi di cronaca. Per un utilizzo illustrativo o ironico-satirico è possibile creare immagini artificiose, a patto che l’utente finale sia sempre in grado di riconoscere l’avvenuta manipolazione della fotografia [e ne sia avvertito]. 8. Il fotogiornalista non deve diffondere immagini raccapriccianti o comunque lesive della dignità della persona (articolo 15 della legge sulla stampa, del 1948), salvo rilevanti motivi di interesse pubblico, né diffonde immagini di persone in stato di arresto, anche se siano state schermate le manette o i ferri ai polsi. Il fotogiornalista rispetta il diritto all’oblio delle persone coinvolte in fatti di cronaca. 9. Il fotogiornalista deve sempre rendere distinguibile una fotografia giornalistica da un’immagine pubblicitaria. Deve anche informare l’editore o il direttore della testata qualora decida di inoltrare immagini d’archivio per accompagnare fatti d’attualità. 10. Il fotogiornalista che vende i propri servizi a giornali e agenzie è tenuto a denunciare ogni utilizzo improprio delle sue immagini o se usate per ricattare o per estorsione.
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A PAGAMENTO SUL WEB. È della fine di marzo la notizia che alcuni dei più importanti editori americani, Time Warner, Hearst, Advance Publications (Condé Nast), Wenner Media, Meredith (che pubblicano, tra le altre, testate come Vogue, Rolling Stone, Vanity Fair, Time, People) stanno cominciando ad affermare che «sì, va bene, le nostre edizioni digitali sono importanti, ma non vogliamo che i nostri clienti [inserzionisti pubblicitari] credano che nessuno legga più la carta stampata». Lo dice Ann Moore, presidente e amministratore delegato di Time Inc dal luglio 2002. Ann Moore, e altri editori con lei, non solo desiderano che il messaggio arrivi agli inserzionisti pubblicitari, ma anche ai loro lettori. Insomma: “stampato è bello”. Questa piccola rivoluzione non è l’unica nella nuova visione del business degli editori americani. A dicembre 2009, davanti alla Commissione federale per le comunicazioni Usa, Rupert Murdoch, il magnate dei media, tra alte dichiarazioni ha affermato: «Alla News Corp stiamo lavorando da due anni su un progetto che consiste nell’utilizzare parte dei servizi televisivi del gruppo per offrire con-
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tenuti tv (e magari anche contenuti dei giornali) sui telefoni cellulari. Gli odierni consumatori di informazione non vogliono essere vincolati a una scatola in casa o in ufficio, per vedere i propri programmi di informazione e di intrattenimento preferiti; trasferendo i contenuti sul cellulare, il nostro piano tiene conto delle esigenze della prossima generazione di spettatori televisivi. Lo stesso vale per i quotidiani. I nostri lettori usano sempre più spesso tecnologie diverse, per accedere ai nostri giornali in diversi momenti del giorno. Può capitare, per esempio, che leggano una parte del Wall Street Journal sul loro Blackberry, mentre vanno in ufficio, che lo leggano sul computer, quando arrivano, o che lo leggano su un lettore e-book più grande e più chiaro, dovunque si trovino. «Il mio secondo punto è diretta conseguenza del primo: i contenuti di qualità non sono gratuiti. Il buon giornalismo del futuro dipenderà dalla capacità di un’azienda dell’informazione di attrarre clienti, fornendo notizie e informazioni per le quali questi clienti sono disposti a pagare». Quindi, carta stampata e news a pagamento sul web (non più gratis) sembrano gli orizzonti verso i quali si stanno muovendo gli editori, non solo americani (si parla di New York Times, dei francesi L’Express, Le Figaro, Le Monde, e dello spagnolo El Mundo, che ha già una sezione a pagamento).
OLTRE VENTIMILA EURO PER HAITI. Mercoledì diciassette marzo, presso la nuova sede dell’Università Bocconi di Milano, si è tenuto l’evento Blues for Haiti, una serata di musica e fotografia, organizzata a fini benefici, conclusasi con un grande concerto che ha visto la partecipazione di trenta musicisti di rilevanza internazionale. Però, non solo i musicisti hanno contribuito al successo della serata. Un po’ di merito va anche ai fotografi -lungo l’elenco-, che hanno messo gratuitamente a disposizione ciascuno una propria immagine per un’asta benefica, curata dal Museo di Fotografia Contemporanea, di Cinisello Balsamo. Grazie alla vendita di fotografie e libri fotografici è stata raccolta la cifra di ventiduemila cinquantotto euro (22.058 euro).
I proventi sono stati interamente devoluti alla Fondazione Francesca Rava - NPH Italia Onlus, a sostegno del progetto Francisville - La città dei mestieri, per garantire la formazione e un futuro lavorativo alla popolazione haitiana colpita dal sisma.
in basso) Reza, 2010 ICP Infinity Award nella categoria Fotogiornalismo. John G. Morris, Lifetime Achievement Award (premio alla carriera) al 2010 ICP Infinity Award.
2010 ICP INFINITY AWARD. Il quattro marzo, l’International Center of Photography (Icp), di New York, ha annunciato i vincitori della ventiseiesima edizione del proprio premio: John G. Morris, Lifetime Achievement Award (premio alla carriera) [qui sotto]; Peter Magubane, Cornell Capa Award; Gilbert C. Maurer/Hearst Corporation, Icp Trustees Award; Raphaël Dallaporta, premio giovane fotografo; Reza, nella categoria Fotogiornalismo [in basso]; Lorna Simpson, nella categoria Fotoarte; Daniele Tamagni, nella categoria Moda e Pubblicità (per il suo lavoro Gentlemen of Bacongo). Daniele Tamagni aveva ricevuto una menzione nell’ultima edizione del premio Amilcare Ponchielli [FOTOgrafia, aprile 2010]. Quindi, sono stati premiati anche Luc Sante, per il suo libro Folk Photography: The Real - Photo Postcard (2009), e la pubblicazione Looking In: Robert Frank’s “The AmerilEllo Piazza (2)
e settanta immagini, che «verranno utilizzate per tutte le attività istituzionali, promozionali e di comunicazione della città di Milano a carattere non commerciale» (dal bando di concorso). Dunque, il conto è presto fatto: si è pagati sette euro se si consegnano settanta fotografie, quattordici se se ne consegnano trentacinque. Ma c’è di più. «Praticamente, per qualsiasi iniziativa -sottolinea Marco Capovilla- i fotografi che vorranno partecipare al concorso dovranno saper “raccontare Milano in tutti i suoi aspetti positivi” e, per non lasciare il minimo spazio al dubbio, “le immagini proponibili dovranno essere rappresentative di aspetti positivi della città di Milano”. Ossia, per parlare chiaro, rappresentare Milano unicamente nei suoi aspetti positivi e mettere da parte quei suoi aspetti, non diciamo negativi, ma nemmeno discussi, problematici o contraddittori». Fotografia&Informazione ha invitato a boicottare il concorso, non iscrivendosi. Non vedo come avrei potuto non essere d’accordo.
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Bryan allEn
Ici Bla Bla cans”, a cura di Sarah Greenough, della National Gallery of Art. La giuria 2010 era composta da Chris Boot, editore, della Chris Boot Ltd di Londra, Carol McCusker, responsabile della fotografia del Museum of Photographic Arts, di San Diego (California), e Peter MacGill, presidente della Pace / MacGill Gallery, di New York. Tra i nomi celebri premiati in passato all’Icp, citiamo Robert Frank, Mary Ellen Mark, Marc Riboud, André Kertész, Henri Cartier-Bresson, Berenice Abbott, Richard Avedon, Harold Evans, Letizia Battaglia, Bernd e Hilla Becher, Alexander Liberman, Gordon Parks, Helen Levitt, Annie Leibovitz, Lee Friedlander, William Klein, Susan Meiselas, Roy de Carava, Malick Sidibé e Karl Lagerfeld.
WPP 2010 IN ITALIA. Come è tradizione, Grazia Neri ha curato la mostra con le fotografie premiate all’edizione annuale del World Press Photo, che è ospitata presso la Galleria Carla Sozzani, a Milano [FOTOgraphia, aprile 2010]. Inaugurazione sabato otto maggio e allestimento fino al sei giugno. A Roma, invece, la mostra analoga, a cura dell’Agenzia Contrasto, apre il tredici maggio e prosegue fino al sei giugno, presso la sede del Museo di Roma in Trastevere, piazza Sant’Egidio 1/b.
ce per la pace, le sceneggiate del Ku Klux Klan e tutta la vicenda che seguì all’iscrizione di James Meredith (nero) all’Università del Mississippi, all’inizio degli anni Sessanta. Tra le sue fotografie più famose, quelle della polizia che attacca i dimostranti con i cani e gli idranti, scattate a Birmingham (Alabama) nel 1963 [qui sopra]. Le migliori immagini sono raccolte e pubblicate nel volume Powerful Days, The Civil Rights Photography of Charles Moore (208 pagine, The University of Alabama Press; ultima edizione 2008).
ADDIO, CHARLES MOORE. Fotografo noto per le sue memorabili immagini delle grandi manifestazioni per i diritti civili che hanno caratterizzato gli Stati Uniti tra gli anni Cinquanta e Settanta, Charles Moore è mancato lo scorso undici marzo, all’età di settantanove anni [al centro, in alto]. La sua carriera è iniziata nel 1958, quando, a ventisette anni, divenne cronista del Montgomery Advertiser. Una delle sue fotografie più celebri fu scattata in occasione di un litigio di Martin Luther King con due poliziotti che, alla fine, lo arrestarono. Charles Moore era l’unico fotogiornalista sul posto. Distribuite dalla Associated Press, le sue fotografie furono pubblicate da Life. A seguito di quello scoop, Charles Moore divenne fotografo a contratto per il settimanale Usa, per il quale seguì le mar-
RINASCE POLAROID. L’Impossible Project rappresenta un gruppo europeo che sta producendo una pellicola a sviluppo immediato per apparecchi Polaroid. La vendita della prima emulsione bianconero è iniziata lo scorso venticinque marzo, sul sito www.theimpossible-project.com. Ogni confezione contiene otto scatti e costa diciotto euro. Al momento in cui scriviamo, l’unico filmpack acquistabile è il PX 100 Silver Shade/First Flush, adatto alle Polaroid SX-70. Ma sarà presto disponibile anche il PX 600 Silver Shade/First Flush, progettato per essere usato con le Polaroid 600. Alla conferenza stampa, tenutasi a New York agli inizi di marzo, il presidente del gruppo, Florian Kaps, ha scattato una fotografia davanti ai giornalisti. Mentre la fotografia usciva dal-
Charles Moore, fotografo noto per le sue memorabili immagini delle grandi manifestazioni per i diritti civili che hanno caratterizzato gli Stati Uniti tra gli anni Cinquanta e Settanta, è mancato lo scorso undici marzo, all’età di settantanove anni. Un celebre reportage di Charles Moore: la polizia che attacca i dimostranti con i cani e gli idranti, a Birmingham, in Alabama, nel 1963.
La nuova “polaroid” (PX 100 Silver Shade/First Flush): Beppe Bolchi, Duomo Square; 2010; Emilie Le Fellic, Secret Mission; 2010; Zora Strangefields, Kissed; 2010.
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QUANTO SI GUADAGNA? Ovviamente, con la fotografia. Moltissimo, se non fai il fotografo e sei nel posto giusto. Per esempio, Jonathan D. Klein, cofondatore e presidente della Getty Images, ha acquistato, agli inizi di marzo, un super appartamento con dieci stanze, al numero 760 di Park Avenue, nel cuore di Manhattan. Cifra pagata? Dieci milioni di dollari, un milione per stanza. Si deduce facilmente che il presidente di Getty Images non deve certo guadagnare come coloro che gli affidano le proprie fotografie da vendere. Questo, detto senza nessuna acrimonia comunista. Solo diritto di cronaca.
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FUJIFILM AMMAZZA I FILM. Tre pellicole professionali, la Neopan 400 bianconero in rullo 120, e le Superia Reala e Pro 160S colore 35mm sono state annunciate in via di estinzione dagli scaffali dei fotonegozianti.
tografie che ha scattato durante il suo lungo lavoro sono state esposte, dal sei al trentuno marzo, alla Wave Photogallery, in via Trieste 32a, a Brescia, in una mostra dal titolo Jemaa El Fna l’intangible [in basso]. Ha accompagnato le immagini, un video con i suoni registrati in loco, che ha contribuito a ricreare l’atmosfera di un misterioso teatro vivente, popolato da cantastorie, acrobati, incantatori di serpenti, attori, musicisti, erboristi, profeti e astronomi. Così Stefano Torrione [qui sotto] racconta la sua esperienza: «Ho conosciuto molto del mondo immateriale di Jemaa el Fna, ho seguito gli ultimi sette cantastorie, gli artisti e gli acrobati durante i loro spettacoli fino alle loro case, nella Medina, registrando voci suoni e rumori. Ho esplorato la Place, vivendola il più possibile dall’interno, per cercare di meritarla, come mi aveva insegnato un vecchio amico, un farmacista di Marrakech». ❖
JEMAA EL FNA. Nel 1972, è stata istituita la Lista del Patrimonio dell’Umanità Unesco, con lo scopo di proteggere, catalogandoli, quei siti culturali (monumenti, luoghi archeologici e altro) e naturali (foreste, coste, ambienti) che rappresentano un bene irrinunciabile per l’umanità. L’Italia è la nazione che ne ha il maggior numero (quarantaquattro), poi ci sono Spagna (quarantuno) e Cina (trentotto). Nel 2003, è stata poi approvata la Convenzione per la Salvaguardia del Patrimonio Immateriale (che purtroppo attende ancora la ratifica di molti, tra cui l’Italia): non più qualcosa di concreto da proteggere, dunque, ma qualcosa di immateriale, riti, celebrazioni, tradizioni, espressioni artistiche. Per l’Italia, l’unico bene immateriale finora riconosciuto è rappresentato dall’Opera dei Pupi, di Mimmo Cuticchio, in Sicilia. Tra i beni già riconosciuti a livello mondiale, ci sono i cantastorie della piazza Jemaa El Fna, di Marrakech (Marocco). Per quasi sei anni, a questo tema si è dedicato uno dei più bravi fotogiornalisti italiani di viaggio, Stefano Torrione. Cinquanta delle fo-
Per sei anni, Stefano Torrione ha fotografato i cantastorie della piazza Jemaa El Fna, di Marrakech, uno dei beni dell’Umanità. Da Jemaa El Fna l’intangible, di Stefano Torrione, alla Wave Photogallery, di Brescia.
DaniElE Vita
la sua SX-70, si è potuto notare che nei primi momenti dello sviluppo la superficie emulsionata diventa completamente di color blu brillante: quindi, questo prodotto non può essere una semplice riproposizione di film precedenti, ma rappresenta qualcosa di chimicamente nuovo. Come le vecchie pellicole polaroid, delle quali è cessata la produzione a metà 2008, queste nuove PX (come chiamarle? ancora polaroid?) possono essere manipolate e ci si possono ricavare trasferimenti di immagini. Quaranta fotografi sono stati invitati a testare il nuovo film [a pagina 25]. Florian Kaps ha poi affermato che, invece della data di scadenza, le pellicole porteranno la data di produzione, come capita con il vino. Questo perché, nel corso del tempo, le PX, che fresche presentano una dominante seppia, cambiano le proprie caratteristiche cromatiche. I nuovi film a colori sono previsti entro la prossima estate. Si stima che nel mondo ci siano ancora trecento milioni di apparecchi Polaroid funzionanti: per questo, Impossible Project pensa di riuscire ad arrivare al milione di filmpack prodotti (e venduti) entro la fine del 2010. Infine, Florian Kaps ha annunciato che Impossible Project ha fatto un’offerta al Museo della Fotografia, di Losanna, in Svizzera, per acquistare la loro collezione di polaroid originali. Nei suoi programmi c’è un’idea ambiziosa: quella che le immagini prodotte con la PX possano costituire la continuazione di quella prestigiosa collezione.
