Mensile, 6,50 euro, Poste Italiane SpA - Spedizione in abbonamento postale - D.L. 353/2003 (convertito in Legge il 27-02-2004, numero 46), articolo 1, comma 1 - DCB Milano
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ANNO XVII - NUMERO 164 - SETTEMBRE 2010
Galleria Sozzani VENTI ANNI Spazio Forma CINQUE ANNI Decade DIECI ANNI
SHENG QI
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Non è venduta in edicola. Per averla hai una sola possibilità: sottoscrivere l’abbonamento annuale. 12 numeri 65,00 euro
Abbonamento 2010 (nuovo o rinnovo) in omaggio 1839-2009
Dalla Relazione di Macedonio Melloni alla svolta di Akio Morita M A U R I Z I O
R E B U Z Z I N I
1839-2009 Dalla Relazione di Macedonio Melloni alla svolta di Akio Morita
Come dire, dal dagherrotipo all’acquisizione digitale di immagini. E consecuzioni
INTRODUZIONE
DI
GIULIANA SCIMÉ
F O T O G R A P H I A L I B R I
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prima di cominciare IN RICORDO. Era nato il 24 agosto 1925. È mancato la notte di Ferragosto. Ezio Quiresi era il decano dei fotografi cremonesi. Cinquant’anni di fotografia, e fino all’ultimo in camera oscura a stampare in bianconero, non sapendo più con chi discutere di grana, lucido, mat e contrasti. L’ultima mostra personale si è aperta in giugno, allo Spazio CremonaBooks, alle spalle del Torrazzo. È stato anche l’ultimo incontro con gli amici, sempre vicini. Lì, i giovani appassionati hanno potuto capire come lavorava un Maestro. Ogni scatto di Ezio era una storia, spesso poetica, colta in un particolare, in un sorriso, in una lacrima o in uno sguardo diffidente. Sempre discosto, non forzava mai i soggetti, sapeva subito individuare il punto da dove inquadrare una scena, per ottenere l’effetto voluto. Ha raccontato la Cremona degli Anni Cinquanta e Sessanta con i personaggi più semplici, come Pirlin, il “paratore” del Foro Boario che frequentava l’osteria di famiglia. Indimenticabile lo sguardo di sua madre seduta nel piccolo cortile. Ha amato la natura, traducendo il suo amore nelle immagini: salvava l’uccellino implume caduto dal nido, lo fotografava e lo nutriva fino a quando la madre non se lo portava via. Era affascinato dal Po, che ha fotografato dal Monviso all’Adriatico, cogliendo i grandi silenzi, la gente, i pescatori, gli scavatori di ghiaia e di sabbia, i paesi di don Camillo e Peppone. Per il Touring, ha girato tutte le piazze, le chiese, i monumenti d’Italia, con l’Hasselblad, il treppiedi, qualche lampada. Raro il flash. Sapeva fotografare i violini senza sgradevoli riflessi, impresa da pochi. Ha girato anche il mondo per fotografie industriali e reportage con Fiorino Soldi, storico direttore del quotidiano La Provincia. Mai reporter d’assalto. Ha fotografato il lavoro, la fatica. Ezio ha vinto premi, pubblicato libri, che curava con scrupolo certosino, ha allestito mostre. Non imponeva mai la forza delle sue opere, nelle quali pure tanto credeva. Schivo nell’approccio, era un uomo di terra, un uomo di fiume; poi, però, il fiume dei ricordi cominciava a scorrere veloce, inarrestabile: nomi, ricordi precisi, drammi, date, particolari, aneddoti, tutti legati alle sue immagini. Anche se mangiava pochissimo, con lui le cene si prolungavano. Shakespeare lo avrebbe adorato e Oscar Wilde si sarebbe seduto subito alla sua tavola. Con un pizzico di vanità, teneva sempre in tasca un pettinino, per aggiustarsi i capelli quando qualcuno lo fotografava. Controvoglia, si era parzialmente convertito al digitale, disdegnando però il computer. Di immagini tecnologiche gli erano sufficienti quelle televisive, quanto bastava per addormentarsi: è morto nel sonno, con in mano il telecomando. Sandro Rizzi
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Non è solo un problema quantitativo, anzi è esattamente vero il contrario: è qualitativo. Qualitativo per se stesso e qualitativo dell’incontro fertile, dinamico, attento, concreto tra cultura e impresa. Ovviamente, l’industria fotografica in sé (che fa della Photokina il proprio palcoscenico) non ha compiti, né obblighi culturali. Però, nel concreto, sono anche i mezzi economici che l’industria può utilizzare che servono alla promozione e veicolazione della cultura. Maurizio Rebuzzini; su questo numero, a pagina 35 Anche la fotografia è cambiata molto in questi dieci anni, anche il fotogiornalismo. Dobbiamo fare i nostri conti con le influenze della tecnologia applicata al linguaggio espressivo e con la più generale evoluzione della società. Angelo Galantini; su questo numero, a pagina 52 L’impazienza di scannare i profeti dell’impostura e della falsificazione è forte. Pino Bertelli; su questo numero, a pagina 64
Copertina Sheng Qi è uno degli artisti cinesi contemporanei che con le proprie opere stanno rivedendo l’epopea del maoismo, avviato a metà degli anni Sessanta, e oggi osservata criticamente, ma anche con ironia. Stampa cromogenica da Madness, Appropriation, progetto fotografico acquisito dall’International Center of Photography, di New York. Riflettiamo, da pagina 34
3 Altri tempi (fotografici) Dalla copertina del Catalogo Generale dell’Ing. Ippolito Cattaneo, del 1929-1930. Tra l’altro, il primo nel quale compare la Leica. Ne abbiamo già riferito
7 Editoriale Una volta ancora: Alla Photokina e ritorno
9 Mimmo Jodice a Capri Straordinaria cornice, la Certosa di San Giacomo ha accolto Figure del mare, del celebrato fotografo napoletano. A cura della meritevole Fondazione Capri
12 Notizie Attrezzature, vicende e altre segnalazioni
14 In forma terapeutica? Due chiavi di lettura fotografica a margine del film Rain Man: visione New Documents (circa) e riflessione sulla partecipazione alla vita (o difesa dalla vita) Ricerca iconografica di Filippo Rebuzzini
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SETTEMBRE 2010
R , RIFLESSIONI IFLESSIONI, OSSERVAZIONI E COMMENTI OSSERVAZIONI E COMMENTI SULLA FOTOGRAFIA SULLA FOTOGRAFIA
17 Ici Bla Bla Appunti e attualità della fotografia internazionale a cura di Lello Piazza
Anno XVII - numero 164 - 6,50 euro DIRETTORE
RESPONSABILE
Maurizio Rebuzzini
IMPAGINAZIONE
24 Carla Sozzani. Giovane ventenne Avviata nel 1990, venti anni fa, la Galleria Carla Sozzani, di Milano, ha interpretato e messo in pratica una visione internazionale della fotografia. Intervista a tutto tondo di Lello Piazza 26. Lei la conosce bene, di Giuliana Scimé
Gianluca Gigante
REDAZIONE
Angelo Galantini
FOTOGRAFIE Rouge
SEGRETERIA
Maddalena Fasoli
HANNO
30 Cinque anni in Forma Forma compie i suoi primi cinque anni e si trasforma in Fondazione. Roberto Koch, direttore di Contrasto, che come Zeus ha partorito dalla testa questa Atena fotografica, commenta l’avvenimento di Roberto Koch
34 Vento dell’Est L’arte cinese contemporanea, che spesso si esprime con gli stilemi propri e caratteristici della fotografia, sta osservando con evidente ironia (e critica) il passato maoista del paese. Due autori, sopra tutti: Sheng Qi e Shen Jingdong. E poi, osservazioni complementari da altri punti di vista, ancora con ironia e contorni di Maurizio Rebuzzini Ricerca iconografica di Ciro Rebuzzini
48 Dieci nel Duemila L’editore londinese Phaidon Press fa seguire un attuale Decade alla sua precedente raccolta Century (del 1999). Stessi princìpi, medesimo svolgimento; ovviamente, in relazione alle fotografie che hanno raccontato i recenti primi dieci anni di secolo. In cronaca, per la Storia di Angelo Galantini
54 Gran culo Nessuno si offenda, per cortesia. L’uso nel titolo di un’espressione tanto esplicita è finalizzato al soggetto dichiarato della monografia The Big Butt Book, a cura di Dian Hanson, pubblicata da Taschen Verlag, che l’aggiunge a tre precedenti titoli in tema. Finito?
60 Morti bianche
COLLABORATO
Pino Bertelli Antonio Bordoni Maddalena Fiocchi Roberto Koch Chiara Lualdi Lello Piazza Franco Sergio Rebosio Ciro Rebuzzini Filippo Rebuzzini Sandro Rizzi Giuliana Scimé Carla Sozzani Redazione, Amministrazione, Abbonamenti: Graphia srl, via Zuretti 2a, 20125 Milano; 02-66713604; graphia@tin.it. ● FOTOgraphia è venduta in abbonamento. ● FOTOgraphia è una pubblicazione mensile di Graphia srl, via Zuretti 2a, 20125 Milano. Registrazione del Tribunale di Milano numero 174 del Primo aprile 1994. Poste Italiane SpA - Spedizione in abbonamento postale - D.L. 353/2003 (convertito in Legge il 27-02-2004, numero 46), articolo 1, comma 1 - DCB Milano. ● A garanzia degli abbonati, nel caso la pubblicazione sia pervenuta in spedizione gratuita o a pagamento, l’Editore garantisce la massima riservatezza dei dati forniti dagli abbonati e in suo possesso, fatto diritto, in ogni caso, per l’interessato di richiederne gratuitamente la rettifica o la cancellazione ai sensi della legge 675/96. ● FOTOgraphia Abbonamento 12 numeri 65,00 euro. Abbonamento annuale per l’estero, via ordinaria 130,00 euro; via aerea: Europa 150,00 euro, America, Asia, Africa 200,00 euro, gli altri paesi 230,00 euro. Versamenti: assegno bancario non trasferibile intestato a Graphia srl Milano; vaglia postale a Graphia srl - PT Milano Isola; su Ccp n. 28219202 intestato a Graphia srl, via Zuretti 2a, 20125 Milano; addebiti su carte di credito CartaSì, Visa, MasterCard. ● Nessuna maggiorazione è applicata per i numeri arretrati. ● È consentita la riproduzione di testi e fotografie, magari citando la fonte (ma non è indispensabile, né obbligatorio farlo). ● Manoscritti e fotografie non richiesti non saranno restituiti; l’Editore non è responsabile di eventuali danneggiamenti o smarrimenti. Fotocomposizione DTP e selezioni litografiche: Rouge, Milano Stampa: Arti Grafiche Salea, Milano
Rivista associata a TIPA
Mostra itinerante di Riccardo Venturi, che affronta e visualizza una delle piaghe sociali dei nostri tempi: NO! Contro il dramma degli incidenti sul lavoro
64 Eve Arnold Sguardi sulla fotografia al tempo della gioia di Pino Bertelli
www.tipa.com
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editoriale A
nticipazioni tecniche in parata. Già nel corso dell’anno, c’è un certo mondo fotografico che va alla rincorsa delle novità, spesso con atteggiamento fine a se stesso, per il solo e semplice gusto e piacere dell’oggetto: non ne discuto, non giudico, lascio vivere. Quindi, in prossimità di appuntamenti fissati, tutto accelera, tutto diventa più rapido e incalzante; forsennato, addirittura. Per esempio, alla vigilia della Photokina di Colonia, che -volente o nolente- svolge un ruolo assolutamente primario nel mercato fotografico, le voci si rincorrono e i blog si amplificano, le voci si stanno rincorrendo i blog amplificando. La gara è esplicita: anticipare tutti, rivelando di saperne di più degli altri. Lo ammetto, io ne so meno degli altri; noi in redazione ne sappiamo molto meno degli altri. Non seguiamo questo mondo, e aspettiamo le comunicazioni ufficiali, senza andare a fare le pulci alle voci di corridoio che si inseguono le une alle altre. Del resto, come spesso affermiamo, lo strumento fotografico è sì un mezzo determinante al linguaggio espressivo, ma è pur sempre un mezzo, e le sue configurazioni e interpretazioni non debbono essere asettiche e incolori, ma lette e valutate alla luce di ciò che consentono di ottenere, per quanto influiscono sulla ripresa, per ciò che introducono di effettivamente diverso nell’applicazione della fotografia. Per questo, stiamo distanti dalle lusinghe delle prestazioni teoriche, cercando di andare sottotraccia e nel profondo. La Fotografia la intendiamo così: espressione visiva che osserva attorno a noi, offrendoci straordinarie interpretazioni della Vita. Senza soluzione di continuità, dalla fotografia del reale (reportage e dintorni) alla creatività individuale (perfino concettuale), alla fotoricordo. Così che, alla vigilia dell’imminente Photokina (dal ventuno al ventisei settembre), allineo tra loro due saggi che ho scritto nelle stagioni immediatamente seguenti la fiera dello scorso 2008. Il primo, Alla Photokina e ritorno, è esplicito e diretto, e calza a pennello con quanto si ripeterà a fine mese; il secondo, 1839-2009. Dalla Relazione di Macedonio Melloni alla svolta di Akio Morita, è perfino consequenziale, oltre che coerente con il pensiero appena espresso. Andrò alla Photokina, visiterò i padiglioni merceologici, incontrerò le manifestazioni fotografiche collaterali avendo nel cuore queste due esperienze, che ho condiviso con molti. Non cercherò conferme alle mie anticipazioni e previsioni di due anni fa (che pure ci sono state!), non sarò autoreferenziale; ma, una volta ancora, starò a lato, discosto, ad osservare, analizzare e riflettere: su ciò che si presenta per se stesso e sulle inevitabili conseguenze. Non mi interessano i pixel, che pure mi interessano. Mi interessa valutare come e quanto la fotografia entri e incida nel nostro modo di essere e vivere, nella società e nell’espressione sociale e culturale (mai fini a se stesse, ma in dialogo dinamico). Quindi, a seguire, ci ritroveremo con osservazioni e rilevazioni oltre l’apparenza a tutti evidente. Photokina e ritorno. Maurizio Rebuzzini
Alla Photokina e ritorno (Annotazioni dalla Photokina 2008, con richiami e riferimenti che non si esauriscono con il solo svolgimento della Photokina), di Maurizio Rebuzzini; FOTOgraphiaLIBRI, 2008; 160 pagine 15x21cm, con 343 illustrazioni; 18,00 euro. 1839-2009. Dalla Relazione di Macedonio Melloni alla svolta di Akio Morita (Come dire, dal dagherrotipo all’acquisizione digitale di immagini. E consecuzioni), di Maurizio Rebuzzini; prefazione di Giuliana Scimé; FOTOgraphiaLIBRI, 2009; 160 pagine 15x21cm, con 263 illustrazioni; 24,00 euro.
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In Cinema cornice di Angelo Galantini
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La scorsa estate 2009, tutto è cominciato con Wilhelm von Gloeden, e ne abbiamo riferito sul nostro numero di settembre 2009. Questa estate, l’entusiasmante esperienza si è ripetuta, in toni altrettanto opportuni, con Mimmo Jodice. Ancora un progetto fotografico della Fondazione Capri, impegnata a ristabilire un equilibrio culturale e di alto profilo sull’isola, con iniziative che prevedono anche la consistente presenza di fotografia di qualità: formale e di contenuti. Inaugurata a luglio, oltre a rappresentare un significativo spaccato dell’opera dell’autore, la selezione Figure del mare, di Mimmo Jodice, a cura di Roberta Valtorta, ribadisce l’allineamento tra forma e contenuto, che troppo spesso manca alla fotografia contemporanea. Le fotografie di Mimmo Jodice, prima di tutto. Dalla colta presentazione: «Il Mediterraneo, ventre e laboratorio di storia e di cultura, è per Mimmo Jodice un luogo sentimentale e mentale che gli permette di portare a piena espressione, nella stagione
Maurizio rebuzzini
MIMMO JODICE A CAPRI
UNA VOCE, POCO FA
Difficile vedere immagini che si integrano in armonia così perfetta in uno spazio da sembrare create proprio per quell’ambiente. La Certosa di San Giacomo, a picco sul mare, bianchissime stanze che si rincorrono, è esaltata dalle fotografie di Mimmo Jodice. Figure del mare, a cura di Roberta Valtorta, è un’accurata selezione fra le centinaia di riprese che Jodice ha realizzato nel corso degli anni. Ma, Jodice non è certo un illustratore per belle “cartoline” di lusinga visuale; al contrario, è un acuto analista di luoghi, dettagli, particolarità, sfuggevoli atmosfere che solo lui sa scoprire. E in quell’ambiente, in quelle stanze le sue immagini acquistano una qualità ancora più sensibile che in qualsiasi altro spazio espositivo. E a dire il vero, la sensazione non è di una esposizione, piuttosto di una magia che ha arricchito le pareti con dei bianchi e neri purissimi, di un silenzio e di una tranquilla pace trasportata dal mare - per chi lo ama veramente e si riempie gli occhi e l’anima della sua misteriosa malia. In quelle immagini si ritrova, inoltre, la storia, sussurrata e per metafore, del Mediterraneo e mi chiedo: quanto noi lo conosciamo questo nostro immenso mare? Oh, sì, i pescatori si avventurano in caccia di sopravvivenza; le navi lo attraversano cariche di merci e di turisti; affolliamo le spiagge dall’una e l’altra sponda; visitiamo città e rovine del passato, ma come lo conosciamo? Le sublimi immagini di Mimmo Jodice ci suggeriscono, soprattutto, due messaggi: la fotografia è ammirevole nutrimento della mente e dell’animo quando è autentica arte; l’artista sa vedere per noi e stimolarci per nuove avventure. Giuliana Scimé
della maturità, la coincidenza tra immagine ed emozione che aveva caratterizzato le irrequiete ricerche dei suoi esordi. Il titolo della mostra, Figure del mare, indica non solo la plasticità di questi antichi volti e corpi restituiti dall’acqua, ma anche il mare stesso come vera e propria figura che appartiene profondamente al pensiero e alla visionarietà di Jodice, artista lontano da un’idea di fotografia come strumento descrittivo e documentario e invece da sempre sostenitore di un tipo di immagine carica di memoria, ricca delle molte forme dell’arte, orientata verso un sentimento metafisico della realtà visibile». Quindi, a completamento, l’allestimento scenografico, non certo in subordine; anzi, è il caso di affermare quanto sia vero l’esatto contrario. Riunita anche in un avvincente volume-catalogo, pubblicato da SilvanaEditoriale (120 pagine 23,5x27,5, cartonato; 25,00 euro), la consistente selezione ripercorre con garbo e competenza la fotografia di Mimmo
Significativa selezione tra le centinaia di fotografie di Mimmo Jodice, Figure del mare, a cura di Roberta Valtorta, è stata allestita nell’affascinante cornice della Certosa di San Giacomo, di Capri: con finestre che si aprono su visioni idilliache e ampi spazi che permettono di compiacersi appieno delle immagini.
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Maurizio rebuzzini (4)
In cornice
La proposta di Figure del mare, di Mimmo Jodice, alla Certosa di San Giacomo, di Capri, è inserita nell’ambito delle iniziative di alto profilo attraverso le quali la Fondazione Capri sta agendo per ristabilire un equilibrio culturale sull’isola.
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Jodice. Ci scusi l’autore e ci perdoni la curatrice, ma è il caso di sottolineare come quello delle immagini sia un territorio noto e frequentato... mentre. Mentre l’allestimento scenico, nelle Stanze del Priore, della Certosa di San Giacomo, di Capri, con finestre che si aprono su visioni idilliache e ampi spazi che permettono di compiacersi appieno delle immagini, aggiunge il valore e lo spessore di un accostamento paesaggistico e ambientale non certo secondario. Nello specifico dell’eccezionale esposizione di Capri, Figure del mare, di Mimmo Jodice, si arricchisce di un allestimento che accarezza le stampe presentate alle pareti e accompagna il visitatore in una atmosfera paradisiaca, che allinea i soggetti delle fotografie al paesaggio che si rivela dalle finestre delle sale, affacciate su un mare, una natura e
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In cornice luci che aggiungono il sapore della realtà. Per non parlare, poi, delle sale spoglie, ma vive e palpitanti, che fanno da avvincente cornice. Insomma, fotografie che non soltanto si guardano, così come le si possono aver viste in tante altre occasioni, ma si respirano e si sentono respirare: dalla loro superficie, che ha fermato il Tempo e fissato lo Spazio, si approda allo scorrere degli istanti delle proprie vite personali, con emozioni palpitanti e coinvolgimento senza pari. Capri e la Certosa di San Giacomo introducono una visione sull’opera fotografica di Mimmo Jodice che accompagna l’osservatore al di là di una linea di demarcazione che la fotografia inevitabilmente introduce: dicotomia tra il suo essere raffigurazione (e rappresentazione) e non realtà. Invece, alla Certosa di San Giacomo, le fotografie di Mimmo Jodice sottolineano quanto intimo sia il viaggio di ogni autore, e quanto intima dovrebbe essere l’osservazione delle sue opere. Libertà di espressione e pensiero. Esperienza unica, che fa rimpiangere di non poter presentare più spesso la fotografia in cornici ambientali altrettanto coerenti e coinvolgenti. Una esperienza che vale la pena vivere. Beati coloro i quali hanno potuto viverla (noi tra questi); auguri alla Fondazione Capri per il successo della missione che si è prefissata, e che affida anche alla fotografia il proprio destino. ❖
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Notizie a cura di Antonio Bordoni
SISTEMA SONY α. Curiosa la personalità tecnica di Sony, che si muove nel mercato fotografico senza soluzione di continuità, animando tutti i comparti entro i quali agisce. Così, in un momento nel quale stupisce con la innovativa linea Nex, di compatte a visione Live View e tanto altro ancora, tiene alto anche lo spirito del sistema reflex Alpha. Nello specifico, tre nuovi obiettivi accrescono la gamma di obiettivi intercambiabili per reflex che si collocano a tutti i gradini commerciali. Come sempre, con ordine.
