FOTOgraphia 169 marzo 2011

Page 1

Mensile, 6,50 euro, Poste Italiane SpA - Spedizione in abbonamento postale - D.L. 353/2003 (convertito in Legge il 27-02-2004, numero 46), articolo 1, comma 1 - DCB Milano

ANNO XVIII - NUMERO 169 - MARZO 2011

Un’autobiografia WEEGEE DI WEEGEE

Wpp 2011 RITRATTO EPOCALE

DAL 2001 AL 2011 ANCORA COLORE: DIECI ANNI DOPO


Non è venduta in edicola. Per averla hai una sola possibilità: sottoscrivere l’abbonamento annuale. 12 numeri 65,00 euro

Abbonamento 2010 (nuovo o rinnovo) in omaggio 1839-2009

Dalla Relazione di Macedonio Melloni alla svolta di Akio Morita M A U R I Z I O

R E B U Z Z I N I

1839-2009 Dalla Relazione di Macedonio Melloni alla svolta di Akio Morita

Come dire, dal dagherrotipo all’acquisizione digitale di immagini. E consecuzioni

INTRODUZIONE

DI

GIULIANA SCIMÉ

F O T O G R A P H I A L I B R I



prima di cominciare STRAFALCIONI. Mi rendo conto che mi si potrà anche odiare, ma mi chiedo come possa uscire un comunicato stampa che annuncia la mostra italiana del World Press Photo, nel quale, per ben tre volte, la vincitrice è indicata come «Jodi Bibier», e mai con il suo nome corretto «Jodi Bieber». Sempre con cognome errato, Jodi appare anche in molti siti web italiani [dello svolgimento del World Press Photo 2011, ma, più specificatamente, del ritratto nel fotogiornalismo, e dintorni/contorni, riferiamo su questo stesso numero, da pagina 18]. Prendendo spunto da questo strafalcione, ricordo, come mi è già capitato di far notare in queste pagine, ergendomi a grillo parlante in difesa della professionalità giornalistica, che c’è un certo decadimento da parte dei professionisti dell’informazione (e anche degli studenti universitari) nell’uso corretto della lingua italiana. Alcuni esempi, raccolti solo nell’ultima settimana. Radio 24: «la folla era gremita»; Radio Popolare: «una notizia da far trasalire sulla sedia»; Rai Tre: «la presenza umana era praticamente assente»; una studentessa del Politecnico, di Milano: «abbiamo sentito l’esigenza di fare una introspezione più profonda su quei dati che non ci convincevano»; TG3 Notte, una deputata Pdl sulla festa dei centocinquanta anni dell’Italia: «convintamente, la festeggiamo» (alla maniera di Cetto Laqualunque). Se qualcuno pensa che questi rilievi hanno il sapore di noiose osservazioni di un dinosauro, che l’importante è capirsi e che il mondo cambia e arrivano i neologismi, rispondo con fermezza e il massimo dell’energia: ma se si trattasse di fotografie? Per esempio, “convintamente” potrebbe equivalere a uno scatto piatto e banale, mal stampato e con un sacco di peli e caccole sulla copia; invece, “la folla era gremita” potrebbe corrispondere a un mosso non dettato da esigenze espressive e creative, ma causato da una scarsa concentrazione al momento dello scatto. Allora, guardando queste fotografie, cosa direste? Che l’importante non è che le fotografie siano prive di strafalcioni (fotografici, ovviamente), perché basta che si intuiscano delle figure? Lello Piazza

Ovunque arriva, e con qualunque mezzo debutti, la fotografia della collera amplia non solo il linguaggio fotografico, ma valorizza e alimenta la coscienza del comunicare. La fotografia-rêverie ramifica nella Rete e va a sollecitare la crescita della coscienza poetica/ belligerante di ciascuno. È una creazione di getto, un’opera aperta che invita a non strisciare più. A differenza di un sogno, le fotoscritture della collera non si raccontano: per comunicarle, bisogna viverle. In un mondo che nasce da un’opera d’arte insurrezionale (difficilmente incanalabile nell’estetica del mercimonio), l’uomo libero può diventare ciò che vuole. La fotografia della collera rappresenta l’espressione della rivolta che si prende il merito di essere vista, ascoltata e vissuta là dove l’arroganza del potere crolla. Pino Bertelli; su questo numero, a pagina 66

Copertina Con una integrazione in attualità (I colori del mondo, a pagina 44), da pagina ventotto a pagina quarantasette, rievochiamo una serie di considerazioni che dieci anni fa composero l’ossatura di un nostro numero speciale

3 Altri tempi (fotografici) Dal Catalogo 1913-1914 dell’Ing. Ippolito Cattaneo, Casa Grossista (piazza Cinque Lampadi 17-5, Genova): Materiale per la cinematografia, fotografia, pittura

7 Editoriale Trasformatasi rispetto le proprie origini, nel 1994 rivolte verso le tematiche della fotografia professionale, FOTOgraphia sta declinando una sorta di filosofia della Vita, per la Vita, a partire da uno s-punto fantastico: la fotografia. A Pino Bertelli, che conclude la fogliazione della rivista, dobbiamo riflessioni straordinarie. Grazie

8 Nonostante tutto Siamo al PhotoShow 2011 (Padiglione 3, Stand A25), ma ribadiamo le nostre perplessità sul suo svolgimento

10 Notizie Attrezzature, vicende e altre segnalazioni

Lello, non mi provocare! non mi invitare a nozze!, lo sai che lascio malvolentieri il mio studio, dove vivo nel conforto degli oggetti che mi circondano (oggetti, hai letto bene). Non mi provocare, non mi invitare a nozze: sapessi come sono compilati tutti i comunicati stampa dei nostri giorni! Ne avrei delle belle, da raccontare: tra forma, contenuto, galateo e tanto altro ancora. Tuo affezionato Franti (il clown che fa raccolta di attimi è un’altra persona). M.R.

4

12 Fototessere da cani Una allegra e fantastica monografia: Photobooth Dogs è esattamente ciò che anticipa e promette il suo titolo Ricerca iconografica di Ciro Rebuzzini

16 Ici Bla Bla Appunti e attualità della fotografia internazionale a cura di Lello Piazza


MARZO 2011

R , RIFLESSIONI IFLESSIONI, OSSERVAZIONI E COMMENTI OSSERVAZIONI E COMMENTI SULLA FOTOGRAFIA SULLA FOTOGRAFIA

18 Un altro ritratto epocale World Press Photo 2011, con l’affermazione del ritratto di Bibi Aisha, realizzato dalla sudafricana Jodi Bieber. Da cui, ancora, riflessioni sul ritratto nel fotogiornalismo e -anche- sull’etica e morale del reportage. Deontologia di Lello Piazza

24 Lontano dagli occhi Dall’autorevole blog Fotocrazia, del quattordici febbraio di Michele Smargiassi

28 Quei quattro colori Rievocazione ragionata e motivata di considerazioni a tema (colore), riprese da FOTOgraphia, del marzo 2001 Ricerca iconografica di Filippo Rebuzzini

32 E colore sia! La qualità individuale è come un’onda. Inarrestabile di Antonio Bordoni e Angelo Galantini

38 Colore in teoria Arte del colore, Atlante cromatico e La teoria dei colori

Anno XVIII - numero 169 - 6,50 euro DIRETTORE

RESPONSABILE

Maurizio Rebuzzini

IMPAGINAZIONE

Maria Marasciuolo

REDAZIONE

Angelo Galantini

FOTOGRAFIE Rouge

SEGRETERIA

Maddalena Fasoli

HANNO

COLLABORATO

Pino Bertelli Antonio Bordoni Chiara Lualdi Remo Mayer Lello Piazza Alessandra Quadri Franco Sergio Rebosio Ciro Rebuzzini Filippo Rebuzzini Michele Smargiassi Redazione, Amministrazione, Abbonamenti: Graphia srl, via Zuretti 2a, 20125 Milano; 02-66713604 www.FOTOgraphiaONLINE.it; graphia@tin.it. ● FOTOgraphia è venduta in abbonamento.

40 I colori del bianco Set in sintesi additiva: datato nei decenni, ma attuale di Antonio Bordoni

44 I colori del mondo A Roma, una grande mostra di National Geographic Italia

46 Di tutti i colori Quadricromia CYMK in una avventura di Martin Mystère

47 Colori che hanno scritto la Storia Tavola cromatica Macbeth ColorChecker

50 Et voilà, Weegee Weegee di Weegee. Un’autobiografia è un libro da non perdere; e da leggere e rileggere, almeno tre volte di Maurizio Rebuzzini

● FOTOgraphia è una pubblicazione mensile di Graphia srl, via Zuretti 2a, 20125 Milano. Registrazione del Tribunale di Milano numero 174 del Primo aprile 1994. Poste Italiane SpA - Spedizione in abbonamento postale - D.L. 353/2003 (convertito in Legge il 27-02-2004, numero 46), articolo 1, comma 1 - DCB Milano. ● A garanzia degli abbonati, nel caso la pubblicazione sia pervenuta in spedizione gratuita o a pagamento, l’Editore garantisce la massima riservatezza dei dati forniti dagli abbonati e in suo possesso, fatto diritto, in ogni caso, per l’interessato di richiederne gratuitamente la rettifica o la cancellazione ai sensi della legge 675/96. ● FOTOgraphia Abbonamento 12 numeri 65,00 euro. Abbonamento annuale per l’estero, via ordinaria 130,00 euro; via aerea: Europa 150,00 euro, America, Asia, Africa 200,00 euro, gli altri paesi 230,00 euro. Versamenti: assegno bancario non trasferibile intestato a Graphia srl Milano; vaglia postale a Graphia srl - PT Milano Isola; su Ccp n. 28219202 intestato a Graphia srl, via Zuretti 2a, 20125 Milano; addebiti su carte di credito CartaSì, Visa, MasterCard. ● Nessuna maggiorazione è applicata per i numeri arretrati. ● È consentita la riproduzione di testi e fotografie, magari citando la fonte (ma non è indispensabile, né obbligatorio farlo). ● Manoscritti e fotografie non richiesti non saranno restituiti; l’Editore non è responsabile di eventuali danneggiamenti o smarrimenti. Fotocomposizione DTP e selezioni litografiche: Rouge, Milano Stampa: Arti Grafiche Salea, Milano