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Alla Photokina e ritorno Annotazioni dalla Photokina 2008 (World of Imaging), con richiami e riferimenti che non si esauriscono con il solo svolgimento della Photokina
Riflessioni, Osservazioni e Commenti sulla Fotografia: spunti utili e proficui sia al comparto tecnico-commerciale sia al mondo della fotografia espressiva e creativa
Alla Photokina e ritorno dodici pagine, ventinove illustrazioni
Reflex con contorno ventotto pagine, settantuno illustrazioni
Visioni contemporanee venti pagine, quarantotto illustrazioni
I sensi della memoria dieci pagine, ventisette illustrazioni
La città coinvolta dieci pagine, ventisei illustrazioni
E venne il giorno (?) sei pagine, quindici illustrazioni
DaniElE Vita
E tutto attorno, Colonia sei pagine, diciassette illustrazioni
Ricordando Herbert Keppler due pagine, due illustrazioni
Ciò che dice l’anima sei pagine, undici illustrazioni
Sopra tutto, il dovere quattro pagine, otto illustrazioni
• centosessanta pagine • tredici capitoli in consecuzione più uno • trecentoquarantatré illustrazioni
In forma compatta dieci pagine, venticinque illustrazioni
Tanti auguri a voi venti pagine, cinquantadue illustrazioni
Alla Photokina e ritorno di Maurizio Rebuzzini 160 pagine 15x21cm 18,00 euro
F O T O G R A P H I A L I B R I Graphia srl • via Zuretti 2a - 20125 Milano 02-66713604 • graphia@tin.it
Saluti da Colonia sei pagine, nove illustrazioni
Citarsi addosso sette pagine
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Curiosità Cinema di Antonio Bordoni
ALLE ORIGINI DI MOLTO
D
Delle quattro svolte senza ritorno che stabiliscono il ritmo, non soltanto narrativo, della recente Storia 18392009. Dalla Relazione di Macedonio Melloni alla svolta di Akio Morita, compilata dal nostro direttore Maurizio Rebuzzini, le due estreme sono in qualche misura più discriminanti delle altre. Per quanto ciascuna delle quattro, a modo proprio, abbia indelebilmente cambiato il passo della fotografia, con influenze più che sostanziose sulla sua stessa espressività, non possiamo sottovalutare come la Box Kodak, di George Eastman, del 1888, e il passaggio all’acquisizione digitale di immagini, dall’originaria Sony Mavica, di Akio Morita, del 1981, siano state assolutamente devastanti: diciamola anche così. Leggiamola anche così. Senza alcuna gerarchia tra queste due e le altre due -la Leica, di Oskar Barnack, del 1913 (1925), e la fotografia a sviluppo immediato (polaroid), di Edwin H. Land, del 1947 (1948)-,
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occorre soprattutto registrare l’insieme delle consecuzioni innescate dalla Box Kodak, che hanno stabilito i termini di una fotografia precedente, direttamente dalle origini, dal 1839, e una seguente. Nulla è più avvenuto, in fotografia, di altrettanto sconvolgente; nulla ha stabilito un analogo pre/post, prima/dopo. Ma non è di questo che intendiamo occuparci, qui e ora: lasciamo ai nove capitoli in consecuzione (più quattro, tre prima e uno dopo) di 1839-2009. Dalla Relazione di Macedonio Melloni alla svolta di Akio Morita il racconto di questi avvincenti eventi che si sono permessi il lusso di accadere. Invece, tra le pieghe del testo, selezioniamo alcune trasversalità per mille e mille motivi affascinanti. Ovvero, andiamo addirittura alle origini di considerazioni che si sono proiettate in avanti nei decenni, scavalcando i secoli, e hanno definito alcuni dei princìpi stessi del linguaggio fotografico senza tempo. In
estratto dal racconto storico complessivo, soffermiamoci su alcune espressioni individuate nei primi istanti della fotografia, che a seguire ne hanno stabilito passi espressivi: da Roger Fenton a Louis Jacques Mandé Daguerre, a William Henry Fox Talbot, a Hippolyte Bayard.
RAPPRESENTAZIONE L’idea secondo la quale ciò che si trova davanti all’obiettivo debba essere vero, debba essere la realtà, è un tema spinoso della espressività fotografica, svincolato da qualsivoglia mediazione tecnica. Affrontandolo nell’analisi della fotografia pre 1888, pre Box Kodak (e consecuzioni), Maurizio Rebuzzini richiama un esempio lungimirante. Si riferisce a Roger Fenton (18191869), passato alla Storia, non soltanto della fotografia, come il primo fotografo di guerra. Personalmente, preferisce una definizione che ritiene più calzante, anche perché i pri-
Collodio umido in esterni, in una incisione del 1875 o 1878: un ingombrante insieme di strumenti, da trenta a sessanta chili di peso. Pur sommando le fasi preparatorie e quelle di trattamento agli inevitabili tempi di posa prolungati, dall’inquadratura all’osservazione del negativo del processo al collodio umido passavano poco più di una dozzina di minuti. Il fotografo rimaneva presente alla scena fotografata, della quale poteva osservare la raffigurazione fotografica, confrontandola con la realtà. Per questo, alla maniera della fotografia a sviluppo immediato (polaroid, dal 1947-48), poteva ripetere lo scatto insoddisfacente.
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Curiosità mati di merito prevalgono su quelli semplicemente casuali e atletici: quindi, identifica Roger Fenton come il primo capace di fotografare una guerra. Impresa peraltro disagevole, per non dire assolutamente difficile, oltre che pericolosa, in tempi fotografici di collodio umido, procedimento che impone(va) tempi d’azione assai ristretti. In momenti nei quali la stabilità chimica dei materiali (foto) sensibili e dell’immagine latente era pressoché nulla, la gelatina sensibile alla luce andava spalmata sulle lastre di vetro, che avrebbero successivamente composto e costituito il negativo fotografico, immediatamente prima dello scatto. Le lastre andavano utilizzate ancora umide, con tempi di posa sostanzialmente prolungati, e il trattamento di sviluppo andava eseguito appena dopo l’esposizione. È questo il motivo per il quale, come appare in incisioni dell’epoca, il fotografo doveva muoversi con un consistente bagaglio, comprensivo sia degli strumenti di ripresa sia delle attrezzature di sviluppo [pagina accanto]. A questo proposito è illuminante un estratto da La scampagnata di un fotografo, di Lewis Carroll (noto soprattutto per aver scritto Le avventure di Alice nel paese delle meraviglie, al secolo Charles Lutwidge Dodgson, diacono, matematico, docente e anche fotografo), pubblicato in due volumi successivi dell’editore Abscondita, di Milano (una prima volta, in Lewis Carroll. Sulla fotografia, del 2007; quindi, nella monografia Lewis Carroll. Fotografo, del 2009), nella traduzione di Rossella Rizzo: «Concluso il pranzo, dopo aver ricevuto istruzioni su come raggiungere la casa contadina, ho fissato alla mia macchina [fotografica] la tenda per sviluppare le fotografie all’aperto, ho caricato il tutto sulle spalle e son partito per la collina che mi avevano indicato. [...] Dopo aver scelto la migliore prospettiva per la casa contadina, in modo da includere nella foto[grafia] un allevatore con la sua mucca, [...] ho tolto la protezione dell’obiettivo. In capo a un minuto e quaranta secondi l’ho rimessa. [...] Con impazienza, tremando, ho infilato la testa sotto la tenda e ho iniziato lo sviluppo». Per questo, e considerati gli impe-
gni da svolgere in Crimea, Roger Fenton aveva attrezzato un carro adatto sia al trasporto dei materiali (si racconta di cinque apparecchi fotografici e settecento lastre), sia allo sviluppo da effettuare immediatamente dopo lo scatto [in basso, a destra]: ed è su questa condizione, che stiamo per riflettere, allungando le considerazioni dalla tecnica alla creatività, al linguaggio espressivo della fotografia. Presso la Royal Photographic Society, di Londra, è disponibile il più completo archivio fotografico di Roger Fenton, ricco di oltre seicento immagini. Tra le sue tante fotografie, una in particolare colpì l’immaginazione dei contemporanei, e ancora oggi riesce a turbare già a partire dal titolo, La valle dell’ombra della morte ( The Valley of the Shadow of Death, del 1855). Non compaiono figure, ma solo un gran numero di palle da cannone, disseminate in una zona collinosa attraversata da una strada deserta. Roger Fenton impressionò due lastre al collodio umido della Valle dell’ombra della morte [a pagina 30]: nella prima, riprese l’immagine così come si presentava ai propri occhi; nella seconda, quella più pubblicata e più nota, dispose le palle di cannone, componendo fin nei minimi dettagli la scena. In modo più ambiguo rispetto ad altre fotografie, La valle dell’ombra della morte riflette prima di tutto il gusto di Roger Fenton per immagini politicamente corrette e pittoresche, che evocano piuttosto che documentare. In questa immagine, insieme ad alcuni elementi simbolici (le palle di cannone, la desolazione dello spazio vuoto, una strada della quale non si scorgono i limiti), il titolo crea un’atmosfera luttuosa, nonostante l’assenza di riferimenti diretti alla morte. Ma quale è stata l’azione fotografica di Roger Fenton, che inconsapevolmente (?) passa dalla raffigurazione alla rappresentazione? Ovvero applica gli stilemi espressivi e visivi del linguaggio fotografico, così come l’abbiamo sempre inteso? Accostiamo e paragoniamo i tempi ravvicinati e concitati del processo al collodio umido alla fotografia polaroid a sviluppo immediato: di fatto, Roger Fenton è presente davanti al suo soggetto reale, avendo tra le mani la sua raffigurazione fotografica (in negati-
Roger Fenton arrivò in Crimea con un assistente, cinque apparecchi fotografici, trentasei casse e settecento lastre di vetro (sulle quali avrebbe steso l’emulsione del processo al collodio umido, trasformandole in “lastre fotosensibili”). Allestì un laboratorioabitazione, adattando allo scopo un carro originariamente destinato al trasporto del vino (leggenda metropolitana?): oltre lo specifico fotografico, anche un letto, i viveri e il necessario ai cavalli da traino. Fotografia originaria e incisione ricavata. Fino al 1880, le fotografie non erano stampate sui giornali, ma interpretate in incisioni adatte ai procedimenti di stampa tipografica del tempo.
vo, su lastra di vetro). Osserva l’orrore della guerra, che non traspare dalla mediazione fotografica. Di necessità, virtù: interviene sul soggetto, modificando la collocazione delle palle da cannone, per evolvere la sua raffigurazione in rappresentazione. Infatti, la fotografia è raffigurativa per natura, dovendo dipendere da un soggetto fisico davanti all’obiettivo, sempre e comunque, sia spontaneo sia costruito (still life e dintorni); ma, soprattutto, dal punto di vista espressivo, la fotografia è rappresentativa per intenzione: non necessariamente ciò che ha inquadrato è quanto esprime. Assolutamente individuale, oltre che soggettiva, in tut-
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Curiosità ti i modi la lettura dell’immagine parte sempre e comunque da una composizione concreta, nella quale sono racchiuse le intenzioni dell’autore, che poi l’osservatore è libero di ignorare, annullare, invertire a proprio piacimento e/o per proprie capacità. Del resto, concludiamo, ripetendo concetti già espressi in tante oc-
casioni, a questa precedenti, per quanto non sia vero e legittimo l’esito (ma il dibattito su questo ci porterebbe troppo lontano), la grande rivoluzione della fotografia è stata quella di mostrare la realtà senza apparenti mediazioni e da qui, forse, è nata la sua diffusione e popolarità anche come documento.
IN UN PAIO DI ANNI Così come nel 1855 della guerra di Crimea Roger Fenton stabilì i termini della fotografia, che da raffigurativa deve proporsi rappresentativa, in istanti prossimi al 1839 di nascita ufficiale della fotografia si individuano altre tre straordinarie condizioni fondamentali. La prima riguarda direttamente Louis Jacques Mandé Daguerre (1787-1851), dal cui processo dagherrotipico si conteggiano i tempi della fotografia: annuncio del sette gennaio e presentazione del diciannove agosto. Certificati i dati oggettivi, Daguerre vanta un altro primato, oggettivamente di minor peso, ma comunque significativo. Quello di aver realizzato la fotografia (il dagherrotipo) con la prima presenza umana. Nel 1838, fotografa il boulevard du Temple, a Parigi, e nell’inquadratura è compreso un gentiluomo fermo dal lustrascarpe [qui sotto]. Più di questa paternità, peraltro oggettiva, nel suo 1839-2009. Dalla Relazione di Macedonio Melloni
In 1839-2009. Dalla Relazione di Macedonio Melloni alla svolta di Akio Morita, Maurizio Rebuzzini interpreta così le due versioni di La valle dell’ombra della morte ( The Valley of the Shadow of Death, del 1855), fotografata da Roger Fenton durante la guerra di Crimea. Sconcertato dalla differenza tra la sua sensazione dal vivo e quella trasmessa dalla fotografia, Roger Fenton compie il primo gesto di trasformazione e interpretazione fotografica della sola raffigurazione, che diventa rappresentazione (delle proprie emozioni): ricolloca le palle da cannone, in modo da trasmettere il senso della cruenta battaglia svoltasi nel luogo. Anche questo è uno degli stilemi del linguaggio fotografico: nell’accettarlo, fino a condividerlo, Maurizio Rebuzzini introduce, però, il princìpio dell’etica e della morale che sovrasta e guida l’espressione fotografica. Quantomeno, dovrebbe farlo.
La prima presenza fotografica di una figura umana si deve a Louis Jacques Mandé Daguerre: un gentiluomo fermo dal lustrascarpe? Più probabilmente, un complice di Daguerre, opportunamente istruito, che è rimasto fermo per il lungo tempo della posa dagherrotipica.
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alla svolta di Akio Morita, l’autore Maurizio Rebuzzini preferisce riconoscergli la capacità di aver saputo interpretare e decodificare una condizione tecnica inviolabile: agli albori, ancora una interpretazione fotografica sapientemente costruita... a fini fotografici (diversi dall’osservazione del/dal vero). Leggiamo: «Siamo in presenza del primo esempio di fotografia costruita (a fini rappresentativi)? Dall’esperienza (di Daguerre) alla interpretazione fotografica della realtà: un uomo fermo per tanti minuti, quanti ne occorrono all’esposizione di un dagherrotipo? Oppure un complice di Daguerre, opportunamente istruito? Direi che è più probabile la seconda interpretazione, con esclamativo!». Una volta ancora, come già riferito a Roger Fenton: di necessità, si è fatta virtù. La realtà è stata adattata alle esigenze della rappresentazione fotografica, condizionata da proprie prerogative tecniche inderogabili e inviolabili. Invece, quanto riferito a William Henry Fox Talbot (1800-1877) è oggettivamente diverso. Maurizio Rebuzzini si è richiamato al fatto che in tempi recenti a Fox Talbot sono state attribuite intuizioni linguistiche proprie del dibattito culturale dei nostri giorni. In particolare, e con azzardo, si è detto che Fox Talbot avrebbe intuito che il linguaggio fotografico è
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Curiosità
«Per ottenere gruppi di figure non occorre più tempo di quello che si richiederebbe per figure singole, dato che la Camera le raffigura tutte simultaneamente, per quanto numerose possano essere»: dal commento di William Henry Fox Talbot alla tavola The Ladder, di The Pencil of Nature.
Il primo autoritratto fotografico della Storia (1840), quello polemico di Hippolyte Bayard in posa da affogato-suicida, è un autoritratto “impossibile”.
in qualche modo mistificatore. Vero niente, afferma Maurizio Rebuzzini: il suo retroterra era profondamente diverso dal nostro, e le sue priorità altrettanto lontane; ancora, nel 1839 e dintorni il dibattito sull’uso della fotografia era assolutamente distante da queste considerazioni, temporalmente successive, che riguardano la pubblicazione giornalistica della fotografia, con propria didascalia esplicativa o forviante, secondo intenzioni preconcette. William Henry Fox Talbot era (naturalmente e legittimamente) estraneo a queste valutazioni e opinioni, altrimenti databili. Si muoveva con ben altro passo. Per esempio, alla quattordicesima tavola di The Pencil of Nature (The Ladder / La scala a pioli) [a sinistra], leggiamo: «Per ottenere gruppi di figure non occorre più tempo di quello che si richiederebbe per figure singole, dato che la Camera le raffigura tutte simultaneamente, per quanto numerose possano essere». Ed è questo il senso delle origini, quando nulla era dato per scontato, come invece possiamo fare oggi, alla luce di decenni di parole e analisi, che ci condizionano. Inevitabilmente. Soprattutto, il fascino della fotografia si allungava dalla pittura, non dipendeva da un dialogo interno autonomo e consapevole, come è invece oggi. Ancora, e alla fin fine, segnaliamo ancora un’altra curiosità lessicale della fotografia, che si è rivelata immediatamente dopo la sua nascita. Oltre i meriti di sperimentatore, Hippolyte Bayard (1807-1887) ne ha conquistati altri come fotografo-autore. Soprattutto, gli si deve riconoscere il primo autoritratto fotografico della Storia, realizzato nel 1840, peraltro paradossale e oggettivamente “impossibile”: ironicamente realizzato in posa da affogato, perché lo Stato francese, complice l’affarista François Jean Dominique Arago, ha finanziato Daguerre e lui è rimasto senza un soldo [a sinistra]. Insomma, in ripetizione, il primo autoritratto fotografico della Storia sarebbe quello di un annegato, che evidentemente non può averlo realizzato. Ovvero: autoritratto oggettivamente impossibile. Quattro passaggi delle origini sui quali riflettere. ❖
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Pesaro, estate 1986: tra i partecipanti a un workshop di fotografia, organizzato da un’agenzia fotografica milanese, ci sono ragazzi e ragazze provenienti da ogni parte d’Italia; con tutti, si instaura un rapporto di amicizia, e la settimana trascorre in un attimo, tra fotografia, scherzi, divertimenti, lunghe nottate a parlare di cultura fotografica, e non solo... Tra questi, c’è l’imolese Renzo Magri, un ragazzo che si distingue dagli altri sia per l’utilizzo del mezzo fotografico, sia come persona affabile e sempre pronta a partecipare a ogni iniziativa. Racconta di aver iniziato a fotografare da qualche anno in modo saltuario, ma è solo dopo quel workshop che il suo interesse per la fotografia diventerà più continuativo, fino al punto di dedicavi tutto il suo tempo libero. La sua tematica preferita è l’Uomo, ripreso in ogni contesto sociale e lavorativo; soprattutto, gli interessa l’analisi di persone inserite in ambienti e luoghi particolari. Sono di quegli anni i progetti sulle comunità nomadi dell’Emilia Roma-
nazionali, ottenendo molti riconoscimenti; tra tanto altro, è stato premiato sei volte al Nikon Photo Contest International. Nel 2000, Renzo Magri è tra i soci fondatori del Gruppo Polaser, del quale oggi ricopre la carica di segretario. Gli telefono. Sto pensando ai soci fondatori del Polaser, e mi sono domandato come mai tu, che avevi da sempre realizzato principalmente fotografie di reportage, spesso in bianconero, aderisti al Gruppo? «Come mai questa domanda? [gli spiego il perché]. Conoscendoti, e sapendo quanta passione metti nelle cose che fai -e, inoltre, sapevo che anni prima avevi fondato il Centro Sperimentale Man Ray, al quale non ho mai potuto partecipare-, mi sono aggregato al Polaser, pur non avendo una conoscenza specifica della pellicola a sviluppo immediato. Ma in quel momento avvertivo la necessità di andare “oltre” con altri mezzi espressivi».
gna, sulla vita in un convento francescano, sui carbonai dell’Appennino umbro-marchigiano, sul percorso di recupero di un ragazzo disabile in cura fisioterapica in un centro riabilitativo, sugli effetti prodotti dalla nube tossica di Chernobyl nei luoghi del disastro. Quest’ultimo lavoro, realizzato insieme a Daniele Paradisi, Storie di accoglienza, storie di bambini, è stato pubblicato dall’Editrice La Mandragola, di Imola, nel 2006, nel ventennale del tragico evento. La mostra allestita con le fotografie di questa serie è stata presentata in molte città d’Italia. Nel frattempo, Renzo Magri partecipa a vari concorsi nazionali e inter-
Ricordo che molti denigravano il nostro modo di esprimerci, considerando la polaroid come una fotografia minore, pensando che quelle macchine fotografiche fossero solo “macchinette” da regalare ai bambini per la prima comunione... ma non sapevano che Ansel Adams, William Wegman, Robert Rauschenberg, David Hockney, Robert Frank, Robert Mapplethorpe, Andy Warhol, Lucas Samaras, Chuck Close, e in Italia, Mario Schifano, Nino Migliori, Luigi Ghirri, Giovanni Gastel, Paolo Gioli, Franco Vaccari, Gian Paolo Barbieri, Gabriele Basilico, Franco Fontana, Carlo Mollino, Maurizio Galimberti e tanti altri hanno creato splendidi capolavori con la magia della polaroid. «Infatti, sapevo che Ansel Adams fu consigliere della Polaroid Corporation, e che molte celebri immagini dello Yosemite National Park le aveva scattate proprio in polaroid; poi, come non conoscere le polaroid di Andy Warhol e quelle italiane di Mario Schifano, e ancora quelle di tanti altri artisti italiani, a cominciare da Maurizio Galimberti (che avevo già conosciuto), Nino Migliori, Giovanni Gastel, che ha realizzato quasi tutta la sua moda con banco ottico e polaroid 20x25cm». Fino al 2000, hai realizzato sempre le tue fotografie con pellicole negative o invertibili. Quale è stata la differenza con la polaroid? «Nessuna. Le fotografie non si realizzano né con le macchine, né con le pellicole, ma con le idee. Mi spiego meglio: la tecnica deve essere un supporto all’idea e al progetto, e non viceversa. La pellicola polaroid, poi, permette di sommare alla fotografia un valore aggiunto: l’immagine non è il risultato di ciò che il soggetto vede, ma di come vede; quindi, la manipolazione, i distacchi e i trasferimenti permettono di andare oltre la soglia del visibile, “navigando” con la fantasia, rendendo l’immaginazione a volte reale».