Il grandangolare Zeiss Distagon T* 24mm f/2 ZA SSM riprende i connotati di un disegno ottico tra i più leggendari della Storia; ovviamente, si propone per combinazioni fotografiche di intendimenti elevati, propri e caratteristici delle reflex Sony α di vertice, che si proiettano nell’ambito professionale. Tanto richiede la combinazione tra la casa giapponese e la tedesca Carl Zeiss, che di certo assolve soprattutto, o forse soltanto, esigenze e necessità di più alto livello. A fuoco da diciannove centimetri, offre anche le prestazioni di un diaframma circolare a no-
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ve lamelle, che crea efficaci sfocature là dove il fotografo capace ha intenzione di distribuirle. Altrettanto a focale grandangolare fissa (evviva!), il Sony DT 35mm f/1,8 SAM mette in campo due condizioni simultanee e coincidenti: la costruzione meccanica compatta e la generosa apertura relativa. Non viene meno la qualità fotografica, che si rivolge a coloro i quali conoscono la differenza tra semplificare tutto con uno zoom generico e concentrarsi nella composizione e inquadratura con un obiettivo a focale fissa: il trentacinque millimetri di tutte le stagioni. Analogamente, il medio tele Sony 85mm f/2,8 SAM, analogamente indirizzato e rivolto, garantisce le medesime prestazioni e concentrazioni fotografiche, nell’interpretazione di moderato avvicinamento con il soggetto: diciamo, nel ritratto e dintorni. (Sony Italia, via Galileo Galilei 40, 20092 Cinisello Balsamo MI).
lamente per file grezzi Raw acquisiti a 400 Iso di sensibilità equivalente, o superiore). In più, Macintosh offre anche i settaggi del bilanciamento del bianco, applicabili in batch, e un miglioramento della funzione di stampa. Inoltre, è altresì disponibile il firmware release 1.04 per la Sigma DP2 (http://www.sigmadp.com/DP2/firmware.html), che incrementa la velocità dell’autofocus. (M.Trading, via Cesare Pavese 31, 20090 Opera Zerbo MI).
In particolare, si registrano l’Auto-Panorama, per comporre insieme più scatti in un’unica visione panoramica, il Controluce, per immagini correttamente esposte anche se il soggetto ha il sole dietro le spalle, e Auto-tracking, per inseguire e mantenere il fuoco sul soggetto che si sposta rispetto al centro dell’inquadratura. Registrazione di filmati video 640x480 pixel, a trenta fotogrammi al secondo. (Fowa, via Tabacchi 29, 10132 Torino).
ANCORA OPTIO. La Pentax Optio M90 è una compatta di categoria standard, che spicca per la validità di funzioni operative evolute. Assolutamente semplice e semplificata, può essere comodamente utilizzata sia da fotografi con esperienza, sia da neofiti (e sono questi nuovi arrivi che arricchiscono il mercato della fotografia, proiettandone in avanti le potenzialità e possibilità commerciali). Esteriormente, si segnala subito il rivestimento metallico gommato e morbido al tatto, in due livree (nero e rosso borgogna), che conferisce un senso di raffinatezza; nel concreto tecnico: sensore con alta definizione di 12,1 Me-
MAMIYA 2: IL RITORNO. Dopo un breve periodo di assenza dal mercato italiano, il marchio Mamiya torna con un nuovo distributore unico: Image Consult, di Milano, che anticipa i termini di una strategia commerciale indirizzata al mondo della fotografia digitale medio formato, nel cui territorio agisce da tempo con servizi dedicati. Marchio storico della fotografia professionale medio formato, al cui interno, nei decenni, ha acquisito straordinari meriti, dal 2009 Mamiya si è alleata alla danese PhaseOne, per completare la propria migrazione nel mondo digitale. Attualmente, oltre gli apparecchi fotografici originariamente 4,5x6 e 6x7cm, Mamiya ha in catalogo i dorsi DM per la reflex 645DF, da ventidue, ventotto e trentatré Megapixel, rispettivamente Camera System DM 22 (sensore 48x36mm / 5356x5056 pixel), Camera System DM 28 (sensore 44x33mm / 6144x4622 pixel) e Camera System DM 33 (sensore 48x36mm / 6726x5040 pixel). (Image Consult, via Cavalcanti 5, 20127 Milano).
AGGIORNAMENTO SIGMA. In download, sono disponibili i Sigma Photo Pro Software 4.0 per Windows e Macintosh, per le apparecchi della serie DP e SD; agli indirizzi: Sigma DP2s, http://www.sigma-dp.com/DP2s /photopro.html; Sigma DP2, http://www.sigma-dp.com/DP2/ photopro.html; Sigma DP1, http://www.sigma-dp1.com/software/spp/; Sigma SD (SD9, SD10 e SD14), http://www.sigma-sd14.com/software/spp/. Windows e Macintosh condividono alcuni miglioramenti introdotti: compatibilità con i processori CPU Multi Core, nuovo algoritmo per l’elaborazione dell’immagine e l’aggiunta della funzione di riduzione del rumore (so-
gapixel, ampio e brillante monitor LCD da 2,7 pollici con 230.000 pixel di risoluzione, zoom ottico grandangolare 5x, equivalente all’escursione 28-140mm della fotografia 24x36mm, inevitabile riferimento d’obbligo, e ulteriore zoom digitale altrettanto 5x, per un ingrandimento totale 25x. La Pentax Optio M90 offre una efficace funzione di rilevamento del volto e diversificate modalità Smile Capture e Blink Detection (che avvisa se il soggetto ha chiuso gli occhi al momento dello scatto), che compongono il consistente pacchetto Scene, di venti opzioni tra le quali scegliere.
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Cinema
di Maurizio Rebuzzini - Ricerca iconografica di Filippo Rebuzzini
IN FORMA TERAPEUTICA?
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Diretto da Barry Levinston, su sceneggiatura di Ronald Bass e Barry Morrow, Rain Man è un film che ai tempi in cui uscì, fine 1988, suscitò non poche emozioni. Tutte sollecitate e sedotte dalla straordinaria interpretazione di Dustin Hoffman, nei panni dell’autistico Raymond Babbitt. Ottima anche la presenza di Tom Cruise, il fratello Charlie, e inconsistente (come sempre e al solito) quella dell’italiana Valeria Golino, nei panni di Susanna, la ragazza di Charlie, che accompagna i fratelli nel loro viaggio attraverso gli Stati Uniti. Al solito, qui e ora, come qui e sempre (in questo spazio redazionale dedicato, all’interno di una rivista dall’indirizzo altrettanto mirato, si fa per dire), non ci interessa tanto la storia del film, e neppure la sua brillante realizzazione cinematografica. Quanto, è scontato, il consueto retrogusto fotografico, che isoliamo dall’insieme e dal totale. Rapito dall’istituto nel quale è rinchiuso da anni, per una cura che è soltanto tutelativa e non approda a alcun miglioramento sanitario, peraltro irraggiungibile, l’autistico Raymond (interpretato da un credibile Dustin Hoffman, che per l’occasione studiò la propria parte per mesi e mesi) segue il fratello Charlie in un viaggio che li porterà ad attraversare tutti gli States. Percorrono autostrade pluricorsia e strade provinciali poco frequentate, allungandosi anche su tratti della celebre Route 66, una autentica leggenda, e attraversano città, paesi e villaggi. Non importa come lo fanno, e neppure ci interessa la sosta a Las Vegas, dove Raymond mette a frutto le proprie capacità matematiche di calcolo e previsione ai tavoli da gioco di un Casino. Piuttosto, ci attardiamo con la fotografia. E che altro!?
NEW DOCUMENTS? Esagerando un poco, ma neppure poco, e ne siamo consapevoli (oltre che convinti), richiamiamo le figure di fotografi del calibro di Lee Friedlander e Garry Winogrand, che l’attento
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Siamo all’inizio di Rain Man, regia di Barry Levinston (Usa, 1988). Charlie (interpretato da Tom Cruise) rapisce il fratello autistico Raymond (Dustin Hoffman), facendolo uscire dall’istituto nel quale vive. Tra le mani di Raymond, l’Instamatic che rappresenta l’unica mediazione tra lui e il mondo.
John Szarkowski, allora curatore del dipartimento fotografico del Museum of Modern Art, di New York, il celebre MoMA, mancato nel luglio 2007, a ottantuno anni, riunì insieme ad altri di analoga statura (successiva), accostandoli gli uni agli altri, nell’epocale collettiva New Documents, che nel 1967 stabilì i connotati di un nuovo passo della fotografia dal vero. Le richiamiamo per quanto di fotografico compie Raymond nel corso del cinematografico Rain Man. A parte altre sue ossessioni, una delle quali riguarda il baseball (citazione d’obbligo... almeno per noi), Raymond ha sempre tra le mani una Kodak Instamatic, attraverso la quale osserva il mondo e con la quale registra lo scorrere delle sue giornate. Alla fine del film, accanto i titoli di coda, scorrono le fotografie attribui-
bili a Raymond, che rivelano appunto un sapore forte, tutto statunitense, tutto riconducibile, eccoci!, a una certa fotografia New Documents e dintorni. Subito liquidiamo queste immagini, e più avanti parliamo d’altro. A parte essere significativamente accattivanti, lo riveliamo con sincerità, queste fotografie ingrandite sul grande schermo cinematografico confermano un’idea e opinione che abbiamo maturato da tempo: soprattutto se in bianconero, come in questo caso (e come nelle inquadrature di I tre giorni del Condor, rievocate nel maggio 2009), le fotografie nel cinema sono assolutamente e inviolabilmente affascinanti. Sicuramente appaiono meglio di quello che effettivamente sono; altrettanto certamente guadagnano nell’ingrandimento sullo schermo (oggigiorno mortificato dalla visione attraverso televisori domestici, per quanto grandi possano essere). Belle per la mediazione formale, come appena annotato, le fotografie sui titoli di coda di Rain Man, attribuibili al protagonista Raymond, lo sono anche per se stesse e in se stesse. Sono efficaci visioni di traverso della realtà, osservata con occhio vivo e partecipe, che si allungano dalle intenzioni dell’autore alla riflessione dell’osservatore.
TERAPIA? Ciò detto e rilevato, un’altra considerazione. La fotografia come terapia. Tra le mani dell’autistico Raymond, la piccola ed efficace Instamatic svolge un ruolo discriminante nel suo rapporto con la realtà, nel suo stare nella realtà. Con Mary Ellen Mark, celebre e celebrata fotogiornalista contemporanea, dalla postfazione alla sua raccolta American Odissey: «Dai miei primi giorni sulla strada, armata di macchina fotografica, sapevo che sarebbe stato così: sarei diventata fotografa. Questo infantile senso di eccitamento non mi ha mai abbandonato, come anche il piacere che riesce a darmi il contatto con le persone che fotografo.
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Cinema
Scattare fotografie può essere una contraddizione; perché, se da un lato la macchina fotografica facilita il contatto con il soggetto, dall’altro fornisce una necessaria distanza. A volte il mio lavoro si focalizza su aspetti di vita che sono molto difficili. Quando la macchina fotografica è tra me e il soggetto, spesso mi protegge da una situazione spiacevole, ma al tempo stesso mi permette di introdurmi in mondi altrimenti impenetrabili». Anche per l’autistico Raymond di Rain Man, soprattutto per lui, la macchina fotografica è ciò che lo protegge da situazioni spiacevoli e altrimenti incomprensibili; ma, allo stesso momento, la stessa macchina fotografica, averla tra le mani, portare il mirino all’occhio, gli permette di introdursi in mondi altrimenti impenetrabili alla sua sindrome. Per questo, fotografa dal finestrino dell’auto, lui che mai prima ci è salito, nella sala d’attesa di un medico, tra la gente. Insomma, fotografa ogni volta che lo svolgimento della vita irrompe nella sua esistenza. Film che si lascia vedere senza sovrastrati, se si vuole, Rain Man finisce per iscriversi anche in quel consistente casellario di sceneggiature e/o scenografie con convincente presenza fotografica. Da cui, una volta ancora, mai una di troppo, la nostra segnalazione, svolta in due direzioni, entrambe saldamente fotografiche. Oppure, no? ❖
Anche nell’attesa di una visita medica, Raymond si protegge, protegge la propria psiche, fotografando ciò che lo circonda: dettagli e visioni successivamente proposte sullo scorrere dei titoli di coda di Rain Man.
Accanto i titoli di coda di Rain Man scorrono fotografie attribuibili all’autistico Raymond, che rivelano un sapore forte, tutto statunitense, tutto riconducibile a una certa fotografia New Documents e dintorni.
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Ici Bla Bla a cura di Lello Piazza
SAVIANO: UNA PROVOCAZIONE? Se si imputano queste parole chiave «tobagi saviano max repubblica», su Google si trova un articolo di Benedetta Tobagi (figlia del giornalista Walter Tobagi, ucciso dalle Brigate Rosse il 28 maggio 1980), che condivido totalmente e che critica duramente Andrea Rossi, direttore di Max, per aver pubblicato, nel numero dello scorso luglio, un fotomontaggio nel quale appare il corpo di Roberto Saviano apparentemente ritratto in obitorio [qui sopra]. Commentando se stesso, Andrea Rossi afferma: «Ho voluto fare una provocazione». Bene! Sono stanco di persone che, perché probabilmente prive di idee, hanno bisogno di provocare affinché si parli di loro. Basta. È troppo triste questo stato dell’arte degli intellettuali italiani (sì, perché i giornalisti, se non sono intellettuali, che altro sono?).
A ALEX MASI, LO SCHOLARSHIP ALEXANDRA BOULAT 2010. Il giovane fotografo italiano Alex Masi, formatosi professionalmente al corso di laurea in fotogiornalismo presso il London College of Communication, di Londra, ha vinto il premio Alexandra Boulat 2010, intitolato alla fotogiornalista prematuramente scomparsa nel 2007 [FOTOgraphia, no-
Provocazione, oppure solo stoltezza (più probabile)? In Max, di luglio, fotomontaggio nel quale appare il corpo di Roberto Saviano apparentemente ritratto in obitorio. (a destra) È mancato Andrea Ghisotti, uno dei più bravi fotografi e cineoperatori subacquei italiani. Nella sua carriera fotografica, Andrea Ghisotti ha scoperto e esplorato oltre trecento relitti.
Alex Masi ha vinto il premio Alexandra Boulat 2010. Il suo più recente reportage, Open Wounds: Bhopal 1984-2009, del quale fa parte questa immagine, si è affermato in campo internazionale.
vembre 2007], che gli garantisce la partecipazione come ospite all’edizione 2010 dei Toscana Photographic Workshop (www.tpw.it), l’ente promotore del premio. Alex Masi è un giovane fotografo italiano (classe 1981), molto brillante, per il quale l’inizio del 2010 ha rappresentato un momento felice. Oltre quanto appena citato, in aprile ha vinto il primo premio nella categoria Daily Life Singles al China International Press Contest 2010 (Chipp). Sempre in aprile, è stato inserito nel Photo District News Photo Annual, per il suo lavoro Open Wounds: Bhopal 1984-2009 sulle conseguenze che la città di Bhopal (India) ancora patisce a causa dell’esplosione avvenuta nel 1984 presso l’impianto chimico della multinazionale americana Union Carbide, che provocò all’istante più di diecimila morti (secondo fonti non ufficiali) e che, a oggi, si calcola sia la responsabile di circa mezzo milione di decessi [in basso, a sinistra]. Per lo stesso lavoro, Alex Masi è stato selezionato tra i giovani fotografi del 2nd Lumix Festival for Young Photojournalism, a Hannover (Germania). Altri premi e riconoscimenti del 2010: Honourable Mention al Julia Dean New Documentarian Award; premio speciale della giuria al Days Japan International Photojournalism Awards; secondo premio nella categoria Feature Picture of the Year al PGB Award 2010. Il lavoro di Alex Masi è stato pubblicato da molti giornali, tra i quali The New York Times, Time Magazine, The Guardian G2 Supplement, Vanity Fair, El País Semanal, Suddeutsche Zeitung Magazin, Newsweek, Le Figaro Magazine e D - La Repubblica delle Donne. Consigliata una visita al suo sito: www.alexmasi.co.uk.
Questa rubrica riporta notizie che sono appartenute alla cronaca. Però, nel loro richiamo e riferimento molti motivi ci impediscono di essere tempestivi quanto la cronaca richiederebbe. Ciononostante riteniamo giusto proporle, perché siamo convinti che non abbiano perso la propria attualità, e continuino a offrire spunti di riflessione. Dolce, pacato, disponibile Andrea Ghisotti è stato una delle belle figure del mondo della fotografia naturalistica italiana. Negli ultimi trent’anni ha collaborato con tutti i principali periodici italiani, come Mondo Sommerso, appunto, Airone, Epoca, Focus e molti altri. Come autore o coautore, ha pubblicato ventidue libri dedicati alle tecniche subacquee, molti dei quali hanno avuto edizioni straniere, per Francia, Germania, Russia, Spagna, Inghilterra. Tra questi, ricordiamo due volumi di grande successo: Mar Rosso, Edizioni White Star (2005), libro strenna tutt’ora venduto in tutto il mondo, e la Guida al Mar Rosso, ancora Edizioni White Star, che ha superato le duecentocinquantamila copie. Per la televisione, Andrea Ghisotti ha collaborato alla realizzazione di programmi naturalistici, come Vivere il Mare, quattordici puntate in on-
STRAORDINARIO FOTOGRAFO SUBACQUEO. Si è spento Andrea Ghisotti, non ancora sessant’anni, uno dei più bravi fotografi e cineoperatori subacquei italiani, uno dei pionieri che ha insegnato a migliaia di appassionati ed è stato loro di esempio, nella sua lunga carriera professionale, iniziata nel 1978, quando vende a Mondo Sommerso il suo primo servizio [a destra].
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Ici Bla Bla da su RaiDue incentrate sui relitti del Mar Rosso settentrionale, ed è stato autore e protagonista della trasmissione Abissi, dodici puntate, sempre su RaiDue, dedicate alla subacquea e all’esplorazione di relitti in Mediterraneo e Mar Rosso. I relitti sono stati la sua specialità [a pagina 17]. Tra gli oltre trecento che ha scoperto e esplorato, ricordiamo l’Andrea Doria (2000, terza spedizione italiana sul nostro transatlantico), la Torpediniera Chinotto (2002 e 2003, ritrovamento e prima esplorazione mondiale sulla torpediniera nelle acque siciliane, a cento metri di profondità), il Traghetto Espresso Trapani (2003, su un fondale di centocinque metri), l’incrociatore Diaz (2004, il primo incrociatore italiano ad essere stato trovato ed esplorato sott’acqua), la nave di Garibaldi (2004 e 2005, ritrovamento alle Tremiti). Nel 2003, Andrea Ghisotti ha ricevuto il Tridente D’Oro 2003 dalla Accademia Internazionale di Scienze e Tecniche Subacquee, una specie di nobel delle attività subacquee.
SINDONE: DUBBI O CERTEZZE? Il ventitré maggio scorso si è concluso il Foto-Diario, una cronaca per immagini a cura di Epson e Nikon, che ha accompagnato i quarantacinque giorni durante i quali la Sacra Sindone è stata esposta alla adorazione dei fedeli [qui sotto]. Le oltre novecento fotografie realizzate si possono vedere all’indirizzo: http://www.sindone.org/santa_sindone/multimedia/00025219_FotoDiario_un_racconto_lungo_45_giorni.html. A complemento, ricordia-
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mo che il capitolo delle fotografie della Sacra Sindone, avviato con la documentazione realizzata da Secondo Pia, nel maggio 1898, è estremamente diversificato, oltre che avvincente. La più recente rilevazione sistematica è stata realizzata dalla società novarese Haltadefinizione / Hal9000 [FOTOgraphia, maggio 2010], nel gennaio 2008, con il supporto di Nikon-Nital. Il Foto-Diario è stato realizzato a cura di due associazioni fotografiche torinesi: la Sezione Fotografica del Circolo Ricreativo Dipendenti Comunali di Torino e il Gruppo Fotografico dell’Associazione Ex Allievi Fiat. Le altre cifre dell’evento: oltre due milioni i visitatori provenienti da tutto il mondo; quasi sedicimila pullman arrivati in città; trentanovemilaottocento i disabili; millecinquecentottantotto i giornalisti accreditati (milletrecentotredici italiani e duecentosettantacinque stranieri); centocinquantasette le emittenti radiotelevisive coinvolte. Dal 19 ottobre 2009 a fine maggio 2010, il sito ufficiale dell’Ostensione della Sindone (www.sindone.org) ha registrato oltre dieci milioni di pagine visitate. Come è noto, e ormai sostanzialmente accettato anche dalla Chiesa, la Sindone non è il lenzuolo nel quale è stato avvolto il corpo di Gesù. Vorrei ricordare che la Sindone di Torino è una delle quarantatré Sindoni delle quali si ha notizia, molte andate distrutte; una in particolare, quella di Besançon (Francia), è stata distrutta per ordine del Comitato di Salute Pubblica, durante la Rivoluzione Francese. Quella di Torino apparve per la prima volta nel 1353, presso Troyes, in Francia. A questo proposito, sono documentati il memoriale che il vescovo di Troyes inviò nel 1389 al papa, dichiarando che il telo era stato artificiosamente dipinto in modo ingegnoso. Nel 1390, in seguito a questa comunicazione, Clemente VII emanò quattro bolle, con le quali ne permetteva l’ostensione, ma ordinava di «dire ad alta voce, per far cessare ogni frode, che la suddetta raffigurazione o rappresentazione non è il vero Sudario del Nostro Signore Gesù Cristo, ma una pittura o tavola fatta a raffigurazione o imitazione del Sudario».
Oltre a questa documentazione storica, c’è la datazione al radiocarbonio, effettuata nel 1988 da tre laboratori di Oxford, Tucson e Zurigo, su incarico della diocesi di Torino e del Vaticano: la data di confezione della tela si situa tra il 1260 e il 1390. Anche il papa, in visita alla Sindone il due maggio, ha rilasciato una intervista nella quale mai parla di reliquia, ma di «sacro telo», di «icona scritta col sangue, sangue di un uomo flagellato, coronato di spine, crocifisso e ferito al costato destro». Dunque, un sacro simbolo e non la reliquia di un telo dove è stato avvolto Gesù.