Rivista associata a TIPA

50 Alessandra Quadri Giovane fotografa: intervista rivelatrice dello stato dell’arte

64 Fotografia della collera Sguardi sulla fotografia della rivolta (dalla Rete) di Pino Bertelli

www.tipa.com

5



editoriale P

ino Bertelli conclude da tempo la fogliazione di FOTOgraphia. I suoi Sguardi su sono sortite nel mondo della fotografia, che riportano pensieri forti e profondi: in definitiva, come interessa a noi, che facciamo della stessa fotografia fantastico s-punto di partenza, mai solitario ed esile punto di arrivo. Non importa condividere le opinioni espresse da Pino Bertelli, che scrive con vigore, oltre che per convinzioni assolute e inderogabili. Io stesso, in diverse occasioni, anche da queste pagine, non soltanto da queste pagine, ho rivelato e rilevato che a volte mi sento distante dalle sue visioni. Meglio così. Ci piaccia o meno -e a me piace-, sono proprio le diversità di osservazione e conclusione che arricchiscono la mente e il cuore di ciascuno di noi. In genere, Pino Bertelli scrive di un autore, analizzandone l’azione e personalità con concetti clinici, che nulla hanno da spartire con le consuetudini del parlare italiano in fotografia. Altre volte, i suoi testi si richiamano a accadimenti. Per esempio, è successo lo scorso luglio, quando l’occasione (il pretesto?) di una serie di immagini degli scugnizzi/caracciolini napoletani lo ha portato ad esprimere valori profondi che dovrebbero essere universali. In semplificazione, ha scritto di “amore”. In ripetizione (d’obbligo!), dalla Fotografia (s-punto privilegiato di osservazione) alla Vita (che è poi ciò che conta, effettivamente e realmente): perché fotografiamo?, perché ci occupiamo di fotografia?, perché approfondiamo il suo linguaggio e gli autori che lo hanno creato e fatto risplendere? Solo per amore. Non condivido sempre le visioni di Pino Bertelli, ma, come pure ho già rilevato, vorrei possedere la sua lucidità intellettuale e avere la sua capacità di scrivere. Per questo numero di FOTOgraphia, da pagina sessantaquattro, Pino Bertelli indirizza il suo avvincente Sguardo su il fenomeno delle fotografie della rivolta e della collera, che dal Nord Africa sono proliferate in Rete, esprimendo una spontaneità di ribellione che non ha tempo, né geografia. Appartiene a tutti noi: «Il potere non è più niente. Sta a noi essere tutto!» [a pagina sessantotto]. Punto e basta. Ora. A parte ribadire il mio incondizionato apprezzamento per la sua straordinaria capacità analitica, che so essere condiviso da molti (evviva!), annoto che sarebbe stato opportuno accompagnare questo suo approfondimento con immagini a corredo, raccolte in Rete senza alcun ordine, ma soltanto a testimonianza di un’onda dilagante: inarrestabile, come tutte le onde. Non me la sono sentita di interferire con la generosità delle sue parole, che da sole bastano, pur non avanzando mai. Per questo, qui accanto, proponiamo alcune immagini che si riferiscono a quanto scritto da Pino Bertelli. Le sue parole rimangano grandi per quanto effettivamente sono. Grazie, Pino. Con i tuoi testi, volente o nolente, mi hai indirizzato a essere una persona migliore. Maurizio Rebuzzini

77


Parliamone di Maurizio Rebuzzini

NONOSTANTE TUTTO

C

Come anticipato lo scorso febbraio, dopo anni di assenza volontaria e consapevole (sollecitata, tra tanto altro, anche dalla consapevolezza di essere sgraditi: garbatamente, abbiamo tolto il disturbo), torniamo al PhotoShow, appuntamento nazionale della fotografia, in programma alla Fiera Milano City, dal venticinque al ventotto marzo. Ci torniamo, ribadendo la nostra assoluta e ferma convinzione che le fiere merceologiche dei nostri giorni non possono (non potrebbero!) svolgersi secondo il copione che fu vincente e appassionante decenni fa. Ma se il mondo commerciale insiste, non possiamo che farcene una ragione (?). Personalmente, ho espresso più volte le mie opinioni al proposito, confezionando addirittura un libro-saggio, compilato all’indomani dello svolgimento della Photokina 2008, fiera internazionale della fotografia: appunto, Alla Photokina e ritorno, le cui rilevazioni non sono affatto data-

8

te, né circoscritte al 2008 di richiamo e riferimento esplicito (oltre che utilitaristico). Infatti, con onestà intellettuale, la mia di sempre (compagna irrinunciabile), la sostanza delle osservazioni e analisi lì espresse è ancora di grande attualità, tanto che le sue parole possono essere tranquillamente trasposte alla più recente edizione Photokina 2010, commentata in FOTOgraphia dello scorso novembre, come, in facile previsione, agli svolgimenti che incontreremo (?) i prossimi anni, già dall’autunno 2012. Senza alcuna autoreferenzialità, ma con lucida onestà, ne consiglio vivamente la rilettura. Io l’ho riletto due volte: una, prima di partire per Colonia; e un’altra ancora, subito dopo avervi soggiornato per la settimana della Photokina 2010, dal venti al ventisei settembre scorsi. In assoluto: immancabili richiami e riferimenti che non si esauriscono con il solo svolgimento della Photokina (World of Imaging); indero-

gabilmente, spunti utili e proficui sia al comparto tecnico-commerciale sia al mondo della fotografia espressiva e creativa. Molti operatori italiani del commercio fotografico visitano la Photokina. Poi, a parte le utilità in cronaca, in veste di novità tecniche da proporre al mercato, non accade mai più nulla. Niente di quanto osservato, ammesso e non concesso che qualcuno si prenda la briga di guardare oltre il proprio naso, si proietta sul nostro quotidiano nazionale, che imperterrito!- continua a segnare il passo remoto: quantomeno nelle proprie espressioni commerciali palesi e pubbliche, a partire dalla propria fiera merceologica, che ripete formule che definire obsolete è puro ottimismo. PhotoShow: esposizione di attrezzature e nulla di più o diverso (a parte volontà private di qualche espositore, per se stesso e in se stesso). Come ho sostanziosamente rilevato in tante occasioni, da tem-

po la Photokina non è più Fiera di novità tecniche: che ci sarebbero state anche senza mettere in piedi una tale kermesse e che si sarebbero conosciute comunque, indipendentemente dall’appuntamento ufficiale di Colonia. E lo stesso dovrebbe essere per l’italiano PhotoShow, in proiezione commerciale nazionale. Oggigiorno, non è più un problema di novità di mercato, come è stato fino a qualche anno fa, quando si allestivano fiere merceologiche per annotare le nuove interpretazioni fotografiche realizzate e proposte. Al giorno d’oggi, per essere annunciate e, addirittura, proposte al mercato, le novità tecniche non attendono più gli appuntamenti fieristici canonici. Per quanto riguarda la comunicazione, il tempo reale della rete Internet assolve egregiamente e risolve. A conseguenza, le fiere vanno allestite per esprimere e manifestare la cifra stilistica di un settore. Consumi generici a parte, l’in-


Parliamone dustria fotografica deve assolutamente rendersi conto che per quanto riguarda la solidità dei consumi e la consistenza delle fondamenta sulle quali edificare impianti solidi, l’elemento fotografico non dipende soltanto dalle statistiche commerciali e dai volumi di vendita, ma, a monte di tutto, sta il fatto che l’esercizio della fotografia, a ogni proprio livello, dalla semplice fotoricordo all’impegno altamente professionale, non può prescindere dalla soddisfazione personale e individuale. Ovvero, come annotato in tempi antecedenti, in tempi non sospetti, il valore aggiunto è proprio questo: la fotografia finale che ciascuno realizza. Oltre la logica di mercato, che viene dibattuta in territori appositi, l’industria fotografica deve tornare, oppure arrivare (secondo i casi), a promuovere un discorso di immagine. Non si tratta di cultura asettica e arida, ovvero di kultura, ma di autentica consapevolezza finalizzata a risvolti commerciali. Così il PhotoShow dovrebbe imparare dalla Photokina, che non è più un insieme di novità, ma definisce e delinea lo spirito di un intero mercato. Cioè, la FOTOgraphia è al PhotoShow 2011 (Fiera Milano City, ingresso Porta Colleoni, dal venticinque al ventotto marzo; 10,00-18,00, lunedì ventotto 10,00-16,00), al Padiglione 3, stand A25. Saremo riconoscibili, indossando T-Shirt personalizzate con Elementi di Euclide (perché no?), nelle colorazioni adottate nel 1847 da Oliver Byrne per chiarezza didattica [dalla recente anastatica Taschen Verlag, a cura di Werner Oechslin; FOTOgraphia, febbraio 2011]. In alternanza: Libro I - XLVII: Nei triangoli rettangoli, il quadrato sul lato che sottende l’angolo retto è uguale ai quadrati sui lati che comprendono l’angolo retto; Libro IV - VIII: Intorno cerchio dato circoscrivere un quadrato; Libro II - IV: Qualora una linea retta sia secata come càpita, il quadrato sulla [retta] totale è uguale sia ai quadrati sui segmenti sia a due volte il rettangolo compreso dai segmenti.

