FOTOgraphia 163 luglio 2010

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Mensile, 6,50 euro, Poste Italiane SpA - Spedizione in abbonamento postale - D.L. 353/2003 (convertito in Legge il 27-02-2004, numero 46), articolo 1, comma 1 - DCB Milano

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ANNO XVII - NUMERO 163 - LUGLIO 2010

Malick Sidibé LA VIE EN ROSE

Sguardi su L’AFRICA


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Non è venduta in edicola. Per averla hai una sola possibilità: sottoscrivere l’abbonamento annuale. 12 numeri 65,00 euro

Abbonamento 2010 (nuovo o rinnovo) in omaggio 1839-2009

Dalla Relazione di Macedonio Melloni alla svolta di Akio Morita M A U R I Z I O

R E B U Z Z I N I

1839-2009 Dalla Relazione di Macedonio Melloni alla svolta di Akio Morita

Come dire, dal dagherrotipo all’acquisizione digitale di immagini. E consecuzioni

INTRODUZIONE

DI

GIULIANA SCIMÉ

F O T O G R A P H I A L I B R I


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prima di cominciare ANCORA CRIMEA. Dalla sottolineatura della fotografia che collega passato con futuro (e presente), nel cinematografico Ritorno al futuro parte III, da pagina 19, approdiamo a considerazioni sull’apparenza e realtà della fotografia: soprattutto nel fotogiornalismo. Per farlo, richiamiamo l’esperienza di Roger Fenton, passato alla Storia come il primo fotografo di guerra; meglio, come il primo capace di fotografare una guerra. Roger Fenton arrivò in Crimea con un compito fotografico prestabilito: fornire documentazioni ineccepibili a sostegno di una guerra non certo amata. L’opinione pubblica inglese era sconvolta dalle corrispondenze giornalistiche dell’autorevole e seguìto William H. Russell, pubblicate sul London Times: drammatici resoconti sulla condotta del conflitto, che puntavano il dito soprattutto sulle terribili condizioni climatiche che i soldati inglesi erano costretti ad affrontare senza l’equipaggiamento adatto e le inqualificabili condizioni igieniche dei servizi sanitari. Per quantificare la situazione, richiamiamo dati ufficiali: degli oltre seicentotredicimila soldati morti in Crimea, quasi cinquecentomila si devono a malattie e soltanto centodiciannovemila sono morti per ferite da combattimento (613.516 morti, dei quali 494.621 per malattie e 118.895 per ferite). Il conteggio più clamoroso riguarda le truppe del Regno di Sardegna: duemilacentonovantaquattro morti in un contingente di ventunmila soldati; duemilacentosessantasei per malattie e ventotto per ferite (21.000 soldati, 2194 morti totali, 2166 morti per malattia e 28 per ferite). Complemento finale: così come Roger Fenton è considerato il primo fotografo di guerra, il giornalista William H. Russell è considerato il primo corrispondente di guerra. Nella cattedrale di Saint Paul, a Londra, dove è seppellito nella cripta in basso a destra, un suo busto porta un’iscrizione perentoria: «The first and greatest», il primo e il più grande.

La grande rivoluzione della fotografia è stata quella di mostrare la realtà senza apparenti mediazioni e da qui, forse, è nata la propria diffusione e popolarità anche come documento. Maurizio Rebuzzini; su questo numero, a pagina 20 La fotografia muore di fotografia, perché l’umanità è guardata sempre (o quasi) attraverso la propria ignoranza e la propria paura. La sola fotografia buona, è quella che possiamo vedere due volte, senza bruciarla. Pino Bertelli; su questo numero, a pagina 62 La storia della fotografia è storia di realtà tradite, menzogne e mercimonio. La fotografia sociale, quando è grande, parla di se stessa nel ricordo e nello stupore di un’epoca. Pino Bertelli; su questo numero, a pagina 64 La passione della fotografia di strada è la scoperta del sé di fronte all’ignoto e fa dei ritrattati di ogni-dove il centro del mondo. Pino Bertelli; su questo numero, a pagina 64 Di nessuna chiesa è la fotografia popolare. Pino Bertelli; su questo numero, a pagina 66

Copertina Ritratto dell’attrice e modella spagnola Inés Sastre, realizzato da Gianfranco Salis: uno dei trentasei ritratti presentati in Francia, all’Été des Portraits, nell’ambito della collettiva Fotografi italiani, a cura di Davide Cerati e Adriano Scognamillo. Ne riferiamo da pagina 34

3 Altri tempi (fotografici) Dalla copertina di un dépliant Leica, dell’ottobre 1940: «Nelle vostre mani, una Leica: un piccolo apparecchio, quasi un gingillo, che non ingombra e che non pesa, vi apre il campo di ogni applicazione fotografica»

7 Editoriale Come sempre, non soltanto spesso, Pino Bertelli ha ragioni da vendere. Ogni suo Sguardo su è lucido, preciso e diretto. Invidiabile e invidiato per la chiarezza di visione. Presentando la fotografia dei caracciolini, da pagina 62, sottolinea il valore dell’amore. Universale

8 Dietro le quinte La consecuzione degli articoli che, su questo numero, si collegano ognuno al successivo. Trasversalità svelate William H. Russell, inviato del London Times, in un ritratto di Roger Fenton. In un certo modo, questa immagine collega il primo fotografo di guerra al primo corrispondente di guerra.

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10 Notizie Attrezzature, vicende e altre segnalazioni


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LUGLIO 2010

R , RIFLESSIONI IFLESSIONI, OSSERVAZIONI E COMMENTI OSSERVAZIONI E COMMENTI SULLA FOTOGRAFIA SULLA FOTOGRAFIA

12 Etica (e non altro) In Etica e fotogiornalismo, Ferdinando Scianna affronta una questione spinosa con eccezionale capacità, polso fermo, mente brillante. Sa cosa dice e come dirlo

Anno XVII - numero 163 - 6,50 euro DIRETTORE

RESPONSABILE

Maurizio Rebuzzini

IMPAGINAZIONE

Gianluca Gigante

14 Fantastica fotoricordo La Box Kodak, di George Eastman, del 1988, stabilisce una diversificata serie di linee spartiacque. Tra tanto altro, nasce la fotoricordo serena e spensierata. Mica poco di Antonio Bordoni

REDAZIONE

Angelo Galantini

FOTOGRAFIE Rouge

SEGRETERIA

Maddalena Fasoli

HANNO

19 Passato e presente Nel film Ritorno al futuro parte III, due fotografie stabiliscono l’influenza del passato sul futuro (presente) Ricerca iconografica di Filippo Rebuzzini

22 Our Fair Lady La raccolta Audrey Hepburn. Photographs 1953-1966, di Bob Willoughby, rappresenta sia il suo soggetto esplicito sia il sapore e senso di un’epoca fantastica

28 Dolce, la vita? Con Ossimoro, Azzurra Piccardi ha costruito una serie di immagini che sintetizzano identificati disagi della vita dei nostri giorni (diciamola anche così) di Maddalena Fiocchi

34 Ritratti italiani A cura di Davide Cerati e Adriano Scognamillo, trentasei autori sono presentati all’Été des Portraits, prestigioso programma biennale francese. Fino al ventisei settembre di Angelo Galantini

42 La vie en rose Efficace personale di Malick Sidibé, ritrattista del Mali

48 Sguardi sull’Africa Retrospettiva storica, piatto forte dell’ampio programma di Spilimbergo Fotografia 2010. Approfondita lettura antropologica e sociale, svolta in chiave fotografica

57 Fotografia turistica

COLLABORATO

Pino Bertelli Antonio Bordoni Davide Cerati Giulia Ferrari Maddalena Fiocchi Chiara Lualdi Azzurra Piccardi Franco Sergio Rebosio Ciro Rebuzzini Filippo Rebuzzini Adriano Scognamillo Redazione, Amministrazione, Abbonamenti: Graphia srl, via Zuretti 2a, 20125 Milano; 02-66713604; graphia@tin.it. ● FOTOgraphia è venduta in abbonamento. ● FOTOgraphia è una pubblicazione mensile di Graphia srl, via Zuretti 2a, 20125 Milano. Registrazione del Tribunale di Milano numero 174 del Primo aprile 1994. Poste Italiane SpA - Spedizione in abbonamento postale - D.L. 353/2003 (convertito in Legge il 27-02-2004, numero 46), articolo 1, comma 1 - DCB Milano. ● A garanzia degli abbonati, nel caso la pubblicazione sia pervenuta in spedizione gratuita o a pagamento, l’Editore garantisce la massima riservatezza dei dati forniti dagli abbonati e in suo possesso, fatto diritto, in ogni caso, per l’interessato di richiederne gratuitamente la rettifica o la cancellazione ai sensi della legge 675/96. ● FOTOgraphia Abbonamento 12 numeri 65,00 euro. Abbonamento annuale per l’estero, via ordinaria 130,00 euro; via aerea: Europa 150,00 euro, America, Asia, Africa 200,00 euro, gli altri paesi 230,00 euro. Versamenti: assegno bancario non trasferibile intestato a Graphia srl Milano; vaglia postale a Graphia srl - PT Milano Isola; su Ccp n. 28219202 intestato a Graphia srl, via Zuretti 2a, 20125 Milano; addebiti su carte di credito CartaSì, Visa, MasterCard. ● Nessuna maggiorazione è applicata per i numeri arretrati. ● È consentita la riproduzione di testi e fotografie, magari citando la fonte (ma non è indispensabile, né obbligatorio farlo). ● Manoscritti e fotografie non richiesti non saranno restituiti; l’Editore non è responsabile di eventuali danneggiamenti o smarrimenti. Fotocomposizione DTP e selezioni litografiche: Rouge, Milano Stampa: Arti Grafiche Salea, Milano

Rivista associata a TIPA

Una consistente quantità di albumini turistici rivela l’essenza della fotografia delle città e dei luoghi di Maurizio Rebuzzini

62 I caracciolini Sguardi su immagini di una memoria napoletana di Pino Bertelli

www.tipa.com

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1839-2009

la finestra di Gras Dalla Relazione di Macedonio Melloni 2009.unaRicordando pagina, una illustrazione alla svolta di Akio Morita

Come dire, dal dagherrotipo all’acquisizione digitale di immagini. E consecuzioni

1839. Dal sette gennaio al dodici novembre sedici pagine, tre illustrazioni

Tappe fondamentali, che si sono proiettate sul linguaggio e l’espressività, con quanto ne è conseguito e ancora consegue Relazione attorno al dagherrotipo diciotto pagine, tre illustrazioni

1839. Fotogenico disegno dieci pagine, quattro illustrazioni

1888. Box Kodak, la prima diciotto pagine, quarantacinque illustrazioni

1913-1925. L’esposimetro di Oskar Barnack ventiquattro pagine, cinquantotto illustrazioni

1947 (1948). Ed è fotografia, subito ventiquattro pagine, sessantadue illustrazioni

1981. La svolta di Akio Morita dodici pagine, ventisei illustrazioni

• centosessanta pagine • nove capitoli in consecuzione più quattro, tre prima e uno dopo • duecentosessantatré illustrazioni 1839-2009 Dalla Relazione di Macedonio Melloni alla svolta di Akio Morita di Maurizio Rebuzzini Prefazione di Giuliana Scimé 160 pagine 15x21cm 24,00 euro

F O T O G R A P H I A L I B R I Graphia srl • via Zuretti 2a - 20125 Milano 02-66713604 • graphia@tin.it

2009. Io sorrido, lui neanche un cenno dieci pagine, ventisette illustrazioni

Le paternità sono ormai certe otto pagine, tredici illustrazioni

2009. Alla fin fine cinque pagine, quindici illustrazioni


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editoriale A

mmissione d’obbligo. Tra tanto parlare di fotografia, spesso si va oltre il soggetto esplicito, per affrontare considerazioni e riflessioni che si proiettano sull’esistenza. In questo senso, FOTOgraphia è esemplare nel proprio considerare la fotografia come punto di vista (privilegiato), e mai come approdo, come fine. Per conseguenza, approfittiamo spesso della fotografia per esprimere altro. Io stesso mi spingo oltre, commentando i ritratti di Audrey Hepburn (da pagina 22): arrivo a rimpiangere tempi passati di eleganza e stile. Ma declino in misura approssimativa, lasciando intendere di condividere un clima e un mondo raffinato e sofisticato. Non è proprio così, ma avrei inteso affermare che -dovendo scegliere- preferisco di gran lunga quella società alla volgarità dell’analogo star system dei nostri giorni. Addirittura, mi accodo a coloro i quali rimpiangono i politici dei decenni scorsi, così uguali a quelli di oggi (nella sostanza): anche loro mangiavano sulle nostre spalle... ma almeno sapevano stare a tavola. Ovviamente, questo c’entra poco con la fotografia (?). Però, lo ripeto, noi non la pensiamo mai come un fine, ma come un mezzo attraverso il quale guardare la vita. Per questo, se mi venisse richiesta una graduatoria qualitativa degli articoli riuniti su questo numero della rivista, non avrei alcun dubbio. L’articolo più bello, intenso, utile, gratificante, edificante (e andate avanti per vostro conto) è quello che conclude l’odierna messa in pagina. Lo Sguardo su I caracciolini, di Pino Bertelli, mi fa rabbia e provoca invidia. Vorrei possedere io la sua lucidità intellettuale e avere la sua capacità di scrivere. Quando l’ho letto, per il consueto editing di trasformazione, mi sono emozionato. Il cuore palpitante, ho capito che ha proprio ragione lui, Pino Bertelli, che rivela d’averlo appreso da Pier Paolo Pasolini: «l’amore è nella strada e solo l’amore aiuta gli uomini e le donne a essere un po’ meno soli. Per l’amore, come per la libertà, non ci sono catene». Ragioniamoci assieme: perché fotografiamo?, perché ci occupiamo di fotografia?, perché approfondiamo il suo linguaggio e gli autori che lo hanno creato e fatto risplendere? Solo per amore: «l’amore di sé e per gli altri è il solo mezzo per abolire lo stato presente delle cose ed esigere non solo il pane, ma anche il profumo dell’acacia rosa». E ancora: «È l’amore e la scoperta del sé che portano a superare un presente che non è sempre bello... a sconfiggere la paura con la conoscenza di essersi liberati dell’immobilità e dell’impotenza... è l’amore che porta nei cuori il soffio della felicità e inventa quello che di noi stessi è sconosciuto... è l’amore che ci riporta ad essere protagonisti della nostra storia e al centro delle nostre esperienze, amandoci... quando riconosci l’amore vuol dire che hai già perdonato... perché l’amore è quell’impossibile magico che ci fa toccare la dolcezza dei forti... che ci porta i baci al profumo di tiglio... è un eccesso di luce... è il blu che toglie al nero il mistero». Maurizio Rebuzzini

La fotografia popolare degli scugnizzi/caracciolini va a sconvolgere l’ordine convenzionale del visibile che esce dalla tradizione pittorica e letteraria come percezione dell’esistenza; fuori dall’obiettività e dalla perfezione estetica va oltre la posa e si assume il coraggio di rispettarsi e di rispettare come esigenza creativa. I fotografi-artigiani degli scugnizzi/caracciolini hanno lavorato sulla trasposizione del significato e fatto emergere la bellezza del linguaggio fotografico.

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Parliamone di Angelo Galantini

DIETRO LE QUINTE

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Già in altre occasioni, a questa precedenti, abbiamo commentato la confezione redazionale di FOTOgraphia. In particolare, è stato sottolineato che «nulla di quanto viene pubblicato in queste pagine è casuale, sia nel proprio contenuto sia per l’inevitabile forma». Qui e oggi, confermiamo, ribadendo attenzioni e concentrazioni che, senza soluzione di continuità, si allungano tra gli argomenti presentati e la loro necessaria messa in pagina. A questo punto, è utile e proficuo uno sguardo dietro-le-quinte di questo stesso numero di FOTOgraphia, rappresentativo di se stesso e di una intenzione giornalistica più generale e profonda. La nostra. Il sottile filo che lega assieme tutti gli argomenti che si susseguono, pagina dopo pagina, è quello del ritratto. Il modo di affrontare la fotografia è quello di un interesse che non la intende autoconclusiva, ma punto di vista privilegiato per ulteriori escursioni attraverso la vita. Il ritratto è soggetto esplicito e dichiarato di almeno quattro articoli: Bob Willoughby e Audrey Hepburn, da pagina 22; trentasei autori italiani esposti in Francia, da pagina 34; Malick Sidibé, da pagina 42; i caracciolini, da pagina 62. Allo stesso tempo, il ritratto sollecita altri spostamenti in avanti e di lato, fino a stabilire i passi e le consecuzioni di questo numero: «nulla è casuale, soprattutto nel proprio contenuto». Procediamo insieme, secondo la sequenza delle pagine. Il rituale approfondimento in estrazione da 18392009. Dalla Relazione di Macedonio Melloni alla svolta di Akio Morita affronta la genesi della fotoricordo, datata a partire dalla Box Kodak, di George Eastman, del 1888. Immediatamente a seguire, anche la fotografia nel cinema si rivolge alla fotoricordo, in chiave di avvenimenti che condizionano lo svolgimento della vita (dal passato al futuro, ovvero presente). Quindi, ritratto vero e proprio, con la presentazione della monografia di Bob Willoughby, che attraverso una incessante sequenza di immagini di Audrey Hepburn evoca e richiama l’ele-

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Alla fin fine, questo numero di FOTOgraphia approda allo Sguardo su I caracciolini, di Pino Bertelli, che conclude una sequenza di argomenti collegati e correlati, uno dopo l’altro. In ordine di pubblicazione: fotoricordo, a partire dalla Box Kodak, di George Eastman, del 1888; ritratti di Audrey Hepburn, che rivelano lo spirito di un’epoca lontana; temi sociali in interpretazione simil pubblicitaria; ritratti italiani esposti in Francia; epopea del ritrattista africano Malick Sidibé; raffigurazioni storiche dell’Africa, con occhio occidentale; fotografia turistica ufficiale, con annessi e connessi.

ganza di un mondo al quale guardiamo con nostalgia motivata. Cambio di passo, ma non deviazione di percorso, con le ricostruzioni sceniche dell’Ossimoro, di Azzurra Piccardi. A questo punto, si torna esplicitamente nel seminato, in compagnia dei Fotografi italiani (ritrattisti) presentati in Francia nell’ambito dell’autorevole Été des Portraits, che precedono la presentazione dell’avvincente mostra personale italiana del ritrattista africano Malick Sidibé, allestita a Reggio Emilia. Dopo il volto dell’Africa rivelato da un punto di vista interno, è stato giocoforza (?) deviare verso gli Sguardi occidentali, proposti in una imponente rassegna friulana. Nell’articolo non parliamo di questo, ma qui non possiamo evitare il contrappunto voluto e ricercato tra la fotografia di Malick Sidibé (che dal Mali si proietta sul continente, rivelandone uno spirito quotidiano di straordinario fascino e valore sociale) e quella colonialista: comunque la si voglia apprezzare, pur sempre fotografia di conquista, imposizione, dominio. Dall’Africa alla raffigurazione della città, occidentale e turistica, analizzata alla luce di un ritrovamento a dir poco suggestivo: una consistente quantità e qualità di albumini turistici, a partire dai quali la riflessione fotografica si distende in avanti, e va oltre, pur non uscendo dal seminato. Chiusura del cerchio. Lo Sguardo su I caracciolini, dell’accreditato Pino Bertelli, uno dei vanti della nostra redazione, riporta alla Vita e all’Esistenza. Non più nostalgie per un mondo perduto (Audrey Hepburn), apprezzamenti per analisi contemporanee (Ossimoro), condivisioni di abilità formali (Fotografi italiani), considerazioni etno-politiche (Malick Sidibé e Africa), escursioni sul linguaggio della fotografia (albumini turistici). No! Con Pino Bertelli si approda là dove si dovrebbe sempre vivere: «l’amore di sé e per gli altri è il solo mezzo per abolire lo stato presente delle cose ed esigere non solo il pane, ma anche il profumo dell’acacia rosa». ❖


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Notizie a cura di Antonio Bordoni

IMMANCABILMENTE LEICA. La nuova compatta Leica V-Lux 20, con risoluzione di 14,5 Megapixel, è dotata di uno zoom 12x di ampia escursione e alte prestazioni, con inquadratura che passa dall’ampia visione grandangolare 25mm all’avvicinamento tele 300mm (in equivalenza): Leica DC-Vario-Elmar 4,149,2mm f/3,3-4,9 Asph, con stabilizzazione ottica. Proprio la dotazione zoom consente di affrontare e risolvere una eterogenea varietà di situazioni fotografiche. Al solito, la gestione delle operatività della compatta è semplice e intuitiva, con impostazioni anche manuali (e volontarie) richieste dagli utenti più ambiziosi, che arrivano da lontano e che applicano solidi e inviolabili princìpi della ripresa fotografica. Non mancano, ovviamente, prestazioni aggiuntive, oltre gli standard affermati, quali il Modulo GPS per registrare i dati geografici del luogo dello scatto. Così, la convincente Leica V-Lux 20 si offre e propone per la migliore interpretazione della fotografia di viaggi e vacanze, con una semplicità di utilizzo e una compattezza tali da rispondere perfettamente agli alti standard dell’autorevole famiglia fotografica. (Polyphoto, via Cesare Pavese 11-13, 20090 Opera Zerbo MI).

