FOTOgraphia 165 ottobre 2010

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ANNO XVII - NUMERO 165 - OTTOBRE 2010


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Non è venduta in edicola. Per averla hai una sola possibilità: sottoscrivere l’abbonamento annuale. 12 numeri 65,00 euro

Abbonamento 2010 (nuovo o rinnovo) in omaggio 1839-2009

Dalla Relazione di Macedonio Melloni alla svolta di Akio Morita M A U R I Z I O

R E B U Z Z I N I

1839-2009 Dalla Relazione di Macedonio Melloni alla svolta di Akio Morita

Come dire, dal dagherrotipo all’acquisizione digitale di immagini. E consecuzioni

INTRODUZIONE

DI

GIULIANA SCIMÉ

F O T O G R A P H I A L I B R I



prima di cominciare DANAR (NADAR). Luogo: Commissariato di Parigi. Nei panni di Topet, Topolino guarda fuori dalla finestra, dalla quale si intravede la Tour Eiffel. Inconfondibile. Si domanda: «Felix Danar? Questo nome mi ricorda qualcosa!». «Era mio zio, commissario! Il fotografo più famoso di Parigi!», gli risponde un subordinato. Così inizia l’avventura Il caso di Villa Danar, inchiesta di Topet il commissario, pubblicata in Topolino, numero 2485, del 15 luglio 2003: ennesima presenza della fotografia nei fumetti, alla quale riserviamo attenzioni mirate e particolari. Le citazioni della sceneggiatura sono adeguate e ammalianti, soprattutto per coloro i quali, noi tra questi, gradiscono questo tipo di richiami e rimbalzi (a proposito, qualcosa di analogo è raccontato, su questo stesso numero, da pagina ventitré, con riferimenti che partono da una scenografia cinematografica). Tra tanto altro, tra sfumature e dettagli di buona cucina, una tavola richiama addirittura una celebre illustrazione di Honoré Daumier, che nel 1869 raffigurò Nadar sul suo pallone aerostatico [FOTOgraphia, marzo 2010, nel centenario della scomparsa]. L’ironico Nadar élevant la Photographie à la hauteur de l’Art, Nadar eleva la fotografia sopra le arti, all’altezza dell’arte, è stato replicato nel fumetto appena ricordato. Bene! Bravi!

Evadere dalla mediocrità spettacolare del quotidiano significa non soltanto chiamarsi fuori dalla prigione del presente, ma andare da qualche parte e spezzare l’incatenamento o l’incantesimo di una servitù volontaria (elettorale) che continua a partorire mostri. Pino Bertelli; su questo numero, a pagina 64 Il bisogno di evasione è un cammino vitale, creativo, belligerante; un volo verso l’ignoto, che non sa dove conduce, ma rigetta la prostrazione e l’ignoranza delle ragioni dominanti. Pino Bertelli; su questo numero, a pagina 64 La disobbedienza non è un castigo, semmai la fine della proscrizione. Pino Bertelli; su questo numero, a pagina 65 La magia della fotografia ha mostrato che lo sguardo non coglie solo ciò che emerge, ma, almeno nei grandi poeti dell’immagine fissa, ha rappresentato lo smascheramento dell’ordinario o dell’inconsueto. Pino Bertelli; su questo numero, a pagina 65 La bellezza dell’immaginazione contiene parole visionarie, dove l’inconoscibile felicità sarà di tutti gli uomini. Pino Bertelli; su questo numero, a pagina 66

Copertina Polaroid 50x60cm: Mary Ellen Mark con Ram Prakash Singh with His Elephant Shyama. Ritratto di Tim Mantoani, il cui progetto Behind Photographs arricchisce la fotografia contemporanea di una visione a dir poco entusiasmante. Ne riferiamo da pagina 30

3 Altri tempi (fotografici) Da un foglio di istruzioni Zeiss Ikon, degli anni Trenta

7 Editoriale Fotografia: punto-e-basta. Casomai, in opposizione: fast!

8 FOTOgraphiaONLINE.it Mille motivi per non averlo fatto fino a oggi. Ne basta uno, per farlo oggi. Dalle 10,10 del dieci ottobre (10,10 del 10-10-10): www.FOTOgraphiaONLINE.it

10 Notizie Attrezzature, vicende e altre segnalazioni

12 Sì, ma allora? Non più fotografia digitale, in distinzione e separazione da quella analogica/argentica. Solo fotografia. Diavolo! di Antonio Bordoni

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OTTOBRE 2010

R , RIFLESSIONI IFLESSIONI, OSSERVAZIONI E COMMENTI OSSERVAZIONI E COMMENTI SULLA FOTOGRAFIA SULLA FOTOGRAFIA

17 Ici Bla Bla Appunti e attualità della fotografia internazionale a cura di Lello Piazza

Anno XVII - numero 165 - 6,50 euro DIRETTORE

RESPONSABILE

Maurizio Rebuzzini

IMPAGINAZIONE

23 Gemelli, con citazioni Dal cinema alla fotografia d’autore: addirittura. Richiami e ritorni, in uno sguardo circolare a tutto tondo Ricerca iconografica di Filippo Rebuzzini

Gianluca Gigante

REDAZIONE

Angelo Galantini

FOTOGRAFIE Rouge

SEGRETERIA

26 Finalmente, Giansanti

Maddalena Fasoli

Una mostra e una monografia celebrano uno dei più grandi fotogiornalisti italiani dei nostri giorni, prematuramente scomparso all’inizio dello scorso 2009 di Lello Piazza con testimonianze di Grazia Neri e Chiara Mariani

Pino Bertelli Antonio Bordoni Luigi Facchinetti Forlani Maddalena Fiocchi Chiara Lualdi Tim Mantoani Chiara Mariani Grazia Neri Lello Piazza Franco Sergio Rebosio Ciro Rebuzzini Filippo Rebuzzini

30 Dietro le fotografie Behind Photographs, di Tim Mantoani, è un fantastico progetto fotografico: affascinante e avvincente, oltre che coinvolgente. Che si iscrive addirittura nella Storia della fotografia. Ne siamo più che convinti di Maurizio Rebuzzini

39 Mai morti Negli anni Sessanta, Il Borghese ha espresso nostalgie palesi ed esplicite, la cui satira e ironia (?) si sono spesso basate su un sapiente utilizzo della fotografia. Certe concezioni aberrate non muoiono mai (purtroppo) di Maddalena Fiocchi

48 A due passi dal cielo Bergamo Città Alta. Un luogo a due passi dal cielo, di Luigi Facchinetti Forlani. Dopo la mostra, il libro

56 L’ultima spiaggia Povera raffigurazione tridimensionale! Quante infamie si commettono in suo richiamo! È la volta di sei copertine orribilmente 3D (che pena!) di Sette - Corriere della Sera di Angelo Galantini

60 Nan Goldin (ancora) Efficace monografia d’autore, pubblicata da Phaidon

HANNO

COLLABORATO

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Rivista associata a TIPA

62 Marea nera glamour Servizio di moda bello e provocatorio: su Vogue Italia

64 Ryszard Kapuściński Sguardo sulla fotografia dell’evasione di Pino Bertelli

www.tipa.com

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editoriale MAURIZIO REBUZZINI

F

rancamente, non ne posso più! Sono sfinito dal tanto/troppo parlare di fotografia digitale e analogica/argentica, come se la distinzione avesse un qualsiasi significato, un qualsivoglia motivo di esistere e manifestarsi. Seguo i dibattiti internazionali sulla fotografia, e soltanto in Italia sento ancora queste stronzate, queste autentiche stronzate sull’argomento (con Harry Gordon Frankfurt, professore emerito di filosofia morale della Università di Princeton, da On Bullshit, Princeton University Press, 2005 - edizione italiana Stronzate. Un saggio filosofico, Rizzoli, 2005: «Uno dei tratti salienti della nostra cultura è la quantità di stronzate in circolazione. Tutti lo sanno. Ciascuno di noi dà il proprio contributo»). Ancora, in Italia, si dibatte e si perde tempo. Tanto che su questo stesso numero, a pagina diciannove, registriamo la nascita di un movimento (?) per la slow foto, che -anche se evita di dirlo esplicitamente- contrappone tra loro i modi di esecuzione della fotografia, erigendo barriere e steccati. Sinceramente, non ne posso più! E mi domando quando potremo parlare di fotografia, senza preoccuparci del modo nel quale viene realizzata, ma -più concretamente- delle sue intenzioni e della sua effettiva espressività. Non di fotografiatal-dei-tali, ma proprio di fotografia-e-basta. Tra l’altro, siccome nel nostro paese le etichette sono indispensabili, è curioso che sia io a esprimermi in questo modo: ultimo ad avvicinare le tecnologie più esuberanti, indifferente alle rapidità dei nostri giorni, estraneo a ogni strappo in avanti. Io, che per lo più scatto in ottoperdieci, con negativo bianconero o carta sensibile utilizzata al posto della pellicola. Tanto che i miei tempi di riflessione sulla (mia) fotografia sono così dilatati da non farmi capire cosa significhi slow foto e dintorni. La fotografia è avvincente e affascinante in relazione alla capacità espressiva di chi la esprime, indipendentemente dai tempi con i quali ha agito e operato. Quando non è realizzata in termini utilitaristici, come spesso mi accade di dover fare, e allora agisco con mezzi adeguatamente convenienti, la fotografia rimane un’espressione dell’animo. Così mi rivolgo agli studenti, in Università (corso di Storia della Fotografia, alla Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università Cattolica del Sacro Cuore, sede di Brescia): «Qualunque altra opinione contraria avete potuto sentire al proposito, parole e idee possono cambiare il mondo, anche solo il nostro personale. Non leggiamo, scriviamo e fotografiamo (e non ci occupiamo di fotografia) perché è bello farlo. Noi leggiamo, scriviamo e fotografiamo perché siamo vivi, membri della razza umana; e la razza umana è piena di passione. Attorno a noi si manifestano professioni nobili, concretamente necessarie al nostro sostentamento. Ma la poesia... la bellezza... il romanticismo... l’amore... la fotografia... sono queste le cose che ci tengono in vita». E del digitale me ne frega nulla, come del resto della pellicola. A ciascuno, il suo. Maurizio Rebuzzini

2009. Ricordando la finestra di Gras. Ripresa fotografica in 8x10 pollici; carta bianconero (originariamente per stampa all’ingranditore e trattamento chimico in camera oscura) utilizzata al posto della pellicola piana; da cui, copie positive per contatto (come alle origini della fotografia, ovverosia della natura che si fa di sé medesima pittrice), oppure acquisizione a scanner (in allineamento con gli attuali tempi tecnologici). Comunque sia: Toyo-Field 810M, su robusto treppiedi; obiettivo Schneider Super-Symmar HM 210mm f/5,6; tempo di posa di sei secondi, con diaframma regolato a f/16. Slow foto? No, di certo! Diamine, no! Fotografia-e-basta. Fotografia!

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www di Angelo Galantini

FOTOGRAPHIAONLINE.IT

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Mille motivi per non averlo fatto fino a oggi. Ne basta uno, per farlo oggi. Dalle dieci e dieci di mattino del dieci ottobre (quindi 10,10; 10-10-10: a un tempo scaramantico e giocoso) è attivo il sito www.FOTOgraphiaONLINE.it, nel quale sono raccolte ulteriori versioni della nostra visione della materia, che siamo consapevoli di affrontare con personalità. Almeno. Ovviamente, lo svolgimento scorre lungo un binario perlomeno doppio e parallelo, come è giusto e lecito che sia: una sostanziosa (ri)proposizione ragionata di temi già affrontati sulle pagine della rivista, in forma cartacea e messa in pagina formale, si accompagna e integra con valutazioni, considerazioni, segnalazioni, riflessioni che non hanno ancora trovato spazio sulla stessa rivista e che, nello specifico, non potrebbero neppure trovarne. Quindi, in concreto, approfondimenti svolti con il nostro piglio di sempre (e speriamo competenza) e argomenti affrontati nello spirito e secondo le caratteristiche indotti dalla veicolazione in Rete, che offre e propone visualizzazioni diverse dal giornalismo in veste cartacea. Senza inutili false modestie, lo scenario di www.FOTOgraphiaONLINE.it, realizzato e coordinato da Filippo Rebuzzini, è a dir poco affascinante e appagante: piatto prelibato per i golosi dell’informazione e formazione fotografica. In Rete, è mantenuto e ribadito l’accostamento tra argomenti seri e visioni lievi, quanto trasversali, che caratterizza le nostre pagine, definendo i tratti di un giornalismo della fotografia quantomeno unico nel pur variegato panorama editoriale italiano. Al solito, la differenza è stabilita dall’accesso a un archivio capace di infinite sollecitazioni e da una curiosità mai esaurita, sempre mirata, sempre attenta, sempre perspicace. Si impone la ripetizione di presentazioni già riferite. Noi di FOTOgraphia, e ora anche FOTOgraphiaONLINE, scriviamo di linguaggio, tecnica e costume della fotografia applicando idee che, di fatto, abbattono i confini tra i diversi punti di osservazione: arrivia-

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mo al lessico fotografico partendo dalla presentazione di apparecchi (o fingendo di farlo), così come, con percorso analogo, identifichiamo l’apporto dell’applicazione tecnica quando affrontiamo il linguaggio espressivo. Conosciuti e stimati (?) per un apprezzato e confortevole senso delle proporzioni, nel collettivo esprimiamo un animo comune e coerente, che ci caratterizza e non consente di distinguere uno dall’altro: siamo tutti fedeli alla linea prefissata. Così che, volendolo fare, possiamo estendere a ciascuno di noi, a tutti noi appassionatamente insieme, quanto Giuliana Scimé ha riferito al direttore Maurizio Rebuzzini, in prefazione a 18392009. Dalla Relazione di Macedonio Melloni alla svolta di Akio Morita: «Tutti questi nodi non sono isolati contrappunti, ma momenti focalizzanti di un racconto armonico che Maurizio Rebuzzini [l’intera redazione di FOTOgraphia e FOTOgraphiaONLINE] conduce con maestria, ed inevitabi-

Scaramantico, oppure solo giocoso? Dalle 10,10 del dieci ottobre (10,10 del 10-10-10) è attivo il sito FOTOgraphiaONLINE.it: al pari della rivista cartacea ( FOTOgraphia), argomenti seri e visioni lievi. In ogni caso, Fotografia a tutto campo.

le per lui, gentile ironia. Però, non lasciatevi fuorviare dalla lievità di certi episodi. La lievità, la sottintesa impertinenza sono brillanti mezzi da abile saggista per alleviare la tensione di un argomento fin troppo serio, e trattato con la più assoluta consapevolezza del sapere. E lievità, impertinenza e autentico sapere sono esaltati dalle immagini che illustrano il percorso di questa nuova storia della fotografia. Immagini così godibili, e la maggior parte inconsuete, frutto di una ricerca che ha impegnato e impegna Rebuzzini da una vita, da essere di per se stesse una rivelazione da meditare e che ci arricchisce, regalandoci un universo iconografico ignorato dai più». Seriosità e contorni senza soluzione di continuità. Comunque sia, comunque vada, stiamo con Phil Stern, da FOTOgraphia dell’ottobre 2009, «Con tutte le cose meravigliose che ci sono nell’universo, la fotografia non è così importante...». ❖



Notizie a cura di Antonio Bordoni

PANORAMICA. Finalmente, ec-

IMMANCABILMENTE NIKON. Come è ovvio e lecito che sia (ormai), la nuova reflex Nikon D3100 consente anche registrazione video in alta definizione (HD). Evoluzione consequenziale della precedente D3000, con l’aggiunta sostanziosa del video Full-HD, offre una risoluzione di 14,2 Megapixel, Live View con nuove modalità AF e una migliore ergonomia. Ovviamente, conferma la modalità Guida, che visualizza immagini campione di ciò che si può ottenere con determinate impostazioni: per esempio, modificando il tempo di otturazione o l’apertura del diaframma. Entry level del sistema, è progettata per coloro i quali si avvicinano, neofiti, alla fotografia reflex, proponendo sia interpretazioni di profilo alto sia un utilizzo semplificato. L’insieme delle impostazioni automatiche consente un impiego allineato con quello delle compatte di maggiore diffusione. L’autofocus a undici punti assicura che tutto sia a fuoco e garantisce immagini nitide, anche con soggetti in movimento. Con Selezione scene automatica, la modalità Live View offre e propone un utilizzo intuitivo e familiare: impostazione della modalità più adatta al soggetto inquadrato. Ancora, si segnala il riconoscimento automatico di trentacinque volti, sui quali la reflex finalizza le regolazioni. In combinazione all’efficace sensore di acquisizione Cmos, il potente motore di elaborazione Expeed 2 assicura fotografie adeguatamente nitide e dettagliate. La sensibilità da 100 a 3200 Iso equivalenti, può essere incrementata fino a 12.800 Iso equivalenti, che riducono significativamente il rischio di immagini mosse in condizioni di illuminazione scarsa. Infine, la funzione D-Movie consente di registrare filmati Full-HD con audio. (Nital, via Tabacchi 33, 10132 Torino).

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cola qui, in dirittura di arrivo. Personalmente vicini sia a Vincenzo Silvestri, sia ai responsabili tecnici della produzione fotografica russa dislocata a Krasnogorsk, nei pressi della capitale Mosca, che un tempo produceva le reflex Zenit, sappiamo da tempo di questo autentico sogno: una panoramica a tre obiettivi sintonizzati, per acquisizione di file digitali di consistente qualità formale. Ora, la Horizon D-L3 si annuncia come realtà, disponibile a tempi assolutamente brevi. I tre obiettivi Zenitar 28mm f/3,5 producono tre riprese indipendenti, ciascuna da cinque Megapixel, che si fondono in un’unica visione/inquadratura di 120 gradi lungo l’orizzonte, per 45 gradi in verticale. L’ampio monitor posteriore da 4,3 pollici consente il controllo delle funzioni attive e passive. A presto, risentirci. (Silvestri Fotocamere, via della Gora 13/5, 50025 Montespertoli FI).

IN ROTAZIONE. Immagini in movimento: una sfida. Le immagini in movimento sono diventate di moda, anche perché attirano più l’attenzione su Internet, per presentazioni promozionali o visualizzazione di prodotti. Turna è un sistema rotatorio. Ora, nello studio fotografico, tutto gira intorno all’oggetto sul set. Foba, il principale produttore svizzero di apparecchiature in studio, introduce un sistema rotante che permette di gestire sul computer le riprese in movimento. Utilizzan-

do il flusso di lavoro software TCTRL, la rotazione può essere controllata con precisione e con la serie di fotografie può essere convertita in modo semplice e immediato in linea compatibile Flash. Turna può essere collegato a qualsiasi apparecchio professionale, come Canon, Hasselblad, Nikon, Sony. (Mafer, via Brocchi 22, 20131 Milano).

ANCORA HASSELBLAD. Accessori come i nuovi filtri cromatici a basso rumore termico del sensore dell’Hasselblad H4D-40 e la linea di obiettivi HC/HCD ad alte prestazioni costituiscono la base per una maggiore nitidezza e una maggiore profondità di campo. Grazie alla Hasselblad Natural Color Solution (HNCS) si ottengono costanti riproduzioni cromatiche, applicando un solo profilo cromatico, mentre la Digital Lens Correction (DAC) perfeziona ogni immagine scattata per mezzo degli obiettivi HC/HCD, eliminando qualsiasi traccia di distorsione, vignettatura e aberrazione cromatica. Inoltre la nuova Hasselblad H4D-40 è dotata del nuovo software imaging Phocus 2.0, tecnologia proprietaria, il cui apprendimento è stato notevolmente facilitato. Di fatto, si tratta di una risposta concreta e solida alla diffusione di reflex originarie 35mm, che offre un livello di qualità di immagine più alto. Facile da usare, impone l’imperativo del sensore di maggiori dimensioni e di una versatilità che distingue e qualifica l’impegno fotografico dichiaratamente professionale. In particolare, l’applicazione True Focus consente una composizione precisa a distanze rav-

vicinate, con ridotte profondità di campo. True Focus aiuta a risolvere una delle sfide più ardue nella fotografia professionale: una vera e accurata messa a fuoco su tutto il campo dell’immagine, quando si lavora con una profondità di campo ridotta, a distanze ravvicinate. Il nuovo processore Absolute Position Lock (APL) costituisce il fondamento della proprietà True Focus di Hasselblad. (Aproma, via Cimabue 9, 20032 Cormano MI).

IN UN LAMPO. Ulteriori miglioramenti al flash elettronico Metz top di gamma. Successore del precedente Mecablitz 58 AF-1, affermatosi nel mercato e selezionato da qualificate giurie tecniche, è stato dotato di una nuova base in metallo, per il più rapido e sicuro collegamento alla slitta flash delle macchine fotografiche. Perfezionamenti come una nuova modalità zoom assicurano sia prestazioni incrementate, sia una maggiore longevità nel tempo. La multi-funzionalità è stata estesa, con funzionalità aggiuntive. Così, il Metz Mecablitz 58 AF-2 Digital offre un servo flash tramite il flash incorporato nella macchina fotografica e una efficace funzione master. Il diffusore grandangolare è stato ampliato per l’illuminazione fino all’angolo di campo della focale grandangolare 12mm (sul 24x36mm). Come tutti i Mecablitz, è disponibile in versioni dedicate a tutte le reflex sul mercato. (Fowa, via Tabacchi 29, 10132 Torino). ❖



Curiosità di Antonio Bordoni

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SÌ, MA ALLORA?

Diciannove anni fa -e tra dodici mesi si potrà celebrare il ventesimo anniversario tondo-, la fotografia è stata travolta dall’annuncio con il quale è stato notificato un suo sconvolgimento. È la svolta di Akio Morita, una delle quattro senza ritorno considerate e analizzate dal nostro direttore Maurizio Rebuzzini nella sua convincente Storia 1839-2009. Dalla Relazione di Macedonio Melloni alla svolta di Akio Morita, che offre e propone un punto di vista e lettura particolarmente originale: «[Rebuzzini] Ha considerato una storia, quella della fotografia, da angolature classiche e anticonformiste, come è nella sua natura e preparazione di uomo colto ed intelligente, e come deve essere per non soggiacere a ribollite che oramai si sono consunte, nella cucina poverissima di idee e ridondante di errori che blocca la digestione alle nostre menti» (dalla prefazione di Giuliana Scimé).

Interpretazione grafica di un ritratto posato di Akio Morita con la Sony Mavica [finalizzata alla copertina di 1839-2009. Dalla Relazione di Macedonio Melloni alla svolta di Akio Morita, e ripresa anche sulla copertina di FOTOgraphia, dello scorso novembre 2009], dalla quale si conteggia la nascita della fotografia digitale, che accantona la fotografia chimica (analogica o argentica) dopo quasi centocinquant’anni di Storia.