Photokina ha un rapporto relativo con le novità che i produttori annunciano e presentano. L’anima, il senso e lo spirito attuali della Photokina prescindono, quindi, dalla quantità e qualità di novità espresse nei suoi giorni, che pure ne compongono l’irrinunciabile ossatura. In un tempo tecnologico e commerciale come è l’attuale, le alternanze ed evoluzioni tecniche (e commerciali) prescindono ormai da un qualsiasi appuntamento fieristico: per cui è più che grottesco circoscrivere e limitare il valore della PhotoShow a questo. Sia alla luce del ritmo con il quale i prodotti fotografici si inseguono sugli scaffali di vendita, sia in considerazione dei nuovi/innovativi veicoli di informazione verso il pubblico, la tecnica fotografica è un divenire continuo e inarrestabile. Soprattutto per questo, ma non soltanto per questo, nella propria passerella pubblica PhotoShow, l’industria dovrebbe esprimersi e manifestarsi al di là della somma algebrica delle novità annunciate con la sua occasione, delle quali ne sollecita e favorisce soltanto la presentazione. Con tutto, non sono affatto

contrario agli incontri professionali, che già come tali, “incontri”, spesso bastano e sono più che sufficienti al conforto reciproco e allo scambio di opinioni ed esperienze; né mi oppongo all’approfondimento merceologico. Infatti, sono perfettamente consapevole di come e quanto il commercio della fotografia avrebbe bisogno di indagini e visioni che possano superare le sterili barriere dell’impegno professionale quotidiano, per quanto remunerativo, dietro i banchi di vendita. Però, questa ipotesi ha nulla da spartire con la goliardica rimpatriata periodica (riferimento consapevole allo scoraggiante Photokina Day, che l’associazione di categoria Ascofoto allestisce, a Milano, a ridosso dell’originale). Al contrario, questa stessa idea si basa sul princìpio secondo il quale, per bocca dei propri rappresentanti nazionali, l’industria produttrice ha/avrebbe molto da raccontare e trasmettere, sempre nella proiezione verso quella competenza tecnica e commerciale che potrebbe essere anche capace di fare l’autentica differenza. Non c’è Internet che tenga. Non c’è relazione su rivista che

possa bastare. Raramente al pubblico arriva l’insieme di competenze e chiarezze che definisce l’impegno progettuale, ricco di sfumature e impreziosito di avvincenti dettagli. Personalmente, ogni volta che assisto a una conferenza stampa di presentazione di prodotto soffro per l’impossibilità di trasmettere il tanto (mai troppo) che apprendo, che resta circoscritto a pochi iniziati e privilegiati (io, tra loro). Sento impellente il bisogno di una entità intermedia, che per statuto possa negoziare e rinegoziare tutti questi rapporti, tutte queste competenze, fino a proiettarle verso il punto vendita, a propria volta interlocutore unico del consumatore finale, quello verso il quale dovrebbe essere rivolto tutto lo sforzo infrastrutturale del mercato. Allo stesso tempo, penso a una educazione commerciale che si estenda oltre i soli riferimenti tecnici, per comprendere la definizione di un commercio rivolto all’applicazione attiva di un interesse; l’ho già rilevato in tante occasioni, e a propria volta questa ulteriore potrebbe non essere l’ultima, ma soltanto una ancora e una in più: sia che si tratti di semplice fotoricordo domenicale, sia che si tratti di impegno individuale più sostanzioso (quel fotoamatorismo, anche organizzato, frequentato da molti), la fotografia è un hobby diverso dagli altri. Diverso, perché migliore: sempre e comunque attivo e non passivo. Il valore del Tempo che l’attraversa non è certo questioncina da poco. Ripeto, ribadisco e concludo: il PhotoShow dovrebbe offrirsi come l’espressione più chiara, trasparente e concreta di tutti questi intrecci, legami e collegamenti. PhotoShow non dovrebbero essere i soli strumenti della fotografia. Al PhotoShow e con il PhotoShow, l’intero mercato italiano della fotografia dovrebbe manifestare spiriti e filosofie trasversali, da decifrare per allineare e finalizzare ogni personalità commerciale quotidiana; anche quelle giornalistiche, sia chiaro. ❖

9


Notizie a cura di Antonio Bordoni

FIRMWARE SONY. Già disponibile per il download nelle versioni per Windows e Mac OS (http://support.sony-europe.com/ hub/hub.html), l’aggiornamento gratuito estende la messa a fuoco automatica AF delle Sony Nex-5 e Nex-3 agli obiettivi presenti nella vasta gamma in baionetta A (Alpha), che comprende anche configurazioni Carl Zeiss. Ancora, il firmware include altri miglioramenti alla praticità delle compatte, come la possibilità di mantenere le impostazioni di apertura durante la registrazione di filmati HD e un nuovo menu operativo, semplificato. La modalità AF a scatto singolo è ora supportata da quattordici obiettivi SAM e SSM in baionetta A, previo l’impiego dell’adattatore LA-EA1 (accessorio opzionale). (Sony Italia, via Galileo Galilei 40, 20092 Cinisello Balsamo MI). FLAT. Benro ha realizzato una gamma di treppiedi completamente nuova e originale, che mette d’accordo dimensioni (pesi) e robustezza: Benro Flat. L’apertura “a compasso” ha richiesto una soluzione particolare per dotare i treppiedi di una colonna centrale. Non essendo possibile realizzare passaggio diretto della colonna, questa può essere avvitata alla sommità del treppiedi, quando sia necessario disporre di un punto di ripresa particolarmente elevato. Grazie alla tradizionale vi-

te da 3/8 di pollice, i treppiedi possono anche montare la testa direttamente sulla struttura principale. La colonna (a corredo) è telescopica e consente di regolare con precisione l’altezza del punto di ripresa. I treppiedi Flat sono realizzati nelle versioni in Alluminio e Carbonio (otto strati), ognuna in tre modelli. Per entrambe le versioni, lo snodo centrale è in Magnesio. (Rinowa, via di Vacciano 6f, 50012 Bagno a Ripoli FI).

CHE RISOLUZIONE! Reflex della genìa Lumix G Micro System, compatibile con lo standard Micro QuattroTerzi, la Panasonic Lumix DMC-GH2 conferma e ribadisce l’efficacia di un corpo macchina di piccole dimensioni con funzioni avanzate: risoluzione di 16,05 Megapixel. Dotata di un intuitivo sistema Touch-Control, la nuova reflex vanta un autofocus eccezionalmente veloce: appena 0,1 secondi per mettere un soggetto perfettamente a fuoco. I componenti chiave, come il sensore e il processore di immagine, sono stati completamente rivisti, per conseguire prestazioni ancora superiori e immagini accattivanti per risoluzione e resa cromatica. La Lumix DMC-GH2 è innovativa e consente di realizzare filmati Full-HD 1920x1080/50i (PAL), con una performante uscita 50p. (Panasonic Italia SpA, viale dell’Innovazione 3, 20126 Milano).

STAMPA IN GRANDE. Stampante professionale compatta A2+ (17 pollici), che definisce un nuovo standard di precisione del colore nel mercato della fotografia. Grazie alla straordinaria uniformità nelle gradazioni di colore

10

e alla accurata corrispondenza dei colori, Epson Stylus Pro 4900 offre un’eccellente qualità di stampa nei settori della fotografia professionale e delle riproduzioni artistiche. È in grado di riprodurre il novantotto percento dei colori Pantone. Automazione e robustezza del meccanismo creano un elevato livello di affidabilità, che rende la stampante uno strumento altamente produttivo per studi fotografici e artistici e piccoli uffici professionali. Epson Stylus Pro 4900 possiede uno degli spettri cromatici più ampi sul mercato e permette di riprodurre immagini artistiche con estrema accuratezza e realismo. I colori della stampa risultano identici a quelli dell’immagine originale, qualunque sia il supporto scelto, tra quelli dell’ampia gamma disponibile. Il sistema Epson SpectroProofer, per la calibrazione e il controllo in linea, assicura una estrema precisione del colore, anche su supporti diversi, e misura automaticamente le tabelle dei colori nella creazione dei profili ICC. (Epson Italia, via Viganò De Vizzi 9395, 20092 Cinisello Balsamo MI).

SCANSIONE RAPIDA. Nuova generazione di scanner per diapositive e fotografie proposta da Rollei, uno dei marchi storici della fotografia, arrivato a celebrare i propri novanta anni di storia, ottantuno dei quali definiti anche dalla biottica Rolleiflex (1929).

Oltre le unità DF-S 190SE, con sensore da nove Megapixel e risoluzione di 3600dpi, e DF-S 120SE, con sensore da cinque Megapixel, l’attenzione si concentra sull’efficace scanner Rollei PDF-S 200SE, dispositivo adatto a coloro i quali desiderano visualizzare le proprie stampe e diapositive (e negativi) sul computer. Lo scanner è dotato di un vassoio che può contenere le copie nei formati 9x13, 10x15 e 13x18 centimetri e include un sensore di cinque Megapixel. La consistente risoluzione di scansione è 5184x3360 pixel (3600dpi). In dotazione, il software di editing ArcSoft PhotoImpression 6. (Mafer, via Brocchi 22, 20131 Milano).