CENTOVENTI ANNI. La produzione ottica Carl Zeiss ha scritto significativi capitoli della Storia della fotografia. I primi obiettivi fotografici Carl Zeiss arrivarono sul mercato alla fine di marzo del 1890, e quest’anno si celebra il centoventesimo anniversario: centoventi anni ricchi di riferimenti e richiami che si sono affermati e imposti come icone tecniche e tecnologiche senza pari. In realtà, la produzione Carl Zeiss è più antica; centoventi an-

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ni riguardano la fotografia. Carl Zeiss venne fondata nel 1846, a Jena, in Germania, come officina specializzata nella meccanica e nell’ottica di precisione. Nel corso dei primi decenni, vennero prodotti quasi esclusivamente microscopi. Quindi, il noto Ernst Carl Abbe, uno dei luminari dell’ottica di tutti i tempi, che in origine aveva una partecipazione diretta nella fabbrica, iniziò a espandere la gamma dei prodotti ai settori degli obiettivi fotografici e dei binocoli. Negli anni Ottanta dell’Ottocento, arrivò anche la collaborazione con Friedrich Otto Schott, capostipite di una produzione di vetri ottici ancora oggi ai vertici tecnologici, che avviò una linea di nuovi tipi di vetri con qualità ottiche assai migliorate, che spalancarono nuove possibilità per Carl Zeiss. È da qui che si data la progettazione e produzione di obiettivi fotografici dotati di straordinarie capacità di interpretazione della luce.

Segnaliamo alcune tappe fondamentali. Disegnato da Paul Rudolph, il Planar originario è del 1896. Oltre a essere ancora oggi presente nel sistema ottico Carl Zeiss, questo schema ottico è la base di molti obiettivi moderni, non soltanto fotografici. Ancora di Paul Rudolph è il Tessar ad alta luminosità relativa, del 1902, elaborato a partire dal precedente progetto Zeiss Unar. Anche il disegno dello Zeiss Tessar, a quattro lenti in tre gruppi, è alla base di tanti obiettivi fotografici. Ai propri tempi, il Tessar ha spianato la strada per la miniaturizzazione nella progettazione delle macchine fotografiche. Nel 1935, Carl Zeiss ha segnato un altro punto di svolta, che ha aperto nuove possibilità per ottenere immagini brillanti: un trattamento antiriflessi che si è poi evoluto nel multistrato iden-

tificato come T* sugli obiettivi moderni. Questa serie di strati depositati sotto vuoto sulle superfici ottiche dell’obiettivo riduce i riflessi indesiderati e le dannose luci parassite sull’immagine, permettendo la realizzazione dei complessi sistemi ottici impiegati al giorno d’oggi. Nel 1943, Carl Zeiss ha elaborato una procedura per misurare la qualità d’immagine prodotta da un obiettivo, attraverso le cosiddette curve “MTF” (funzione di trasferimento della modulazione), ancora oggi usate da numerosi costruttori per il controllo della qualità. (Fowa, via Tabacchi 29, 10132 Torino).

ZOOM POTENTE. Ricoh GXR è un innovativo sistema fotografico a moduli intercambiabili. Oltre l’obiettivo, ogni modulo comprende sia il sensore di immagine sia il processore. È ora disponibile la dotazione zoom 10,7x con obiettivo Ricoh P10 28-300mm f/3,5-5,6 VC (equivalente). A questo, si abbina una rinnovata funzione di ripresa continua ad alta velocità, in modalità grezza RAW, fino a circa cinque fotogrammi al secondo. Il processore di immagini Smooth Imaging Engine IV e l’elaborazione di immagini ad alta velocità, garantita dal sensore Cmos, consentono di migliorare la qualità formale delle immagini e di espandere la gamma dinamica. Insieme al sensore Cmos retroilluminato, la funzione per la riduzione dei disturbi offre prestazioni eccellenti durante la ripresa di scene con poca luce, altresì aiutata dallo zoom antivibrazioni. Sono inoltre disponibili una funzione per filmati HD da 1280x720 pixel, la modalità doppio scatto, con gamma dinamica, una funzione macro, che consente la ripresa di primi piani fino a un

centimetro di distanza, e numerose altre applicazioni avanzate per sfruttare al meglio le possibilità offerte dalla ripresa del potente zoom ottico, che va dal grandangolare 28mm al teleobiettivo 300mm. (M.Trading, via Cesare Pavese 31, 20090 Opera Zerbo MI).

SECONDA GENERAZIONE. Come specifica la sua (lunga) sigla identificativa, il nuovo zoom AF-S Nikkor 200-400mm f/4G ED VR II è l’evoluzione diretta e consequenziale del precedente AF-S Nikkor 200-400mm f/4G IF-ED VR (FOTOgraphia, settembre 2003), che va a sostituire. È caratterizzata dalla nuova seconda generazione della tecnologia Vibration Reduction (VR II), dal rivestimento Nano Crystal e da una nuova modalità A/M. Angolo di campo variabile da 12,20 gradi a 6,10 gradi (da otto a quattro gradi, con reflex formato DX). La nuova modalità A/M, aggiunta alle modalità M/A e M già presenti nel disegno originario, abilita la priorità autofocus automatica anche se la ghiera di messa a fuoco viene spostata durante la ripresa. Quindi, l’AF-S Nikkor 200400mm f/4G ED VR II incorpora il rivestimento antiriflesso esclusivo e proprietario Nano Crystal, che riduce drasticamente le immagini fantasma e i riflessi indesiderati, oltre a quattro lenti in vetro a basso indice di dispersione (ED, Extra-low Dispersion), che riducono le aberrazioni (in uno schema di ventiquattro elementi divisi in diciassette gruppi ottici). Ne risultano immagini ricche di dettaglio e ben contrastate, anche in condizioni di illuminazione critiche. Per garantire una messa a fuoco rapida e silenziosa, da due metri in AF (e 1,95m in MF), lo zoom è dotato di autofocus con Silent Wave Motor integrato. (Nital, via Tabacchi 33, 10132 Torino). ❖


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Riflessione Cinema di Maurizio Rebuzzini

ETICA (E NON ALTRO)

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Conosco personalmente Ferdinando Scianna, straordinario fotogiornalista capace -come pochi- di osservare la Fotografia, esprimendo opinioni e considerazioni di alto livello. Lo conosco, così come, alla fin fine, ci si conosce oggi: ogni volta che il caso ci fa incontrare, ci si saluta cordialmente, si scambiano convenevoli di rito, magari allungandoci su qualche umorismo, ognuno di noi (due) ha una vaga idea di chi e cosa sia l’altro. Niente di più: così va il mondo; quantomeno, quello che mi sta attorno. Conosco personalmente Ferdinando Scianna e ne ammiro le doti di fotogiornalista di profondità, da tempo prestato alla moda. Allo stesso tempo, stimo e rispetto il suo modo di vedere la “cosa” fotografica, affrontata e rivelata sempre con punti di vista non soltanto originali, ma autenticamente illuminanti. Così, mi rammarica di conoscerlo soltanto superficialmente, per quello che dipende dalla consumazione di luoghi comuni trasversali alla vita dei nostri giorni. Ripeto, confermandolo: ogni volta che il caso ci fa incontrare, ci si saluta cordialmente e si scambiano convenevoli di rito. La recente pubblicazione di una sua approfondita riflessione, Etica e fotogiornalismo, ha suscitato in me sentimenti e opinioni quantomeno contrastanti. La prima, anzitutto: positiva senza riserve. È un testo più che straordinario, che dovrebbe appartenere alle conoscenze/competenze individuali di tutti coloro, noi tra questi, si occupano di fotografia senza limitarsi alla sua sola superficie apparente. La seconda, in consecuzione diretta e inevitabile: rammarico per il fatto che, conoscendo e ammirando Ferdinando Scianna, «ogni volta che il caso ci fa incontrare, ci si saluta cordialmente e si scambiano convenevoli di rito». Infatti, sull’argomento siamo particolarmente ferrati, e all’argomento assolutamente interessati. Tanto che l’etica (e la morale) è trasversale a tutta la confezione di questa rivista, che a propria volta è specchio di almeno una esistenza, che qui vi riversa il proprio

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quotidiano e il proprio vissuto. Ovvero, avremmo potuto offrire altri spunti, altre considerazioni utili alla confezione dell’insieme. Etica! Ne abbiamo scritto esplicitamente lo scorso aprile, in commento a una copertina che avrebbe potuto far discutere, non a sua giustificazione, casomai soltanto motivazione. Di fronte a una fotografia terribile, che illustra un momento tragico dell’immediato dopo terremoto a Haiti, con imposizioni che impediscono alla pietà di rivelarsi come sarebbe plausibile che facesse, e come può fare solo in altre condizioni e situazioni, diciamo più comode, ci siamo posti una domanda: «Possiamo fare finta di niente, e non tenere conto della copertina di questo numero di FOTOgraphia, autentico e consapevole pugno nello stomaco?», ci siamo chiesti. Da cui, prima considerazione: «Per quanto diversi e lontani dalla fotografia che preferiamo, quella lieve, anche nel fotogiornalismo, che raggiunge la mente passando attraverso il cuore, e viceversa, abbiamo ritenuto opportuno sottolineare come e quanto la fotografia possa essere terribile testimonianza dei fatti. [...] La nostra misericordia davanti al dolore». In quel caso, come in molti altri della fotografia che irrompe nella vita di ciascuno di noi, cosa è entrato in discussione? «L’etica e la morale, come sempre dovrebbe essere in fotografia, soprattutto nella fotografia che osserva la vita nel proprio svolgersi. Etica e morale di chi agisce, etica e morale di chi osserva. [...] Ci guidi soprattutto l’inflessibilità di quell’etica e quella morale che ci fa distinguere naturalmente il bene dal male, il giusto dall’ingiusto. Non abbiamo pre-giudizi, e dunque, nell’attuale condizione sociale, così confusa e contraddittoria, ci affidiamo a noi stessi, senza aggregazioni di bandiera. [...] Etica e morale, nell’inflessibilità di essere sempre e comunque onesti, trasparenti e diretti. Dalla Fotografia, che noi tutti frequentiamo con intenso ardore (punto privilegiato di partenza), alla Vita, che è anche per quanto noi le con-

sentiamo di essere. Una volta ancora, e una di più, mai una di troppo: si agisca per essere belli, per dare prima di ricevere, per elevarci sopra l’oscenità latente dei nostri giorni». Utopistiche, e anche visionarie (perché no?), le nostre opinioni hanno soprattutto un valore, che scarta a lato, evita addirittura, ogni convenienza di parte: quello di essere espresse in un contesto giornalistico che eleva il tono della Fotografia, fino a investirla di competenze e capacità che possono fare l’autentica differenza (soprattutto nelle nostre vite), fino a proiettarla a chiave privilegiata di lettura ed esistenza per osservare ben oltre l’apparenza delle sue sole forme (spesso effimere). In sostanziosa differenza, le parole di Ferdinando Scianna sono dirette e meglio indirizzate: perché non passeggiano tra le pieghe di alcuna vita individuale, ma abbracciano la materia autentica. Con eccezionale capacità, polso fermo, mente brillante, Ferdinando Scianna non si disperde (come, invece, facciamo spesso noi). Prende per mano il lettore e lo accompagna lungo un tragitto che dischiude porte delle quali per lo più si ignorava perfino l’esistenza. Porte chiuse, che si spalancano e rivelano meravigliosi panorami. Meravigliosi per la mente! Etica e fotogiornalismo ha le idee chiare. Sa cosa dice e come dirlo. Per non interferire nella lettura individuale, che consigliamo vivamente!, non riveliamo nulla di più, oltre la certificazione di un convincente accompagnamento di fotografie che sottolineano le considerazioni espresse (soprattutto in merito alla falsificazione). Ma riprendiamo un passaggio, peraltro proposto anche in copertina: «Molti pensano che oggi ci sia particolare urgenza di affrontare i problemi etici nel fotogiornalismo. A me non pare. L’etica è etica. Non credo che esista un’etica specifica del giornalismo, con una conseguente sottoetica del fotogiornalismo». Così, abbiamo chiarito verso quale spessore di considerazioni ci si incammina. Da non perdere! ❖

Etica e fotogiornalismo, di Ferdinando Scianna; Electa, 2010; venticinque illustrazioni; 76 pagine 15x23cm; 19,00 euro.


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Curiosità di Antonio Bordoni

FANTASTICA FOTORICORDO

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Ancora in compagnia della Storia 1839-2009. Dalla Relazione di Macedonio Melloni alla svolta di Akio Morita, compilata dal nostro direttore Maurizio Rebuzzini. Inviolabile replica di un appuntamento che si sta ripetendo, mese dopo mese, dallo scorso novembre, ovverosia dalla pubblicazione del libro, il ventisei del mese, in allineamento di date (ricercato e perseguito!) con il giorno nel quale è stata avviata la vendita di apparecchi Polaroid, ai grandi magazzini Jordan Marsh, di Boston, Massachusetts, nel 1948 [nel sessantesimo anniversario: FOTOgraphia, novembre 2008]. Una volta ancora, sfogliando le pagine di 1839-2009. Dalla Relazione di Macedonio Melloni alla svolta di Akio Morita, estraiamo una delle tante considerazioni lì espresse. Prima di farlo per l’ennesima volta, sempre con argomenti diversi, presi qui e là dai capitoli, richiamiamo passi dalla apprezzata prefazione di Giuliana Scimé, personalità di indiscusso alto valore fotografico. Questo at-

Dal manuale di istruzioni della Box Kodak (1888).

In queste pagine, istantanee di vita quotidiana realizzate con la Box Kodak originaria (1888). Per la prima volta, la fotoricordo è alla portata della fotografia, che con i processi precedenti era vincolata alla sola posa. Copie tonde, di 64mm di diametro. Una volta sviluppata la pellicola flessibile caricata nella Box Kodak, le copie su carta venivano esposte per contatto, alla luce del sole in appositi laboratori creati a Rochester.

tuale prelievo ci conforta nel buon giudizio che attribuiamo alle rilevazioni con le quali Maurizio Rebuzzini ha accompagnato l’analisi dei sommovimenti innescati dalla Box Kodak, di George Eastman, nel 1888: una delle quattro svolte senza ritorno del suo percorso. Annota Giuliana Scimé: «[Mauri-

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zio Rebuzzini] ha considerato una storia, quella della fotografia, da angolature classiche e anticonformiste, come è nella sua natura e preparazione di uomo colto ed intelligente, e come deve essere per non soggiacere a ribollite che oramai si sono consunte, nella cucina poverissima di idee e ridondante di


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CuriositĂ

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Curiosità PRIMA E DOPO

errori che blocca la digestione alle nostre menti. [...] Ancora non si è generalmente capito che la fotografia ha sconvolto l’intera vita individuale e collettiva, per utilizzare un’immagine (guarda caso) metaforica: come un aratro che profondo penetra nella terra, la rivolta e da quell’humus rinnovato sorgeranno nuove piante e frutti che del tutto diversi saranno. Sì, Rebuzzini segue il filo logico della cronologia, ma ciò che davvero affascina, ed è il pregio della sua fatica, sono le riflessioni, personalissime (non gag, attenzione, per sembrare colti ed impegnati, e, in vero di alcuna sostanza); riflessioni, condivisibili o meno, che, comunque, stimolano il pensiero di ognuno di noi».

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All’indomani dell’invenzione della fotografia, con le relative date ufficiali del 1839, in consecuzione rapida, la prima svolta senza ritorno, che dal momento originariamente tecnico si proietta ben oltre, è innescata, nel 1888, dalla Box Kodak, di George Eastman. A questo proposito, Maurizio Rebuzzini è esplicito nelle sue osservazioni assolutamente originali (mai lette prima, da nessuna altra parte). Sottolinea subito, non soltanto presto, che «la Box Kodak -con la quale nasce anche il marchio di fabbrica (Kodak / Eastman Kodak, appunto)- stabilisce una linea spartiacque; anzi, due. Almeno. Da un punto di vista commerciale, da e con questa idea comincia il mercato fotografico come ancora oggi l’intendiamo [You Press the Button, We Do the Rest (Voi schiacciate il bottone, noi facciamo il resto)]; quindi, anche l’espressività fotografica cambiò radicalmente, rendendo la pratica fotografica accessibile tutti. E tanto altro ancora». Tanto altro ancora: soprattutto è stata individuata una fotografia “prima” e una “dopo”. Quella di “prima” è una fotografia «costosa, e poi anche ingombrante e difficoltosa, tanto da essere limitata soltanto alla posa: ritratto e paesaggio (e documentazione scientifica). Se voglio vederla così, se mi concedo di vederla anche così, nei decenni a cavallo di metà Ottocento, la fotografia ha espresso soltanto se stessa: autoreferenziale “fotografia” da osservare con compiacimento».

GIÀ, FOTORICORDO La fotografia “dopo” dipende dalle innovazioni tecniche realizzate e introdotte da George Eastman: «La facilità di uso della Box Kodak ha fatto la differenza, consentendo la nascita del fenomeno della fotografia di massa così come ancora oggi lo conosciamo e intendiamo: l’autentico hobby fotografico, con relativa conservazione accurata delle stampe, è cominciato allora, generato dall’invenzione di George Eastman e successivamente alimentato da tutti gli apparecchi fotografici semplici e semplificati che ne sono derivati, non soltanto Kodak, sia chiaro.