DUBBIO O CERTEZZA, MA DI MINORE IMPORTANZA. In molti co-
Foto-Diario è stata una cronaca per immagini a cura di Epson e Nikon, che ha accompagnato i quarantacinque giorni durante i quali la Sacra Sindone è stata esposta alla adorazione dei fedeli.
Angelo Mereu sostiene che in questa sua fotografia di una vetrata della basilica di San Pasquale, un paesino tra Santa Teresa di Gallura e Palau, scattata in Sardegna nel settembre 2009, si indovina una figura nel lato sinistro dell’immagine. Non ne siamo convinti. Ma!
nosciamo il bravo fotografo Angelo Mereu, del quale ci siamo spesso occupati in FOTOgraphia, un personaggio che la fotografia ce l’ha nel sangue, per quanto non la eserciti per professione. Con il carissimo amico, è nata una discussione su una immagine che ha scattato nel settembre 2009, in Sardegna, sua terra di origine. La fotografia ritrae una vetrata della basilica di San Pasquale, un paesino tra Santa Teresa di Gallura e Palau. Angelo Mereu sostiene, e non c’è verso di convincerlo del contrario, che si indovina una figura nel lato sinistro dell’immagine (che abbiamo cercato di evidenziare nella interpretazione in toni modificati [qui sotto]). A noi sembra invece evidente la presenza di una libreria dietro la vetrata (la cui esistenza Angelo Mereu nega recisamente), ed è questa a creare sul vetro un riflesso che assomiglia a una figura. Certo, se la libreria effettivamente non esistesse, allora bisognerebbe ammettere un mistero. Ma, per favore caro amico, non gridare al miracolo. Ci basta già la Sacra Sindone.
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Ici Bla Bla Una delle ultime fotografie scattate da Fabio Polenghi, a Bankok, prima di essere ucciso dall’esercito governativo.
FOTOGIORNALISTA APPASSIONATO. Il diciannove maggio, per le strade di Bangkok, durante l’assalto finale dell’esercito alle Camicie Rosse, che protestavano da giorni contro il governo, ha perso la vita uno dei fotogiornalisti italiani più appassionati, Fabio Polenghi [qui sopra]. Quarantacinque anni, viveva a Milano, e faceva spesso base dai genitori. Riporto quanto scrive di lui il giornalista Marco Ferrero, sul sito http: //www.ufficiostampatorino.com/2010 /05/fabio-polenghi/: «Io non conoscevo Fabio [Polenghi], ma conosco molti giornalisti e so che il giornalismo è una passione, prima che un mestiere. È il piacere di essere testimone dei fatti e di poterli raccontare. Prima degli altri, se possibile. È una passione che deriva dalla curiosità di capire il mondo. Fabio era lì, spinto da questa passione. Non ce l’aveva mandato nessuno e, in fondo, fare il reporter di guerra non era nemmeno il suo mestiere. Ma non era né ingenuo, né inesperto, e sono sicuro che sapesse bene di correre dei grossi rischi e magari avesse anche un po’ di paura. Però, immagino che sentisse che quello era il suo posto, in quel momento, e che fosse anche contento di essere lì, a testimoniare la storia. E allora io credo che dovremmo ricordarlo non solo con affetto, ma soprattutto con gratitudine. Perché sono gli uomini come lui, in cui la passione per la conoscenza è talmente forte da vincere persino la paura della morte, che hanno, da sempre, contribuito a cambiare, in meglio, la storia del nostro mondo». Fabio Polenghi era free lance dal
2004. Aveva lavorato prima nella moda, poi per importanti agenzie, prima fra tutte Grazia Neri, e per varie testate, tra le quali Vanity Fair, Vogue, Marie Claire e Elle. Aveva esplorato una settantina di paesi, soprattutto l’America centrale e meridionale. Per amore e passione, ha collaborato con Emergency, dove ricordano la bellezza delle sue fotografie [qui sopra]. Di quella giornata sanguinosa a Bangkok, ho raccolto la testimonianza di Andrea Pistolesi, altro fotografo giramondo, però più impegnato nella documentary photography, che non nel reportage di guerra. «Io ero a circa un chilometro da dove è morto Fabio Polenghi. Lui si trovava lì, esattamente dove l’esercito ha sferrato il suo attacco contro le Camicie Rosse, probabilmente senza volerlo, perché tutto era così imprevedibile. Io non sapevo cosa stesse succedendo esattamente, ma le voci cominciavano a girare. Girava anche la voce che Reuters avesse ordinato a tutti i propri fotografi presenti, senza un training militare specifico, di ritirarsi. Io non ho esperienza di guerra: per esempio ero in mezzo ai militari, ma non capivo cosa si dicevano, non sapevo interpretare le loro mosse. A un certo punto, mi sono trovato anch’io in mezzo alle pallottole che fischiavano. Ho certamente sbagliato per inesperienza. Poi, sono scoppiate due granate vicino a me, senza fare danni. Non si capiva chi le avesse lanciate, se i militari o le Camicie Rosse. Non si capiva più niente. Ma dopo lo scoppio c’è stata una pausa rassicurante e io ne ho approfittato per allontanarmi».
SE MI CADE L’ECONOMIST. Sulla copertina del diciannove giugno del prestigioso settimanale inglese è avvenuto l’ennesimo ritocco. Barack Obama, presidente degli Stati Uniti, è stato isolato in una fotogra-
Fabio Polenghi, free lance, è stato ucciso il diciannove maggio, a Bangkok, durante l’assalto finale dell’esercito alle Camicie Rosse, che protestavano da giorni contro il governo.
Economist, del diciannove giugno: rispetto la fotografia originale di Larry Downing (Reuters), sono stati eliminati i personaggi accanto al presidente Barack Obama.
fia scattata da Larry Downing (Reuters). Sulla immagine originale, Obama è con Thad Allen, ammiraglio della Guardia Costiera americana, in pensione dal trenta giugno, che è rimasto in servizio per il disastro ambientale della piattaforma petrolifera Deepwater Horizon, il cui sversamento massivo di petrolio nelle acque del Golfo del Messico è iniziato il venti aprile, e Charlotte Randolph, presidente della Parrocchia Lafourche, nel sud della Louisiana, che si affaccia sul Golfo del Messico. La Randolph e Allen sono stati eliminati dalla fotografia [qui sotto]. L’alterazione è stata denunciata dal New York Times sul suo sito. A questo proposito, Emma Duncan, assistente del direttore responsabile dell’Economist, ha dichiarato: «Spesso editiamo le immagini che usiamo sulla copertina. Per due ragioni. Una potrebbe essere quella di realizzare un intervento molto evidente per fare dell’ironia. Un esempio? La copertina del ventisette marzo, dove abbiamo aggiunto una benda sulla testa di Barack Obama, per enfatizzare le sue preoccupazioni a proposito della sua legge sul Welfare. Oppure, come in questo caso, dove la presenza di due personaggi sconosciuti al grande pubblico, come la Randolph e Allen, avrebbero confuso il lettore. Ma noi non interveniamo mai su un’immagine con lo scopo di realizzare un’informazione falsa».
LA TOMBA DEL PROFESSIONISMO? ECCOLA! Il prezioso amico Guido Alberto Rossi ci segnala un invito apparso sul sito di Getty: «Ogni giorno, nuovi fotografi e illustratori vengono scoperti grazie alla collezione Flickr, su gettyimages.it. Un nuovo trampolino di lancio per dare alla tua creatività lo spazio che merita. Uno dei numerosi protagonisti di questo successo ci racconta la sua storia. «Trovato: Steph Goralnick / Città: New
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Ici Bla Bla entrate pubblicitarie. Non va meglio ai periodici, passati -nello stesso periodo- dal quindici all’undici percento (dal 15 all’11 percento). Ne traggono beneficio la televisione (passata dal cinquantuno al cinquantaquattro e mezzo percento: dal 51 al 54,5 percento) e la radio (dal quattro e sei percento al cinque e cinque percento; dal 4,6 al 5,5 percento); ma soprattutto Internet, che dieci anni fa pesava per meno dell’uno percento (0,8 percento), e ora si accaparra il sette e tre percento (7,3 percento) del 2009. La conclusione dell’Osservatorio definisce “il paradosso dell’informazione in rete”: «un’informazione gratuita, che viene prodotta non certo gratuitamente». Siamo convinti che, per quanto riguarda la gratuità, non possa andare avanti così. Rupert Murdoch, con i suoi quotidiani, tra i quali il prestigioso Wall Street Journal, ha cessato di permettere gratuitamente la consultazione delle notizie online: adesso si paga. Ha anche perso l’ottanta percento degli utilizzatori dei siti, ma questa, secondo me, è la strada giusta.
York / Professione: Fotografa/grafica. «Scattai questa foto[grafia] durante una festa sulla spiaggia. L’idea era di aspettare l’alba, per poi tuffarci nell’oceano al sorgere del sole, per una nuotata celebrativa. L’unico problema era l’Atlantico, che dopo una fredda nottata settembrina non è proprio il massimo. L’artista del fuoco nella foto[grafia] è il mio amico William, che si offrì per scherzo di scaldare l’acqua per far trovare ai meno avventurosi di noi un “bagno caldo” in cui immergersi. Mi piace fotografare momenti come questo, che hanno il potere di spingere lo spettatore a trarre le proprie conclusioni e creare una narrazione personale e unica. Sono fortunata ad avere intorno a me amici di grande talento, sempre disposti a creare situazioni interessanti e inusuali. Ad essere sincera, non avevo mai pensato di distribuire le mie fotografie come immagini di stock. La collezione Flickr su gettyimages.com mi ha dato l’opportunità di provare in modo semplice ed immediato». Purtroppo, non abbiamo la fotografia alla quale l’intrepida Steph si riferisce. Ma basta quello che dice, e anche come lo dice, per intuire come siano cambiate le cose nel mondo della professione fotografica!
GIORNALI IN PICCHIATA. Dal Rapporto 2010 sull’industria italiana dei quotidiani, realizzato dall’Osservatorio Tecnico per i Quotidiani e le Agenzie di Stampa Carlo Lombardi, emerge che le tirature che nel 2006 ammontavano a quasi otto milioni di copie, sono scese a poco più di sette milioni (7,1, per l’esattezza), mentre le vendite in edicola sono scese da cinque milioni e mezzo a quattro milioni e ottocentomila copie (da 5,5 a 4,8 milioni). Il Corriere della Sera ha perso novantamila copie in un solo anno, Il Sole 24 Ore ne ha perse cinquantaduemila e Repubblica cinquantatremila. Ancora più allarmanti i dati che riguardano l’occupazione: dai dodicimila cinquecento addetti del 1990 si è passati ai seimila duecento del 2009 (da 12.500 a 6200). Insomma, la forza lavoro impiegata dai quotidiani si è dimezzata in meno di venti anni. Dal 2000 al 2009, i quotidiani (cartacei) perdono il sei percento delle
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TORINO DALLO SPAZIO, CON NIKON. Abbiamo già dato notizia
Affascinante visione di Torino, dallo spazio. Fotografia Nasa, ripresa con reflex Nikon, della città nella quale ha sede il distributore italiano Nital.
del fatto che la Nasa (National Aeronautics and Space Administration), l’agenzia governativa statunitense responsabile del programma spaziale, ha selezionato reflex Nikon da portare nello spazio, in particolare la D3s, con obiettivo AF-S Nikkor 14-24mm f/2,8G ED. Ne riparliamo perché troviamo buffo e divertente che tra le settecentomila immagini scattate dalla stazione spaziale ce ne sia una che mostra Torino, dove ha sede Nital, distributrice del marchio Nikon in Italia [qui sotto].
Ricordiamo che la partnership della Nasa con Nikon è iniziata nel lontano 1971, quando una Nikon Photomic Ftn venne utilizzata sull’Apollo 15.
TIM HETHERINGTON: DALLA FOTOGRAFIA AI DOCUMENTARI. Tutti ricordano la desolazione di quel soldato americano in un presidio militare in Afghanistan, fotografato da Tim Hetherington: World Press Photo of the Year 2008 [FOTOgraphia, aprile 2008]. Lo scorso venticinque giugno, in collaborazione con Sebastian Junger, Tim Hetherington ha vinto un altro premio prestigioso: il Grand Jury Prize for Documentary films, all’edizione 2010 del Sundance Film Festival, che si tiene a Park City, nello Utah (Usa). Si tratta di Restrepo, presto in distribuzione nelle sale cinematografiche statunitensi (chissà se e quando in Italia?), un documento giornalistico di grande intensità sulla guerra in Afghanistan. Il documentario è stato girato nel 2007, presso un avamposto dell’esercito americano nella valle di Korengal, durante un periodo nel quale Tim Hetherington e Sebastian Junger erano embedded con la 173esima Brigata Aviotrasportata. Il trailer a http://www.restrepothemovie.com/#/ screenings.
RICONOSCIMENTO NATIONAL GEOGRAPHIC. Il Grant di trentamila dollari, che ogni anno il National Geographic assegna a un progetto in corso di realizzazione, è andato a Lu Guang, quarantottenne fotografo originario di Pechino, che si è già aggiudicato i trentamila dollari del premio Eugene Smith 2009 [FOTOgraphia, dicembre 2009]. Il tema del progetto di Lu Guang è lo stesso che gli è valso lo Eugene Smith, cioè lo stato dell’arte dell’ambiente in Cina, enormemente stressato dalla rapida e quasi esplosiva crescita economica [pagina accanto]. Lu Guang è stato scelto tra settantasette concorrenti, in relazione a una indicazione di National Geographic, che ha suggerito la riflessione alla quale rispondere: invogliare la gente a preoccuparsi dello stato del pianeta. Ricordiamo che Lu Guang ha cominciato la sua carriera come fotografo dilettante, nel 1980, quando era an-
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Ici Bla Bla cora un operaio, e ha cominciato a documentare lo stato dell’ambiente cinese dalla metà degli anni Novanta. Annotiamo, infine, che il premio è sempre stato di cinquantamila dollari, ma è stato abbassato a trentamila a causa della crisi economica. Nelle precedenti edizioni sono stati premiati Eugene Richards (2007), Jonas Bendiksen (2008) e Alessandra Sanguinetti (2009).
NO AL NUCLEARE. Il Circolo Arci Vittorio Zambarda, in via Orti 1, a Salò, in provincia di Brescia, è dedicato a una delle vittime della strage di piazza della Loggia, a Brescia, avvenuta il 28 maggio 1974, a opera di neofascisti. Il quindici giugno scorso, presso il Circolo, è stata inaugurata la mostratestimonianza Cartoline da Cernobyl, a cura di Mondo senza Guerre e senza Violenza, un’organizzazione volontaria che ha sede proprio a Brescia. In occasione della inaugurazione si è tenuto un dibattito sul tema della reintroduzione del nucleare in Italia, al quale hanno partecipato, tra gli altri, Gianni Lannes (giornalista, direttore dal giugno 2009 del giornale online Italiaterranostra.it) e Piero Giorgi (biologo dell’Università di Bologna, PhD in neurologia alla University of Newcastle, Gran Bretagna).
Il Grant di National Geographic è stato assegnato al cinese Lu Guang, per proseguire la sua documentazione sullo stato dell’arte dell’ambiente in Cina, enormemente stressato dalla rapida e quasi esplosiva crescita economica. (a destra) Giovanni Giachi, per tutti Giachi, universalmente considerato il più grande venditore di fotografie, che ha lavorato sempre all’Agenzia Grazia Neri (a sinistra in questo ritratto di gruppo, con Grazia Neri a destra), è mancato questa estate.
Fotografia di Oded Balilty, da Cartoline da Chernobyl, mostra-testimonianza a cura di Mondo senza Guerre e senza Violenza, allestita a Salò, in provincia di Brescia, al Circolo Arci Vittorio Zambarda.
In apertura dei lavori, Tiziana Volta, uno dei volontari più attivi della associazione organizzatrice, ha dichiarato: «Faccio parte dell’associazione internazionale umanista Mondo senza Guerre e senza Violenza, conosciuta sul territorio bresciano per aver promosso insieme ad altre realtà che si ispirano alla nonviolenza, la prima Marcia Mondiale per la pace e la Nonviolenza [la sezione italiana è partita da Trieste, l’8 novembre 2009, e si è conclusa a Roma, il dodici novembre, toccando Milano, Torino, Genova, Bologna, Firenze e Napoli]. «In questi mesi, tutti abbiamo sentito e letto del grande dibattito che c’è sul ritorno al nucleare come fonte di energia. Ci siamo mai soffermati un momento a riflettere su tutto questo, a capire che cosa sta accadendo intorno a noi, sempre così presi dalle nostre quotidianità? Affrontare tematiche come questa non è semplice, soprattutto per chi, come me, è a digiuno di nozioni tecniche. Certo, si è informati; ma entrando nello specifico si rischiano valutazioni approssimate. Però, ogni tanto, bisognerebbe fermarsi a riflettere, partendo da quel che è già stato. «Per questo tipo di riflessione, è nato il progetto fotografico di Cartoline da Chernobyl. Le immagini che vedete sono frutto di due lavori; uno fa parte di una mostra curata da Greenpeace, e l’altra dal fotografo israeliano Oded Balilty (premio Pulitzer 2007 per la fotografia Breaking News [a sinistra]). Sono immagini realizzate per il ventennale del disastro atomico. Molto toccanti, soprattutto quando ritraggono i bambini nati dopo il 1986».
SCOMPARE UN MITICO VENDITORE. Erano tempi nei quali accadevano fatti di questo genere, che la mitologia della fotografia milanese tramanda. È l’inizio dell’estate di un anno imprecisato. Giovanni Giachi, per tutti Giachi, che lavora con Grazia Neri nell’omonima Agenzia, viene chiamato dal direttore di un settimanale che gli chiede la fotografia di un cane abbandonato sul bordo dell’autostrada. Giachi dice: «Va ben, fem sett (va bene facciamo sette)». Il direttore risponde: «No, dai Giachi, sette milioni no!». E Giachi, che intendeva settecentomila lire, risponde pronto: «Perché ta se ti, fem do (per-
ché sei tu facciamo due... milioni)». Giachi parlava quasi esclusivamente dialetto milanese, ed era di una simpatia calma, profonda; gli si voleva immediatamente bene, perché si capiva che lui era la bontà in persona. Grazia Neri lo ricorda così: «Lavoravamo insieme per la News Blitz. Il capo se n’era andato, lasciandoci in una confusione totale, e Giachi mi propose di creare una struttura tutta nostra. Quando gli feci notare che non avevamo una lira, lui mi disse che per aprire un’agenzia non servivano soldi. E ha avuto ragione. Incantava i direttori, e i direttori avevano bisogno di lui perché si fidavano del suo naso, del suo capire se un servizio interessava o no. Vendeva le fotografie senza guardarle. Io gliele raccontavo: c’è questo servizio, si vede questo, si vede quell’altro. Lui andava dai direttori e diceva: c’è questo servizio, si vede questo e si vede quell’altro. Questa la considero la cosa più straordinaria di Gianni Giachi» [qui sopra]. Tutto questo mondo non esiste più, lo sappiamo bene, e da qualche giorno non esiste più neppure il brillante testimone di questa epoca. Ancora Grazia Neri: «Ha cominciato vendendo lampadine ed è diventato il più grande venditore del mondo di fotografie». Addio, caro Giachi.
CORBIS CHIUDE LA PIÙ GRANDE AGENZIA FOTOGIORNALISTICA DEL MONDO. Creata nel 1973 da Hubert Henrotte e acquistata dalla Corbis (di proprietà di Bill Gates) nel 1999, l’agenzia Sygma ha dichiarato fallimento alla fine dello scorso maggio. La goccia che ha fatto traboccare il vaso è stata una serie di cause di risarcimento da parte di fotografi che denunciavano lo smarrimento dei propri originali da parte dell’agenzia. In particolare, la mazzata definitiva è rappresentata
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Ici Bla Bla dal fatto che un tribunale francese ha accolto la richiesta di un milione e mezzo di euro che il fotografo francese Dominique Aubert, ex Sygma, ha avanzato per la perdita di settecentocinquanta suoi originali. Sono stati licenziati ben ventinove dipendenti. E molti creditori non vedranno i loro denari. Uno dei tanti disastri del mondo fotografico di oggi. Ma come è possibile che le cose siano sfuggite di mano così?
IL VIZIETTO DI PANORAMA. Pensavamo che fossero passate le abitudini degli anni Ottanta e Novanta, decenni nei quali Furio Colombo, allora decano dei giornalisti di New York, in un suo reportage dagli Stati Uniti scriveva che si vergognava in aereo a sfogliare Panorama e L’Espresso, perché le rispettive copertine, sempre e immancabilmente dedicate a femmine procaci, le facevano scambiare per riviste hard [e il sagace Cuore pubblicava la classifica settimanale della quantità di tette e culi apparsi sulle copertine dei newsmagazine italiani]. Invece, no: qualcuno insiste ancora. Non L’Espresso, che è tornato a dedicare le copertine a storie di cronaca. In affinità con il TG1 Rai, di Augusto Minzolini, nel numero del dieci giugno, Panorama, settimanale un po’ più frivolo (ormai), vuol farci credere che il fatto più importante della settimana (a livello planetario) sia quanto accaduto a Brigitta Bulgari, arrestata dopo uno spogliarello integrale, nel quale ha fatto finta di essere travolta dalla libidine, messo in atto in ore piccole in una discoteca della provincia di Treviso [qui sotto].
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Brigitta Bulgari rischierebbe dodici anni di carcere. Ora, sul fatto che questo arresto sia esagerato non ho dubbi, dal momento che andrebbero prima arrestati i responsabili di molte trasmissioni televisive, tipo La pupa e il secchione o Uomini e donne over, che vanno in onda in orario protetto. Ma la copertina di uno dei più importanti newsmagazine italiani? Ma per piacere. Dietro queste sparagnocche esibite in copertina si nasconde spesso dell’altro. Sempre.