ALTRA ALPHA. Continua la marcia del sistema reflex Sony a (Alpha), che si sta sistematicamente arricchendo di configurazioni che si collocano a diversi livelli tecnico-commerciali. La nuova α580, ad alte prestazioni, comprende anche la registrazione video Full-HD. Abbinato al processore Bionz, il sensore Cmos di tecnologia proprietaria, in formato APS-C, da 16,2 Megapixel di risoluzione, consente sequenze rapide fino a sette fotogrammi al secondo. Quindici punti di rilevazione autofocus, con AF Tracking combinato. Funzioni avanzate di imaging, tra le quali 3D Sweep Panorama, Auto HDR e Multi Frame Noise Reduction, che offrono sofisticate applicazioni creative. In allineamento, la reflex Sony α560, da 14,2 Megapixel di risoluzione. (Sony Italia, via Galileo Galilei 40, 20092 Cinisello Balsamo MI). ❖



Con allegria di Angelo Galantini

FOTOTESSERE DA CANI

D

Delle due, una almeno, se non già entrambe. Fresco di stampa, fresco di edizione, Photobooth Dogs, pubblicato negli Stati Uniti (dove, altrimenti?) dall’autorevole Chronicle Books, di San Francisco, completa una nostra (ormai) antica segnalazione, almeno tanto quanto ne integra una più recente. Per ciò che ci riguarda direttamente, ma soprattutto istituzionalmente, si iscrive a pieno diritto nella consistente fenomenologia delle fototessera, ovverosia delle fototessera da cabina automatica, appunto Photobooth in inglese, che abbiamo analizzato, approfondendo, nell’ottobre 2005. Oppure, con spirito sostanzialmente analogo, può essere attribui-

to al contenitore della fotografia segnaletica, capitolo straordinario di quella giudiziaria, della quale ci siamo occupati in diverse occasioni, la più recente delle quali lo scorso novembre, con l’occasione delle edizioni simultanee di Ritratti criminali, di Raynal Pellicer, pubblicato da Mondadori, e Accusare (seconda edizione), di Giacomo Papi, pubblicato da Isbn Edizioni. Ma c’è una terza eventualità: la fenomenologia delle fotografie di animali domestici. Accettata la quale, potremmo dilungarci ancora oltre, tanto oltre, andando a ipotizzare ulteriori sfumature, altri punti di osservazione e considerazione. Però, no. Limitiamoci alla solidità

Da Photobooth Dogs; cortesia Gail Pine.

Da Photobooth Dogs; cortesia John e Teenuh Foster, Accidental Mysteries Collection.

12

delle prime due ipotesi, rafforzando soprattutto quella delle fototessera da cabina automatica. Lo ripetiamo, ribadendolo: siamo fermamente convinti che nessuno, proprio nessuno, abbia mai resistito alla tentazione di giocare con una cabina automatica per fototessera. Qui non intendiamo affatto approdare all’esperienza artistica, a partire da quella, fondamentale!, del modenese Franco Vaccari, che all’inizio degli anni Settanta rea-


Con allegria lizzò un’opera significativa e discriminante. La sua Esposizione in tempo reale n.4: lascia su queste pareti una traccia fotografica del tuo passaggio, in sala personale alla Trentaseiesima Biennale di Venezia (giugno-ottobre 1972), fu folgorante. Ed è stata ripetuta con connotati sempre aggiornati, fino allo scorso settembre 2009, nell’ambito di Savignano Immagini Festival 09 [FOTO graphia, ottobre 2009]. Molto più prosaicamente, pensiamo proprio al gioco fine a se stesso, alla tentazione delle cabine automatiche, per lo più collocate in posizioni strategiche: nelle stazioni ferroviarie, soprattutto. Così, anche l’emozionante Photobooth Dogs, a cura di Cameron Woo, emozionante per chi, noi tra questi, si commuove sempre quando incontra espressioni ed esperienze di fotografia intelligente, rientra a tutti gli effetti nella considerazione del gioco. O quasi. In definitiva, come annuncia il titolo esplicito, si tratta di fototessere di cani, lasciati a se stessi, piuttosto che trattenuti tra le orgogliose braccia del propri proprietari. In assoluto, si tratta di una raccolta di allegrie manifeste ed esplicite: come rivela il sorriso complice e compiaciuto dei proprietari di cani in posa davanti all’azione automatica della cabina. Fotografie semplici, spesso for-

Photobooth Dogs; a cura di Cameron Woo; Chronicle Books, 2010; 108 pagine 12,7x20,3cm, cartonato; 14,95 dollari.

Da Photobooth Dogs; cortesia Lisa e Lordan Bunch. (a destra, in basso) Da Photobooth Dogs: anni Trenta, Julia e Shep; cortesia Lisa Ann Kelly. Da Photobooth Dogs: 1960, Dolores Mendevil, Champ, Rocky Garcia e Carlos Ruben Milan; cortesia Francisco “Rocky” Garcia.

13


Con allegria Da Photobooth Dogs; cortesia Kimberly Hebert.

malmente eccepibili (ma a chi interessa, poi?), che compongono anche i tratti di un capitolo sociale della Storia della fotografia assolutamente latente e non raccontabile: quello della fotoricordo, essenziale, entusiasmante, appassionante ed elettrizzante, che però non raggiunge quasi mai la superficie a tutti palese. In assoluto, non soltanto in ge-

Da Photobooth Dogs; cortesia Babette Hines [ FOTOgraphia, ottobre 2005]. (a destra, seconda sequenza) Da Photobooth Dogs; cortesia Greg McLemore.

nerale, rimane chiuso e circoscritto ai cassetti e agli album di casa, nelle case di ciascuno di noi. Peccato! Dunque, in conclusione (d’obbligo): ben venga questo tipo di raccolte serene, trasparenti, addirittura lievi, che in qualche modo e misura storicizzano tali fenomenologie della fotografia quotidiana, trasversale e complementare a quella suprema e altisonante della quale si occupa la Storia. Purtroppo, annotazione altrettanto necessaria, queste visioni sono soprattutto statunitensi, favorite e alimentate da un clima, anche culturale, anche sociale, che non erige steccati e stabilisce confini, ma ha il coraggio di osservare anche ciò che è minimale e semplice. In Italia, no. Anzitutto, mancano le istituzioni a sostegno; quindi, siamo irrimediabilmente affetti da un intellettualismo di maniera che ci tiene fatalmente lontani dallo svolgimento reale della vita, e dal suo racconto per serene fotografie... quotidiane. ❖



Ici Bla Bla a cura di Lello Piazza

GOOGLE PER L’ARTE. Applicando

Questa rubrica riporta notizie che sono appartenute alla cronaca. Però, nel loro richiamo e riferimento molti motivi ci impediscono di essere tempestivi quanto la cronaca richiederebbe. Ciononostante riteniamo giusto proporle, perché siamo convinti che non abbiano perso la propria attualità, e continuino a offrire spunti di riflessione.

PRODIGIOSO DALLA GRECIA. Titolare del sito www.greeksky.gr, che ha attivato con lo scopo di far conoscere a tutti le bellezze dei cieli notturni della Grecia, Chris Kotsiopoulos ha realizzato un’immagine prodigiosa. Un’immagine lunga tutta una giornata, composta da decine di scatti ripresi da capo Sounion, il promontorio meridionale dell’Attica, a circa settanta chilometri da Atene, dominato dalle colonne del monumentale Tempio di Giove. Per le riprese è stata usata una Canon Eos 550D, con fisheye EF 15mm f/2,8 EF. «Mi sono chiesto se fosse stato possibile dare l’idea dello svolgersi delle ventiquattro ore di una intera giornata, da un mattino al mattino successivo, in una singola immagine. Ho tentato, mettendomi all’opera. La mia impresa è iniziata il mattino dello scorso trenta dicembre, ed è durata quasi trenta ore. Montata la reflex sul treppiedi, ho effettuato il primo scatto inquadrando verso est. Ho narrato il passare della giornata con decine di scatti successivi, ruotando la macchina fotografica da est a ovest. Nel frattempo, con un filtro astro-solare montato sull’obiettivo, ho registrato la posizione del Sole ogni quindici minuti. Per avere anche una visione di elevata drammaticità, ho rimosso il filtro solo per una inquadratura, quella nella quale il Sole ha raggiunto l’apice del suo movimento (apparente). «Al tramonto, ho scattato una particolare serie di fotografie, rivolgendomi verso ovest-nord ovest, per rendere più dolce il passaggio tra il giorno e la notte. «Anche la notte è stata narrata con decine di immagini, ruotando l’inquadratura da ovest a est. «Con la reflex rivolta o ovest, ho fotografato alcuni binari stellari. Alle 19,13 esatte, ho inquadrato verso

16

la stella polare, e ho aperto l’otturatore, lasciandolo aperto per undici ore, per ottenere quelle tracce circolari dei binari stellari visibili nella parte alta dell’immagine-montaggio conclusiva [qui sopra]. Quindi, ho nuovamente fotografato a nord-est per altri binari stellari. Infine, ho realizzato fotografie utili a descrivere la transizione dalla notte al giorno». Ovviamente, tutto questo ha comportato una preparazione accurata, precedente le trenta ore effettivamente operative: uno, tabella oraria dei vari scatti, precisa al minuto; due, studio delle previsioni del tempo, per individuare il giorno più adatto; tre, predisposizione di tutto l’occorrente per stare in loco per trenta ore filate, senza dormire; quattro, batterie in quantità adeguata a garantire il funzionamento della reflex per un tempo così prolungato; cinque, fohn per asciugare l’umidità notturna che si è inevitabilmente depositata sull’apparato fotografico. Come sempre, agendo in acquisizione digitale di immagini, c’è da considerare anche la gestione in postproduzione. Per mettere insieme tutti gli scatti (più di cinquecento binari stellari, trentacinque fotografie del Sole, e venticinque panoramiche), Chris Kotsiopoulos ha lavorato più di dodici ore al computer, utilizzando i software Photoshop, Startrails, per combinare tra loro i binari stellari, e PTGui, per comporre l’insieme con effetto panorama. Prodigioso!