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Curiosità «Da un punto di vista non professionale, la fotoricordo ha definito la differenza sostanziale tra tutta la fotografia pre-1888 e quella successiva. Hanno iniziato ad essere realizzate istantanee di vita quotidiana, precedentemente estranee al percorso della fotografia: non più soltanto pose, dunque, ma anche istanti colti al volo, o quasi. Tanto che, annoto presto, da questo momento compaiono soggetti precedentemente esclusi dall’esercizio fotografico: [...] momenti di vita ordinaria, gite, scampagnate, animali domestici in libertà, altri animali, bambini per la strada... e anche qualche sana buffoneria. Tutti soggetti impossibili con gli ingombranti strumenti della fotografia precedente: sia per oggettivi limiti tecnici e pratici, sia anche per soggettive valutazioni economiche. Con franchezza: le onerose lastre al collodio secco non si prestavano di certo né all’istantanea, né al gioco delle parti». Dopo di che, attenzione: oltre la fotoricordo familiare, proprio le dimensioni contenute e la sostanziale facilità di uso consentirono alla fotografia di scendere per la strada, applicandosi alla vita reale: fotografie che sollecitano anche la riflessione e considerazione del soggetto rappresentato, non soltanto raffigurato. Tanto per quantificare, le immagini di Jacob A. Riis che rivelarono le terribili condizioni di vita degli immigrati a New York, raccolte in How the Other Half Lives, sono del 1890. E la fotografia umanista di fine Ottocento indica un altro autore che si muove nello stesso identico modo: Lewis W. Hine, che ha testimoniato le condizioni del lavo-

ro minorile in fabbrica, influendo sull’opinione pubblica americana [rispettivi Sguardi su, di Pino Bertelli, in FOTOgraphia, del settembre e ottobre 2005]. E la fotoricordo, concludiamo, è uno dei più fantastici capitoli (sociali) della fotografia. Ancora con Giuliana Scimé: «la fotografia ha sconvolto l’intera vita individuale e collettiva». Soltanto, ahinoi, la fotoricordo non si può raccontare, perché vive e palpita tra le pareti domestiche, là dove non si può penetrare. Fotografie raccolte in album, conservate in scatole di scarpe, dimenticate nei cassetti, che raccontano storie personali e capitoli di una Storia collettiva latente e latitante. Peccato. ❖

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Cinema

di Maurizio Rebuzzini - Ricerca iconografica di Filippo Rebuzzini

PASSATO E PRESENTE

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Siamo sinceri, e parliamone prima di affrontare la combinazione fotografica implicita, che è poi la nostra materia istituzionale, che oggi ci proietta ben oltre: un poco di pazienza. Della trilogia di Ritorno al futuro, di Robert Zemeckis, il secondo titolo, del 1989, è da cancellare e dimenticare. Confuso nei propri passaggi di tempo, tra presente, passato e futuro, è un film eccessivamente autocompiacente, che ha perso il contatto con qualsivoglia filo narrativo. Al contrario, l’originario Ritorno al futuro e il terzo e conclusivo Ritorno al futuro parte III (Back to the Future e Back to the Future Part III, rispettivamente del 1985 e 1990) si basano su sceneggiature brillanti e coinvolgenti. Certamente, non si tratta di opere da iscrivere in alcuna possibile Storia del cinema, ma di film che fanno trascorrere qualche ora piacevole. E tanto può bastare. Sempre. La fotografia, alle cui manifestazioni riserviamo la nostra attenzione, indirizzandoci anche alla sua presenza al cinema (che affrontiamo proprio in queste pagine dedicate, mese dopo mese), vanta una sostanziosa presenza nel terzo film della saga di Ritorno al futuro. È adeguatamente presente anche nel primo titolo, originario (a pagina 20), ma si impone giusto in Ritorno al futuro parte III. Non pensiamo tanto alla sua presenza scenografica, che pure fa inevitabilmente capolino, ma alla sua

Nel film Ritorno al futuro parte III, terzo della celebre trilogia, sono due le fotografie che stabiliscono l’influenza del passato sul futuro, ovvero presente. La vicenda si svolge nel settembre 1885, nel West dei pionieri, e presuppone un ritratto davanti all’orologio della torre della città e la fotografia di una lapide tombale che certifica la morte di Emmett Brown (interpretato da Christopher Lloyd), il sette settembre.

In base all’intervento di Marty McFly (l’attore Michael J. Fox) nel passato, sulla lapide, il nome di Emmett Brown cede il passo a quello di Clint Eastwood, come il protagonista si è presentato nel West. E poi scompare. Tutti salvi!

consistenza narrativa. Dalla quale, poi, proseguiamo con un sostanzioso balzo in avanti; non riusciamo a fare a meno di riflettere e analizzare: se ne faccia buon uso.

A VOLTE, SCOMPARE Nelle due sceneggiature di inizio e conclusione, ma soprattutto nel terzo titolo, l’influenza del passato sul futuro, autentico motivo conduttore dell’intera trilogia di Ritorno al futuro (appunto!), è visualizzata da fotografie. Sono fotografie del presente, circa, condizionate dal passato. Ovvero, il soggetto raffigurato dipende dalla concatenazione di fatti che possono influire sulla vita dei singoli, modificandola. Come appena annotato, e rilevato ancora nel riquadro pubblicato a pagina 20, in Ritorno al futuro parte III si replica una condizione già rimarcata nel primo titolo originario. Al fine di aiutare l’amico dottor Emmett Brown (interpretato dall’attore Christopher Lloyd), inventore della macchina che viaggia nel tempo, stabilitosi nel West dei pionieri, il protagonista Marty McFly (l’attore Michael J. Fox) è intenzionato a intervenire sui fatti del passato. Due fotografie lo confortano nella propria azione: un ritratto in posa davanti all’orologio della torre, peraltro compreso nella sceneggiatura del film, la cui personalità è trasversale ai due titoli estremi della saga, e una lapide del cimitero, sulla quale scompare o ritorna, secondo gli eventi del momento, il nome dell’amico, con la data di morte.

Ecco qui, tutto il gioco visivo si concentra giusto e soprattutto su questo: sulla modificazione di due fotografie in relazione alle azioni che maturano, e che danno avvio a un possibile svolgimento della vita, piuttosto che a un altro. Fantasiosa nel compito che svolge, ma avvincente per mille e mille motivi (tutti nostri, tutti appartenenti al nostro dibattito sul valore e senso della fotografia), questa ipotesi sollecita altre considerazioni e riflessioni. Ancora una volta sull’immagine fotografica. Certamente, la sceneggiatura di Ritorno al futuro parte III, firmata dallo stesso regista Robert Zemeckis in coppia con Bob Gale (come per gli altri due titoli precedenti), non ha alcuna altra intenzione che quella di scorrere via in maniera lineare e plausibile, compatibilmente al linguaggio caratteristico del cinema, così diverso dalla realtà. Dunque, all’origine non c’è altro, è lecito che non ci sia altro. Però! Però, dal nostro punto di vista concentrato sull’approfondimento delle espressioni fotografiche, noi andiamo oltre, possiamo andare oltre, vogliamo andare oltre. In particolare, non possiamo non intravedere, e per questo sottolineare, come e quanto questa fantastica ipotesi della fotografia che cambia i propri connotati raffigurativi, appunto generati dallo svolgimento di vite che partono da lontano, indietro nel tempo, nei decenni, si basi su una delle idee fondanti dello stesso linguaggio fotografico. Cioè, sia-

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Cinema ANCHE ALLE ORIGINI

Già nella sceneggiatura del primo Ritorno al futuro, quello originario, la visualizzazione di una fotografia a scomparsa dei soggetti segna l’influenza degli avvenimenti del passato sul futuro, ovvero presente. Se Marty McFly (Michael J. Fox), proiettato indietro agli anni Cinquanta, non riesce a combinare l’incontro tra quelli che sarebbero poi stati i suoi genitori (George McFly e Jennifer Parker, rispettivamente interpretati da Crispin Glover e Claudia Wells), lui stesso e i suoi fratelli Dave e Linda non vengono al mondo. Quando il fatidico incontro e relativo innamoramento sembrano sfumare, lui si indebolisce e con i suoi fratelli scompare dalla fotoricordo. Tutto torna normale e secondo lo svolgimento esistenziale originario quando la Storia riprende il proprio corso.

Nel cinematografico Ritorno al futuro parte III, la seconda fotografia che proietta il passato sul futuro (e presente) è il ritratto di Emmett Brown davanti all’orologio della torre cittadina, appena costruito: 5 settembre 1885.

mo confortati in quella considerazione che vuole che l’effetto di realtà della fotografia riguardi anzitutto la propria aderenza formale a ciò che rappresenta. Soprattutto oggi, in piena epopea digitale (con le relative semplificazioni e facilitazioni di intervento), il suo contenuto può essere manipolato e selezionato senza inficiare il suo supposto valore di verità documentaria fondato sulla tecnica. Del resto, come abbiamo annotato in tante occasioni, e ora la ripetizione è d’obbligo e si impone, la grande rivoluzione della fotografia è stata quella di mostrare la realtà senza apparenti mediazioni e da qui, forse, è nata la propria diffusione e popolarità anche come documento.

ALTRE VOLTE, APPARE Apparenza e realtà della fotografia: soprattutto nel fotogiornalismo. Tutte le volte che si racconta la fotografia di guerra, che rappresenta l’apice del fotogiornalismo e di tante altre contraddizioni trasversali, è quasi obbligatorio richiamarne le origini. Ufficialmente, si certifica l’azione primigenia di Roger Fenton, fo-

31 agosto 1996. Il regista Robert Zemeckis, che ha firmato la trilogia di Ritorno al futuro, per Ciro e Filippo (Rebuzzini), nel giorno del loro compleanno: Back to the Future.

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Cinema tografo della guerra di Crimea (18531856), temporalmente precedente la guerra Civile americana, o di secessione (1861-1865), fotografata soprattutto, ma non soltanto, da Mathew B. Brady, Alexander Gardner e Timothy H. O’Sullivan, e le guerre in Medio ed Estremo Oriente della seconda metà dell’Ottocento, fotograficamente documentate da James Robertson e Felice Beato. Ancora: apparenza e realtà della fotografia. Il compito fotografico di Roger Fenton era prestabilito, e implicito nel suo ingaggio: raccogliere documenti visivi affinché l’opinione pubblica potesse rendersi conto “direttamente” delle condizioni di vita dei soldati di Sua Maestà, sui campi di battaglia di una guerra non ampiamente appoggiata in patria. I suoi scatti vennero diffusi attraverso la stampa periodica. In realtà, l’opinione pubblica inglese era sostanzialmente sconvolta dalle corrispondenze giornalistiche di William H. Russell, pubblicate sul London Times: drammatici resoconti sulla condotta del conflitto, che puntavano il dito soprattutto sulle terribili condizioni climatiche che i soldati inglesi erano costretti ad affrontare senza l’equipaggiamento adatto e le inqualificabili condizioni igieniche dei servizi sanitari. Sia per le difficoltà tecniche (come le lastre al collodio umido, che andavano sviluppate immediatamente, gli ingombranti apparecchi e i limiti oggettivi nei tempi di otturazione/esposizione), sia perché “ben istruito”, Roger Fenton non si soffermò mai sulle disagiate condizioni di vita o su raccapriccianti scene di battaglia, ma su ordinati accampamenti e teatri di guerra successivi al combattimento. Fu un esercizio di propaganda? Personalmente non ci allineiamo con le posizioni storiche che hanno bollato questa fotografia, anche perché il concetto di “propaganda” è come quello di “comune senso del pudore”: dipende dal tempo e dalle latitudini. In ripetizione, sempre d’obbligo: con tutto, siamo perfettamente coscienti che la grande rivoluzione della fotografia è stata quella di mostrare la realtà senza apparenti mediazioni e da qui, forse, è nata la propria diffusione e popolarità anche come documento. A questo proposito, ricordiamo una

Intervenendo sullo svolgimento della Storia, Marty McFly (Michael J. Fox) posa accanto al dottor Emmett Brown (Christopher Lloyd) nella fotoricordo dell’orologio della torre: il fotografo (il caratterista Dean Cundey) inquadra, fa partire il lampo al magnesio e scatta.

Rispetto l’origine della vicenda, con la fotoricordo che visualizza soltanto Emmett Brown, l’intrusione di Marty McFly ha modificato gli avvenimenti, e il loro racconto: in due versioni emblematiche, la fotografia ufficiale lo comprende nell’inquadratura.

fantastica mostra fotografica allestita alla prestigiosa Concoran Gallery of Art di Washington DC, che nel 1999 visualizzò un parallelo che oggi è congeniale. Propaganda & Dreams è stata una comparazione tra la fotografia sovietica e statunitense degli anni Trenta: ciascuna a proprio modo, entrambe caratterizzate da spiriti politici forti ed evidenti, oltre che dichiarati: da una parte la Propaganda di regime, dall’altra i Sogni di uno stile di vita da proporre al mondo intero [FOTOgraphia, luglio 2004]. La curatrice Leah Bendavid-Val ha lavorato con efficienza, puntualizzando bene la contrapposizione tre due stili fotografici, ognuno in linea con se stesso e con le proprie intenzioni. Però, a ben guardare, partendo dai medesimi presupposti (e preconcetti), un curatore sovietico avrebbe potuto raggiungere i medesimi risultati, invertendo l’ordine dei fattori: Sogni di una nuova vita avviata dalla Rivoluzione e Propaganda di una vita ormai compromessa dal nuovo vento dell’Est. Francamente, e chiudiamo: poiché c’è un soggetto dietro l’obiettivo, che lo dirige e orienta, c’è tutto un gioco di esibizione e seduzione tra tutte le immagini prese in considerazione tra mille altre possibili e mostrate al loro posto, un gioco complicato di fantasie, interessi e, talvolta, rischi. Altre volte, appare. ❖

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OUR FA I


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di Maurizio Rebuzzini

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ostalgia, ma anche memoria (individuale, e forse collettiva), in eguale misura. Indossate da Audrey Hepburn in Colazione da Tiffany (Breakfast at Tiffany’s, di Blake Edwards, del 1961, dall’omonimo romanzo di Truman Capote), le creazioni di Givenchy hanno creato una vera a propria icona di stile, entrando nell’immaginario collettivo del nostro tempo. Al di sopra di ogni sospetto, considerato che noi viviamo mille e mille miglia distanti dalle manifestazioni della moda (e dintorni/contorni), questa considerazione ha un valore soprattutto sociale. Definisce un tempo e un mondo nel quale educazione e stile venivano prima di molto altro, forse prima di tutto. Abito nero, occhiali da sole e fantastico giro di perle, un panino consumato davanti alle vetrine di Tiffany, sulla Fifth Avenue, a Manhattan, Audrey Hepburn è simbolo di una raffinatezza che oggi è difficile immaginare, visto e considerato che ben altri sono diventati valori di vita: dall’insolenza all’arroganza, dalla maleducazione alla supponenza, dalla trivialità all’incultura. È quello il mondo nel quale vorremmo ancora vivere, pur muovendoci su piani diametralmente opposti e con richiami assolutamente divergenti: ma sapremmo apprezzare un clima nel quale, dati questi presupposti, ogni valore sarebbe inviolabilmente riconosciuto come tale, e per questo rispettato. Quell’eleganza, così distante dai nostri gusti e dalla nostra esistenza (a ciascuno, la propria), rappresenta certezze sociali da ammirare, probabilmente da abbattere (sì, da abbattere), per essere sostituite da altre giustizie: non certo dalla confusione dei nostri giorni! Eleganza e stile straordinariamente interpretati da Audrey Hepburn, che si erano cinematograficamente annunciati in Vacanze romane e Sabrina (1953 e 1954).

CINEMA E FOTOGRAFIA La carriera di attrice di Audrey Hepburn è definita dai titoli ricordati fino a questo punto. Dopo di che richiamiamo altre due segnalazioni: una di delicato epilogo e l’altra di immancabile sapore fotografico. L’ultima apparizione cinematografica di Audrey Hepburn, mancata nel gennaio 1993, a sessantaquattro anni, è del 1989. Affascinante sessantenne, è l’angelo Hap del commovente Always (in Ita-

Audrey Hepburn. Photographs 1953-1966, di Bob Willoughby; Taschen Verlag, 2010 (distribuzione Inter Logos, strada Curtatona 5/2, Località Fossalta, 41100 Modena; 059-412648; www.books.it); 282 pagine 31x38,8cm; cartonato, in custodia personalizzata; mille copie numerate e firmate dall’autore; 350,00 euro.

Subito chiarito: personalmente, odiamo ogni forma di inglesismo inutile. Solitamente, restiamo lontani dagli abusi che stanno definendo la nostra confusa epoca. Ma! Ma per onorare come si deve, e come intendiamo fare, la straordinaria eleganza e raffinatezza di Audrey Hepburn, celebrata in una avvincente monografia d’autore, ricorriamo alla presentazione in inglese, declinata dal titolo di una sua straordinaria interpretazione cinematografica (è ovvio: My Fair Lady, di George Cukor, del 1964). La raccolta Audrey Hepburn. Photographs 1953-1966, di Bob Willoughby, non è rappresentativa del suo solo soggetto esplicito, ma sollecita nostalgie per ciò che è stato, e non è più. La nostra (nostalgia) prima di tante altre

A IR LADY

La collaborazione tra il fotografo Bob Willoughby e Audrey Hepburn è iniziata nel 1953, all’indomani dell’arrivo a Hollywood dell’attrice. L’attuale monografia pubblicata da Taschen Verlag ripercorre i fasti e l’eleganza di uno star system per il quale proviamo una certa nostalgia.

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lia Always per sempre), diretto da Steven Spielberg. È lei che sostiene, assiste e motiva Pete Sandich (interpretato da Richard Dreyfuss), nel passaggio dalla vita alla morte. Lo traghetta, aiutandolo a risolvere e annodare i fili sospesi che deve lasciare sulla Terra, consentendo a chi ancora vive di condurre un’esistenza meritatamente serena, senza rimpianti né rammarichi. Quindi, sempre dal fronte cinematografico, dal nostro punto di vista oggettivamente particolare e mirato, non possiamo soprassedere sull’interpretazione in Cenerentola a Parigi (Funny Face, di Stanley Donen, del 1957). Si tratta di una sceneggiatura a dir poco forzata e improbabile, che fa colpevole scempio di ogni dignità che personalmente attribuiamo alla fotografia di moda e al suo mondo (che ci è estraneo e distante: ripetizione), alla quale ha contribuito Richard Avedon, fotografo del quale non si può non considerare e rispettare il rigore professionale, allineato con l’efficacia e spessore di una lunga carriera espressiva, costellata di straordinarie immagini (non soltanto di moda). Ufficialmente, Richard Avedon, ai tempi trentatreenne, risulta consulente del colore e degli effetti fotografici del film, ma ufficiosamente è più che palese la sua parteci-

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Posato per la presentazione di Funny Face, in Italia Cenerentola a Parigi, di Stanley Donen, del 1957. Nel film, Fred Astaire interpreta il fotografo di moda Dick Avery, esplicitamente ispirato a Richard Avedon, ufficialmente consulente del colore e degli effetti fotografici; Audrey Hepburn è Jo Stockton, oscura commessa di una libreria del Greenwich Village, di New York, che diventa fotomodella di prima grandezza. La favola di Cenerentola. Appunto.

pazione diretta alla definizione dei tratti identificativi e scenografici del fotografo protagonista, interpretato da un poco credibile Fred Astaire. In molte occasioni pubbliche, lo stesso fotografo di fantasia è stato esplicitamente riconosciuto proprio in Richard Avedon; in cronaca, ai tempi, e in commenti successivi, molti critici cinematografici statunitensi hanno allineato la raffigurazione scenica a Richard Avedon (i critici italiani non lo hanno fatto, perché -molto probabilmente- neppure conoscono l’“originale”); da parte nostra, oggi aggiungiamo una nota parallela, rilevando che il personaggio del film si chiama Dick Avery, e “Dick” è il diminutivo corrente di Richard. Ora, pur non entrando in merito alla vicenda narrata in Cenerentola a Parigi, richiamiamo l’attenzione sulla raffigurazione quantomeno caricaturale del mondo della moda, come abbiamo appena rilevato, a partire dai capricci e isterismi della redazione della rivista di moda newyorkese, dalla quale parte il racconto (anche per questa possiamo evocare un irriverente parallelo con Harper’s Bazaar e con il suo art director Alexey Brodovitch, Dovitch sullo schermo, nell’interpretazione di Alex Gerry). E poi non possiamo, né vogliamo, soprassedere sulla favola della

commessa di libreria del Greenwich Village, di New York, trasformata in affascinante modella: appunto Cenerentola, dall’intellettualismo di maniera ai fasti dell’effimero, nell’interpretazione di Audrey Hepburn, nei panni di Jo Stockton. Per quanto riguarda il nostro osservatorio mirato e privilegiato, spesso orientato sulla presenza della fotografia nel cinema, nell’ampio contenitore di Funny Face / Cenerentola a Parigi abbiamo apprezzato identificati momenti appunto fotografici. Pensiamo prima di altro all’invasione nella libreria del Greenwich Village, identificata come location adeguata al contrasto visivo con l’alta moda, e alle successive sequenze di moda per le strade di Parigi: in tutti i casi, con Rolleiflex e apparecchi 8x10 pollici di diversa natura, tra i quali si può riconoscere la mitica Deardorff in legno, che sono stati gli strumenti fotografici di Richard Avedon. Ancora, sottolineiamo la presenza nel film di modelle attraverso le cui pose sono state anche scritte pagine significative e significanti della fotografia di moda: sopra tutte, Dovima (nei panni di Marion), che è poi il celebre volto/corpo di Dovima con gli elefanti (Cirque d’Hiver; Parigi, agosto 1955), di Richard Avedon, e Suzy Parker. A questo proposito, e in collegamento, non ignoriamo come le sequenze di moda a Parigi riflettano lo spirito della realtà di strada, che lo stesso Richard Avedon stava appunto visualizzando in quegli anni. Oltre la citata imprevedibilità di Dovima con gli elefanti, si ricordano anche altri scorci di esistenza, con marciapiedi affollati o curiosi di contorno. E su tutti e tutto impera la raffinata presenza di Audrey Hepburn (Jo Stockton: la Cenerentola evocata nel titolo italiano).