IL GRIN E LA SCOMPARSA DI AMEDEO VERGANI. La storia di Edipo che uccide suo padre (senza sapere che lo fosse) e sposa sua madre (senza sapere che lo sia) è una vicenda ovviamente un po’ più complicata di quella della quale sto per riferire. Ma trovo indecente che il Grin (Gruppo Redattori Iconografici nazionale), a distanza di tre mesi, non abbia ancora trovato lo spazio sul proprio sito per ricordare Amedeo Vergani, mancato il due maggio [FOTOgraphia, giugno 2010]. Il Grin esiste grazie ad Amedeo Vergani (e a Marco Capovilla, di Fotografia & Informazione). Senza il seme di Amedeo Vergani, il Grin non sarebbe mai nato. Certo, è stato un padre severo, con molte pretese e molte critiche sull’operato del Grin. Ma, di fronte alla morte, dimenticare il padre è un fatto indecente. Capito bene? Indecente. Ammirevole invece la commemorazione di Marco Capovilla, sul sito di Fotografia & Informazione.
IL CONCETTO DI “INEDITE”. Lo scorso venti aprile, un’esplosione nel Golfo del Messico dà inizio alla più grande catastrofe ecologica che si ricordi. Milioni e milioni di tonnellate di petrolio grezzo si riversano ogni giorno nell’oceano, a causa di un incidente avvenuto durante lavori di manutenzione, su una piattaforma della British Petroleum. Il ventisei aprile, La Stampa pubblica in prima pagina la piattaforma ritratta subito dopo l’esplosione, con il credito Polaris-Masi (come al solito manca il nome del fotografo, che, probabilmente, in questo caso, non è neppure un professionista). Il cinque maggio, nove giorni dopo, La Repubblica ripubblica la stessa fo-
Prima pagina della Stampa, del ventisei aprile; pagina diciassette di Repubblica, del cinque maggio, che vanta come inedita la stessa fotografia.
tografia (oltre a una seconda, poco dissimile), relegandola a pagina diciassette e millantandola come inedita [in accostamento, qui sopra]. Errare umanum est. Ma Repubblica, che per altro fa sempre un buon lavoro con le immagini, è pur sempre il primo quotidiano italiano: un po’ più di attenzione, no?
ANCORA SUI DEBITI DI ANNIE LEIBOVITZ. Abbiamo già riferito del-
Panorama è tornato ai propri splendori (?) dei decenni scorsi, con una copertina che finalizza un pretestuoso richiamo in chiave erotica. La notizia è banale, ma l’immagine avvincente: la pornostar Brigitta Bulgari.
le difficoltà economico-finanziarie della strafamosa e strapagata fotografa americana Annie Leibovitz. Difficoltà che hanno avuto inizio col prestito chiesto ad Art Capital Group, nel settembre 2008, per far fronte alle richieste dei suoi creditori. Diamo ora notizia del fatto che, alla fine dello scorso maggio, Ken Starr, l’ex consigliere finanziario della fotografa, è stato arrestato a New York con l’accusa di aver utilizzato per scopi personali circa trenta milioni di dollari dei suoi clienti (poco più di ventiquattro milioni di euro, al cambio attuale). Non è chiaro se la fotografa sia tra le vittime di Ken Starr. Ma è certo che fu lui a presentarle gli uomini dell’Acg. Che Annie Leibovitz sia stata vittima di una frode? ❖
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C Galleria fotografica, libreria specializzata (fotografia e dintorni), negozio di abbigliamento e contorni, ristorante e bar: 10 corso como, a Milano. Straordinario indirizzo del costume, creato da Carla Sozzani.
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GIOVANE V
di Lello Piazza
thorne, l’indimenticabile autore di La lettera scarlatta e di La casa dei sette abbaini. Ma non ho mai fatto il professore di inglese. «Sono entrata subito nei giornali. Facevo il redattore delle pagine di moda per alcune riviste e, nel 1976, sono diventata direttore dei numeri speciali di Vogue Italia. Nel 1987, ho lanciato l’edizione italiana di Elle, prendendone la direzione. Un anno dopo, come se avessi un presentimento, ho aperto la mia casa editrice Carla Sozzani Editore. Infatti, dopo quattro numeri e una copertina, anzi forse proprio a causa della copertina, a Elle non mi hanno più voluta».
C
arla Sozzani, pelle di pesca e occhi lucenti, sta seduta davanti a me, nella sua wunderkammer, una grande stanza rettangolare, luogo proibito ai più, dove sono raccolte una miriade di piccole meraviglie, e dove, sulle pareti, stanno appese decine di fotografie, da quelle che appartengono alla Storia, come l’autoritratto di Man Ray con e senza barba, e come un’immagine inquietante di Helmut Newton, ad altre, magari poco conosciute, che, semplicemente, le piacciono. Sto provando una strana sensazione, quasi di disagio, come se stessi per cadere vittima di una affezione psicosomatica che provoca confusione, la sindrome di Stendhal. Mi viene in mente ciò che ho letto prima di venire qui, in corso Como 10, a Milano, dove hanno sede la galleria, il negozio, la libreria, il ristorante e il caffè di Carla. L’ha scritto uno stilista francese, Christian Lacroix, e mi era parso un tantino esagerato: «Responsabile degli eventi culturali e delle creazioni più all’avanguardia, Carla Sozzani è riuscita a intrecciare la fine del Ventesimo secolo e l’inizio del Ventunesimo nella città di Milano con la storia dell’arte, come una specie di Paolo Uccello del tempo dei Medici». Esagerato o no, quello che si vede qui è certamente qualcosa fuori dall’ordinario. Come e perché è cominciato tutto questo? «Perché mi hanno cacciata, come te ad Airone. Sai che mi ero laureata nel 1971, in lingue e letteratura straniera, alla Bocconi. Ma sicuramente non sai che ho dovuto fare un corso di steno-dattilo per battere la mia tesi, che riguardava Nathaniel Haw-
1996: personale di Helmut Newton, più volte esposto alla Galleria Carla Sozzani, di corso Como 10, a Milano. L’aspetto del cortile è ancora quello originario, antecedente le trasformazioni successive.
Lorenzo CaMoCardi
Vanni burkhart
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CARLA SOZZANI Avviata nel 1990, la Galleria Carla Sozzani, di Milano, ha interpretato e messo in pratica una visione internazionale della fotografia. A parte aver altresì attivato una certa trasformazione dei luoghi circostanti, ormai votati all’apparenza delle serate milanesi di tendenza (quale, poi?), l’indirizzo “10 corso como” è un richiamo privilegiato del costume planetario. Con la fotografia, eccoci, a fare da garante. Diciamola anche così
E VENTENNE
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LEI LA CONOSCE BENE
Negli anni Novanta, corso Como era un piccola strada di edifici popolari, “case di ringhiera”, come si chiamano a Milano quelle case costruite al principio dell’era industriale per accogliere le migliaia di famiglie che, dalle campagne, venivano a lavorare nelle fabbriche. Al numero dieci, vi era un grande cortile, tipico delle case di ringhiera, e un’officina della Renault. Con grande sorpresa del mondo culturale milanese, proprio sopra all’officina, in quel cortile che puzzava di benzina e olio dei motori, si apre un’elegante galleria d’arte. Era fuori dai circuiti abituali che ruotavano intorno all’Accademia di Belle Arti di Brera. Era il 1990, e la Galleria Carla Sozzani, come la conosciamo oggi, apre i suoi battenti. Sono vent’anni. Corso Como, con le vie adiacenti, è una delle mete privilegiate della moda, del tempo libero e dell’arte. Una trasformazione dell’ambiente e del territorio così radicale, che nessun urbanista sarebbe stato capace di progettare, nemmeno di sognare. Le case di ringhiera sono state ristrutturate, e abitare lì, oggi, è un biglietto da visita blasonato. Miracolo di una donna, Carla, che da sempre crede nelle sue idee, nelle sue azioni, e soprattutto nelle sue passioni. La fotografia, in Italia, ancora soffre di diffidenze da parte di un pubblico viziato da secoli e secoli di grande arte. Nel 1990, le iniziative pubbliche erano davvero sporadiche, piccole gallerie private erano sorrette dall’entusiasmo e da pochissimi appassionati. Quotidiani e riviste poco o nulla si occupavano di fotografia. I critici e gli studiosi, specializzati in fotografia, erano talmente pochi da costituire la casta degli ultimi snob, si permettevano di occuparsi di una disciplina delle arti misconosciuta e, per certi versi disprezzata: “un pezzo di carta”. E su “quel pezzo di carta” c’è chi creò la propria fortuna, e fama di studioso illuminato (si fa per dire), suggerendo, e per primo mettendo in pratica, di riprodurre tutte le fotografie pubblicate su giornali e riviste per costituire un archivio. In un panorama così sterile, spesso truffaldino e/o scorretto, nasce una galleria dagli ampi spazi e soprattutto, dagli intenti serissimi. Una follia. Come ricordava Lee Witkin, gli amici lo presero per matto, quando aprì la sua galleria a New York, che è divenuta la capitale Carla Sozzani, a destra (con modella), in un ritratto realizzato da Paolo Roversi.
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mondiale della fotografia. Una follia che ha portato in Italia così tanta cultura e stimoli da aver mutato profondamente una situazione mortificante e che è stata, e sarà, un ponte culturale fra il nostro microcosmo e il resto del mondo. Già, perché da lì sono passati i più bei nomi della fotografia internazionale da Louise Dahl-Wolfe, che inaugura la galleria nel 1990, ai più giovani e “ribelli”, come Tim Walker, o innovativi, Loretta Lux, che sigilla i vent’anni. E i classici Horst P. Horst, Helmut Newton, Manuel Alvarez Bravo, Guy Bourdin, Anton Bruhel, Eikoh Hosoe... e Carlo Mollino, in tempi in cui soltanto pochissimi sapevano chi fosse. Ed anche giovani di paesi di “frontiera”, come l’India o la Cina, fuori dai ricchi circuiti del collezionismo in voga, o autori eccezionali da scoprire. Mostre ed eventi che testimoniano la vocazione della galleria di dedicare alla fotografia, senza pregiudizi né preconcetti, un omaggio di generosa apertura intellettuale. Apertura che si estende alle installazioni dedicate a personaggi dagli interessi spesso diversissimi: Kris Ruhs, i tessuti precolombiani e, per quasi naturale “discendenza”, Zandra Rhodes, e Pierre Cardin, Paco Rabanne... le geniali idee dello Studio Menphis... o di altri designer che hanno rivoluzionato il nostro ambiente del quotidiano E non è da dimenticare che grazie a questo ponte, gettato da un capo all’altro del mondo, ha messo in relazione Milano con le più prestigiose gallerie private internazionali e musei. Per celebrare i suoi vent’anni, Carla Sozzani pubblica un libro d’arte e di memorie. Una narrazione che scorre per percorsi diversi a comporre l’attività della galleria: gli autori, le installazioni, le inaugurazioni, i biglietti d’invito che sono divenuti oggetto da collezione. Una breve nota anticonformista introduce gli artisti più interessanti che, ogni anno, hanno cadenzato i ritmi espositivi, e tante, tante fotografie da sfogliare, riflettere, e scoprire una serie incredibile di meraviglie. Non sarà un amarcord, ma la testimonianza di quanto una sola donna è stata capace di realizzare, mai mendicando la generosità degli sponsor, tantomeno corteggiando i poteri politici. Giuliana Scimé
Dunque, cosa hai fatto? «Nel settembre 1990 ho aperto questa galleria, dedicata alla fotografia e al design; e subito ci ho messo accanto una libreria e un caffè. Ho agito sull’onda della passione. Nella mia vita avevo maturato solo esperienze editoriali e giornalistiche. E il mio dna giornalistico mi faceva vedere questo progetto come un giornale speciale, un giornale in tre dimensioni, come la realtà nella quale viviamo, un giornale grazie al quale mi sarebbe stato possibile continuare a comunicare con il mio pubblico. Trovare delle cose da passare agli altri, proprio come in un giornale, ecco cosa sarebbe stato “10 corso como”. «Non mi sembrava impossibile. Anche se qualche paura l’avevo. Ti ricordi com’era corso Como allora? Era quasi periferia. E la mia cosa era in un cortile, al primo piano, accanto a un’officina della Renault». Perché fu la fotografia il tema principale della tua iniziativa?
«Perché ci lavoravo nei giornali, e già collezionavo fotografie, che acquistavo a New York e a Londra. A New York, vedevo tante belle gallerie... «Dal Sessantotto, la mia passione per la fotografia è sempre cresciuta, ed è diventata il mio pallino. «Diventavo amica dei fotografi con i quali lavoravo, Robert Mapplethorpe, Helmut Newton, Annie Leibovitz, Herb Ritts, Bruce Weber. Con Bruce era magnifico, lavoravi con lui, stavi con lui, dormivi da lui, vivevi con lui. «All’inizio, collezionavo ritratti. Il Man Ray è stato uno dei miei primi acquisti, e da allora mi accompagna dappertutto e sta sempre appeso nel mio ufficio. Per me è la sua più bella fotografia. L’ho comperata da Giorgio Marconi, che aveva anche una collezione unica di oggetti del fotografo, pittore e regista americano». In vent’anni, hai allestito quasi duecento mostre, esponendo autori molto noti, ma anche
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Duchamp vestito da donna) e nel contempo si riallaccia allo spirito Dada. In un altro ritratto, la tonsura a forma di stella è palese indicazione delle ricerche di Duchamp nei regni del misterico e dell’esoterismo. A volte le immagini sono criptiche, però anche i significati oscuri sono parte integrante di quel ritratto completo, complesso ed eloquente che Man Ray ha costruito su Duchamp». Dove ti sei ispirata per organizzare la tua galleria? «Non a Milano, anche se, a partire dagli anni Settanta qui c’è stata una galleria, Il Diaframma, di Lanfranco Colombo, che ha svolto un ottimo lavoro. I miei esempi sono a New York, come la Staley+Wise Gallery e la Howard Greenberg Gallery, e a Londra, come la Hamiltons Gallery [Staley+Wise Gallery, 560 Broadway, New York, NY 10012 Usa, www.sta-
Indirizzo privilegiato della fotografia internazionale, la Galleria Carla Sozzani, di Milano, è equiparata alle più prestigiose gallerie fotografiche del mondo. Di volta in volta, l’ampio spazio espositivo viene allestito a misura della mostra in programma.
Maurizio rebuzzini
Vanni burkhart
fotografi mai esposti in Italia. Abbiamo visto Helmut Newton, Annie Leibovitz, Bruce Weber, Bert Stern, Frantisek Drtikol, Sarah Moon, Paolo Roversi, David Bailey, Don McCullin, Hiro, Herb Ritts, Flor Garduño. E tra quelli più recenti non posso non citare due personaggi-leggenda della fotografia, Gisèle Freund, nel 2008, e Yousuf Karsh, nel 2009. Come scegli le tue mostre? «La mia idea è stata quella di fidelizzare i miei lettori con autori importanti e molto conosciuti, e di sorprenderli anche con nomi sconosciuti. «La prima mostra l’ho dedicata a Louise DahlWolfe, perché ho voluto inaugurare con una donna indirizzo moda. Per due motivi: perché le donne mi stanno molto a cuore e perché credo che la moda sia sempre stata fondamentale per la fotografia. «Tra tutte le mie mostre, quella che amo di più è Marcel Duchamp by Man Ray, dedicata all’amicizia tra i due artisti, che fu alla base della nascita del movimento Dada americano. «Sono anche consigliata da due indiscusse autorità, soprattutto Giuliana Scimé, ma anche Grazia Neri». Della mostra di Man Ray, il 19 ottobre 1993, proprio Giuliana Scimé ha scritto sul Corriere della Sera: «Non è esagerato definire sublime la mostra Marcel Duchamp by Man Ray. Un evento, quindi, di rara importanza culturale». E più avanti: «Man Ray ha fotografato Duchamp testimoniandone vita, opere, idee, sogni, trasgressioni, genialità. Duchamp non solo si è prestato quale esibizionistico soggetto, ma ha partecipato attivamente alla realizzazione di alcune opere, ad esempio La Belle Haleine, in cui il gioco linguistico sottolinea il travestimento e la scelta privata (è
Anche gli inviti alle mostre della Galleria Carla Sozzani sono particolari: ognuno diverso dall’altro, ognuno a misura dell’autore presentato. Sono oggetti da collezione.
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Nello spirito di “10 corso como”, «un giornale in tre dimensioni, grazie al quale mi sarebbe stato possibile continuare a comunicare con il mio pubblico» (Carla Sozzani), la libreria specializzata, il negozio e il ristorante, tutti di alto livello, compongono un piccolo castello: «L’idea primigenia dalla mia galleria, vedere una mostra, bere qualcosa, mangiare qualcosa, sfogliare un libro, magari comperarlo, provare un vestito, magari comperarlo, la galleria come destination, la galleria come momento di vita slow, ti siedi in giardino e comperi un vestito, e tutto, tutto che ruota intorno alla galleria, forse aveva bisogno ancora di una cosa, anzi di due. La prima è il ristorante, la cosa più difficile che ho fatto; la seconda è una possibilità di soggiorno in corso Como 10, le 3 Rooms, tre camere che ho arredato come una casa, con opere d’arte e modernariato».
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leywise.com; Howard Greenberg Gallery, 41east 57th street, New York, NY 10022 Usa, www.howardgreenberg.com; Hamiltons Gallery, 13 Carlos Place, London W1K 2EU, Inghilterra, www.hamiltonsgallery.com]. «Ma la mia galleria non fa solo mercato. Non tutte le mostre hanno fotografie in vendita». A questo punto mi solleciti una domanda che trovo un po’ ingenua, ma la faccio: qual è la fotografia che preferisci? «A me piace praticamente tutto, meno le raffigurazioni violente o di violenza, che cerco di non esporre. Per questa ragione, sono tiepida nei confronti del fotogiornalismo. Se una fotografia mi piace, non mi pongo il problema di cos’è, se un platino o un vintage. Ma prediligo il bianconero».
[Sapendo che a Carla Sozzani piace molto il lavoro di Sarah Moon, riporto qui un pensiero della famosa fotografa francese, in tema: «Mi sembra che il bianconero abbia la tonalità dell’introspezione, una tonalità quasi incolore, ma di bicromia, imprecisa, come se fosse più un sentimento che un’immagine. Il colore della memoria probabilmente, la mia sicuramente, è di un certo tono seppia. Mi chiedo anche se io non veda la realtà in bianconero. In ogni caso, per lo più ci penso in termini di luce e ombra, monocromatici]». Carla, non ti piace il fotogiornalismo, ma sei stata tra i primi, come dice Grazia Neri, a credere nel World Press Photo. Dal 1993, esponi sempre nelle tua galleria la mostra con le fotografie premiate nella competizione annuale. «Sì, è vero. Ma, secondo me, il World Press Photo rappresenta un modo diverso e importante di comunicare con la gente. E ci tengo ad averlo qui. Adesso ho un contratto con loro fino al 2012. Poi, si vedrà». Ricapitoliamo. Stiamo parlando con Carla Sozzani di “10 corso como”, circa millecinquecento metri quadrati, intorno a un vecchio cortile di ringhiera di Milano, che comprendono una galleria (non solo fotografica, questo non l’avevamo ancora detto; infatti, sono stati esposti importanti interpreti del design, come Kris Rhus, compagno di Carla, Franco Albini, Verner Panton, Yayoi Kusama, Pierre Cardin, Courrèges, Paco Rabanne), una libreria dedicata alla fotografia e al design e un negozio di abiti e accessori di classe per uomo e donna. Ecco, Carla, non abbiamo ancora parlato del negozio. «L’ho avviato nel 1991, nonostante la presenza della officina Renault. Quell’ostinato meccanico sembrava che provasse i motori solo quando c’era l’inaugurazione di una mostra. Ci dava dentro con certe accelerate...