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Come sai, nel Polaser non sono mai stati realizzati progetti “liberi”: partendo da un’idea, si è sempre elaborato il progetto. In questo modo sono nati molti “lavori”, quali i Tableaux Vivants, con la reinterpretazione delle opere di Silvestro Lega, oppure con l’omaggio ad Alberto Burri ( Equilibrio - composizione, colore, materia), e ancora Le Polasèr imaginaire, omaggio a Molière, fino alla interpretazione individuale di versi di Dino Campana ( Foto Orfiche e La Notte) e Salvatore Quasimodo ( Ed è subito sera). La progettualità faceva già parte del tuo modo di esprimerti, o preferivi una fotografia più “libera”? «I miei lavori precedenti sono nati sempre da un’idea seguìta da uno studio e poi dalla realizzazione finale; per ogni mio progetto, ho sempre creato uno schema mentale, al quale attenermi o, è capitato, rielaborare “in progress”; con la polaroid, invece, ho iniziato con scatti singoli, non veri e propri progetti. Finalmente, nel Polaser sono tornato nuovamente
immediato, prodotta da Impossible Project, da utilizzare con apparecchi Polaroid SX-70 e 600. Cosa ne pensi? «Ancora non l’ho usata. La utilizzerò per il nuovo progetto Polaser, che prevede proprio l’impiego di pellicola bianconero». Quest’anno ricorre il decennale del Polaser, e a ottobre, nella Pinacoteca di Imola, sarà esposta la mostra retrospettiva 10 anni di magia, con una selezione di diversi progetti. Nell’occasione, verrà presentato anche un libro/monografia Fiaf, che diventerà il catalogo della mostra. Fino a oggi, nella Pinacoteca - Museo San Domenico, di Imola, hanno esposto solo grandi artisti. Tu, come imolese e socio fondatore del Polaser, come vivi questo evento, il più importante dei primi dieci anni del Gruppo? «Con l’orgoglio di aver contribuito a creare un qualcosa di diverso, un qualcosa di grande!». Pino Valgimigli
a una concezione realizzativa del “lavoro” più consona al mio pensiero». Tra i tanti progetti realizzati, ce n’è qualcuno che ti ha coinvolto emotivamente più di altri? «Sì. È stato il Viaggio nell’anima, con la Moleskine. In quell’agenda, ho riversato un lungo percorso della mia vita: emozioni, ricordi vissuti, sogni, illusioni, descrivendoli con fotografie, pensieri, riflessioni. Quella Moleskine, insieme ad altre di autori Polaser, è stata esposta al Cifa, di Bibbiena, la scorsa estate, come installazione». Sta per arrivare una nuova emulsione bianconero a sviluppo
www.polaser.org
«La limitazione dei mezzi determina lo stile, dà vita a nuove forme e dà impulso alla creatività»
MANUELA ZANOTTI
Georges Braque Questa citazione dal pittore Georges Braque aiuta a comprendere lo slancio e spirito che guida e ispira gli artisti del Gruppo Polaser, eterogenei per interessi artistico-culturali e per provenienza da molte città italiane e anche dall’estero, accomunati dalla ricerca e sperimentazione di nuove possibilità espressive nelle molteplici forme dell’arte, dalla fotografia alla pittura, scultura, design, architettura, ceramica, letteratura, teatro, a altro ancora.
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TERRITORI IN
Tra questa dozzina di ritratti rubati in luoghi pubblici e l’altra dozzina di elementi, luoghi, dettagli e frammenti cui sono accostati, ogni relazione è puramente casuale. Le cose e i luoghi e il resto non appartengono a, non rivelano, non significano, non rappresentano, e non sono pensieri, né analogie, né metafore, né allusioni alle persone reali o alle loro storie. Se qualche relazione verrà tra loro trovata, sarà per l’intervento, consapevole o meno, dell’autentico costruttore del significato dell’immagine, cioè di chi, infine, la guarda. Perché il nostro comune modo di guardare le immagini ci obbliga a cercarvi in esse relazioni e spiegazioni, e ci obbliga a immaginare ogni sorta di link, più o meno verosimili, che le possano connettere. E perché ogni immagine sta dentro una vasta rete di relazioni latenti, e questa rete esisteva prima del web 34
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INESPLORATI
testo e fotografie di Piero Raffaelli
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ine Duemilanove. La notizia è recente: tra le montagne della Nuova Guinea, all’interno del cratere di un vulcano spento, è stato scoperto un territorio non ancora esplorato dall’Uomo, ultimo minuscolo ritaglio di quelle estese zone vergini ancora in bianco sulle mappe di appena un secolo fa. In quel remoto cratere non si sono trovati dinosauri, né ominidi, né gormiti, ma solo degli insetti, appena un po’ più grandi della media della specie alla quale appartengono, cioè minime varianti di specie già note. Se la Terra è, come pare, esaurita, allora questa esplorazione nel cratere indonesiano segna la fine dell’era di Ulisse. Se fosse qui oggi, il mitico viaggiatore si troverebbe l’Odissea ristretta, e tutte le tappe del viaggio ridotte a banali ritorni in luoghi déjà-vu, e lui stesso ridotto a turista. L’unica sorpresa l’aspetterebbe alla fine del viaggio, ancora prima di arrivarci alla casa: nel ve-
dere stravolta la sua Itaca, cancellata ogni traccia del passato, mutato il paesaggio, introvabile la strada di casa, del tutto irriconoscibile il suo luogo natale, per gli interventi d’una banda di costruttori, urbanisti, paesaggisti, architetti, geometri, assessori all’edilizia e arredatori urbani, una banda più dannosa dei Proci e attiva ovunque, anche nei luoghi dove noi stessi siamo nati o abitiamo. La voglia di ripartire sarebbe immediata, ma per andare dove? La Terra incognita non sarebbe da cercare lontano, ma vicino, già attorno alla casa di Ulisse. Al di fuori della Terra rimangono spazi inesplorati per una quindicina di miliardi di anni luce in qualsiasi direzione. Mai nella storia dell’Uomo si era saputo quanto fossero vertiginosamente vasti gli spazi non percorribili da un Ulisse terrestre.
LA CITTÀ MUTANTE Che le città mutassero, lo si sapeva da tempo («La città cambia più rapidamente del cuore di un uomo», ha scritto Baudelaire), mai però la mutazione è stata così brutale e uniforme.
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In pochi anni, infatti, tutte le città, grandi, piccole e piccolissime sono diventate metropoli o frammenti di metropoli globalizzate. Niente è rimasto com’era in questi non-luoghi senza memoria, nei quali, oltre la fauna umana e le case, anche gli odori, i colori, gli alberi, le aiuole, il selciato, e fino gli ultimi dettagli dell’arredo e del degrado hanno continuato a mutare, smarrendo ogni identità, e disorientando chi, in quei luoghi, è nato o ha trovato casa, fino a renderlo straniero tra stranieri.
Philip Roth, che qui rappresenta l’altro metodo, quello del romanziere, non esplora nel campo del visibile, e infatti non tenta di vedere, bensì di sapere. In una delle ultime pagine di un suo recente romanzo, interrompe il racconto e riformula le domande fondamentali, quelle domande che tornano sempre a riaffiorare, irrisolte: «Cosa sappiamo?», si chiede Roth; sappiamo forse «perché le cose vanno come vanno? Cosa? Tutto ciò che sta sotto l’anarchia del corso degli avvenimenti, le incertezze, i contrattempi,
Quale sarà il modo migliore per esplorare una città mutante e, in generale, quella realtà complessa ed enigmatica che ci circonda? Ci sono almeno due metodi per farlo (semplifico). Il primo metodo, quello del giornalista, può essere rappresentato da Ryszard Kapus’ cin’ ski e dalle parole con le quali descrive la folla in una stazione della metropolitana di New York: «Frettoloso incrociarsi di persone. Facce chiuse illeggibili. Indifferente scorrersi accanto di milioni di destini, pensieri, sentimenti umani: l’invisibile e più importante materia del mondo». Con sole diciannove parole ha confezionato una “fotografia” nella quale, per paradosso, la materia più importante non si vede, quasi fosse tre volte blindata dietro facce indifferenti, illeggibili, impenetrabili. Però, il suo compito da giornalista è stato eseguito alla perfezione: è stato essenziale e credibile, ha visto e descritto le-cose-come-sono: chiare e semplici. Non erano di sua competenza le cose sfumate, opinabili, vaghe o complesse, che sono rimaste infatti per lui invisibili.
il disaccordo, le traumatiche irregolarità che caratterizzano le vicende umane? [...] Nessuno sa nulla. Non puoi sapere nulla. Le cose che sai [...] non le sai. Intenzioni? Motivi? Conseguenze? Significati? Tutto ciò che non sappiamo è stupefacente. Ancora più stupefacente è ciò che crediamo di sapere». Poche pagine dopo, Roth aggiunge: «Nel bene e nel male, io posso fare solo quello che fanno tutti quelli che credono di sapere. Immagino. Sono costretto a immaginare [...]. È il mio lavoro». Philip Roth si è posto domande, e si è dato risposte; così, ha rivelato ai suoi lettori che senza ricorrere all’immaginazione non sarebbe riuscito a scriverlo quel romanzo, che non è affatto un romanzo di fantasy. In questo, come in tutti i suoi romanzi, Roth racconta vicende rigorosamente reali, ma mai semplici, perché davvero semplice la realtà non lo è mai; anzi: solo con un’immaginazione reattiva e ben allenata si può tener testa alla complessità davvero stupefacente della realtà. Il ricorso all’immaginazione, comunque, non esime lo scrittore, o chiun-
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La differenza tra i due tipici metodi del giornalista e del romanziere sta dunque nell’uso dell’immaginazione e nel linguaggio che si fa più complesso per dire cose via via più complesse, mentre la semplicità giornalistica appare quasi una forma di censura. Sin-
costruttore -in post-produzione- del significato dell’immagine. Non è il ritratto posato a fornire le informazioni più preziose, ma proprio il ritratto rubato e inconsapevole. È stato accertato con la tomografia a emissione di positroni che nel cervello di chi osserva una faccia, milioni di neuroni si mettono a scintillare tra loro come stormi di lucciole. I primi neuroni a svegliarsi stanno al capolinea dei due nervi ottici: lì ci sono neuroni specializzati nel seguire il movimento del soggetto, proprio
golarmente diverso è, al confronto, il linguaggio fotografico, che pare così simile all’oggettiva semplicità delle parole del giornalista, mentre mostra anche ciò che quelle parole sintetiche non possono dire. Nelle fotografie, infatti, e sempre ben visibili, ci sono le facce degli sconosciuti, e tutta la traumatica irregolarità di ogni vicenda umana. Nella semplicità della fotografia c’è sempre, evidente o latente, l’inesauribile complessità del reale. Tra tutte le immagini che ci possa capitare di vedere, la faccia umana è l’immagine più complessa e ambigua, la più ricca di segni, sintomi, indizi, tracce a multipli livelli, dato che in ogni faccia si somma ciò che esprime, ciò che rivela o tradisce della sua storia o dell’ultima emozione, secondo la volontà o contro la volontà del suo titolare; e tutto ciò appare da sé, per una naturale eloquenza o apparente chiusura, senza intervento del fotografo, contemplatore inerte. Decifrare, interpretare, immaginare e capire quanto le facce mostrano o nascondono è compito che spetta a chi, infine, osserva le fotografie: all’autentico
come sa fare una reflex moderna; altri sono specializzati nel leggere i colori; altri nel correggere la parallasse, e così via. Dalla corteccia visiva del lobo occipitale (dalle parti della nuca), i segnali visivi vengono poi inviati in altre aree, per essere interpretati, confrontati e, infine, salvati nelle memorie a breve o a lungo termine. Le neuroimmagini fornite dallo scanner a positroni non ci dicono in cosa consista il lavoro del cervello, ma solo che consiste in un gran traffico di messaggi interni. Lo si potrebbe paragonare al complesso lavorio dentro un gran Ministero, nel quale tutti gli analisti si scambino informative, consultino schedari, decifrino messaggi, interpretino segnali, e poi si mettano a elaborare ipotesi e immaginare intenzioni, traiettorie e progetti altrui. Negli archivi del Ministero dovrebbero esserci gli identikit dei pregiudizi razziali di Cesare Lombroso. Molto prima di diventare sapiens, l’homo sapeva leggere le facce dei suoi simili, ed era avvantaggiato se riusciva a distinguere le intenzioni aggressive da quelle amichevoli. Quell’antica facoltà
que altro, dall’interpretare e verificare poi, razionalmente, ciò che la stessa immaginazione ha fornito.
IL LINGUAGGIO DELLA FOTOGRAFIA
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di capire e farsi capire guardandosi non pare essersi molto evoluta: si è diffuso, invece, una specie di analfabetismo emotivo che, secondo Umberto Galimberti, ci ha fatto perdere la capacità di leggere le emozioni degli altri, di percepire le loro esigenze e le loro disperazioni. Così, tra passanti o compagni di viaggio, guardiamo e siamo guardati senza empatia; percepiamo solo vaghe minacce e un vago stato di ansia in cui ci si rispecchia un poco tutti. L’immaginazione, quando viene attivata, ci fa percepire somiglianti.
Molti anni fa, avevo osservato che certe istantanee da strada (street-photos) funzionavano come le tessere di un puzzle; erano in grado di evocare, o meglio di far immaginare la figura intera della quale erano parte. Bastavano un gesto e uno sfondo, una faccia e un dettaglio per caratterizzare un’intera città e far diventare nostra quella città e noi stessi autori dell’immagine. Accadde così che ci appropriammo della Pittsburg di W. Eugene Smith, della New York di William Klein, di tutta l’America di Robert Frank, e così via. Quelle, come infinite altre fotografie, erano sempre a disposizione di chiunque se ne immagini autore. C’era comunque una fiducia condivisa nella relativa verità di ogni immagine. Non è più così: «sta succedendo qualcosa, non è ancora ben chiaro cosa -scrive Michele Smargiassi- e un vento di perplessità scuote, facendosi pian piano convinzione di massa, il paradigma della verità automatica» (la citazione è tratta dal saggio Un’autentica bugia. La fotografia, il vero, il falso, pubblicato da Contrasto, nel 2009). In altre paro-
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le, la fotografia sta perdendo credibilità, mentre l’immaginazione sovreccitata dalla febbre digitale la sta disintegrando.