BOB WILLOUGHBY Pubblicata nell’ambito dei libri in edizione particolare, spesso addirittura speciale (Collector’s Edition, in tiratura limitata e certificata), la monografia Audrey Hepburn. Photographs 1953-1966, del bravo Bob Willoughby, cantore dei fasti di Hollywood, è un documento fotografico di spessore. Protagonista assoluta è proprio Audrey Hepburn, nel periodo d’oro del suo cinema, fotografata nella vita privata e sui set dei film nei quali ha recitato. Ne risulta un ritratto senza eguali su una eleganza e raffinatezza che hanno segnato il secondo No-

(pagina accanto) 1953: sul set Paramount di ritratti per il lancio americano di Audrey Hepburn, di nascita belga.

(centro pagina) Backstage sul set di My Fair Lady, del 1964, nel quale Audrey Hepburn interpreta l’affascinante Eliza Doolittle.

Nato nel 1927, Bob Willoughby (qui sul set di Brigadoon, del 1954, con il regista Vincente Minnelli e il protagonista Gene Kelly) ha scattato la sua prima fotografia all’età di dodici anni. Nel 1954, una mostra fotografica di ritratti di musicisti jazz e ballerini gli ha portato due contratti: con Globe Foto e Harper’s Bazaar. Dopo aver seguìto Judy Garland durante le riprese di È nata una stella è diventato il primo “unit photographer” degli studios hollywoodiani.

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1953: dopo la sessione fotografica con Bud Fraker, ai Paramount Studios, Audrey Hepburn sale in auto per tornare al proprio hotel.

Non ce ne voglia nessuno, soprattutto non ce ne voglia Bob Willoughby, quando confessiamo di ritenere il più straordinario ritratto di Audrey Hepburn quello realizzato da Gian Paolo Barbieri, nel 1976, per Vogue Italia. Abito nero di Valentino, con cappuccio e «quel sorriso che Dio ha donato per sciogliere il cuore degli uomini» (Bob Willoughby). Una avvincente interpretazione di quella posa, datata 2009, è stata messa all’asta in una sessione d’asta benefica, per FotografiSenzaFrontiere, alla fine dello scorso febbraio: stampa inkjet 40x50cm, su carta Hahnemühle Fine Art Matt.

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vecento (e che ameremmo ritrovare nello star system dei nostri giorni: che almeno sia elegante e raffinato, e non volgare e insolente, oltre che ignorante). Nella sua brillante carriera, come fotografo di studio, a Hollywood, Bob Willoughby ha realizzato numerosi ritratti che hanno definito i tratti di un mondo e un’epoca: da Marilyn Monroe a Elizabeth Taylor, a Jane Fonda. Ma la sua fama è inequivocabilmente vincolata all’intenso rapporto professionale che l’ha legato a Audrey Kathleen Ruston, conosciuta solo come Audrey Hepburn, la sua attrice preferita, la sua personalità del cinema più amata. Bob Willoughby fu inviato a fotografare una nuova star del firmamento cinematografico, una mattina del 1953, poco dopo il suo (di lei) arrivo a Hollywood. In origine, si sarebbe dovuto trattare di un assignment generico, e forse anche banale; ma l’incontro con tanta raffinata bellezza europea (Audrey Hepburn è

nata in Belgio) emozionò il già esperto ritrattista. Ancora oggi, a quasi sessant’anni di distanza, il ricordo di quel primo incontro è vivo e palpitante: «Mi prese la mano... con delicatezza, come una principessa. Mi ha abbagliato, con quel sorriso che Dio ha donato per sciogliere il cuore degli uomini». Fu subito amicizia, e la partecipazione emotiva del fotografo traspare da tutti i suoi ritratti, sul set e nella vita privata dell’attrice. Nella monografia si susseguono le tappe di una carriera cinematografica esemplare, a partire dal folgorante debutto da Oscar in Vacanze romane, tutte declinate alla luce delle infinite sfaccettature di una bellezza e un’eleganza uniche, il cui apice si è registrato nella parte della seducente Holly Golightly, in Colazione da Tiffany. A questo proposito, e per chiudere, ancora una evocazione del “piccolo abito nero” di Hubert de Givenchy, come è stato sempre definito, che ne è il simbolo. ❖


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Febbraio 2010. Lascivo Candore Pudico [innocenza/provocazione negli adolescenti]

Marzo 2010. Dispotico Castigo Indulgente [bullismo]

di Maddalena Fiocchi

C

rudelia Demon. Più giovane e bella, però, di quella originale, la cattiva della Carica dei 101. È così fragile e sofisticata, da ricordare anche, almeno un po’, la Grace del film Dogville, di Lars von Trier. Ma questa figura sottile, di profilo, al centro della composizione, mentre soffia una nuvola di fumo bianco e denso, reggendo tra le dita una sigaretta all’estremità di un lungo bocchino, tiene al guinzaglio, con l’altra mano, una muta di quattro giovanotti quasi nudi, ricoperti di macchie nere. Sono ai suoi piedi, a quattro zampe. Perché se lei è Crudelia, i quattro ragazzi sono i dalmata sui quali esercita il proprio potere di vita e morte. Lo ricorda la pelliccia candida, che le scende dalla spalla, macabro accessorio della cattivissima disneyana e simbolo del suo cinismo. La composizione è adeguatamente simmetrica, con i quattro “dalmata” a formare la base della piramide e sul fondo due soli artificiali, a dare risalto alla protagonista di questa rappresentazione, uno alla sua destra, l’altro alla sua sinistra. Come tutte le visioni che la fotografa toscana Azzurra Piccardi ha creato per la sua serie intitolata Ossimoro (realizzata con stilemi della fotografia di moda), anche questa presenta una scena onirica, che sembra emergere dall’oscurità, in una sorta di rivisitazione pop dell’estetica preromantica, con qualche richiamo ironicamente fetish. Appunto: la fotografia di moda del giorno d’oggi è anche questa, è proprio così.

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DOLCE, L Questa raffigurazione suggerisce il contrasto contemporaneo tra opulenza e povertà, che, in barba agli ideali di uguaglianza e democrazia, consegna alla ricchezza il potere assoluto. Le dodici fotografie che compongono Ossimoro sono raccolte e presentate in forma di calendario (ormai, è quasi un obbligo) e ognuna è identificata da un “ossimoro” di tre parole [che oggi manteniamo nelle singole descrizioni]. Con ognuno di questi scatti, Azzurra Piccardi ha messo in scena uno dei temi che l’industria dell’informazione ha già eletto come simboli -legittimi o meno, è un’altra questione- del lato oscuro del vivere contemporaneo. Tutte le rappresentazioni sono state prodotte con la partecipazione di ben trenta giovanissimi interpreti, che hanno dato vita a vere e proprie messe in scena. Per esempio, per parlare di bullismo, l’autrice ha vestito cinque dei suoi attori con abiti giovanili -jeans e felpe col cappuccio-, ne ha fatti sedere quattro ad altrettanti tavolini cromati, lasciandone in piedi solo uno, al centro e più vicino al punto di vista rispetto agli altri, a rappresentare il bullo più violento di tutti. Da sotto il cappuccio color vinaccia, il teppista


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Aprile 2010. Efferato Imberbe Assenzo [pedofilia]

Gennaio 2010. Soavi Spine Possenti [combattimenti clandestini]

LA VITA? La fotografa toscana Azzurra Piccardi ha costruito una serie di immagini che sintetizzano identificati disagi della vita dei nostri giorni (diciamola anche così). Le dodici tavole di Ossimoro, in quantità adatta alla raccolta in forma di calendario, affrontano e rappresentano temi sociali quantomeno controversi, per non dire spinosi. Affascinanti costruzioni sceniche, composizioni elaborate e fitte di richiami simbolici presto riconosciuti. Da decifrare, uno dopo l’altro

Maggio 2010. Altera Pulsione Concisa [mercato degli organi]

rivolge all’osservatore il suo sguardo truce, incorniciato dalle sopracciglia folte e scure. Il corpo intero è teso nell’atteggiamento rigido e stereotipato di sfida tipico di chi emula i modelli della prepotenza. Nei pugni stringe lunghi chiodi, cromati come i tavolini dei suoi compagni/bersagli, e questi tengono le mani ben aperte, appoggiate sui “banchi”, perché molti dei chiodi del capobanda sono già conficcati nei pochi millimetri di spazio libero dalla carne tenera delle loro dita. Un altro dei flagelli che Azzurra Piccardi affronta è la tossicodipendenza. Ancora una fotografia costruita secondo la classica composizione piramidale, al vertice della quale il pusher plana sui suoi clienti come un sinistro grifone. Gli artigli sono siringhe di un rosso brillante. Con la sua acconciatura da discoteca, si erge sul grappolo umano delle sue vittime, protese verso di lui un po’ come i naufraghi della Zattera della Medusa verso la speranza; anche la struttura di questa composizione è simmetrica e centrale, con i due soli artificiali, di nuovo, perfettamente allineati, uno a destra, l’altro a sinistra. Uno dei giovani che stanno aspettando il loro fornitore mostra la sua dipendenza e sottomissione leccando la punta della scarpa del suo “benefattore”: eccolo qui il consueto richiamo fetish. La scarpa è l’unico accento verde in un’immagine basata, come le altre, prevalentemente sui toni del nero e del grigio, del bianco e del rosso. La costruzione più teatrale e narrativa della serie ha per tema gli incontri clandestini, non quelli galanti, ma quelli resi celebri dal cinematografico Fight Club, di David Fincher. Lotta

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Luglio 2010. Eccelse Infule Vessate [carne da macello / prostituzione]

Agosto 2010. Dedito Impeto Proibito [omofobia]

Settembre 2010. Deferente Nettare Infimo [tossicodipendenza]

clandestina tra uomini. Questa volta, i pitbull possono tirare il fiato. Il richiamo della raffigurazione è affidato a un ring, al centro del quale piovono biglietti da cinquanta euro, che sono il vero fulcro di tutta la composizione. Le banconote creano un certo contrasto con lo stile di tutta la scena, che ricorda le Little Italy hollywoodiane, come a suggerire che da oltreoceano e dal passato, gli incontri di questo genere hanno preso piede in tutte le città del mondo (pare infatti che se ne organizzino anche a in Italia, ma siccome la prima regola di questo gioco è «non parlare mai del Fight Club», nessuno dei non iniziati sa dove si svolgono i combattimenti).

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La messa a fuoco è concentrata sulla parte sinistra dell’inquadratura, sul lottatore variamente contuso, seduto a sciacquarsi la bocca. In primissimo piano, a destra, una femme fatale in abito rosso, della quale non vediamo il volto, getta al campione la sua banconota, sovvertendo le regole della lap dance. Il sole artificiale qui fa pensare ai flash dei fotocronisti (che giustamente non ci sono, è un incontro clandestino!), e abbaglia inscritto nel triangolo formato dal braccio appoggiato sul fianco di questa Jessica Rabbit. Sullo sfondo, leggermente più chiaro rispetto a quello delle altre immagini della serie Ossimoro, il resto del pubblico scommette e butta al vento il proprio denaro. Dietro il pubblico, la parete scrostata di questa palestra segreta. Azzurra Piccardi ha la sfrontatezza di affrontare problemi drammatici e reali, dipingendoli con tratti caricaturali, come se le sue immagini dovessero diventare vignette di un fumetto o fotogrammi di un western. Ma per quanto sanguinosi siano questi drammi, nel suo lavoro non c’è salsa di pomodoro. Il sangue e la fragilità della vita sono rappresentati simbolicamente da ciò che è rosso: i petali del mazzo di fiori che il lottatore tiene in mano, che cadono come gocce sul pavimento del ring e il vestito di raso rosso della donna che, scommettendo, tiene in vita la roulette degli incontri. Il rosso delle siringhe che fanno da artigli al pusher/grifone, quello delle rose finte nelle mani dei clienti di una prostituta e la benda di seta che le copre gli occhi. Nella fotografia che rappresenta le cosiddette stragi del sa-


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Ottobre 2010. Obbediente Dovizia Egemone [ricchezza / schiavitù]

Giugno 2010. Incline Fervore Iniquo [stragi del sabato sera]

Novembre 2010. Inabile Maestria Perfetta [prostrati alla perfezione fisica]

bato sera (espressione terribile, gratuita, ma tant’è), un ammasso di ragazzi è letteralmente ricoperto dal rosso di maglie leggere con ampi cappucci. Nella parte alta dell’immagine, a sinistra, un giovane in camicia bianca, pantaloni neri e cravatta in tinta, sembra scivolare appoggiandosi al cofano di un’automobile bianca e luccicante. Nella mano destra abbandonata, la bottiglia di un superalcolico. La posizione del corpo e del braccio cita esplicitamente la tradizione raffigurativa della deposizione di Cristo. I ragazzi ricoperti di rosso formano una chiazza che si allarga ai piedi di questo cristo alcolizzato in abi-

TUTTI INSIEME,

APPASSIONATAMENTE La produzione delle fotografie di Ossimoro, di Azzurra Piccardi, registra una consistente quantità e qualità di contributi professionali. Con ordine. Direzione artistica di Simone Serni; assistente della fotografa Luca Tanzi; interpretazioni di Matteo Aglietti, Valeria Benedetti, Elena Brilli, Greta Bucchi, Federica e Silvia Calcinai, Elisa Ceccherini, Angelo Cirillo, Francesco Cotugno, José David, Francesca Del Lungo, Mirko Fei, Massimo Franchini, Alberto Ghinassi, Simone Giannini, Simone Giusti, Claudio Izzicupo, Rocco Marchio, Giulio Martinelli, Alessandro Novolissi, Gabriele Papi, Elisa Piampiano, Damiano Puliti, Ivan Renzi, Daniele Russo, Filippo Sacchetti, Glenda Sassolini, Simone Serni, Amanda Trabalzini e Sara Villoresi.

Dicembre 2010. Idolatra Frutice Impertinente [religiosità blasfema]

ti di lusso. Sono addossati uno all’altro, come se le strade delle nostre città fossero un’immensa fossa comune, e stringono nelle mani altre bottiglie di superalcolici. Qualcuno ha gli occhi sbarrati, qualcuno guarda in macchina. I martiri del nostro consumismo interpellano così l’osservatore. Azzurra Piccardi utilizza i costumi e gli oggetti di scena con convincente creatività, all’interno di binari tracciati da oggettive leggi compositive. Insieme oniriche e grottesche, le sue immagini sono un saggio su come finalizzare l’artificio per rappresentare realtà dolorose e paradossali attraverso un’espressività che, da sola, parla di effimero e di eccesso. ❖

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MAURIZIO LEONI

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Una coppia molto attiva nel Gruppo Polaser è quella composta dai coniugi Katia Brigiari e Maurizio Leoni, rispettivamente un architetto e un laureato in urbanistica e pianificazione territoriale e ambientale. Prima della nascita del figlio, partecipavano spesso alle nostre riunioni; chi conosce la superstrada E45, che collega la Romagna a Toscana e Umbria, sa che solo una grande passione, anzi aggiungerei una lucida follia, può portare a percorrerla durante la stagione invernale e di notte, per partecipare a una riunione. Poi, la maternità-paternità li ha resi più saggi: non partecipano più assiduamente alle riunioni, ma sono sempre presenti a tutti i progetti fotografici, e mantengono un continuo contatto multimediale con il Gruppo. Katia Brigiari è di Città di Castello, conterranea di Alberto Burri. È stato per merito suo, e della “lezione” che ha tenuto al Polaser sul grande artista “informale” tifernate, che il Polaser si appassionò all’opera pittorica del grande autore, realizzando il progetto Equilibrio - composizione, colore, materia, semplificato spesso in Omaggio a Burri. Maurizio Leoni, folignate di nascita ma di origini assisane, ha un legame molto stretto con la sua terra, e per mezzo delle immagini racconta con il cuore il viaggio della sua vita. Negli ultimi anni ha prodotto ed esposto diverse personali: APPUNTAmenti di viaggio, Genealogia, La città svelata, La mia Umbria e Hai (mai) visto una città. Ci incontriamo ad Assisi e, dopo aver camminato per qualche ora nei luoghi francescani, ci fermiamo a tavola... vino sagrantino di Montefalco, acqua (poca), antipasto umbro, strangozzi al tartufo nero di Norcia, saltiamo il secondo e per finire una fetta di rocciata e caffè. Maurizio, nelle tue fotografie, c’è un forte richiamo alla tua terra. «L’Umbria è una gran bella terra e ci si vive benissimo, ma si soffre un certo isolamento geografico e culturale. Per chi vuole esprimersi in fotografia, le opportunità erano e sono molto poche. Da questo punto di vista, il Polaser mi ha aperto una autostrada che mi ha fatto travalicare non solo l’Appennino, ma mi ha dato la possibilità di allargare il mio orizzonte culturale. «Oltre a essere stato (e essere) una straordinaria occasione di confronto e crescita artistica e culturale, il Gruppo Polaser è stato anche una magnifica occasione per incontrare persone straordinarie, con le quali non è stato difficile instaurare delle care e solide amicizie». I tuoi più recenti progetti ( La mia Umbria e Hai (mai) visto una città) li hai dedicati interamente alla tua regione. «Con La mia Umbria ho condotto una indagine a trecentosessanta gradi sul territorio antropizzato di questa terra, ricca di storia e tradizioni, cercando di posare lo sguardo su alcuni aspetti singolari che caratterizzano il vivere attuale in questa autentica “terra di mezzo”. «Con l’altra serie, Hai (mai) visto una città, ho esaminato il territorio di Perugia agli inizi del nuovo millennio, interpretando gli spazi di questa realtà urbana in costante evoluzione». Katia, è da un po’ di tempo che non ci incontriamo, però, anche nel periodo della gravidanza, sei sempre stata partecipe ai progetti del gruppo. «L’incontro con la fotografia polaroid non può lasciare indifferenti.


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«Fotografare in polaroid è una vera “magia”: apriamo la busta che racchiude la pellicola, progettiamo la fotografia che vogliamo realizzare, scattiamo... ed ecco, esce la l’immagine. L’emozione continua! A questo punto possiamo manipolarla, colorarla, aprirla, ritagliarla, sovrapporla, farla diventare la tessera di un mosaico, duplicarla, collegarla ad altri scatti». «È proprio vero. Con lo sviluppo immediato non ci sono limiti alla nostra creatività. Quest’affermazione, che sentii in occasione del workshop che tenesti nel 2005, a Città di Castello, mi è rimasta impressa.

«In quella occasione, mi sono iscritta al Gruppo e, con entusiasmo, da allora cerco di partecipare ai coinvolgenti progetti fotografici proposti. «Il Gruppo Polaser ha caratteri che lo rendono veramente unico: soci provenienti da molte parti d’Italia e anche da alcune città europee; scelta di progetti che hanno privilegiato temi legati alla letteratura e all’arte; grande impegno e serietà nell’effettuazione delle attività intraprese; condivisione delle iniziative. «Gli incontri ai quali ho avuto la possibilità di partecipare, per richiamare l’elaborazione di alcuni progetti, mi hanno dato sempre una grande energia: vedere le fotografie degli altri soci, discuterne, potermi confrontare con loro, sentirne i commenti è stata sempre una preziosa opportunità di crescita». Con i due amici, vorrei parlare ancora; ma ormai il sole ci sta salutando. Quindi anch’io li saluto, sperando che il Santo mi protegga dalle buche che sicuramente troverò sulla strada fino a Cesena. Pino Valgimigli

www.polaser.org

«La limitazione dei mezzi determina lo stile, dà vita a nuove forme e dà impulso alla creatività»

KATIA BRIGIARI

Georges Braque Questa citazione dal pittore Georges Braque aiuta a comprendere lo slancio e spirito che guida e ispira gli artisti del Gruppo Polaser, eterogenei per interessi artistico-culturali e per provenienza da molte città italiane e anche dall’estero, accomunati dalla ricerca e sperimentazione di nuove possibilità espressive nelle molteplici forme dell’arte, dalla fotografia alla pittura, scultura, design, architettura, ceramica, letteratura, teatro, a altro ancora.