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VENTI ANNI, QUATTRO LUSTRI
«Mi mancava la moda! Allora ho aperto il negozio che ha sostenuto tutto e completato il mio progetto». E il ristorante? «Nel 1996, va via la Renault. Si libera uno spazio bello e importante. Che non diventa subito un ristorante. Inizialmente, lo uso come spazio espositivo, e ci allestisco qualche mostra, come quella dedicata al London Group Show, sette autori -Andrew Bettles, Alvin Booth, Alan Delaney, Kevin Griffin, Allan Christopher Jenkins, Malcolm Pasley, Platon- che affrontano le inossidabili tematiche del nudo, della natura e del paesaggio, mettendone in discussione premesse artistiche ed estetiche. «Ma poi, l’idea primigenia dalla mia galleria, vedere una mostra, bere qualcosa, mangiare qualcosa, sfogliare un libro, magari comperarlo, provare un vestito, magari comperarlo, la galleria come destination, la galleria come momento di vita slow, ti siedi in giardino e comperi un vestito, e tutto, tutto che ruota intorno alla galleria, forse aveva bisogno ancora di una cosa, anzi di due. «La prima è il ristorante, la cosa più difficile che ho fatto; la seconda è una possibilità di soggiorno in corso Como 10, le 3 Rooms, tre camere che ho arredato come una casa, con opere d’arte e modernariato. L’ho chiamato 3 Rooms, perché non voglio farmi prendere dalla voglia di ingrandire. «Mi dà soddisfazione vedere che, quando una persona viene qui, sta meglio. Queste sono le cose che più mi danno energia e mi incoraggiano; non mi sento di chiamarlo lavoro, e lo farò finché mi piacerà». Dopo vent’anni, la Galleria Carla Sozzani è di gran lunga la più importante galleria italiana di fotografia. Non sono d’accordo con coloro che affermano che Carla si sia ispirata ai bazar dell’Oriente per il suo progetto. Penso invece che, se il principio ispiratore fu quello di fare della galleria, e di quello che la circonda, un giornale in tre dimensioni, il risultato è un giornale in tre dimensioni con-
Nel ricordare i propri primi venti anni di Galleria, Carla Sozzani ha diviso le mostre presentate in quattro lustri. Ne conserviamo la cadenza: 1990-2010. 1990-1995: Kris Ruhs, Louise Dahl-Wolfe, Walter Albini, Max Vadukul, Carlo Mollino, Marc Newson, Tom Dixon, Man Ray, Mauro Felci, Horst P. Horst, Lillian Bassman, Helmut Newton, Paulownia Rei Kawakubo, Franco Albini, Annie Leibovitz, Man Ray, Marcel Duchamp, Steven Meisel, Karl Blossfeldt, Ernst Fuhrmann, Frida Kahlo, Mexico, Armin Linke, Frantisek Drtikol, Arthur Elgort, Albert Watson, Irving Penn, Norman Parkinson, Paul Strand, Frank Horvat. 1996-2000: August Sander, Alexander Rodchenko, André Kertesz, Horst P. Horst, Sarah Moon, Eberhard Schrammen, Toni von Haken, Don McCullin, Julius Shulman, David Bailey, Alexander Liberman, Herman Leonard, Iwao Yamawaki, Xanti Schawinsky, Willy Ronis, Steven Klein, Mike Disfarmer, Elliott Erwitt, Melvin Sokolsky, François Berthoud, A.G. (Angiolo Giuseppe) Fronzoni, Gilles Caron, Seydou Keïta, Bert Stern, Deborah Turbeville, Ralho Eugene Meatyard, Rudi Gernreich, Martine Franck, Harry Benson, Yoko Yamamoto, Douglas Kirkland, Paolo Pellegrin, Jacques-Henri Lartigue, Courrèges, Carlo Mollino, Verner Panton, Leo Matiz, Elliott Landy, Helmut Newton, Alice Spring, Shoji Ueda, Gary Hill, Kenro Izu, Mark Seliger, Paolo Roversi, Ralph Gibson, Jean Prouvé, Franco Grignani, Leni Riefenstahl, Manuel Álvarez Bravo, Sheila Metzner, Tom Baril, Ugo Mulas, William Klein, Michael Putland. 2001-2005: Francesca Woodman, Herb Ritts, Kris Ruhs, Louise Dahl-Wolfe, Horst P. Horst, Hiro, John Rawlings, David LaChapelle, Mario Cravo Neto, Robert Hutchings, Angus McBean, Anton Bruehl, Ferdinando Scianna, Ed van der Elsken, Sarah Moon, Flor Garduño, Keith Carter, Duane Michals, Franco Fontana, Paco Rabanne, Jean Baptiste Mondino, Eikoh Hosoe, Roger Ballen, Alberto Rizzo, Shiro Kuramata, Bruce Gilden, Helmut Newton, Mario De Biasi, Bruce Weber, Mary Ellen Mark, Guy Peellaert, Francesco Scavullo, Pierre Cardin, Silke Lauffs, Frauke Eigen, Mario Giacomelli, Carl Fischer, David McCabe, Billy Name, Gerard Malanga, James Moore, Bill Owens, Kenro Izu, Luis Gonzales Palma, Yayoi Kusama, Mark Seliger, Rico Puhlmann, It is I, Zandra Rhodes, Re Generation, Kwong Chi Tseng. 2006-2010: Walker Evans, Weihong, Gio Ponti, Jim Lee, Rinko Kawauchi, Sarah Moon, Daniel Gustav Cramer, Tina Modotti, Maison Martin Margiela, Jeanloup Sieff, Charles Jones, Kris Ruhs, Superarchitettura, Indian Photography, Masao Yamamoto, Gilbert Garcin, Urs Lüthi, Annelies Strba, Matteo Guarnaccia, Gisèle Freund, Piero Fornasetti, Muga Miyahara, Saul Leiter, Arne Jacobsen, Vladimir Mishukov, André Martin, Lise Sarfati, Ray K. Metzker, Catherine Leutenegger, Lisette Model, Guy Bourdin, Memphis Blues, Floris Neususs, Yousuf Karsh, Javier Vallhonrat, Norman Parkinson, Tim Walker, Eikoh Hosoe, Loretta Lux, Regeneration 2. I venti anni della Galleria Carla Sozzani sono riuniti e raccontati in una consistente monografia, stampata in mille copie: Galleria Carla Sozzani. 1990-2010; con testi di Giuliana Scimé; Carla Sozzani Editore, 2010 (www.10corsocomo.com, www.galleriacarlasozzani.org); 320 pagine 24x29cm.
tenuto in un piccolo castello, di quelli che rendono immensamente felici i bambini. E mi viene in mente cosa mi disse una volta Grazia Neri: «È un sogno andare lì e vederla arrivare, vestita di nero, come una fanciulla senza età». Saluto e mi avvio a uscire da questo piccolo castello. Attraversando il portone che lo separa dall’hullabaloo della città. Mi viene in mente un’altra cosa, che dice Donato Maino, socio e amico di Carla Sozzani: «Manca solo il ponte levatoio». ❖
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rwin Olaf e Phil Stern, dal 17 giugno al 12 settembre 2010; Flamboya, di Viviane Sassen, dal 21 aprile al 2 giugno 2010; Oltre il reale, di Irene Kung, dal 12 marzo al 18 aprile 2010; La fotografia in Italia, 1945-1975, Capolavori dalla collezione Morello, dal 12 febbraio al 2 giugno 2010; Passaggi, figure e paesaggi, dal 15 gennaio al 7 febbraio 2010, un viaggio da sud a nord attraverso l’Italia; La scena e il sogno delle fotografie, una mostra-mercato di opere fotografiche dedicata al collezionismo, dal 4 dicembre 2009 al 10 gennaio 2010; La musica del caso, un omaggio a Willy Ronis, dal 4 dicembre 2009 al 10 gennaio 2010; Pierre Gonnord, Testimoni/Testigos, una serie di ritratti per la prima volta in Italia, dal 16 ottobre al 22 novembre 2009; I luoghi dell’infinito, di Massimo Siragusa, dal 18 settembre all’11 ottobre 2009; Albert Watson. Il coniglio bianco, dal 18 settembre al 22 novembre 2009; L’emozione di un viaggio, il viaggio come scoperta e avventura, dal 24 settembre al 4 ottobre
2009; Tokio in eclisse, dal Primo luglio al 6 settembre 2009; Marco Vacca. Rifugiati, dal Primo luglio al 6 settembre 2009; Nippon Kobo. Sguardi sul Giappone, dal Primo luglio al 6 settembre 2009; Territorio Italiano, dal 28 aprile al 4 maggio 2009; Robert Capa - Questa è la Guerra!, Robert Capa al Lavoro, Gerda Taro, una retrospettiva, dal 28 marzo al 21 giugno 2009; Martial Cherrier, Martial, o del body building, dal 4 marzo al 22 marzo 2009; Mario Giacomelli - La figura nera aspetta il bianco, dal 16 gennaio al 22 marzo 2009; Una fantastica ossessione, una storia della fotografia italiana curata da Denis Curti, dal 16 gennaio al Primo marzo 2009. Con questo lungo elenco di esposizioni, Forma racconta la propria attività espositiva dall’inizio del 2009. Un’attività che fa intuire un grande lavoro e una grande creatività. Forma è qualcosa di diverso dalle comuni gallerie fotografiche: i suoi intendimenti non riguardano solo le mostre, che costituiscono una parte importante ma
non esclusiva. C’è la collaborazione con la Fondazione Corriere della Sera e l’Atm, che ospita Forma all’interno di un’ala interamente ristrutturata dello storico deposito dei tram del quartiere Ticinese. C’è il supporto di Canon, che celebra lì la sua manifestazione annuale di maggior successo, Fotografica. La settimana Canon della fotografia e del video. C’è una libreria, una Galleria, che raccoglie opere destinate alla vendita. C’è uno spazio riservato ai grandi interpreti della fotografia di moda e di ritratto. Infine, va ricordato che Forma ha investito risorse nell’organizzazione di esperienze didattiche e formative, creando occasioni di incontri con artisti e fotografi, workshop professionali, letture portfolio, dibattiti, servizi di expertise rivolti ai collezionisti. Quest’anno, Forma compie i suoi primi cinque anni e si trasforma in Fondazione. Abbiamo chiesto a Roberto Koch, direttore di Contrasto, che come Zeus ha partorito dalla testa questa Atena fotografica, di commentarci l’avvenimento. L.P.
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CINQUE ANNI I
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di Roberto Koch (presidente della Fondazione Forma per la Fotografia)
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ono passati in un soffio, questi cinque anni di Forma, a partire da quel 14 luglio 2005, quando aprimmo la grande mostra dedicata a Gianni Berengo Gardin, che avevamo portato, prima ancora che a Milano, a Parigi, alla Maison Européenne de la Photographie, e che ha segnato, come una dichiarazione di intenti, quella che sarebbe stata la programmazione e l’attività del Centro Forma. Una casa della fotografia, costruita su progetti e respiro internazionale, con una specifica attenzione alla fotografia italiana e i suoi più grandi maestri. Un luogo dedicato, ispirato a quello che già si fa in tanti altri paesi, come l’International Center of Photography, a New York, la Maison Européenne de la Photographie, a Parigi, e il Foam, di Amster-
dam, per fare qualche nome di istituzioni con le quali abbiamo fortemente collaborato in questi anni, in una rete di rapporti internazionali e una programmazione diversificata tra mostre, scoperte di nuovi talenti, una grande attività didattica (con un master annuale post laurea in fotografia, giunto ora alla quinta edizione), l’attività di Galleria (così come faceva all’inizio il MoMA, di New York), e poi presentazioni di libri, incontri con gli autori, dibattiti e discussioni intorno alla fotografia. Tante sono state le mostre che abbiamo presentato fin qui, oltre cinquanta; solo per citarne qualcuna, grazie a Forma il pubblico milanese e italiano ha potuto vedere la retrospettiva di Richard Avedon, quella di Henri Cartier-Bresson, le mostre di Life, Josef Koudelka, Sebastião Salgado, Elliott Erwitt, e poi Bettina Rheims, Peter Lindbergh, Albert Watson, William Klein, Martin Parr e David Goldblatt, e le grandi retrospettive dedicate ai maestri italiani, da Mario Giacomelli a Mimmo Jodice, a
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I IN FORMA Piergiorgio Branzi; e inoltre, ancora, le mostre di Ferdinando Scianna, Franco Fontana, Giorgia Fiorio e i capolavori della collezione di Paolo Morello. In questi anni, Forma ha anche presentato i più recenti talenti, da Paolo Ventura a Jessica Dimmock (vincitrice con Leonie Purchas e Jerome Sessini del premio F), a Viviane Sassen, Erwin Olaf, Irene Kung, Daniele Dainelli e Massimo Siragusa.
La casa delle fotografia: un nome semplice e un progetto ambizioso; e ora abbiamo l’onore di poter dire che in parte è già realizzato. Dopo cinque anni abbiamo perfezionato la trasformazione in Fondazione Forma per la Fotografia: un passaggio cruciale per poter diventare, a tutti gli effetti, la casa di quanti amano la fotografia e per rispondere alla domanda di un pubblico fortemente composto di gio-
14 luglio 2005: Forma inizia la propria attività con una mostra antologica di Gianni Berengo Gardin.
I cinque anni di Forma, che si è trasformata in Fondazione Forma per la Fotografia, sono stati celebrati lo scorso quindici luglio. Per l’occasione, ritratto posato dello staff insieme a Gianni Berengo Gardin: da sinistra Denis Curti, Francesco Zanot, Beatrice Ravelli, Monica Palermo, Laura Bianconi, Alessia Paladini, Alessandra Mauro e Roberto Koch.
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Due prestigiose esposizioni di Forma, tra le cinquanta allestite in cinque anni: Richard Avedon e Robert Capa - Questa è la guerra!
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vani, ma anche di tutte le età, e che trova in Milano la propria destinazione naturale, città che ha affermato nel mondo il design, l’architettura delle grandi firme, la moda, linguaggi che con la fotografia dialogano a tutto tondo. La Fondazione darà a questa istituzione ancor di più quel profilo pubblico che merita. In autunno, lanciamo un programma pubblico di sostegno, per chiedere a tutti quelli che hanno avuto l’opportunità di visitarci (circa trecentomila, fino ad ora) di partecipare in modo più attivo, sostenendo i singoli programmi della multiforme attività, attraverso donazioni, impegno e diffusione. Forma è stata sostenuta fin qui da Contrasto, che l’ha creata e che ne ha permesso la nascita e lo svi-
luppo, assumendosi tutti i costi di gestione, crescita e mantenimento (insieme alla Fondazione Corriere della Sera, per i primi anni). Un modello ispirato a criteri e standard europei in una Italia che fin qui ha manifestato una scarsa propensione pubblica al sostegno della fotografia. Forma è ormai uno dei partner privilegiati delle numerose istituzioni internazionali che si muovono nello stesso ambito, è una realtà rispettata e conosciuta da tutti. Ci auguriamo che le istituzioni, a cominciare da quelle milanesi, il pubblico, i membri del Club di Forma, il mondo della fotografia in genere sappiano ancor di più che nel passato far sentire il proprio sostegno con modi e forme per far vivere e prosperare un luogo di eccellenza, che ha saputo conquistare il rispetto e soddisfare i bisogni di molti. È un desiderio e una ambizione che coltiviamo come staff, insieme ai vari artefici del programma di Forma: Denis Curti, vice presidente e responsabile di tutte le attività didattiche e di promozione di Forma; Alessandra Mauro, direttrice artistica e responsabile del programma di esposizioni; Andrea Micheli, consigliere d’amministrazione e anima di una parte molto importante dello sviluppo di Forma; Beatrice Ravelli, responsabile delle attività e infaticabile coordinatrice; Alessia Paladini, alla quale si devono i successi della Galleria di Forma; Francesco Zanot, curatore e ideatore di mille iniziative didattiche; Laura Bianconi, responsabile stampa; Monica Palermo, coordinatrice del club e delle visite guidate; e poi i revisori dei conti con la responsabile amministrativa Maria Cristina Leggiero. ❖
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L’arte cinese contemporanea, che spesso si esprime con gli stilemi propri e caratteristici della fotografia, sta osservando il passato maoista del paese con evidente ironia, forse (sicuramente?). Ma anche tragica ironia, che esorcizza qualcosa da dimenticare. Nulla era come appariva essere, e dunque la storia si rivede in forma d’arte. Con contorno sull’iconografia di Mao di Maurizio Rebuzzini ricerca iconografica di Ciro Rebuzzini
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inque anni fa, nell’estate-autunno del 2005, il qualificato Spazio Oberdan, di Milano, gestito dalla Provincia del capoluogo lombardo, ha ospitato una mostra d’arte autenticamente significativa. Ideata e curata da Daniela Palazzoli, firma più che autorevole, Cina. Prospettive d’arte contemporanea ha spalancato le porte su uno dei più brillanti fenomeni dell’arte dei nostri giorni, proiettatosi sul palcoscenico planetario all’indomani degli sconvolgimenti sociali interni alla Repubblica popolare, che dopo i tragici fatti della piazza Tien’anmen, della primavera 1989, ha imboccato una curiosa strada di socialismo in chiave capitalistica, culminato nei fasti delle Olimpiadi di Pechino 2008 e dell’Expo 2010 di Shanghai. E poi c’è la cronaca di questa estate, che ha registrato il balzo dell’economia cinese, che ha sorpassato il Giappone in termini di valori assoluti di Prodotto lordo interno, andando a insidiare addirittura la leadership degli Stati Uniti. Questa rassegna, alla quale sopravvive un ben allestito catalogo, pubblicato da Skira [qui sopra], ha adeguatamente spaziato in lungo e largo attraverso le espressioni dell’arte cinese contemporanea, per certi versi mille e mille anni lontana e diversa da quella classica, per altrettanti mille e mille anni vicina e collegata: non compete a noi, qui e ora, approfondire queste considerazioni, che lasciamo ai critici autorizzati, che svolgono quella professione che ammette e prevede una dose di malizia superiore a quella comunemente accettata dal comportamento civile, nel quale noi preferiamo restare. In ogni caso, eccoci, una consistente quantità e qualità di arte cinese contemporanea si esprime con i connotati espliciti e impliciti della fotografia. Ed è questo, che più di tutto, ci interessa.
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Cina. Prospettive d’arte contemporanea; catalogo della mostra ideata e curata da Daniela Palazzoli (Spazio Oberdan, di Milano, dal 29 giugno al 16 ottobre 2005); Skira, 2005; 128 pagine 16,5x24cm; 19,50 euro.
UN RICHIAMO Uno sguardo ufficiale sulla fotografia cinese contemporanea, in proiezione d’arte, complementare alla presenza internazionale del fotogiornalismo cinese, declinato sia sul racconto della cronaca interna sia sull’osservazione dei fatti planetari, ha già fatto capolino alla Visual Gallery che ha accompagnato l’edizione 2004 della Photokina di Colonia. Cosa sia e come si profili la Visual Gallery è stato approfondito nel sostanzioso saggio Alla Photokina e ritorno, pubblicato dalla nostra casa editrice, che continua ancora a proporre una propria fantastica attualità: spunti utili e proficui sia al comparto tecnico-commerciale sia al mondo della fotografia espressiva e creativa. Ma si impone una ripetizione, in attualità. A fronte di un adeguamento a individuate esigenze del pubblico, la Visual Gallery si riallaccia ideal-
VENTO D
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SOSIA DI MAO
dove recitano a beneficio dei turisti. Come abbiamo riferito in cronaca, sul numero dello scorso giugno, Avvincente e affascinante la serie di ritratti realizzati il reportage The doubles of Mao, ovverosia I sosia di Mao, dal bravo Tommaso Bonaventura, che ha replicato gestualità dell’italiano Tommaso Bonaventura, si è affermato nella categoria e posture ispirate all’originale. Fine Art / Portraiture del Sony World Photography Award 2010 [FOTOgraphia, giugno 2010]. Alla maniera di quanto avviene altrove, per esempio a Las Vegas, in Nevada, con i sosia di Elvis Presley (soprattutto) e Marilyn Monroe (non certo in subordine), in Cina ci sono attori che si sono specializzati nell’impersonare Mao Zedong. Basandosi prima di altro su una somiglianza fisica, che a volte ha dello straordinario, passano anni a studiare i movimenti, la lingua, la calligrafia e la poesia scritta dal presidente (grande timoniere, nel gergo politico dei tempi), cercando di assorbire il più possibile dalla sua personalità. Questo processo di identificazione va tanto in profondità che spesso non è chiaro dove finisca la personalità dell’attore e cominci quella del personaggio. Per propria anagrafe, e altro, alcuni attori sono specializzati nel ruolo del giovane Mao, altri recitano la parte del leader in età adulta. Li si vede agire e recitare sia in film storici sia in occasione di anniversari particolari del partito. Sono presenti anche in contesti specifici, come nel villaggio natale di Mao, Da The doubles of Mao, di Tommaso Bonaventura: primo premio Il presidente Mao Zedong saluta la folla, Fine Art / Portraiture al Sony World Photography Award 2010. in piazza Tien’anmen (anni Sessanta). Shaoshan, nella provincia dell’Hunan,
mente all’originaria Sezione Culturale, organizzata dal qualificato Fritz Gruber, personaggio di spicco della cultura fotografica contemporanea, che fino alla metà degli anni Ottanta aveva accompagnato l’esposizione merceologica (Fritz Gruber è mancato il 31 marzo 2005, a novantasei anni). Ricordando anni lontani, tornano alla mente straordinari programmi espositivi che hanno sistematicamente fatto il punto sul linguaggio fotografico applicato, oppure proposto nuovi indirizzi. A caso: nel 1974, abbiamo avuto il primo contatto con i coniugi Bernd e Hilla Becher, che a seguire si sono affermati nel mondo internazionale della fotografia d’arte, e, nella stessa edizione, abbiamo goduto di una esaustiva retrospettiva sull’immagine in movimento sequenziale, allestita con fantastica competenza (dalle lanterne magiche ai primi esperimenti di Eadweard Muybridge, dalle rappresentazioni di Marcel Duchamp al futurismo di Giacomo Balla); nel 1984, furono indagati gli aspetti discriminanti della professione, con particolare attenzione alle edizioni librarie delle più qualifica-
te monografie d’autore e dei più significativi calendari illustrati; il 1968, sull’onda lunga di una socialità in trasformazione, testimoniò gli aspetti del reportage sociale; mentre è del 1972 la disamina attenta dell’espressione fotografica nel proprio complesso, dagli esperimenti originari all’avventura, dalla creatività applicata al reportage di indagine, dall’universalità del linguaggio alle donne viste da donne. Non è solo un problema quantitativo, anzi è esattamente vero il contrario: è qualitativo. Qualitativo per se stesso e qualitativo dell’incontro fertile, dinamico, attento, concreto tra cultura e impresa. Ovviamente, l’industria fotografica in sé (che fa della Photokina il proprio palcoscenico) non ha compiti, né obblighi culturali. Però, nel concreto, sono anche i mezzi economici che l’industria può utilizzare che servono alla promozione e veicolazione della cultura. Nello specifico della fotografia, la Visual Gallery può essere definita a pieno diritto evento espositivo top del salone merceologi(continua a pagina 39
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(continua da pagina 35) co, suo naturale complemento, sua intelligente appendice (a un tempo pulsante di vita propria, come direttamente collegata con le passerelle tecnologiche). Dal ventotto settembre al tre ottobre, in coincidenza di date con la Photokina 2004, nel centrale padiglione 7, su una superficie espositiva di quasi quattromila metri quadrati, tra personali e collettive sono state allestite sedici mostre, nelle quali sono stati esposti i lavori fotografici di centocinquantatré autori. Tra queste, nell’occasione odierna ricordiamo Contemporary Art from China, attenta ed esaustiva panoramica sulle tendenze espressive che si stanno manifestando in una società in clamorosa e rapida trasformazione, all’indomani degli anni del maoismo, che dal punto di vista visivo furono caratterizzati dall’onda lunga del realismo socialista di origine sovietica. Sperimentazioni, linguaggi e rappresentazioni che si rivolgono soprattutto alla fotografia d’arte, e che rivelano insospettabili (fino a ieri) capacità di sogno ed evocazione. Paese e cultura emergente nel panorama dell’arte moderna, oltre che in altre socialità più o meno quotidiane, la Cina
VARIAZIONE SUL TEMA
RETROVISIONE Incredibile a dirsi, ma da credere! Dai sei anni trascorsi dalla collettiva mirata, e fotograficamente convinta, di Contemporary Art from China, alla Visual Gallery della Photokina 2004, e dai cinque trascorsi dall’analisi Cina. Prospettive d’arte contemporanea, con consistente presenza di espressioni in linguaggio fotografico, a cura di Daniela Palazzoli, molto è cambiato nella fotografia cinese che si esprime nel mondo dell’arte e con intenzioni esplicitamente riferite all’arte. Non intendiamo declinare alcun assoluto, così estraneo al nostro ritmo di vita, ma si impone una sottolineatura, che abbiamo sintetizzato dall’osservazione a tutto tondo dell’arte cinese contemporanea, con retrogusto spesso fotografico. Non è una rivelazione sconvolgente, ma la nostra annotazione si basa sul princìpio, del quale siamo fermamente convinti, che ciò che crediamo dia forma a ciò che vediamo. Così, nell’arte cinese contemporanea, spesso in forma fo(continua a pagina 42)
Per esempio, è il caso della statua di un guerriero antico (guarda caso, inviolabilmente rossa), collocata tra due quadri di Norbu Tsering, uno degli artisti cinesi contemporanei che rivolge il proprio sguardo all’epoca maoista. Nello specifico, i suoi Masquerade e Big Red Flower, entrambi del 2008, entrambi tele 170x135cm, riprendono propriamente il tema conduttore di un passato prossimo che si proietta sul presente. MAURIZIO REBUZZINI
Già il grande albergo eretto nei pressi della Grande muraglia, là dove è indirizzato il turismo internazionale che fa tappa nella capitale Pechino (Beijing), evoca profumi del passato ideologico del paese: Commune, con logotipo esplicito: clamorosa stella rossa. Quindi, l’arredamento interno si completa con accessori che allineano il passato remoto a quello più recente.
ha sollecitato una collettiva di sette autori, realizzata in collaborazione con la Alexander Ochs Galleries Berlino / Beijing.