LE COSE COSÌ COME SONO La buona reputazione dell’immagine che non sa mentire precede la sua invenzione, risale all’epoca nella quale un filosofo inglese scrisse questa frase: «La contemplazione delle cose come sono, senza sostituzione o impostura, senza errore o confu-
sione, è in sé la cosa più nobile di un’intera messe di invenzioni». Era l’inizio del Seicento, l’alba della rivoluzione scientifica; Francis Bacon, italianizzato in Francesco Bacone, autore della riflessione, contemplava metodicamente i fenomeni naturali, per registrarne le cause sufficienti; Galileo Galilei, di due anni più giovane, osservava la superficie della Luna, osservava il moto del pendolo, osservava i satelliti di Giove e altro ancora. I due pionieri della rivoluzione scientifica procedevano a vista; lo sguardo era il loro (imperfetto) strumento scientifico. La macchina-che-contempla-e-registra-le-cose-come-sono non era stata ancora inventata, ma l’espressione di sir Francis Bacon fa capire che proprio di un affidabile strumento scientifico ci si aspettava l’avvento. Quando poi la fotografia arrivò, la considerazione del filosofo inglese ne divenne lo slogan promozionale, certificato di autenticità, garanzia di impegno, atto di fede, presunzione ontologica, primo comandamento, e altro ancora. Dorothea Lange la affisse sulla por-
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ta della sua camera oscura, quasi fosse un credo nella pura verità oggettiva, non contaminata da ignobili invenzioni e perverse immaginazioni. Bacon era divenuto il patrono della fotografia documentaria [ne abbiamo già riferito, in richiamo, nell’aprile 2006, quando il World Press Photo ha intitolato Things As They Are, appunto le cose così come sono, la monografia su cinquant’anni di fotogiornalismo, riprendendo proprio l’osservazione di Francis Bacon]. L’ultima traccia di quella antica stagione rimane nel lessico,
Oggi bisogna prendere atto che «la fiducia nella verità ontologica della fotografia, quella ormai è demolita per sempre» è la diagnosi di Michele Smargiassi, che cita anche la sentenza definitiva di Franco Carlini: «nell’era del digitale, la presunzione di verità della fotografia deve finire». Nelle ultimissime pagine del suo libro, Smargiassi si chiede come si possa salvare la “capacità testimoniale della fotografia” e quel che resta del suo “ruolo sociale”. La sua proposta prevede di «trasferire
nella stessa parola “fotografia” che si usa ancora oggi per indicare una specie di scheda descrittiva con pochi dati essenziali, perlopiù numeri e misure esatte: una “fotografia della situazione”, come si dice nei telegiornali, totalmente diversa ed estranea a qualsiasi fotografia vera, e senza virgolette. La paradossale ipocrisia nascosta in questa parola era già stata colta da Lewis W. Hine, quando scrisse (era il 1909) che «la fotografia non sa mentire, ma i bugiardi sanno fotografare» (oppure che «la fotografia è verità, ma anche i bugiardi possono fotografare»). Nel libro di Smargiassi vengono citate, a centinaia, capitolo dopo capitolo, le imprese dei fotografi bugiardi: bugie prima dello scatto, bugie durante lo scatto, bugie dopo lo scatto, bugie del mostrare, bugie del guardare il piacere della bugia... e così via. Malgrado le tante bugie rifilate ai credenti, la fotografia ha conservato a lungo la loro fiducia, ma poi, nel pieno della rivoluzione digitale, la sua credibilità è arrivata al collasso, e da un’acritica fiducia si è passati velocemente a un acritico sospetto.
l’onere della verità (del suo riconoscimento) dalle spalle deboli del medium alla razionalità forte del fruitore, che è l’autentico costruttore del significato dell’immagine». È una proposta razionale, ma non sappiamo come si possa realizzare in pratica. Di certo, non sarà possibile rifondare quella presunzione di verità, perché la rivoluzione digitale è ancora in atto e non ci sarà una restaurazione per il nobile mito di sir Francis Bacon. Non sarà dunque consentito alla fotografia un accesso privilegiato alla verità: anche la fotografia dovrà invece accettare le nuove regole del relativismo, riassumibili in tre citazioni da Addio alla verità, di Gianni Vattimo: uno: «La differenza tra vero e falso è sempre una differenza tra interpretazioni più o meno accettabili e condivise»; due: «Non c’è esperienza di verità che non sia interpretativa»; tre: «L’interpretazione riparte ogni volta da zero, con la propria contingenza, libertà e rischiosità». Se preferite, tornate alla citazione di Philip Roth. ❖
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Una delle più chiare espressioni della fotografia contemporanea si richiama a quella che è stata identificata come “Scuola di Düsseldorf”. Nata dai coniugi Bernd e Hilla Becher, e definita da altre tante influenze e combinazioni, ha tratteggiato i termini di una oggettività di visione che è presto trasmigrata in molteplici direzioni e ha influenzato un poco tutta la fotografia espressiva dagli anni Settanta: soprattutto in Europa, Italia compresa, ma anche oltre. Una attenta monografia a tema, pubblicata da Johan & Levi Editore, in traduzione dall’originaria di Schirmer/Mosel, scandisce il ritmo di undici autori discriminanti, a partire dai capiscuola, straordinariamente introdotti da un erudito testo che racconta la storia, la genesi e i contenuti di questa fotografia. Parole e immagini in efficace combinazione di intenti di Angelo Galantini Bernd & Hilla Becher: Industrielandschaft, Zeche Hansa, Dortmund-Huckarde, Ruhrgebiet [Paesaggio industriale, miniera Hansa, Dortmund-Huckarde, Ruhr]; Germania, 1965 (fotografia bianconero, 30x40cm). © 2009 Bernd & Hilla Becher, courtesy Schirmer/Mosel, Monaco.
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A
lmeno due, soprattutto due, sono gli indiscutibili valori oggettivi di ogni monografia fotografica: la raccolta di immagini presentata, prima di tutto, e i testi di accompagnamento e introduzione, non certo in subordine, ma in allineamento di merito e competenza. Quindi, nella consultazione e uso personale delle monografie (visione, approfondimento, studio, quello che si desidera), ognuno aggiunga proprie considerazioni individuali e, perché no, addirittura intime, che compongono i tratti della propria esperienza in fotografia, del proprio modo di intendere e considerare l’impegno in fotografia, della propria esistenza. Come spesso annotiamo: a ciascuno, il proprio. Così, la recente edizione italiana di La scuola di Düsseldorf, a cura di Lothar Schirmer, con approfondito testo introduttivo di Stefan Gronert, che subito sottotitola e specifica Fotografia contemporanea tedesca, offre e propone esattamente le due virtù e doti appena sottolineate.
Scandite nel e con il ritmo degli autori presentati, undici, compresi i capiscuola Bernd e Hilla Becher, autentico marchio di qualità e garanzia, le fotografie sono ordinatamente significative dell’argomento, che risolvono con la propria consistenza esplicita: sia che questa espressione fotografica piaccia, sia che non piaccia (l’intento individuale non conta). Allo stesso momento, successivo alle note introduttive dell’editore originario e curatore Lothar Schirmer, uno dei be-
FOTOGRAFIA E
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La scuola di Düsseldorf. Fotografia contemporanea tedesca; a cura di Lothar Schirmer, saggio introduttivo di Stefan Gronert; Johan & Levi Editore, 2010 (www.johanandlevi.com, info@johanandlevi.com); 320 pagine 26x30,5cm, cartonato con sovraccoperta; 68,00 euro. ❯ Fotografie di Bernd & Hilla Becher, Laurenz Berges, Elger Esser, Andreas Gursky, Candida Höfer, Axel Hütte, Simone Nieweg, Thomas Ruff, Jörg Sasse, Thomas Struth, Petra Wunderlich.
nemeriti dell’editoria illustrata internazionale (con la identificazione ufficiale Schirmer/Mosel, di Monaco di Baviera), il testo di Stefan Gronert è fondamentale per comprendere l’argomento. Nel suo lungo, colto, erudito, documentato e avvincente testo L’emancipazione della fotografia, Stefan Gronert non dà nulla per scontato. Racconta e approfondisce sia la storia di quella che è stata identificata, appunto, come “Scuola di fotografia di
Düsseldorf”, sia i contenuti espressivi di questa stessa fotografia, sia la sua sostanziosa influenza su tutta la fotografia contemporanea: motivazioni e intenti, senza alcuna soluzione di continuità.
DA BERND & HILLA BECHER Per la prima volta, La scuola di Düsseldorf, pubblicato in Italia da Johan & Levi Editore, in traduzione dall’originario di Schirmer/Mosel (e qui sottoli-
A ESPRESSIVA
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Candida Höfer: Opernhaus Köln II [Teatro dell’Opera di Colonia]. 2007 (Lambda Print, 200x337cm); © 2009 Candida Höfer, courtesy Schirmer/Mosel, Monaco.
pagina accanto, in alto) Axel Hütte: Mudchute II, England; 2001 (Duratrans, 157x207cm). © 2009 Axel Hütte, courtesy Schirmer/Mosel, Monaco. pagina accanto, in basso) Thomas Ruff: nudes wr 28; 2000 (C-Print / Diasec Face, 131x100cm). © 2009 Thomas Ruff / VG Bildkunst, Bonn, courtesy Schirmer/Mosel, Monaco.
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neiamo il valore dei testi in italiano, componente indispensabile e indissolubile della monografia), affronta in modo adeguatamente approfondito un fenomeno espressivo della fotografia contemporanea, che si è manifestato a cavallo tra l’ultimo quarto del Novecento e l’inizio del Duemila, e che si è proiettato soprattutto verso il mondo dell’arte. Annota subito Stefan Gronert: «Siccome non è sempre facile esporre coerentemente in un libro ciò che è accaduto nella realtà, è opportuno spiegare con la massima chiarezza possibile cosa si intende con la denominazione tra virgolette [ovvero, la “Scuola di fotografia di Düsseldorf”]. Infatti, se parlare dell’esistenza di una Scuola di fotografia di Düsseldorf inizialmente può sembrare del tutto legittimo, a una riflessione appena più attenta suscita qualche perplessità: esiste una vera “scuola di fotografia”? Chi sono i suoi allievi? E gli “allievi” possono già essere considerati artisti o in questo caso non sarebbero più allievi? Ci si riferisce ai cosiddetti “allievi di Becher”? Non tutti i fotografi noti e importanti di Düsseldorf sono stati allievi di Be-
cher: quali sono allora i criteri di selezione? È raro trovare definizioni inequivocabili. Tuttavia, per quanto ogni generalizzazione sia senza dubbio ingiusta, dimostrativa e poco aderente alla “verità”, che per sua natura è molto più ricca di sfaccettature, può servire per cercare di facilitare la comprensione: il suo scopo dev’essere né più né meno che questo». Chiarezza, trasparenza e, annotiamolo presto, onestà intellettuale. Doti che vanno apprezzate, per quanto consentono di affrontare e conoscere la materia, l’argomento presentato. A parte la convincente selezione di fotografie di undici autori della “Scuola” (per lo più note e conosciute), proprio il saggio introduttivo di Stefan Gronert è l’elemento indispensabile di questa monografia: perché si tratta di un testo che fa luce sull’ombra, che rivela più di quanto, a prima vista, racconti soltanto. Da qui, per quanto in estratto, ma comunque a piene mani, raccogliamo verità indispensabili e considerazioni proficue dall’ottimo approfondimento L’emancipazione della fotografia. «La definizione qui introdotta di “Scuola di foto-
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grafia di Düsseldorf” individua in questa città non solo un luogo di eccellenza della produzione fotografica, ma anche un centro altrettanto importante di formazione professionale ad altissimo livello. Suggerisce che proprio la costituzione di una “scuola” alla Kunstakademie di Düsseldorf, tra il 1976 e il 1997, consente di raggruppare diversi fotografi, quanto meno a livello di categoria, sulla base di una relazione che forse altrimenti non sarebbe risultata evidente. In sostanza, quindi, la definizione utilizzata concentra l’attenzione sulla formazione professionale presso Bernd (e Hilla) Becher».
MA ANCHE OLTRE Dalla premessa/considerazione indispensabile, Stefan Gronert si allunga in avanti con piglio, decisione e competenza. Immediatamente a seguire, leggiamo che «Ciò non toglie che, anche a prescindere dal contesto concreto, il metodo sotteso a una definizione di questo tipo potrebbe sembrare fragile: come si può infatti coniugare il pathos che caratterizza la concezione tradizionale dell’artista con
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Thomas Struth: San Zaccaria, Venedig; 1995 C-Print / Diasec Face, 180x228,5cm). © 2009 Thomas Struth, courtesy Schirmer/Mosel, Monaco.
pagina accanto, in alto) Petra Wunderlich: Cancelli Gioia; 1989 (fotografia bianconero, 40x55,5cm). © 2009 Petra Wunderlich, courtesy Schirmer/Mosel, Monaco. pagina accanto, in basso) Laurenz Berges: Potsdam IV; 1994 (C-Print, 74x62cm). © 2009 Laurenz Berges, courtesy Schirmer/Mosel, Monaco.
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il concetto di “scuola”? È difficile conciliare la visione idealizzata dell’“artista” come individuo geniale -per quanto dalla fine degli anni Sessanta questa stessa concezione appaia discutibile- con la vecchia idea degli allievi che imitano un modello. Già per questo motivo parlare di “Scuola di Becher” risulta problematico. Si potrebbe poi aggiungere che nessun artista importante gradisce di essere ridotto al ruolo di “allievo”: chi ha saputo elaborare una posizione autonoma si è lasciato alle spalle insegnamento e insegnante. «La dubbia denominazione di “Scuola di Becher” fu utilizzata per la prima volta in seguito a una mostra ospitata dalla Galerie Johnen & Schöttle di Colonia dal 2 settembre al Primo ottobre 1988 che, grazie a una recensione di Isabell Graw, trovò eco anche nella stampa d’arte internazionale. All’esposizione parteciparono Thomas Struth (diplomatosi alla Kunstakademie già nel 1980), Candida Höfer (1982), Thomas
Ruff, Petra Wunderlich (entrambi diplomati nel 1985) e Andreas Gursky (1987) che, di fatto, a quell’epoca non erano già più “allievi” e avevano sviluppato da tempo un percorso artistico autonomo. È indicativo che nessuno dei partecipanti faccia cenno a questa mostra nelle proprie bibliografie successive. [...]». Diamine, questa sì, che è un’osservazione di spicco, quasi e come se ognuno cercasse di prendere le distanze dalle proprie origini accertate, per ricrearsi verginità assoluta. Saltando alcuni paragrafi, ancora più avanti, leggiamo ancora: «In realtà, com’è ovvio, niente nasce dal niente. Nel quadro di questo breve saggio risulta però impossibile analizzare in modo veramente approfondito il percorso artistico di Düsseldorf dalla Seconda guerra mondiale alla metà degli anni Settanta, fenomeno solo in apparenza regionale, ma che per l’importanza centrale della Kunstakademie e del suo milieu si può identificare per molti aspetti con l’arte della Germania
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Ovest di allora. Si proverà invece a descrivere in poche frasi i tentativi di ottenere una nuova emancipazione artistica della fotografia, alla cui riuscita hanno contribuito, ancora una volta in modo del tutto decisivo, Hilla e Bernd Becher, sia con la loro stessa opera sia come insegnanti. Per l’importanza di questo duplice ruolo, i Becher si possono paragonare a Joseph Beuys [1921, uno dei portavoce più rappresentativi delle correnti concettuali nell’Arte della seconda metà del Novecento]». L’inquadramento storico, culturale e sociale è perfetto, non soltanto pertinente, tanto che, avanti (tanto) ancora, nel capitolo esplicitamente intitolato Cosa conta - ovvero: motivazioni e intenti di Hilla e Bernd Becher si trova conforto e si incontrano conferme. «Dal contesto storico così tratteggiato si evince chiaramente l’importanza della visione di Hilla (nata nel 1934) e Bernd Becher (1931-2007). Senza identificarsi veramente con le citate posizioni creative e cri-
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Andreas Gursky: Bahrain I; 2005 (C-Print, 302,2x219,6x6,2cm). © 2009 Andreas Gursky / VG Bildkunst, Bonn, courtesy Sprüth-Magers, Berlin London / Schirmer/Mosel, Monaco.
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tiche verso la pittura, i coniugi Becher simpatizzavano con molti dei nuovi approcci nel campo: del Minimalismo e dell’Arte Concettuale, dell’arte di dimensione politica di Joseph Beuys e delle posizioni di critica alle istituzioni di Marcel Broodthaers e Daniel Buren. «Quanto al loro atteggiamento verso la fotografia dominante in Germania, dalle posizioni citate conseguiva quasi automaticamente la presa di distanza dall’approccio di Otto Steinert, nella cui accentuazione della visione soggettiva del mondo individuavano un’analogia con la pittura informale dell’immediato dopoguerra. A fronte della più recente storia tedesca, quell’attenzione per il soggetto artistico era ritenuta un atteggiamento di pura compensazione, una fuga dalla realtà abbellita artisticamente. Per citare Hilla Becher: “Steinert e quelli della sua generazione non volevano guardare indietro e nemmeno volevano vedere il presente, il loro sguardo era diretto solo al futuro. Era una specie di fuga”. Sebbene agli stessi Becher sia poi stato rimproverato di riprendere in modo acritico il linguaggio figurativo dei fotografi anteguerra, da queste affermazioni risulta un’innegabile consapevolezza cri-
tica verso le concezioni tradizionali della fotografia. «L’approccio formale di Hilla e Bernd Becher si può riassumere in poche frasi: le loro foto[grafie] in bianconero, di dimensione 30x40 o 50x60cm, mostrano impianti o oggetti industriali come torri dell’acqua, di raffreddamento o di estrazione, gasometri, altiforni e forni da calcina, silos per cereali e capannoni, per citare solo alcuni soggetti importanti. Questi devono stagliarsi contro un cielo grigio chiaro, ossia trovarsi in una situazione di luce ben equilibrata che evita ombre troppo nette e che quindi conduce nel complesso a una differenziazione fotografica delle tonalità di grigio. Eccetto che nei rari panorami di paesaggi industriali, il fotografo e l’osservatore si situano sistematicamente a metà altezza dell’oggetto, di regola collocato in posizione simmetrica rispetto all’asse verticale mediano della foto[grafia]. Gli impianti o gli oggetti sono ritratti con grande nitidezza, evitando per quanto possibile dettagli del mondo animato come persone o automobili, in modo che tutta l’attenzione sia veicolata sull’oggetto stesso. Quest’ultimo assume -secondo le parole dei Becher- lo status di “scultura anonima”: “Sono essenzialmente costruzioni in cui si riconosce il princìpio stilistico dell’anonimità. Risultano peculiari grazie a, e non malgrado, la mancanza di creatività formale”. Nel contesto storico a cavallo del 1970, questo sforzo di “oggettività” e “anonimità” può essere letto anche come opposizione ancora necessaria a Steinert, come traspare tra l’altro dall’intenzione originaria dei Becher di chiamare “Fotografia oggettiva” la loro esposizione del 1969 alla Kunsthalle di Düsseldorf». Per quanto possano averlo fatto, questi brevi estratti dal compendioso saggio di Stefan Gronert, distribuito su una sessantina di pagine della monografia La scuola di Düsseldorf, rivelano il suo straordinario valore, la sua indispensabilità per la corretta decifrazione delle immagini presentate, che senza la propria contestualizzazione rischiano di non raggiungere lo spessore che meritano, sia per se stesse, sia nella propria proiezione verso l’espressione della più concentrata fotografia contemporanea (indipendentemente dagli apprezzamenti individuali, o dalle eventuali prese di distanza). Così che, ribadiamolo ancora, l’allineamento e la consecuzione tra parole e immagini compongono quella straordinaria miscela che permette di decifrare la fotografia, di andare oltre la sua superficie apparente, per assorbire e assimilare quell’intenso progetto che ne determina gli aspetti a tutti evidenti (sulla superficie delle stampe), ai quali corrisponde sempre e comunque una profondità di intenzioni e creatività che compone i tratti della fotografia d’autore. Ovverosia, della fotografia che non si esaurisce nell’effimero del solo scatto, ma imprime la propria traccia nel percorso della Storia (magari non soltanto di quella della fotografia). La cosiddetta “Scuola di fotografia di Düsseldorf” rappresenta uno dei momenti/passaggi discriminanti del linguaggio visivo contemporaneo. La monografia pubblicata da Johan & Levi Editore, in traduzione dall’originaria di Schirmer/Mosel, è indiscutibilmente la sua bibbia. Della quale fare prezioso tesoro. ❖
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IN LUNGO E Canon TS-E 17mm f/4L, TIPA Award 2009 Best Professional Lens: «È dotato dell’angolo di campo più ampio tra gli obiettivi decentrabili e basculabili attualmente disponibili: per questo, è la scelta obbligata per i professionisti che si occupano di fotografia di architettura e paesaggio. Grazie allo speciale sistema di rotazione, il senso di basculaggio e quello di decentramento sono indipendenti tra loro».