ACQUISIZIONE DIGITALE Dopo quasi centocinquanta anni di fotografia chimica, con pellicola fotosensibile, Sony proclama un princìpio nuovo e innovativo, che si è manifestato negli anni immediatamente a seguire. Prima con passi lenti, accompagnati da disagi e paure espresse con veemenza, poi con progressioni a crescita esponenziale, l’acquisizione digitale di immagini si è inviolabilmente imposta come nuova forma della fotografia: con i propri utilitarismi e trasformazioni espressive. In 1839-2009. Dalla Relazione di Macedonio Melloni alla svolta di Akio Morita, l’autore Maurizio Rebuzzini è diretto e schietto, e rivela una convincente consapevolezza e competenza (lo diciamo senza alcuna piaggeria). Ancora dalla prefazione di Giuliana Scimé: «Esemplare è la sua attitudine nell’affrontare il dibattito contemporaneo sul digitale: non esprime giudizi, piuttosto la sua analisi esorta a considerare che cosa rappresenta, oggi, e quali possibili conseguenze creative potrebbe avere in futuro. Già,

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perché è la creatività che prende la passione di Rebuzzini, consapevole, fra i pochissimi, che l’evoluzione della tecnica, se è encomiabile meraviglia, sarebbe fine a se stessa se non venisse al servizio dell’idea. E tutti questi nodi non sono isolati contrappunti, ma momenti focalizzanti di un racconto armonico che Maurizio Rebuzzini conduce con maestria, ed inevitabile per lui, gentile ironia. Però, non lasciatevi fuorviare dalla lievità di certi episodi. La lievità, la sottintesa impertinenza sono brillanti mezzi da abile saggista per alleviare la tensione di un argomento fin troppo serio, e trat-

tato con la più assoluta consapevolezza del sapere».

LA SVOLTA Testuale dal capitolo 1981. La svolta di Akio Morita, il decimo di 18392009. Dalla Relazione di Macedonio Melloni alla svolta di Akio Morita, scandito in tredici parti collegate tra loro e oggettivamente conseguenti ognuna alla precedente. Un richiamo dalla cronaca di diciannove anni fa: «Fulmine a ciel sereno. L’annuncio di Akio Morita del 24 agosto 1981, dal quale si data la nascita della fotografia digitale, l’ho percepito in cro-


Curiosità MASCHERE E SPETTRI

CRISTIANO MIRETTI (2)

24 agosto 1981: Akio Morita presenta la Sony Mavica, o Sony EX-50, il primo apparecchio ad acquisizione elettronica/digitale di immagini.

con crescite esponenziali, furono proposte a costi di vendita/acquisto quantomeno selettivi -da trenta milioni di lire in su, corrispondenti agli attuali quindicimila euro-, l’industria produttrice e distributrice ne escogitò delle belle. Per esempio, per avvicinare il pubblico potenziale, ai tempi soltanto professionale, per costi e intendimenti, inventò l’ammaliante ipotesi della garanzia. Se sbagli un servizio, dicevano ai fotografi, con la fotografia digitale lo puoi recuperare, correggere, far diventare per-

fetto! No! Non ci ho mai creduto, ma, soprattutto, non mi è mai interessato niente: se un professionista non è in grado di svolgere il proprio mestiere, vada altrove. Vada a coltivare la terra -ce n’era bisogno, ce n’è bisogno-. Vada pure al diavolo!». I termini tecnologici e applicati alla funzionalità fotografica sono ben altri. Sia chiaro. Infatti: «Ciò che Akio Morita ha indicato nell’agosto 1981 è stata una rivoluzione di sostanza, con straorAkio Morita è stato due volte sulla copertina di Time Magazine. Il 10 maggio 1971 ha simboleggiato l’espansione dell’industria giapponese negli Stati Uniti (e nel mondo); il 7 dicembre 1998 (anniversario dell’attacco aeronavale dell’Impero giapponese a Pearl Harbor, del 1941, che sancì l’entrata in guerra, la Seconda mondiale, degli Stati Uniti), come uno dei cento geni commerciali più influenti del secolo (unico non americano richiamato in copertina).

ARCHIVIO FOTOGRAPHIA (2)

naca. Posso quindi affermare che nessuno, ripeto nessuno, ha capito di cosa si stava trattando, di cosa si sarebbe trattato, verso quale rivoluzione era invitata la fotografia. «Da una parte, riconosciamolo, anche se l’industria giapponese nel proprio complesso era più che affermata nel mondo, e in misura persino maggiore in fotografia, ciò che arrivava dall’Oriente veniva ancora considerato con sufficienza: soprattutto in Europa. [...] Da un’altra parte, fulmine a ciel sereno, nessuno avrebbe mai concepito, né potuto supporre, che la registrazione automatica di immagini (della natura che si fa di sé medesima pittrice) potesse fare a meno dell’azione chimica della luce, ovverosia di materiali fotosensibili, ovverosia di pellicola. Per quanto il prototipo agisse in modo sostanzialmente analogico, alla maniera delle telecamere dell’epoca, la Mavica originaria, altrimenti identificata EX-50, rappresenta il punto di partenza ufficiale dell’acquisizione digitale di immagini, tanto quanto il dagherrotipo è considerato e conteggiato nascita della fotografia». Saltiamo qualche periodo di testo, nel quale si racconta anche delle geniali intuizioni di Akio Morita, che nel 1946, con Masaru Ibuka, ha fondato la Sony, per registrare quante stronzate accompagnarono la nascita della fotografia digitale (alcune delle quali resistono ancora oggi, accanto a stronzate di nuovo conio). «Siccome le prime reflex digitali, di capacità tecniche perlomeno rudimentali, in confronto alle evoluzioni tecnologiche che si sarebbero espresse negli anni a seguire, avvicendandosi

Stravolgente rispetto il suo standard professionale, definito da raffinate e colte fotografie di moda, il progetto Maschere e Spettri, di Giovanni Gastel, esposto in prima mondiale al Palazzo della Ragione, di Milano, tra settembre e ottobre 2009, compone i tratti di osservazioni visive trasversali a molto, probabilmente a tutto. A cura di Germano Celant, quaranta soggetti, realizzati con abbondante, manifesta e dichiarata elaborazione digitale, stampati in dimensioni generose (laserjet 208x125cm), introducono un tragitto, che nel volume omonimo si completa di altre trenta visoni, altri trenta sogni (Skira; 168 pagine 30x46,5cm). Forma del contenuto, per il contenuto. A cura di Franco Raggi, l’allestimento scenico di Maschere e Spettri, di Giovanni Gastel, al Palazzo della Ragione, di Milano, è stato va dir poco suggestivo.

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ARCHIVIO FOTOGRAPHIA

Curiosità tutti, non me ne frega niente. «Si mente con la Fotografia? Bene! Così facendo, le si restituisce la dignità che le è stata depredata dall’orrenda qualifica di oggettività realistica. Si mente a parole, perché non si dovrebbe farlo, poterlo fare, anche con le immagini?».

MANIPOLAZIONI ESPLICITE

ARCHIVIO FOTOGRAPHIA (2)

dinarie implicazioni: molte utilitaristiche, altrettante espressive. [...] Cosa rappresenta l’acquisizione digitale di immagini? È un fantastico modo di realizzare l’immagine e declinarla, che ha un solo difetto assoluto e di fondo: quello di essere arrivata in un’epoca, per quanto legittima, nella quale pur giustificate esigenze industriali inducono a una massificazione senza soluzione di continuità. Alla quale fa immediato seguito una consistente quantità di contraddizioni nei termini. «[Comunque] quanto di negativo esprime la fotografia digitale, soprattutto se e quando è tra le mani di imbecilli, è compensato dal tanto di positivo che ne è implicito, in nuce, nella proiezione delle proprie potenzialità latenti. Si abusa delle manipolazioni e interventi sull’immagine? Per certi versi, non

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Giornalismo e fotogiornalismo a parte, al quale Maurizio Rebuzzini riserva riflessioni specifiche, «dal punto di vista utilitaristico, la fotografia digitale è certamente più agevole e pratica di quella con pellicola fotosensibile (analogica e/o argentica): è certo e noto a tutti. Non serve richiamare tutti i suoi inviolabili pregi quotidiani e operativi, così come non è il caso di evocare nostalgie del buon tempo passato, che sono soprattutto ridicole e grottesche. Il buon tempo passato non esiste, casomai esiste il tempo passato. E basta. «La possibile gestione individuale dell’immagine fa parte del pacchetto di innovazioni conseguenti la svolta impressa da Akio Morita. Può rappresentare una tragedia espressiva, ma anche una straordinaria fonte di creatività applicata. Come tutto, del resto, dipende sempre e soltanto da chi la effettua e perché lo fa (e il suo valore espressivo risponde anche a come lo fa). [...] «Del resto, ancora prima di pensare a interventi modificatori, oggi in comoda e semplice postproduzione digitale, ieri l’altro in subordine a capacità individuali in camera oscura e dintorni, bisogna annotare che la fotografia dipende comunque da interpretazioni e volontà individuali dell’autore: che stabilisce

Made in Japan, di Akio Morita, non è affatto la sua Autobiografia, come recita il sottotitolo ingannevole, ma una approfondita riflessione sui rapporti commerciali e sociali del Giappone industriale nella propria proiezione planetaria.

Maestranze Sony, nel 1951, sei anni dopo la fondazione, nella sede originaria di Tokyo Tsushin Kogyo. In primo piano, i fondatori Akio Morita, con una radio TR tra le mani, e Masaru Ibuka.

(pagina accanto) Schema e descrizione del prototipo Sony Mavica, 1981.

Uno dei primi studi (seri) sulla verità visuale (?) nell’era post-fotografica, ovverosia nell’epoca della fotografia digitale: The Reconfigured Eye (la visione riconfigurata), a cura di William J. Mitchell; Massachusetts Institute of Technology - MIT Press, 1992. La bellezza femminile nell’epoca della sua riproducibilità virtuale: Digital Beauties; Taschen Verlag, 2002.

cosa e quanto includere nella propria inquadratura, cosa e quanto escludere dalla composizione, da che punto osservare e con che prospettiva raffigurare il proprio soggetto. Dunque, in un certo senso, il dibattito sulle possibilità attuali di facile manipolazione è sostanzialmente mal posto. «Il discorso riguarda tanto la fotografia d’autore, che ogni autore interpreta giusto in relazione e dipendenza delle proprie intenzioni espressive, quanto quella documentativa. Qui mi interessa quella d’autore, realizzata declinando l’intera gamma di flessioni del linguaggio fotografico applicato: dalle scelte in fase di ripresa alle eventuali alterazioni in fase di stampa del fotogramma originario. [...] «(Anche grazie alla svolta di Akio Morita) Viviamo il tempo della Fotografia nell’epoca della propria falsificazione tecnica e ne dobbiamo fare prezioso tesoro. Espressivo e creativo».

LINGUAGGIO FOTOGRAFICO Sempre utilità a parte, che si estendono dalle esigenze e necessità delle applicazioni professionali alla più conveniente interpretazione della fotografia non professionale, soprattutto fotoricordo, si sta manifestando una espressività caratteristica dell’era digitale? Ma poi, cosa è una fotografia digitale? Un’immagine manipolata? Una copia ottenuta con stampanti a getto di inchiostro o a sublimazione? Co-


Curiosità I SOGNI DEL MARE

Ogni volta che si affronta la Fotografia si evocano riferimenti che la nobilitino agli occhi degli osservatori. Sembra quasi una ricerca di identità, e sarebbe nobile, o di alibi, ed è terribile. Straordinaria comunicazione visiva, capace di richiamare infinite emozioni alla mente e nel cuore, la Fotografia merita, invece, di rimanere tale, appunto Fotografia. È il caso di Blue, di Massimo De Gennaro [FOTOgraphia, giugno 2002], autore che agisce e opera senza cercare sovrastrati alla propria opera: manipolazioni digitali dichiarate come tali, ma non presentate per questo, quanto per il proprio contenuto espressivo. Le immagini sono dirette e, allo stesso momento, abbondanti e cariche di molteplici piani di lettura: a ciascuno, i propri. In sintonia di intenti, l’autore agisce evitando di offrire e presentare ri/soluzioni precotte, preconfezionate, indirizzate in un unico senso (fosse anche il suo). Al contrario, immagine dopo immagine, ciascuno può ricercare e trovare un filo conduttore individuale, che può coincidere o non coincidere con le emozioni dell’autore. Il mare di Massimo De Gennaro non è certo quello spensierato delle vacanze estive o delle gite domenicali. È un mare simbolico, preso a pretesto -neppure casualedi una ampia serie di considerazioni e introspezioni. Il sociologo può leggere queste fotografie con e nella propria chiave: rituali collettivi, felicità artificiose, massificazione e tanto altro ancora. Con la medesima buona fede (?!), il feticista dei mezzi di realizzazione della fotografia, per altro influenti sul linguaggio, ma mai fini a se stessi, può elucubrare sulle fasi produttive, che dalla fotografia del vero approdano alla rappresentazione onirica con mezzi e metodologie che nel gergo si definiscono ibride: dalla diapositiva alla trasformazione digitale, alla gestione elettronica dell’elaborato. Effettivamente libero, quanto magistralmente coinvolto, l’osservatore che rimane se stesso e si incontra con queste immagini ha una fortuna tutta sua, che può esprimere con commozione. Senza cercare di incasellarlo in alcuna pre-categoria, questo mare lascia sciolta la mente e aperto il cuore, per ricevere quelle sollecitazioni che danno vita a una sequenza di impressioni, dalle quali trae fantastico beneficio.

Visioni che hanno il tratto della poesia che racconta fingendo di non farlo, dice fingendo di stare zitta, evoca fingendo di rivelare. Non ci sono formule, per spiegare o capire tutto questo. C’è invece il cuore dell’osservatore, che lascia la cruda realtà del proprio essere nell’istante per incamminarsi lungo il tragitto personale e individuale dei ricordi, dei sogni, dei rimandi. Nella propria successione, le immagini richiamano rumori, aromi, sensazioni, paure, gioie che ciascuno di noi conserva, inconsapevolmente, nel proprio cuore. Latenti, come latente è l’immagine fotografica prima di essere lavorata, questi sentimenti sono risvegliati da un mare che mare non è. Se di questo stiamo parlando, ben venga quella Fotografia, come è questa di Massimo De Gennaro, che è capace di sintonizzare e accordare cuore con mente, razionale con irrazionale, realtà con ricordo. Che è capace di risvegliare i sentimenti dell’Esistenza individuale. Tutti dobbiamo esserle grati.

munque sia, una stampa da file? A queste domande, Maurizio Rebuzzini risponde con tono perentorio. Non per scorciatoie. «No, niente di questo fa la differenza espressiva dell’applicazione tecnologica. E dunque, non ho la sensazione di aver ancora visto fotografie digitali, di aver goduto di un cambio espressivo di passo [...] Cosa mi aspetto? Una espressione visiva e creativa che metta a frutto le peculiarità sottotraccia della tecnologia digitale. Sopra tutte, ne considero discriminante una in particolare. Per quanto la fotografia con pellicola scandisce passaggi tecnici distinti e separati (scatto, trattamento

della pellicola, stampa delle copie), dilatando in avanti il Tempo, la fotografia digitale ha una facoltà straordinariamente diversa. A partire dall’osservazione su monitor delle immagini appena acquisite, la fotografia digitale si esprime in termini di autentica istantaneità. «Eccoci: la fotografia argentica passa da un prima a un dopo, quella digitale ha anche il durante. E vorrei che questo durante facesse una qualche differenza, così come ha già magistralmente interpretato la fotografia a sviluppo immediato, che poi ha edificato la propria espressività anche sulla copia unica». Sì, ma allora? ❖

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Ici Bla Bla a cura di Lello Piazza

Great Outdoors Photography.

Questa rubrica riporta notizie che sono appartenute alla cronaca. Però, nel loro richiamo e riferimento molti motivi ci impediscono di essere tempestivi quanto la cronaca richiederebbe. Ciononostante riteniamo giusto proporle, perché siamo convinti che non abbiano perso la propria attualità, e continuino a offrire spunti di riflessione.

Vincitore assoluto: Per Breiehagen, Kennicott Glacier; Wrangell-St. Elias National Park, Alaska (Usa).

GREAT OUTDOORS PHOTOGRAPHY. Lo scorso ventiquattro agosto, la prestigiosa rivista americana PDN (Photo District News) ha segnalato i vincitori del proprio concorso Great Outdoors, che coinvolge professionisti e non professionisti. I generi di fotografia come l’outdoor photography e la wildlife photography e altri, quali la fotografia dei fiori e degli insetti o la fotografia subacquea, si possono riassumere sotto una definizione onnicomprensiva di nature photography. Tra i suoi soggetti, la nature photography ha il paesaggio, gli animali, le piante e anche l’uomo, se inserito nel contesto del mondo naturale. E viene valutata all’interno di una scala di valori che fa riferimento ai contenuti estetici delle immagini molto di più di quanto non accada con il fotogiornalismo o la documentary photography. Il mio legame con questo genere di fotografia ha un momento, probabilmente insignificante per tutti, ma che voglio raccontare lo stesso, perché secondo me rivela una delle anime della cultura fotografica italiana. Intimorito [dalla supponenza del luogo, MR], da giovane frequentavo la galleria Il Diaframma, di Lanfranco Colombo, in via Brera 10, a Milano, e ascoltavo, un po’ ammirato, un po’ deluso, le cose che si dicevano lì sul quel genere di fotografia; anzi e più precisamente, sulla fotografia che pubblicava il National Geographic (mensile che allora arrivava in Italia solo in inglese e solo su abbonamento; quindi, a parte circa quarantamila abbonati, non lo vedeva nessuno, ed era considerato un giornale di élite). Amavo immensamente quel genere di fotografia, dal quale mi sentivo attratto “naturalmente”, perché per me significava vivere la natura, conoscere il mondo, limerick che poi divenne l’esplicativo motto della testata Airone (totalmente di-

Primo nella sezione Outdoor Sports and Activities (sport e attività all’aria aperta): Chris McLennan.

Primo nella sezione Scenics of the Natural World (scenari dal mondo naturale): Chris Sisarich.

Primo nella sezione Beaches, Islands and Underwater (spiagge, isole, fotografia subacquea): Ryan Hellard.

Primo nella sezione Plants, Animals, Insects and Gardens (piante, animali, insetti e giardini): Linda M. Chick.

versa da quella nella quale si è trasformata recentemente, e che è in edicola dall’aprile 2007), con la quale, proprio sulla nature photography, ho collaborato per venticinque anni. Cosa si diceva al Diaframma? Che il National (e poi Airone, il suo clone italiano degli anni Ottanta) guardava

il mondo attraverso le lenti rosa di un ottimismo superficiale. E ancora oggi, quando mi capita di essere in giurie, anche di livello internazionale, mi capita di discutere sul valore della nature photography, mi capita di non essere capito, quando affermo che i fotografi naturalisti sono fotogiornalisti da uno speciale tipo di mondo, quello selvaggio e millenario della natura, non certo meno importante del mondo degli uomini. Per questo, e per tanto altro ancora, la nature photography è grande, grande come altri generi di fotografia, e la storia ci ha rivelato suoi interpreti eccezionali, dal classico Ansel Adams, ai recenti Frans Lanting, Jim Brandenburg e Michael “Nick” Nichols, per citarne solo alcuni. Questo detto, i vincitori del concorso Great Outdoors annunciato li trovate accanto alle fotografie che pubblichiamo a centro pagina.

IL SUCCESSO CON LA MORTE (O LA VITA PRIVATA). Alle tre famose “S” -sangue, sesso, soldi-, che nella mitologia di chi si occupa di informazione rappresentano i temi più gettonati dal pubblico, adesso pare aggiungersi la morte. In un reality televisivo (genere che quest’anno compie dieci anni), mandano in diretta gli infarti. È accaduto in negli Stati Uniti, con Deadlist Catch, un reality di Discovery Channel, del quale era personaggio ed eroe un pescatore della Baia di Bering, il capitano Phil Harris. Morto di infarto sei mesi fa, la Tv americana ha proseguito il reality, mandando in onda una puntata con le riprese nelle quali Phil sta male (ventidue giugno). Le successive puntate: il ventinove giugno, gli altri capitani pescatori commentano la disgrazia; il sei luglio, i figli di Phil lo accudiscono all’ospedale; il tredici luglio, Phil muore (sempre a telecamere accese); il venti luglio, gli altri equipaggi lo ricordano dopo il funerale; il ventisette luglio, i sopravvissuti ricordano ancora Phil, mentre pescano nella tempesta. Fine del reality. Con la morte gioca anche il fotografo americano Phillip Toledano, che ha pubblicato sul suo blog immagini realizzate durante gli ultimi mesi di vita di suo padre. A seguito di questa pubblicazione, il blog è stato visitato da migliaia di persone, più di quindicimila al giorno, e oggi sono diventa-

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Ici Bla Bla ADDIO A GUIDO PASSALACQUA.

te (in totale) milioni. Dopo aver iniziato a scattare qualche fotografia, Phillip Toledano ha pensato che sulla vicenda poteva realizzare un racconto. Così è stato: Days With My Father è il titolo della serie [qui sopra]. Ci sono still life di oggetti, ritratti del padre, piccoli testi. «Non pensavo che la cosa avrebbe potuto interessare qualcuno», ha dichiarato il fotografo. E allora perché l’hai messo su Internet, mi verrebbe da chiedere? Il fenomeno è del tipo Grande Fratello, che a mio parere sfrucuglia nelle più torbide zone dell’animo umano e trasforma fatti privati in spettacolo. Sì, spettacolo: non credo sia possibile nessuna altra definizione. Per esempio, a Londra, nel 2003, nei pressi del nuovo municipio firmato da Norman Foster, avevano chiuso il sedicente illusionista David Blaine in una specie di minicasa di vetro, e il pubblico poteva osservarlo in ogni momento della sua vita quotidiana (quando faceva pupu era nascosto da una piccola tenda). David Blaine si è esibito in una performance di quarantaquattro giorni senza mangiare, solo bere (così ci è stato detto), e quando l’hanno sceso dalla gabbia, il diciannove ottobre, si è dovuto ricoverarlo in ospedale. Pare che l’impresa sia stata coperta da un contratto da un milione di sterline (un milione e quattrocentoventimila euro), firmato con Sky, la tv di Rupert Murdoch. Sai che impresa interessante! Scusate il sarcasmo, ma operazioni tipo quelle di David Blaine, ma anche di Phillip Toledano mi fanno un po’ ribrezzo. E mentre penso che mettere fotografie e racconto della morte del padre in un libro sarebbe diverso, sempre un poco osé, ma più discreto, pubblicarle in rete lo trovo intollerabile. Ah, il successo! Parlando di libri, grazie al successo di Internet, Phillip Toledano ha trovato subito un editore. Il quale gli ha chiesto di moltiplicare il format: fare la stessa cosa (ovviamente un po’ meno macabra)

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Lo conoscevo poco, ma anche da quel poco emergeva un’aura di persona bravissima. Basterebbe a dimostrarlo la presenza di Umberto Bossi e Roberto Maroni al suo funerale, venuti per portare una corona di fiori che recitava «Ciao decano, grande amico», e poi se ne sono andati, commossi, senza proferire parola. Guido non era un leghista, tutt’altro. In una intervista, Umberto Bossi ha ricordato che qualche volta Guido gli aveva perfino dato della “testa di cazzo”. E Roberto Maroni ha aggiunto che a lui aveva detto di peggio, ma gli era sempre stato amichevolmente vicino, anche nei momenti più difficili. E Guido non era leghista. Anzi. Ma i leghisti gli volevano bene, perché era una persona onesta e leale. Gli avevano anche offerto un posto da senatore, che Guido, ovviamente, rifiutò. Guido Passalacqua è stato il primo giornalista a intuire le grandi potenzialità della Lega, che dunque cominciò a seguire dai propri esordi, nel 1984. I suoi studi su questa forza politica si sono concretizzati poco meno di un anno fa, quando già la malattia che lo ha finito (un tumore al cervello) lo aveva pesantemente menomato, con la pubblicazione di Il vento della Padania - Storia della Lega Nord 1984-2009 (Mondadori), uno dei testi fondamentali per capire il movimento. Guido era arrivato a Repubblica dal Panorama di Lamberto Sechi (che non era certo il giornaletto di oggi), fin dai primi numeri zero, a metà degli anni Settanta. Grande giornalista di cronaca, esperto dei movimenti di contestazione armata, viene gambizzato il 7 maggio 1980 dai terroristi della Brigata 28 marzo, gli stessi che tre settimane più tardi avrebbero freddato Walter Tobagi. Riceve così le stimmate del giornalismo coraggioso e rigoroso. Come ha scritto Cinzia Sasso, «La crescita di Repubblica lo ha visto occupare anche posizioni di organizzazione, fino a diventare il capo delle pagine di cronaca e il numero due della redazione di Milano. Nei giornali c’è chi

fa la carriera della scrittura e chi fa quella del desk: Guido ha percorso tutte e due le strade, senza mai pensare, però, a quello che fosse più interessante per la carriera. Era una parola, questa, che trovava volgare: per lui il giornalismo non era una passione, era un dato immutabile della sua vita. Guido era un giornalista e basta» [qui sotto]. Il saluto funebre di Giovannino Cerruti, giornalista della Stampa, recitato davanti alla moglie Mariella Sandrin, al figlio Tommaso e ad alcune centinaia di amici e conoscenti, giornalisti e politici, si è concluso con una bellissima frase di Albert Einstein: «Non cercare di diventare un uomo di successo, ma un uomo di valore». Guido è ed è stato proprio un uomo di valore.