La prodigiosa immagine realizzata da Chris Kotsiopoulos, che ha combinato assieme fotografie scattate nell’arco di trenta ore, da capo Sounion, il promontorio meridionale dell’Attica: immagine lunga tutta una giornata. A partire dal monastero di San Giovanni, si individua il Tempio di Giove; tutto attorno, scorre la giornata, dal mattino (a destra) al pomeriggio, con la sequenza del sole e i binari stellari che illuminano la notte.

Da Google Art Project, ingrandimento sulla Notte Stellata, di Vincent van Gogh, che sta al MoMA, di New York: al centro di una delle straordinarie stelle che affollano il cielo, si scopre la forma della pennellata, ricca di infinite sfumature di gialli, verdi, blu, bianchi, si entra in un micro mondo nascosto sotto la superficie del dipinto.

la fotografia digitale ad altissima risoluzione, è incredibile quello che si riesce a vedere in un’opera d’arte: grazie all’Art Project (Progetto Arte), di Google, al quale si può accedere dall’indirizzo web http://www.googleartproject.com e dalla homepage di Google, è un incredibile a portata di mano. Ricordate l’androide Roy Batty, di Blade Runner [interpretato da Rutger Hauer]?: «Io ne ho viste cose, che voi umani non potreste immaginarvi»? Ecco, è a portata di mano un’esperienza simile, nella quale ci si può sentire un poco androidi dotati di una potente vista telescopica. Ho fatto anch’io l’androide su alcuni quadri. Su uno di questi, la Notte Stellata, di Vincent van Gogh (73x92cm), che sta al MoMA, di New York, ingrandendo al massimo al centro di una delle straordinarie stelle che affollano il cielo, si scopre la forma della pennellata, ricca di infinite sfumature di gialli, verdi, blu, bianchi, si entra in un micro mondo nascosto sotto la superficie del dipinto, superficie alla quale solitamente si arresta la nostra percezione visiva [qui sotto]. Senza gli strumenti di Google, un’esperienza analoga sarebbe possibile solo se si potesse arrivare vicinissimi alla tela originaria, armati però di una lente a fortissimo ingrandimento. Sparsi in undici città, di nove paesi, diciassette musei hanno già aderito al progetto di Google: Alte Nationalgalerie, di Berlino; The Frick Collection, Museum of Modern Art (MoMA) e Metropolitan Museum of Art, di New York; Freer Gallery of Art-Smithsonian, di Washington; Gemäldegalerie Alte Meister, di Dresda; Museum Kampa, di Praga; Museo Nacional Centro de Arte Reina Sofia e Museo Thyssen-Bornemisza, di Madrid; National Gallery


Ici Bla Bla e Tate Gallery, di Londra; Rijksmuseum e Van Gogh Museum, di Amsterdam; Galleria Tret’jakov, di Mosca; Ermitage Museum, di San Pietroburgo; Galleria degli Uffizi, di Firenze; Château de Versailles. Per la realizzazione dell’impresa, Google ha impiegato numerose squadre di esperti informatici e fotografici, che hanno realizzato decine di fotografia di ognuna delle più di mille opere rese oggi accessibili in Art Project. Ogni immagine pesa circa sette Gigabyte. Per mezzo di una nuova applicazione derivata dalla già nota tecnologia Street View, sempre attraverso il sito di Art Project, è anche possibile compiere un tour a trecentosessanta gradi nelle sale di musei coinvolti. L’autorevole parere di Cristina Acidini, Soprintendente al Polo Museale di Firenze: «Grazie a Google, la Galleria degli Uffizi, il museo più antico dell’Europa moderna, creato nel cuore di Firenze per accogliere le raccolte d’arte dei Medici, sommi mecenati del Rinascimento, diventa fruibile in qualunque istante, da qualunque parte del mondo. Attraverso il viaggio virtuale nella Galleria, l’utente può esplorare oltre settanta capolavori, da Cimabue a Goya, con particolare attenzione alla Nascita di Venere, di Sandro Botticelli: il supremo ideale di cultura e bellezza umana, simbolo della fioritura di Firenze al tempo di Lorenzo il Magnifico si svela a tutti con una ricchezza di dettagli mai avuta prima».

A CENTOUNO ANNI, È MANCATO MILTON ROGOVIN. Ha dedicato la vita ai poveri e ai diseredati. Le sue fotografie sono esposte al Paul Getty Museum, di Los Angeles, al Victoria and Albert Museum, di Londra, al MoMA, di New York, al Museum of Fine Arts, di Houston, alla George Eastman House, di Rochester. Nato a New York, il 30 dicembre 1909, da una coppia di immigrati lituani, Milton Rogovin si è spento lo scorso diciotto gennaio, a Buffalo, nello stato di New York [al centro, in alto]. Laureato in optometria, alla Columbia University, nel 1938, Milton Rogovin avviò il suo studio come optometrista, a Buffalo, dove si era trasferito. Sempre come optometrista, ha servito nell’esercito americano durante la Seconda guerra mondiale. Ma più che

Il fotografo Milton Rogovin, che ha dedicato la vita ai poveri e ai diseredati, si è spento lo scorso diciotto gennaio, a Buffalo, nello stato di New York. Aveva centouno anni; era nato nel 1909.

la guerra, è stata la Grande depressione del 1929 a influenzare fortemente la sua visione del mondo e a spingerlo ad avvicinarsi all’ideologia comunista. Come a molti altri americani, questa scelta gli creò sostanziosi problemi durante il maccartismo. Ma sono stati proprio questi problemi e la convinzione che il fotogiornalismo è un potente strumento di informazione e difesa dei diritti dei più deboli, a spingerlo, intorno alla metà degli anni Cinquanta, a dedicarsi interamente alla fotografia, che aveva vissuto fino allora, come semplice passione. «Volevo fotografare i più poveri tra i poveri, per dare loro la dignità di esseri umani in lotta per la sopravvivenza», ha dichiarato Milton Rogovin, in un’intervista rilasciata nel 2006, a novantasei anni. Nel 1962, suo primo importante lavoro di documentazione, portato a termine in tre anni e realizzato nelle chiese di Buffalo frequentate da afroamericani, è stato pubblicato sulla rivista Aperture, per interessamento di Minor White (fotografo, suo quasi coetaneo, cofondatore di Aperture con Ansel Adams, Dorothea Lange e Barbara Morgan). Successivamente, Milton Rogovin ha seguìto per dieci anni la vita dei minatori delle miniere dei Monti Apalachi. Contemporaneamente, si è dedicato alle piccole comunità di Nativi americani che vivono nei pressi di Buffalo, e realizzato Working People, un reportage sui lavoratori delle acciaierie dello stato di New York. Nel 1967, su invito di Pablo Neruda, ha visitato il Cile, dove ha fotografato il poeta al lavoro nella sua casa e realizzato un reportage sull’isola di Chiloè. Nel 1972, Milton Rogovin si è imbarcato in un altro consistente progetto fotografico, durato decine di anni, dedicato ai diseredati del lower West Side di Buffalo.

Nel 1983, gli è stato assegnato l’Eugene Smith Memorial Fund Award for Documentary Photography e, nel 2007, ha ricevuto il Cornell Capa Award. Comprendente negativi, provini a contatto, stampe e corrispondenze con fotografi ed editori, l’archivio di Milton Rogovin è custodito presso la Library of Congress, di Washington. Circa quattromila stampe fotografiche sono conservate presso il Center for Creative Photography, dell’University of Arizona, a Tucson.

MOSTRA FOTOGRAFICA SU L’AQUILA. Il due febbraio, nell’aula mostre Guido Nardi, della Facoltà di Architettura del Politecnico, di Milano, si è inaugurata una mostra sull’Aquila, la città duramente colpita dal devastante terremoto del 6 aprile 2009. Le fotografie in bianconero sono del giovane architetto Maria Benedetta Bossi, spettatrice attenta di un disastro senza fine [qui sotto]. Da Immota Manet L’Aquila tra patimento e speranza, mostra fotografica itinerante di Maria Benedetta Bossi.

Già esposta al Palazzo Reale di Napoli, la mostra è il risultato di un lungo e scrupoloso lavoro, quasi quotidiano, iniziato addirittura l’8 aprile 2009, da Maria Benedetta Bossi, che ha seguìto gli interventi di messa in sicurezza e ricostruzione del patrimonio architettonico dell’Aquila, documentando il dopo sisma a fianco dei funzionari della Soprintendenza, dei Vigili del Fuoco e degli addetti della Protezione Civile. Ha accompagnato la mostra un bel catalogo fotografico Immota Manet L’Aquila tra patimento e speranza (Segni Edizioni, 2010; 96 pagine 27,5x28,5cm, 20,00 euro). ❖

17


18


UN ALTRO RITRATTO

EPOCALE Il ritratto di una giovane afgana, la diciottenne Bibi Aisha, realizzato dalla sudafricana Jodi Bieber (basata a Londra) è la World Press Photo of the Year 2011, per fotografie scattate nel 2010. Ventisei anni dopo il celebre ritratto di Steve McCurry, del 1984, icona del nostro tempo, un altro ritratto presenta le stimmate del “segno” fotografico. Tanto che David Burnett, presidente di giuria, ha osservato che «questa potrebbe diventare una di quelle immagini delle quali si parla dicendo “ti ricordi quella fotografia... di quella ragazza...”, e tu sai esattamente a quale ci si sta riferendo». E poi, oltre le considerazioni sul ritratto nel fotogiornalismo, otto italiani tra i vincitori e una consistente rievocazione da Haiti: con approfondimento di Lello Piazza