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di Antonio Bordoni Fotografie di Franco Canziani
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remio TIPA di categoria, nella sessione dello scorso 2009 (FOTOgraphia, maggio 2009), il grandangolare decentrabile e basculabile Canon TS-E 17mm f/4L affranca quell’idea di fotografia professionale che sta facendo a meno (per fare a meno?) delle prestazioni dell’accomodamento dei corpi mobili, fino a ieri l’altro prerogativa indiscussa e inviolabile della fotografia con apparecchi grande formato, dal 4x5 pollici in su con pellicola piana, e poi anche controllate riduzioni verso il medio formato 6x7 e 6x9cm, su pellicola a rullo, mediante appositi magazzini portapellicola dedicati. Le due considerazioni in sequenza. Prima di tutto, ribadiamo la prestigiosa affermazione negli autorevoli TIPA Award, assegnati da una selettiva giuria di qualificate riviste europee (e oltre, ormai), della quale fa parte anche la nostra testata. Canon TS-E 17mm f/4L, Best Professional Lens 2009: «L’obiettivo Canon TS-E 17mm f/4L è dotato dell’angolo di campo più ampio tra gli obiettivi decentrabili e basculabili attualmente disponibili: per que-
sto, è la scelta obbligata per i professionisti che si occupano di fotografia di architettura e paesaggio. Grazie allo speciale sistema di rotazione, il senso di basculaggio e quello di decentramento sono indipendenti tra loro. Il TS-E 17mm f/4L adotta il trattamento delle lenti Canon Sub-Wavelength Structure (SWC), che riduce notevolmente i riflessi e le immagini fantasma».
UN PASSO A LATO (AVANTI?) Quindi, riprendiamo consistenti considerazioni dal saggio Alla Photokina e ritorno, scritto dal nostro direttore Maurizio Rebuzzini all’indomani dell’appuntamento fieristico internazionale dell’autunno 2008. Dal capitolo Reflex con contorno, adeguatamente introdotto da una citazione da Milan Kundera (da Lo scherzo), «Tutto ciò che raccontava era in effetti possibile, ma non per questo certo» (sia chiaro!), concentriamoci sul paragrafo intitolato Roba da grandi (formati), che calza a pennello alle considerazioni che oggi, e qui, riferiamo all’efficace Canon TS-E 17mm f/4L, presentato in tempi commerciali successivi alla stesura di queste stesse note, che comunque ne sottolineano il senso e valore esplicito. Testuale: «Sull’intenzione manifesta delle reflex
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Non prova sul campo. Ovverosia, non analisi delle prerogative tecniche del Canon TS-E 17mm f/4L, il grandangolare più estremo tra gli obiettivi decentrabili e basculabili che stanno definendo (anche!) i nostri attuali tempi tecnici, nei quali l’acquisizione digitale di immagini con reflex professionali sta sostituendosi all’uso ragionato dei corpi mobili. Della qualità nominale e annunciata, ci fidiamo a occhi chiusi. Invece, e più prosaicamente, con la propria Canon Eos 1Ds Mark II, l’attento e scrupoloso Franco Canziani ha finalizzato il consistente decentramento lineare, di più/meno 12mm (e poi basculaggio di più/meno 6,5 gradi), sia all’inquadratura prospettica corretta sia alla combinazione di vertiginose inquadrature panorama. In orizzontale e verticale
O E LARGO di sovrapporsi all’uso dei dorsi digitali ci sarebbe ancora tanto da riflettere, tenendo sempre e comunque presenti le condizioni fondamentali di certa fotografia professionale, che per comodità di identificazione circoscriviamo nella dimensione e personalità della sala di posa: still life e dintorni, con un occhio anche alla fotografia di architettura (in esterni, è ovvio). Così che non posso ignorare che Canon, per prima e da tempo, e Nikon, da momenti sostanzialmente recenti, appunto culminati nell’ufficialità della Photokina 2008, propongono rispettive famiglie di obiettivi decentrabili e basculabili: Canon TS-E 24mm f/3,5L, Canon TS-E 45mm f/2,8 e Canon TS-E 90mm f/2,8; PC-E Nikkor 24mm f/3,5D ED, PC-E Micro Nikkor 45mm f/2,8D ED e PC-E Micro Nikkor 85mm f/2,8D ED. Ovvero, obiettivi in grado di assolvere e risolvere le condizioni di controllo prospettico e estensione (piuttosto che contrazione volontaria) della nitidezza sui e con i sensori di acquisizione digitale di immagini delle proprie reflex. «Il decentramento è sostanzialmente finalizzato al controllo della prospettiva, utile soprattutto nella fotografia di architettura e paesaggio. Mentre il basculaggio, regolazione propria e caratteristica
degli apparecchi a corpi mobili, un tempo generalmente di grande formato (dal 4x5 pollici in su, e qualche volta anche in versione 6x7 e 6x9cm), permette di governare l’estensione ottimale della nitidezza. Soprattutto, le proprietà della rotazione di basculaggio allineano le reflex Canon e Nikon con le capacità operative proprie e caratteristiche del-
Progetti dell’architetto Guido Tenconi, di Legnano, che opera prevalentemente nel campo dell’edilizia residenziale e di uffici e dell’architettura di interni. Ha progettato e realizzato numerosi fabbricati di abitazione collettiva, ville private e interventi di ristrutturazione, nonché arredamenti di case private, negozi e uffici sia in Italia sia all’estero. centro pagina) Inquadratura panorama orizzontale composta dall’inquadratura orizzontale originaria più la visione fotografica con decentramento massimo verso destra e sinistra (12 più 12mm). Inquadratura quadrata composta dall’inquadratura orizzontale originaria più la visione fotografica con decentramento verso l’alto e il basso.
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Palazzo Branda Castiglioni, Cappella di San Martino. Edificio appartenuto al cardinale Branda Castiglioni (1350-1443), insigne prelato che a partire dai primi decenni del Quindicesimo secolo trasformò l’intero borgo e realizzò in Castiglione Olona il primo esempio di umanesimo toscano in Lombardia. Il palazzo è composto da due corpi di edificio ben distinti. Il primo fu costruito nel Quattordicesimo secolo. Ampliato e abbellito nel corso del Quindicesimo secolo, conserva preziosi affreschi di scuola lombarda e lavori di maestri toscani. Fu poi ampiamente rimaneggiato nei secoli successivi. L’elemento di raccordo tra i due corpi di edificio è composto dalla porzione di casa, che contiene, al piano terra, la Cappella cardinalizia e, al piano superiore, la loggetta rinascimentale. Scoperta nel 1982, la Cappella cardinalizia di San Martino è stata interamente restaurata: oggi è uno dei gioielli pittorici del palazzo. L’opera pittorica è stata attribuita al Vecchietta, che secondo gli ultimi studi lavorò a questo ciclo di affreschi tra il 1437 e il 1439. Sulla parete che sovrasta la piccola abside, il pittore ha dipinto la crocifissione, sulla parete opposta una “Chiesa Trionfante”, con papi e presbitteri, cardinali e fondatori degli Ordini Monastici; sulla parete con l’occhio di luce, una “Strage degli Innocenti”, e su quella di fronte una processione di donne, vergini e martiri guidate da Sant’Orsola in cammino verso Gesù Cristo. Completano le immagini pittoriche, l’arco affrescato con otto profeti e, a lato del finto marmo, nella parte bassa, una famiglia, forse gli offerenti. La volta a crociera della Cappella racchiude invece le immagini dei quattro Evangelisti, raffigurati con i loro simboli. La volta è retta da quattro peducci, che raffigurano gli Angeli, ancora di pietra arenaria.
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la fotografia a corpi mobili, riducendo così il divario con l’applicazione di sistemi appositamente finalizzati, da usare con dorsi digitali conseguenti. «Gamma di obiettivi che appartengono alla schiera degli utensili specialistici, finalizzati al più pertinente controllo della ripresa fotografica, gli obiettivi Canon TS-E e PC-E Nikkor sono dotati di doppio accomodamento ottico/meccanico. Oltre al decentramento, dispongono anche della rotazione di basculaggio, sulla quale è opportuno concentrare la nostra attenzione, ripeto finalizzata alle considerazioni secondo le quali la fotografia reflex dei nostri giorni si propone per risolvere anche condizioni della fotografia professionale statutariamente assolte da altre configurazioni di profilo diverso, perché originariamente superiore (nello specifico). «Per quanto il decentramento consenta alla fotografia piccolo formato di controllare la resa prospettica, il basculaggio la arricchisce di una raffinata regolazione, solitamente propria dei soli sistemi a corpi mobili, oggigiorno diversamente interpretati (ancora: le configurazioni dell’italiano Silvestri, sopra tutti).
«Il decentramento consente di realizzare inquadrature dal basso verso l’alto, e viceversa, prive degli spigoli cadenti o convergenti. Anziché inclinare tutto l’apparecchio in alto o in basso, verso il soggetto, appunto per comprendere l’inquadratura adeguata, la reflex può restare rigorosamente in bolla, con il piano immagine perpendicolare al terreno e parallelo al soggetto: condizione necessaria per la corretta restituzione fotografica della geometria naturale e originale. L’inquadratura verso l’alto, nelle riprese dal basso, oppure verso il basso, in quelle dall’alto, è recuperata mediante l’opportuna disposizione del decentramento dell’obiettivo. «Oltre a questo, i tre Canon TS-E 24, 45 e 90mm e gli altrettanti tre PC-E Nikkor analoghi 24, 45 e 85mm dispongono anche della rotazione di basculaggio del piano dell’obiettivo rispetto a quello focale. Come si dovrebbe sapere, il basculaggio consente di indirizzare la messa a fuoco, svincolandola dal rapporto statico di partenza: cioè si può scegliere un piano di accomodamento proprio, e non si deve necessariamente dipendere da quello originario.
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«Quando l’obiettivo è parallelo al piano immagine, condizione standard degli apparecchi fotografici privi di rotazione di basculaggio, il piano di messa a fuoco è analogamente parallelo, e la profondità di campo, che si estende in avanti e indietro (rispetto lo stesso piano di messa a fuoco), dipende dalla impostazione di diaframmi sistematicamente chiusi, in chiusura. Invece, l’alterazione volontaria e controllata del parallelismo tra obiettivo e piano immagine crea e determina una messa a fuoco su un piano inclinato volontario e scelto in relazione all’ingombro del soggetto: non più parallelo né all’obiettivo né al piano immagine. «Così che, al pari di quanto avviene con gli apparecchi a corpi mobili (una volta, a banco ottico oppure folding), la rotazione di basculaggio degli obiettivi Canon TS-E 24, 45 e 90mm e PC-E Nikkor 24, 45 e 85mm viene finalizzata al controllo ottimale della nitidezza su tutto il campo inquadrato, mediante la messa a fuoco su piani che consentano di orientare l’estensione della profondità di campo in dipendenza della disposizione del soggetto.
Decentramento massimo verso l’alto (12mm). al centro) Da un punto di ripresa innalzato, decentramento massimo verso l’alto (12mm).
Schematizzazione della Cappella di San Martino, nel palazzo Branda Castiglioni, a Castiglione Olona, in provincia di Varese. L’estensione degli affreschi e i ridotti spazi di lavoro danno merito alle possibilità operative del grandangolare decentrabile e basculabile Canon TS-E 17mm f/4L, sapientemente utilizzato da Franco Canziani.
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Sacro Monte di Varese, Nona Cappella, La salita al Calvario (1623). Dalle tre finestre della Cappella si vedono tre scene della Passione di Cristo. Con le sue quattordici Cappelle, che si snodano lungo un acciottolato di circa due chilometri, il Sacro Monte di Varese è indubbiamente il più affascinante itinerario mariano al mondo. Si conteggia che sulla via che porta al Sacro Monte siano passati, in circa trecento anni, sessanta milioni di pellegrini. Nel 2003, è stato inserito dall’Unesco nella Lista del Patrimonio dell’Umanità. Inquadratura panorama verticale composta dall’inquadratura verticale originaria più la visione fotografica con decentramento massimo verso l’alto e il basso (12 più 12mm).
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smigrazione di certe applicazioni professionali verso le reflex, che scartano a lato antiche lezioni e precedenti condizioni tecniche (magari bellamente ignorate, ne sono più che consapevole)».
CANON TS-E 17mm f/4L
«Dopo l’individuazione di un piano di messa a fuoco congeniale all’ingombro volumetrico del soggetto, la nitidezza di tutta l’area inquadrata, lungo la terza dimensione, dipende sempre e comunque dall’impostazione di una adeguata apertura (ovvero chiusura) del diaframma. Gli obiettivi basculabili Canon TS-E e PC-E Nikkor consentono di operare in questa direzione; cioè permettono di agire lungo piani di nitidezza scelti indipendentemente dall’estensione originaria avanti-indietro. Per operare nel modo più conveniente, l’asse di basculaggio di questi obiettivi basculabili può essere orizzontale oppure verticale. «Comunque, e a conclusione di questa deviazione, sostanzialmente doverosa, gli obiettivi speciali Canon TS-E 24mm f/3,5L, Canon TS-E 45mm f/2,8 e Canon TS-E 90mm f/2,8 e poi PC-E Nikkor 24mm f/3,5D ED, PC-E Micro Nikkor 45mm f/2,8D ED e PC-E Micro Nikkor 85mm f/2,8D ED, decentrabili e basculabili, rappresentano uno dei più sostanziosi indizi (sintomi, addirittura) della tra-
All’indomani della Photokina 2008, alla quale si sono inevitabilmente riferite le considerazioni, analisi e riflessioni del saggio appena ricordato, dal quale abbiamo estratto un passaggio adeguato e calzante alle nostre attuali osservazioni, Canon ha aggiunto una focale estrema alla propria gamma di obiettivi decentrabili e basculabili. Appunto, il consistente TS-E 17mm f/4L che porta a quattro le focali della gamma: oltre le tre da tempo note TS-E 24mm f/3,5L, TS-E 45mm f/2,8 e TS-E 90mm f/2,8. Intenzionalmente progettato per la fotografia di architettura, campo specifico di riferimento, il decentrabile e basculabile Canon TS-E 17mm f/4L di ultima generazione è definito da una distorsione minima, che offre una nitidezza ottimale su tutto il proprio campo visivo, di 104 gradi sulla diagonale del formato fotografico (di riferimento) 24x36mm, coincidente con i sensori ad acquisizione digitale full frame. Nell’impiego e operabilità, la regolazione indipendente dei meccanismi di decentramento (più/meno 12mm) e basculaggio (più/meno 6,5 gradi) assicura la massima versatilità, che in ambiti di fotografia digitale si rivela più agevole di quanto si possa originariamente pensare: e gli esempi delle prove sul campo effettuate per noi da Franco Canziani ne sono testimonianza palpitante. Ne riferiamo più avanti. La qualità formale delle riprese fotografiche, sia
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in acquisizione digitale di immagini sia (eventualmente) su pellicola 35mm, si deve al particolare disegno ottico, comprensivo di una lente asferica di vetro stampato ad alta precisione, dotata di ampio diametro. L’aberrazione cromatica, frequente nella fotografia grandangolare, è eliminata, non solo minimizzata, da quattro elementi UD. Progettato per l’utilizzo in fotografia digitale, il particolare rivestimento delle lenti Sub-Wavelength Structure, tecnologia proprietaria Canon, contribuisce a ridurre al minimo gli effetti fantasma e i bagliori causati dal riflesso interno.