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RITRATTI I Allestita nell’ambito dell’autorevole festival L’Été des Portraits, programma francese dedicato ai fotografi europei, che si svolge ogni due anni a Bourbon-Lancy, in Bourgogne du Sud, Fotografi Italiani è una selezione di trentasei autori, che spaziano tra i generi che si esprimono con il ritratto: appunto. Per forza di cose limitata nella quantità, la raccolta è comunque significativa della qualità che attraversa la nostra fotografia. A un tempo, il ritratto è mezzo e fine per allinearsi su altre considerazioni. Da affrontare altrove e in altri tempi. Per ora, la mostra curata da due professionisti lombardi: Davide Cerati e Adriano Scognamillo

di Angelo Galantini

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ANTONIO MANTA

R

ichiamare il ritratto fotografico è perlomeno un’impresa. Quantomeno lo è se e per quanto si ha l’ambizione di dire qualcosa di nuovo sull’argomento. Infatti, il ritratto in fotografia è stato già affrontato e analizzato pressoché da tutti i punti di vista possibili, sia da quelli propriamente interni (allo stesso dibattito di fotografia), sia da quelli più ampi e generali, che lo proiettano nel costume sociale e nella socialità nel proprio insieme. Anche la storia evolutiva del ritratto fotografico non ha più segreti, essendo stata raccontata in numerose monografie e altrettanto consistenti esposizioni a tema. Insomma, non c’è (non ci sarebbe) più nulla da scoprire o aggiungere. Non rimane altro da fare, che registrare come e quanto il ritratto fotografico rimanga uno dei generi più seguìti dal pubblico, non necessariamente di addetti, e confermi le proprie capacità di coinvolgimento. Quindi, senza entrare in considerazioni profonde, per l’appunto già espresse in mille e mille occasioni, l’incontro con il ritratto in fotografia lascia pochi margini d’azione (quantomeno giornalistica, quantomeno critica), consentendo la sola registrazione di termini oggettivi e logistici. Ma! Ma, non è proprio così. Forse.


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ITALIANI

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GIANFRANCO SALIS

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Per questo, in occasione della rassegna Fotografi Italiani, a cura di due professionisti lombardi della sala di posa, Davide Cerati e Adriano Scognamillo, presentata a Bourbon-Lancy, in Francia, dal diciotto luglio al ventisei settembre, scopriamo improvvisamente che qualcosa si può ancora scrivere: perché la selezione dei trentasei autori proposti offre almeno uno spunto di osservazione. E da questo partiamo.

STEFANO BOTTESI

QUALE RITRATTO?

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Alla luce di questi trentasei ritratti/ritrattisti italiani presentati al pubblico francese non si possono ignorare considerazioni che appartengono al dibattito fotografico dei nostri giorni. Da una parte, sono offerti ritratti classici, quantomeno in posa, dall’altro si incontrano ritratti perlomeno fotogiornalistici. Magari non si tratta proprio delle Identità incerte dibattute nel mondo del fotogiornalismo (sulle quali ci siamo già soffermati in diverse occasioni, soprattutto nel settembre 2007 e febbraio 2009), ma perlomeno di fotografie di altro profilo e svolgimento, rispetto la posa consapevole, che fanno tesoro e valore di lezioni che rispondono alla registrazione della vita nel proprio svolgersi. E altro ancora. Bravi nell’evitare tragitti pericolosi, i curatori Davide Cerati e Adriano Scognamillo non sono approdati alla considerazione generica di ritratto. Ovverosia, non sono caduti nel facile tranello secondo il quale potrebbe essere “ritratto” qualsiasi raffigurazione di un volto. Sono rimasti in riga, e hanno allargato le proprie maglie con intelligenza e consapevolezza: accanto ai ritratti posati, in studio, hanno incluso ritratti ambientati, ma in ogni caso “ritratti”, e non altro, e non fotogiornalismo e non moda (per il vero, qualche “moda” c’è a inquinare le acque) e non pubblicità (idem). In definitiva, per quanto abbiano allargato i confini, li hanno


TONI THORIMBERT

SETTIMIO BENEDUSI

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estesi con cognizione e perizia, rimanendo ben vincolati a un princìpio basilare: quello del ritratto che non mostra la sola apparenza del soggetto raffigurato, ma ne rivela l’intimità nella rappresentazione fotografica. Così facendo, Davide Cerati e Adriano Scognamillo, estranei al circuito dei curatori-a-tutti-i-costi, e per questo immuni da appartenenze parrocchiali, hanno composto un insieme di ritrattisti (gli autori) rappresentativo di una certa fotografia italiana, trasversale a mode e convenienze del momento. Tanto che, alla resa dei conti, ma anche prima, l’identificazione Fotografi Italiani è conveniente e opportuna. Infatti, la selezione è adeguatamente rappresentativa. Una volta di più, la parte per il tutto. La parola ai curatori Davide Cerati e Adriano Scognamillo. «In questi ultimi anni, navigare in Internet ci ha fatto scoprire quanti fotografi, o anche semplici appassionati in ogni parte del mondo, realizzino fotografie piacevoli, a volte straordinarie. Mentre un tempo pochi fotografi riuscivano a raggiungere il pubblico, ora la visibilità è alla portata di tutti, o almeno è più facilmente raggiungibile, anche se diversi e forse più superficiali sono i tempi di lettura, la percezione, la possibilità di restare nella memoria. «Se ce ne fosse stato ancora bisogno, abbiamo anche scoperto che in tanti producono immagini convincenti, in tutto il mondo; quindi, anche in Italia. Da qui, una domanda: quale criterio usare per selezionare trentasei fotografi che rappresentino l’insieme dei ritrattisti italiani? È davvero difficile ridurre a così poco un insieme composto da tantissimi professionisti di valore, conosciuti o meno, spesso bravissimi, che in tutto il pae(continua a pagina 40)

PINO SETTANNI

QUALE RITRATTO!

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DAVIDE CERATI

GRAZIELLA VIGO

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DI ALTO PROFILO

ENRICO MARIA LATTANZI

Come rilevato nel corpo centrale di questo intervento redazionale, non si è voluto (potuto?) approfondire il discorso sul ritratto in fotografia, per mantenere le luci della ribalta puntate sulla selezione Fotografi Italiani, a cura di Davide Cerati e Adriano Scognamillo, allestita nell’ambito dell’Été des Portraits, a Bourbon-Lancy, in Francia. Non è questo luogo e tempo per farlo, e soprattutto l’indagine merita altri interpreti, esterni alla personalità giornalistica di queste pagine. Così, a integrazione e in allineamento, è doverosa la segnalazione di un consistente saggio di Vincenzo Marzocchini, fresco di stampa. L’immagine di sé è un testo, ampiamente illustrato (circa cento immagini), che mantiene le promesse del proprio sottotitolo esplicito: Il ritratto fotografico tra ’800 e ’900. Compilato con autorevolezza, ma anche passione, è un’analisi che si iscrive a pieno diritto nel (ristretto) novero delle Storie che vale la pena leggere e conoscere. Dio volendo, punti di vista originali e competenza possono ancora fare la differenza (ammesso, e non concesso, che questa differenza serva a qualcosa o qualcuno, nel marasma delle parole italiane sulla fotografia: sappiamo bene ciò di cui stiamo parlando, conosciamo bene ciò a cui stiamo pensando).

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L’immagine di sé - Il ritratto fotografico tra ’800 e ’900, di Vincenzo Marzocchini; presentazione di Simona Guerra, saggio di Roberto Salbitani; Edizioni Lanterna Magica, 2010 (via Goethe 43, 90138 Palermo; 091-584193; www.lanternamagica.eu); 168 pagine 21x23,5cm; 34,00 euro.


ALESSANDRO DOBICI

ADRIANO SCOGNAMILLO

FABIO PIEMONTE

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ANDREA CHISESI

CHIARA SAMUGHEO

LIVIO MOIANA

A BOURBON-LANCY

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L’Été des Portraits è un festival dedicato ai fotografi professionisti europei, che si svolge ogni due anni a Bourbon-Lancy, in Bourgogne du Sud (Francia; www.etedesportraits.com). Per tutta l’estate, millecinquecento fotografie in concorso, realizzate da cinquecento fotografi provenienti da tutto il continente, restano esposte per le strade del paese, un affascinante borgo medioevale. A contorno, eventi paralleli, altre mostre e incontri professionali a tema. L’edizione 2010, in programma dal diciotto luglio al ventisei settembre, riserva una consistente esposizione ai fotografi italiani: ritratti di trentasei autori sono allestiti nella chiesa romanica di Saint Nazaire (Undicesimo secolo), location di grande fascino, già sede di altre prestigiose esposizioni negli anni passati. La selezione Fotografi Italiani (per i francesi Les photographes Italiens à l’honneur) è stata curata da due professionisti lombardi, Davide Cerati, che nel 2006 ha vinto il primo premio assoluto dell’Été des Portraits, e Adriano Scognamillo. In mostra, trentasei ingrandimenti 100x150cm, realizzati su carta Fine Art. Ritratti di diversa estrazione fotografica realizzati da Diana Bagnoli, Settimio Benedusi, Gianni Berengo Gardin, Stefano Bottesi, Marco Cauz, Luca Cepparo, Davide Cerati, Andrea Chisesi, Mario De Biasi, Fabrizio De Blasio, Salvatore Di Vilio, Alessandro Dobici, Giovanni Gastel, Piero Gemelli, Sara Lando, Enrico Maria Lattanzi, Antonio Manta, Massimo Mantovani, Antonella Mariani, Nino Migliori, Livio Moiana, Moreno Monti, Marco Onofri, Alice Pedroletti, Fabio Piemonte, Simone Pierfelice, Paolo Ranzani, Gianfranco Salis, Chiara Samugheo, Patrizia Savarese, Ferdinando Scianna, Adriano Scognamillo, Pino Settanni, Toni Thorimbert, Alberta Tiburzi, Graziella Vigo.

(continua da pagina 37) se lavorano con passione e dedizione per la moda, l’editoria e il pubblico (ritratto di privati, gente comune). «A nostra volta siamo fotografi, non curatori di mostre per professione. Quindi, abbiamo seguìto un metodo assolutamente empirico e poco scientifico, culturalmente poco ortodosso (forse): abbiamo scelto alcuni di quelli che amiamo, che ci hanno segnato o colpito negli anni. I fotografi che in qualche modo sono entrati nella nostra memoria e nel nostro cuore; alcuni dei nomi e riferimenti sui quali è cresciuta la nostra passione professionale stanno insieme ad autori meno eclatanti, che a propria volta hanno richiamato la nostra attenzione. «Alcuni dei fotografi esposti hanno raggiunto fama internazionale e quindi non hanno bisogno di presentazioni. Per quanto riguarda gli altri, speriamo che il pubblico li scopra con lo stesso spirito (selvaggio) con il quale li abbiamo scelti noi: più propenso alla meraviglia della scoperta che al desiderio intellettuale di sapere (che è importante, ma preferiamo venga dopo). «Il foto-ritrattismo italiano ha una grande tradizione; parte dalle umili storie di tanti piccoli artigiani dell’immagine che giravano nei cortili di provincia fotografando, all’inizio del Novecento, la gente comune; passa per la fotografia di moda, che ha fatto spesso scuola nel mondo, per la sua eleganza e il grande fascino; senza trascurare tanto ritratto “di strada” (prossimo al reportage), nel quale sentiamo soprattutto affinità con la fotografia francese di Henri Cartier-Bresson, Robert Doisneau, Willy Ronis e Brassaï. «È inevitabile: per forza di cose, e dovendoci limitare a trentasei ritratti, in questa esposizione si incontra solo una selezione relativa e molti nomi che meritano sono rimasti esclusi, pur avendo pieno diritto di presenza. Speriamo che la visione di queste immagini sia da stimolo a approfondire, ricercare, esplorare tutto il resto». ❖


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LA VIE E di Maurizio Rebuzzini

ssolto il dovere di cronaca, con la certificazione che la personale La vie en rose, di Malick Sidibé, ritrattista del Mali, a cura di Laura Serani e Laura Incardona, è allestita nell’ambito dell’attuale quinta edizione di Fotografia europea, a Reggio Emilia fino al trentuno luglio, scartiamo a lato. Da una parte, sia in senso giornalistico sia per altri nostri distinguo (che ci tengono accuratamente lontani da quei voli pindarici che si esauriscono in se stessi e nell’appagamento individuale dei curatori, di certi curatori), la consistente selezione di ritratti di Malick Sidibé ci appare lontana da qualsiasi idea di Incanto (tema della manifestazione). Da un’altra parte, continuiamo a non sintonizzarci su quell’eccesso di teoretica speculativa, che dà spessore e valore alla fotografia soltanto mediante alzate di tono assolutamente artificiose. Personalmente, siamo convinti che tutto transiti a livello più basso, ma non per questo inferiore (anzi, è vero l’esatto contrario). Così come siamo persuasi di quanto la Storia dipenda soprattutto, o forse soltanto, dalla consecuzione di una serena cronaca quotidiana. Giorno dopo giorno, la vita; scatto dopo scatto, la fotografia.

A Studio Malick; Bamako, 1977.

ESAGERAZIONI Non stiamo per rilevare che la fama internazionale di Malick Sidibé, che recentemente lo ha anche portato ad ottenere incarichi nella moda, per la quale ha declinato lo stilema maturato in decenni di fotografia quotidiana, sia immeritata. Dio ce ne scampi! Però, dal punto di vista privilegiato di una osservazione della Storia della fotografia, e del suo conseguente linguaggio, da angolature a un tempo classiche e anticonformiste, come è nella nostra natura e preparazione, non possiamo non prendere qualche distanza. Per quanto Malick Sidibé meriti ampiamente i riconoscimenti che da qualche anno gli vengono attribuiti, e che lo hanno proiettato nell’Olimpo degli autori significativi del Novecento, dobbiamo comunque rilevare quanto questa sorta di ri-valutazione della fotografia quotidiana sia quantomeno sospetta. Infatti, come tutti ben sappiamo, il valore dell’immagine dipende anche, e spesso soprattutto, dal proprio contenitore, dalla propria forma. Così, fotografie semplicemente banali acquistano spessore e significato se e quan-

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do vengono presentate con cura: raffinati ingrandimenti in mostra, accurate messe in pagina di monografie illustrate. Ciò a dire che qualsivoglia archivio di fotografo di paese, e tanti ce ne sono anche in Italia -basta avere la voglia e possibilità di andarli a individuare e valorizzare-, contiene esattamente lo stesso identico materiale: volti e posture che esprimono molto oltre l’intenzione originaria del ritratto finalizzato (dalla semplice fototessera al posato più intenso), arrivando a rappresentare straordinarie so-


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EN ROSE Ampia personale di Malick Sidibé, ritrattista del Mali, allestita a Reggio Emilia nell’ambito del contenitore della Fotografia europea [sic], che da cinque stagioni si propone e offre come osservatorio privilegiato dell’espressività visiva contemporanea. Quest’anno è di scena l’Incanto, inteso come senso e direzione di uno sguardo affascinato, meravigliato, positivo, proiettato in avanti, che sa vedere con occhi nuovi ciò che sta di fronte, che si interroga sui segni di trasformazione e cambiamento

cialità e inquietanti cambiamenti del Tempo. In questo senso, ogni manifestazione fotografica che si rispetti, da tempo accosta le immancabili passerelle di autori affermati e celebrati dalla Storia con rassegne individuate all’interno di esperienze professionali quotidiane, fino a ieri l’altro ignorate, se non già addirittura disdegnate. Se servisse, a conferma, segnaliamo che L’Été des Portraits 2010, festival che si svolge a Bourbon-Lancy, in Bourgogne du Sud, Francia, fino al ventisei settembre, per il quale abbiamo commentato la presenza di ritrattisti italiani (da pagina 34), ha giusto in programma la celebrazione di Germain Eblé, fotografo della provincia francese, attivo dagli anni Trenta. Se tutto dovesse andare per il verso giusto, anche l’oscuro Germain Eblé, oscuro fino all’altro giorno, potrebbe essere proiettato in avanti e alto, e trovare posto nella Storia.

Vue de dos, Studio Malick; Bamako, fine anni Novanta.

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Studio Malick; Bamako, 1977.

Devant mon faux bâtiment, Studio Malick; Bamako, 1977.

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Non conosciamo ancora i suoi ritratti, e ci auguriamo che siano degni di particolare nota. Però, per esperienza diretta, sappiamo bene come e quanto queste proposizioni dell’ultima ora siano quantomeno modeste, spesso inferiori alla soglia di decenza minima accettabile. Non è stato così, va riconosciuto, per tante altre scoperte: tra le quali, consideriamo proprio Malick Sidibé, oggi in passerella, e anche l’avvincente Karl Hugo Schmölz (Archiv Wim Cox), di Colonia, che abbiamo avvicinato in due edizioni successive della Photokina: 60 Years of Peace, con coinvolgente testimonianza dei bombardamenti alleati su Colonia, nel 2006 [FOTOgraphia, febbraio 2007]; e Sale cinematografiche: l’architettura del cinema tra gli anni Trenta e Cinquanta, nel 2008 [Alla Photokina e ritorno, di Maurizio Rebuzzini]. Insomma, e a conclusione, noi potremmo mettere da parte tante delle nostre riserve se e quando certo potere fotografico smetterà di elevare di tono ciò che legittimamente può e deve rimanere a livelli inferiori (peraltro degni e ammirevoli, in relazione ai propri limiti oggettivi). Basta mettersi d’accordo.

MERITI Fortunatamente, sia per lui sia per noi, Malick Sidibé è un ritrattista africano che merita ampiamente quanto gli viene attribuito e riconosciuto da qualche anno, che merita di stare nella Storia, appena ci si deciderà a uscire dalle visioni geograficamente americanocentriche che, per decenni, ne hanno limitato e compromesso il racconto. Senza più preconcetti, si indirizzino i propri sguardi anche verso l’Africa, l’Oriente, l’Europa dell’Est, il Sud America.

Alla cronaca, ora. Allestita nei prestigiosi e autorevoli locali della Collezione Maramotti, di Reggio Emilia, La vie en rose si offre e propone come la più ampia personale italiana dedicata a Malick Sidibé. A cura di Laura Serani e Laura Incardona, sono state selezionate cinquanta fotografie, per lo più inedite, realizzate tra gli anni Sessanta e Settanta a Bamako, capitale e più popolosa città del Mali. Come è sempre riferito alla fotografia di Malick Sidibé, che rappresenta se stessa nello stesso momento nel quale identifica un continente e un’epoca, si tratta di immagini «che rivelano tutta la magia e l’entusiasmo della vita a Bamako in quegli anni, quando la voglia di stare insieme, di essere dentro il corso della storia sembrava un imperativo». Sono queste le fotografie che hanno reso famoso Malick Sidibé nel mondo: le feste degli anni Sessanta, i ritratti in studio e una selezione di stampe d’epoca (vintage, in codice) dal suo capace archivio. Ovvero, fotografie che raccontano un lungo periodo della storia del Mali, e che proprio per questo merita-

Réveillon de Noël; Bamako,1963.