T

orniamo su un argomento che abbiamo già affrontato in occasioni precedenti. Sono note le polemiche roventi sulla validità giornalistica del ritratto e sulla “moda” di alcuni fotogiornalisti di narrare i fatti del mondo con gallerie di ritratti. Si ricordino, per esempio, le critiche, che non lasciano adito a dubbi, di Jean François Leroy, direttore del più importante festival di fotogiornalismo a livello mondiale, Visa pour l’Image, riportate e richiamate nel bell’intervento di Piero Raffaelli Ci sono ritratti e ritratti, pubblicato in FOTOgraphia del febbraio 2009: «Non ne posso più di tutti questi ritratti. Ritratti e ritratti di gente che ha in mano ritratti». Il problema della povertà urbana? Un po’ di ritrat-

ti di homeless. La guerra in Iraq? Una galleria di ritratti di marines. Lo tsunami? Ritratti di sopravvissuti che mostrano ritratti di vittime, conclude Leroy. Ma, come giustamente ricorda e sottolinea Piero Raffaelli, ci sono ritratti e ritratti; e supporta le proprie opinioni, segnalando tre casi emblematici e significativi del valore espressivo del ritratto, oltre la sola raffigurazione (spesso abusata nel fotogiornalismo dei nostri giorni, ma non sempre): The Roma Journeys [Le romané phirimàta], di Joakim Eskildsen, uno dei più bei libri pubblicati negli ultimi anni, appunto realizzato a base di ritratti (tra l’altro, Premio Amilcare Ponchielli - Miglior libro dell’anno 2008, assegnato dal Grin - Gruppo Redattori Iconografici Nazionale); la consistente serie di ritratti di soldati statunitensi stanziati in Iraq, realizzata dallo svedese Martin von Krough, straordi-

World Press Photo of the Year 2011 (sul 2010) e primo premio Portraits Singles: ritratto della diciottenne afgana Bibi Aisha, orrendamente sfregiata. Il ritratto fa parte di un reportage realizzato dalla sudafricana Jodi Bieber per il settimanale Time (Primo agosto 2010). La “giustizia” talebana l’ha condannata, amputandole naso e orecchie. A condanna eseguita, Bibi è stata soccorsa e portata in America, dove oggi vive. La chirurgia plastica le ha ridonato quasi completamente i suoi bei lineamenti di giovane ragazza.

19


(pagina accanto) Primo premio General News Singles: Riccardo Venturi, Italia, Contrasto: Incendio all’Old Iron Market; Port-au-Prince, Haiti, 18 gennaio.

nario progetto finalizzato a «mostrare l’essere umano dietro l’uniforme» (per approfondimenti: www. martinvonkrough.com); e il ritratto dell’allora presidente russo Vladimir Putin, dell’inglese Platon, per Time Magazine (primo premio Portraits Singles al World Press Photo 2008).

Secondo premio Nature Stories: Stefano Unterthiner, Italia, per National Geographic Magazine [ FOTOgraphia, febbraio 2011]. Cigni selvatici all’alba; Hokkaido, Giappone, gennaio.

APPUNTO, RITRATTO EPOCALE

Primo premio Sport Singles: Mike Hutchings, Sudafrica, per Reuters. Nella semifinale del Campionato del Mondo di calcio, l’olandese Demy de Zeeuw riceve un calcio in faccia dall’uruguaiano Martin Caceres; Città del Capo, 6 luglio. Ritratto nel giornalismo. Oltre gli abusi (e ce ne sono!), un ritratto assolutamente espressivo e indicativo. Sguardo torvo del ministro alla Cultura del Terzo Reich, Joseph Goebbels, seduto nel giardino dell’Hotel Carlton, di Ginevra, in Svizzera, nel settembre 1933, durante il suo primo viaggio all’estero per partecipare a una riunione della Società delle Nazioni. Goebbels ha lo sguardo fisso sul fotografo Alfred Eisenstaedt, di origine tedesca, ebreo emigrato negli Stati Uniti sull’onda del nazismo, qui in veste di inviato del settimanale Life. Abbiamo dubbi? Sguardo di odio.

In attualità, quello valutato come fotografia dell’anno 2011, nella cinquantaquattresima edizione del World Press Photo, è un ritratto straordinario. Ne è autrice Jodi Bieber, sudafricana basata a Londra. La World Press Photo of the Year 2011 (sul 2010) mostra una giovane afgana, la diciottenne Bibi Aisha, orrendamente sfregiata. Il ritratto fa parte di un reportage realizzato per il settimanale Time, che ne ha fatto la storia di copertina del numero del Primo agosto 2010 [a pagina 19]. Perché Bibi Aisha è così sfregiata? Per sfuggire dai maltrattamenti del marito, Bibi abbandona il tetto coniugale e si rifugia presso i genitori. E questo è un reato, per la giustizia talebana, che la raggiunge e condanna all’amputazione di naso e orecchie. A condanna eseguita, Bibi è soccorsa da alcuni volontari e, con l’aiuto dell’esercito statunitense, viene portata in America, dove oggi vive. La chirurgia plastica le ha ridonato quasi completamente i suoi bei lineamenti di giovane ragazza [ancora a pagina 19]. La fotografia di Bibi Aisha è anche al primo posto nella categoria Portraits Singles. Nel corso di precedenti edizioni del World Press Photo, Jodi Bieber, che non è rappresentata da un’agenzia fotografica ma dall’Institute of Artist Management e dalla Goodman Gallery, è già stata segnalata otto volte: nel 2004, secondo premio Contemporary Issues Stories; nel 2001, primo premio Portraits Singles; nel 2000, primo premio Daily

CITIZEN JOURNALISTS (LORO MALGRADO)

Condivisa, la decisione della giuria del World Press Photo 2011, sul 2010, di assegnare una menzione speciale a una serie di dodici immagini scattate a settecento metri di profondità da un minatore cileno, Edison Peña, rimasto imprigionato per sessantanove giorni con altri trentadue compagni in un rifugio di emergenza della miniera di San José: rifugio che aveva rischiato di diventare la loro tomba. Tutti ricordano il salvataggio dei minatori, uno degli esempi luminosi della storia dell’Uomo, avvenuto in ventisette ore, gli scorsi tredici e quattordici ottobre, dopo che una sonda speciale aveva finalmente raggiunto il rifugio. Durante quella prigionia, un giornalista, Dan McDougall, e un fotografo, Adam Patterson, hanno passato alcune settimane con la famiglia di Edison Peña. D’accordo con i dirigenti della miniera, sono riusciti a inviargli un paio di scarpe da ginnastica per mantenersi in forma e una piccola compatta, con la quale il minatore ha documentato la vita là sotto. Panos Picture, di Londra, distribuisce queste immagini. Uno dei membri della giuria, Abir Abdullah, ha dichiarato: «È il primo passo per arrivare a un riconoscimento delle testimonianze fotografiche dei citizen journalists in tutte quelle circostanze nelle quali, per qualunque motivo, i fotogiornalisti professionisti non hanno potuto essere presenti».

Life Stories e terzo premio People in the News Stories; nel 1998, primo premio Portraits Stories e secondo premio Sport Action Stories; nel 1997, primo premio Arts and Entertainment Singles e secondo premio Arts and Entertainment Stories. Come si nota dall’elenco dei premi, il ritratto è uno stile che le sta a cuore, nonostante le critiche in ambito giornalistico sul suo uso/abuso. I fatti le hanno dato ragione, perché è fuori di dubbio che il ritratto di Bibi Aisha, World Press Photo of the Year 2011 (sul 2010) sia una testimonianza giornalistica formidabile, che racconta sulla barbarie delle leggi all’interno di certe società molto di più delle classiche mille parole.

UNO SCARTO A LATO Perciò, celebro questo primo premio assoluto assegnato a un ritratto con uno spunto che nasce dalle lezioni preparate dal direttore, Maurizio Rebuzzini, per

20


21


LA NOSTRA COPERTINA

A testimonianza della puntuale attenzione che dedichiamo al fotogiornalismo (non solo a questo, ça va sans dire) riportiamo la copertina del nostro numero dello scorso aprile 2010, illustrata con una delle fotografie piÚ drammatiche del terremoto di Haiti: quella scattata da Olivier Laban-Mattei (Agence France-Presse), primo premio al World Press Photo 2011, nella categoria General News Stories. Ancora, a seguire, un approfondimento di Michele Smargiassi, dal suo blog Fotocrazia, del quattordici febbraio (riquadro a pagina 24).

22


Naba (Nuova Accademia di Belle Arti Milano, presso la Fondazione Forma), svolte da metà febbraio. Pensiamo a come la borghesia francese dell’Ottocento emerge dai ritratti in studio di Nadar. E pensiamo anche alla fondamentale testimonianza di André Adolphe Eugène Disdéri, l’inventore della carte-de-visite, con il suo lavoro reportagistico sui morti della comune di Parigi (1871). Ma anche alla celebre fotografia di August Sander, Giovani contadini, Westerwald 1914, soprattutto identificata come Tre contadini che vanno a ballare. Riporto dalle lezioni di Maurizio Rebuzzini: «La fotografia è al centro della narrazione: ritratto di uomini comuni, consegnati al futuro e immortalati in un proprio ultimo momento di innocenza, alle soglie della Grande Guerra». E ancora, in altro riferimento: «Assolutamente singolare è la raccolta di fotoritratti di guerriglieri talebani, recuperata dal reporter Thomas Dworzak dell’agenzia Magnum Photos in uno studio fotografico abbandonato di Kandahar, Afghanistan, quartier generale del teorico dell’integralismo Mullah Omar. [...] L’insieme dei ritratti rivela l’immagine che i guerriglieri avevano di sé e avrebbero voluto esternare, indipendentemente dalle oscurantiste imposizioni religiose dei propri capi. I contesti sono sconcertanti; a parte l’immancabile presenza di armi, soprattutto il famigerato Kalashnikov, le vistose colorazioni artificiose danno risalto ai fondi di alpi svizzere, con tanto di imman-

cabili chalet, e alle tinte grigie e marroni ufficialmente proibite. Soli o in coppia, sono assassini fuggiti di fronte all’avanzata del nemico, lasciando una irragionevole annotazione della propria presenza. Che, appunto, diventa consistente materia di reportage, raccolto anche nel volume Taliban [Trolley Books, 2003; 65 fotografie; 128 pagine 15x20cm, cartonato; 25,00 euro], dopo essere stato pubblicato da The New Yorker, il 28 gennaio 2002». Tornando al World Press Photo 2011, riferendosi al ritratto vincitore, realizzato da Jodi Bieber, anche a nome degli altri giurati, il presidente della giuria David Burnett ha dichiarato: «Questa potrebbe diventare una di quelle immagini delle quali si parla dicendo “ti ricordi quella fotografia... di quella ragazza...”, e tu sai esattamente a quale ci si sta riferendo».