Il fotografo americano Phillip Toledano ha giocato con la morte del padre, pubblicando sul suo blog le immagini realizzate durante i suoi ultimi mesi di vita.

Guido Passalacqua, a sinistra, con Fabio Treves (musicista e fotografo); la fotografia è stata scelta dal figlio Tommaso.

FABIO TREVES

con la figlia che gli è appena nata. Cosa diceva Wystan Hugh Auden? Che gli scarabocchi saranno innalzati al livello dei più grandi capolavori?

IL CUORE DEGLI OCCIDENTALI E LA TRAGEDIA DEL PAKISTAN. Si

Da Internazionale, del tre-nove settembre, una fotografia di sopravvissuti alle alluvioni che hanno devastato il Pakistan (Nowshera, trentuno agosto).

sa che di fronte a un grande disastro umanitario la generosità di noi occidentali si manifesta immediatamente. Le varie organizzazioni umanitarie, Croce Rossa, Unicef, eccetera, giornali, piccole onlus aprono conti correnti nei quali versare la propria offerta. Pensiamo a cosa è successo di fronte alla penultima tragedia, il terremoto di Haiti. Milioni di dollari raccolti in un baleno. Ma un’altra grande tragedia, invece, le immense alluvioni del Pakistan, non ha suscitato la stessa manifesta-


Ici Bla Bla zione di generosità. Forse sono colpevoli i mezzi di comunicazione, che si mostrano freddini quando nel disastro sono coinvolte popolazioni mussulmane. Per sollecitare attenzione nei confronti di un disastro ben più grave di quello di Haiti, il quotidiano inglese Guardian ha pubblicato un’immagine terribile, che offriamo nella versione ripresa dal settimanale italiano Internazionale (e pubblicata anche da Repubblica) [pagina accanto].

SLOW PHOTO. Alla diciannovesima edizione del SI Fest, che si è tenuta a Savignano sul Rubicone, in provincia di Forlì Cesena, dal dieci al dodici settembre, la giornalista Francesca Parisini ha introdotto un manifesto per la fotografia. Presenti come testimoni di questa nouvelle vague (o, forse, ancienne vague) sono stati alcuni personaggi ultranoti della fotografia italiana. Il testo del manifesto si apre con un pensiero di Diego Mormorio [Meditazione e fotografia, in FOTOgraphia, del febbraio 2009]: «Nonostante tante cose terribili, il mondo è un’immensa vastità di bellezza: suoni, forme, colori che, di attimo in attimo, appaiono come uno spettacolo meraviglioso. Eppure, tutta questa meraviglia resta sconosciuta alla stragrande parte della gente. Essa -la vastità che ci circondaha, infatti, bisogno di occhi per essere guardata. Di attenzione, e di lentezza. Ha bisogno di ciò di cui il nostro tempo è quasi vuoto. La fretta e la superficialità, come spaventevoli animali feroci, dilaniano la bellezza del mondo. Correndo da una cosa all’altra, senza guardare attentamente, perdiamo tutto. Abbiamo bisogno di fermarci. Di vedere oltre il semplice guardare». Il manifesto prosegue così: Questi gli intenti: ❯ Siamo a favore di una rivalutazione approfondita e meditata della prassi fotografica in opposizione a un utilizzo compulsivo e accelerato del medium fotografico, perché convinti del valore creativo della lentezza. ❯ Crediamo sia essenziale che in una qualsivoglia fase dell’iter fotografico si senta la necessità di un “rallentamento” riflessivo. ❯ Consideriamo indispensabile una progettualità del nostro intento artistico.

❯ Esaltiamo un approfondimento meditativo così da consentire lo stabilirsi di un transfert emozionale tra il fotografo e ciò che viene fotografato. ❯ Sosteniamo che la slow photo, essendo essenzialmente un approccio metodologico, esuli dalla specificità dei generi fotografici. ❯ Riteniamo non significativo alle nostre finalità il tipo di mezzo tecnico di ripresa e di fruizione dell’immagine stessa utilizzati. Le firme in calce sono di Mario Beltrambini, Gianni Berengo Gardin, Beppe Bolchi, Carmelo Bongiorno, Alessandra Capodacqua, Luigi Erba, Diego Mormorio, Cesare Padovani, Franco Vaccari. Insomma, che dire di questa nuova iniziativa? [Se fossi stato a Savignano, come ci andai lo scorso 2009, non avrei firmato. Ribadisco, pur nell’amicizia (?) con i firmatari, non avrei firmato. Sì, non avrei firmato. MR]. Al di là dell’elogio della lentezza (ormai sono in tanti, slow food primo tra tutti, slow life, slow travel), un appello sociale certamente apprezzabile, mi chiedo se c’era bisogno di una nuova definizione per la fotografia. Slow food, per esempio, non vuol dire certamente mangiare lentamente. Suggerisce ritmi di vita lenti, ma ha delle implicazioni sulla produzione e qualità del cibo, inseguendo la naturalità di quello che mangiamo. Slow food vuol dire cibo a chilometri zero, animali di allevamento nutriti con ritmi naturali (e non ingozzati per avere più carne in fretta), frutta e verdura secondo stagione. Ma slow photo cosa vuol dire? Non certo scattare con una posa superiore al secondo. Ma si sa che la fotografia può essere praticata lentamente se si fotografa il paesaggio, con macchina su treppiedi, ma non si può andare piano nella fotografia di moda, in quella di sport, in quella di cronaca o in quella di guerra. E allora perché dare una definizione di un tipo di fotografia che alza subito degli steccati nei confronti di altri tipi? Meno male che nel manifesto non si è esclusa la fotografia digitale. Un qualche sospetto che slow photo voglia significare fotografia analogica io non riesco a farmelo passare. Certo, a pensar male si fa peccato.

Dall’alto: Primo premio assoluto al concorso fotografico indetto dal Royal Observatory di Greenwich: Tom Lowe. Primo premio nella categoria Spazio Profondo del concorso fotografico del Royal Observatory di Greenwich: Rogelio Bernal Andeo. Primo premio nella categoria La gente e lo Spazio del concorso fotografico del Royal Observatory di Greenwich: Steve Christenson.

FOTOGRAFIA ASTRONOMICA NON DA TELESCOPI SATELLITARI. Ogni anno, il Royal Observatory di Greenwich (Londra) assegna diversi premi all’interno di un concorso fotografico dedicato alla fotografia astronomica realizzata con strumenti poco più che amatoriali. Addirittura, nella più recente edizione, è risultata vincitrice una fotografia scattata da Tom Lowe con un grandangolare, che rappresenta un albero della specie Pinus Longaeva, alla quale appartengono i più vecchi organismi viventi del nostro pianeta, che possono raggiungere i cinquemila anni di età. Questa specie vive esclusivamente nello Utah, nel Nevada e nella California orientale. La giuria a premiato questa immagine intravedendovi una relazione tra la luce delle stelle che impiega trentamila anni a raggiungere la Terra e la vetustà dell’albero in primo piano [in alto]. A seguire, proponiamo anche le

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Ici Bla Bla fotografie vincitrici del primo premio nelle categorie Spazio Profondo, di Rogelio Bernal Andeo, e La gente e lo Spazio, di Steve Christenson [entrambe, sulla pagina accanto].

ADAMS RITROVATO. È stata ritrovata una scatola di negativi attribuiti a Ansel Adams: valore duecento milioni di dollari. Sembra incredibile, ma si possono ancora fare affari straordinari nei luoghi più impensati (salvo poi che l’autenticità dei negativi venga definitivamente confermata). Parliamo del fatto che circa dieci anni fa, trovandosi per caso a Pasadena, Rick Norsigian, di Fresno (California, Usa), è incappato in una vendita casalinga di oggetti usati. Il proprietario si disfaceva anche di una scatola di negativi che aveva comperato nel 1940 a Los Angeles, a una liquidazione, e la offriva per settanta dollari. Dopo una lunga contrattazione, Rick Norsigian (www.ricknorsigian.com) se la aggiudicò per quarantacinque. Oggi, Rick Norsigian afferma che le immagini su quei negativi gli erano sembrate familiari. Dopo l’acquisto, consultò storici, calligrafi (che hanno confermato che le note che accompa-

gnavano i negativi erano stati scritti da Virginia, moglie di Ansel Adams) e Robert Moeller, che ha studiato questo materiale per mesi, concludendo che l’argento ossidato su alcune lastre datava con certezza agli anni Venti. Alla fine di queste indagini, i negativi sono stati giudicati originali e farebbero parte di quel materiale di Ansel Adams che si riteneva perduto a seguito di un incendio avvenuto nel 1937 nella sua camera oscura [a sinistra, in basso]. L’annuncio è stato dato il ventisette luglio. Ma la storia non finisce qui. Immediatamente, la fondazione The Ansel Adams Publishing Rights Trust, la cui sede è presso il Center for Creative Photography dell’Università dell’Arizona (www.creativephotography.org), che detiene i diritti di quasi tutto il materiale fotografico di Ansel Adams, annuncia che i negativi sono falsi e accusa Rick Norsigian e il suo avvocato Arnold Peter di violazione di copyright e falso. L’otto agosto, il prestigioso quotidiano Los Angeles Times ha pubblicato un articolo nel quale ha riportato l’intervista che Marian Walton, ottantasettenne nipote del fotografo americano Earl Brooks, ha rilasciato proprio il ventisette luglio. Nell’intervista, Marian Walton sostiene che le fotografie dei negativi ritrovati da Rick Norsigian sono state scattate da suo zio. E a supporto esibisce una inquadratura molto simile a una di quelle dei negativi ritrovati [qui sotto]. Considerate le cifre in gioco, la disputa va ovviamente va avanti. Attualmente, Rick Norsigian sta vendendo poster e stampe ricavate dai propri negativi attraverso il suo sito web e ha allestito una mostra con le fotografie della discordia (dal venticinque settembre, alla galleria d’arte al 9407 sud del Santa Monica Boulevard, a Beverly Hills, California; http://davidstreetsbeverlyhills.com).

Il Manifesto, del 20 aprile 2005: Joseph Ratzinger, papa Benedetto XVI, Il pastore tedesco. Il Manifesto, dello scorso sedici settembre: Berlusconi e Sarkozy figli di Pétain, il capo del governo collaborazionista di Vichy, dal 1940 al 1944, durante l’occupazione nazista, che si è macchiato di crimini razzisti contro ebrei e Rom.

Rick Norsigian, di Fresno (California, Usa), sostiene di aver recuperato una serie di negativi di Ansel Adams che si ritenevano perduti: a sinistra, due soggetti. Marian Walton, ottantasettenne nipote del fotografo Earl Brooks, afferma che le fotografie dei negativi ritrovati da Rick Norsigian sono state scattate da suo zio. A supporto esibisce una inquadratura molto simile a una di quelle dei negativi ritrovati, attribuiti ad Ansel Adams (a sinistra, in confronto). Vogue Italia, settembre 2010, in 3D: copertina e due servizi interni.

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I TITOLI LI SANNO FARE. Spesso, la prima pagina del quotidiano Il Manifesto propone uno straordinario abbinamento fotografia-titolo, per commentare con ironia o sarcasmo un fatto di cronaca. Indietro negli anni, tra le tante felici accoppiate indimenticabile fu quella a corredo di un’immagine di Joseph Ratzinger, appena eletto papa, che aveva titolo Il pastore tedesco [qui sopra]. Eccellente mi sembra anche quella dello scorso sedici settembre, che proponiamo qui, e che riguarda l’incontro BerlusconiSarkozy, a Parigi, e il loro comune sentire sul problema dei Rom [qui sopra]. Il titolo gioca sull’assonanza tra la pronuncia di “Pétain”, che, collegata a “figli di”, rievoca un insulto gettonato, e l’affermazione di un fatto (nell’interpretazione del titolista del Manifesto), che attribuisce ai due politici nella fotografia una discendenza culturale da Philippe Pétain, generale e politico francese, che fu a capo del governo collaborazionista di Vichy, dal 1940 al 1944, durante l’occupazione nazista, macchiatosi di crimini razzisti contro ebrei e Rom.

VOGUE 3D. Franca Sozzani, brillante direttore di Vogue Italia, ha celebrato il grande entusiasmo per il


Ici Bla Bla Fino al venti luglio, sul sito della BP è stata pubblicata una immagine, che mostra l’esistenza di una centrale operativa h24 che tiene monitorizzato il problema. Ci sono evidenti segni di manipolazione.

3D, che -di questi tempi- il pubblico apprezza oltremisura e modo: copertina del numero di settembre da guardare con gli occhialini anaglifici allegati alla rivista [pagina accanto]. Oltre la copertina, sono in 3D anche due servizi interni: quello sulla modella australiana Miranda Kerr, realizzato da Steven Maisel, e quello dal titolo The Scent of the future, con immagini del fotografo di moda inglese Tim Walker.

BP FALSIFICA LE FOTOGRAFIE DELLA MAREA NERA. Per mostrare quanto alla compagnia petrolifera inglese stia a cuore il grande disastro provocato dall’esplosione avvenuta lo scorso aprile su una delle sue piattaforme al largo delle coste americane del Golfo del Messico (FOTOgraphia, settembre 2010), fino al venti luglio sul sito della BP è stata pubblicata questa immagine [in alto], che mostra l’esistenza di una centrale operativa h24 che tiene monitorizzato il problema. Mamma mia, quanto lavorano duro i tecnici della

Anche la seconda versione della fotografia BP rivela un pasticcio: un blogger ha scoperto che nel metafile la fotografia risulta scattata nel 2001, nove anni fa!

BP, si vorrebbe far pensare! E invece ci sono evidenti segni di manipolazione [a destra]. Un portavoce della BP ha ammesso il pasticcio, e l’azienda ha immediatamente pubblicato sul sito una nuova versione della fotografia [a sinistra]. Peccato che un blogger abbia scoperto che nel metafile della nuova immagine la fotografia risultasse scattata nel 2001, nove anni fa! [qui sopra].

BP FALSIFICA LE FOTOGRAFIE DELLA MAREA NERA/2. E dopo il primo falso, eccone un secondo (che data ventidue luglio), che dimostra che il primo falso non è un incidente, ma l’aspetto di una politica di comunicazione adatta a Pinocchio. La seconda immagine photoshoppata (e apparsa sul sito web della BP) rappresenta l’interno della cabina di un elicottero [qui sotto], che su incarico della compagnia petrolifera starebbe pattugliando la zona della marea nera, per tenere strettamente sotto controllo lo sviluppo della situazio-

La seconda immagine tarocca diffusa dalla BP rappresenta l’interno della cabina di un elicottero, che dimostrerebbe quanto la BP sia costantemente sul problema del controllo della marea nera al largo del Golfo del Messico. Probabilmente non c’è elicottero in volo. Nel finestrino in alto a sinistra si vede la torre di controllo; le navi che si intravedono sul mare dai finestrini sembrano provenire da un’altra fotografia; la strumentazione sul cruscotto mostra che le porte sono aperte, la scaletta per salire a bordo calata e i freni di parcheggio tirati!

ne. Ciò dimostrerebbe quanto la BP sia costantemente sul problema. Ma probabilmente non c’è nessun elicottero in volo. Nel finestrino in alto a sinistra si vede la torre di controllo di un aeroporto o di una nave (quindi la fotografia è stata scatta con l’elicottero non in volo). Palesemente, le navi che si intravedono sul mare dai finestrini anteriori sembrano provenire da un’altra fotografia. Infine, mentre l’elicottero dovrebbe essere in volo, la strumentazione sul cruscotto mostra che le porte sono aperte, la scaletta per salire a bordo calata e i freni di parcheggio tirati! [in sequenza, qui sotto].

NEWSWEEK CAMBIA PROPRIETARIO. Il tre agosto scorso, The Washington Post ha annunciato di aver raggiunto un accordo per la vendita del settimanale Newsweek, che divide con Time il titolo di più prestigioso (e diffuso) settimanale americano di informazione. Il settimanale, che da tempo viaggia in cattive acque finanziarie, è stato acquistato da Sidney Harman, novantuno anni, fondatore della Harman International Industries, produttrice di impianti stereo. Nel comunicato non si parla di cifre, ma da indiscrezioni trapela che il prezzo pagato è molto basso, a fronte di una assunzione di tutti i debiti della testata da parte di Sidney Harman, che, secondo la televisione americana Cnn, avrebbe dichiarato: «I bilanci in pareggio sono una cosa abbastanza rara nel mondo dell’informazione. Non ho acquistato Newsweek per far soldi. L’ho comprato perché mi appassiona». ❖

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Cinema

di Maurizio Rebuzzini - Ricerca iconografica di Filippo Rebuzzini

GEMELLI, CON CITAZIONI

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Brillante commedia cinematografica statunitense del 1988, I gemelli (Twins, di Ivan Reitman) è costruita sull’improbabile e parodistica stretta parentela di Julius e Vincent Benedict, appunto gemelli frutto di un esperimento scientifico degli anni Quaranta, in coda al progetto Manhattan per la bomba atomica, separati alla nascita: agli opposti e antipodi, soprattutto fisici, ma non soltanto, gli attori Arnold Schwarzenegger e Danny DeVito. Ritrovatisi, e non importa come, né perché, i due intraprendono un viaggio alla ricerca delle proprie origini comuni, dei propri genitori naturali. Al solito, sorvoliamo sulle combinazioni cinematografiche e sulla trama del film, che competono ad altri e riguardano osservazioni a noi oggettivamente estranee. Invece, e ancora al solito, ci soffermiamo su una sfumatura con retrogusto fotografico, che motiva e giustifica la nostra attenzione redazionale. Di passaggio per Taos, New Mexico, gli improbabili gemelli Julius e Vincent Benedict (ripetiamo, interpretati dagli attori tanto fisicamente diversi Arnold Schwarzenegger e Danny DeVito) passeggiano per la città. Improvvisamente, l’inquadratura cinematografica fa intravedere sullo sfondo di una strada un edificio che dovrebbe essere noto a coloro i quali si occupano di fotografia. È la St. Francis Church, dall’inconfondibile sagoma e architettura. Di cosa si tratta? Della chiesa fotografata in tempi successivi, e con modalità espressive altrettanto diverse, perché personali di ciascun modo di vedere e rappresentare, da Ansel Adams, prima, nel 1929 circa, e Paul Strand, due anni più tardi, nel 1931. A destra, proponiamo la combinazione tra le due inquadrature. Cinematograficamente parlando, la stessa chiesa è presente in un altro film statunitense: Ore contate, del 1990 (in originale, Catchfire), diretto e interpretato da Dennis Hopper [FOTO graphia, dicembre 2009], accanto a Jodie Foster. Nel film, Dennis Hop-

Inquadrature dal film I gemelli ( Twins, di Ivan Reitman; Usa, 1988): sul fondo, la St. Francis Church, di Ranchos de Taos, New Mexico, fotografata in tempi successivi da Ansel Adams e Paul Strand.

per è Milo, killer nevrotico e solitario, suonatore dilettante di sassofono e ammiratore di Botticelli e Bosch. Per contratto, deve rintracciare e uccidere Anne Benton, bella e giovane artista pop (Jodie Foster), che per un caso fortuito, quanto sfortunato, ha assistito a un brutale assassinio di mafia. Lei fugge da New York, ma è identificata dai malviventi, che la vogliono morta. Si rifugia in New Mexico, dove si assiste a un siparietto con una pittura di Georgia O’Keeffe della stessa chiesa di Taos, fotografata anche da Paul Strand e Ansel Adams.

IN DOPPIO Il caso, la coincidenza, la volontà espressa di fotografare uno stesso soggetto appartiene a pieno diritto alla storia della fotografia. In questo senso, si possono rievocare e richiamare infiniti esempi, alcuni dei quali dichiarati ed espliciti. Sia per consistenza, sia per progettualità dichiarata, sopra tutti richiaAnsel Adams: St. Francis Church, Ranchos de Taos, New Mexico; 1929 circa.

Paul Strand: Church, Ranchos de Taos, New Mexico; 1931.

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Cinema Eugène Atget: Maison d’André Chénier en 1793, 97 rue de Cléry, Paris; 1907.

André Kertész: Paris; 1928.

miamo la straordinaria serie New York Changing, di Douglas Levere, che a settant’anni di distanza dall’originaria rilevazione fotografica di Berenice Abbott, raccolta in Changing New York, documentativa dei cambiamenti della megalopoli tra le due guerre mondiali, è tornato negli stessi luoghi. Ha ripetuto le inquadrature e visioni con un rigore formale che dà spessore e valore a un progetto fotografico dai tanti meriti [FOTOgraphia, luglio 2005]. Imogen Cunningham: Mills College Amphitheater; anni Venti.

Tina Modotti: Stadium, Mexico City; 1926.