FRANCO CANZIANI: SUL CAMPO Al di là delle specifiche tecniche, che non valgono soltanto per la teoria annunciata delle proprie prestazioni vantate, le dotazioni fotografiche particolari, quale è il grandangolare decentrabile e basculabile Canon TS-E 17mm f/4L, unico nel proprio genere, meritano una valutazione sul campo. In questo senso, ci è venuto incontro Franco Canziani, professionista di Castiglione Olona, in provincia di Varese, del quale abbiamo già apprezzato la colta documentazione dell’affascinante Museo Arte Plastica (FOTOgraphia, settembre 2004). In questa tornata, Franco Canziani ha realizzato una serie di fotografie, per le quali ha finalizzato il decentramento del Canon TS-E 17mm f/4L a particolari situazioni della fotografia di architettura e interni. Per il basculaggio dello stesso obiettivo, altro discorso: la rotazione di basculaggio, con quanto ne consegue nel controllo prospettico e dell’estensione della nitidezza (o contrazione volontaria), è più congeniale all’uso ragionato e finalizzato delle focali più lunghe Ca-
non TS-E 45mm f/2,8 e TS-E 90mm f/2,8, idonee alla fotografia di still life, in sala di posa. Come ha agito Franco Canziani? Essenzialmente in due maniere, come certificato dalle note esplicative riferite alle fotografie realizzate: sia in decentramento utilitaristico, per recuperare porzioni utili di inquadratura, verso l’alto e verso il basso, con una estensione di campo che l’autore allinea a quella che un tempo si otteneva con il grandangolare 90mm sul grande formato 4x5 pollici (10,2x12,7cm); sia in decentramento programmato, per realizzare inquadrature di più ampio respiro rispetto l’inquadratura standard con rapporto 2:3 tra i propri lati. Ovvero, composizioni panorama, orizzontali e/o verticali, oggi alla pratica portata di una semplice postproduzione sui file originari. Dopo aver sottolineato la pertinenza di questi esempi, e aver sottoscritto la bravura operativa e il talento di Franco Canziani, la parola alle immagini: testimonianza palpitante e concreta di avvincenti soluzioni fotografiche. ❖
Inquadratura panorama orizzontale composta dall’inquadratura orizzontale originaria più la visione fotografica con decentramento massimo verso destra e sinistra (12 più 12mm).
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di Maurizio Rebuzzini
C Baseball - Ballet in the Dirt, di Neil Leifer; a cura di Eric Kroll, con i contributi di Gabriel Schechter, Johnny Unitas, Oscar Robertson e Ron Shelton; Taschen Verlag, 2009 (distribuzione Inter Logos, strada Curtatona 5/2, 41100 Modena; www.books.it); 296 pagine 31x25,7cm, cartonato con sovraccoperta; 29,99 euro.
❯ Art Edition (esaurita) in tiratura di mille copie numerate e firmate; 302 pagine 39,6x33cm, in box; 500,00 euro.
onfessione obbligatoria. Amo il baseball americano, per il quale declino altresì la mia nostalgia per i decenni (tra)passati, che percorre trasversalmente un poco tutta la mia esistenza, anche quella fotografica: non lo lascio mai intendere, lo dico sempre esplicitamente. Per cui, rimanendo al baseball americano, è fin scontato che sono assolutamente e inviolabilmente legato ai decenni lontani, e osservo con un certo distacco i gesti atletici del presente, oggettivamente poveri di quelle socialità e aneddotiche che hanno reso memorabili altri tempi. Certo, in stagioni sostanzialmente recenti ho ritrovato sapori antichi, che in una certa misura mi hanno riconciliato con il presente. Due momenti si innalzano sopra tutti, e debbono essere richiamati subito: le vittorie nelle World Series (alla conclusione dei campionati americani), in anni curiosamente successivi, dei Boston Red Sox e Chicago White Sox, rispettivamente nel 2004 e 2005. Dove sta la straordinarietà di queste due vittorie, entrambe decenni e decenni dopo le precedenti? In due antiche “maledizioni”, che hanno condannato all’oblio le due squadre, entrambe ai vertici del baseball americano di inizio Novecento.
BOSTON RED SOX Nella serie prevista e programmata al meglio delle sette partite, nel 2004, i Boston Red Sox si sono imposti per quattro a zero sui St. Louis Cardinals. Non vincevano le World Series dal lontano 1918 (quattro a due, sui Chicago Cubs), quando nelle proprie fila giocava Babe Ruth, certamente il più grande giocatore di baseball in assoluto: un autentico mito [riquadro a pagina 57]. Proprio George Herman “Babe” Ruth, detto “The Bambino” (in italiano!), la cui vita è stata raccontata nel film The Babe - La leggenda (The Babe, di Arthur Hiller; Usa, 1992; con John Goodman nei panni del celebre giocatore), lanciò il proprio anatema nel gennaio 1920, quando venne ceduto agli avversari di sempre, agli odiati New York Yankees, si dice per cen-
Pubblicata dall’immancabile Taschen Verlag, Baseball - Ballet in the Dirt, del fotogiornalista Neil Leifer, è una affascinante monografia illustrata, che racconta gli anni Sessanta e Settanta dello sport popolare più amato negli Stati Uniti. Oltre la professionalità, quanto amore trasuda da queste pagine. Indipendentemente dal soggetto, che può non interessare tutti, se ne faccia tesoro individuale. Piaccia o meno, la Fotografia convinta è soprattutto questo. Appunto, amore 54
AMOR D
toventicinquemila dollari in contanti e trecentomila in prestito: era stato prelevato dai Baltimora Orioles, allora nelle leghe minori, per ventimila dollari, nel precedente 1914, esordendo a Boston l’undici luglio, e facendo poi conquistare ai Red Sox tre World Series ravvicinate (1915, 1916 e 1918), a suon di battute valide e magistrali fuoricampo. Lasciando il Massachusetts, Babe Ruth avrebbe profetizzato che «Senza di me, non vincerete più nulla!». La “maledizione del bambino”, come venne subito definita, si è allungata nei decenni, fino
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R DI BASEBALL
al recente 2004, valendo per ben ottantasei anni. Non che, nel frattempo, i Boston Red Sox non ci avessero anche tentato e non fossero arrivati vicini al successo, ma in quattro World Series sono stati clamorosamente sconfitti, sul filo di lana, all’ultima delle sette partite in programma, ovverosia sempre quattro a tre, dai St. Louis Cardinals (1946 e 1967), dai Cincinnati Reds (1975) e dai New York Mets (1986; me la ricordo, la notte di Manhattan: io c’ero). A seguire, dopo aver cancellato la “maledizione”, appunto nell’autunno 2004, i Boston Red Sox si
sono presto ripetuti, nel 2007, con un altro sonoro quattro a zero sui Colorado Rockies, autentica sorpresa della stagione, portando a sette le proprie vittorie complessive, una delle quali, la loro prima e la prima World Series in assoluto della storia, come Boston Americans, nel 1903. Nota parallela. Abbattuto lo Yankee Stadium, alla fine della stagione 2008, come abbiamo evocato in FOTOgraphia del successivo marzo 2009, lo stadio dei Boston Red Sox, il leggendario Fenway Park, rimane una delle ultime testimonianze del baseball del-
Mickey Mantle, leggenda dei New York Yankees (il suo numero 7 è uno di quelli ritirati), in battuta durante la quarta partita delle World Series contro i San Francisco Giants; Yankee Stadium, 8 ottobre 1962.
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Maury Wills scivola a casa base, durante la seconda partita dei Playoff tra Los Angeles Dodgers e San Francisco Giants (che le avrebbero vinte, disputando poi le World Series con i New York Yankees [a pagina 54], dove furono sconfitti per quattro a tre); Dodger Stadium, 2 ottobre 1962.
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le origini: affascinante e fascinoso come sanno esserlo tutte le architetture di inizio Novecento. Ancora, e poi basta con i Boston Red Sox, ricordo che il Fenway Park è lo stadio che appare nel film L’uomo dei sogni (Field of Dreams, di Phil Alden Robinson; Usa, 1989), autentico cult, nel quale è altresì visualizzato il tabellone elettronico segnapunti sponsorizzato da Polaroid.
CHICAGO WHITE SOX Anche sulla testa dei Chicago White Sox ha pesato una maledizione, protrattasi per decenni e decenni (ancora). Si sono imposti nelle World Series del 2005, quattro a zero sugli Houston Astros, ottantotto anni dopo la loro ultima affermazione, del 1917: quattro a due sui New York Giants. La maledizione dei White Sox, che per tutti questi decenni è valsa loro l’infamia di essere gergalmente definiti “Black Sox”, oppure “sporchi Sox”, ha origine nelle World Series perse nel 1919 contro i Cincinnati Reds. Non fu tanto la sconfitta, quanto l’accusa di corruzione di otto giocatori, tra i quali il leggendario Shoeless Joe Jackson (Joseph Jefferson Jackson, detto “Shoeless Joe” per essersi tolto le scarpe di gioco in una tormentata partita di inizio secolo; figura evocata nel film L’uomo dei sogni, appena ricordato), ai tempi uno dei più grandi giocatori di baseball dell’intera nazione. Anche questa vicenda ha un proprio richiamo cinematografico, nel film Otto uomini fuori (Eight Men Out, di John Sayles; Usa, 1988), che dà appunto spazio all’intera storia e alla sua inevitabile conclusione: squalifica a vita per i corrotti, anche in presenza di prove sostanzialmente indiziarie. In particolare, poco fu addebitato allo stesso Shoeless Joe Jackson, che in
quella tornata di partite registrò una alta media di prestazioni. Ma la necessità di allontanare ogni possibile dubbio dal campionato impose un sacrificio drastico.
NOSTALGIA? Ecco, come anticipato, queste due vicende recenti sono le sole che mi hanno riavvicinato al baseball contemporaneo, così tanto diverso da quello dei decenni scorsi, attraversato da un clima di favola che fa bene al cuore. Soprattutto, è sempre doveroso ricordare che i New York Yankees sono stati il collante della Storia, sia per le proprie imprese sportive, che a tutt’oggi conteggiano ventisette World Series vinte e quaranta disputate, l’ultima vittoria è dello scorso 2009, quattro a due sui Philadelphia Phillies (a seguire, la seconda squadra più titolata è quella dei St. Louis Cardinals, con dieci World Series su diciassette disputate), sia per la fama di alcuni suoi giocatori, conquistata in campo e nel privato (Joe DiMaggio, che sposò Marilyn Monroe, sopra tutti). Tra tanto, le figure mitiche del baseball sono perennemente ricordate dalle squadre nelle quali hanno militato e dai loro tifosi, senza soluzione di continuità storica, assai diversa dalla memoria breve italiana, che fa presto scempio dei propri monumenti. In uno sport che da tanti anni assegna numeri individuali ai giocatori, non cifre identificative dei ruoli in campo (che ormai non ci sono più neppure nel calcio), ogni squadra ritira il numero che è stato di un giocatore che ne ha definito la Storia. Tanto per citare, tra i molti ritirati, ne segnaliamo quattro dei New York Yankees, le cui cifre sono ricordate a bordo campo: il 3 di Babe Ruth (ritirato il
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BABE RUTH, IL PIÙ GRANDE (IN ASSOLUTO)
Nato George Herman Ruth, a Baltimora, il 6 febbraio 1895, detto Babe Ruth, il più leggendario tra i giocatori di baseball di tutti i tempi è noto anche con il soprannome, in italiano (!), “The Bambino”. Segnato da una adolescenza difficile -i genitori lo portarono in un istituto religioso, dove ve lo avrebbero dimenticato (vicenda ben raccontata nel cinematografico The Babe, del 1992, in Italia The Babe - La leggenda, con un credibile John Goodman)-, Babe Ruth ha segnato gli anni Venti del baseball americano. Oltre i suoi gesti sportivi, li stiamo per rievocare, fu noto per la sua particolare predisposizione verso i bambini, tanto che la Little League di baseball è intitolata al suo nome, appunto Babe Ruth League. La sua fama di giocatore è soprattutto legata alla forza in battuta, in fase di attacco. Oltre le migliaia di battute valide, il suo curriculum segnala settecentoquattordici fuoricampo: record dal 1935, che ha resistito fino alle più moderne imprese di Hank Aaron, della metà dei Settanta (quando si disputavano molte più partite a stagione, va rilevato). Mancino formidabile in battuta, e destro nella scrittura, Babe Ruth ha spedito settecentoquattordici volte la pallina oltre la recinzione che delimita il terreno di gioco, a più di centoventi metri dal box di battuta. Babe Ruth uscì di scena nel 1935, dopo ventuno anni di attività. Tornò allo Yankee Stadium, lo stadio che venne costruito proprio per ospitare i tanti sportivi che volevano assistere alle sue gesta, lo stadio teatro delle sue memorabili imprese, il 13 giugno 1948, per una partita di addio: allo sport e alla vita. Come ricordano i testimoni, fu un pomeriggio di grande commozione generale. Tutti erano coscienti di avere di fronte un uomo atrocemente minato dallo spietato tumore che un paio di mesi più tardi, il sedici agosto, lo avrebbe definitivamente vinto; tutti sapevano che questa sarebbe stata l’ultima apparizione pubblica di Babe Ruth. Tra le tante fotografie scattate quel giorno, una ha vinto l’ambìto premio Pulitzer; lei pure appartiene ormai al mito. Dalla fine. Un caldo giorno d’estate, uscendo come ogni altro giorno dall’ascensore che si era fermato al quinto piano del N.Y. Herald Tribune, il fotografo Nat Fein intuì che nell’aria c’era qualcosa di diverso. Nella stanza della cronaca locale, sua moglie Lois stava chiacchierando con il picture editor Richard Crandell. A casa, pensò, va tutto bene, e allora? Semplice: «Nat, ho una sorpresa per te», disse Richard Crandell. «Hai vinto il premio Pulitzer per la tua fotografia di Babe Ruth». È una storia da raccontare, ripensando alla lugubre giornata che aveva tenuto New York in apprensione per un cielo grigio che minacciava pioggia. In quel pomeriggio del 13 giugno 1948, Babe Ruth, palesemente malato, uscì dalla buca degli Yankees e si avviò lentamente verso il box del battitore, a casa base. Una banda musicale accompagnò i suoi passi, mentre, con gesto spontaneo
estremamente commovente, l’intera squadra degli Yankees si era schierata per onorare il suo più leggendario giocatore, nel giorno dell’addio. Babe Ruth avanzava, e nessuno poteva confondere la sua imponente figura con le larghe spalle incurvate, mentre si appoggiava sulla mazza per sostenersi. Gli spettatori si alzarono rispettosamente in piedi (oggigiorno, questo cerimoniale viene sollecitato, allora no). I tifosi resero omaggio a un uomo che per vent’anni era stato l’idolo di migliaia di persone, fino a diventare il simbolo stesso della vera sportività. Venticinque fotografi erano presenti per documentare la cerimonia del Babe Ruth Day. Come tutti, Nat Fein fotografò quanto stava succedendo, ma sentiva che nessuno scatto effettuato era adeguato all’avvenimento, nessuno lo raccontava. Staccatosi dal gruppo dei fotoreporter, Nat Fein si portò dietro il box di battuta. Mentre la banda suonava e Babe Ruth salutava per l’ultima volta il suo pubblico, vide l’immagine che da sola era la sintesi dell’intera giornata. La casacca con il numero “3” sulla schiena non sarebbe stata più usata dagli Yankees, e da quel punto di vista l’inquadratura era pronta: la composizione si era accomodata da sé, con Babe Ruth che si toglie il berretto e si inchina agli spalti. Nat Fein si ricordò una delle esortazioni del picture editor Richard Crandell, che spesso raccomandava di scattare senza flash, quando la luce naturale fosse appena sufficiente. Secondo il picture editor, la luce del giorno avrebbe creato l’atmosfera della fotografia. In quella giornata grigia, Nat Fein impostò il diaframma a f/5,6 e regolò l’otturatore della sua Speed Graphic a 1/25 di secondo: scattò senza flash. Il momento è struggente. È l’addio di Babe Ruth, il più grande di tutti, al suo pubblico: 13 giugno 1948, ultima partita celebrativa. Questa fotografia di Nat Fein, per il N.Y. Herald Tribune, ha vinto il premio Pulitzer del 1948. Qui visualizziamo dalla straordinaria raccolta Celebrating the Negative, di John Loengard, più volte già citata: lo stesso Nat Fein trattiene il negativo originario 4x5 pollici della sua fotografia (21 dicembre 1992).
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Nato a New York, Neil Leifer ha iniziato a fotografare lo sport a diciassette anni. Ha realizzato oltre centocinquanta copertine di Sports Illustrated, pubblicato tredici monografie ed ha fatto parte dello staff di Time. Oltre questo titolo sul baseball, Taschen Verlag ha pubblicato anche una sua monografia sul football americano, Guts and Glory: The Golden Age of American Football, 1958-1978, e sue fotografie compongono il corpo della raccolta Goat - A Tribute to Muhammad Ali, sempre di Taschen. Eric Kroll, curatore di Baseball - Ballet in the Dirt, è conosciuto per una particolare esperienza nell’ambito dell’erotismo visivo. Qui si presenta in veste nuova e inattesa. Ma la competenza è quella di sempre. A Baseball - Ballet in the Dirt hanno contribuito anche Gabriel Schechter, giornalista di sport con amore dichiarato per Willie Mays, uno dei più grandi giocatori di baseball dagli anni Cinquanta ai Settanta, Johnny Unitas e Oscar Robertson, ricercatore associato presso il National Baseball Hall of Fame. È autore di quattro libri, tra i quali l’epocale This Bad Day in Yankees History. Ancora, all’attuale monografia ha contribuito anche lo scrittore e regista Ron Shelton, già seconda base, al quale si debbono apprezzati film a sfondo sportivo, quali Bull Durham (del 1988, con Kevin Costner, Susan Sarandon e Tim Robbins), White Men Can’t Jump (del 1992, con Wesley Snipes e Woody Harrelson; in Italia come Chi non salta bianco è) e Cobb (del 1994, con Tommy Lee Jones, sulla vita di Ty Cobb, controversa star del baseball di inizio Novecento).