BIOGRAFIA

Malick Sidibé è nato nel 1936, a Soloba, un villaggio a circa trecento chilometri da Bamako, capitale e città più popolosa del Mali. Nel 1955, si è diplomato in disegno e gioielleria all’École des Artisans Soudanais, dove si distinse come miglior allievo. Affascinato dalla fotografia, dopo il percorso scolastico si ferma da Ge’rard Guillat-Guignard (noto con il soprannome di Ge’ge’ la pellicule) come apprendista, dopo aver ricevuto l’incarico di decorare il negozio del fotografo francese. Nel 1957, comincia a realizzare i primi reportage di feste, battesimi e matrimoni. Nel 1960, si stacca dallo studio e si mette in proprio; due anni dopo, nel 1962, apre lo Studio Malick, nel quartiere popolare di Bagadadji, dove per decenni ha svolto la sua attività di ritrattista. Parallelamente al lavoro in sala di posa, Malick Sidibé racconta le notti di Bamako e i pomeriggi di festa passati sulle rive del fiume Niger: da poco, il Mali ha ottenuto l’indipendenza e il paese è percorso da nuove energie. Le informazioni circolano, arrivano i film da Europa, India e Stati Uniti, ma è soprattutto la musica che porta cambiamenti veloci e diffusi nella società di Bamako. Malick Sidibé frequenta le feste dei ragazzi che si vestono all’occidentale e ballano al suono dei giradischi: le sue fotografie ritraggono giovani pieni di gioia, voglia di vivere, fiducia nell’avvenire. I club notturni dai nomi esotici fioriscono in città, e non c’è avvenimento al quale Malick Sidibé non venga invitato: la sua fama è talmente grande che, se non può partecipare, si sposta l’orario o addirittura il giorno del ritrovo. Dalla fine degli anni Settanta, Malick Sidibé limita la propria attività ai ritratti in studio. Dopo aver brevemente scambiato qualche parola per mettere a proprio agio il soggetto, lui stesso sceglie in che posa ritrarre le persone, riuscendo a cogliere in poche battute l’essenza della loro personalità. Nel 1994, durante la prima edizione dei Rencontres de la Photographie de Bamako, i suoi ritratti sono stati esposti per la prima volta, insieme a quelli di Seydou Keïta (l’altro grande autore di Bamako, più anziano di una decina di anni, scomparso nel 2001). Autori e critici occidentali scoprono il loro talento. Subito dopo, le fotografie di Malick Sidibé sono a Parigi, prima alla Fnac Etoile e poi alla Fondation Cartier pour l’art contemporaine; in breve tempo, musei e gallerie di tutto il mondo espongono il suo lavoro. L’autore continua a vivere e a lavorare a Bamako. Attualmente, Malick Sidibé è considerato il più importante fotografo africano vivente. La Biennale d’Arte di Venezia 2007 lo ha consacrato con il Leone d’Oro alla carriera, premio assegnato per la prima volta a un fotografo. Nel 2003, ha vinto il Premio Hasselblad, nel 2008 l’ICP Award, a New York, nel 2009 il premio PhotoEspaña - Baume & Mercier, a Madrid, e, quest’anno, il World Press Photo, nella sezione Arts and Entertainment.

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Au club Les trois fumeurs; Bamako, 1962.

no il posto in prima fila che ora viene loro riservato. Alla resa dei conti, sono fotografie che, con intenzione o meno, spontaneità o consapevolezza matura, rivelano la vita nel proprio svolgersi, raccontata attraverso una incessante consecuzione di volti e atteggiamenti, comunque sia nel quotidiano delle singole esistenze: istantanee e pose in studio, senza alcuna soluzione di continuità. L’autore Malick Sidibé è esplicito riguardo la sua attività di fotografo e il valore della sua fotografia nel contesto della storia personale e sociale del suo paese: «Credo al potere della fotografia. È per questo che ho passato tutta la vita a ritrarre le persone nel miglior modo possibile, cercando di restituire loro tutta la bellezza che potevo, perché la vita è un dono di Dio ed è migliore se la si affronta con un sorriso. Troppo spesso, l’immagine del mio paese è legata al dolore, alla povertà, alla miseria. Ma l’Africa non è solo questo e l’ho voluto mostrare nelle mie fotografie». Ancora, e nello specifico: «Da sempre possiedo un talento di osservatore. Mi piace guardare le persone, cercare di capirle, entrare in contatto con loro. Sono un testimone fedele dei mutamenti del mio paese. Perché la fotografia non mente, non quella in bianconero che ho sempre fatto io. Per questo affermo con decisione che la mia fotografia è molto

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più sincera, autentica e diretta di qualsiasi parola. È semplice, la può comprendere chiunque e racconta un’epoca, senza nessun inganno. L’uomo ha sempre cercato l’immortalità nella pittura o nella poesia, nella scrittura, ma un tempo solo i re e i ricchi potevano avere un ritratto. La fotografia è un modo per vivere anche dopo la morte». La ricostruzione dello Studio Malick e la presenza del fotografo nei primi giorni di apertura della mostra, all’inizio di maggio, hanno permesso di vedere l’autore all’opera nella realizzazione di alcuni scatti a persone scelte a caso tra i visitatori. In occasione della mostra è stato pubblicato il catalogo La vie en rose: prima monografia italiana di Malick Sidibé. Realizzato da SilvanaEditoriale, il libro è completo di contributi delle curatrici Laura Serani e Laura Incardona e si allunga su un centinaio di immagini, il doppio di quelle in esposizione a Reggio Emilia. ❖ Malick Sidibé: La vie en rose; a cura di Laura Serani e Laura Incardona. Collezione Maramotti, via Fratelli Cervi 66, 42124 Reggio Emilia; 0522-382484; www.collezionemaramotti.org, info@collezionemaramotti.org. Fino al 31 luglio; giovedì e venerdì 14,30-18,30, sabato e domenica 9,30-12,30 - 15,00-18,00. ❯ Volume-catalogo Malick Sidibé. La vie en rose; a cura di Laura Incardona e Laura Serani; SilvanaEditoriale, 2010; 160 pagine 17x24cm, cartonato; 35,00 euro.


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Fratelli Zangaki: La sfinge e le piramidi; Egitto,1870 circa (vintage print; Archivio Craf). Giacomo Savorgnan di Brazzà: Piroghe; 1883-1885 (vintage print; Archivio Capitolino, Roma).

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di Angelo Galantini

S

ubito una certificazione, che offre anche una sostanziosa unità di misura. La selezione fotografica Sguardi sull’Africa, a cura di Walter Liva, presentata nelle autorevoli sale della chiesa di San Lorenzo, a San Vito al Tagliamento, in provincia di Pordenone, piatto forte del programma estivo di Spilimbergo Fotografia 2010, è stata allestita con la collaborazione di prestigiose istituzioni internazionali, che hanno fornito preziosi materiali dai propri archivi. Presto le certificazioni d’obbligo: Biblioteca Livio Palladin del Consiglio Regionale del Friuli Venezia Giulia, di Trieste; Slovenski Etnografski Muzej, di Lubiana (Slovenia); Pitt Rivers Museum, di Oxford (Inghilterra); Musée de l’Elysée, di Losanna (Svizzera);

Museo Nazionale Preistorico ed Etnografico Luigi Pigorini, di Roma; Archivio Capitolino, di Roma; Archivio Fotografico Toscano, di Prato; Musei Civici di Reggio Emilia; Agenzia Contrasto, di Roma e Milano; Atlas Gallery, di Londra; Galleria PaciArte contemporary, di Brescia; National Army Museum, di Londra; Collezione Vittorio, di Pordenone; Archivio Maurizio Frullani, di Gorizia; Archivio Borghesan, di Spilimbergo (Pordenone).

OTTOCENTO La fotografia dell’Ottocento è rappresentata dal National Army Museum, di Londra, con le immagini realizzate dal corpo dei Royal Engeneers nei campi di battaglia di Isandlwana, Rorkedrifts e Ulundi (capitale del regno degli Zulu), nei cui pressi fu ucciso il figlio di Napoleone III. In allineamento, una

SGUARDI


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serie di immagini dall’Archivio Capitolino, di Roma, dal quale proviene un ampio nucleo di fotografie, anche inedite, realizzate nel 1885 dal friulano Giacomo Savorgnan di Brazzà, nel corso delle spedizioni in Congo del fratello Pietro Paolo, naturalizzato francese con il nome di Pierre Paul François Camille Savorgnan de Brazza, del quale Sguardi sull’Africa presenta anche diari e lettere, che si abbinano a documenti di un altro grande esploratore dell’Ottocento, Francis W. Joaque, attivo soprattutto in Sierra Leone. Le fotografie originali conservate nell’archivio del Craf (Centro di Ricerca e Archiviazione della Fotografia, di Lestans, in provincia di Pordenone) rappresentano un complemento storico a dir poco rilevante. Tra queste, si segnalano i ritratti di David Livingstone, della London Stereoscopic and Photo-

Esposta a San Vito al Tagliamento, in provincia di Pordenone, fino al trentuno ottobre, la mostra Sguardi sull’Africa si propone come approfondita lettura antropologica, storica e sociale, svolta in chiave fotografica. Non uno sguardo dall’interno (come è ed è stato quello di Malick Sidibé, su questo stesso numero, da pagina 42), ma una osservazione esterna: ovverosia, rappresentazione visiva occidentale. Documenti fotografici, con contorno di altre testimonianze, dagli archivi di prestigiose e autorevoli istituzioni museali europee

SULL’AFRICA

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Pascal Sebah: Geroglifici; 1870 circa (vintage print; Collezione privata).

netrazione coloniale europea da nord a sud, risalendo il Nilo fino al Sudan e all’Etiopia; e poi, con tragitto inverso, da sud a nord, dal Sudafrica allo Zululand, all’attuale Zimbabwe, e, nel cuore dell’Africa centrale, risalendo il fiume Congo.

NOVECENTO

Giacomo Savorgnan di Brazzà: Giovane Bateke; 1883-1885 (vintage print; Archivio Capitolino, Roma). (al centro) Charles William Hobley: Luo Warriors; Nyanza, Kenia, 1902 (stampa attuale da negativo originario; Pitt Rivers Museum, Oxford).

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graphic Co, di Henry Morton Stanley e del fotografo sudafricano G. E. Bruton. Ancora, è straordinario il nucleo, di recente acquisizione, di preziose albumine inedite dell’Etiopia, della seconda metà dell’Ottocento (verosimilmente attribuire a Leopoldo Raffaele Traversi), raffiguranti il tucul di Alfred Ilg, l’ingegnere svizzero consigliere dell’imperatore Menelik II (la “casa di Appenzeller”, come la definì anche Gustavo Bianchi in Alla terra dei Galla. Narrazione della spedizione Bianchi in Africa nel 18791880, pubblicato dai fratelli Treves, nel 1884). Dall’archivio del Craf, altre fotografie in tema. Sopra tutte, quelle dei fratelli Zangaki (Egitto e Nubia), che si abbinano a vintage dalla Collezione Vittorio, di Pordenone, di Antonio Beato e Pascal Sebah, che ampliano la rappresentazione dell’Egitto e l’ambientazione storica, politica ed etnografica. In definitiva, il percorso espositivo fotografia dell’Ottocento di Sguardi sull’Africa sottolinea la pe-

Per la prima parte del Novecento, il Museo Nazionale Preistorico ed Etnografico Luigi Pigorini, di Roma, ha fornito un consistente e significativo corpus di fotografie di Raffaele Caroli e Iginio Alessandrini, relative alla presenza italiana di oltre tremilacinquecento ex militari in Congo, assoldati dal famigerato Leopoldo II, re del Belgio, uno dei più grandi avventurieri e speculatori apparsi sulle scene della storia mondiale. Anche in questo caso, le immagini sono corredate da documenti e reperti originali. Le fotografie realizzate da Lidio Cipriani, nello Zululand, nel 1927, provengono dall’Archivio Fotografico Toscano, di Prato. A completamento sociale e politico, per quanto possa farlo la fotografia (ammesso, e non concesso, che debba farlo), Sguardi sull’Africa presenta visioni di grandi viaggiatori-antropologi europei. Consistenti i prestiti del Pitt Rivers Museum, di Oxford, Inghilterra. Anzitutto, si segnalano le opere di Charles Kinsley Meek: fotografie del 1928 delle tribù Silluk e Nuer, del sud del Sudan. Quindi, si passa a Godfrey Lienhardt, sir Wilfred Patrick Thesiger, che nel 1938 e 1939 fotografò le tribù dei Dinka, dei Silluk e dei Nuer del Sudan, e negli anni Ottanta il Kenia e la Tanzania, Charles William Hobley, che ha fotografato i Luo, in Kenia, negli anni Trenta, e Jean Buxton. Di analoga rilevanza le fotografie dei fratelli Issa e Abdallah Ommidvar, che all’inizio degli anni Cinquanta attraversarono in moto il continente afri-


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cano e ai quali è stato dedicato un museo a Teheran. Lo svizzero Musée de l’Elysée, di Losanna, è presente con il prestito di opere di Lehner & Landrock: fotografie dell’Algeria e della Tunisia del decennio di inizio secolo, dal 1904 al 1914. Lo Slovenski Etnografski Muzej, di Lubiana, ha concesso fotografie realizzate da Anton Codelli e Leon Poljanec, tratte dall’album Togo, del 19111914, e comprensive anche di immagini di scena del primo film realizzato in Africa nel 1913, The White Goddess of the Wangora (Die weiße Göttin der Wangora). Inoltre, ha messo a disposizione ventotto preziosi oggetti, quali maschere e copricapo originali di fine Ottocento e inizio del Novecento, provenienti dal Togo e dal Sudan. Dai Musei Civici di Reggio Emilia è arrivato un prezioso nucleo di fotografie del barone Raimondo Franchetti, realizzate nel corso di viaggi nell’Africa dell’est nel 1913 e 1914, relative ai nilotici Shilluk, ai Meru e ai Kikuyu del Kenia. Di questo periodo storico, il Craf integra con materiali dal proprio capace archivio: immagini di Tebessa, di Charles Albert; italiani a Misurata, dello Studio G. Pucci; vintage sulla Libia, tratti da album originali degli anni Trenta; fotografie di Pedrini dei “tipi Somali”; paesaggi e scene di vita dell’Etiopia (dalla Biblioteca del Consiglio Regionale del Friuli Venezia Giulia); una veduta di Adua, del 1939, tratta dall’album del governatore italiano dell’Eritrea; immagini dello Studio Maltese, sull’arrivo delle truppe italiane a Massawa, nel 1936; l’album del 1939 dell’Istituto Luce, dedicato al viceré Amedeo d’Aosta; e, infine, i ritratti di Hailé Selassié e del re Farouk d’Egitto, di John Phillips. Di quegli anni anche i ritratti di Ernest Hemingway, realizzati in Kenia da Peter Buckley.

Lidio Cipriani: Guerriero Zulu in abito di danza; Zululand, 1927 (stampa digitale attuale; Album, Archivio Fotografico Toscano, Prato). Wilfred Patrick Thesiger: Nuer man in papyrus; sud del Sudan, 1938 (stampa attuale da negativo originario; Pitt Rivers Museum, Oxford).

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SPILIMBERGO FOTOGRAFIA 2010

Ventiquattresima edizione di una delle più radicate rassegne fotografiche del panorama italiano, dove spesso le manifestazioni del tipo si arenano all’indomani dell’inaugurazione del primo programma, al quale nulla fa poi seguito (Craf - Centro di Ricerca e Archiviazione della Fotografia, Villa Ciani, via Friuli 8, 33090 Lestans PN; 0427-91453; www.craf-fvg.it, info@craf-fvg.it). ❯ Sguardi sull’Africa; a cura di Walter Liva. Chiesa di san Lorenzo, 33078 San Vito al Tagliamento PN. Dal Primo luglio al 31 ottobre; giovedì e venerdì 16,00-20,00, sabato e domenica 10,30-12,30 - 16,00-20,00. ❯ Elio Luxardo e la potenza del corpo umano; a cura di Fabio Amodeo e Walter Liva. Corte Europa, 33097 Spilimbergo PN. Dal 24 luglio al 3 ottobre. Considerato il fotografo delle dive, nella sua carriera Elio Luxardo (1908-1969) costruì immagini “perfette”. Niente paesaggi, situazioni, denunce: solo corpi e volti, famosi o sconosciuti, dove ciò che più conta è l’armonia, nella piena celebrazione dell’estetica. ❯ La donna in fotografia in Friuli, 1950-2010; a cura di Walter Liva. Villa Ciani, 33090 Lestans PN. Dal 24 luglio al 3 ottobre. Immagini dall’archivio fotografico del Craf (Centro di Ricerca e Archiviazione della Fotografia, di Lestans, in provincia di Pordenone), realizzate da autori di chiara fama e rappresentative del profondo cambiamento della donna in sessant’anni di storia del Friuli Venezia Giulia, con particolare attenzione alla sottile linea di confine tra vita pubblica e privata strettamente legata alla contemporaneità. ❯ 1947: Le borgate romane di Luigi Crocenzi; a cura di Walter Liva. Associazione Culturale Il Caseificio, 33097 Spilimbergo PN. Dal 31 luglio al 5 settembre. All’inizio degli anni Quaranta, Luigi Crocenzi (1923-1984) si iscrisse alla Facoltà di Ingegneria, a Milano. Nel 1946, su Il Politecnico, diretto da Elio Vittorini, pubblicò i suoi primi fotoracconti: Italia senza tempo e Occhio su Milano. In sostanza, l’esperienza del Politecnico ha creato un linguaggio

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basato sull’integrazione di immagini e parole attraverso una sapiente impaginazione, affidata ad Albe Steiner, che da parte propria aveva ripreso i modelli del Bauhaus, proponendo una “griglia” di impatto diretto sul lettore. ❯ Silvio Maria Bujatti e i maestri del paesaggio friulano; a cura di Walter Liva. Museo delle Coltellerie, 33085 Maniago PN. Dal 25 luglio al 29 agosto. Dopo aver compiuto il proprio apprendistato nello studio fotografico di Pietro Modotti (zio della leggendaria Tina Modotti), non ancora ventenne, Silvio Maria Bujatti (1890-1984) lavorò nel 1909 al Pathe Journal, di Monaco di Baviera, dove conobbe anche Rudolph Duhrkoop, esponente della fotografia artistica tedesca e dove apprese e iniziò ad applicare la tecnica del bromolio, i viraggi in seppia, la gomma bicromata, le carte al carbone e l’uso degli obiettivi sfocati, o d’Artista, che producevano l’effetto flou, e nel 1910 alla Nordische Film, di Copenhagen. ❯ William Henry Fox Talbot. De luce primigenia; a cura di Michael Gray. Villa Sulis, 33091 Castelnovo del Friuli. Dal 13 agosto al 3 ottobre. Nei propri archivi, il Craf (Centro di Ricerca e Archiviazione della Fotografia) conserva una preziosa collezione di cinquanta calotipi realizzati dallo Science Museum, di Bradford, dai calotipi originali di William Henry Fox Talbot [il vero inventore della fotografia; 1839-2009. Dalla Relazione di Macedonio Melloni alla svolta di Akio Morita, di Maurizio Rebuzzini], prodotti in occasione del centocinquantesimo anniversario dell’invenzione della fotografia (1989). ❯ Photo for Peace - Photo for Tolerance. Viale Venezia, 33054 Lignano Sabbiadoro UD. Dal 15 luglio al 15 settembre. Circa cento fotografie selezionate dalla giuria dell’omonimo concorso alla sua prima edizione. ❯ Riconoscimenti (consegnati il ventiquattro luglio): International Award of Photography alla fotografa etiope Aïda Muluneh; Premio Friuli Venezia Giulia Fotografia a George Tatge; Premio per un Autore regionale a Massimo Crivellari, Premio Amici del Craf a Nevio Martinuzzi e Gianpaolo Pauletto.


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Lehner & Landrock: Danseuse de la tribù des Ouled Nail; 1904-1914 (stampa attuale da negativo originario; Musée de l’Elysée, Losanna). Pedrini (Stampa Fotocelere Capassi, Torino): Tipi somali, tipi di Asceraf; anni Trenta (vintage print; Album, Archivio Craf). Issa e Abdallah Ommidvar: Il ponte nella giungla; foresta dell’Ituri, anni Cinquanta-Sessanta (vintage print; Collezione privata).

SECONDO NOVECENTO Il dopoguerra, fino agli anni Settanta e Ottanta, si caratterizza per l’impegno di fotogiornalisti attivi sul fronte della documentazione di eventi politico-militari connessi all’indipendenza progressiva di tutti i paesi del continente. Ai quali si accodano i fotografi che hanno documentato le grandi opere avviate in Africa, oltre all’immagine rinnovata delle nuove nazioni; tra questi ultimi, si sono distinti i friulani Giuliano Borghesan, che lavorò in Marocco per il Ministero del Turismo, e Ilo Battigelli. I prestiti delle opere di questa sezione della mostra provengono in massima parte dall’Archivio Borghesan, di Spilimbergo, che ha fornito, tra l’altro, immagini inedite del moussem, la festa regionale di Tan Tan, nel Sahara marocchino. In analoga misura si segnalano fotografie dall’archivio del Craf: testimonianze di Erling Mandelmann (l’Algeria al tempo dell’indipendenza), dei Dogon, di Carlo Lei-

(pagina accanto) Giuliano Borghesan: Cavalieri al moussem di Tan Tan; Marocco, anni Sessanta (stampa dell’autore; Collezione dell’autore).