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In volontaria inversione di termini (da Changing New York a New York Changing, per l’appunto), il recente progetto di Douglas Levere è esplicitamente e dichiaratamente riferito alla serie originaria di Berenice Abbott, della quale riprende e ripropone lo spirito e l’essenza. Tra l’altro, e oltre tanto altro, si tratta di una serie di immagini che rivela, semmai ve ne fosse bisogno, come in altre geografie il discorso fotografico non si inaridisca, come accade troppo spesso nel nostro paese, attorno i “se”, le “ipotesi”, i “presupposti” e l’improvvisazione (questa senza virgolette). Negli Stati Uniti, il referente istituzionale è attento alla comunicazione visiva, così come lo è per ogni altra forma espressiva. Quindi, l’autore Douglas Levere ha potuto vantare sostegni intelligenti, anche solo morali (ma non è così), che hanno fatto tesoro di questa ricerca, che arricchisce il patrimonio fotografico di una istituzione pubblica newyorkese preposta alla propria Storia. Ne riferiamo spesso, e la ripetizione è più che mai dovuta: non importa tanto il come (che pure è discriminante), ma il perché. Così, a distanza di settant’anni, attraverso la visione e mediazione fotografica, New York riflette una volta ancora su se stessa e i propri sostanziosi mutamenti ambientali, che poi sono anche sociali. Un secondo merito individuato di New York Changing, di Douglas Levere si basa, quindi, sulla sua esplicita prosecuzione/consecuzione fotografica ideale, a partire dalle immagini di Berenice Abbott. Il che significa che si tratta di visioni note, che ap-

partengono alla memoria collettiva dei newyorkesi, prima che a quella degli esperti di fotografia, alla quale è legittimo riferirsi. Ovvero, se le fotografie di Berenice Abbott fossero conosciute soltanto dagli addetti, e non dalla gente comune, l’intero richiamo di Douglas Levere non avrebbe avuto senso. Invece, si tratta di una confortante conferma di una consistente quotidianità della fotografia d’autore, presente nella socialità statunitense (e non solo in questa) tanto quanto è assente da quella del nostro paese. Analogamente, per quanto diverso sia negli intendimenti sia nello svolgimento, Un paese vent’anni dopo, di Gianni Berengo Gardin e Cesare Zavattini, può essere considerato idealmente analogo, tanto è stato identico lo spirito del ritorno fotografico su luoghi noti, precedentemente fotografati da altri autori. L’operazione di Gianni Berengo Gardin, sull’originario Un paese, di Paul Strand, ha però evitato la ripetizione statica e passiva delle immagini (a parte un paio di significative citazioni). Fotografando Luzzara nel 1974, appunto vent’anni dopo Paul Strand. Come annotato in introduzione, per Gianni Berengo Gardin rivisitare Luzzara insieme a Cesare Zavattini, ai tempi partner di Paul Strand, «ha voluto dire ritrovare i luoghi e le persone fotografate dal “vecchio fotografo americano con il treppiedi e la macchina a cassetta” (così la gente lo ha sempre ricordato, anche se nessuno ne conosceva il nome), che ci ha lasciato del paese e dei propri abitanti immagini piene di poesia. Mi sono accostato con intento diverso da quel-


Cinema Timothy H. O’Sullivan: Canyon de Chelly; 1873.

Ansel Adams: White House Ruin, Canyon de Chelly; 1942.

lo che era stato di Paul Strand, che ci aveva mostrato un paese della provincia italiana privilegiandone l’aspetto agricolo-contadino; ho voluto darne una versione meno lirica, più obiettiva della realtà di Luzzara, che è sì un paese agricolo, ma anche urbanistica, architettura, mondo operaio, in-

terni di case. Questo libro rappresenta per me il primo tentativo di dar corpo a un più vasto progetto inseguito da tempo: realizzare una immagine fotografica, il censimento di un paese nella propria interezza (strade, case, abitanti, oggetti); un documento illustrato della nostra epoca, che ri-

manga e abbia valore nel futuro». In conclusione, più lievemente, sottolineiamo come siano innumerevoli i medesimi soggetti visti da fotografi diversi, in tempo congiunto o in separazione di anni. Composizioni fotografiche analoghe (casuali o volontarie) e richiami espliciti arricchiscono la storia della fotografia. I casi sono così tanti, e spesso eclatanti, da poter essere anche raccolti in uno studio a tema. Ci limitiamo a segnalarne qualcuno tra quanti ne ricordiamo a memoria, con relativa visualizzazione. Eugène Atget, Maison d’André Chénier en 1793, 97 rue de Cléry, Paris (1907); André Kertész, Paris (1928) [pagina accanto]. Imogen Cunningham, Mills College Amphitheater (anni Venti); Tina Modotti, Stadium, Mexico City (1926) [ancora, pagina accanto]. Timothy H. O’Sullivan, Canyon de Chelly (1873); Ansel Adams, White House Ruin, Canyon de Chelly (1942) [in questa pagina]. ❖


Reportage di Lello Piazza

FINALMENTE, GIANSANTI

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Sappiamo quanto tempo ci sia voluto perché Gianni Giansanti potesse finalmente avere in Italia una mostra dedicata al suo lavoro, e un libro-antologia che ne illustrasse l’immenso valore [FOTOgraphia, aprile 2009]. È singolare che in Italia si trovino risorse per le mostre dei nostri grandi vecchi (accomodanti), Gianni Berengo Gardin, Franco Fontana, Mario De Bia-

Eravamo presenti nel bellissimo chiostro collegato al Museo Nazionale della Scienza e della Tecnologia Leonardo da Vinci, di Milano, dove Umanità, a cura di Chiara Mariani e Ada Masella, rimane esposta fino al quattordici novembre, e abbiamo apprezzato l’impaginazione della mostra, l’eccellente qualità delle stampe (eseguite da Elisa Targher, con la su-

si, Mario Giacomelli, che senza alcun dubbio hanno enormi meriti e hanno prodotto immagini sublimi, e si sia dovuto invece faticare per avere una, la prima, mostra dedicata a Gianni Giansanti, il più grande fotogiornalista italiano, come giustamente ha sottolineato Carlo Verdelli, nel suo intervento alla inaugurazione, il ventidue settembre scorso.

Alle 12,30 del 9 maggio 1978, una telefonata al centralino della Questura, presumibilmente di Valerio Morucci, avvisa: «In via Caetani c’è un’auto rossa con il corpo di Moro». Qualche minuto prima delle due, i segretari di tutti i partiti politici sanno che il cadavere ritrovato nella Renault rossa è proprio quello di Aldo Moro. Giovanni Paolo II si affaccia alla finestra della sua camera da letto; Città del Vaticano, 1986.

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«Una vita passata a fotografare l’Uomo, dai grandi personaggi della storia alle ultime tribù della parte più sperduta dell’Africa. Una carriera spesa a fotografare frammenti di verità e mistero, con delicatezza e rispetto»


Reportage pervisione di Donato Maggi, con la nuova stampante Canon ImagePrograf 8300); mentre non ci è piaciuta l’eccessiva sintesi delle didascalie. È in questa occasione che abbiamo visto per la prima volta la monografia Gianni Giansanti, della quale sentivamo parlare da almeno un

UN RICORDO

anno, che ha avuto una gestazione difficile, come del resto la mostra, per ragioni economiche. Nel libro, Toni Capuozzo, Antonio D’Orrico, Jeff Israely, Chiara Mariani e Carlo Verdelli ricordano le loro esperienze con Gianni. Il testo di Chiara Mariani include alcune delle prime pa-

Ho conosciuto Gianni Giansanti quando, nel 1978, aveva iniziato a seguire il caso del rapimento di Aldo Moro, da freelance. La pervicacia, la coerenza, la linearità nel seguire questo caso mi avevano impressionato. Tra tantissime telefonate, ricordo quella sul suo servizio in bianconero sul sopralluogo al lago della Duchessa, vicino a Rieti (un falso proclama delle Brigate rosse, che annunciavano che il corpo era stato gettato nel lago): «Ho scattato in bianconero, non ci credo al cadavere». Fotografie emblematiche, straordinarie sull’incertezza del momento. Infine, la fotografia del ritrovamento del cadavere nella R4. Gianni stava incollato alla radio. Arrivò all’istante. Una icona storica dovuta alla sua giovanissima professionalità. In quegli anni sono emersi grandi fotografi di documentazione fotogiornalistica, tutti freelance. Gianni era uno di questi, e il grande dolore della sua morte prematura e crudele è temperato in me per una constatazione: tutte le sue fotografie rispettano l’etica del fotogiornalista. Etica nella produzione di fotografie giornalistiche, in un’epoca durante la quale non c’era legge sulla privacy, e il diritto d’autore veniva inseguito dalle poche agenzie esistenti come sola salvaguardia per il fotografo e per il pubblico che avrebbe visto le fotografie. La mostra che vediamo [Umanità, a cura di Chiara Mariani e Ada Masella, al Museo Nazionale della Scienza e della Tecnologia Leonardo da Vinci, di Milano, fino al quattordici novembre], e che mi auguro sia visitata da un folto pubblico, non ci pone mai in conflitto con la nostra morale: le fotografie corrispondono alle intenzioni del fotografo, non offendono le persone fotografate, si pongono in modo diretto al pubblico che le vede, costruiscono storia e relazionano con le celebrità o gli eventi senza trucchi speciali. Mi spiego. Spesso, per ansia di successo e per gli stimoli del mercato, molti fotografi truccano, arricchiscono, estetizzano avvenimenti per renderli più emozionali. Ho sempre avversato questa tendenza nel fotogiornalismo, e dopo cinquantasei anni di professione ne vedo le ragioni. I grandi fotografi di cronaca e attualità frequentano la fotografia diretta, sono loro che rimangono nella storia. Sanno inquadrare con professionalità l’evento secondo il proprio punto di vista, ma non negando la storia stessa. Gianni informa, spiega, interpreta l’avvenimento, ma non ha mai cercato di forzare una emozione inutile: noi siamo in grado di giudicare. Come ha fatto Gianni ad arrivare al livello dei più grandi fotogiornalisti del mondo? Credendo al proprio mestiere, da freelance. Negli anni del giovane Gianni, i freelance erano pochi, ma da liberi professionisti mettevano in gioco la propria carriera. Certo, Gianni ha goduto, negli anni Settanta, del meglio del fotogiornalismo, che Hubert Henrotte aveva creato con Gamma e Sygma. E Gianni, fino alla fine della sua vita, è stato legato a Hubert Henrotte con una parola che sembra antica: rispetto. A Hubert e ai redattori dell’agenzia deve una importante chiave del suo successo: l’apprendimento di un comportamento etico che garantisce una sicurezza della qualità dei reportage forniti ai giornali e alle riviste,

gine di Gianni, pubblicate da Time, L’Express, Le Figaro, Paris Match, Sette e altri giornali. Le pagine fotografiche aprono con il più famoso dei suoi scatti, quello del corpo di Aldo Moro, appena ritrovato, il 9 maggio 1978, a Roma, nella Renault rossa. Nel volume, sono trattati tutti i te-

nell’epoca del loro massimo splendore. Imparare ad editare le proprie fotografie attraverso gli editor dell’agenzia, crea un’interdisciplinarietà (dalla ritrattistica alle news, dallo sport alla ricerca), frutto di una curiosità instancabile. In breve, è stato richiesto da Time, Stern e altri importanti giornali internazionali. Più che fare, ha dovuto scegliere di non fare, date le richieste dei giornali mai deluse dai suoi risultati. Dal caso Moro, Gianni si è avventurato in tutte le discipline del fotogiornalismo: avvinto all’inizio dal reportage sociale, documenta la ’ndrangheta in Calabria, la fame in Somalia, l’attualità in Nicaragua e a San Salvador. Un redattore di Sygma, Alain Mingham, e, in certi casi, agli inizi, io stessa, lo abbiamo spinto a sperimentarsi in altre direzioni, e così sono nate le indagini di grande rilievo. Segnalo le mitiche fotografie del Palio di Siena, l’aristocrazia in Italia, l’accademia militare russa. Poi, si è appassionato alla fotografia di sport, sia di attualità sia ritrattistica. Diversi libri sulle corse automobilistiche. In una carriera durata trentuno anni, Gianni ha prodotto ventidue libri, tra questi uno su Ayrton Senna. Si è dedicato a servizi corporate, a sperimentazioni per collezionismo. È entrato nell’era digitale con entusiasmo e senza esitazioni. Ma veniamo al corpo di lavoro che ha reso Gianni Giansanti molto popolare: la serie di reportage dedicati a Giovanni Paolo II, papa Wojtyla. Iniziato come servizio di attualità dedicato ai viaggi del pontefice, è diventato un corpo di lavoro esaustivo sulla figura del papa. Il fenomeno della democratizzazione del pontificato sotto Giovanni Paolo II è bene illustrato nelle immagini di Gianni, che sono diventate popolari data la richiesta dei media. Immagini lontane dalla cronica sensazione di inautenticità, che spesso sentiamo nella ritrattistica attuale, le sue fotografie trasmettono momenti di vita pubblica e privata con un punto di vista sì rispettoso, ma mai celebrativo. È vero che Gianni ha avuto un accesso unico, ma è anche vero che non ne ha mai approfittato per fare del sensazionalismo. Negli anni del nuovo millennio, sono seguìti molti lavori di ritrattistica sulla scia delle fotografie del pontefice. Prima di preparare questa riflessione, in parte ho ricordato e in parte guardato la sua ritrattistica sul sito. Dalla lontana fotografia a Italo Calvino, diventata icona dello scrittore, alle ultime fotografie del 2009 non c’è nessuna immagine artificiale, e io mi auguro che nell’archivio storico nazionale queste fotografie trovino il posto che meritano. Infine, personalmente sono stata la sua agente esclusiva in Italia dalla prima fotografia prodotta all’ultimo servizio scattato pochi giorni prima della sua prematura scomparsa: non ricordo di avere mai avuto con lui motivi di incomprensione. Un’avventura del nuovo fotogiornalismo anni Settanta durata quasi quaranta anni solo con passione e intelligenza. Grazia Neri

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Reportage SCOOP E RITRATTI

«Mi manca l’Inquilino dell’Attico». Gianni Giansanti quell’inquilino, in privato come voleva lui, l’aveva già fotografato. Erano i tempi in cui Joseph Ratzinger era cardinale e si era concesso al suo obiettivo sul divano, mentre leggeva il giornale accanto al suo orsacchiotto e persino al pianoforte. Giansanti era sempre proiettato verso l’alto. Le limitazioni non erano compatibili con il suo temperamento. E ora che Benedetto XVI occupava le stanze di Giovanni Paolo II, voleva fotografarlo come il suo predecessore. Lui e il papa, nessun altro. Fu l’unico scatto dei suoi sogni che non realizzò. Gli altri sono in mostra dal ventidue settembre al Museo Nazionale della Scienza e della Tecnologia Leonardo da Vinci, di Milano. La prima retrospettiva dell’artista, nato a Roma nel 1956, offre ottantasei stampe e ricostruisce la carriera, conclusasi troppo presto, nel 2009, di un talento italiano che i migliori giornali del mondo hanno gratificato con generose pubblicazioni. The New York Times, Newsweek, Paris Match, Le Figaro, ma anche Epoca, Panorama e Sette - Corriere della Sera, per nominarne alcuni, hanno attinto a piene mani nell’archivio del fotogiornalista nell’arco della sua trentennale carriera, che si aprì nel 1978 con lo scoop mondiale del ritrovamento del corpo dell’onorevole Aldo Moro nella Renault rossa, che immediatamente, all’età di soli ventuno anni, gli assicurò la copertina di Time. La sua brillante intelligenza, unita allo studio, a un formidabile talento e a un rispetto per l’altro che oggi è totalmente fuori moda, gli permettono di mettere a segno una serie di esclusive, tra le quali, appunto, un libro su papa Wojtyla nei suoi appartamenti in Vaticano, che gli procurano riconoscimenti internazionali, come il World Press Photo di Amsterdam, che lo premia tre volte. Davanti al suo obiettivo scorrono i fatti e i personaggi che ricostruiscono la storia del nostro paese, da Sandro Pertini a Bettino Craxi, da Renzo Piano a Umberto Eco, da Luciano Ligabue a Federica Pellegrini, la strage di via Fani e gli avvenimenti successivi, l’attentato di Bologna, il terremoto in Irpinia, il Palio di Siena, le vedove della ’ndrangheta; ma anche le storie che raccontano il mondo. Somalia, Urss, India, Israele, Cina, El Salvador, Guatemala, le Olimpiadi. Il rigore con cui Giansanti affronta gli argomenti è sempre il medesimo e il mondo della stampa che apprezza il fotogiornalismo non si lascia sfuggire l’opportunità di utilizzare le sue immagini, che si stagliano sopra la grande quantità di scatti che, specialmente a partire dal Duemila, in seguito all’avvento delle macchine fotografiche digitali, inondano le redazioni. Le sue si riconoscono: perché Giansanti sulla notizia arriva prima e le sue fotografie veicolano un contenuto giornalistico che non è mai generico; perché sono intense e architettonicamente perfette; perché brillano di una luce ineccepibile. L’eleganza che aveva già convinto personaggi esigenti, come lo stilista Valentino, Yves Saint-Laurent, Gianni Versace, seduce anche Ayrton Senna, Jacques Villeneuve e Alessandro Del Piero, del quale diventa il fotografo personale. Condivide con il pilota canadese un anno di corse, proprio quello in cui vince il campionato mondiale di F1, in seguito al quale nasce il volume A Champion in Pictures; poi, si concentra sul numero 10 della Juventus e dopo due anni di assidua frequentazione, il calciatore se lo porta persino in vacanza a Miami, nel 2002, pubblica il libro Semplicemente Del Piero. La sua sete di conoscenza lo porta ancora lontano, si innamora dell’Etiopia, della Valle dell’Omo in particolare, fino a editare, nel 2004, l’opera monumentale L’Ultima Africa. Nel chiostro del Museo milanese, sfilano gli attori del suo personalissimo film: Giovanni Paolo II, l’immancabile Alessandro Del Piero, Marco Materazzi, Maurizio Pollini, il cardinal Bertone, Umberto Veronesi, Mstislav Rostropovich, un giovane Silvio Berlusconi, Fiorello, Luciano Pavarotti, John Elkann, Italo Calvino, Mimmo Paladino, Michael Schumacher, Fernando Alonso, il ministro Cossiga assalito dallo sconforto in via Caetani e tutti i volti che appartengono all’universo della cronaca italiana e straniera che non hanno un nome e che hanno riempito la sua vita e i giornali di tutto il mondo. Tutti accarezzati dal suo obiettivo con infinita empatia e il consueto rispetto. Con uno stile che è tutto e solo suo. Semplicemente Giansanti. Chiara Mariani

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mi affrontati da Gianni, gli intensissimi ritratti, i reportage antropologici della valle dell’Omo e dell’India, la cronaca quotidiana della vita pubblica e privata di papa Giovanni Paolo II, i bianconeri, lo sport. È vero quello che afferma l’editore Contrasto, nella presentazione del libro: «Questo volume raccoglie per la prima volta il meglio della lunga e varia produzione di Gianni, senza trascurare i numerosi ritratti del mondo della politica, della cultura e delle icone dello sport». Però, per quanto meritevole sia la pubblicazione di questa monografia, una critica sottovoce dobbiamo farla: non tutte le fotografie pubblicate sono state seguite con la stessa cura. In particolare, il bianconero è un poco debole. Questo detto per dovere di cronaca, Gianni Giansanti rimane un grande volume, che tutti gli appassionati di fotografia e di fotogiornalismo in particolare, dovrebbero avere nella propria libreria. Prima di chiudere ringraziamo, da professionisti e lettori, la passione, l’amore e la competenza di Chiara Mariani, di Ada Masella e del figlio di Gianni, Andrea, che hanno reso possibile la pubblicazione di questo volume e la realizzazione della mostra. E sottolineiamo il gusto di Massimo Zingardi, che ne ha curato la grafica. Ovviamente, grazie anche a Roberto Koch, che lo ha pubblicato. ❖

Gianni Giansanti; progetto di Chiara Mariani, coordinamento editoriale di Ada Masella e Andrea Giansanti; prefazione di Carlo Verdelli; testi di Chiara Mariani, Antonio D’Orrico, Jeff Israely, Toni Capuozzo e Gianni Giansanti; Contrasto, 2010; 160 pagine 24x30cm, cartonato; 39,00 euro.



di Maurizio Rebuzzini

N

onostante tutto, non soltanto molto, nonostante mille e mille impegni personali, magari il nostro (per quanto modesto) tra i tanti, l’Italia fotografica continua a navigare alla periferia del mondo. È una dimensione endemica e irrinunciabile (!), definita e determinata dalla limitatezza delle nostre visioni, dei nostri riferimenti,

Tim Mantoani con Bill Eppridge, fotografato con la sua icona dell’assassinio di Robert Kennedy (6 giugno 1968).

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dei nostri intendimenti, dei nostri confronti e dei nostri orizzonti. Ci piaccia o meno, così è! Qualche mese fa, lo scorso inverno, stavo preparando una lezione per l’Università, durante la quale, per arrivare a concetti di espressività, avrei richiamato gli apparecchi fotografici fuori dimensione, XL e oltre, a partire dall’originaria Mammoth, di George R. Lawrence, del 1900, certamente la macchina fotografica più grande mai costruita: costo industriale di cinquemila dollari

DIETRO LE


(somma enorme, per quel tempo), seicentotrentatré chili di peso, sei metri abbondanti di tiraggio (6,1m, per l’esattezza), quindici uomini per gestirla, per lastre di vetro 1,37x2,44m (4,5x8 piedi), in châssis di duecentoventisette chili. Servì a fotografare un treno della Chicago & Alton Railway, con un tempo di posa di due minuti e mezzo; si ipotizzano soltanto tre scatti, per copie a contatto presentate all’Exposition Universelle, di Parigi, dove venne loro assegnato il Grand Pri-

ze per l’eccellenza fotografica. Con l’occasione, tra le tante ricerche correlate agli apparecchi fotografici giganteschi, il destino mi ha fatto incontrare il fotografo californiano Tim Mantoani, di evidente origine italiana (www.mantoani.com). La combinazione è stata resa possibile dal suo progetto Behind Photographs, ovverosia dietro le fotografie, svolto e realizzato in polaroid 50x60cm. Incontro casuale, ma entusiasmante. Ne sono rimasto folgorato. Ne ho riferito a lezione, includenMary Ellen Mark con Ram Prakash Singh with His Elephant Shyama (Great Golden Circus; Ahmedabad, India, 1990).

Straordinario progetto del californiano Tim Mantoani, Behind Photographs propone diversi piani di lettura. A propria volta, questa fantastica serie di ritratti polaroid 50x60cm di fotografi, rappresentati con una propria immagine simbolo, il più delle volte icona della Storia (anche solo del costume), interpreta il linguaggio visivo scandendo i tempi della contemporaneità. Quindi, l’autore Tim Mantoani, a un tempo discosto e abile regista, sintonizza la propria personalità d’autore con la stessa Storia (della fotografia)

FOTOGRAFIE

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Elliott Erwitt con una fotografia che non ha bisogno di presentazione (New York City, 1974).

dolo nel percorso tra passato e presente dell’espressione visiva. Poi, ne ho parlato a conoscenti, operatori del settore. «Nonostante tutto, l’Italia fotografica continua a navigare alla periferia del mondo. È una dimensione endemica e irrinunciabile (!), definita e determinata dalla limitatezza delle nostre visioni, dei nostri riferimenti, dei nostri intendimenti, dei nostri confronti e dei nostri orizzonti. Ci piaccia o meno, così è!». Infatti, indistintamente molti di loro hanno arricciato il naso, affermando che si tratta di qualcosa di già visto. Sopra tutti e nello specifico, si sono espressi così coloro i quali, soli-

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GRANDE, GRANDE, GRANDE. ANCORA PIÙ GRANDE!