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13 giugno 1948; riquadro a pagina 57), il 4 di Lou Gehrig (ritirato il 4 luglio 1939), il 5 di Joe DiMaggio (ritirato il 18 aprile 1952) e il 7 di Mickey Mantle (ritirato l’8 giugno 1969; a pagina 54). Quindi, il numero 44 è stato ritirato dagli Atlanta Braves e Milwauke Brewers, le due squadre nelle quali ha giocato il nero Hank Aaron, proveniente da quella che in passato fu la Negro League, quando le Major League erano riservate a giocatori bianchi (non duemila anni fa, all’alba dei Cinquanta!). Hank Aaron è il giocatore che l’8 aprile 1974, al culmine di una carriera di ventitré stagioni, batté il suo settecentoquindicesimo fuoricampo (rimandando la pallina lanciatagli oltre i bordi esterni del terreno di gioco), che superava il record di Babe Ruth, di settecentoquattordici, che resisteva dalla metà degli anni Trenta. A seguire, sarebbe arrivato a settecentocinquantacinque fuoricampo in totale, record superato nell’agosto 2007 dal discusso Barry Bonds, ancora giocatore nero, dei San Francisco Giants, atleta non amato dal pubblico per essere stato più volte inquisito per uso di sostanze dopanti (nel frattempo, ancora in attività, ha raggiunto quota settecentosessantadue fuoricampo). Personalmente, e qui concludo con i ricordi, considero il record di Babe Ruth assoluto e non superato, perché ai suoi tempi si giocavano molte meno partite di oggi (Playoff e World Series a parte, centosessantadue di Regular Season). Dunque, i suoi settecentoquattordici fuoricampo, sessanta dei quali nel solo 1927 e primo giocatore a superare quota cinquanta in una sola stagione, sono da considerare anche in termini statistici e relativi.
MONOGRAFIA Baseball - Ballet in the Dirt, del fotogiornalista Neil Leifer, è una affascinante monografia illustrata, che racconta soprattutto dei decenni trascorsi, pur senza affondare indietro nel tempo della mia nostalgia, allungandosi su una certa contemporaneità. Il titolo è un sostanziale gioco di parole, dove il termine “dirt”/sporco pensiamo stia per balletto nella terra, intesa come campo di gioco. Originariamente pubblicato in una delle consuete Art Edition, dell’immancabile Taschen Verlag, di Colonia, in mille copie numerate e firmate (trecentodue pagine 39,6x33cm, in cofanetto; 500,00 euro), presto esaurite, il libro ripropone ora i propri contenuti in una veste editoriale consueta e, soprattutto, abbordabile: a cura di Eric Kroll (noto come luminare ed esperto dell’erotismo visivo, sia con monografie proprie sia con curatele per altri), multilingue inglese, francese e tedesco; duecentonovantasei pagine 31x25,7cm; cartonato con sovraccoperta; 29,99 euro. Le fotografie degli anni Sessanta e Settanta raccontano una certa età d’oro del baseball, indiscutibilmente lo sport preferito dagli americani. Sicuramente, quello più popolare. Al proposito, riferisco una testimonianza autorevole, quella di Yogi Berra, al secolo Lawrence Peter “Yogi” Berra, ricevitore dei New York Yankees negli anni Cinquanta e Sessanta, attualmente dirigente, che ha rilevato come e quanto «il libro contiene alcune delle fotogra-
fie più grandi che si possano mai vedere, anche se questi istanti li avete già visti e vissuti prima». Questa superba collezione di immagini di baseball sottolinea i momenti più belli dello sport, attraverso la mediazione di un leggendario fotogiornalista specializzato. Neil Leifer ha nel cuore quegli anni, che ha vissuto con straordinario amore, che prevarica i soli e sterili confini del mestiere. Nel 1960, all’età di diciassette anni, armato di Nikon a motore, novità tecnica del tempo, è entrato in una professione, offrendole il proprio buon senso già maturo e una capacità di sintesi per il momento decisivo. Ragazzo prodigio dalla faccia pulita, fece presto il suo ingresso sulle prestigiose e autorevoli pagine di Sports Illustrated, la più qualificata rivista di settore del mondo.
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Ora, a distanza di tempo, con il valore del tempo che è passato, la sua superba collezione di immagini riflette l’accesso totale nel mondo del baseball (e poi lo stesso Taschen Verlag ha in catalogo anche edizioni selettive di un altro suo titolo, Guts and Glory: The Golden Age of American Football, 1958-1978: lapalissiano, sul football americano). Dal campo di gioco e dalle azioni di gioco ai momenti paralleli, in panchina e nello spogliatoio, le fotografie di Neil Leifer rivelano tutta l’esaltazione, la delusione e la celebrazione che sono rimaste impresse sui volti dei giocatori e dei loro tifosi. Quante-tante, le fotografie epocali, a partire dalle World Series del 1960, tra i Pittsburgh Pirates e gli Yankees, decise sul filo di lana, al nono inning (finale) della settima partita in programma, da un
fuoricampo di Bill Mazeroski, che ha consegnato il titolo ai Pirates [qui sopra]. E poi le estenuanti sei partite delle World Series del 1977, capillarmente documentate, fino alla vittoria finale dei New York Yankees, ancora loro, sempre loro, sui Los Angeles Dodgers. Immancabile: è tutta una questione di gioco, e le fotografie di Neil Leifer definiscono l’autentica anima popolare del baseball. Scandita da un ritmo serrato di oltre trecento fotografie, la raccolta è divisa in quattro capitoli: The Game; The Heroes (come Roberto Clemente, Mickey Mantle e il lanciatore Sandy Koufax, nomi per addetti); The Rivalry (la rivalità tra gli Yankees e i Boston Red Sox, i Giants e i Dodgers); The World Series Championship. Buona visione. ❖
Il momento del fuoricampo di Bill Mazeroski, al nono inning (finale) della settima e ultima partita delle World Series, che assegna il titolo ai Pittsburgh Pirates sui New York Yankees; Forbes Field, 13 ottobre 1960.
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Ricerca espressiva di Angelo Galantini
CANTO DELLA MEMORIA
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Autore che da tempo agisce e opera nel territorio della fotografia espressiva italiana, ovviamente contemporanea, altrettanto ovviamente erede di una tradizione creativa che affonda le proprie radici indietro nei decenni e nei relativi dibattiti teorici, Pio Tarantini potrebbe essere identificato in diverse correnti, alcune delle quali perfino in antitesi tra loro. In dipendenza di una nostra intenzione esplicita, che sempre confessiamo e manifestiamo, anche qui e ora evitiamo le etichette isolanti, che ci paiono utili solo sugli scaffali della cucina, là dove servono a distinguere, per
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esempio, il sale dallo zucchero. La vita, la fotografia e tanto altro ancora non possono essere circoscritte entro confini prestabiliti e conclusi. Così, evitiamo di limitare la fotografia di Pio Tarantini, uno degli autori presentati nell’ambito del prestigioso programma Incanto (Fotografia Europea, a Reggio Emilia, dal sette maggio al tredici giugno), che si articola in numerose direzioni e diramazioni. La sua è una fotografia del sogno -e per questo partecipa all’Incanto, appena ricordato?-, che ricorre a un pretesto presto individuato.
Da Le montagne oltre il mare; 2008.
Così la vediamo, e così la interpretiamo, oltre gli schemi e stereotipi della critica consueta: evocazioni di età lontane, vissute o immaginate poco conta, che ritornano nell’attualità degli spazi e momenti del presente. Non si tratta tanto di richiamarsi al pretesto esplicito di figure-fantasma, che a volte attraversano la composizione, completandola e definendola addirittura, quanto proprio di tornare, ciascuno di noi, con la mente e il cuore a stagioni e impressioni che hanno inciso sulla nostra formazione e crescita.
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Ricerca espressiva Questo è uno dei compiti di certa fotografia, che del reale fa pretesto e motivo espressivo, ma che dal reale prende subito le distanze. Questo è uno dei compiti della fotografia che mira al cuore, magari per raggiungere, poi, la mente e la razionalità dei sentimenti (ammesso e non concesso che possano anche esserlo, razionali). Questo è uno degli indirizzi che intravediamo nell’insieme dell’azione fotografica di Pio Tarantini. In particolare, ci riferiamo esplicitamente alla selezione di immagini recentemente raccolte in Le montagne oltre il mare, con testo di Sergio Giusti, presentazione di Giovanni Lagioia e introduzione di Ettore Bambi, in una edizione che ha accompagnato l’omonima mostra realizzata presso il Museo Provinciale
Da Le montagne oltre il mare; Ostuni, 2003, e 2008.
di Lecce, alla fine del 2008, e poi portata, nel settembre 2009, al Castello Carlo V, di Monopoli, in provincia di Bari. Quaranta immagini dedicate al paesaggio salentino e pugliese, realizzate prevalentemente negli ultimi anni, che affiancano e completano una precedente selezione Mille chilometri vicino, interamente dedicata a Torchiarolo, il piccolo paese di origine, tra Brindisi e Lecce. Non ci rifacciamo alle parole di accompagnamento, ognuna delle quali puntualizza aspetti particolari e visioni proprie. Al solito, riferiamo soltanto ciò che noi pensiamo di queste immagini, accompagnati nel giudizio da tutti quei pre-giudizi intimi e coltivati che scandiscono il nostro percorso esistenziale. Nell’allineamento che sempre cer-
chiamo tra autore e osservatore, tra opera e sua visione, l’insieme di queste evocazioni di Pio Tarantini sollecita il richiamo a umori e aromi che sappiamo essere custoditi nel nostro cuore, come in quello di ciascuno. Che infinito, immenso cielo sarebbe il mondo se assomigliasse ai nostri sogni, ai nostri ricordi, a ciò che crediamo (speriamo?) di ricordare. Questa fotografia di Pio Tarantini è il canto di una memoria nel quale ri-perdersi, per ri-trovarsi. Oltre i soggetti identificati, selezionati nel paesaggio pugliese, la mente corre verso dove intende incamminarsi. In questa fotografia non ci sono i luoghi raffigurati per necessità, ma le memorie rappresentate per volontà. Non c’è niente altro che le storie della propria vita. ❖
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Beneficenza di Angelo Galantini
MAESTRI ALL’ASTA
Asta al Curry. Asta benefica a sostegno dei progetti e dell’attività dell’Associazione Pyari Onlus (333-8352038; www.pyarionlus.org, info@pyarionlus.org). Sotheby’s, Palazzo Broggi, via Broggi 19, 20129 Milano. 22 giugno, 19,00 (preview asta: 22 giugno, 10,00-13,00 e 14,00-19,00).
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Anche per quanto riguarda la fotografia, che in questo campo sta segnando progressioni quantomeno vertiginose, per quantità e qualità, le aste si dividono almeno in due categorie. Da una parte, originaria, ci stanno le vendite vere e proprie, periodicamente organizzate e svolte da case d’asta specializzate, ognuna delle quali ha raggiunto e conquistato nel tempo la propria credibilità. Dall’altra, sempre più spesso si registrano le aste benefiche, finalizzate a sostenere o promuovere progetti umanitari: a ciascuno, i propri. Delle prime, le regole sono note. Per le seconde, le aste benefiche, va sottolineata una condizione quantomeno complementare, con relativa ripercussione. Per propria intenzione dichiarata, l’asta benefica è moderatamente svincolata dalle quotazioni canoniche di mercato. Per lo più, gli oggetti proposti partono da valutazioni economiche ponderatamente inferiori la norma, in modo tale da assicurarsi (?) una vendita quantitativamente consistente, ovverosia per garantirsi l’esaurimento dei lotti proposti. A margine di questo, e in conse-
guenza di questo, da tempo, le aste benefiche sono frequentate da profittatori, che acquistano opere a prezzi convenienti, contravvenendo lo spirito originario. Pazienza: può essere un prezzo legittimo da pagare, per raggiungere i nobili scopi prefissi. All’opposto, e con altre intenzioni, in tempi passati, magari di sogni e speranze, si sono registrate vendite benefiche con aggiudicazioni alte, che hanno raggiunto valori sostanzialmente superiori la norma: sono stati tempi di solidarietà autentica, durante i quali l’acquirente ha
SESSANTACINQUE OPERE
L’Asta al Curry, benefica a sostegno dei progetti e dell’attività dell’Associazione Pyari Onlus, propone sessantacinque fotografie, donate per l’occasione da affermati autori contemporanei: Ansel Adams, Gian Paolo Barbieri, Gabriele Basilico, Letizia Battaglia, Shobha Battaglia, Alessandro Belgiojoso, Gianni Berengo Gardin, Carlo Bevilacqua, Romano Cagnoni, Michele Cazzani, Elio Ciol, Francesco Cito, Albertina D’Urso, Mario De Biasi, Fabrice de Nola, Nicola Demolli Crivelli, Alessandro Digaetano, Elliott Erwitt, Michel Figuet, Giorgia Fiorio, Franco Fontana, Thomas Hoepker, Roberto Linsker, Giorgio Lotti, Uliano Lucas, Mary Ellen Mark, Steve McCurry, Andrea Micheli, Nino Migliori, Arno Rafael Minkkinen, Toni Nicolini, Carlo Orsi, Franco Pagetti, Martin Parr, Marc Riboud, Ivo Saglietti, Ferdinando Scianna, Paolo Ventura, Massimo Vitali, Francesco Zizola.
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Elliott Erwitt: Marilyn Monroe; New York, 1956 (stampa ai sali d’argento su carta baritata, 50x60cm).
Gianni Berengo Gardin: Venezia, in vaporetto; 1960 (stampa ai sali d’argento su carta baritata, 30x40cm).
messo a disposizione una propria offerta, svincolata dal valore standard dell’oggetto “acquistato”. Comunque sia, e senza inutili moralismi, perché ognuno ha diritto di vivere e agire come meglio crede, le aste benefiche rappresentano una sana e trasparente opportunità di raccogliere denari utili a sostenere iniziative lodevoli. Nell’ambito delle aste benefiche, registriamolo, da tempo la fotografia sta giocando un proprio ruolo primario. Raramente accettata e acquistata come tale, in altri spazi e occasioni (almeno in Italia), la fotografia registra
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Beneficenza
Paolo Ventura: Albergo dell’ora, da Winter Stories; 2008 (Cromogenic C-print, 34x27cm).
Gian Paolo Barbieri: Ibiscus # 1; Seychelles, 1998 (carta Hahnemühle Fine Art Matte, Prova d’artista, 60x80cm).
consistenti quotazioni quando è per quanto è proposta in forma benefica: chissà perché?
ASTA AL CURRY Martedì ventidue giugno, a Milano, da Sotheby’s (Palazzo Broggi, via Broggi 19, zona Porta Venezia), si svolge un’asta asta benefica di fotografie d’autore in favore di Pyari Onlus, associazione per i bambini di strada del West Bengal, India. Grazie alla generosità di protagonisti assoluti della fotografia contemporanea, come Elliott Erwitt, Gianni Berengo Gardin, Steve McCurry, Gabriele Basilico, Mary Ellen Mark, Arno Rafael Minkkinen e Gian Paolo Barbieri, che hanno donato proprie opere, si sostiene l’associazione che opera da anni in territorio indiano con competenza e serietà, integrandosi nel tessuto sociale delle aree più disagiate del subcontinente, per intervenire sulla fascia di popolazione infantile che vive nell’indigenza. Definita Asta al Curry, in richiamo alla geografia di riferimento, la ses-
sione di vendita si offre e propone come sostanzioso appuntamento di solidarietà, che si accompagna a un’accurata ricerca in ambito culturale e artistico, in un periodo nel quale il collezionismo fotografico vive una stagione di grande attenzione in tutto il mondo (meno, in Italia). Il ricavato dell’asta di sessantacinque fotografie sarà interamente utilizzato per i progetti dell’Associazione Pyari Onlus, la cui identificazione, in lingua hindi, significa “amata”; l’Associazione ha sede a Milano, dove è na-
ta e opera in stretta collaborazione con Ong locali (333-8352038; www.pyarionlus.org, info@pyarionlus.org). In particolare, Pyari Onlus si occupa delle bambine di strada vittime del traffico infantile e di abusi del West Bengal, nel nord-est dell’India, una delle regioni più povere al mondo, nella cui capitale Calcutta si stimano almeno cinquantamila bambini che vivono senza protezione. Le bambine vengono accolte nella casa rifugio Pyari, dove viene garantita loro un’istruzione, formazione ed educazione sanitaria, mezzi necessari per il raggiungimento dell’autonomia e l’ingresso nella società, indipendentemente dalla casta o dalla religione d’appartenenza. ❖
Francesco Zizola: Bambino di strada; Riformatorio Salvador de Bahia; Brasile, 1993 (stampa ai pigmenti su carta fine art Hahnemühle Photo Rag Satin, 50x75cm). Steve McCurry: Boy in Mid-Flight; Jodhpur, India, 2007 (Ultrachrome Print, 33x47cm).