Phil Borges: Lekarate 9; Ndoto Range, Kenia, senza data (vintage print; PaciArte contemporary, Brescia).

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Carlo Leidi: Bandiagara, Mali, 1971 (vintage print; Archivio Craf). Romano Cagnoni: Nigeria, 1967 (vintage print; Archivio Lanfranco Colombo, Archivio Craf).

Nick Brandt: Wildebeest Arc; Masai Mara, 2006 (vintage print; Atlas Gallery, Londra).

di, e di Gianenrico Vendramin. Ancora, intensi reportage sulle guerre di indipendenza in Biafra, Guinea Bissau e Angola dei fotogiornalisti Ian Berry, Romano Cagnoni, Uliano Lucas, Augusta Conchiglia. Quindi, immagini di Thomas Höpker (ritratto del presidente del Kenia Yomo Kenyatta), Alain Nogues (carestia in Etiopia negli anni Ottanta), Chris Steele Perkins (siccità in Lesotho) e Maurizio Frullani (Eritrea). Sempre sulla carestia in Etiopia, viene presentata anche una delle fotografie -tuttora inedite- stampate da Mario Giacomelli e realizzate da uno sconosciuto missionario, amico del celebrato fotografo italiano. L’ultima sezione di Sguardi sull’Africa rivela la contemporaneità, attraverso le opere di autori di fama internazionale: dall’Agenzia Contrasto, Sebastião Salgado; dalla Galleria PaciArte contemporary, di Brescia, opere di Phil Borges realizzate in Kenia; dalla Atlas Gallery, di Londra, fotografie di Nick

Brandt, celebre per le sue immagini degli ultimi animali ancora in libertà nelle grandi pianure africane. Infine, le fotografie del Sudafrica contemporaneo, di Riccardo Venturi, e della moda in Senegal, di Shoba, entrambi autori dell’Agenzia Contrasto. In totale, centoquarantasei fotografie oltre ad oggettistica originale. ❖ Sguardi sull’Africa; a cura di Walter Liva. Chiesa di san Lorenzo, 33078 San Vito al Tagliamento PN. Fino al 31 ottobre; giovedì e venerdì 16,00-20,00, sabato e domenica 10,30-12,30 16,00-20,00; per visite in altri orari: Ufficio Beni e Attività culturali 0434-833295, Ufficio Iat 0434-80251. ❯ Volume-catalogo Sguardi sull’Africa, introdotto dal curatore Walter Liva, con testi di Elisabetta Mori (Archivio Capitolino, di Roma), Mario Mineo (Museo Nazionale Preistorico ed Etnografico Luigi Pigorini, di Roma), Marko Frelih (Slovenski Etnografski Muzej, di Lubiana), Chris Morton (Pitt Rivers Museum, di Oxford), Oriana Goti (Archivio Fotografico Toscano, di Prato) e Elisabetta Farioli (Musei Civici di Reggio Emilia).

Nick Brandt: Elephant drinking; Amboseli, 2007 (vintage print; Atlas Gallery, Londra).

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Se volete sapere quali siano i migliori prodotti fotografici, video e imaging, o avete bisogno di un consiglio da esperti, cercate i qualificati e autorevoli logotipi dei TIPA Awards. Ogni anno, i direttori di trenta riviste di fotografia e imaging, leader in Europa e nel mondo, votano per stabilire quali nuovi prodotti sono davvero i migliori nelle proprie rispettive categorie. I TIPA Awards vengono assegnati in base a qualità, prestazioni e valore, tanto da farne i premi indipendenti della fotografia e dell’imaging dei quali potete fidarvi.


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ANTONIO BORDONI / FOTOGRAPHIA

FOTOGRAFIA TURISTICA Una domenica mattina, al consueto mercatino di roba vecchia (se ne svolgono ovunque), abbiamo recuperato una certa consistente quantità di albumini turistici. Ricordi di città, datati indietro nei decenni, databili agli anni Sessanta, in piena esplosione di turismo di viaggio. Fotografie oleografiche, fotografie compiacenti, fotografie che aiutano il ricordo individuale. Migliorandolo nei propri termini visivi. Nostro (mio) malgrado di Maurizio Rebuzzini

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atato indietro nei decenni, databile agli anni Sessanta (con escursioni più indietro), per gusto fotografico, tipo di stampa fotografica e/o litografica, posture, automobili comprese nelle inquadrature dei monumenti raffigurati e tanto altro ancora, l’insieme di albumini turistici recuperato in uno dei rituali mercatini della domenica mattina risveglia un identificato richiamo alla fotografia. Anzi, ne evoca almeno due, che trattiamo in integrazione e consecuzione. Il primo è presto risolto, e si riallaccia a quell’idea di fotoricordo le cui origini si possono ricondurre alla Box Kodak, del 1888, alle quali ci riferiamo su questo stesso numero, da pagina 14. Certo, per quanto spesso popolari e banalizzate (non sempre), le visioni turistiche di questi albumini hanno debiti

di riconoscenza con la posa ragionata più che con l’istantanea colta al volo, ma il loro intento e uso appartengono al territorio della fotoricordo. E questo è ciò che ora conta; ne riparliamo, in chiusura. Il secondo richiamo, consentiamocelo, è più profondo. In particolare, si tratta di una considerazione trasversale al percorso della fotografia di tutti i tempi, con manifestazioni temporali via via trasformatesi. L’argomento è quello che si identifica come “fotografare la città”, sul quale molti si sono già espressi. Soprattutto, oggi faccio mie osservazioni originariamente ascoltate in alcune conferenze tenute da Grazia Neri, almeno dieci anni fa. A memoria, ripeto quello che ho appreso e assimilato, e oggi declino con l’occasione dell’avvincente ritrovamento di affascinanti albumini turistici, che vanno ad arricchire il casellario della “fotografia di città”. Eccome! Entrando nello specifico, sollecitato appunto dalla consultazione di questi albumini turistici, sono

Come rivelano gli albumini turistici rintracciati e recuperati in un mercatino antiquario, la fotografia turistica ufficiale è stereotipata e prevedibile. Conferma, più di svelare; ribadisce, più di far scoprire; tranquillizza, senza far pensare. È confortevole. Addirittura... è stucchevole: e gli albumini riscoperti sono qui a dimostrarlo. Però! Però è popolare e arriva (è arrivata) nelle case di tutti, come un buon amico che è tale comunque vada la vita. Anche questa è Fotografia. Proprio questa è Fotografia.

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tornato a una lettura consigliatami da Grazia Neri. Il testo è esemplare: Metamorphoses des Regards Photographiques sur “La Ville”, di Jean-Claude Lemagny, nel catalogo di La Ville, mostra allestita nel 1993 al Centre Georges Pompidou, di Parigi, le cui fantastiche riflessioni sul modo di fotografare le città sono a dir poco esemplari. Testuale. «Riconosciamo prima di tutto il posto relativamente modesto che occupano le fotografie che rinnovano il nostro sguardo sul mondo. Salvo, forse, tra gli anni Trenta e Cinquanta durante il periodo della “fotografia umanistica”». Non a torto, Lemagny si interroga su «la paura di ricadere nei cliché dei monumenti e dei quartieri turistici» da parte dei fotografi. Detto questo, presenta tuttavia con grande intelligenza i lavori di Robert Frank, Bernard Plossu, Gabriele Basilico, Josef Sudek, Gabriel Liess, Mimmo Jodice, Jean-Philippe Charbonnier, Lee Friedlander e altri ancora. Ovviamente, Jean-Claude Lemagny vola alto, si riferisce alla fotografia d’autore. Mentre gli albumini turistici non hanno tale e tanta intenzione, ma si manifestano nel quotidiano delle esistenze individuali della gente comune. Per questo non bisogna dimenticare, e va considerato, che a partire dalla fine degli anni Cinquanta la prepotente crescita dell’industria turistica ha creato e condizionato un mercato della fotografia geografica tesa a “vendere” vacanze, a vendere “sogni di vacanze”, a usa-

Due richiami turistici parigini assolutamente inevitabili: place et arc de triomphe de l’Etoile e la Tour Eiffel. Sia la finitura frastagliata delle copie fotografiche, sia la presenza di automobili nelle inquadrature datano le due immagini agli anni Cinquanta. In ogni caso, la fotografia cartolinesca ha un pregio indiscutibile: punti di vista e inquadrature diverse da quanto è alla portata dei turisti.

Il notturno è uno degli stereotipi più frequentati dalla fotografia turistica ufficiale: Portovenere, Venezia e Köln (Germania).

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Classici tra i classici. Duomo di Firenze con visione prospettica diversa e migliore di quella alla consueta portata dei turisti. Notre-Dame di Parigi in una giornata limpida e serena, stereotipo della fotografia turistica e cartolinesca ufficiale.

Serie fotografica che fa parte dell’insieme di albumini turistici ritrovati in un mercatino antiquario. Siglate in sequenza da “17/1” a “4/2”, dunque datate dal diciassette gennaio al quattro febbraio, diciannove stampe bianconero 6,3x11cm con bordi frastagliati rivelano di appartenere a un carteggio intimo, speriamo d’amore. Sul retro di ciascuna, oltre la certificazione di data, l’indicazione del monumento, da “piazza Vittorio Emanuele e palazzo delle Poste” alla “chiesa di San Nicola dei Cistercensi”. Da cui, siamo ad Agrigento, con escursioni nella Valle dei Templi. Siamo dopo il 1936, anno di edificazione dell’imponente palazzo delle Poste, di epoca fascista, la cui forma circolare lo rende unico nel proprio genere (progetto dell’architetto di regime Angiolo Mazzoni del Grande, al quale si deve, tra l’altro, anche la stazione Termini, di Roma). E c’è dell’altro: ogni retroscrittura si completa con i rituali saluti “Baci, Nino”. Un tassello per una ipotetica e fantastica storia della fotoricordo, purtroppo impossibile da scrivere [come rileviamo a pagina 17, su questo stesso numero].

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re le città non come vissuto ma come “prodotto da consumare”, nello spirito di “Avere e non Essere”. Come certificano gli albumini appena recuperati, rileviamo che l’insieme delle fotografie che si riferiscono a itinerari turistici (e si sono proiettate anche sull’edizione di cartoline illustrate a tema) non fanno che ripercorrere e celebrare gli stessi luoghi, gli stessi monumenti, le stesse “meraviglie” e le fotografie delle città che vengono pubblicate non sono abitate dai residenti ma dai turisti, e lo stile è da cartolina illustrata. Per l’appunto. Queste immagini sono allineate ai documentari televisivi turistici e alle ambientazioni di film e telefilm, che ripropongono le stesse icone per ogni destinazione e hanno creato una memoria collettiva uguale per tutti delle città del mondo. Sembra quasi che i turisti, visitando una città, debbano avere una conferma di quello che hanno già visto sulle riviste e sentano la necessità di vedere tutto come un investimento per i soldi spesi per il viaggio. Turisti che vogliono rimanere al di fuori della città e non entrare in contatto con l’essenza stessa della città. A differenza, la fotografia d’autore ha agito e agisce ancora in modo diverso. Risponde ad altre esigenze e domande. Italo Calvino, uno dei riferimenti letterari preferiti dalla fotografia italiana contemporanea (spesso evocato gratuitamente e a sproposito, ma non è questo il caso), offre uno spunto straordinario. Risponde quasi alla questione fatidica: come si visita una città e come la si fotografa? Da Gli dèi della città, in Una pietra sopra (Einaudi, 1980): «Per vedere una città non basta tenere gli occhi aperti. Occorre per prima cosa scartare tutto ciò che impedisce di vederla, tutte le idee ricevute, le immagini precostituite che continuano a ingombrare il campo visivo e la capacità di comprendere. Poi occorre saper semplificare, ridurre all’essenziale l’enorme numero d’elementi che a ogni secondo la città mette sotto gli occhi di chi la guarda, e collegare i frammenti sparsi in un disegno analitico e insieme unitario, come il diagramma di una macchina, dal quale si possa capire come funziona». A questo punto, dobbiamo stabilire a chi si rivolge la fotografia. Quella d’autore attraversa l’approccio culturale, e spesso si esaurisce tra addetti. Generalmente, è una rappresentazione fotografica della città che nasce dal desiderio di documentare la sensazione che la città trasmette alla luce dei propri pregiudizi culturali, con una tensione interna che realizza l’incontro tra il proprio stato d’animo (d’autore), la propria conoscenza delle cose e quel che vediamo davanti a noi. Al contrario, e all’opposto, quella turistica è stereotipata e prevedibile. Conferma, più di svelare; ribadisce, più di far scoprire; tranquillizza, senza far pensare. È confortevole. Addirittura... è stucchevole: e gli albumini appena riscoperti sono qui a dimostrarlo. Però! Però è popolare e arriva (è arrivata) nelle case di tutti, come un buon amico che è tale comunque vada la vita. Questa è Fotografia. Intellettualismi a parte, proprio questa è Fotografia. Nostro (mio) malgrado. ❖


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Alla Photokina e ritorno Annotazioni dalla Photokina 2008 (World of Imaging), con richiami e riferimenti che non si esauriscono con il solo svolgimento della Photokina

Riflessioni, Osservazioni e Commenti sulla Fotografia: spunti utili e proficui sia al comparto tecnico-commerciale sia al mondo della fotografia espressiva e creativa

Alla Photokina e ritorno dodici pagine, ventinove illustrazioni

Reflex con contorno ventotto pagine, settantuno illustrazioni

Visioni contemporanee venti pagine, quarantotto illustrazioni

I sensi della memoria dieci pagine, ventisette illustrazioni

La città coinvolta dieci pagine, ventisei illustrazioni

E venne il giorno (?) sei pagine, quindici illustrazioni

E tutto attorno, Colonia sei pagine, diciassette illustrazioni

Ricordando Herbert Keppler due pagine, due illustrazioni

Ciò che dice l’anima sei pagine, undici illustrazioni

Sopra tutto, il dovere quattro pagine, otto illustrazioni

• centosessanta pagine • tredici capitoli in consecuzione più uno • trecentoquarantatré illustrazioni

In forma compatta dieci pagine, venticinque illustrazioni

Tanti auguri a voi venti pagine, cinquantadue illustrazioni

Alla Photokina e ritorno di Maurizio Rebuzzini 160 pagine 15x21cm 18,00 euro

F O T O G R A P H I A L I B R I Graphia srl • via Zuretti 2a - 20125 Milano 02-66713604 • graphia@tin.it

Saluti da Colonia sei pagine, nove illustrazioni

Citarsi addosso sette pagine


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Sguardi su

di Pino Bertelli (Piombino, dal vicolo dei gatti in amore, 3 ottobre 2009)

I CARACCIOLINI

Questo scritto è dedicato a quei ragazzi di strada che ho conosciuto bene e si sono persi ai quattro venti della Terra o sono volati nella vita sognata degli angeli; avevano i pantaloni corti con le toppe, una bretella di traverso e rubavano i baci al profumo di tiglio. E a un poeta che un’estate degli anni Cinquanta mi fece comprendere che l’amore è nella strada e solo l’amore aiuta gli uomini e le donne a essere un po’ meno soli. Per l’amore, come per la libertà, non ci sono catene. Si chiamava Pier Paolo Pasolini.

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La fotografia muore di fotografia, perché l’umanità è guardata sempre (o quasi) attraverso la propria ignoranza e la propria paura. La sola fotografia buona, è quella che possiamo vedere due volte, senza bruciarla. Il mercimonio di ogni arte bruttura l’uomo e lo rende prono a ogni potere. Una storia e coscienza di classe (György Lukács, Storia e coscienza di classe; Sugar Editore, 1967) della fotografia non c’è stata, e tutti i luoghi di marginalizzazione forzata (ghetti, carceri, manicomi, campi di sterminio, periferie invisibili delle città) entrano nella schedografia fotografica, ma raramente sono studiati a fondo, quando non indicati come “modelli” da superare. La fotografia di strada è un atlante di conoscenze che vanno ben oltre le immagini scippate alla vita quotidiana: è il superamento della logica economica mercantile della moda, della guerra, dell’avanguardia... coLe fotografie pubblicate in queste pagine sono state recuperate da Antonio Mussari e Maria Antonietta Selvaggio, che le hanno ordinate per la mostra Da scugnizzi a marinaretti, con relativo volume-catalogo Da scugnizzi a marinaretti. L’esperienza della Nave Asilo Caracciolo 1913-1928 (Edizioni Scientifiche e Artistiche, 2010; oltre duecento illustrazioni; 240 pagine 17x24cm; 15,00 euro).

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me strumenti invasivi e persuasivi della società dello spettacolo, che accede a statuto di sovranità assoluta e deplora o punisce chi diserta o disobbedisce alle regole imposte. «Lo spettacolo è un rapporto sociale fra persone, mediato dalle immagini [...]; lo spettacolo è il capitale a un tal grado di accumulazione che diventa immagine» (Guy Debord, La società dello spettacolo; Vallecchi, 1978). Lo spettacolo è l’insieme della comunicazione umana trascolorata in merce. La storia insegna che sovente la gioventù più bella muore in galera o costretta all’esilio; l’amore di sé e per gli altri è il solo mezzo per abolire lo stato presente delle cose ed esigere non solo il pane, ma anche il profumo dell’acacia rosa. Il pudore della fotografia sociale muore con l’innocenza e l’autenticità dei bambini di strada di Napoli e del mondo (non solo) nei primi del Novecento; può parlare di fame solo chi la fame l’ha conosciuta o chi l’ha aiutata a superare e a sconfiggere. Una signora della buona borghesia napoletana, Giulia Civita Franceschi (1870-1957) è stata artefice di un “sistema pedagogico” che porta il suo nome, Sistema Civita. Era un metodo educativo singolare: si trattava di recuperare i bambini senza famiglia nelle strade di Napoli, ragazzi abusati in molti modi, che venivano sottratti alla sicura delinquenza ed esposti a ogni tipo di malattie. Poneva in primo piano i valori di accoglienza, dignità, solidarietà e faceva dei piccoli sbandati futuri uomini. Era un’educazione del cuore che aiutava ogni bambino a riconoscersi nei propri valori e nei propri talenti. Giulia Civita Franceschi. La nave-asilo Caracciolo. Lezione di lettura con i caracciolini.