Storia ormai (tra)passata? Fino al formato 4x5 pollici, il dorso, oppure l’apparecchio fotografico che esponeva pellicola polaroid a sviluppo immediato ha avuto in sé gli elementi per il suo stesso trattamento. Differentemente, l’emulsione polaroid per il massimo grande formato standard 8x10 pollici, colore e bianconero, si è scomposta tra negativo, ovvero matrice da esporre in macchina mediante opportuno châssis, e positivo, da accoppiare dopo lo scatto in una apposita sviluppatrice esterna. Per certi versi, e paradossalmente, l’apparecchio 50x60cm conciliò le due diverse tecniche polaroid di esposizione e trattamento: la macchina con la quale si espone il negativo-matrice assolveva anche l’accoppiamento con il positivo e il relativo sviluppo della fotografia. L’emulsione utilizzata è stata il classico colore ER, che è pure esistito in ogni confezione solita: dal filmpack 8,6x10,8cm alle piane 4x5 pollici (singole o a filmpack), al massimo 8x10 pollici. Nel dorso della camera 50x60cm, che provvedeva all’esposizione del negativo-matrice e al suo successivo accoppiamento con il positivo, si caricavano le due singole bobine di materiale. In alto, stava quella del negativo, in quantità per quarantacinque esposizioni; e in basso, si posizionava quella del positivo, in lunghezza per quindici pose 50x60cm. Quindi, in prossimità della bobina di carta positiva venivano sistemate le capsule che contenevano il chimico per il trattamento. L’inquadratura viene controllata da una certa distanza: quanto serve per comprendere in un solo colpo d’occhio tutto il formato 50x60cm. Una volta costruita l’immagine, il fotografo (nello specifico, Tim Mantoani) predispone l’apparecchio per l’esposizione. Una funicella serviva per portare in posizione il negativo-matrice,

tamente, solo parlano e poco realizzano. E questo la dice lunga. Ne sono assolutamente convinto. Delle due, entrambe. Uno, non elevo il mio apprezzamento incondizionato sopra i giudizi altrui, considerandolo valido soltanto perché mio; due, è anche vero: abbiamo già visto. Così come, del resto, in fotografia, da centosettanta anni a questa parte assistiamo spesso/sempre a ritorni e ricorsi espressivi. Del resto, il margine di invenzione pura è talmente risicato, da non consentire molte varianti. Per cui, e a conseguenza, ciò che conta non è l’originalità a tutti i costi, spes-

mentre il fotografo dirigeva la ripresa, scattando con l’immancabile flessibile collegato all’otturatore centrale dell’obiettivo. Dopo l’esposizione, si sviluppava la fotografia. Una leva sul lato del dorso dell’apparecchio portava in posizione la capsula dei chimici: tra il negativo-matrice esposto e il positivo sul quale trasferire l’immagine. Quindi, i due materiali venivano estratti simultaneamente dal dorso, laminandosi tra di loro mediante il chimico catalizzatore e passando per gli immancabili rulli di sviluppo al titanio. Dopo i sessanta-ottanta secondi di accoppiamento (in base alla temperatura ambiente), si provvedeva allo spellicolamento, con l’apparizione della magica fotografia polaroid: il risultato era visibile qualche istante dopo lo scatto. La camera Polaroid 50x60cm produceva immagini di grande formato perfettamente definite, perché si trattava di esposizioni originali (in macchina) e non di stampe da negativi più piccoli. L’apparecchio pesa circa 90kg. Nell’uso, la camera si sposta lateralmente; può alzarsi e abbassarsi e può essere inclinata verso il soggetto. Il piano dell’obiettivo può anche essere decentrato e basculato attorno i due assi verticale e orizzontale; si possono realizzare soltanto inquadrature verticali (il solo Davide Mosconi la ribaltò per realizzare inquadrature orizzontali). In dotazione, la Polaroid 50x60cm ha una serie di obiettivi che comprende anche un Fujinon CS 600mm f/11,5 e un Rodenstock Apo-Ronar 1200mm f/16. Il soffietto si estende fino a un metro e mezzo. Tim Mantoani ha fotografato con questa Polaroid 50x60cm originaria e con un’analoga configurazione Wisner folding, su treppiedi, finalizzata all’impiego della stessa emulsione.

so fine a se stessa, ma la capacità di interpretare e svolgere un progetto. Anzitutto, conta perché svolgerlo, quindi, in proseguimento, come svolgerlo. E mi riferisco ai contenuti, che vanno ben oltre la forma a tutti apparente.

BEHIND PHOTOGRAPHS (E CONTORNI) Behind Photographs (dietro le fotografie), di Tim Mantoani, si manifesta e concretizza in una incessante e avvincente serie di ritratti di fotografi che tengono tra le mani una propria fotografia simbolica, spesso la fotografia che ne riassume

Tim Mantoani ha realizzato i suoi ritratti di Behind Photographs con la Polaroid 50x60cm, che ha contribuito a scrivere importanti capitoli della storia contemporanea della fotografia. In alternativa, soprattutto per sessioni in location, ha usato una analoga Wisner folding.

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Nick Ut (Huynh Cong) con Vietnam Napalm (6 agosto 1972) [della storia della bambina/donna Pham Thi Kim Phuc abbiamo riferito in FOTOgraphia del dicembre 2004].

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e identifica l’intera carriera, sempre un’immagine in qualche misura storica, in assoluto o del costume. Tutti sono immancabilmente inquadrati in composizioni polaroid 50x60cm: la forma per il contenuto, dalla tecnica alla creatività, fate voi. In un certo senso, per quanto soprattutto limitato a una visione irrinunciabilmente americanocentrica, con poche e minime escursioni oltreconfine, si tratta di un consistente attraversamento della storia contemporanea della fotografia, soprattutto di reportage (va rilevato) e qualcosina oltre. Però! Però, diavolo, quanta commozione esplode da queste immagini, quanta emozione trasmettono queste immagini, soprattutto a coloro i quali, noi tra questi, distinguono i soggetti e riconoscono i tratti del linguaggio fotografico. Dopo di che confesso, registro e sottolineo il piacere di vedere in faccia, de visu, con i propri occhi, i fotografi autori... seppure anagraficamente a distanza di decenni dallo scatto che li consegna alla Storia. Sì, in questo senso, si manifesta anche un poco di feticismo, che comunque ci sta tutto e bene: l’identificazione del personaggio, solitamente nascosto dietro la propria macchina fo-


tografica, che improvvisamente e baldanzosamente si presenta davanti all’obiettivo. Vogliamo dirla tutta? E diciamola, non per minimizzare o sminuire il lavoro dell’esimio Tim Mantoani. Al contrario, per esaltarlo, iscrivendolo nel lungo e coinvolgente capitolo della raffigurazione consapevole di fotografi (rappresentazione posata). Ne abbiamo anche già riferito, ma, come spesso accade, la ripetizione si impone. Raffigurati per se stessi o nel gesto della propria azione fotografica, ritratti e autoritratti di fotografi compongono un casellario vasto ed eterogeneo, ora magistralmente arricchito dalla serie Behind Photographs, di Tim Mantoani (grazie!). La selezione Les photographes - regars inversés, esposta al Musée suisse de l’appareil photographique, che abbiamo presentato e commentato nel marzo 2008, è stata allestita con abile ricerca di archivio. Non c’entra nulla con i ritratti posati e consapevoli, oltre che amabilmente complici, di Tim Mantoani. E neppure vanno presi in considerazione i ritratti di cento fotografi contemporanei della serie Michel Auer Photographer, dei quali abbiamo riferito nel settembre 2005. Rapido riepilogo.

Michael Collopy, celebre e celebrato per i suoi ritratti dei grandi pacifisti del mondo, con il ritratto di Madre Teresa di Calcutta, copertina della monografia Works of Love Are Works of Peace: Mother Teresa of Calcutta and the Missionaries of Charity, del 1996.

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Semmai, a giro largo, possiamo azzardare un parallelo con il progetto The Other Side of the Camera, di Arnold Crane (monografia pubblicata nel 1995; FOTOgraphia, dicembre 1996), che in un arco di ventotto anni, dal 1967, ha frequentato fotografi di fama. Li ha fotografati sistematicamente, vivendo con loro per periodi più o meno lunghi, seguendoli nelle occupazioni giornaliere, nel lavoro, in studio, durante il tempo libero. Così, Arnold Crane ha composto ed edificato un autentico monumento di valore visivo inestimabile, nonché di catalogazione storica di autori-simbolo del nostro tempo (ventiquattro, da Berenice Abbott e Ansel Adams a Paul Strand, Minor White e Garry Winogrand, agli estremi dell’ordine alfabetico). E lo stesso ha fatto Tina Ruisigner con Faces of Photography (Edition Stemmle, 2002), con l’aggiunta di interviste a cinquanta fotografi contemporanei. Ancora, la consecuzione autore con propria immagine significativa è il motivo conduttore di Photographers and their Images, a cura di Fi McGhee (1989): ritratti di fotografi, ognuno dei quali indica e commenta la propria immagine preferita.

BEN OLTRE (E CONCLUSIONE) Comunque sia, per quanto sia stato doveroso ricordare queste analogie, Behind Photographs, di Tim Mantoani, è autenticamente qualcosa di più, perché migliore. Non si tratta tanto di aver appagato il gusto (feticistico) del dietro-le-quinte, come è stato fatto dalle raccolte appena ricordate, quanto di assommare se stesso come autore alla schiera di autori individuati e fotografati. Se vogliamo anche vederla in questo modo, e perché non farlo?, dopo aver individuato i propri soggetti possibili, Tim Mantoani ha compiuto una

ammirevole azione fotografica, anzi due, in simultanea. Anzitutto, si è fatto da parte, e -discosto- ha lasciato le luci dell ribalta ai protagonisti delle sue inquadrature/composizioni/rivelazioni; quindi, scatto dopo scatto, inquadratura dopo inquadratura, soggetto dopo soggetto, ha contrassegnato l’intero progetto con l’indelebile marchio della sua eccellente personalità fotografica. Così agendo, autore tra autori, Tim Mantoani ha posto solide basi per iscrivere anche il suo nome nella Storia (della fotografia), per consegnarsi al futuro, nello stesso momento nel quale ha rimarcato la legittima presenza dei suoi soggetti. E l’Italia fotografica fa soltanto parrocchietta. Parla e sparla, e di poco si accorge. Soprattutto dei venti di freschezza che soffiano nel mondo. E l’Italia fotografica neanche sta a guardare, perché non intende vedere oltre il proprio naso, oltre i propri (pre)gusti. Per buona pace. ❖

Phil Stern con il suo ritratto di Marilyn Monroe, realizzato nel 1953 [ FOTOgraphia, ottobre 2009]. Anche Douglas Kirkland con Marilyn: Una notte con Marilyn [ FOTOgraphia, dicembre 2002]. Neil Leifer, straordinario fotografo di sport [ FOTOgraphia, maggio 2010], con il knocks out con il quale Muhammad Ali ha sconfitto Sonny Liston, alla St. Dominic’s Arena, di Lewiston, nel Maine, il 25 maggio 1965, copertina della monografia Greatest of All Time A Tribute to Muhammad Ali, recentemente pubblicata da Taschen Verlag.

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MAI MORTI Vicino al Movimento Sociale Italiano, del quale è stato fiancheggiatore, assumendo posizioni in chiave pseudo-giornalistica, negli anni Sessanta, Il Borghese ha espresso una nostalgia del Ventennio in chiave ironica e satirica (a modo proprio). Caso unico nella cultura della destra italiana: ma, soprattutto, radice di molti malcostumi del giorno d’oggi. Nulla nasce da niente, e certe concezioni sopravvivono a tutto. Non muoiono mai (purtroppo) di Maddalena Fiocchi

C

ronologia. Nel 1950, uscì il primo numero di una rivista quindicinale diretta da Leo Longanesi, intitolata Il Borghese, che divenne settimanale di lì a due anni. La testata si ispirava a valori come Dio, Patria e Famiglia, e il suo orientamento divenne esplicitamente nostalgico sotto la direzione di Mario Tedeschi, iniziata dopo la morte di Leo Longanesi, nel 1957. Da allora in poi, la rivista assunse spesso toni grossolanamente moraleggianti, sempre più reazionari, fino a sorpassare a destra il Movimento Sociale Italiano (Msi, segretario Giorgio Almirante, partito di riferimento). Mario Tedeschi morì nel 1993, e Il Borghese non fu più pubblicato fino al 1996, quando riprese, prima sotto la direzione di Daniele Vimercati e poi, nel 1998, di Vittorio Feltri, che tentò di alzarne la tiratura associando al giornale videocassette sexy/porno... e così l’affossò. Nel 2000, il figlio di Mario Tedeschi, Claudio, depositò nuovamente la testata, che da allora ricominciò a uscire in edicola: prima ogni sei mesi, poi ogni tre, e quindi mensilmente (circa). Non ci sarebbe nessun motivo per rispolverare un giornale del genere, e ci riferiamo alle edizioni originarie degli anni Sessanta, se le fotografie pubblicate ai tempi della direzione di Leo Longanesi e poi di Mario Tedeschi, che avevano lo scopo di bacchettare i politici e i personaggi più noti del tempo, non fossero insieme intriganti e rivelatrici di qualcosa di subdolo, ma decisivo nel costume del nostro paese.

Fotografie del Borghese: raccolta semestrale delle immagini pubblicate dal settimanale Il Borghese, che ne hanno costituito l’animo satirico. Queste edizioni, qui visualizzate dal fascicolo luglio-dicembre 1968, si possono rintracciare nei mercatini antiquari.

Altra raccolta di fotografie selezionate da Il Borghese. Nel marzo 1964, Kodak di paglia ha riunito il meglio (peggio?) della satira originariamente espressa dal settimanale.

IL BORGHESE Vicino al Movimento Sociale Italiano e consapevole della propria posizione del tutto estranea alle forze comprese nell’arco costituzionale, negli anni Sessanta Il Borghese è stato un settimanale nostalgico. Ha espresso una nostalgia del Ventennio in chiave ironica e satirica, caso unico nella cultura della destra italiana. In altri paesi, per esempio nella vicina Francia, la satira non è appannaggio esclusivo della sinistra. In Italia, solitamente sì. La testata esiste ancora -come appena ricordato, dall’inizio del Duemila ha ricominciato a essere pubblicata, fino a uscire ogni mese-, e non si è affatto

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Su FOTOgraphia dello scorso luglio si è parlato di albumini turistici (e cartoline), del loro aspetto e della loro funzione, del ruolo che rivestono nei processi di formazione dell’immaginario collettivo sul mondo. Questa volta, di fronte a un ritrovamento analogo, ancora una volta in un mercatino antiquario, è il turno delle raccolte di fotografie che Le Edizioni del Borghese hanno pubblicato semestralmente negli anni Sessanta, riunendo immagini comparse sui numeri del settimanale (ricordiamo che ogni edizione del Borghese era divisa in due parti: una di soli testi, attorno alla seconda, centrale, di fotografie, che raccontavano qualcosa d’altro rispetto al giornalismo; è stata proprio questa seconda l’area satirica del settimanale).

DIDASCALIA (IN CAMPO AMPIO) Da Fotografie del Borghese / gennaio-giugno 1961: accostamenti storici (1890-1961) e di stretta contemporaneità (Sandra Milo e il ministro del Lavoro Fiorentino Sullo).

Umorismo di bassa lega: balloon che ipotizzano un dialogo tra lord Snowdown (Antony Armstrong-Jones) e la moglie, principessa Margaret.

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ravveduta rispetto all’impostazione originaria. Ma, mentre all’epoca, in decenni più lontani di quanto il calendario potrebbe rivelare, Il Borghese viveva ancora di rendita per via della precedente direzione di Leo Longanesi, e si poneva come punto di riferimento culturale di una destra italiana (ahimè) apertamente fiera del proprio livore verso quelle che considerava le cause di ogni male del paese -donne, invertiti (sic!), sottosviluppati (sic!), comunisti, socialisti e democristiani-, oggi anche i blog più reazionari e razzisti registrano la sua decadenza giornalistica. Spesso, il nostro direttore Maurizio Rebuzzini recupera oggetti curiosi nei mercatini di antiquariato, che interpreta e declina in senso sociale e di costume. Perché Rebuzzini lo salvi dall’oblìo, assegnandogli così una nuova attualità, un oggetto tra gli altri deve possedere quantomeno un requisito: deve intrattenere una qualche relazione con la materia fotografica. Deve testimoniare qualcosa del modo in cui la fotografia si proietta sulla società, contribuisce al costume o forse addirittura lo definisce.

L’intenzione satirica delle raccolte Fotografie del Borghese ha prodotto risultati oggettivamente rozzi, servendosi però di un sistema ingegnoso (e non ci esprimiamo con il proverbiale senno di poi, cerchiamo di proiettarci indietro nel tempo). L’effetto scaturiva dal rapporto tra le immagini e quelle che apparivano come didascalie: brevi testi collocati sotto l’immagine, che senza essere minimamente esplicativi mettevano in luce il motivo per cui la scena presentata era, dal punto di vista del settimanale, condannabile e da condannare. Nella prefazione al volume che raccoglie le fotografie pubblicate dal gennaio al giugno Sessantuno, l’allora direttore Mario Tedeschi afferma che questa unione tra immagini e parole sarebbe servita a «[prendere] certi signori per la collottola, e [obbligarli] a sbattere il muso sulla documentazione fotografica della loro maleducazione, della loro sbracatura, della loro indecenza», nella vana speranza di poterli correggere. A queste raccolte periodiche si aggiunge una seconda pubblicazione, in edizione unica, confezionata in modo analogo e orientata nella stessa direzio-


ne: Kodak di paglia [e già da sé, il titolo basterebbe a comporre un paragrafo di una possibile Storia sociale della fotografia]. Questa volta non ci sono didascalie; al loro posto, veri e propri balloon, come quelli dei fumetti (le nuvolette, per intenderci), fanno “parlare” i protagonisti delle immagini: e l’umorismo si genera così, assegnando una voce immaginaria ai personaggi presi a bersaglio. Imbocchiamo una deviazione, utile e necessaria. Walter Benjamin ha sostenuto che, per essere lette e interpretate dall’osservatore, le fotografie hanno bisogno di essere accompagnate da istruzioni. La somiglianza tra le immagini fotografiche e l’immagine della realtà che siamo soliti guardare (e vedere?) è tale che le prime domande che sorgono spontaneamente di fronte a una fotografia riguardano non tanto la rappresentazione in sé, come avviene quando si osserva un quadro, ma l’esistenza del soggetto fotografico al di fuori dello spazio della raffigurazione, nel mondo. Certo, un addetto ai lavori formula ben altre domande, senza dubbio molto meno ingenue, ma parliamo proprio degli interrogativi più immediati che si presentano alla mente quando si osservano le immagini fotografiche cercando per quanto possibile di non lasciarsi influenzare da pregiudizi intellettuali o deformazione professionale. Le didascalie sono chiamate a rispondere proprio a queste domande originarie, a offrire un’indicazione su come leggere questo particolare tipo di immagini, così realistiche da essere a prima vista inquietanti (pensiamo al timore che uno scatto fotografico possa rubare l’anima). Ed è davvero questo che fanno. Vediamo una strada vuota di una città che potrebbe essere europea, ma se la didascalia informa che si tratta di una fotografia scattata a Parigi, nel 1908, quell’immagine inizia ad assumere un significato più complesso. Prima ancora che dalla sua bellezza, una forte suggestione deriva proprio dal fatto che abbia-

mo la consapevolezza di osservare, oggi, l’aspetto che quella singola strada ha avuto in un dato momento del passato, non prima e non dopo.

INQUADRATURA (E RIENTRIAMO) Una caratteristica non certo secondaria delle immagini fotografiche è proprio quella di poter essere percepite e usate come documenti di prova del processo storico (Walter Benjamin, L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica. Arte e società di massa; a cura di Enrico Filippini, prefazione di Cesare Cases, Einaudi, 1966; nuova edizione 1991, con una nota di Paolo Pullega). La tendenza a considerare le immagini fotografiche come prove della realtà è spontanea e fortissima, eppure la fotografia funziona come tante altre forme di rappresentazione: può essere aderente alla realtà, oppure no. Può dire il vero o il falso, anche a prescindere da qualunque possibilità di falsificazione dell’immagine (con Lewis W. Hine, 1909: «La fotografia è verità, ma anche i bugiardi

Ancora da Fotografie del Borghese / gennaiogiugno 1961: satira (?) di costume (un travestito e l’attore Massimo Girotti) e politica (Giorgio La Pira con Mazzini e Mina, all’anagrafe Mazzini, con Garibaldi).

Quarta di copertina di Kodak di paglia: raffinato accostamento tra il seno di Sophia Loren e...

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Da Fotografie del Borghese / luglio-dicembre 1968: parata grottesca di situazioni eterogenee, significative dei moniti elargiti dal settimanale Il Borghese. Accostamento tra il voto di un operaio edile e quello di un illustre pittore. Daniel Cohn-Bendit, leader del Maggio francese, liquidato tra i nuovi beni di consumo. Ci rifiutiamo di aggiungere qualcosa all’ironia sul «potere negro».

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possono fotografare», oppure «La fotografia non sa mentire, ma i bugiardi sanno fotografare»). L’inquadratura costituisce di per sé una selezione. Una porzione di ciò che è visibile a partire da un determinato punto di osservazione in un determinato momento viene estrapolata dal proprio contesto. È così che, stringendo l’inquadratura il più possibile sulla statua di Saddam Hussein che viene sradicata dal proprio piedistallo, può succedere che lo spazio della raffigurazione sia completamente occupato dalle persone che circondano il monumento. Questo genera nell’osservatore l’impressione della presenza di una folla, quando magari, se potessimo abbracciare con lo sguardo il resto della piazza, scopriremmo che le persone inquadrate sono in realtà le uniche presenti. Il testo di Walter Benjamin appena citato è senza dubbio frutto del proprio tempo, ha subìto esagerate esaltazioni (?) e altrettanto esagerate stroncature. Non è privo di contraddizioni, ma ha molti meriti, tra i quali quello di aver puntato il dito su alcuni nodi che legano l’arte alla struttura della società che la produce e all’esperienza degli osservatori, che non hanno ancora risolto la propria problematicità. A proposito della pretesa verità fotografica, Walter Benjamin scrive: «Con Atget, le riprese fotografiche cominciano a diventare documenti di prova del processo storico. È questo che ne costituisce il nascosto carattere politico. Esse esigono già la ricezione in un senso determinato. La fantasticheria contemplativa liberamente divagante non si addice alla loro natura. Esse inquietano l’osservatore; egli sente che per accedervi deve cercare una strada particolare. Contemporaneamente i giornali illustrati cominciano a proporgli una segnaletica, vera o falsa, è indifferente» [corsivo del redattore]. Di fatto, le fotografie sono percepite così, e le didascalie ne orientano la lettura. Ma che davvero si tratti o meno di “prove” è tutto un altro discorso. Ecco perché nascondono un carattere politico. Se le fotografie della deposizione della statua di Saddam Hussein mostrano una folla, l’opinione pubblica è portata a credere che in quel momento, in

quella piazza, ci fosse effettivamente una folla. Per questo motivo, la fotografia rafforza prepotentemente la tesi proposta da chi la pubblica, ed è percepita facilmente come realtà e non come rappresentazione, o costruzione figurativa. Alcune immagini fotografiche restituiscono molto fedelmente un certo aspetto della realtà, da un determinato punto di vista, ma non è detto che sia così. Inoltre, le parole che accompagnano tali immagini sono in grado di modificare in larga misura la percezione del loro significato. Questo rende la fotografia strumento potenziale di manipolazione, e l’unico antidoto è la comprensione del linguaggio fotografico e della sua interazione con il linguaggio verbale.


per veri presupposti che in realtà sono falsi. E alla base della satira proposta dal Borghese c’è l’idea che la dignità non riguardi ogni essere umano, ma solo qualcuno, che le donne siano una vergogna, l’omosessualità un male da estirpare [e definire con spregio: invertito] e c’è il rimpianto nostalgico di una monarchia fuggita da Ortona (o Brindisi) e del ventennio che servì. Farsi forti della legge del più forte è ingiustificabile e inumano, ma Il Borghese non è mai stato di questo avviso: tra le sue pagine non mancano i richiami all’utilità delle frustate in un paese «dove tutti ormai si danno buscherature accompagnandole con le carezze» (Fotografie del Borghese, gennaio-giugno 1961, prefazione di Mario Tedeschi). Però, a quei tempi, le opinioni di cui si faceva portavoce non erano maggioritarie, per lo meno non ufficialmente, e avevano poca eco in parlamento.