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Sguardi su Cinema di Pino Bertelli (4 volte aprile 2009)
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LISETTA CARMI
La verità della fotografia sociale è una traccia, un segno, un sogno in grado di trascolorare una vita falsa in una vita autentica. La terra di miseria della fotografia italiana, specialmente, è un confortorio dell’inautentico, del falso, del ciarlatano. A che giova all’uomo guadagnare i favori, i consensi, i successi del mondo intero, se poi perde la propria dignità e la propria anima? Charles Baudelaire, l’immortale cantore di I fiori del male, aveva compreso tutto, quando, in Lo Spleen di Parigi, diceva: «Non importa dove! Non importa dove! Purché sia fuori da questo mondo!». Il dandy maledetto, nauseato dalla ferocia della politica, il bigottismo della religione, la violenza dell’esercito, le ipocrisie della famiglia, i saperi prostituiti alle gogne del successo, intreccia un linguaggio poetico che -come una fotografia del profondo- riflette una realtà incancellabile; le sue parole-immagini afferrano l’inafferrabile e trasformano l’incultura e la cupidigia della modernità in un’emozione più vera e più tragica. Come i poemi in prosa di Baudelaire, scritti tra il 1855 e il 1864, le immagini delle Drag Queen di Genova, realizzate da Lisetta Carmi tra il 1965 e il 1971, si elevano sopra l’industria dell’intrattenimento e del consenso generalizzato: sono un canto di bellezza della diversità, e con la luce e la grazia della fotografia di strada esprimono la visione corale di un mondo maleamato o respinto. C’è malinconia, dolcezza, accoglienza, nelle fotografie di Lisetta Carmi, e come nei “ritratti parigini” scritti di Baudelaire, c’è passione per la libertà, l’amore, la scoperta della vita vera, che è l’interpretazione onesta della realtà. Le fotografie amorose di Lisetta Carmi figurano una soggettività radicale, che avvolge le perso-
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ne fotografate in un’aura regale, senza cerimoniali né buffoni di corte. Ciascuno è il centro del proprio esistere ed è in relazione di prossimità con chiunque voglia vedere e conoscere cosa c’è al di là o al fondo della civiltà incrinata nello spettacolo. Le sue immagini, come i poemi irriverenti di Baudelaire, respingono la crocifissione del genio, il coraggio dell’eroe e la stupidità del santo; invece, si richiamano a un’arte sensuale del piacere, che colma una mancanza, quella dell’amore dell’uomo per l’uomo: sono graffi sulla facciata nauseante della storia imposta, che tendono all’epifania di una sovranità poco praticata, sconosciuta o inedita nella fotografia sociale, quanto nella vita corrente. L’audacia di una parola visionaria, o di un’immagine autentica, può davvero rompere i confini improvvisati dell’universo mercantile; il terrore s’impone, il dolore si spiega da sé, ed esprime un giudizio d’assassini.
SULLA LUCE E LA GRAZIA DELLA FOTOGRAFIA AUTENTICA La luce e la grazia della fotografia autentica sono al fondo della poetica della diversità, che è quella di figurare i rapporti tra le cose, o rompere i simulacri dell’ordine costituito. La fotografia come differenza, identità o divergenza non vuole dimostrare nulla, ma indicare qualcosa da disvelare o abbattere. L’immagine così presa mette servi e padroni sul medesimo piano, e nella situazione costruita dà fuoco all’immaginazione. Quando fotografiamo, ci rivolgiamo al già fotografato e andiamo a tracciare/figurare ciò che è ancora da fotografare o da incendiare. La creatività (non solo) della fotografia radicale, o della differenza, è l’unica occasione per compiere un gesto veramente libero: il superamento dell’arte nella pratica del-
la comunità a venire che deborda dalla rivolta politica. Una politica libertaria dell’immagine segna un cammino, una rottura, un sogno, il volto/canto di una sinistra che non ha tradito; lavora in opposizione alla tirannia del mercato dei segni e smaschera i falsi idoli delle democrazie autoritarie, si affranca a milioni di persone espulse dalle logiche consolatorie o violente del potere. Volti, corpi, gesti «mai rappresentati, mai ricordati, eliminati continuamente, invisibili al mondo della cultura, della politica, della letteratura, della televisione, dei media, della pubblicità, del cinema, dei reportage, dell’università, dell’editoria, sottratti alla visibilità, questi rifiuti della società sono la prova che il sistema funzione bene e a pieno regime, e gli oligarchi non vogliono che se ne evochi l’esistenza» (Michel Onfray). Il pensiero dominante si ri/produce sul pensiero spettacolarizzato dei dominati, e parlamenti, partiti, sindacati, scuole, polizia sono i plinti portanti dell’oligarchia dello spettacolo, che fa della religione consumistica la tomba di tutte le libertà, impedendo la realizzazione di tutte le utopie. La luce e la grazia della fotografia della differenza si butta l’eternità dietro le spalle, e i cimiteri delle buone intenzioni li lascia ai frequentatori di musei, gallerie, galere dei mercati internazionali del nulla. I miti passano di bocca in bocca, di libro in libro, di repressione in repressione, senza (quasi) mai essere deposti o infranti senza mezzi termini; non si tratta di bruciare le sacre scritture e i loro profeti bugiardi (anche se ne avremmo fortemente l’inclinazione e il desiderio), si tratta di partecipare alla costruzione di un’identità che è interazione tra uomo e mondo, anche con la macchina fotografica. Fotografare significa rendere
visibile la propria e l’altrui esistenza, quando nulla è dato e tutto resta da costruire. La fotografia della differenza lavora a una controstoria dell’immagine mercantile e si accorda al romanzo autobiografico che l’accompagna: la luce e la grazia di questa scrittura fotografica del margine (ma non marginale) implica la fine di un modello e dissemina le difficoltà e le maniere dell’evento e dell’avvento di un altro universo possibile. Le Drag Queen fotografate da Lisetta Carmi sono un esempio di poetica della bellezza che si oppone alla fabbricazione della diversità patinata incensata dalla cultura fotografia italiana. Dio e lo Stato sono la risposta a tutto, e la simbologia del peccato è in accordo con l’apparizione delle forche: gli eretici vanno eliminati; campi di sterminio, gulag, manicomi, prigioni, centri commerciali, mass-media, parlamenti, elettori sono l’uscita di sicurezza del genocidio organizzato; la libertà viene decapitata ovunque, e l’uomo resta in silenzio a guardare il video della propria caduta. Ogni istante di rivolta autentica contribuisce al divenire della bellezza dell’umanità. La creatività libertaria costituisce un primo passo verso una rivoluzione sociale degna di questo nome. L’impero delle nullità spettacolari dei partiti o del riflesso delle mitologie sul buon governo è destinato a franare, perché non c’è godimento reale né coscienza di sé, e quando il piacere non è autenticato nell’immaginale (la verità dell’essere come differenza o rottura dell’impostura codificata), non è che rovina dell’anima.
LA BELLEZZA DELLE DRAG QUEEN DI LISETTA CARMI Solo nella fotografia autentica la verità risplende e fiammeggia l’eresia della propria bellez-
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Sguardi Cinema su za. Dinanzi a una fotografia autentica, sovente ci comportiamo in modo incomprensibile. Ubriacati dalla sua bellezza, conquistati dal suo stupore e senso della meraviglia, le tagliamo la gola nella dimenticanza: non c’è bellezza né autenticità, se non al prezzo di una rivolta. I fotografi esuberanti e in fregola di arrivare in alto, alla televisione, al successo, al riconoscimento museale o galleristico dovrebbero conoscere il sorriso dell’assassino che recide (con entusiasmo) la loro carriera. La fotografia, tutta la fotografia che corre, non esige né talento né temperamento, vuole solo maestri imbecilli e discepoli mediocri; come è noto, gli imbecilli colti e i discepoli edonisti non possiedono né talento né temperamento, tuttavia sono loro, incidentalmente, a far parte attiva dell’idolatria del potere che trionfa nello spettacolo immondo che dà di sé. E pensare che osando attentare all’inviolabilità (al mistero o alla pagliacciata) del potere, l’ordine dello spettacolo crolla. Lisetta Carmi è una fotografa della diversità, e la luce e la grazia delle sue fotografie sulle Drag Queen di Genova le hanno permesso di mostrare un “mondo nascosto”, ghettizzato o respinto, quello dei travestiti (che sovente sono oggetto d’amore a pagamento per padri di famiglia, timorati di Dio e dello Stato). Dalla lettura di queste immagini, nessuno esce mai come prima; la quotidianità dei travestiti presa nei carugi di Genova, tra gli anni Sessanta e Settanta, contiene uno spessore autoriale e la magia complice che all’epoca della pubblicazione del libro (I travestiti, 1972) incrinò il perbenismo ipocrita dell’intera fotografia italiana. I travestiti di Lisetta Carmi vivevano tra via del Campo e piazza Fossatello, nel ghetto degli ebrei. Lei li frequenta, conosce la loro sensibilità, l’emarginazione, la sofferenza; per la loro “fragilità” dispersa sotto i cieli di ogni notte, spesso sono violentati, in-
carcerati, uccisi. La fotografa è nel pieno della vita, e si affranca al loro antico dolore: riscopre la gioia di essere donna e ribellarsi alla gerarchia dei ruoli che la società dominante imprimeva sui destini delle donne. Lisetta Carmi nasce in una famiglia bene genovese nel 1924. Il padre è assicuratore, la madre insegnante, ha due fratelli, Marcello e Eugenio (pittore di un certo rilievo nella corrente dall’astrattismo). Sotto il fascismo, viene espulsa dalle scuole italiane perché è ebrea, ha quattordici anni. La famiglia ripara in Svizzera. Lei resta in Italia, si affranca alla guerra partigiana: «decisi di restare, affiancando
fie. Negli anni Sessanta va a vivere nelle creuze de ma del porto di Genova, dove la gente impara a vivere come a morire. Scende in piazza a fianco dei “ragazzi con le magliette a strisce”, che manifestavano il loro dissenso contro la celere, la legge Tambroni e i rigurgiti del fascismo. Realizza un reportage per il Teatro Duse, di Genova, documenta la vita dei portuali, fotografa i monumenti e le sculture del cimitero di Staglieno. È una ragazza irrequieta, viaggia nel mondo (Francia, Israele, Venezuela, Colombia, Afghanistan, India, Pakistan), si butta nella deriva fotografica della differenza, poi abbandona an-
«Sono sempre stata dalla parte di chi soffre, dalla parte di chi lotta, di chi il potere lo subisce: di coloro che hanno meno la possibilità di decidere del proprio destino. Non è stata una scelta, ma un’inclinazione; forse perché, nella mia coscienza, c’è questo retaggio antichissimo di persecuzione» Lisetta Carmi la Resistenza; la mia famiglia ne fu sgomenta, capendo quanto fosse pericolosa la mia scelta, che minava anche il ricongiungimento familiare [...]. Rinuncia per loro; avevo circa diciotto anni» (Lisetta Carmi). Coltiva la passione per il pianoforte, e studia sotto la guida del maestro Alfredo They. Tiene concerti in tutta Europa, fino al 1960; poi, lascia la musica e impugna la macchina fotografica. Nel corso di un viaggio in Puglia con Leo Levi (etnomusicologo), con un’Agfa Silet scatta le prime (straordinarie) fotogra-
che questa. Nel 1976, conosce un guru indiano (Babaji Mahavatar, dell’Himalaya) e insieme creano un centro spirituale (un Ashram “per la trasformazione delle persone e la purificazione delle loro menti, per la meditazione e il karma yoga”), a Cisternino, in Puglia. Per venti anni, vive in un trullo, poi si trova una casa più adeguata alla sua magnifica età, nel cuore del paese, ha solo ottantaquattro splendidi anni. Da 1965 al 1971, Lisetta Carmi si avvicina con grazia ai travestiti di Genova. Li conosce bene,
sfoglia i loro giorni, li fotografa, a suo modo li ama; condivide a fondo la loro esistenza. Il libro I travestiti, pubblicato da una piccola casa editrice, Essedi, nel 1972 (a cura di Sergio Donatella, testi di Lisetta Carmi e Elvio Fachinelli), desta scandalo. Molti librai lo rifiutano, e anche l’editore lo disconosce. La critica italiana (come sappiamo servizievole e prona a ogni potere) non è tra le più attente e lo ignora. I nudi aperti, i volti alteri, i corpi donati... sono incompresi e tacciati di bassa pornografia. Le mille copie restano invendute per molti anni. Sarà un’amica della fotografa, Barbara Alberti, a raccogliere i volumi e regalarli agli amici. Oggi è un libro/manifesto della cultura gay, e da molti storici, critici, antropologi dell’immagine fotografica è ritenuto (giustamente) un capolavoro della fotografia italiana. Nel quartiere delle “graziose”, a Genova, Lisetta Carmi entra in intimità fotografica con i travestiti: con Morena, la Gitana, l’Elena. Le immagini sono di una bellezza unica, e restituiscono dignità a una “popolazione invisibile”. I soggetti fotografati sono presi nelle proprie case, vicoli, piazze; e la catenaria fotografica li mostra senza l’inviolabilità del mistero che li avvolge e li condanna come uomini travestiti, come donne mascherate o come puttane. Si comprende bene che le fotografie di Lisetta Carmi sopprimono l’istantanea e vanno oltre la posa: esprimono un momento storico e un processo egualitario nel quale non sono contemplati né vittime né innocenti. Le sue Drag Queen figurano una vitalità materica, un’estetica dei corpi in amore liberati in una situazione ludica, erotica, libertaria, che conduce a un diverso discorso amoroso, nel quale nessuno può acconsentire al godimento dell’altro se questo non passa attraverso la condivisione, l’accoglienza e il sentire di un’epoca nella quale si manifesta l’utopia della differenza accettata. Le mostre, i libri, gli scritti di
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Sguardi su Lisetta Carmi hanno una qualche risonanza nella radura incolta della fotografia italiana, e anche i ciechi e i sordomuti della critica salottiera si sono accorti, con trent’anni di ritardo, che la sua opera fotografica è di una rilevanza culturale destinata a restare nell’immaginario della fotografia d’impegno civile. La sua fotografia si racconta come contraddizione o estetica della differenza, ma rispettare e comprendere la contraddizione sotto ogni forma nella quale si presenta consente a ciascuno l’esercizio della libertà, ed è il modo migliore di rispettare la vita propria e dell’altro. Daniele Segre, acuto regista di realtà sociali, le dedica un documentario di rara intensità poetica, Lisetta Carmi, un’anima in cammino (2009). Il ritratto che ne esce è quello di una signora della fotografia, di un’aristocratica del pensiero libertario, che nella qualità etica ed estetica della sua scrittura fotografica afferma che la vita è tanto più umana, quanto più è libera. Tra i lavori di Lisetta Carmi ci piace ricordare il libro fotografico L’ombra di un poeta. Incontro con Ezra Pound (2005, dodici scatti del 1966), un gigante della poesia, discutibile per le sue scelte politiche e adesione ai re-
gimi totalitari (per i quali si spende anche in orazioni radiofoniche), e Acque di Sicilia, con la pregevole prefazione di Leonardo Sciascia (1977), che scrive: «La fotografia -quando è fotografia: perché anche la fotografia, oggi, può essere altro; cioè può negarsi come fotografia e aspirare al nulla- si crede sia (e effettualmente è) la rappresentazione più oggettiva possibile della realtà, delle cose come sono. Ma senza venire meno alla sua natura e al suo assioma, la fotografia -un insieme di fotografie- può parlare di poesia -e cioè mito, memoria, sentimento- invece che prosa: e cioè ragione, storia, condizione umana. Queste fotografie delle acque siciliane -una per una verissime, realissime, scattate qui ed ora- nell’insieme sono da disporre sulla mappa immaginaria che abbiamo tentato di tracciare: anch’esse mito, memoria, poesia». I luoghi, i volti delle donne, dei giovani siciliani sono austeri, spogli, assomigliano a guerrieri feriti a morte, battuti, mai vinti. Le immagini di Lisetta Carmi restituiscono loro la scorza della storia e li proiettano in stagioni dell’esistenza maltrattata dall’incuria del potere. Non c’è retorica, né abbandono alla miseria da cartolina illustrata, in questa ri-
trattistica del dolore. Invece, c’è una metafisica della rottura, una grandezza plastica che presuppone ingannati e, per assenza, ingannatori. Il sogno conta più del reale, la finzione più della materialità. La passione dolorosa dell’esistere fuori dal culto dei governanti si configura negli sguardi tesi contro l’arte della giustificazione, e ciò che risplende in queste immagini è un agire comunicativo che distrugge l’inessenziale e s’invola nella politicizzazione dell’arte di vedere. L’incontro fotografico con Ezra Pound (i testi sono di Tomaso Cementi, Uliano Lucas e Luciano Eletti) restituisce il poeta alla storia dell’umano. Lisetta Carmi non giudica il poeta per il suo passato “politico”, né lo innalza al cielo straordinario della sua poesia. Lo cattura nella sua dimensione di uomo, di essere fragile e al contempo coriaceo, segnato da un princìpio di speranza che riluce di un fascino leonino singolare; la nudità dello spirito di Pound è palese, e non chiede compenso per l’avvenire. Amare la verità che cade di fronte alla macchina fotografica significa accettare anche il diverso da sé, e Lisetta Carmi, come pochi, riesce a cogliere sulla faccia del poeta le proprie lacerazioni e i pro-
pri abissi. «Ogni individuo, come ogni epoca, possiede una realtà solo grazie alle proprie esagerazioni, alla propria capacità di sopravvalutare i propri dèi» (E. M. Cioran). Nel 1996, le viene assegnato il premio Niépce per il lavoro fotografico che ha realizzato su Ezra Pound. Non è mai troppo tardi per comprendere che per certi poeti dell’anima in volo ciò che è diritto, per altri è un invito alla segregazione o all’assassinio. Ancora. A Lisetta Carmi, per amore, solo per amore di lei e della fotografia dell’immaginario dal vero (Henri Cartier-Bresson), che ha disperso in ogni regione del cuore solo la passione è in grado di comprendere la passione, perché la passione contiene la visione del mondo che conosce e divelte tutti i confini. Al principio o alla fine di ogni fotografia autentica c’è sempre il vuoto e l’oscurità, che fanno della libertà un bene per tutti. La fotografia autentica è una poetica dello spirito e ha la capacità d’illuminare la vita concreta. La fotografia autentica è un ponte verso l’uomo libero. La fotografia autentica contiene la giustizia, l’amore, la verità e vive per la costruzione di una società planetaria, più giusta e più umana. ❖
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