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Sguardi su «Io stavo seduto alla punta della ferrovia vide arrivare una famiglia di forestieri che parlavano fra di loro, chiamarono dei facchini, allora rispose io brave gente mi fate il faore di chiamarmi a me in vece di chiamare i facchini perché io ho più fame gli altri perché nessuno mi vuole allora dissero i forestieri fai due o tre capovolte io le feci e mi dietero due lire poi dissero tutti siete porci voi napoletani io rispose voi vene abbusate che io non ho mezi di vivere altrimenti io fossi meglio di voialtri ma perora io non sono porco ma siete voialtri che prima ci fate fare le capovolte e poi ci chiamate porci ma ricordatevi che io sono buono di farmi voler bene da tutti. Voi che siete signori io mi levo il berretto ma per indeligeza son meglio di voi avete capito? Scusatemi gentilissima signora Civita io ringrazio tutti i superiori che mi hanno portato a questo stato ma io son piccolino e all’evolte fo delle piccole manganze ma però il signor Comandante mi rimprovera per farmi venire su buono. La cara signora Civita che se ne affliggi di me e tanto se ne cura da che io ero analfabeta ora scrivo da per me solo senza che nessuno mi díce níente e io lo devo tutto a lei che mi aiuta o come mia vera madre. La sera quando vado in branda penso quando i forestieri mi facevano fare le capriole ma io adesso vorrei vedere quel forestiere che mi chiamava porco in vece adesso vade vestito meglio di loro da marinaio Italiano e oppure un paio di scarpe nnere. Io ringrazio pure il reverente Viggiani che mi ha fatto venire. Se pure mi mandano in guerra io muoio col nome della mia cara signora Civita e col nome della patria e viva l’Italia». Raffaele Lastro, caracciolino LA NAVE-ASILO CARACCIOLO Il Ministero della Marina donò alla città di Napoli la nave Caracciolo, che tra il 1913 e il 1928 fu destinata ad accogliere gli orfani dei marittimi e i fanciulli abbandonati di Napoli (settecentocinquanta anime belle), che giornalisti, storici e fotografi hanno poi definito “Scugnizzi” [per una trattazione storica dettagliata e compiuta della nave-asilo Caracciolo e del lavoro pedagogico di Giulia Civita Franceschi, rimando alla straordinaria mostra Da scugnizzi a marinaretti, a cura di Antonio Mussari e Maria Antonietta Selvaggio, che è stata esposta nella Summer School dell’Università Orientale di Napoli, a Procida, a fine settembre 2009, con re-

lativo volume-catalogo, e al sito www.MuseodelMareNapoli.it]. Giulia Civita Franceschi salì a bordo della Caracciolo nel 1913, e vi rimase fino al 1928, anno in cui fu allontanata dal regime fascista. Una delle più efficaci forme di pedagogia dell’infanzia mai conosciute, e ancora oggi apprezzata in tutto il mondo, cadde nell’oblìo: ma non c’è nessun potere, per quanto oppressivo sia, che possa soffocare lo stupore e la bellezza dei buoni poeti (come Salvatore Di Giacomo) o di angelesse della povertà (come Giulia Civita Franceschi), che hanno sconfitto i falsi valori dominanti (compresi quelli della chiesa). Gli scugnizzi divenuti marinaretti sulla nave-asilo Caraccio-

lo, in un primo tempo erano accolti e lasciati liberi di muoversi e scoprire gli altri, poi avviati all’apprendimento della pesca e alla coltura dei mitili nel lago di Fusano. Alle ore di scuola affiancavano l’iniziazione al lavoro, come meccanici, falegnami, pratica della vita marinara. L’età era compresa tra i sei e i sedici anni; i marinaretti dormivano in brande appese ai soffitti; la signora Civita era sempre a bordo della nave-asilo e infondeva ai ragazzi un’atmosfera di fraternità e solidarietà. I caracciolini, come testimoniano giornali, documenti, cartoline, resteranno fortemente legati e riconoscenti alla propria “madre”; numerosi sono stati i visitatori, anche internazionali, che si sono av-

vicendati sulla nave-asilo, per conoscere il Sistema Civita. Alcuni caracciolini moriranno in guerra, altri troveranno un posto nella “società civile”, altri ancora faranno fortuna come imprenditori della propria intelligenza... nessuno dimenticherà mai la signora Civita Franceschi, né la nave-asilo della propria salvezza. Il primo “linguaggio” è stato il toccare, la prima “lingua” il canto, l’immagine poi ha raccontato che là dove le strade dei poveri s’incrociano, i loro cuori si danno del tu! «A queste creature, la nave donò una seconda nascita. Vi arrivavano laceri, pallidi, sperduti e vi ritrovarono il sorriso e, quasi sempre, la salute del corpo, insieme a quella dello spiri-

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Sguardi su

to. La famiglia, che non conoscevano, appare come una improvvisa rivelazione. Dimenticarono prestissimo le vedute turpitudini, l’eloquio volgare della strada, e le qualità sopite di gentilezza e di bontà riaffiorarono, man mano che il corpo e l’anima rifiorivano in un ambiente, che -volutamente- si intonava alla fanciullezza, sommersa da conoscenze intempestive o da pericolose libertà. Questo popolo infantile, disperso nel vento e nel sole, nella miseria, è una caratteristica della nostra città» (Giulia Civita Franceschi, 1947). Gli scugnizzi non furono solo “futuri soldati della patria” (Andrea Viggiani, sacerdote, 1914); più di tanto altro, i caracciolini sono stati l’espressione di una comunità amorosa, che ha dato voce e corpo (immagine) a chi non l’aveva mai avuta. «Ciò che ogni giorno ci uccide -ha detto un saggio- non è la morte, ma l’avvilente vita» (Edmond Jabès). I caracciolini ricordano ciò che non è più. I loro volti, i gesti, gli sguardi erano colmi di speranze che alimentavano domani migliori. Hanno colto le rose della vita e mostrato più tardi di essere uomini liberi e creatori dei propri sogni, al di là del bene e del male.

GLI SCUGNIZZI/CARACCIOLINI. IMMAGINI DI UNA MEMORIA NAPOLETANA

La storia della fotografia è storia di realtà tradite, menzogne e mercimonio. La fotografia sociale, quando è grande, parla di se

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stessa nel ricordo e nello stupore di un’epoca. Le immagini dei caracciolini, degli scugnizzi napoletani, sono opera di fotografi-artigiani, e al di là dell’occasionalità e dell’ordinazione esprimono una sapienza fotografica fatta di rispetto e dignità per i piccoli ritrattati: ci passano negli occhi ragazzi sporchi, coperti di stracci, impauriti... poi vestiti da marinaretti e infine da marinai... in abiti borghesi. C’è una fierezza particolare in quei volti e una malinconia antica che commuove. Qui la fotografia si lascia attraversare dai corpi e va oltre il cartolinesco (scugnizzi che mangiano gli spaghetti con le mani, per i fotografi di qualche club aristocratico), il patetico (scugnizzi che in cambio di un avanzo di pane fanno capriole sulle rotaie della stazione, per sollevare la noia di viaggiatori in attesa di partire con Napoli nel cuore) o l’oleografico (scugnizzi sulle banchine del porto che si buttano in mare per andare a prendere a fondo i pochi soldi gettati dai turisti). L’estetica del miserabilismo, che tanta fortuna ha avuto negli annali della storiografia fotografica, è bandita dalla presa di una realtà che “buca” la storia e riporta l’eterna miseria di questi ragazzi maleamati a interpreti di straordinaria bellezza. In questa iconografia dell’infanzia violata non c’è traccia nemmeno di quel senso di sublimazione dei corpi (nudi) e profanazione metaforica tanto cari

al barone Wihelm von Gloeden [FOTOgraphia, marzo 2008 e settembre 2009], uno dei molti fotografi che le gallerie più importanti del mondo si contendono a colpi di dollari; e a leggere bene la sua opera, non è difficile intendere la fotografia a uso delle sue inclinazioni sessuali. Lo scandalo è propedeutico al sistema, e il cattivo genio è solo un mercante che si accontenta del tragitto ludico. La fotografia è anzitutto la confessione di un corpo, ed è allora che l’immediato s’intreccia col giusto. Gli stati sublimi del barone von Gloeden si nutrono di omissioni, di condizionamenti, d’interpretazioni allusive dei corpi di fanciulli in fiore. No! I corpi in amore dei caracciolini sono legati al pensiero di Nietzsche: «Ciò che non mi uccide, mi fortifica». Di più. Le immagini dei caracciolini emergono tra corpo e coscienza e dicono ciò che il corpo esige. Questa fotografia dei corpi è l’affermazione della libertà pura, che nasce nell’atto stesso che si afferma come impronta della Storia. La fotografia d’impianto sociale è un modo di vedere la realtà e raccontarla. Le immagini di Jacob A. Riis, Lewis W. Hine, Eugène Atget, Paul Strand, August Sander, Walker Evans, Weegee, Robert Capa, Tina Modotti, Henri Cartier-Bresson e Diane Arbus attraversano l’intera storia della fotografia e interrogano il suo manifestarsi. Le loro immagini-flânerie (passeggia-

ta, passaggio, deriva) scavalcano i confini linguistici della fotografia museale e spaccano i confini che segnano oppressi e oppressori. La loro cartografia umana dà visibilità ai condannati al silenzio, alla povertà, alla costrizione, alla violenza... e va a comporre un’umanità senza frontiere, che interroga destini individuali e destini storici. La passione della fotografia di strada è la scoperta del sé di fronte all’ignoto e fa dei ritrattati di ognidove il centro del mondo. La fotografia della speranza che passa sui corpi, sui volti, negli sguardi dei caracciolini è speculare. I ragazzi guardano in macchina, stupiti, timorosi, qualche volta spavaldi, e da soggetti feriti ai bordi dell’ordinario si trasformano in narratori di un evento che è storia di vita vissuta. La macchina fotografica cessa di essere uno strumento che celebra il rito o “segno” dello spettacolare integrato nella comunità di appartenenza e diviene “specchio”, “cammino” e promessa di felicità possibile. Gli scugnizzi napoletani, fotografati nella propria crescita, fino alla divisa da marinaio, figurano una memoria storica straordinaria e conservano


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Sguardi su il significato di un princìpio di giustizia che impedisce di dimenticare a chi vede, legge e scopre quelle immagini. La ritrattistica dei caracciolini è una sorta di album di famiglia, nel quale una profonda conoscenza della situazione drammatica, impressa nei corpi dei ragazzi, fotografati (non solo) in studio ai tempi della fotografia come impronta sociale, si rovescia in una scrittura iconografica epica, dove dignità e rispetto fuoriescono a ogni inquadratura. Le immagini dei caracciolini sono opere d’intaglio nel corpo morto della fotografia celebrata (re, papi, capi di Stato, lotte operaie, bordelli d’alto bordo, guerre per esportare la democrazia, linciaggi dei dissidenti, arene sportive, miti di celluloide): dirottano il linguaggio della fotografia a una diversa materialità o percezione dell’esistente, che sino ad allora molti sembrava ignorassero. «Il tempo narrato diventa tempo storico quando è assunto dalla memoria sociale e dall’azione sociale» (John Berger, Sul guardare; Bruno Mondadori, 2003) e alla lunga il dissidio contro le convenzioni non è altro che la rottura del prestabilito e del sempre uguale. La scrittura fotografica “artigianale” degli scugnizzi/caracciolini porta una nota di disturbo o di eccellenza nella visione dominante dell’infanzia abbandonata, umiliata, offesa. La testimonianza artistica è importante quanto il testimone, e insieme si riflettono nelle pagine dimenticate di un’umanità maltrattata, malfamata, repressa, perché non aderente ai codici di comportamento della società imperante. Le immagini degli scugnizzi/caracciolini esprimono, al contempo, un senso di sradicamento e di utopia dell’amore amato... l’approssimarsi della fine del dolore e la percettibilità di una sorta di attenzioni mai avute. Non c’è spontaneità nei loro ritratti; c’è, invece, autenticità e rivelazione o bisogno di abbracci e carezze sempre

sognati. La sofferenza dei corpi e degli sguardi è respinta nella speranza come liberazione e fine di appartenenza a una vita feroce e a un futuro ancora peggiore. Forse troveranno il proprio posto nell’universo e oltre quella nave-asilo. I loro volti dicono che la verità è sempre alla fine della miseria e ogni verità è inseparabile dai comportamenti e dai sogni con i quali affrontano il mondo nuovo. Le immagini degli scugnizzi/caracciolini comunicano la soggettività nel momento nel quale l’oggettività del dolore viene superata. Mostrano la consapevolezza che l’esperienza soggettiva è un fattore storico importante per riuscire a comprendere e interpretare un’educazione del cuore che segna la fine delle sofferenze. L’amore conferisce bellezza e unisce le diversità. L’amore non ha nulla da rimproverare o perdonare. L’abbiamo già affermato altrove: «È l’amore e la scoperta del sé che portano a superare un presente che non è sempre bello... a sconfiggere la paura con la conoscenza di essersi liberati dell’immobilità e dell’impotenza... è l’amore che porta nei cuori il soffio della felicità e inventa quello che di noi stessi è sconosciuto... è l’amore, così vicino così lontano, che ci riporta ad essere protagonisti della nostra storia e al centro delle nostre esperienze, amandoci... quando riconosci l’amore vuol dire che hai già perdonato... perché l’amore è quell’impossibile magico che ci fa toccare la dolcezza dei forti... che ci porta i baci al profumo di tiglio... è un eccesso di luce... è il blu che toglie al nero il mistero. Legati a una stella, la più lontana... e vai alla deriva dei tuoi sogni» (Pino Bertelli, L’angelo del non-dove. Encomio sull’eresia dell’amore e sulla ribellione del cuore dei ladri di sogni; Traccedizioni, 1996). La coscienza del dolore della fotografia di strada o popolare si trasforma in conoscenza del dolore dell’intera umanità. Nell’anatomia fotografica del

dolore degli scugnizzi/caracciolini (la veridicità dei corpi, delle posture, dell’intreccio autobiografico tra fotografo e fotografato) in/sorge anche una fenomenologia della speranza depositata nel profondo degli sguardi. Non c’è ragazzo che non abbia una luce riflessa negli occhi: ma non è quella dello studio fotografico, è qualcosa che fiammeggia oltre la fotografia. È la speranza, forse, della fine delle botte, della fame, dei riformatori... la fine degli abusi, delle lacrime rimaste invendicate. È la fine della disperazione e la conquista della parola. «La speranza è per loro [per tutti i “quasi adatti”] qualcosa da mordere, da mettere tra i denti [...]. Con la speranza tra i denti si ha la forza di tirare avanti anche quando la fatica non dà tregua, si ha la forza, se necessario, di trattenersi dal gridare al momento sbagliato, la forza soprattutto di non urlare. Una persona con la speranza tra i denti è un fratello o una sorella che incute rispetto. Coloro che sono senza speranza nel mondo reale sono condannati alla solitudine» (John Berger, Modi di vedere; a cura di Maria Nadotti, Bollati Boringhieri, 2004). Tutto vero. Si vive al di qua dell’utopia e si muore al di là della soglia del reale, sempre. La fotografia della realtà degli scugnizzi/caracciolini -la ritrattistica di studio o l’immagine rubata nella strada, nei vicoli, sulle banchine di Napoli o sulla na-

ve-asilo- e/segue un ordine indiziale e non aderisce al reale come somiglianza. Supera il fotodocumento e diviene testimonianza di qualcosa che è stato. La realtà è vista come rappresentazione e non come effetto della realtà. La fotografia della realtà così affabulata «definisce il senso fotografico come indice, come traccia significante il cui legame con la cosa che rappresenta è quello di essere stata fisicamente prodotta dal suo referente» (Rosalind Krauss, Teoria e storia della fotografia; Bruno Mondadori, 2000). Quel che ho ricevuto in eredità dalla fotografia popolare -diceva- è la speranza di un amore vero, il candore della conoscenza dei primi passi, la saggezza selvatica che, a volto scoperto, manifesta la bellezza della speranza e inchioda la verità delle rovine nella limpidezza dell’amore. Nei cieli svaligiati delle parole volate via e nelle vestigia delle immagini che aggirano amabilmente le difficoltà e le imposture legiferate non c’è più nulla da leggere. La figurazione dei corpi, l’anatomia dei segni, la psicologia degli sguardi di questi ragazzi di stra-

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Sguardi su da si legano a una filosofia morale che li trasporta fuori dall’industrializzazione del ritratto fotografico, celebrato dopo il 1860 e sopravvissuto, profanato, distorto o evangelizzato fino ai nostri tempi. Qui le meraviglie e le possibilità della fotografia mostrano che la macchina fotografica si introduce là dove l’occhio umano non coglie che frammenti di vita. Nei primitivi della fotografia c’è già tutto ciò che serve a un fotografo (anche dopo la rivoluzione digitale) e alla restituzione di un pensiero che è traccia di verità o ingiustizia. La fotografia contiene ed estende le tecniche e le estetiche di ogni forma d’arte e s’instaura nella storia come strumento ereticale di percezione simbolica che può modificare punti di vista o suggerire intenzionalità politiche o mercantili tese alla dominazione delle masse. In modo particolare, le scritture socioestetiche della fotografia di strada costituiscono e costruiscono situazioni nelle quali gli enunciati (le immagini) si chiamano fuori dal narcisismo delle mode e delle convenienze, e inaugurano una visione altra della realtà. Realizzare fotografie è dunque una sorta di condivisione con l’ascolto, e raccogliere così storie e testimonianze di ciò che gli uomini, le donne stanno vivendo o soffrendo. Gli equivoci e i pregiudizi sull’arte della fotografia sono molti. «Il pregiudizio oggettivista, innanzitutto, che identificava la specificità della fotografia, in nome di un concetto feticcio di arte incontaminata dalla tecnica -meccanismo di difesa abbastanza trasparente che vediamo riprodursi con puntualità ogni qualvolta una cultura dominante o parte di essa veda profilarsi una minaccia alla propria legittimità costituita-; infine, l’equivoco individualista, luogo comune accreditato da un certo tipo di discorso psicologico, che situava la pratica fotografica nella sfera pressoché imprendibile della fantasia individuale» (Milly Buonanno, La fotografia; a cura di Pierre Bourdeau, Guaraldi, 2004).

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Le scritture fotografiche più alte, come quella degli scugnizzi/caracciolini, non sono un fare-fotografia estemporaneo o soltanto tecnico, scritturale, ma un lavoro di scelte etiche ed estetiche che colgono la democratizzazione del ritratto fuori dai canali della ricettività collettiva e dal ricordo o dalla nostalgia del “come eravamo”. Ogni opera d’arte riflette la personalità intima del suo autore. La fotografia sociale è la scelta dei significati che proclama, e in una certa misura afferma, le intenzioni esplicite dell’autore. «Incapace dell’arte raffinata della contemplazione silenziosa e immota che si impone davanti a certi paesaggi o a certi monumenti [a certi volti], il fotografo impenitente [il fotoreporter del sangue facile, il pubblicitario senza estro, l’esteta di crocifissioni inconfessate, il fotoamatore imbecille] si esaurisce in una laboriosa ricerca di immagini. Finisce per dimenticare di guardare ciò che fotografa, viaggia senza vedere e non riconosce mai altro che quello che il suo apparecchio gli restituisce. [...] Nel linguaggio di tutte le estetiche, la frontalità significa l’eterno, in opposizione alla profondità attraverso la quale si reinserisce la temporalità, e il piano esprime l’essere o l’essenza, in breve, intemporale» (Pierre Bourdeau, a cura di, La fotografia; Guaraldi, 2004). Tutto vero. Il ritratto, più di ogni

altra forma del fotografare, è sempre un autoritratto, l’oggettivazione dell’immagine di sé negli occhi dell’altro. Il valore di una fotografia si misura innanzitutto dalla bellezza implicita dei ritrattati (non importa a quale strato sociale appartengano) e più di ogni cosa la fotografia è sempre un’interrogazione o segno di qualcosa che non è o che è stato tradito. Lo scandalo della fotografia popolare è quello di non “illustrare”, riprodurre, falsificare i significati, ma di rinviare il proprio discorso fuori dalle norme consacrate e dal discredito obbligatorio devoti al mercimonio della “cultura colta”. Critici, storici, mercanti del tempio della fotografia tuonano dalle loro tribune erudizioni culturali sulla fotografia che non conoscono, né praticano. La gerarchia della legittimità fotografica passa dai loro scanni, dalle loro riviste, dai loro saggi, nei quali dissertano su tutto il sapere dei linguaggi fotografici e nulla sanno del sangue dei giorni della fotografia popolare. I fotografi appassionati, romantici o utopisti, coloro che sono sempre a un passo dalla galera o dalla follia (o dalla poesia, forse), «rompono con le regole della pratica comune e si rifiutano di conferire alla loro attività e al suo prodotto, il significato e la funzione riconosciuta» (Pierre Bourdeau). Sono loro che elaborano la teoria estetica delle loro opere e interpretano l’esi-

stenza della fotografia come arte autentica. La fotografia popolare degli scugnizzi/caracciolini va a sconvolgere l’ordine convenzionale del visibile che esce dalla tradizione pittorica e letteraria come percezione dell’esistenza; fuori dall’obiettività e dalla perfezione estetica va oltre la posa e si assume il coraggio di rispettarsi e di rispettare come esigenza creativa. I fotografi-artigiani degli scugnizzi/caracciolini hanno lavorato sulla trasposizione del significato e fatto emergere la bellezza del linguaggio fotografico. «Per la mentalità moderna, la distanza tra etica ed estetica è chiara. L’estetica può rimanere personale e relativa. L’etica ha scopi universali» (Luigi Zoja, Giustizia e bellezza; Bollati Boringhieri, 2007). Per i filosofi greci, la bellezza è intimamente legata alla giustizia. Sono due diverse facce della stessa qualità: la virtù e l’eccellenza, diceva. La bellezza è uno stile, la giustizia è il florilegio della sua poesia. Il realismo della realtà è tutto qui. Qualunque imbecille può fare una buona fotografia, ma solo un poeta può comprendere e cogliere l’immagine della bellezza e della giustizia come testimonianza del proprio tempo. Di nessuna chiesa è la fotografia popolare. ❖


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