ITALIANI AL WPP 2011 Questa recente edizione 2011 del World Press Photo, per fotografie scattate nel 2010, è stata (giustamente) generosa anche con i fotogiornalisti italiani. Otto premiati: Riccardo Venturi, Massimo Berruti, Marco Di Lauro, Ivo Saglietti, Davide Monteleone, Fabio Cuttica, Daniele Tamagni e Stefano Unterthiner. Nel dettaglio. Riccardo Venturi (Agenzia Contrasto), Incendio all’Old Iron Market, Port-au-Prince, Haiti, 18 gennaio: primo premio General News Singles [a pagina 21]. (continua a pagina 26)

Primo premio People in the News Stories: Daniel Berehulak, Australia, Getty Images. Inondazioni in Pakistan; Dadu, 13 settembre. (pagina accanto) Primo premio Spot News Singles: Péter Lakatos, Ungheria, MTI. Salto suicida; Budapest, 22 maggio. Secondo premio Spot News Stories: Corentin Fohlen, Francia, Fedephoto. Rivolte anti governative; Bangkok. Primo premio Contemporary Issues Stories: Ed Ou, Canada, per Getty Images. Fuga dalla Somalia: quattro rifugiati somali in rotta verso lo Yemen; 15 marzo. Secondo premio Portraits Singles: Joost van den Broek, Olanda, de Volkskrant. Kirill Lewerski, cadetto sul veliero russo Kruzenshtern. Secondo premio Portraits Stories: Wolfram Hahn, Germania. Autoritratto per un social network.

23


LONTANO DAGLI OCCHI

Non avevo intenzione quest’anno di commentare il verdetto del World Press Photo Award. Non amo i premi per ragioni che ho già esposto, raramente condivido i criteri delle giurie del WPP, che privilegiano certe qualità “atletiche” e sovracodificate delle immagini, e la mistica dell’istante (ma non l’anno scorso, quando vinse il reportage di Masturzo sull’Iran). Ho cambiato idea leggendo l’attacco mosso da alcune parti, in particolare dal blog Puntodisvista, non tanto colpito dai giudizi espressi sul premio in generale, che in parte mi trovano d’accordo, quanto dal genere di accuse (anche queste abbastanza ripetitive) mosse alle fotografie vincitrici. Si scopre, quarant’anni dopo il famoso articolo di Barthes sulle fotografie-choc, dopo il lunghissimo dibattito internazionale sul libro di Sontag Davanti al dolore degli altri, che le fotografie hanno un rapporto problematico con le emozioni e il dolore estremo, e che questo dilemma non è ancora stato risolto in modo soddisfacente. Mi soffermo sulla fotografia più investita dallo sdegno moralista e inevitabilmente censorio: quella di Olivier Laban-Mattei dell’agenzia Afp, scattata ad Haiti nell’immediato dopo-terremoto, vincitrice del primo premio nella categoria Stories. Una fotografia molto difficile da guardare e da sopportare: mostra un uomo in tuta bianca e guanti di lattice (un soccorritore?) che in un cortile getta il corpo tumefatto di un bambino su un mucchio di cadaveri. Un’immagine che il mio amico Maurizio Rebuzzini aveva già avuto il coraggio di mettere in copertina della sua eccellente rivista FOTOgraphia nell’aprile del 2010, spiegando il perché. Io sono con lui. Commentando il blog di cui sopra, ho detto che il dovere del fotoreporter è di fotografare. Mi è stato risposto che la mia era un’osservazione “spaventosamente cinica”. Allora ho deciso di riflettere un po’, e di raccogliere qui alcune osservazioni già sottoposte a quella discussione. Perché mai quella frase dovrebbe essere più cinica di questa: “il dovere di un fornaio è fare il pane”? Dal fornaio mi aspetto pane fragrante, o almeno commestibile, nutriente, fatto senza segatura o veleno per topi; ma mi aspetto pane, non aria. Fuor di metafora: il dovere del fotografo è fotografare (come il mio, che sono giornalista, è di scrivere) perché è il mestiere che si è scelto, è quello che pensa di saper fare, e fotografare è l’oggetto del patto che ha stretto con la comunità, che chiamerei (per paragone con quello di Ippocrate) il “giuramento di Daguerre”: io vi farò vedere. E non c’è scritto da nessuna parte che quel dovere si fermi davanti all’orrore, per non disturbare qualche coscienza (occidentale) all’ora di pranzo. Un fotografo che non sente quel dovere primario ma risponde ad altri doveri, convenienze ed opportunità non è un fotografo, fa un altro mestiere, forse il propagandista politico, o forse il pubblicitario. Come confezionare il suo pane, cosa e come fotografare, che rapporto

Primo premio General News Stories: Olivier Laban-Mattei, Francia, Agence France-Presse. Dopo terremoto ad Haiti: un soccorritore getta il cadavere di un bambino nell’obitorio dell’ospedale generale; Port-au-Prince, 15 gennaio.

24

avere con gli esseri umani coinvolti dal suo lavoro, è naturalmente una scelta di cui il fotografo risponde alla sua etica, alla sua coscienza civile e politica, alla sua deontologia professionale. Essendo impossibile, e inutile, fotografare tutto, la scelta di premere o meno il pulsante fa parte del suo dovere. Non esiste invece alcun dovere imposto dall’esterno di non fotografare. Ci sono a volte ottimi motivi per non fotografare qualcuno o qualcosa, se si ritiene quella fotografia inutile, insufficiente, inadeguata, o se l’atto stesso del fotografare diventa un atto aggressivo. Ma un fotografo che di fronte a un evento di cui si è impegnato ad essere il testimone abbassa la fotocamera e decide di accecarsi e accecare i suoi lettori futuri solo perché così comanda il bon-ton dello sguardo (occidentale) mascherato da pietà, si erge a giudice unico e abbandona il ruolo di testimone che si è liberamente assunto: lasciare delle tracce, delle impronte, degli indizi della e sulla realtà che il mondo dovrà giudicare. Un fotografo che abbassi la fotocamera davanti a una situazione con la cui drammaticità non riesce a fare i conti è un fotografo sconfitto dalla propria inadeguatezza. Ci si può sentire sicuramente inadeguati in mezzo a certi eventi drammatici: ma questa condizione dovrebbe semmai imporre al fotografo l’umile faticoso dovere di fotografare comunque. Sapete cosa scrisse Margaret Bourke-White di fronte allo scenario insostenibile dei cadaveri di Buchenwald, per imporsi di fare il suo dovere scavalcando l’orrore? «Registrare adesso, riflettere poi: la Storia giudicherà». Parole di grandissima umiltà deontologica (pronunciate tra l’altro da una fotografa tutt’altro che umile). Avrebbe fatto meglio a non fotografare? Chi le avrebbe consigliato questo, se fosse stato lì? Chi la rimprovera oggi di non averlo fatto? Preferiremmo forse che l’umanità non possedesse tracce visive dell’orrore dei lager? Che il processo di Norimberga non ne avesse avute? “La Storia giudicherà”, questo è quello che anche io penso. Non è uno scarico di responsabilità del fotografo: è al contrario la sua piena e consapevole assunzione di un ruolo preciso nella comunità. Il fotografo è un testimone debole, offre indizi prelevati sul luogo del delitto, prelevati con accuratezza ma spesso senza sapere bene che cosa significhino, cosa debbano o possano dimostrare; li consegna in buste trasparenti, li porge al giudice collettivo, che è la comunità civile, perché ne faccia il miglior uso possibile: cioè risponda alle domande che quella fotografia pone, impone, obbliga ad ascoltare, e agisca in qualche modo (oppure non faccia nessun uso di quella fotografia, la chiuda in un archivio perché sia vista solo dai posteri: anche questo può essere l’esito, ma solo quando la fotografia comunque esiste). Non è garantito che il meglio accada: nel conflitto sociale ci sono anche il profitto, la convenienza di parte, il potere, ogni fotografia può essere mercificata,