Masquerade e Big Red Flower, di Norbu Tsering, nell’arredamento dell’hotel Commune, ai piedi della Grande muraglia.
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(continua da pagina 39) tografica, vediamo un consistente richiamo e revisione degli anni del maoismo: svuotati di ogni loro dogma ideologico, quei momenti sono oggi rivisitati per l’apparenza e trasparenza (e ingenuità?) delle proprie manifestazioni. In un esercizio visivo e creativo di memoria breve, gli autori stanno come ripulendo la propria storia, andando a rievocare in allegria periodi ormai considerati tragici. Ancora, Mao è oggi un’icona (Mao, non l’ideologia del maoismo): un volto, un richiamo, un gioco svuotato di ogni consistenza. E a questo ci riferiamo, richiamando soprattutto due autori, con accompagnamento di altre/tante considerazioni convergenti: su queste pagine. I due fotografi-artisti di riferimento (odierno) sono Sheng Qi e Shen Jingdong: il primo si esprime anche attraverso la fotografia, l’altro soprattutto con la pittura. Li accomuna una raffigurazione di forte connotato maoista (nelle forme apparenti), che si propone quasi come una liberazione da un passato
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imbarazzante e inquietante, del quale, date le rispettive anagrafi, hanno solo sentito parlare: entrambi sono nati nel 1965.
SHENG QI
Attivo da una ventina di anni, Sheng Qi ha creato notevoli opere d’arte in ambienti diversi. Tema dominante nel suo lavoro è lo studio del corpo, il linguaggio del corpo e della sua cultura. In particolare, rivisita visioni che appartengono al tempo e ai modi della famigerata Grande rivoluzione culturale proletaria, lanciata da Mao Zedong nel 1966 (alla quale si sono ispirati un poco tutti i movimenti giovanili del Sessantotto). Quando ha lasciato Pechino, nel 1989, si è tagliato il mignolo della mano sinistra e lo ha seppellito in un vaso di fiori (questa sua mano sinistra è il motivo conduttore della serie fotografica alla quale facciamo oggi esplicito riferimento). Si è laureato al Central Saint Martins College of Art and Design, di Londra, ed è tornato a Pechino nel 1998. Da al-
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MAI DIRE MAO
Organizzata da Gherardo Frassa, eclettico personaggio della cultura contemporanea, Mai dire Mao Servire il Pop è stata una rassegna ironica dedicata alla grande icona del Ventesimo secolo; è ovvio: Mao Zedong, svuotato da ogni significato politico ed elevato a sola figura vuota. Nel settembre 2007, nell’ambito del contenitore Mercanteinfiera, a Parma, sono stati esposti e presentati migliaia di oggetti a tema: dai soprammobili dei tempi della Grande rivoluzione culturale proletaria (probabilmente rifatti oggi a beneficio di una richiesta turistica crescente e consistente) ai leggendari libretti rossi, a tanto altro ancora. E poi, opere d’arte originarie, create per l’occasione. Catalogo pubblicato da Nuages, di Milano: 336 pagine 15x21cm; 18,00 euro. Mai dire Mao - Servire il Pop, rassegna ironica dedicata all’iconografia di Mao Zedong, a cura di Gherardo Frassa; Mercanteinfiera, Parma, settembre 2007.
lora, è stato selezionato per partecipare a numerose rassegne d’arte, tra le quali si ricordano, sopra tutte, l’International Nippon Performance Festival e Between Past and Future (tra passato e futuro), nell’ambito della selezione dell’International Center of Photography, di New York, dell’estate 2004, per la quale ha illustrato la copertina del catalogo. Sheng Qi è rappresentato da Wiegersma Fine Art, di Bruxelles (Belgio) e F2 Gallery, di Pechino (www.sheng-qi.com). La serie fotografica Madness, Appropriation, esposta in numerose gallerie internazionali e raccolta in una monografia omonima (edizione Timezone 8), è scandita al ritmo di fotografie incalzanti. In semplicità, l’apparenza è presto individuata: poggiata su un fondo immancabilmente rosso, la mano sinistra dell’autore (con dito mignolo volontariamente tagliato: lo abbiamo appena rivelato) tiene sul palmo una piccola stampa fotografica bianconero. La sequenza di queste fotografie racconta la storia della Cina di Mao: attraverso i volti di persone anonime, ma certamente note all’autore, e di personaggi pubblici, oltre che con rappresentazione di accadimenti che hanno caratterizzato i tempi della Rivoluzione culturale [da pagina 36 a pagina 38]. Oltre l’apparenza, la sostanza, il contenuto. Già il titolo è esplicito: sottolinea la follia e l’appropriazione, rilevate anche da altri soggetti oltre quelli fotografici appena ricordati e da opere pittoriche complementari, realizzate sulla falsa riga dei manifesti della propaganda. Lo svolgimento è allineato: ed è chiaramente e dichiaratamente critico nei confronti del periodo storico analizzato con il linguaggio dell’arte, che evoca più di mostrare, che richiama invece di dire, che accompagna invece di imporsi. Del resto, come annotiamo
spesso, solo i poeti sanno veramente parlare della libertà, dolcissima e inebriante.
SHEN JINGDONG Certamente, Shen Jingdong agisce con la propria arte mirando allo stesso risultato. Però, complice una grafica diretta e semplificata, dai colori forti e vivaci, la sua espressività si presenta più leggera e lieve. In un certo modo, comunica richiamandosi a una esperienza personale. Arruolato per sedici anni nell’esercito cinese, oggi lo scongiura quasi con opere nelle quali le lezioni della Pop Art si fondono con la propaganda marxista (c’è differenza?). Ovviamente, le sue opere sono proibite in Cina, ma le sue lucide raffigurazioni di volti raggianti compongono i tratti di una giocosa critica, che finisce per essere più autorevole e credibile di tante parole feroci. Che dire, infatti, di questi volti da fumetto, da cartone animato, quasi senza forma apparente, ma con tante forme espressive (tutte quelle che l’osservatore è in grado di allineare, le une alle altre, le une alle successive). In forma di divertimento infantile, ma con la concretezza delle proprie opinioni, ancora una Cina da esorcizzare, ancora un passato da abbandonare: questa volta, nel ridicolo e grottesco delle sue cerimonie. Non ci sono più eroi, se mai ce ne sono stati. Non ci sono più favole, perché la forma della favola disintegra tutto. E fa affiorare la miseria dietro la siepe, la miseria oltre la propaganda [da pagina 40 a pagina 42]. Il sole dell’avvenire non brilla più, ammesso e non concesso che per qualche effimero istante abbia in certa misura mai brillato. ❖
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CARLA PONTI: LE POLASÈR IMAGINAIRE (MOLIÈRE)
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Sospendiamo la presentazione dei singoli autori, per raccontare di un evento imminente, che ci sta a cuore: la celebrazione dei dieci anni del Polaser. Come spesso ricordato, e la ripetizione si impone, il nome “Gruppo Polaser” nacque quasi per gioco, a un workshop tenuto da Maurizio Galimberti, a Massa Marittima, nel 1998. Al termine di quella settimana di fotografia polaroid, le fotocopie laser a colori delle fotografie realizzate dai corsisti rimasero in mano mia; d’accordo con Maurizio Galimberti, si mantenne lo spirito che si era instaurato, facendo vivere ancora quel nome nato per caso e rivestendolo di idee, passione, lavoro: Polaser, come fusione della desinenza “Pola” e della versione “laser” delle copie (ma c’è di mezzo anche una socia fondatrice farmacista, ispirata da un celebre medicinale, il Polase, per l’appunto). Con l’identificazione (allora latente) “Gruppo Polaser”, nei due anni
successivi esposi quelle fotografie, e altre mie, a Milano, al Photoshow, nello stand di una rivista fotografica, poi a Brescia, a una fiera, a Faenza, a Brisighella e in altre sedi. Quindi, organizzai un altro workshop con Maurizio Galimberti; a ogni evento, aumentavano gli appassionati della “magica” fotografia a sviluppo immediato, che mi chiedevano di costituire un’associazione. Fu così che l’8 maggio 2000 nacque ufficialmente il Gruppo Polaser. Dieci anni... dieci anni di Magia! Quante persone sono “passate” nel Polaser, quante mostre abbia-
CRISTINA PAGLIONICO: IL VOLO
CARLA PONTI: LE POLASÈR IMAGINAIRE (MOLIÈRE)
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mo esposto in Italia, Francia, Giappone, in fiere d’arte, in gallerie pubbliche e private, quanti progetti abbiamo realizzato, quante ore e giorni dedicati alla creatura, che è cresciuta giorno dopo giorno, quante discussioni, quante soddisfazioni? Tante, tante, e ancora tante! Così come tanti sono gli amici che hanno contribuito ad alimentare e far crescere quel “sogno”. Fin dall’inizio della nostra storia, abbiamo dato un’impronta particolare all’associazione, un’impronta diversa da quella di tante altre similari: non più progetti individuali, nei quali ognuno segue unicamen-
te il proprio istinto, ma progetti “del Polaser”, nei quali e per i quali l’associazione diventa soggetto fisico. In questo modo, abbiamo realizzato molti “lavori” e la soddisfazione maggiore è stata quella di leggere spesso che le nostre mostre, pur realizzate da quaranta-sessanta mani, sono sembrate realizzate da un’unica persona... “dal Polaser”. Inoltre, ogni volta abbiamo attivato progetti nei quali la fusione di più arti si è manifestata come elemento primario; soprattutto, nei progetti c’è sempre stata una mediazione con la storia dell’arte. In questo modo, sono nati i Tableaux Vivants, quadri viventi inter-
PINO VALGIMIGLI: ED È SUBITO SERA
GIGI VEGINI: IL POTERE DELL’IMMAGINAZIONE
FABIO DEL GHIANDA: LA NOTTE
ERMES RICCI: IL POTERE DELL’IMMAGINAZIONE
ELENA GIANESSI: OMAGGIO AD ALBERTO BURRI
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pretativi delle opere di Silvestro Lega, le Foto Orfiche e La Notte, libere interpretazioni delle liriche di Dino Campana, Equilibrio (composizione, colore, materia) - Omaggio ad Alberto Burri, Le Polasèr Imaginaire, omaggio a Molière, esposto per la prima volta a Parigi in una galleria d’arte che ha sede proprio nel palazzo dove visse e morì il grande drammaturgo francese, Ed è subito sera, interpretazione “visiva” della poetica di Salvatore Quasimodo, le Sette Sorelle di Romagna e... dintorni; e poi, ancora, le installazioni, le performance, i seminari, le conferenze, i dibattiti e tutto ciò che ha contribuito a promuovere la fotografia, non soltanto a sviluppo immediato. Dieci anni di Magia, anche se negli ultimi due abbiamo dovuto utilizzare le rimanenze di pellicole polaroid ormai scadute. Non sappiamo se saranno ancora prodotte emulsioni con le stesse caratteristiche delle precedenti; comunque, se il viaggio della pellicola polaroid, durato sessant’anni, dovesse essere terminato, non per questo terminerà il viaggio del Polaser: vorrà dire che continueremo con altri materiali. L’importante è avere sempre la stessa passione, lo stesso entusiasmo, avere idee, coltivare sogni: l’attrezzatura e i materiali fotografici saranno sempre secondari all’insegnamento di George Braque, nostra guida: «La limitazione dei mezzi determina lo stile, dà vita a nuove forme e dà impulso alla creatività». È e sarà sempre il motto del Gruppo Polaser.
GRUPPO POLASER: 2000-2010 - 10 ANNI DI MAGIA
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Pino Valgimigli
Gruppo Polaser - 10 anni di magia. Museo di San Domenico, via Sacchi 4, 40026 Imola BO. Dal 2 al 17 ottobre; martedì-venerdì 16,00-19,00, sabato 15,00-19,00, domenica 10,00-13,00 - 15,00-19,00. Venerdì Primo ottobre, 21,00 Conferenza La fotografia creativa, con Maurizio Galimberti, Fulvio Merlak, Nino Migliori e Maurizio Rebuzzini; conduce Cristina Paglionico. Sabato 2 ottobre, 15,30 Convegno regionale Fiaf sul tema Passione Italia, con Lino Ghidoni e Pino Valgimigli. Premio alla carriera assegnato a un fotografo emiliano romagnolo. Sabato 2 ottobre, 17,30 Presentazione della monografia Fiaf del Gruppo Polaser 2000-2010 - 10 anni di magia, con Daniele Manca, sindaco di Imola, Valter Galavotti, assessore alla Cultura, Claudia Pedrini, direttrice della Pinacoteca Comunale, Maurizio Galimberti, Nino Migliori e Maurizio Rebuzzini. Inaugurazione della mostra. Consegna del Premio Mario Ghetti.
www.polaser.org
«La limitazione dei mezzi determina lo stile, dà vita a nuove forme e dà impulso alla creatività» Georges Braque Questa citazione dal pittore Georges Braque aiuta a comprendere lo slancio e spirito che guida e ispira gli artisti del Gruppo Polaser, eterogenei per interessi artistico-culturali e per provenienza da molte città italiane e anche dall’estero, accomunati dalla ricerca e sperimentazione di nuove possibilità espressive nelle molteplici forme dell’arte, dalla fotografia alla pittura, scultura, design, architettura, ceramica, letteratura, teatro, a altro ancora.
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DIECI NEL DUEMILA Allungandosi dall’originario Century, pubblicato alla fine dello scorso secolo-millennio, Phaidon Press ha raccolto le fotografie degli avvenimenti significativi del primo decennio del Duemila. Decade riunisce cinquecento fotografie di giornalismo che hanno raccontato i recenti dieci anni. Una volta ancora, una di più, mai una di troppo, una monografia illustrata da osservare con attenzione concentrata. Anche così va il mondo di Angelo Galantini
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ubblicato alla fine del Novecento, quando un consistente insieme di monografie, soprattutto illustrate, sintetizzarono il passaggio simultaneo di anno-decennio-secolo-millennio, Century è ancora oggi, a distanza di dieci anni, una raccolta fotografica discriminante. In anticipo sul titolo che ne consegue, e che si allinea, Decade, dello stesso editore Phaidon Press, che è l’argomento principale (ma non unico) di questo intervento redazionale, è necessario riprendere i termini della monografia originaria, definiamola così, confezionata in un cofanetto che ne protegge la consistente forma editoriale. In origine, edizione di millecentoventi pagine 25x25cm; attualmente, è disponibile l’edizione in dimensioni ridotte di millecentoventiquattro pagine 12,5x12,5cm [a pagina 51].
Vista della Terra dallo Space Shuttle Discovery; fine 1999. Lo Space Shuttle Discovery compie l’ultimo viaggio del millennio durante le ultime settimane del Ventesimo secolo. Gli astronauti testimoniano il silenzio irreale che avvolge la Terra vista dallo spazio; a lato, il sole fa risplendere il mare intorno all’isola di Haiti. Sulla Terra, intanto, fervono i preparativi per un avvenimento di portata eccezionale.
NASA / COURTESY NASAIMAGES.ORG
UN PASSO INDIETRO Tra i volumi illustrati che si sono occupati della fine del secolo (e millennio), la compendiosa raccolta allestita dall’editore londinese Phaidon Press non ha eguali: ancora in distribuzione libraria (non perdetelo!), Century raccoglie e commenta millenovanta immagini introdotte da brevi testi, che ripercorrono Decade, retrospettiva illustrata sui primi dieci anni del Duemila ( Transizione e tumulto), a cura di Eamonn McCabe, con testi di Terence McNamee; Phaidon Press, 2010; 512 pagine 25x25cm, cartonato; 39,95 euro.
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Procedono i lavori di costruzione della grande macchina destinata a scoprire le particelle infinitesimali che risponderanno ai grandi quesiti della scienza; Primo settembre 2005. Al confine tra Francia e Svizzera, sorge il Large Hadron Collider, il più grande acceleratore di particelle del mondo. Provocando la collisione tra due fasci di particelle ad alta energia (un po’ come far collidere due aghi lanciati a 10km di distanza l’uno dall’altro), i fisici cercano di svelare i segreti dell’universo. La sua costruzione ha richiesto quindici anni di lavoro e coinvolto migliaia di scienziati da tutto il mondo. È stato inaugurato il 20 settembre 2008, in un clima di “panico da apocalisse”, generato dalle possibili conseguenze della sua attivazione.
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la cronaca di cento anni densi di avvenimenti epocali, puntualmente focalizzati dal linguaggio fotografico. In ripetizione d’obbligo: Fotografia, autentico linguaggio visivo del Novecento. Combinate con la custodia con maniglia da trasporto e con la robusta rilegatura in cartone, le sue millecentoventi pagine quadrate di venticinque centimetri di lato raggiungono i sei chilogrammi di peso (!), al quale corrisponde un analogo peso dei contenuti. Con poche parole di introduzione generale del curatore Bruce Bernard (mancato nel 2000, all’indomani di questa edizione: curiosità del destino), il minimo indispensabile, e altrettante brevi introduzioni ai singoli sei capitoli nei quali è stato suddiviso l’insieme del secolo, Century riassume il Novecento in millenovanta immagini, ben presentate a piena pagina e opportunamente didascalizzate. Il tutto, of course, è in inglese, ma non ci sono problemi: da una parte la carrellata fotografica è già per se stessa chiara ed esaustiva, dall’altra non è poi così difficile farsi tradurre (al caso) le modeste parole a commento. A tutti gli effetti, ciò che conta è qualcosa d’altro! (E l’edizione in dimensioni ridotte è in italiano). Ovvero, conta che Century sia un autentico casellario del Novecento, osservato con adeguata distanza (cioè senza campanilismi nazionalistici, cioè con una corretta visione planetaria) e con una impagabile concentrazione. Chiariamo subito che anche se possiamo dissentire da alcuni passaggi e da alcune visioni storiche -che certamente sono
condizionate dal proprio modo di pensare: a ciascuno, il proprio-, non possiamo certamente accostare la mole di fotografie incasellate da Century a nessuna altra retrospettiva pubblicata in occasione della fine secolo-millennio (delle quali ci siamo occupati nel dicembre 1999). Century è qualcosa di diverso; soprattutto, è qualcosa di più. Con tutto, Century è comunque fedele a quello spirito storico che ricorda soprattutto gli eventi più tragici: illustrati con una propria immagine simbolo e poi commentati, in quanto tali, ovvero eventi, alla fine di ciascun capitolo. Dunque, sfogliando il volumone (di dieci centimetri di spessore: è indispensabile farlo al tavolo, non si può restare comodamente in poltrona), si ricava un’impressione di grande drammaticità, che tutto sommato rispecchia anche abbastanza bene una certa interpretazione del Novecento, con il suo carico di guerre, oppressione, momenti cruenti e sopraffazioni organizzate. Approdando agli ultimi avvenimenti del Novantanove, e senza rinunciare a un finale di sostanziale speranza (l’immagine conclusiva del volume è l’allestimento berlinese del Fidelio, di Beethoven), Century ha scomposto il secolo in sei capitoli successivi: 1899-1914, grandi speranze e imprudenze; 1914-33, le ferite autoinflitte rimangono infette; 1933-45, ascesa e caduta dell’inesprimibile; 194565, la tregua atomica è sospesa a un filo; 1965-85, dal Vietnam alla Luna, al collasso sovietico; 198699, il caos e la speranza di un pianeta oppresso.
SPENCER PLATT / GETTY IMAGES
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Century, retrospettiva illustrata sul Novecento ( Cento anni di invenzioni, regressi, sofferenze e speranze), a cura di Bruce Bernard; Phaidon Press, 1999; 1120 pagine 25x25cm; attuale edizione ridotta 12,5x12,5cm, del 2002, con testi in italiano, cartonato; in cofanetto; 14,95 euro.
Il secondo aereo si infrange contro la Torre Sud del World Trade Center, in diretta televisiva, ed esplode in una palla di fuoco; 11 settembre 2001. Diciannove terroristi dirottano quattro aerei passeggeri negli Stati Uniti orientali. Con due dei velivoli colpiscono le Torri Gemelle del World Trade Center, a New York, uccidendo tutti i passeggeri. Nel giro di due ore, crollano entrambi i grattacieli. In tutto, muoiono quasi tremila persone.
A questo punto, ci si potrebbe dilungare in dotte (quanto superflue) analisi sulla scelta delle immagini e sull’essenza del contenuto, però pensiamo che sia meglio che ognuno per sé si confronti in proprio con questa straordinaria retrospettiva. Se ancora non l’abbiamo detto, la conclusione è comunque d’obbligo: si tratta di un libro che non dovrebbe mancare in alcuna libreria fotografica. E non soltanto in queste.