Tutte le scuse sono buone per pubblicare un accattivante nudo (nello specifico, l’attrice Lisa Gastoni). Aldo Braibanti, unico processo italiano per plagio, irriso e perseguitato per la sua omosessualità dichiarata.

LE FOTOGRAFIE DEL BORGHESE

Per quanto riguarda le raccolte fotografiche di cui stiamo parlando -dopo aver deviato dalla retta via-, la questione è senza dubbio diversa, perché si tratta di satira e non di cronaca. La funzione delle immagini cambia insieme a quella delle didascalie, e di questo insieme Il Borghese ha fatto un uso apertamente fazioso ed evidentemente ironico. La satira ha il fine di svelare una verità meno ipocrita di quella ufficiale. Allora, se ciò che la satira pretende di mostrare senza veli è ancora più ingannevole di quello che si vuole criticare, significa che da qualche parte c’è qualcosa che non funziona: i presupposti della polemica di questa rivista sono stati e restano errati. Essere faziosi non è un male; invece lo è dare

Le fotografie che apparivano sulle pagine del settimanale sono intriganti, bisogna ammetterlo, e siccome dischiudono una finestra sull’Italia di allora e sul suo modo di vedere il mondo, consentono riflessioni anche sull’Italia di oggi. Sono numerose le immagini che per l’epoca erano quantomeno osé, ufficialmente pubblicate con la scusa di fustigare l’immoralità delle donne, ufficiosamente offerte per la contemplazione dei borghesi, ma anche di quei ragazzini che poche stagioni più tardi sarebbero diventati i cosiddetti “sessantottini”: fotografie ammiccanti di donne procaci, adeguatamente discinte. In canottiera e calze a rete, seduta in posa da pin up su sontuosi cuscini, una giovane Sandra Milo è affiancata all’immagine del ministro del lavoro Fiorentino Sullo, democristiano, in una strana posa, come un inchino prima di sedersi su una poltroncina cesellata: in abbinamento e combinazione, «Peccati di natura (nella foto, Sandra Milo)... / ... E peccati di Sullo (nella foto, il Ministro del Lavoro)» [a pagina 40]. Il peccato associato a Sandra Milo è evidentemente Sandra Milo in sé e per sé, come donna, attrice e sex

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CASELLARIO

Ancora da Fotografie del Borghese / luglio-dicembre 1968. Ancora due esempi di uno dei temi sui quali Il Borghese ha sempre insistito in modo particolare: rapporti sociali con l’Africa, affrontati e svolti sempre e soltanto in chiave dichiaratamente razzista.

symbol. Quello di Sullo riguarda probabilmente la sua militanza nella sinistra democristiana. Sempre con la scusa di moralizzare la società italiana dell’epoca, sulla stessa raccolta si incontrano, ancora una accanto all’altra, una fotografia del 1890 che il settimanale intitola Le piccole bagnanti e una del 1961 la cui didascalia recita Nuove usanze al bagno [ancora a pagina 40]. Nella prima, due bambine vestite di tutto punto aiutano una terza a fare il bagno in una tinozza dalla quale emergono solo il busto e la testa ancora ornata di nastri bianchi della piccola. Alle spalle di questo trio, la presenza vigile di una balia. Nella seconda, invece, siamo in spiaggia, e in primo piano campeggia una ragazza in bikini. È verosimile che questa sia una delle prime immagini italiane di un costume da bagno a due pezzi, capo d’abbigliamento molto audace per l’epoca, che secondo Il Borghese non poteva che essere segno dello sfascio morale del paese. Comunque, a ogni buon conto, la fotografia fu pubblicata. La moralità delle donne è uno dei temi ricorrenti delle raccolte fotografiche del Borghese, e le scollature che era possibile contemplare nei primi anni Sessanta sulle pagine del settimanale difficilmente potevano trovarsi in altre riviste, per lo meno tra quelle esposte in bella vista sui tavolini dei salotti. Ma c’è un altro tema che all’epoca era del tutto tabù e non veniva affrontato da nessuno, né a destra né tantomeno a sinistra, sul quale il periodico reazionario ritorna invece con insistenza: l’omosessualità. Non che affrontasse questo tema in maniera adeguata: il termine sempre utilizzato è «inversione sessuale», e questo già la dice lunga. Ovviamente, il personaggio più bersagliato di tutti è Pier Paolo Pasolini, e nella confusione che veniva volutamente creata intorno all’argomento non si faceva nessuna distinzione, per esempio, tra omosessualità e travestitismo (ma ancora oggi purtroppo non sono in molti a saper distinguere).

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Adesso che siamo nel 2010, grazie agli intenti moralizzatori del Borghese abbiamo a disposizione immagini eccezionali di uomini vestiti da donne negli anni Sessanta. Ce n’è una che ritrae un cittadino torinese in abiti femminili; il travestimento è talmente ben riuscito, che senza l’indicazione fornita in didascalia sarebbe difficile accorgersene. Didascalia: «Il “nuovo gusto” italiano - Il torinese XY [in originale, nome e cognome per esteso], fermato dalla polizia di Bari dove si esibiva in un locale notturno». A fronte, in accostamento visivo, un uomo affascinante, l’attore Massimo Girotti (apparso in Dora Nelson, di Mario Soldati, del 1940, e diventato famoso per l’interpretazione in Ossessione, di Luchino Visconti, del 1945), appisolato su una poltrona, indossa scarpe inglesi, calzini scuri in filo di scozia e una canottiera bianca coperta da una severa veste di scena: «L’attore Massimo Girotti - Ha cominciato con Visconti» [a pagina 41]. I «diversi» -donne, omosessuali, poeti, travestiti e uomini di spettacolo- non sono l’unico obiettivo polemico del Borghese. La maggior parte delle fotografie raccolte hanno per soggetto i politici italiani. Il Borghese non risparmia nessuno e colpisce tutti i partiti, a parte il Movimento Sociale di Almirante: senza soluzione di continuità, da destra a sinistra, passando per il centro, dai liberali, ai democristiani, ai repubblicani, socialisti e comunisti. A quel tempo, Giorgio La Pira (Dc) era sindaco di Firenze o stava per diventarlo: un suo primo piano sorridente e di profilo, sovrastato da un ritratto di Giuseppe Mazzini, è accostato all’immagine della cantante Mina assorta nei propri pensieri, dietro la quale si vede bene un ritratto di Garibaldi appeso alla parete. Sotto le fotografie si legge: «Triste fine del risorgimento - Mazzini con Giorgio La Pira... / ... e Garibaldi appeso in capo al letto della “urlatrice” Mina» [a pagina 41]. Pietro Nenni, segretario del Partito Socialista, è uno dei bersagli preferiti del Borghese; lo troviamo sia nelle immagini del Sessantuno sia in quelle del Sessantotto, ed è ben visibile sulla copertina di Kodak di paglia, la monografia composta nel 1964 da Enrico Basile [a pagina 39]. In questa raccolta, le donne compaiono meno e uno spazio maggiore è riservato a politici, potenti e reali. Curiosamente, troviamo persino un fotografo in veste reale e una Rolleiflex: lord Snowdown (Antony Armstrong-Jones) è immortalato insieme alla moglie, la principessa Margaret, e la biottica inquadra una avvenente Sophia Loren (ai tempi, ancora Sofia). Curiosi i balloon sovrapposti alle immagini in sequenza di lord Snowdown e della principessa Margaret, che evocano una conversazione familiare, poco regale, che intende essere ironica: risultato patetico [a pagina 40]. Possiamo dire altrettanto della combinazione forzata tra il seno prosperoso di Sophia Loren e la Bibbia: avrebbe voluto essere satira [a pagina 41]. Fidel Castro, Nikita Krusciov, Aldo Moro, Pier Pao-


lo Pasolini, la regina d’Inghilterra, Mina, Yul Brynner, Brigitte Bardot, Aristotele Onassis, Farah Diba sono solo alcuni dei personaggi che compaiono in questa raccolta, che per un osservatore odierno si trasforma in autentico documento di costume.

LEZIONE DAL PASSATO Lo stesso vale per i volumi delle Fotografie del Borghese, per i quali consideriamo significative le edizioni gennaio-giugno 1961 e luglio-dicembre 1968, in ordine temporale la prima e l’ultima tra quante in nostro possesso. Sfogliando quello che raccoglie le immagini apparse da luglio a dicembre del Sessantotto, ci si imbatte nella guerra del Vietnam, nei carri armati a Praga, nella contestazione, ancora in BB e in Pasolini, molto spesso in Giovanni Leone, allora presidente del Consiglio, in fotografie scattate a feste hippy e persino in un’istantanea che ritrae il giovane Daniel Cohn-Bendit, al suo esordio politico [a pagina 42]. È proprio in questa edizione che troviamo una fotografia di Aldo Braibanti, omosessuale dichiarato, che ha subìto l’unico processo per plagio nella storia italiana, e che fu condannato: «Nuovi fusti - Aldo Braibanti: il comunismo “a posteriori”» [a pagina 43]. All’epoca, si mobilitarono in suo favore intellettuali del calibro di Alberto Moravia, Pier Paolo Pasolini, Umberto Eco e Marco Bellocchio, ma tra le forze politiche italiane nessuno osò aprire bocca. Nell’Italia dei tardi anni Sessanta, un omosessuale dichiarato era indifendibile, non solo per i cattolici della Dc ma anche per il Pci (nonostante Aldo Braibanti fosse comunista militante e ex partigiano). Il processo, che si servì della legge sul plagio introdotta nel codice durante il fascismo per arginare le istanze libertarie che cominciavano a essere rivendicate proprio in quel periodo, fu contestato solo da forze politiche che si riconoscevano nel pensiero anarchico oppure in quello radicale, ovviamente avverso a quella legge. Certamente, Il Borghese non difese Aldo Braibanti, ma il solo fatto di parlare del suo caso, altrove ignorato, pose la testata fuori dal coro. Tornando sul seminato, a proposito del messaggio che questa operazione di accostamento di immagini e parole ha veicolato, con Fotografie del Borghese / luglio-dicembre 1968 non si può sorvolare su pagine come quelle che sto per descrivere. Sotto un’immagine a colori che ritrae in primo piano alcune donne africane che portano grandi pentole in equilibrio sulla testa si legge: «Presenza europea in Africa - L’uomo bianco è nella pentola» [qui accanto]. Sotto i ritratti accostati di un operaio edile e del pittore Giorgio de Chirico, la didascalia recita: «Sintesi della democrazia - il voto del compagno edile... / ... vale quello del Maestro pittore» [a pagina 42]. Il ritratto di una donna di mezza età, con una bambola in braccio, associato alla didascalia «Italia dimenticata - Sognando un bambino...», è affiancato a quello della giovane attrice Lisa Gastoni, completamente nuda: «Italia filmata - Ringraziando la pillola...» [a pagina 43].

Un altro accostamento che la dice lunga. Ritratto di un giovane africano e fotografia antropometrica: «I traguardi del “potere negro”:... / ... una testa in ogni pentola» [a pagina 42]: da scompisciarsi dalle risate! Finiamo in bellezza. Una fotografia scattata in Africa, nel 1882, che ritrae Pietro Paolo Savorgnan di Brazzà insieme a due congolesi, è accostata a un’immagine a colori che pare tratta da un film della genìa di Tarzan, nella quale si vede un guerriero dalla pelle scura che tenta di strangolare un muscolosissimo biondastro: «Le catene del colonialismo sono infine spezzate... / ... i sottosviluppati sono alla pari coi bianchi» [qui sopra]. Trascorsi i decenni, oltre a essere preziosi documenti di costume, queste raccolte fotografiche del Borghese aiutano a capire che un certo linguaggio, quello che oggi imperversa nel nostro paese, e ha trovato addirittura dimora stabile in parlamento, non è esattamente una novità prodotta soltanto dagli ultimi trent’anni di televisione. È frutto di qualcosa che in Italia non è mai morto (come insegna Renato Sarti, con il suo spettacolo intitolato Mai Morti, dal nome di un battaglione della famigerata Decima Mas), una mentalità e un insieme di credenze che solo per un periodo di tempo limitato hanno abbassato un poco il tono, perché la parte più civile della società era riuscita a stigmatizzare certi comportamenti tanto da renderli socialmente inaccettabili. Ma i presupposti culturali che li generavano hanno sempre continuato a vivere, fino al momento in cui l’anestesia dello spirito critico, prodotta certamente anche dalla televisione italiana degli ultimi trent’anni, ha permesso a quei sentimenti deteriori di rafforzarsi abbastanza da poter sdoganare il proprio linguaggio, fino a farlo sembrare normale e accettabile se non addirittura vincente, tanto da essere usato persino da certi “rispettabili” giornalisti e politici di oggi. ❖

Tra storia (anche della fotografia: spedizioni africane del friulano Pietro Paolo Savorgnan di Brazzà) e attualità cinematografica (Tarzan e dintorni), con l’immancabile filo conduttore del razzismo più bieco.

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Volume-catalogo della celebrazione Gruppo Polaser - 10 anni di magia, allestita al Museo di San Domenico, a Imola, dal due al diciassette ottobre, dedicato alla memoria di Mario Ghetti. Collana Monografie Fiaf, 2010; 144 pagine 23x22cm; 15,00 euro.

ERMES RICCI: DA IL POTERE DELL’IMMAGINAZIONE

VITO LO PICCOLO: DA IL VOLO

MAX VACCARO: DA LE POLASĂˆR IMAGINAIRE

Con fotografie polaroid di Marco Ancarani, Andrea Angelini, Alfonso Arana, Mario Baldazzi, Alessia Barucchi, Guerrino Bertuzzi, Claudio Bocchini, Katia Brigiari, Francesca Degli Angeli, Fabio Del Ghianda, Moreno Diana, Andrea Drei, Mario Ghetti, Elena Gianessi, Gilberto Giorgetti, Fabrizio Giulietti, Sergio Guerra, Fabio Iacuitti, Maurizio Leoni, Vito Lo Piccolo, Renzo Magri, Michele Mantovani, Marilena Mazzari, Donata Milazzi, Cristina Paglionico, Carla Ponti, Ermes Ricci, Vittorio Rivalta, Dario Rossi, Franco Sortini, Rodolfo Tagliaferri, Simone Tomaselli, Ezio Turus, Max Vaccaro, Pino Valgimigli, Massimiliano Vassura, Gigi Vegini e Maria Vodarich, dai progetti elaborati e promossi dal Gruppo Polaser.


GRUPPO POLASER: DA POLA-AIR

MORENO DIANA: DA LA NOTTE (OMAGGIO A CAMPANA)

www.polaser.org

«La limitazione dei mezzi determina lo stile, dà vita a nuove forme e dà impulso alla creatività»

MASSIMILIAANO VASSURA: DA IL VOLO

Georges Braque Questa citazione dal pittore Georges Braque aiuta a comprendere lo slancio e spirito che guida e ispira gli artisti del Gruppo Polaser, eterogenei per interessi artistico-culturali e per provenienza da molte città italiane e anche dall’estero, accomunati dalla ricerca e sperimentazione di nuove possibilità espressive nelle molteplici forme dell’arte, dalla fotografia alla pittura, scultura, design, architettura, ceramica, letteratura, teatro, a altro ancora.


A DUE PASSI

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DAL CIELO Ampio e differenziato progetto fotografico di Luigi Facchinetti Forlani, abile professionista della sala di posa prestato alla fotografia del reale (in libera interpretazione visiva), Bergamo Città Alta. Un luogo a due passi dal cielo ha dato vita a una consistente serie di iniziative: mostra fotografica, con relativi richiami in città, scenografie celebrative in luoghi preordinati, a partire dalle sale dell’aeroporto di Orio al Serio, e ora monografia. Il senso delle immagini, che si accompagnano a riflessioni dell’autore, è esplicito: omaggio alla propria terra, omaggio alla propria vita, omaggio alle proprie radici. Il valore delle fotografie non si esaurisce nel solo ambito locale, che pure lo coltiva, ma si estendono oltre

di Maurizio Rebuzzini

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opo essere state esposte in originali di dimensioni generose (alla prestigiosa Sala Manzù, del palazzo della Provincia di Bergamo, nella seconda metà di giugno), le fotografie di Bergamo Città Alta. Un luogo a due passi dal cielo, di Luigi Facchinetti Forlani, sono ora raccolte in una avvincente monografia illustrata, pubblicata da Bolis Edizioni, con testi di Maurizio Rebuzzini, Ivo Lizzola (professore ordinario di Pedagogia Sociale e di Pedagogia della Marginalità e della Devianza, preside della Facoltà di Scienze della Formazione dell’Università degli Studi di Bergamo) e dell’architetto Vanni Zanella. Dal volume, estraiamo la presentazione Un tempo migliore nel quale vivere, di Maurizio Rebuzzini, nostro direttore, che ha altresì introdotto la mostra. Considerazioni trasversali alla superficie delle fotografie, a tutti evidente, queste di Maurizio Rebuzzini anticipano e integrano le riflessioni con le quali l’autore Luigi Facchinetti Forlani accompagna le sue inquadrature/visioni. Una volta ancora, mai una di troppo: parole e immagini, in accordo.

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C

onosco Luigi Facchinetti Forlani, e più avanti dico anche come lo conosco. Conosco molti fotografi: per colpa, oppure merito, del mio lavoro, a stretto contatto con l’espressione fotografica contemporanea e storica. Tra le tante scomposizioni possibili, una è trasversale a tutte. Riguarda la distinzione tra fotografi muti e fotografi che parlano, tra fotografi che affidano la propria creatività alla sola immagine che realizzano (anche al plurale, immagini che realizzano) e fotografi che, invece, ma non al contrario, si esprimono al proposito: con parole dette o scritte. Oggi, nell’incontro con l’edizione di questa avvincente Bergamo Città Alta. Un luogo a due passi dal cielo, Luigi Facchinetti Forlani introduce una variabile, che di fatto attinge

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a entrambe le condizioni appena richiamate, da ciascuna delle quali seleziona soltanto il meglio. Parla, ovvero scrive, non delle fotografie in quanto tali, ma in loro accompagnamento, senza però richiamarsi a queste, ma aggirandosi tra la loro palese visibilità per offrire all’osservatore un punto di osservazione aggiunto, e forse indispensabile. Già da solo, questo sarebbe un valore impagabile, un valore aggiunto del quale la fotografia contemporanea dovrebbe fare tesoro. Solo che, ecco l’uso dei due condizionali consecutivi, non è, né sarà valore, perché ormai non si fa tesoro di nulla. Nonostante questo, quanto anche consapevole di questo, l’autore Luigi Facchinetti Forlani abbina parole e immagini, ovverosia esprime sensazioni in due modi


complementari, che qui, sulle pagine della monografia, come anche nell’esposizione degli originali, si sposano mirabilmente. Perché lo fa, e a quale irresistibile impulso risponde? A quello della maturazione individuale, edificata su una esperienza esistenziale solida e consolidata. Professionista della sala di posa, ovverosia della fotografia su commissione, per pubblicità e promozione commerciale, Luigi Facchinetti Forlani esporta la propria creatività in un ambito oggettivamente diverso, e addirittura lontano. Nei luoghi che definiscono Bergamo Alta, e la identificano addirittura, applica alla fotografia dal vero il rigore della composizione in studio: individua il punto di vista, seleziona l’inquadratura, distribuisce i piani di attenzione. Alla resa dei conti, rivela l’anima

e l’amore che ha per se stesso e che condivide con gli altri. Noi, ora, osservatori di questa sua strabiliante azione (sì, proprio strabiliante), veniamo coinvolti in prima persona, fino a diventarne complici. Domanda d’obbligo: può la fotografia, nella semplicità della propria veste e complessità del proprio linguaggio, arrivare a tanto? Certamente! Soprattutto in questo caso, nel quale l’amore si manifesta in tutta la propria avvolgente ricchezza. Amore della mente, amore del cuore, amore fisico che trasuda da un omaggio visivo che scorre su un binario perlomeno e quantomeno doppio. A un tempo, Bergamo Alta è pretesto e fine. A un tempo, il soggetto conta e non conta. A un tempo, la fotografia svolge il proprio meraviglioso compito: quello di (continua a pagina 55)

Esposta in originali di dimensioni generose, alla prestigiosa Sala Manzù, del palazzo della Provincia di Bergamo, nella seconda metà di giugno, la mostra Bergamo Città Alta. Un luogo a due passi dal cielo, di Luigi Facchinetti Forlani, è stata accompagnata e supportata da una consistente promozione, con affissioni in città.

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Bergamo Città Alta. Un luogo a due passi dal cielo, di Luigi Facchinetti Forlani; con riflessioni di Maurizio Rebuzzini, Ivo Lizzola e Vanni Zanella; Bolis Edizioni, 2010; 216 pagine 30x30cm, cartonato con sovraccoperta, in cofanetto; stampa a cinque colori (quadricromia più vernice offset); 85,00 euro.