IN CRONACA: DECADE Ora, alla fine del primo decennio del Duemila, in ideale prosecuzione del Century originario, Phaidon Press ha realizzato una nuova monografia fotografica che racconta, per l’appunto, questi dieci anni (abbondanti). Pronunciabile nell’inglese originario, o convertita in italiano, senza colpo ferire, Decade è giusto ciò che il titolo propone e promette: sintesi fotografica degli avvenimenti dal 2000 al 2010. Il volume è fisicamente consistente tanto quanto Century, del quale riprende la forma editoriale e
redazionale: cinquecentododici pagine 25x25cm, cartonato. Metà pagine e metà fotografie: cinquecento, che comunque sono veramente tante. Probabilmente troppe. Sicuramente troppe, se e quando i primi dieci anni del Duemila verranno osservati più avanti, nello scorrere di altri decenni; adeguate, per quanto riguarda la retrovisione breve: appunto quella in sostanziale cronaca che compete ai nostri attuali tempi. Tra qualche stagione potremo sorvolare su qualcosa, magari su molto. Per ora, in prossimità temporale, non si può selezionare troppo, visto che tutto quanto è accaduto negli ultimi dieci anni ci pare degno di attenzione sostanziale. A cura di Eamonn McCabe, affermato fotografo di sport, dal 1988 redattore iconografico del londinese Guardian, con testi di Terence McNamee, director of publications alla Royal United Service Institution, Decade ripercorre il tragitto redazionale e di contenuti di Century, dal quale deriva e al quale aggiunge il
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Controllo di polizia all’esterno dello Stadio Olimpico di Pechino; 8 agosto 2008. Le spettacolari cerimonie di apertura e chiusura delle Olimpiadi si sono svolte nel “Nido d’uccello”, fulcro scenografico dei Giochi Olimpici di Beijing 2008. Lo stadio nazionale è stato progettato dallo studio svizzero di architettura Herzog & de Meuron, vincitore di un concorso internazionale, e in seguito ha ottenuto il Riba Lubetkin Prize per il design innovativo. I primi Giochi Olimpici tenuti in Cina sono stati preceduti da controversie legate all’inquinamento soffocante e alla questione irrisolta dei diritti umani nel paese, ma si affermano anche come un’occasione per numerose prestazioni sensazionali.
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proprio racconto visivo. Quindi, una volta ancora, la cadenza del tempo registrato è scomposta per capitoli successivi, al ritmo degli stessi anni: 2000, l’aspettativa; 2001, il terrore; 2002, la fiducia; 2003, lo scontro; 2004, la tempesta; 2005, il conforto; 2006, l’eclisse; 2007, l’impennata; 2008, la resa dei conti; 2009, la speranza; 2010, il testimone. Ovviamente, considerata la vicinanza con i fatti presentati, ognuno di noi ha modo di riconoscersi nel ritmo adottato, tratteggiato da fotografie che hanno documentato il mondo, la vita. Ovviamente, e ci mancherebbe altro, siamo in pieno e unico territorio di fotogiornalismo, che per l’appunto assolve il compito di registrare la vita nel proprio svolgersi. Così che, riprendendo lo stilema delle monografie illustrate di fine secolo-millennio, richiamate in apertura di intervento redazionale, corre l’obbligo di una precisazione. Almeno una. Alla maniera delle raccolte che hanno evocato “fotografie che hanno sconvolto il mondo”, richiamo troppo spesso abusato (e a sproposito), anche queste si offrono e propongono come “fotografie che hanno sconvolto il nostro tempo”. Vero niente, o, quantomeno, poco. Il più delle volte non si tratta di fotografie che hanno sconvolto il mondo, ma di fotografie di avvenimenti che lo hanno sconvolto. La differenza non è piccola, né minima; e riguarda l’insieme del linguaggio fotografico, che non è realtà ma sua rappresentazione (a volte, soltanto raffigurazione). Certo, considerata la vicinanza con gli avvenimenti narrati, tutti ancora presenti nelle memorie individuali, a volte il confine tra avvenimento e fotografia che lo ha documentato è estremamente labile, tanto da poter essere confuso. Altrettanto certo, in alcuni casi, la fotografia è stata per se stessa sconvolgente (pensiamo, soprattutto, all’attentato alle Torri Gemelle, dell’Undici settembre 2001). Ma in assoluto vanno sempre prese le distanze e stabiliti
i termini del discorso: da una parte, la vita e la realtà; dall’altra, le rispettive eventuali rappresentazioni in forma fotografica. Comunque sia, e indipendentemente da questi sofismi (che tali sono solo in apparenza), Decade si propone come raccolta indispensabile per coloro i quali approfondiscono l’espressività fotografica, partecipando anche al suo dibattito. Accompagnate da didascalie descrittive sintetiche (evviva!), complementari all’esaustivo testo storico che introduce i contesti culturali e sociali dei singoli anni, le immagini di Decade assolvono in modo esemplare ed egregio il compito stabilito: quello di sintetizzare lo svolgimento di un decennio particolarmente ricco di avvenimenti e fatti. Di un decennio che in futuro verrà identificato anche per le tante indicazioni e svolte che sono state tracciate, sia nello svolgimento lineare dell’esistenza (dalla scomparsa di personaggi celebri agli accadimenti naturali), sia in molti cambi di passo (a partire dal primo presidente afroamericano degli Stati Uniti). Anche la fotografia è cambiata molto in questi dieci anni, anche il fotogiornalismo. Dobbiamo fare i nostri conti con le influenze della tecnologia applicata al linguaggio espressivo e con la più generale evoluzione della società. Così, sulle pagine di Decade, che peraltro ripropongono molte immagini note del fotogiornalismo (anche rosa), a partire da quelle segnalate e premiate ai concorsi internazionali (World Press Photo, sopra tutti), si trovano anche avvenimenti registrati da persone della strada (in veste di citizen journalism / giornalismo partecipativo), presenti agli avvenimenti narrati con il proprio telefonino cellulare con funzioni fotografiche, piuttosto che con una propria compatta: dalla fotoricordo alla vita. Magari con qualche contraddizione appresso. Ma queste, come tante altre, sono tutte un’altra storia. ❖
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di Maurizio Rebuzzini
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Coco; fotografia di Nick Saglimbeni per il Slickforce Studio.
splicito: come i precedenti titoli della stessa serie, che ormai compongono una autentica collana, una sequenza collegata e indissolubile. Alla maniera dei serial killer più efferati e famosi, Taschen Verlag fa seguire un attuale The Big Butt Book ai suoi precedenti titoli The Big Penis Book, The Big Book of Legs e The Big Book of Breasts (questi ultimi due commentati e presentati in FOTOgraphia, del maggio 2009). Così, dopo le grandi monografie illustrate relative alla raffigurazione fotografica di peni, gambe e seni (cazzi, cosce e tette), arriva l’inevitabile conclusione (?) delle fotografie di fondoschiena/glutei/natiche, ovvero le chiappe femminili (culi). Si impone una certa ripetizione da quanto già riferito alle due raccolte di fotografie storiche di gambe e seni (cosce e tette). Infatti, per quanto sia cambiato l’ordine dei fattori, come nella moltiplicazione, il risultato di The Big Butt Book non cambia affatto. Casomai, come appena rilevato, si chiude il cerchio: dopo il fronte, il fatale retro. Percorso storico sulla fotografia di culi (basta sinonimi!), l’avvincente attuale monografia rivela la convincente capacità della curatrice Dian Hanson, la stessa dei precedenti titoli allineati, di mettere ordine, questo ordine, all’interno di un vasto ed eterogeneo patrimonio di fotografie realizzate nell’incessante sequenza dei decenni, definiti da rispettive evoluzioni del costume sociale, del gusto e del comune senso del pudore: a ciascuno, il proprio. Una volta ancora e una di più, in consecuzione logica con i soggetti precedenti, affrontato da un quarto punto di vista dichiaratamente mirato, ma non certo limitato, appunto il culo femminile, l’argomento si riconduce a quel casellario dell’erotismo visivo che prima o poi andrà pure composto e completato, anche per contrastare il dilagante malcostume che -in assenza di voci attendibili- lo sta dilaniando in una trivialità visiva senza confini, né connotati (dal cartaceo, ormai in disuso, alla Rete, og-
Nessuno si offenda, per cortesia. L’uso nel titolo di un’espressione tanto esplicita, di un modo di dire che sentiamo spesso (ma vederlo scritto potrebbe risultare diverso), è finalizzato al soggetto dichiarato della monografia The Big Butt Book, a cura dell’attenta Dian Hanson, che completa (forse) un ciclo di raccolte a tema omogeneo e consequenziale, pubblicate dal sempre intrepido Taschen Verlag, di Colonia. Una volta ancora, soggetto e svolgimento in chiave erotica, in interpretazione inviolabilmente fotografica 54
GRAN C
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N CULO
gigiorno imperante). Senza timore di usare termini espliciti, si tratta di erotismo visivo dichiarato e autenticamente tale (raffigurazione di corpi offerti), affrontato e svolto con la consapevole complicità del linguaggio fotografico, nelle proprie declinazioni caratteristiche che hanno disegnato i decenni del secolo appena trascorso, che per tanti versi (secolo breve) è appunto un Tempo inviolabilmente definito dalla Fotografia: in senso ampio e completo, autentico linguaggio del Novecento. Tanto che, replicando l’impostazione editoriale dei tre titoli precedenti, anche The Big Butt Book scandisce proprio la successione dei decenni, individuati e certificati per proprie linee conduttrici e identificatrici.
(FRONTE E) RETRO Focalizzandosi su identificate figure femminili dell’immaginario erotico sollecitato e coltivato dalla fotografia (ancora: raffigurazione di corpi offerti), l’attuale The Big Butt Book segna i tempi di tutto il Novecento, con particolare attenzione alle decadi successive alla Seconda guerra mondiale. Anni e decenni sostanzialmente discriminanti per la considerazione dell’erotismo visivo, e di quello live, durante i quali il corpo femminile oggettivato ha allargato le proprie prospettive, includendo considerazioni e riferimenti precedentemente trascurati.
Lola e Racheal; fotografia di Mike James.
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LA CURATRICE
Dian Hanson è nata a Seattle, nel 1951, e vive a Los Angeles. Per venticinque anni ha prodotto diverse riviste erotiche, tra le quali si segnalano le affermate Puritan, Juggs e Leg Show. Dal 2001 responsabile delle edizioni erotiche di Taschen Verlag, ha curato in proprio numerose raccolte, come i quattro titoli della serie The Big Book e la retrospettiva su Vanessa del Rio [che richiamiamo ancora, alla pagina accanto]. Andressa Soares, conosciuta come Watermelon Woman; fotografia di Jorge Bispo (Courtesy di Playboy Brazil).
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Non è proprio vero, ma lo è quantomeno dal punto di vista della raffigurazione/rappresentazione fotografica, alla quale ci riferiamo sempre e comunque e dalla quale dipendiamo, volenti o nolenti. Parlando di fondoschiena, sedere, glutei, chiappe (culo!), non possiamo ignorare come e quanto il mitico Kamasutra (Kama Sutra), da molti citato, da pochi conosciuto, fornisca dettagliate istruzioni sulla sua finalizzazione e utilizzazione sessuale (scusateci). E non mi riferisco al gesto scaramantico, tutto italiano solo italiano, di toccare il culo come portafortuna; e neppure all’ossessione statunitense della sua perfezione geometrica (sfera), con tanto di cliniche estetiche specializzate nel suo disegno artificioso, quantitativamente più diffuse di quelle per la correzione del seno (ma meno note e pubblicizzate di queste). No! Richiamo proprio ciò che le chiappe (culo, butt, derrière) hanno sempre ispirato: timore reverenziale, fantasia e servile devozione. Tutti sentimenti (diciamola così) trasversali alle fotografie che si susseguono, una dopo l’al-
tra in un ritmo serrato, sulle pagine dell’affascinante The Big Butt Book. Tra i suoi tanti valori, tutti da sottoscrivere, indipendentemente da mal declinati moralismi di maniera (ma nessuno venga meno alla morale, propria e assoluta che sia), curiosamente le immagini fotografiche raccolte nella monografia sottolineano addirittura lo scopo primario del culo: a un tempo funzionale piuttosto che estetico. Dall’equilibrio del corpo nella camminata e corsa, secondo i biologi, alla definizione della personalità femminile. Ma soprattutto, queste fotografie cantano e decantano come e quanto il sedere (il culo) esista per compiacere l’occhio, lo sguardo, il tatto. E non facciamo finta che non sia vero, non facciamo finta di niente, non scandalizziamoci della chiarezza e trasparenza di questa rilevazione, che non rivela nulla che non sia noto a tutti. Nel suo straordinario Con gli occhi rivolti al cielo (Their Eyes Were Watching God ), la scrittrice afroamericana Zora Neale Hurston (1891-1960) va diritta al punto: «Gli uomini notavano le natiche sode, co-
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me avesse avuto dell’uva nelle tasche posteriori». Per certi versi oscurato dalla ipervalutazione del seno (delle tette, presenti soprattutto nella cultura statunitense), il culo è stato riscoperto e rivalutato (una volta ancora, diciamola così) per merito di figure femminili proiettatesi nella simbologia erotica virtuale. Accreditati osservatori del costume riferiscono questo individuato cambio di passo a partire dall’imposizione dell’attrice statunitense Jennifer Lopez, che da tempo occupa una posizione di prestigio nelle fantasie maschili. Su un piano culturale di profilo più alto, altri richiamano antiche le-
zioni classiche, a partire da quelle dell’antica Grecia, e dal mito di Aphrodite Kallipygos, Venere Callipigia, Afrodite dalle belle (kalli) natiche (pygos). Sia come sia, vada come vada, un sedere (culo) è sempre un richiamo e riferimento di culto nella maggior parte del mondo. Poche balle, nessuna altra parola in aggiunta.
IN RACCOLTA MONOGRAFICA The Big Butt Book esplora questo fascino perenne, con una indagine fotografica estremamente colta e minuziosa. Quarta raccolta a tema (co-
PORNOSTAR PER VOCAZIONE
Originariamente pubblicato in edizione a tiratura numerata e firmata (duecento copie Art Edition e milletrecento copie Collector’s Edition; FOTOgraphia, marzo 2008), Fifty Years of Slightly Slutty Behavior è la biografia illustrata della attrice hard Vanessa del Rio, in scena negli anni Settanta e Ottanta: una pornostar che non rinnega, né ripudia il proprio passato. Finalmente, una pornostar che non si trasforma in maître à penser, maestro di pensiero buono per tutti i palinsesti televisivi. Finalmente, una pornostar che racconta
Buffie the Body; fotografia di Howard Huang. Bettie Page; fotografia di Bunny Yeager; 1954.
la propria vita senza scorciatoie, né facili comprensioni o condivisioni. Ricalcando le edizioni originarie, a cura di Dian Hanson, alla quale si devono anche i quattro The Big Penis Book, The Big Book of Legs, The Big Book of Breasts e The Big Butt Book, Fifty Years of Slightly Slutty Behavior è ora riproposto in confezione economicamente abbordabile, che ne riprende i connotati, in una veste meno esclusiva: ancora con Dvd allegato, a quaranta euro (con un centesimo di resto).
Vanessa del Rio: Fifty Years of Slightly Slutty Behavior; a cura di Dian Hanson; Taschen, 2010 (distribuzione: Inter Logos, strada Curtatona 5/2, Località Fossalta, 41100 Modena; 059-412648; www.books.it); 328 pagine 30x30cm, cartonato, con Dvd; 39,99 euro.
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IN RETE: SOPRATTUTTO RETRO
Su segnalazione, che vuole rimanere anonima, abbiamo rintracciato siti Internet che propongono fotografie intime private. La stragrande maggioranza, diciamo nell’ordine del novanta percento almeno, raffigura ragazze fotografate di schiena, con complice esibizione di natiche (culi), il cui insieme si accosta, senza allinearsi, senza sommarsi, al casellario storico rintracciato e allestito dalla brava Dian Hanson nell’attuale The Big Butt Book, che è autenticamente altro rispetto questa fenomenologia sociale online. Sono almeno due i motivi della presentazione/autopresentazione soprattutto di retro. Uno riguarda la ricerca di anonimità del soggetto, che nella complicità di coppia vuole rimanere comunque incognito, non svelato. L’altro, probabilmente, si basa sull’estetica e il piacere visivo. In ogni caso, queste fotografie spontanee (molte delle quali di trivialità improponibile e non condivisibile, quantomeno qui) «cantano e decantano come e quanto il sedere (il culo) esista per compiacere l’occhio, lo sguardo, il tatto. E non facciamo finta che non sia vero, non facciamo finta di niente, non scandalizziamoci della chiarezza e trasparenza di questa rilevazione, che non rivela nulla che non sia noto a tutti». Lontane dalle raffigurazioni di The Big Butt Book, il cui insieme è comunque ragionato, queste stesse fotografie intime compongono i tratti di un altro capitolo fotografico, derivato dal contenitore generale della fotoricordo, socialmente fondamentale. E, purtroppo, quello della fotoricordo, uno dei più fantastici aspetti (sociali) della fotografia, è un racconto impossibile, perché vive e palpita tra le pareti domestiche, là dove non si può penetrare. Fotografie raccolte in album, conservate in scatole di scarpe, dimenticate nei cassetti, che raccontano storie personali e capitoli di una Storia collettiva latente e latitante, della quale l’esibizionismo online sta rivelando soltanto un aspetto, che oggi indirizziamo alla raffigurazione volontaria di retro. Culi in parata.
The Big Butt Book; a cura di Dian Hanson; testi in inglese, francese e tedesco; Taschen, 2010 (distribuzione: Inter Logos, strada Curtatona 5/2, Località Fossalta, 41100 Modena; 059-412648; www.books.it); 372 pagine 30x30cm, cartonato con sovraccoperta; 39,99 euro.
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erente) della curatrice Dian Hanson, si distribuisce su un corpus (è il caso!) di quattrocento fotografie, dall’inizio del Novecento ai nostri giorni. Immagini di autori universalmente accettati e celebrati, ma anche di fotografi riconosciuti soltanto da cultori, con presenze assolutamente significative (indipendentemente dai nostri giudizi e apprezzamenti personali e individuali): Elmer Batters, Ellen von Unwerth, Jean-Paul Goude, Ralph Gibson, Richard Kern, Jan Saudek, Ed Fox, Terry Richardson e Sante D’Orazio. Dall’altra parte dell’obiettivo, di fronte all’obiettivo, seppure di schiena a se stesse, altrettante celebrità si alternano a culi anonimi, ma espressivi: Pam Anderson, Serena Williams e Betty Page (ancora!?); solo tre nomi, tra i tanti, per non rovinare la sorpresa di coloro i quali, nell’intimità delle proprie pareti domestiche, andranno alla scoperta, pagina dopo pagina. Sfacciata proposta editoriale, da archivi ben allestiti, sapendo andare a individuare ciò che ha significato, e che ancora oggi può significare le decadi, The Big Butt Book ha selezionato e ordinato fotografie esemplificative di visioni e interpretazioni che si sono manifestate nel sogno erotico, pur rappresentando qualcosa di molto più profondo e radicato nelle rispettive epoche. Oggi, a distanza di anni e decenni dai tempi presi in considerazione, con che occhio guardiamo queste immagini, spesso più lontane di quanto rivelino le successioni del calendario? Più concretamente, come collochiamo la raffigurazione del
culo nell’evocazione e idea dell’erotismo visivo (e non solo) dei nostri giorni? Ancora una volta, e una volta di più: magia e fascino della fotografia, che testimonia con implacabile rigore ed esattezza quanto è esistito, offrendolo al commento successivo (mai giudizio). Insomma, in definitiva, se erotismo deve essere (magari essere stato), volendo altresì esserlo (non nudo insapore), in relazione agli stilemi lessicali della fotografia di genere, quello che prende spunto e pretesto dalla raffigurazione del culo è assai più intrigante di quello che si attarda altrove e altrimenti. Fatta salva la solita distinzione che separa l’erotismo dalla pornografia, assegnando a uno un valore positivo e all’altra una intenzione negativa, comunque la si pensi al proposito, l’insieme delle fotografie raccolte nella successione di pagine di The Big Butt Book è di valore altamente erotico: proprio perché intrigante. Poco è lasciato all’immaginazione, come invece vorrebbe la sottile evocazione erotica, secondo la quale, in materia appunto erotica, meno si vede e meglio è. Molto è dichiaratamente esplicito e diretto. Però, attenzione, non siamo mai di fronte a manifestazioni di consistente entità e densità trasgressiva, ovvero non incontriamo alcun erotismo funambolico o descrittivo, ma osserviamo evocazioni che, pervadendo i gesti raffigurati in fotografia, si proiettano sulle azioni degli osservatori. In una parola, ognuno sia avvertito: a dispetto dell’intenzione dichiaratamente storica e filologica, The Big Butt Book finisce per essere un libro illustrato terribilmente erotico. Punto. ❖
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Sociale di Lello Piazza
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MORTI BIANCHE
Una notizia è vecchia se la conoscono tutti. Anche se risale a qualche anno fa, è ancora nuova se non la conosce nessuno o quasi. È questo il caso che riguarda una significativa mostra itinerante di Riccardo Venturi, NO! Contro il dramma degli incidenti sul lavoro, della quale ho saputo solo di recente, ma che mi sento assolutamente in obbligo di segnalare, per la sua bellezza e valenza sociale. A tutti è noto che in Italia, anche se in costante diminuzione dal 2002, i morti sul lavoro sono ancora più di mille l’anno, circa tre al giorno (dati 2009; www.inail.it/Portale/appmanager/portale/desktop?_nfpb=true&_ pageLabel=PAGE_STATISTICHE). Si tratta di un costo inaccettabile per un paese civile. Perciò, un’iniziativa come questa di Riccardo Venturi, dedicata a tutte le vittime del lavoro, realizzata sulla base di un progetto Inail (Istituto Nazionale per l’Assicurazione contro gli Infortuni sul Lavoro) e Contrasto, la più importante agenzia fotografica italiana, e sostenuta dall’Anmil (Associazione Nazionale Mutilati e Invalidi del Lavoro; www.anmil.it), è altamente apprezzabile. Abbiamo raggiunto telefonicamente Riccardo Venturi, mentre era in missione negli Stati Uniti, per raccogliere la sua testimonianza sulla sua iniziativa: «Questo degli incidenti sul lavoro è un progetto che mi ha visto coinvolto per un anno e mezzo, dal Friuli alla Sicilia. Si è trattato di un lungo viaggio attraverso il quale ho realizzato un racconto su un’Italia invisibile. La maggior parte delle storie che ho incontrato non sono mai apparse su nessun giornale nazionale; solo qualche riga in cronaca locale e poi il buio, il silenzio. Purtroppo, il clamore dei media racconta solo di alcuni casi eclatanti, e anche quelli vengono presto dimenticati; ma dietro lo stillicidio di una guerra silenziosa, che uccide oltre mille lavoratori e migliaia li lascia invalidi, ci sono storie quotidiane, fatte spesso di coraggio, solidarietà. «Quando l’Agenzia Contrasto mi ha proposto di occuparmi delle morti
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bianche in Italia non ho avuto dubbi. Conoscevo le cifre del fenomeno: le ho appena richiamate. Come una guerra in Italia, sommersa e invisibile. «Ho lavorato al progetto per oltre un anno e mezzo lungo tutto lo stivale, spesso in un’Italia di provincia, un’Italia di solito arrabbiata delusa,
umiliata e abbandonata, ma quasi sempre coraggiosa, e spesso solidale. Spero che le mie immagini, per quanto forti e drammatiche, trasmettano anche il senso di rispetto e stima che ho sempre provato nei confronti di tutti coloro che mi hanno concesso il privilegio di essere
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Sociale fotografati nella propria intimità». La mostra è stata inaugurata per la prima volta il 19 novembre 2008, dal Presidente della Camera dei deputati, Gianfranco Fini, presso il Palazzo Valdina, di Montecitorio. Il suo allestimento comprende quarantasei fotografie, stampate in formato 50x70cm. Della mostra è stato anche realizzato un catalogo che, oltre alle bellissime immagini di Riccardo Venturi, propone un testo documentato del giornalista Matteo Bartocci, che ha curato anche le didascalie delle fotografie. Pur-
Da NO! Contro il dramma degli incidenti sul lavoro, di Riccardo Venturi, mostra itinerante: Bergamo, dal ventitré settembre al sette ottobre; Asti, dal nove al diciassette ottobre; Verona, dal ventitré al trentuno ottobre; Modena, dal tre al diciassette novembre; Cuneo, dal diciannove al trenta novembre; Ravenna, dal quattro al quindici dicembre.