(continua da pagina 51) sollecitare il cuore che batte nel petto di ciascuno di noi. Sia chiarito subito, non soltanto presto. Nessuna di queste immagini raffigura Bergamo Alta. Queste atmosfere, questi luoghi non esistono nella realtà. In queste pagine non c’è Bergamo Alta, ma fotografie di Bergamo Alta, così come le ha intuite e realizzate l’autore. In ideale prosecuzione, verso la quale Luigi Facchinetti Forlani invita, ciascuno ricostruisca la propria Bergamo Alta. Là, dove il cuore rivela che l’anima è tutto ciò che noi siamo. Nel momento in cui questo avviene, la Fotografia (maiuscola consapevole e volontaria) raggiunge il proprio scopo. Non la natura che si fa di sé medesima pittrice, verso la quale ambivano i pionieri, ma la vita che si rivela tra le pieghe della propria raffigurazione. Raccogliamo questo invito di Luigi Facchinetti Forlani, la cui fotografia fa del nostro tempo un tempo migliore nel quale vivere e amare. ❖

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Facilonerie di Angelo Galantini

L’ULTIMA SPIAGGIA

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sità di uno strumento di osservazione, leggi occhialini o autentici visori opportunamente combinati (che qualche interpretazione televisiva pare aver superato: staremo a vedere). Ma anche contro un’altra barriera: quella della prospettiva, che da sé -memore degli insegnamenti e delle teorie del Rinascimento italiano- assolve la restituzione della terza dimensione, in profondità, appunto, della e sulla raffigurazione a due dimensioni della fotografia e del cinema. Comunque sia, la restituzione visiva tridimensionale è oggi indispensabile per attirare l’attenzione e far parlare di sé. Il caso più recente, al quale approderemo dopo una consistente retrospettiva storica, è stato allestito da Sette, il settimanale allegato al Corriere della Sera, che si è affidato al 3D nei giorni del Festival del Cinema di Venezia. Una volta ancora, e una di più: ultima spiaggia, senza alcuna consistenza reale. Magari apprezzata dal grande pubblico, di bocca buona, ma non certo appetibile per gli addetti. Noi, tra questi.

Alla fine è andata proprio così. Complici il merchandising e la gran cassa che ha accompagnato le recenti proposizioni di cinema tridimensionale, a partire da Avatar, del vulcanico James Cameron, i limiti oggettivi della restituzione tridimensionale sono stati abbattuti, fino a diventare autentico status: non più limitazioni e complicazioni, ma accessori della vita dei quali non fare più a meno. Tanto che, rileviamolo subito, la televisione e la fotografia si sono a propria volta prontamente adeguate: anche perché la corsa tecnologica in avanti, che negli ultimi decenni ha proceduto con ritmo sempre più rapido, esponenzialmente crescente, comincia ad aver poco di effettivamente nuovo da proporre. Giocoforza rispolverare il 3D, che nelle sue precedenti periodiche apparizioni pubbliche, circa ogni trenta-quarant’anni, si è sempre presto esaurito in se stesso. Punto, a capo. Questa volta, il 3D, la visione tridimensionale di immagini (fotografiche, cinematografiche e video), dovrebbe avercela fatta. Ci tenta dalle origini stesse della fotografia, 1839, di qualche decade precedente a quelle del cinema, 1895. Se non che, tutti i precedenti tentativi di dare senso alla visione tridimensionale, con affascinante restituzione della profondità, si sono sempre infranti contro un muro, fino a ieri invalicabile: quello dell’assoluta neces-

UN PASSO INDIETRO Per far tornare nelle sale la gente, via via allontanata da vari altri stimoli, prima di molto la televisione, Hollywood ha spesso cavalcato la cinematografia tridimensionale, quantomeno ogni volta che una crisi del cinema ha contratto l’affezione del pubblico. A meSei copertine di Sette, in edicola dal due settembre, con raffigurazione 3D anaglifica. All’interno corposo portfolio altrettanto tridimensionale. Richiamo per il grande pubblico, ma tristezza della fotografia, che ricorre a mezzucci quando è priva di idee proprie.

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moria, ma neppure poi tanto a memoria (con documenti certi, quindi), ricordiamo la stagione dei primi anni Cinquanta, quando una serie di film di basso profilo puntarono molto sulla visione tridimensionale. Titoli ce ne sono stati tanti. Sopra tutti, passerella d’onore per Bwana Devil, di Arch Oboler, straordinariamente consegnato alla storia del costume da un avvincente servizio fotografico di Life, realizzato da J. R. Eyerman, il 26 novembre 1952, sistematicamente riproposto nei decenni a seguire: nella sala cinematografica originariamente buia, il pubblico appare affascinato e ammaliato, attento allo schermo, con occhialini di cartone bianco inforcati sugli occhi [FOTOgraphia, dicembre 2009]. Oggi, no. Oggi, gli indispensabili occhialini di visione non sono più così tanto spartani, ma sono oggetti degni del clima tecnologico e sociale dei nostri giorni, che deve competere con gli efficaci lettori domestici di Dvd e ogni altro accessorio elettronico portatile. Prima dell’odierno successo clamoroso, poco convinta, e fuori tempo, fu l’operazione per Lo squalo 3D, del 1983, diretto da Joe Alves, conosciuto come Lo squalo 3, che passò del tutto inosservato. Soltanto, si può registrare il debutto come attore protagonista di Dennis Quaid, in un horror-thriller estremamente improbabile, che merita la sola quantificazione di secondo sequel dell’o-


Facilonerie riginario film di Steven Spielberg. Rimanendo, o tornando subito, ai luminosi anni Cinquanta, quantomeno dal punto di vista della proposizione visiva tridimensionale, senza andare troppo indietro nei tempi antichi, e senza scomodare nozioni accademiche, in fotografia, quella stagione del 3D fu anticipata, sempre negli Stati Uniti, da una intensa campagna pubblicitaria della Stereo Realist (appunto apparecchio fotografico per fotografie tridimensionali, in forma stereo), che, proprio a cavallo tra la fine degli anni Quaranta e l’inizio dei Cinquanta, si avvalse di consistenti testimonianze: tra le tante, quelle degli attori Bob Hope e Fred Astaire, allora autentiche star, dell’attrice Ann Sothern, eroina delle prime sit-commedy televisive, e del regista Cecil B. De Mille [FOTOgraphia, ottobre 2004]. Negli stessi anni, si rintracciano anche pertinenti testimonianze spontanee, come quella del generale Dwight David Eisenhower, l’eroe della Seconda guerra mondiale, che poi sarebbe stato eletto trentaquattresimo presidente degli Stati Uniti (per due mandati consecutivi, dal 1953 al 1961), che in un servizio di Life, del 17 marzo 1952, è raffigurato con la stessa Stereo Realist tra le mani (fotografia di David Douglas Duncan, a pagina intera [FOTO graphia, settembre 2004]). Altrettanto vale per Alfred Hitchcock, Richard Burton e Humphrey Bogart, che anche loro furono fotografi stereo.

interpretazioni che contesero la scena a Charlie Chaplin e Buster Keaton, Harold Lloyd si dedicò interamente alla propria passione fotografica, e per due decenni documentò la vita dello star system hollywoodiano, con apparecchi stereo. In questo senso è obbligatorio citare la monografia 3-D Hollywood, curata dalla nipote Suzanne Lloyd, pubblicata nel 1992 dall’editore newyorkese Simon & Schuster, nella quale sono raccolte affascinanti visioni in delicato equilibrio tra privato e pubblico (da Marilyn, richiamata in copertina, a Jayne Mansfield, Gloria Swanson, Gary Cooper, Candice Bergen teenager, Ronald Regan non ancora presidente, Richard Nixon decenni prima del Watergate [FO-

TOgraphia, ottobre 2004]). A seguire, consecuzione (logica? prevedibile?) dell’originaria raccolta, la nipote Suzanne Lloyd ha messo ancora mano all’archivio del nonno, per confezionare una accattivante selezione Hollywood Nudes in 3-D (Black Dog & Leventhal Publishers, 2004). Alternate a nudi semplicemente fotografici, senza altro effetto visivo aggiunto, le raffigurazioni di Hollywood Nudes in 3-D, con copertina lenticolare, sono tridimensionali con restituzione anaglifica, da osservare con gli appositi occhialini allegati con filtri/lenti blu e rosso (rispettivamente per l’occhio destro e sinistro). Tra tanto altro, su queste pagine si incontra persino Betty Page, pin-up icona di una fan-

LE TANTE ANIME DEL 3D

MONOGRAFIE Ma, soprattutto, lo fu Harold Lloyd, straordinaria maschera del cinema muto. Una volta lasciato il cinema, con Dalla pagina accanto: Caterina Murino, Filippo Timi, Valeria Solarino, Giuseppe Battiston.

Nel cinema, del quale si sta parlando tanto in questi ultimi tempi, in televisione, della quale si sta cominciando a parlare, in fotografia, che sta alla base di tutto questo, la visione/restituzione tridimensionale, 3D in gergo, si basa su una condizione tecnica necessaria: la separazione tra l’osservazione dell’occhio destro e quella del sinistro. Realizzate in modo opportuno, con apparecchi cinematografici o fotografici accostati, in doppio, le immagini tridimensionali si debbono quindi osservare con strumenti idonei: visori, oppure occhialini. Il visore è indispensabile per le fotografie stereo, una delle famiglie del 3D: due stampe accostate, riprese da punti di vista adeguatamente accoppiati, che si fondono in un’unica visione con avvincente restituzione visiva della profondità. Per chi lo ricorda, un esempio di stereo sono stati (e lo sono ancora) i dischetti tondi View-Master, esorditi negli anni Sessanta e arrivati fino a noi (si fa per dire). La sovrapposizione delle due immagini singole, riprodotte su un’unica superficie, con separazione tonale in rosso e verde (o blu) è il princìpio della visione anaglifica, con opportuni occhialini dalle lenti adeguatamente colorate: in verde (o blu), per l’occhio destro, e rosso, per il sinistro. Il risultato è sempre lo stesso: restituzione della profondità. Ancora, le due immagini, soprattutto cinematografiche (anni Cinquanta e dintorni), possono essere separate mediante filtri polarizzanti direzionati, uno con selezione orizzontale e l’altro con selezione verticale. Per le stampe fotografiche si registra anche il 3D lenticolare: sulla copia è sovrapposto un leggero strato di plastica di un retino che distingue e separa la visione dei due occhi. Ancora la memoria: le figurine Mio dei decenni scorsi, ma anche le cartoline turistiche (spesso a soggetto religioso), con combinazione di due soggetti, che appaiono uno o l’altro, alternativamente, inclinando la copia in un senso o nell’altro. Destino? Segno del caso. Per quanto le coincidenze siano anche considerate avvenimenti che rivelano come e quanto la vita possa avere senso, la fotografia con pellicola fotosensibile, arrivata fino a noi dalle origini, del 1839, è andata ufficialmente e solennemente in pensione con una configurazione tecnica tridimensionale/stereo: l’Horseman 3D del 2006, l’ultima macchina fotografica a pellicola, che ha definitivamente ceduto il passo all’acquisizione digitale di immagini [FOTOgraphia, novembre 2006]. Vorrà dire qualcosa? Ha anticipato l’attuale stagione avviata con il cinema più spettacolare? Oppure è solo un colpo, finale, di coda? In ogni caso, la registrazione è d’obbligo.

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Facilonerie tastica stagione, ancora oggi celebrata come leggenda e mito [FOTOgraphia, marzo 2005]. E proprio il nudo, nel corso degli anni, è stato uno dei temi ricorrenti della raffigurazione tridimensionale. E del nudo riferiamo, non prima di aver richiamato anche iniziative editoriali di spessore e contenuto (altro): tra le tante possibili, almeno quattro citazioni meritano una passerella d’onore. Anzitutto, il numero di National Geographic, dell’agosto 1998, che ha presentato le fotografie 3D realizzate su Marte dalla missione spaziale della Nasa, del precedente luglio 1997. Quindi, una escursione nel mondo dei fumetti, con l’album Batman 3D, che DC Comics ha pubblicato nel 1990, sull’onda lunga della trasposizione cinematografica del personaggio. Ancora, merita attenzione un compendioso servizio sugli impacchettamenti d’arte di Christo, che il tedesco Stern ha messo in pagina sul suo numero del 28 dicembre 1995, richiamando gli occhialini anaglifici rosso/verde su una copertina dedicata a Lady Diana, allora protagonista dello star system internazionale (un anno e mezzo prima della sua tragica scomparsa). Infine, in tempi sostanzialmente recenti, il 16 ottobre 2004, in un corposo numero in edicola nei giorni della moda a Milano, D-Repubblica delle Donne ha declinato la propria copertina in Stile 3D, con servizio interno [FOTOgraphia, marzo 2005]. Dunque: nudo in 3D, è imperativo. Dopo raccolte storiche, tutte basate su fotografie erotiche a cavallo del secolo, ormai ingenue nella propria proposizione, nel 1988, l’editore tedesco Taco ha pubblicato una

sostanziosa monografia Relief!, appunto realizzata con nudi ambientati in restituzione tridimensionale anaglifica: con immancabili occhialini rosso/blu allegati. Assolutamente affascinante, ancora oggi, a distanza di vent’anni abbondanti. E poi, a seguire e come corollario, nel corso degli ultimi anni, tante riviste sono arrivate in edicola vantando la spettacolarità del rilievo, particolarmente congeniale, diciamocelo, a dare evidenza a seni prorompenti, fondoschiena abbondanti e adeguatamente rotondi. C’è solo l’imbarazzo della scelta, ma non si perdano, rintracciandoli, il numero speciale del mensile francese Photo, istituzionalmente orientato e proiettato alla bellezza del corpo femmine di poco vestito, o per nulla vestito, che nel maggio 1983 ha solennemente celebrato la Prima mondiale del colore in rilievo (traduzione dallo strillo originario). E poi, ancora, l’edizione francese di Playboy dell’estate 1996, quella italiana del giugno 1994 e l’inglese Newlook del luglio 1998: altri tre inserti di nudi tridimensionali, nella prepotenza e avvenenza delle forme. Per lo più abbondanti.

COSÌ CHE Insomma, in tempi di crisi (di pubblico pagante), si riscoprono le magnificenze presunte e vantate della visione 3D. Parola d’ordine, a scapito del consumo domestico di Dvd, a propria volta sempre meno tali, ma filmati scaricati direttamente in Internet, film e telefilm di richiamo: si torni al cinema, nella spettacolarità della terza dimensione. E si riutilizzi il richiamo 3D per sorFrancesco Scianna, Violante Placido.

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prendere il pubblico con effetti, diciamola così, speciali. Eccoci dunque a Sette, settimanale del Corriere della Sera, che il due settembre si è proposto con sei copertine a scelta, tutte a tema unico: Venezia 2010 in 3D, per l’appunto. Sei copertine per il cinema italiano, con ritratti appositamente eseguiti da Philippe Antonello e Stefano Montesi: Giuseppe Battiston, Caterina Murino, Violante Placido, Francesco Scianna, Valeria Solarino e Filippo Timi. In confezione, gli indispensabili occhialini rosso/blu della visione tridimensionale in forma anaglifica. 3D e foro stenopeico sono due delle trasgressioni fotografiche più frequentate... quando non si ha nulla altro da esprimere. Ultima spiaggia per operazioni prive di alcun contenuto (presto smascherate dagli addetti -non dal pubblico generico, lo sappiamo bene- per ciò che effettivamente non sono e non valgono), sono la punta di un iceberg che si allarga agli abusi soltanto formali di nobili arbitrarietà fotografiche: al pari degli abusi degli apparecchi fotografici giocattolo, introdotti soprattutto dai fenomeni Holga e Diana, e di altre amenità analoghe, si scompongono tra i salotti buoni dei parvenu (di tendenza) dell’ultimo minuto e le pareti di compiacenti gallerie di nessuno spessore culturale. Dal nostro punto di vista, siamo irremovibili: non importa nulla come un autore agisce, quello che conta è perché lo fa. È soltanto grottesco pensare che basti la rivalutazione di strumenti fotografici rudimentali o raffigurazioni alternative. È ridicolo fare fotografia senza essere dotati di creatività ed espressività. E soprassediamo sul testo di accompagnamento, con il quale Massimo Zingardi giustifica, non soltanto motiva, il portfolio richiamato dalle sei copertine a scelta. Per dovere di cronaca, annotiamo, infine, che lo stesso portfolio di ritratti è preceduto e seguito da pubblicità altrettanto 3D anaglifiche di Peuterey (moda), che ha personalizzato con il proprio marchio anche gli occhialini rosso/blu di visione (immancabile sponsor). Altrettanto 3D anaglifica è anche una doppia pagina pubblicitaria Media World, posizionata a ridosso delle pagine redazionali a tema. Che pena! ❖


1839-2009

la finestra di Gras Dalla Relazione di Macedonio Melloni 2009.unaRicordando pagina, una illustrazione alla svolta di Akio Morita

Come dire, dal dagherrotipo all’acquisizione digitale di immagini. E consecuzioni

1839. Dal sette gennaio al dodici novembre sedici pagine, tre illustrazioni

Tappe fondamentali, che si sono proiettate sul linguaggio e l’espressività, con quanto ne è conseguito e ancora consegue Relazione attorno al dagherrotipo diciotto pagine, tre illustrazioni

1839. Fotogenico disegno dieci pagine, quattro illustrazioni

1888. Box Kodak, la prima diciotto pagine, quarantacinque illustrazioni

1913-1925. L’esposimetro di Oskar Barnack ventiquattro pagine, cinquantotto illustrazioni

1947 (1948). Ed è fotografia, subito ventiquattro pagine, sessantadue illustrazioni

1981. La svolta di Akio Morita dodici pagine, ventisei illustrazioni

• centosessanta pagine • nove capitoli in consecuzione più quattro, tre prima e uno dopo • duecentosessantatré illustrazioni 1839-2009 Dalla Relazione di Macedonio Melloni alla svolta di Akio Morita di Maurizio Rebuzzini Prefazione di Giuliana Scimé 160 pagine 15x21cm 24,00 euro

F O T O G R A P H I A L I B R I Graphia srl • via Zuretti 2a - 20125 Milano 02-66713604 • graphia@tin.it

2009. Io sorrido, lui neanche un cenno dieci pagine, ventisette illustrazioni

Le paternità sono ormai certe otto pagine, tredici illustrazioni

2009. Alla fin fine cinque pagine, quindici illustrazioni


Monografia di Maddalena Fiocchi

NAN GOLDIN (ANCORA)

O

Ormai siamo abituati a vedere immagini famose, pubbliche, che somigliano in tutto e per tutto a istantanee private. Molte lo sono: e alcune sono entrate a far parte del regno dell’arte. Quando, nell’Ottantasei, venne pubblicata la raccolta The Ballad of Sexual Dependency, di Nan Goldin, era la prima volta. Oltretutto, quel che si è mostrato non era una ricostruzione artificiale di immagini dal sapore dell’istantanea. Si trattava di vere e proprie opere d’arte (così proposte), scaturite dalla registrazione di istanti intimi. Le proiezioni di diapositive che Nan Goldin allestiva negli anni Ottanta nei locali che frequentava, o nei quali lavorava, erano allora percepite come un gesto di rottura radicale, in un momento in cui la tendenza a porre la pittura come termine di paragone per la fotografia era ancora molto forte. Le immagini che ribadiscono l’indistinzione tra pubblico e privato, alle quali siamo abituati oggi, sono frutto degli epigoni di Nan Goldin. È stata lei per prima a porci di fronte a un infinito album fotografico di famiglia, il suo album: percorso saggio e perfezionista. Gli scatti tra i quali seleziona le immagini da mostrare al pubblico sono numerosissimi. Le fotografie che usa hanno sempre un’origine privata, è vero. Ma lei ne sceglie alcune, attraverso le quali ricostruisce una narrazione curata con attenzione letteraria. Proprio di quegli scatti, il pubblico osservatore individua e coglie l’origine privata, in modo così evidente da essere esemplare. Per costruire una narrazione universale, verosimile e paradigmatica di storia individuale, Nan Goldin prende giustamente spunto dalla verità della propria esistenza. Dopo le tante monografie d’autrice che sono seguite all’originaria The Ballad of Sexual Dependency, con la quale tutto questo ha avuto inizio, l’inglese Phaidon pubblica ora un’altra delle proprie monografie sintetiche ed esaustive, che già qualche mese fa, in occasione del titolo di David Bailey (FOTOgraphia, giugno 2010), abbiamo paragonato a

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Nan un mese dopo le percosse; New York, 1984. Questa fotografia segna l’epilogo del tormentato rapporto con Brian; sicuramente è tra gli autoritratti più impietosi dell’intera produzione di Nan Goldin. È sempre stata intesa dall’artista stessa come una sorta di ammonimento per non ricadere nelle medesime trappole, per non colorare i ricordi di nostalgia. Le lesioni riportate furono tali che Nan Goldin rischiò di perdere la funzionalità dell’occhio sinistro.

Candele a Fatima; Portogallo, 1998. Esempio dell’interesse di Nan Goldin per i soggetti sacri o, più in generale, per certa spiritualità. Scattata in Portogallo, all’interno della Chiesa della Madonna di Fatima, è stata pensata come sorta di omaggio agli amici morti (ogni volta che Nan entra in una chiesa, accende qualche candela per i suoi amici malati di Aids, sicura che questo aiuti a tenerli in vita), e in tal senso è stata esposta svariate volte, sia in contesti sacri (come al Palazzo dei Papi, ad Avignone), sia come parte integrante di Griglia positiva (2000).

preziosi bigini: questa volta è il turno di Nan Goldin. Per la forza del legame che unisce ogni scatto alla narrazione più ampia della quale fa parte e nella quale si arricchisce di senso, scegliere tra le sue fotografie quelle che insieme possano illustrarne sinteticamente il lavoro e la poetica è un’operazione ancora più delicata del solito. Picnic sul lungo fiume apre la panoramica sintetizzata sull’azione fotografica di Nan Goldin: è una fotografia ripresa a Boston, nel 1973. In una giornata non proprio luminosa, un gruppo di amici sorridenti, abiti freschi

dai colori allegri, fa un picnic lungo il fiume, sorridendo. È una delle prime immagini a colori di Nan Goldin; come sempre, i soggetti sono persone a lei vicine, familiari nel senso stretto del termine. A quei tempi, la sua famiglia erano le drag queen. Non è necessario raccontare e spiegare ancora nei particolari la vita della fotografa, per comprendere il valore delle sue opere ed esserne in qualche modo toccati. La loro forza è racchiusa proprio nella dialettica che l’intimità e la vicinanza penetrante dello sguardo rivolto ai propri soggetti instaura con l’universalità del dramma,


Monografia

Nan Goldin; a cura di Guido Costa; Phaidon Press Limited, 2010 (www.phaidon.com); 128 pagine 13,6x15,6cm, cartonato, con sovraccoperta; cinquantasei illustrazioni; 9,95 euro.