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Sociale
troppo, il catalogo risulta esaurito, ma è consultabile e scaricabile in rete all’indirizzo: www.anmil.it/Portals/0/Immagini/Mostra%20itinerante/Catalogo_bassa.pdf. Da quel diciannove novembre di due anni fa, la mostra ha attraversato molte città, tra le quali Palermo, Alessandria, Padova, Bologna, La Spezia, Trapani, ed è costantemente in viaggio per l’Italia. Le prossime puntate sono previste a Bergamo (dal ventitré settembre al sette ottobre), Asti (dal nove al diciassette ottobre), Verona (dal ventitré al trentuno ottobre), Modena (dal tre al diciassette novembre), Cuneo (dal diciannove al trenta novembre) e Ravenna (dal quattro al quindici dicembre): per fortuna, questi appuntamenti rendono la notizia della mostra ancora attuale. Al progetto è stato conferito l’Alto Patronato del Presidente della Repubblica e il Patrocinio della Came❖ ra dei deputati.
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Sguardi su Cinema di Pino Bertelli (10 volte agosto 2010)
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Merda! Ogni volta che la fotografia mi sembra concepibile fuori dalla civiltà dello spettacolo integrato o dalla domesticazione sociale, ho l’impressione di essere toccato dalla grazia dell’eresia, e penso che occorra un minimo di stupidità o di coraggio per affermare un innegabile piacere o un’inclinazione naturale alla sovversione non sospetta dell’ordine costituito. L’impazienza di scannare i profeti dell’impostura e della falsificazione è forte. Le grandi verità si dicono con un coltello in mano o una macchina fotografica che muore di eu-topie, diceva. Nulla eguaglia l’oblìo del piacere, non ci sono farabutti, malfattori o ribelli da rimpiangere. L’intenzione di ciascuno è di portare a buon fine il crollo delle illusioni su un “buon governo”. In ogni grande fotografo alberga un’anima di assassino. I soli avvenimenti notevoli di un’esistenza sono le rotture irrimarginabili o le visioni da ritardati mentali. La felicità suprema è al fondo del filosofo o del poeta che s’impicca all’epifania dello stupore o della meraviglia. A parte la fotografia della gioia, tutto è menzogna. In fondo a una fotografia c’è sempre uno stupido o un assassino, l’abbiamo detto; solo i poeti autentici conoscono la realtà dispersa nella rêverie dell’infanzia prolungata o scippata ai cumuli di povertà delle società consumeriste. Il cantico delle illusioni mediatiche calpesta le stagioni del ricordo e non c’è più sognatore in grado di scattare una fotografia agli oppressi e al contempo sbattere la macchina fotografica sulla testa degli oppressori. Lo spettacolo indecente dei mondiali di calcio in Sudafrica è un esempio: milioni di persone muoiono per fame e sete, o sono uccisi in guerre fratricide (sostenute dai servizi segreti dei pae-
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EVE ARNOLD si occidentali e dei regimi comunisti, o dai bravacci delle multinazionali), e non c’è stato nemmeno uno straccio di brulotto di antiche memorie corsare fatto saltare sotto il culo di giocatori, allenatori, dirigenti, giornalisti, star cine/televisive, generali, re, papi o capi di Stato, che proteggono i colonialismi dei ricchi e perpetuano la miseria dei poveri. Il petrolio, l’oro, i diamanti, l’acqua, l’uranio sono le divinità dei poteri forti della Terra, e basterebbe conoscere la storia di un asino (Platero y yo, di Juan Ramón Jimenéz) per comprende-
Trentasei di Durruti, c’è l’incantamento della vita. Lo sguardo di un fotografo della gioia conduce in luoghi dove l’immaginazione abita un’altra casa. Ecco perché ci sono frotte di coglioni che vagano sui marciapiedi della Terra come puttane sfiorite in cerca di qualcosa da fare, da fotografare o più semplicemente da ficcare dentro le proprie macchine fotografiche (non importa se analogiche o digitali). La stupidità non ha frontiere, e questo le multinazionali dell’imbecillità protetta lo sanno bene. Ecco perché è utile co-
«I fotografi di genio sanno calcolare la durata delle loro istantanee, Una durata di rêverie. Il poeta fa la stessa cosa. Allora ciò che affidiamo alla memoria è nostro, è di nostra proprietà, è in noi. Dobbiamo possedere il centro dell’immagine di un attimo intero» Gaston Bachelard re che quando la nostra esistenza ci sfugge, o viene calpestata, viviamo in quella dei nostri bastonatori. Un asino come Platero o un ribelle come Buenaventura Durruti sono stati in grado d’interpretare le grandi immagini/rêverie del proprio tempo e ci hanno rivelato l’autenticità e l’intimità del mondo.
IL CANTICO DELLE ILLUSIONI Nella fotografia dello stupore, come nella via crucis di Platero o la rivoluzione di Spagna del
struire qualcosa di reale nella sua diserzione (con ogni dispositivo di comunicazione). Esprimere una fotografia di resistenza e insubordinazione significa mettere fine alla genealogia delle passioni tristi e non accettare l’odio professato dalle religioni monoteiste, dalle democrazie autoritarie e dai regimi del comunismo applicato alla forca e ai campi di sterminio. La fotografia cambia di segno nell’epoca dello spettacolare mercantile, nel quale la sostan-
za dell’essere piange lacrime e rabbia manipolate dai governi del crimine giustificato. La fotografia, tutta la fotografia (o quasi) prende coscienza del nostro dissidio, o è poca cosa. Nell’onirismo incantato della rêverie non si muore mai. L’adolescenza originaria aiuta a fantasticare, a prendere i propri sogni per la realtà, a percepire i valori dell’immagine e fare della luce nuova i sentieri libertari di un’infanzia mai conclusa (non solo in fotografia). Più guardo l’estetismo seriale della fotografia corrente, più trovo conforto nell’immaginale di un asino o nelle rêverie insorgenti di uomini della disobbedienza. «Il mondo comincia per l’uomo con una rivoluzione d’animo che molto spesso risale all’infanzia» (Gaston Bachelard). Nel ricordo nasce la rêverie e nella rêverie ritorna e insorge la bellezza primitiva dell’amore dell’uomo per l’uomo. Eve Arnold si racconta. «Sono nata povera, in America, da genitori immigrati russi. Ho cominciato a lavorare presto e, lavorando, dovevo provare me stessa. L’atmosfera a volte competitiva di Magnum è stata uno stimolo in più. In quanto donna, ero in una posizione privilegiata, sebbene sentissi spesso, da parte di alcuni colleghi, quell’attitudine da benevola pacca sulla spalla e da “su, ragazzina”. Non c’è da meravigliarsi se ho dovuto cercare di essere brava almeno quanto gli uomini: il mondo era duro, là fuori. La scommessa più grande era riuscire utilizzare il mio essere donna nel modo migliore: mi dava uno spessore unico, in un mondo tutto maschile. «I sessi pensano in modo differente, lavorano in modo differente, allora perché non essere me stessa? Questa è finita per essere la decisione più saggia che abbia mai preso.
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Sguardi Cinema su «Eravamo giovani e idealisti, e facevamo parte di una “confraternita” piena di contenuti e competizione. Quando Werner Bischof e Bob Capa sono morti, nel 1954, di colpo ci siamo sentiti senza leader; di più, ci siamo sentiti senza padre. «Avevo fame di risposte e il bisogno di conoscere mi ha portato a imparare la professione che mi avrebbe permesso di viaggiare nel mondo, vedere molti paesi e molte culture, valutare nel giusto modo quel che vedevo e cercare di comprendere quel che vedevo e fotografavo secondo la mia esperienza. «Cosa mi ha guidato e portato avanti attraverso i decenni? Qual è stato l’impulso? Se dovessi usare un’unica parola, sarebbe “curiosità”. «La curiosità è stata una sfida costante. «La grande capacità della fotografia di essere imprevedibile mi ha sempre affascinato. «Le possibilità sono infinite. Le decisioni su cosa includere e cosa escludere, l’inquadratura, il lavorio nel cercare di cogliere il momento giusto, guardare la luce muoversi su di un viso, il caleidoscopio di emozioni dalle quali poter scegliere: tutto così vario e intercambiabile. «Le domande della fotografia alla ricerca di risposte si intrecciano inevitabilmente con la vita delle persone» (www.magnumphotos.com). Basterebbero queste parole e andare a vedere/leggere le immagini amorose di Eve Arnold per comprendere l’autorevolezza etica ed estetica di un poeta della storiografia fotografica. Come i gitani, i briganti di confine, i situazionisti del Maggio Sessantotto (o François Rabelais, Jonathan Swift, François Villon, la banda Bonnot, Céline), noi consideriamo che la verità non vada mai detta che nella propria lingua, perché in quella del nemico regna la menzogna. Per questo, ci avventuriamo nell’iconografia della “signora del bello”, che ha fatto del meraviglioso una catenaria d’i-
stanti scippati alla conservazione dell’ordine, dove l’impossibile è abolito. La purezza non esiste: esiste l’imperfezione dei piaceri che trascolora la gioia o la malinconia in arte. Eve Arnold è un maestro della fotografia. Non c’importa qui incensare la sua visione dell’umanità, né entrare nella dossologia della sua poetica figurativa; bastano alcune annotazioni per far comprendere il suo percorso esistenziale e creativo. Eve Arnold nasce a Philadelphia, nel 1913. Nel 1946, va a lavorare in uno stabilimento di ritocco fotografico, e nel 1948 frequenta un corso di fotografia per sei settimane (dove non impara nulla della fotografia viscerale che le è propria). Già nel 1951 diventa membro associato di Magnum Photos, e nel 1955 membro effettivo della più celebrata agenzia fotografica del mondo (non sempre a ragione). Di qui in poi le fotografie, i libri e Eve Arnold ricevono consensi e riconoscimenti internazionali (addobbi che comunque contano nell’elencario di un artista, almeno per cattedratici e mercanti), tuttavia lei non tralascia mai la capacità di osservazione della realtà; ancora oggi (che ha raggiunto i novantasette anni, in una casa di cura in Inghilterra) le sue fotoscritture dal vero non temono l’avanzare del tempo, né il tramonto degli oracoli. I filologi, storici, critici più insigni dell’arte fotografica ricordano il mentore di Eve Arnold, Alexey Brodovitch (designer, fotografo, art director russo), uno dei pionieri dell’editoria divistica/confessionale americana, che ha insegnato il mestiere a gente come Richard Avedon e Irving Penn [ma anche a Diane Arbus]: il che è tutto dire, in fatto di estetismo ed estetizzazione della fotografia “leccata”, anche. La fotografia di moda, Harper’s Bazaar, il lavoro grafico/pubblicitario per aziende quali Steinway & Sons, Helena Rubinstein e Elisabeth Arden sono la rappresentazione sofi-
sticata fino alla nausea del suo passaggio sulla Terra. Alexey Brodovitch sembrava non sapere che l’onore e la gloria (sui campi di battaglia, come nella civiltà dell’apparenza) costituiscono falsi valori e virtù ridicole. L’intera produzione artistica di Brodovitch è più dolcificata di uno zuccherificio che ancora impera nell’epoca delle credenze imposte dalla videocrazia e dal feticismo della merce come credo dell’economia-politica. Le puttane dell’Emporio Armani, Dolce & Gabbana e Valentino (“sarti d’alto bordo”, servitori della “nobiltà” dello spettacolo, senza un’oncia di bellezza regale, né un filo di pudore per il sublime materico delle origini) escono direttamente da questo confortorio del falso bello e mostrano che i poeti sovversivi del costume sono «più rari degli imbecilli [della sinistra, specialmente], incapaci di pensare al di fuori delle categorie dell’epoca» (Michel Onfray), che li adora come santi nel paradiso dell’idiozia.
SULLA FOTOGRAFIA AL TEMPO DELLA GIOIA La fotografia al tempo della gioia è esplosa negli anni Sessanta, per poi trovarsi a fianco degli insorti del Maggio Sessantotto a ogni angolo della Terra. Le immagini immortali dei Lewis W. Hine, August Sander, Roman Vishniac, Robert “Bob” Capa, Tina Modotti, Diane Arbus, Henri Cartier-Bresson avevano lasciato nell’immaginario delle giovani generazioni la voglia e il desiderio di cambiare il mondo. Si trattava di stare contro il male e scegliere il bene, differire dalle virtù insegnate e individuare nella disobbedienza la fine dei divieti e delle repressioni. La fotografia realizzata con queste idee in testa significava esprimere una contro-morale e disvelare anime e corpi degli angeli ingannatori di ogni potere. Il piacere di chiamarsi fuori dall’oppio pedagogico della morale dominante invitava alla dissolutezza di ogni princìpio im-
posto e, al di là del bene e del male, si percepiva ovunque l’imminenza di un rovesciamento di prospettiva dello Stato imperialista delle multinazionali e la possibilità di una vivenza differente della vita quotidiana. Se poi tutto è andato diversamente è perché le lotte di quei giovani che nel Sessantotto si sono rivoltati (con tutti i mezzi necessari) contro i poteri storici e hanno perso (sono stati carcerati, uccisi o costretti all’esilio) non hanno più avuto l’aderenza, il sostegno, la comprensione che il popolo aveva tributato alla Resistenza partigiana (ma solo quando il fascismo era crollato sui propri escrementi). Tuttavia, quella stagione non è mai finita e la critica radicale dell’ingiustizia non è mai stata abbandonata. La grazia della ribellione libera di ogni colpa, e nessuno può dire che la partitocrazia (connaturata con la chiesa e i tenutari del libero mercato) non è un covo di serpi e criminali. Le fotografie di Eve Arnold sono icone indelebili della nostra epoca; spaziano nella ritrattistica, nel reportage, nella scrittura fotografica d’impegno civile. Negli anni Cinquanta, la giovane fotografa ebrea si avvicina alle classi umili della società, e la bellezza autoriale di quelle immagini le permettono di entrare nella Magnum, sotto il protettorato di Werner Bischof, Robert Capa e Henri Cartier-Bresson. I volti/corpi che fotografa nelle periferie “nascoste” sono singolari: c’è amore per l’altro, mai sfruttamento della miseria; c’è pietà in quegli sguardi e posture schive all’estetismo della povertà; c’è grazia e comprensione fraterna per gli ultimi che si trova a fotografare in Cina, Russia, Inghilterra, Sudafrica, Afghanistan. Non è una fotografia militante, la sua; tuttavia, ricusa ogni forma di edonismo e obbedienza a qualunque autorità. Eve Arnold diviene famosa per le immagini di Gloria Swanson, Elisabeth Taylor, Richard Burton, Andy Warhol, Malcom X, Paul Newman, Joan Crawford,
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Sguardi su Marlene Dietrich, Marilyn Monroe, Jacqueline Kennedy, la regina Elisabetta II, che le riviste illustrate si contendono a colpi di migliaia di dollari. Lasciamo ad altri (più inclini alla seduzione e alla fascinazione delle mitocrazie) l’esplorazione estetica di queste fotografie (sovente anche straordinarie), che a noi non interessano proprio. Ne facciamo volentieri a meno di parlare di divi ubriaconi, regine tristi per il perduto impero, artisti/venditori di facezie e mogli in lacrime di qualche presidente americano ammazzato da mafie che conosceva bene. Invece, siamo interessati a entrare nella scrittura fotografica di Eve Arnold quando si accosta alla gente “comune”: a conoscere uno sguardo della tenerezza che ci sembra attraversare molte immagini scippate alla vita ordinaria di ogni-dove.
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Quelle fotografie prese ai banconi dei bar, nelle strade metropolitane, nelle lotte per i diritti civili; i volti a colori della Cina, i gesti dei bambini, la malinconia dell’adolescenza; la bellezza delle ragazze afgane: l’intera opera fotografica di Eve Arnold esprime la libertà del piacere e del desiderio, e canta la liberazione del corpo. Le sue fotoscritture di strada si tagliano via dalla delinquenza patinata e dal banditismo editoriale. La gente “semplice” che fotografa trasmette libertà, uguaglianza e accoglienza. Il suo sguardo rigetta la tolleranza come forma di pietà istituzionalizzata e i volti, i corpi, i gesti riflettono la dignità degli ultimi o degli sfruttati, dove ognuno è padrone della propria fame. I suoi libri meno sfogliati, cioè quelli non incentrati sulla figurazione divistica o personale di miti popo-
lari, mostrano la discrepanza figurativa del vero all’interno di un tempo uniforme e omologato dalle ragioni del potere. Ciò che ci tocca non è soltanto l’universo dolente che si leva dal suo fare-fotografia, è la consapevolezza della profanazione del sacro, la dissezione della cruda miseria come assassinio delle “belle promesse” dispensate dagli incensari della politica. La bellezza della fotografia sorge dall’ostinazione. È più facile intendersi con un freak che con l’opposto di un mostro: occorre una certa dose d’insolenza o sfrontatezza per non morire (ridendo) di fronte all’enorme produzione d’imbecillità della fotografia circuitata in gallerie, musei o sagre dell’arte estiva per turisti annoiati. Il sorriso canzonatorio ci difende e libera da questo universo demente che si rifugia nell’eufemismo. La fotografia antropologica (o di ricerca) di Eve Arnold si lega a una filosofia radicale della diserzione che fuoriesce nei libri In Cina (1980) e In America (1983) e riproposta come strumento di conoscenza profonda del linguaggio fotografico in Eve Arnold’s People (2009). A differenza di molti fotografi del miserabilismo, accreditati dalla storiografia ufficiale e abilitati allo studio nelle università (i maggiori si situano tra la disperazione e il compiacimento), la scrittura del reale di Eve Arnold svela la verità della sua raffigurazione e mostra il disprezzo per la fotografia (merce) edulcorata. Il carattere delle sue fotografie (sovente anche quelle più alimentari) è rivestito di un fascino estraniante e nulla ha a che fare con l’introspezione simbolica o con l’immediatezza cronachistica. Le sue immagini portano la cattività del mondo nella propria tessitura, e la gioia contenuta che rivelano è tutta fuori dell’apparenza. È un atto figurativo, un evento etico strappato alle macerie della realtà. La fotografia della gioia è una dissoluzione della realtà, e il caos di questa repellenza del mon-
do può essere rappresentato meravigliosamente dall’evasione (non dalla fuga) da questo mondo. La fotografia della gioia non è altro che un mezzo per interpretare/figurare, attraverso il disordine delle idee, il disordine del mondo. La fotografia falsificata è stata inventata dal nemico: la sua veridicità è ingannevole. Il valore autentico della fotografia si decide alla fine, quando artisti e padroni banchettano alla tavola dei giusti e lasciano cadere le briciole di pane per i cani, i lebbrosi e gli affamati. Gli eretici finiscono nella storia della chiesa scorticati vivi o dati in pasto al pubblico ludibrio: non è mai la fotografia ciò che vale, ma quello che dice. Il furore creativo delle immagini di Eve Arnold smaschera il visibile della omogeneità sociale e -di contro- mette in relazione la realtà del proprio tempo con la storia che l’affossa. La sua poetica del disamore per l’estetica accademica rende ridicole le composizioni classiche e le affermazioni artistiche da bottegai della fotografia mercantile. La brutalità, la mediocrità o l’infamia dell’esistenza non le sono proprie e le ripugna anche la sottomissione del vero alle richieste del sistema dell’intolleranza. Sa che al servizio di tutti i poteri, colpevole è non ciò che è mostrato, ma come lo si mostra. Al culmine della disumanità si trovano sempre gli apostoli di “buone novelle” e i boia dello spettacolo dei supplizi. La fotografia del reale disvelato distrugge o fortifica l’individuo. La fotografia incensata e prostituita alle gogne del più forte la rende stupida. Non si abita la fotografia come si abita una lingua. La fotografia non ha nessuna patria e la fotografia più grande designa ciò che viene dopo. «Vi è del ciarlatano in chiunque trionfi in qualsiasi campo» (E. M. Cioran). L’irresoluzione della fotografia è un cammino di perdizione e la sola fotografia compiuta è quella che ha spezzato il destino spettacolare/domestico del mondo. ❖
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