In copertina: Joana di schiena nel vano della porta; Châteauneuf-de-Gadagne, Avignone, Francia, 2000. La nudità di Joana, ostentata con estrema naturalezza, come un secondo abito, ha sedotto Nan Goldin, che ne ha fatto il tema di centinaia di scatti. La sua assoluta disinvoltura nel rapporto con il proprio corpo svuota l’immagine di ogni sovrastruttura erotica, facendola diventare un nudo nel senso più classico e greco del termine. Però, l’impostazione tradizionale si amalgama con un uso particolare dello sfondo, che dona movimento al tutto, enfatizzando la dimensione narrativa quale vero centro del lavoro: la donna e il suo compagno che si guardano da lontano.

attraverso l’armonia formale evidente, anche se trasgredita, delle immagini. Guardando questa fotografia di partenza, anticipatoria dell’insieme complessivo, si capisce bene che gli amici sono drag queen; così come si comprende subito che chi ha scattato la fotografia ha un legame intimo con loro. Non si tratta di un’istantanea leggera, ma di una autentica e assoluta condivisione. Le infinite riflessioni che questi fatti visivi sono in grado di suscitare, altro non sono che il fondamentale non detto della narrazione. Continuando a sfogliare il libro, incontriamo improvvisamente il famosissimo Nan un mese dopo le percosse, l’autoritratto nel quale la fotografa appare con i capelli sciolti sulle spalle, in un interno poco illuminato, vestita da sera, con il rossetto vermiglio e senza sbavature sul volto ancora tumefatto per le percosse ricevute dal compagno

un mese prima [pagina accanto]. Questa è un’immagine chiave nella produzione di Nan Goldin: esemplifica la sua volontà di salvare la verità attraverso la fotografia, perché non svanisca, alterandosi, nel ricordo. Anche dopo il Sessantotto, anche dopo la rivoluzione sessuale e la Summer of Love, per le donne tra l’adolescenza e la vecchiaia, la prima causa di morte sono le percosse del compagno, che ancora ne fa fuori più delle guerre, delle autostrade e delle malattie. Ma Nan Goldin non realizza un reportage: mostra il suo volto ferito, il suo occhio rosso come il rossetto. Questo è già abbastanza per articolare il proprio rapporto con il pubblico attraverso la verità. Poche pagine più avanti, un matrimonio. Lui, riccioli neri, ha gli occhi bassi e sorride, è vestito in modo raffinato, di nero, con una spilla smaltata dai colori vivaci e uno jabot che gli scende sul petto. Sembra giovane per un abito simile, e forse anche per questo “sta molto bene”. Lei è tutta bianca, proprio come una sposa, i capelli, raccolti a sostenere il velo, sono schiariti da colpi di sole. Nonostante i guanti, le mani mostrano unghie cortissime e qualche tatuaggio sulle dita affaticate. Neanche la sposa guarda in macchina; ha lo sguardo basso e non le vediamo gli occhi. Mentre sorride, piange, e si asciuga una lacrima con un fazzoletto bianco. La fotografia si intitola Il matrimonio di Cookie e Vittorio; è stata scattata a New York, nell’Ottantasei. Quattro facciate dopo il matrimonio, un’altra fotografia dai toni molto caldi mostra una donna bionda, vestita a lutto, con gli occhi drammaticamente truccati di nero e i colpi di sole. Sullo sfondo, alle sue spalle, in una bara aperta riposa un cadavere coperto di fiori: Cookie accanto alla bara di Vittorio (New York, 1989, tre anni dopo il matrimonio). I titoli con i quali Nan Goldin identifica le proprie fotografie sono più che sufficienti a rendere perspicua la storia che narrano, che certificano con l’esattezza della parola. Continuando a sfogliare questa piccola monografia-sintesi, ci si imbatte anche in fotografie paesaggistiche, come Vulcano all’alba, una veduta di Stromboli dall’aliscafo, del Novantasei, e poi la famosissima Candele

C mentre si trucca al Second Tip; Bangkok, Thailandia, 1992. Ritratto che fa parte di un piccolo ciclo di opere dedicate allo spettacolo erotico in Estremo Oriente, al quale si possono collegare idealmente anche certe fotografie giapponesi risalenti ad anni più recenti. Il Second Tip è un locale notturno del quartiere a luci rosse di Bangkok, famoso per i suoi travestiti e la prostituzione maschile. Con So, Yogo e Toon, protagoniste di una piccola serie di scatti con tema lo specchio, C è stato/stata una delle principali attrazioni del locale. Sebbene non parlassero la stessa lingua, Nan strinse con loro rapporti di amicizia durante il mese trascorso a Bangkok. Dopo aver inviato al Second Tip alcune copie di The Other Side, il suo libro dedicato alle drag queen, Nan ricevette calorose lettere di ringraziamento da parte delle queen e della loro Madame.

a Fatima, ripresa in Portogallo, nel Novantotto [pagina accanto]. Quindi, si incontrano le visioni del periodo parigino, che concludono la monografia. In chiusura, Joana di schiena nel vano della porta a Châteauneuf-deGadagne, scattata ad Avignone, nel 2000, che illustra anche la copertina della raccolta. Una ragazza dal corpo magro e perfetto è vista di schiena, quasi tutta ricoperta dai lunghi capelli castani, appena prima di una porta oltre la quale si intravedono dei gradini, un letto, un uomo sul letto con un libro in mano e, sulla parete nella quale si apre la porta, due stampe appese al muro, a sinistra della ragazza. Non ci sono vestiti in quest’immagine, ma la nudità appare privata di qualunque tratto di eccezionalità, sembra un abito, una abitudine, una consuetudine persino elegante. Oggigiorno, mille e mille fotografie pubblicitarie di moda cercano di travestirsi da istantanee della vita privata di donne dal corpo perfetto, ricordando ogni volta la portata dell’influenza di Nan Goldin. Legittimamente, il curatore di questa monografia Phaidon su Nan Goldin è Guido Costa, che conosce bene la fotografa americana, da tanto tempo, e ha lavorato molto con lei. Le immagini di Nan Goldin sono frammenti particolari di intimità particolari, che attivano nell’osservatore la dinamica universale del riconoscimento. In questo caso, l’universalità che fa di un lavoro un’opera d’arte non è dovuta agli elementi interni e alla raffigurazione, ma soprattutto alla relazione che la rappresentazione permette allo “spettatore” di intrattenere con l’opera. ❖

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Parliamone di Lello Piazza

MAREA NERA GLAMOUR

L

Le immagini scattate da Steven Meisel, e apparse nel numero dello scorso agosto del mensile Vogue Italia, rievocano neri gironi di inferni danteschi. Inferni come quelli che si sono materializzati in infiniti angoli delle coste degli Stati Uniti che si affacciano sul Golfo del Messico, a seguito dell’esplosione sottomarina di un pozzo di petrolio offshore delle British Petroleum, avvenuta il lo scorso venti aprile. Vestite con abiti costosi, sacrificati per la realizzazione del servizio, le modelle sembrano angeli schiantatisi agli inferi da un improbabile paradiso. Un servizio di moda di ventiquattro pagine, bellissimo e provocatorio, un servizio di moda insolitamente declinato oltre la sola evasione (e consumo collegato), un servizio che obbliga chiunque a prendere atto di un disastro ecologico di proporzioni universali. Ma voi cosa ne pensate? Ăˆ cattiva stampa, come sostiene qualcuno nella miriade di blog sparsi sulla Rete? â?–



Sguardi su Cinema

di Pino Bertelli (Piombino, dal vicolo dei gatti in amore, 9 volte agosto 2010)

’ ’ RYSZARD KAPUSCINSKI

S

Secondo Emmanuel Lévinas, la filosofia dell’evasione, alla quale ci accordiamo, non è una fuga dal reale ma un’uscita (in rivolta) dagli ingranaggi/specchi politici, religiosi e mediatici dell’impostura e della violenza che impoveriscono l’intera umanità. Si tratta -scrive Lévinas- di «rompere con le convenzioni e le costrizioni sociali che falsificano o annichiliscono la nostra personalità; non è la ricerca del meraviglioso capace di infrangere il torpore della nostra esistenza borghese; non consiste più nell’affrancarsi dalle degradanti servitù che il cieco meccanismo del nostro corpo ci impone, perché non è l’unica possibile identificazione dell’uomo e della natura che gli fa orrore» (Emmanuel Lévinas, Dell’evasione, Cronopio, 2008). Evadere dalla mediocrità spettacolare del quotidiano significa non soltanto chiamarsi fuori dalla prigione del presente, ma andare da qualche parte e spezzare l’incatenamento o l’incantesimo di una servitù volontaria (elettorale) che continua a partorire mostri. Il bisogno di evasione è un cammino vitale, creativo, belligerante; un volo verso l’ignoto, che non sa dove conduce, ma rigetta la prostrazione e l’ignoranza delle ragioni dominanti. La filosofia eversiva dell’evasione è la ricerca del piacere, l’ebbrezza a disperdere tutto ciò che abbiamo acquisito, abbandonare il fascio dei simulacri, rompere le mitologie su un “buon governo”, per andare a conquistare il piacere come perdita di sé. È un viaggio al termine della notte del potere, che penetra il bisogno e innalza le barricate della rivolta come fine della vergogna e della sottomissione. Nessun regime resisterebbe a cinque minuti di verità. Merda! Il mondo intero affoga nella rassegnazione dei poveri e

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l’imbecillità del nostro tempo si allarga con la globalizzazione dei mercati... bagattelle per un massacro. «Crepino i padroni! E subito! Questi putridi rifiuti! Al carnaio, sciacalli! Alla fogna! Che aspettiamo? Io non andrò mai, lo giuro, a dare un’occhiata alla sporca carogna dei privilegiati» (Louis-Ferdinand Céline, Mea culpa. Omaggio a Zola; Traccedizioni, 1990). Gli straccioni, i buffoni e i criminali della partitocrazia lo sanno: ogni nazione, ogni religione, ogni economia politica porta in se stessa la propria stessa nascita, la propria stessa fine e il proprio assassinio. La felicità in Terra è tutta nell’attuare la vera rivoluzione sociale, che consiste nel morire con piacere nel piacere, annotava. Tutti i falliti dell’esistenza si trovano sui pulpiti delle chiese o nei governi o nelle forze armate, idolatrati dai nuovi schiavi rincoglioniti dalla dittatura dei mass-media; si tratta di tornare a pensare alla Modesta proposta / A Modest Proposal (1729), di Jonathan Swift (quello dei Viaggi di Gulliver); utilizzare i bambini poveri come cibo ben cotto per i ricchi signori, questa volta però i corpi dei bambini saranno imbottiti di veleno o di dinamite. Ogni morte eccellente è a credito. La fotografia dell’evasione di Ryszard Kapuściński è una forma di scrittura per immagini (anche un po’ sgangherate) che riesce a restituire pezzi di realtà violata, impoverita, saccheggiata del continente africano. Ryszard Kapuściński è stato un giornalista e scrittore polacco (1932–2007), che ha scritto articoli straordinari sulle miserie e le rivolte del Terzo Mondo (è stato corrispondente per l’estero dell’agenzia di stampa polacca Pap, poi “libero battitore” della verità saccheggiata nella

stampa internazionale) e libri di una bellezza infuocata, mai dimenticati, tra i quali La prima guerra del football: e altre guerre di poveri (Feltrinelli, 2005); Ebano (Feltrinelli, 2002); L’Africa non esiste (Feltrinelli, 2006). Al di là dei premi, riconoscimenti e honoris causa che ha ricevuto, Ryszard Kapuściński resta un testimone scomodo e la sua opera fotografica, mai veramente approfondita, racconta un dolore prolungato ed è uno spazio/luogo d’interrogazione che riabilita il presente degli ultimi. La sua scrittura visuale mostra la felicità e la dignità di popoli calpestati e l’impronta aggressiva, rapace, violenta della civiltà dell’apparenza. La sua fotografia è precisamente ciò che resta da fare quando tutto è stato compiuto: cioè evadere, uscire dal recinto, rompere gli steccati, scippare la “conoscenza” agli “dei” e andare verso i princìpi di amore, fraternità e accoglienza che sono alla base della coscienza (insorgente) della comunità che viene.

SULLA FOTOGRAFIA DELL’EVASIONE La fotografia dell’evasione di Ryszard Kapuściński lavora su qualcosa a venire. Intanto disvela la vergogna dei paesi ricchi che si riflettono sulla gioia ferita dei popoli africani; lo sguardo è “leggero”, sovente amorevole, qualche volta rapito da tanta bellezza repressa nei volti di donne e bambini, specialmente, lasciati alla deriva del proprio soffrire. La strada è il teatro di Ryszard Kapuściński; lì coglie conciatori, tessitori, calzolai, parrucchieri, rivoluzionari, e non importa che scatti le sue fotografie in Tanzania, Somalia, Etiopia, Kenia o Sierra Leone: tutte le immagini inseguono un discorso contro la rassegnazio-

ne e il misero destino di quelle genti. Come i suoi libri, costituiscono una sorta di grande racconto sull’umanità incatenata alle regole e ai princìpi che la Banca Mondiale, il Fondo monetario internazionale e l’Onu dispensa loro con l’inganno degli aiuti umanitari. Il maggior storico dell’Africa ci ha detto (nella propria capanna, sotto il cielo senza nuvole e il vento del deserto del Burkina Faso): «A salvare veramente l’Africa non saranno i fondi e gli aiuti. Salveranno vite umane, permettendo loro di sopravvivere, ma non salveranno la vita dell’Africa. Ciò che importa non sono i mezzi, ma le condizioni. Bisogna permettere all’Africa di ricostruirsi. Bisogna aiutarla a ricostruirsi. L’Africa deve essere prima che avere» (Joseph Ki-Zerbo). Tutto vero. I padroni della Terra non hanno bisogno di uccidere con le loro mani per mangiare o arricchire le proprie tasche; come sappiamo, fanno lavorare i loro servi, s’inseriscono nei centri di potere economico-politico, sono collusi in attività criminali… Tuttavia hanno il consenso elettorale, e su questa gigantesca cloaca poggiano i loro consensi e genocidi. La fotografia di Ryszard Kapuściński si accosta anche al paesaggio, alle città, ai villaggi; frammenta la quotidianità degli ultimi con l’ambiente nel quale vivono; cercatori d’oro, pescatori di fiume, donne che lavorano nei campi, studiosi del Corano, militari privilegiati, soldati bambini, ribelli in armi sono intersecati a manifestazioni pubbliche, civili ammazzati, scheletri di palazzi abitati, mai finiti. L’insieme delle fotografie amplifica l’innocenza dei bambini e coglie un momento magico del loro passaggio sulla Terra; e anche se il fotoreporter indica-


Sguardi Cinema su va Alfred Stieglitz a maestro (è invece uno dei più ferventi esteti dell’arte fotografica, tutta forma e mercimonio), la sua avventura fotografica contiene quella “disperata vitalità” pasoliniana che si legge come ritorno, ricominciamento, evasione dalla sottomissione e sembra dire che la disobbedienza non è un castigo, semmai la fine della proscrizione. «Non si è mai mentito come al giorno d’oggi. E neppure si è mai mentito in modo così sfrontato, sistematico e continuo» (Alexandre Koyré, Sulla menzogna politica; Lindau, 2010). La distinzione tra verità e menzogna, immaginario e reale sembra non riguardare i regimi totalitari quanto le democrazie spettacolarizzate; le regole della morale sociale sono opera d’imbecilli (di destra o sinistra), che fanno professione di comandare; la menzogna è un’arma, e ovunque è usata a giustificazione di crimini commessi contro l’umanità. Da qualche parte, Ryszard Kapuściński ha detto: «Il mio modo di fotografare è molto istintivo. Di solito ignoriamo le fotografie. Ne vediamo decine al giorno. E non ci rendiamo conto che per capire le fotografie e la letteratura è necessaria una partecipazione attiva degli altri. Non si riesce a capire la fotografia se non ci si pone come creatori attivi». Tutto vero. La fotografia è un atto di creazione; è qualcosa che si sottrae al sistema di controllo poliziesco o non è niente. Foucault, Deleuze, Guattari, Blanchot, Onfray ci hanno insegnato (indignati) che si può vivere senza vedere mai nulla... la filosofia dell’evasione che emerge dalla fotografia di Ryszard Kapuściński è affabulata su utopie egualitarie, le sole utili per costruire qualcosa di reale nella direzione della disobbedienza. Si tratta di camminare con la fame degli ultimi e mostrare che quando nessuno obbedisce, nessuno comanda! È il raggiungimento dell’U-

topia come occasione di felicità dei dannati della Terra. Le immagini di Ryszard Kapuściński tendono a rompere la menzogna istituzionalizzata che implica il tradimento, la vendetta, la soppressione (anche fisica) del dissidente; la fenomenologia della menzogna, specie quella politica, è trasversale a tutti i partiti e a tutte le chiese, ed è la fonte mediatica (sacralizzata) alla quale si abbeverano quotidianamente le masse. Molte delle

complice di quanto vede e cattura con la macchina fotografica. Nell’iconografia di Ryszard Kapuściński c’è una liberazione etica, credo. Il rapporto con i “ritrattati” è stretto, spezza un’esistenza e la fatalità dei soggetti incatenati a ordinamenti o dottrine che nemmeno conoscono. Pensare la sua fotografia è pensare a popoli cancellati dalla faccia della Terra. La fotografia dell’evasione di Ryszard Kapuściński non è co-

«Chi è quella testa di cazzo che si permette di calunniarmi a proposito di politica? Non ho aderito a niente [...]; aderisco a me stesso, per quanto posso [...]. È già abbastanza difficile, coi tempi che corrono [...]. Per fare una rivoluzione, occorrono due cose essenziali [...]; anzitutto, che il popolo crepi di fame [...], poi che ci siano armi [...]». Louis-Ferdinand Céline fotografie di Ryszard Kapuściński sono andate distrutte per l’avversità del clima africano, altre perdute in spostamenti accidentati, altre ancora gli sono state confiscate nei vari fronti e confini delle interminabili guerre africane. Però, quelle che sono restate (qualche migliaio) bastano a testimoniare la sensibilità particolare del fotografo di fronte alle persone in difficoltà: ritratti, figure in movimento, situazioni drammatiche. Niente fa pensare alla ricerca della “bella immagine”, tutto invece fa supporre che lo sguardo del fotografo sia

sì “grezza”, come può sembrare a una prima lettura. E anche le teorie più avvertite del linguaggio fotografico non gli sono sconosciute: «Scattare una buona fotografia dà anche la stessa soddisfazione che scrivere un buon testo. Ma che cosa significa “una buona fotografia”? Il critico francese Roland Barthes sostiene che la buona fotografia è quella che contiene un suo punctum: una misteriosa e intensa proprietà (creata perlopiù da un dettaglio), che emana dalla fotografia e che per noi, mentre la guardiamo, di-

venta fonte di emozione profonda, di pensiero e di riflessione» (Dall’Africa; Bruno Mondadori, 2002). Tutto vero. I fotoreportage di Ryszard Kapuściński mostrano che la minaccia dell’impero sul futuro della povertà è leggibile. La sua fotografia rischiara, la sua verità non oscura, rigenera. La banalità del bene detesta il reale struccato e il silenzio delle istituzioni internazionali cala sulla solitudine di popoli condannati alla genuflessione. Nessuno è innocente di fronte a ciò che affligge la memoria dell’uomo e la fotografia sociale, come ogni forma di comunicazione autentica, recupera il lutto dei secoli e si trascolora in interrogazione del potere. A leggere la storia singolare della fotografia (1839-2009), scritta da Maurizio Rebuzzini, si evince che, comunque vada, la fotografia (argentica o numerica) è sempre una rivoluzione del vedere, e lo stupore e la meraviglia (in nessuna arte) non sono niente se non sono messe al servizio della creatività vera, a partire dalla Box Kodak, di George Eastman (1888), passando per la fotografia a sviluppo immediato di Edwin H. Land (1947), fino alla svolta epocale di Akio Morita (1981), l’inventore dell’immagine digitale, la magia della fotografia ha mostrato che lo sguardo non coglie solo ciò che emerge, ma, almeno nei grandi poeti dell’immagine fissa, ha rappresentato lo smascheramento dell’ordinario o dell’inconsueto: «La fotografia supera l’autoreferenza della propria infanzia ed adolescenza, per osservare la vita del proprio svolgimento: dalla fotoricordo alla fotografia sociale ed umanista, non più immagini soltanto belle da guardare, ma soggetti con i quali confrontarsi» (Maurizio Rebuzzini, 18392009. Dalla Relazione di Macedonio Melloni alla svolta di Akio Morita - Come dire, dal dagherrotipo all’acquisizione digitale di immagini e consecuzioni; FOTOgraphiaLIBRI, 2009). Tutto vero. La fotografia au-

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Sguardi su tentica esiste per rompere l’incomprensione e la solitudine nella quale la verità viene confinata o distrutta. Attraverso la bellezza della fotografia autentica, lo spirito di ciascuna immagine scippata alla storia è restituito all’eternità. Le immagini dell’evasione di Ryszard Kapuściński non cadono nell’esotismo né nel primitivismo d’accatto. Attraverso corpi, volti, gesti di uomini dotati di libertà, il fotografo denuncia le lotte per l’indipendenza, le angherie dei dittatori/fantocci dell’Africa (manovrati dall’Occidente e dai regimi comunisti), le speranze della popolazione africana per il raggiungimento di una pace sociale negata dagli interessi delle multinazionali. Spesso incerte o troppo coinvolte, le sue fotografie riflettono molto di quanto Ryszard Kapuściński afferma nei suoi libri:

BIANCO E NERO laboratorio fotografico fine - art solo bianco & nero

GIOVANNI UMICINI VIA VOLTERRA 39 - 35143 PADOVA

049-720731 (anche fax) gumicin@tin.it

«Scrivo anche per alcune ragioni etiche: intanto i poveri di solito sono silenziosi. Ho tentato di far capire attraverso i miei scritti che viviamo un momento di grande rivoluzione: prima era possibile vivere separati, senza conoscere nulla gli uni degli altri e da un paese all’altro. Non abbiamo strumenti né esperienza per pensare su scala globale, per capire cosa essa significhi, per accorgersi di come le altre parti del pianeta ci influenzino e come noi influenziamo loro. Dopo il crollo del muro di Berlino è come se l’Africa avesse cessato di esistere. Nessuno oggi ha più interesse all’Africa. Si tratta di un continente ai margini del pianeta. Negli ultimi dieci anni sono crollati i sostegni internazionali: l’aiuto allo sviluppo è precipitato sotto l’uno percento. Questo vuol dire che ogni africano riceve meno di due

dollari al mese» (Il cinico non è adatto a questo mestiere; Edizioni e/o, 2000). Magari oggi non è poi tanto vero che “nessuno ha più interesse all’Africa”, anzi i caimani dell’economiapolitica internazionale (Cina, Russia o le democrazie consumeriste) si stanno mangiando l’intero continente nero e lo derubano dei diamanti, dell’oro, del petrolio o dell’acqua, come mai hanno fatto prima. Nel nuovo millennio, la situazione africana è ulteriormente peggiorata e l’emigrazione forzata riporta alla pratica del colonialismo. La fotografia dell’evasione di Ryszard Kapuściński che abbiamo trattato è circoscritta alle fotografie africane. Il tempo della fotografia sta tutto in uno sguardo ed è la fotografia autentica che ci spalanca gli occhi, la mediocrità della storia raccontata ce li chiude! C’è bel-

lezza solo nella disobbedienza della fotografia, nel piacere d’inventarci un mondo senza santi né eroi. La fotografia dell’evasione è una semenza, un orizzonte interiore che partecipa all’impensato, alla quale non importa nulla di superare il limite. Non c’è via d’uscita se non nel florilegio dell’ignoto, nel respingere la povertà come destino e riprendere la vita nelle proprie mani. La verità della fotografia autentica è ricca di possibilità intraviste e affrontate; portare la fotografia nel cuore del quotidiano vuol dire porre la menzogna istituzionale sotto sequestro e dare la parola e il volto a quanti non l’hanno mai avuta. «L’orrore s’impone. Il dolore si spiega da sé» (Edmond Jabès). La bellezza dell’immaginazione contiene parole/immagini visionarie dove l’inconoscibile felicità sarà di tutti gli uomini. ❖


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