corrotta, falsificata; ma ci sono anche le ragioni della democrazia, dello spirito critico, della coscienza civile. Rinunciare in partenza per paura del rischio è perdere in partenza. La fotografia più mendace, ho scritto in un libro, è quella che non è stata scattata per paura e autocensura. La fotografia di Laban-Mattei, che qualcuno avrebbe voluto accecare, fa parte di quelle fotografie “deboli” (sì, deboli di senso, a dispetto della forza devastante di quel che sembra mostrare). Debole come tutte le fotografie sono: perché non danno risposte, ma fanno domande. Tremende. Necessarie. Domande come queste: cosa è successo davvero alle vittime del terremoto di Haiti? Come si è fatto fronte a quelle montagne di cadaveri? La mostruosa dimensione dell’orrore ha forse ottuso il senso della pietà nei soccorritori? O ha creato un’etica d’eccezione a noi incomprensibile? Quell’uomo è un cinico o è una vittima a propria volta? Stiamo vedendo un oltraggio alla dignità o un atto di paradossale estrema pietà? C’è una fotografia che fa al caso nostro. È famosa. Eccovela qui di fianco [qui sotto]. È una fotografia dei Lager che, come tante, fu usata male, non per propria colpa. Presa a Bergen-Belsen, mostra un bulldozer che spinge via un misero mucchio di membra umane nude. È una fotografia che facciamo fatica a guardare, ancora oggi. Per decenni fu chiamata a rappresentare l’orrore dell’assassinio su scala industriale, e la riduzione del corpo umano a rifiuto. Poi lo spirito critico di uno storico francese, Clément Chéroux, appurò che era stata presa da un ufficiale britannico, così come britannico è il militare alla guida del mezzo che fu costretto a utilizzare per seppellire in fretta una massa di corpi in putrefazione da cui rischiava di sprigionarsi un contagio mortale per i debolissimi superstiti ancora presenti nel campo. Un’opera di pietà umana concreta, dolorosa, necessaria, che ebbe un testimone, un fotografo. Non doveva averlo? Bisognava chiudere gli occhi in nome della “dignità umana”? Rinunciando a un documento terrificante e insostituibile della storia? Io temo che tanti invochino il rispetto della dignità altrui solo per difendere la propria fragilità umana dal peso insopportabile della realtà. “Non lo voglio vedere, non fatemelo vedere” è lo strillo delle signorine di buona famiglia che temono di farsi andare il gamberetto di traverso. Il mondo è tremendo? Sì ma non ditecelo all’ora di cena. Laban-Mattei avrà gioito per la vittoria al WPP, come gli si rimprovera per screditarne il lavoro? Non mi interessa e non mi scandalizza. Anche i chirurghi di Medici senza frontiere credo siano orgogliosi del proprio lavoro, benché fatto in mezzo alla disperazione. Avrà scattato pensando “con questa vinco il WPP”? Mi pare un processo alle intenzioni. A me interessa quel che mi racconta quella fotografia, anche a dispetto delle intenzioni di chi l’ha scattata (le fotografie di Abu Ghraib furono scattate da individui orribili, ma mi interessano

e sarebbe una censura intollerabile non averle mostrate al mondo). Mi interessa la sua utilità, la sua necessità. Non so cosa si intenda per “foto spettacolare”, io in quella fotografia di Haiti vedo un’immagine con l’orizzonte a livello medio, in campo medio, che cioè rinuncia agli effetti speciali e si “banalizza” perché la forma non sovrasti la sostanza. Chi poi trovasse addirittura “estetizzante” una fotografia come questa, penso che abbia qualche serio problema. Bene, se Laban-Mattei avesse abbassato la fotocamera di fronte a quella scena che probabilmente lui stesso faticò a razionalizzare, ora saremmo tutti più tranquilli, rassicurati, nel caldo della nostra sicurezza. Un po’ più ipocriti e disinformati. Perché quel gesto tremendo è avvenuto ugualmente: fa parte della realtà del terremoto di Haiti che dobbiamo conoscere per non credere alle favole. Senza quella fotografia, tutte le altre, quelle “umanitarie” con i medici pietosi al lavoro diventano parziali, e quindi ipocrite, falsamente rassicuranti. Ma queste fotografie rassicuranti invece vengono autorizzate, perché non destabilizzano nessuno (ma perché non sono “colonialisti”, per i rivoluzionari da blog, anche i fotografi embedded delle Ong occidentali? Non sono mediatizzate anche quelle fotografie, sul mercato dell’Occidente? Non cercano il successo professionale anche quei fotografi? La scusa della “mercificazione” vale per censurare alcune foto ma non per altre?). Le vittime, più spesso di quanto non si pensi, vogliono essere viste: hanno una volontà (anche se per i moralisti che si autonominano loro avvocati sono solo oggetti), conoscono il potere e le insidie della fotografia e scelgono di rischiare, come racconta Ariella Azoulay a proposito dei palestinesi in un bel libro che si chiama non per niente Il contratto civile della fotografia. La dignità di quei poveri corpi haitiani è stata violata comunque, con o senza la fotografia, e non dal fotografo. Da chi? Perché quel gesto tremendo? C’è una verità più profonda di quella che si vede (magari simile a quella della fotografia di Bergen-Belsen?) Ci sono colpe, responsabilità umane? Poteva andare diversamente? Siamo anche noi in parte responsabili di quello che stiamo vedendo? Quella scena urla al mondo la sua intrattabilità, la sua apparente irrazionalità, grida domande invocando a gran voce risposte. Il mondo può decidere di cercarle, o auto-accecarsi. È una scelta. Ma non tiriamo in ballo la dignità delle vittime, per favore, siamo sinceri: piuttosto, la tranquillità di noi garantiti, mascherata da rivoluzionario sdegno contro i fotografi “protagonisti” e “al servizio dell’industria della comunicazione” e “colonialisti” e “sfruttatori della miseria” (ma solo quando ci vengono a disturbare). Michele Smargiassi (da Fotocrazia, 14 febbraio 2011, in http://smargiassi-michele. blogautore.repubblica.it/2011/02/14/lontano-dagli-occhi/)

Un bulldozer spinge i corpi in una fossa; Bergen-Belsen, 17-20 aprile 1945 (fotografia del tenente colonnello Martin Wilson; Imperial War Museum [da Memoria dei Campi; Contrasto, 2001]).

25


Secondo premio Arts and Entertainment Stories: Daniele Tamagni, Italia. Lucha Libre (wrestling boliviano) è uno degli sport più popolari del paese. Le donne sono lottatrici note come cholitas e, negli ultimi dieci anni, hanno contribuito alla popolarità di questo sport. Qui, Carmen Rosa e Yulia la Pacena si esibiscono in uno spettacolo di beneficenza per raccogliere fondi per i bagni di una scuola di La Paz,; Bolivia, 26 giugno. Primo premio Daily Life Stories: Martin Roemers, Olanda, Panos Pictures. Metropolis.

26

(continua da pagina 23) Massimo Berruti (Agence Vu), Assassinii mirati, Karachi, Pakistan: secondo premio General News Stories. Marco Di Lauro (Getty Images), Emergenza alimentare in Niger, luglio: primo premio Contemporary Issues Singles. Ivo Saglietti (Prospekt), Parenti al Potocari Memorial, Srebrenica, Bosnia, 11 luglio: terzo premio Contemporary Issues Singles. Davide Monteleone (Agenzia Contrasto), Settimana della moda a Milano: secondo premio Arts And Entertainment Singles. Fabio Cuttica (Agenzia Contrasto), Fabian Lopez sul set del film El Baleado 2, Messico: terzo premio Arts And Entertainment Singles. Daniele Tamagni, Lucha Libre (wrestling femminile), Bolivia: secondo premio Arts And Entertainment Stories [qui sopra]. Stefano Unterthiner, Cigni selvatici all’alba [FOTOgraphia, febbraio 2011]: secondo premio Nature Stories [a pagina 21]. Come tutti gli anni, le fotografie premiate vengono esposte in mostre internazionali; in Italia, con il titolo World Press Photo. Fotografia e giornalismo: le immagini premiate nel 2011: in sostanziale simultanea, al Museo di Roma in Trastevere, dal ven-

totto aprile al ventidue maggio, e alla Galleria Carla Sozzani, di Milano, dal cinque al ventinove maggio. L’edizione italiana del catalogo della mostra è pubblicata da Contrasto Libri. Sul sito di World Press Photo, www.worldpressphoto.org, si trova una presentazione dell’edizione di quest’anno e una galleria dei lavori premiati. Infine, ricordiamo che Canon e il corriere Tnt sono gli sponsor ufficiali della manifestazione, che si avvale anche del sostegno della Lotteria Olandese dei Codici Postali. ❖



QUEI QUATTRO

COLORI Rievocazione ragionata, oltre che motivata (eccome!), di una serie di considerazioni a tema che dieci anni fa composero l’ossatura di un numero particolare di FOTOgraphia, rivelatore di condizioni di stampa litografica a quattro colori: giallo, magenta, cyan e nero. Ancora di attualità , ancora spendibili nella pratica fotografica quotidiana, come anche finalizzabili a quella competenza complessiva che compone il prezioso bagaglio delle proprie esperienze individuali, queste riflessioni, osservazioni e indicazioni (ora riproposte) siano intese quantomeno per due loro componenti fondamentali: per se stesse, anzitutto, e per il pensiero sul Tempo che scorre inevitabilmente 28


29


di Maurizio Rebuzzini

V

eloce. Forse, troppo veloce. Dopo una certa età (quale, poi?), il tempo scorre veloce. Si affronta soltanto il presente, magari rivolgendosi al futuro (non io), e il passato prossimo diventa presto remoto. Tutto è consueto, ma poi qualcosa, o qualcuno, arriva con i conti in mano. «Il tempo ci usura e ci stritola in ogni giorno che passa correndo, sembra quasi che ironico scruti e ci guardi irridendo» (da e con Francesco Guccini): quante estati sono passate, quante ne abbiamo fatte perdere (ad altri), illudendoci di credere speciali storie normali. Sono passati dieci anni esatti da un’edizione particolare di FOTOgraphia, che nel marzo 2001, appunto dieci anni fa (il tempo scorre veloce, forse troppo veloce), affrontò e sintetizzò la combinazione dei quattro colori di stampa litografica: giallo, magenta, cyan e nero. Non ci pensavo, non ho conteggiato il Tempo, non lo faccio mai! Poi, in questi giorni, per una curiosa circostanza, ho ripreso tra le mani quel numero della rivista, per controllare un dato, un riferimento. Da cui, l’evidenza dell’anniversario tondo, del decennale esatto. Da cui, ancora, il conteggio dei dieci anni trascorsi, con tutto quanto si sono portati appresso. Ecco, dunque, che corre l’obbligo tornare a quelle pagine, soprattutto alla luce di una avvincente coincidenza (prossimo aprile), che mi fa pensare alle edizioni particolari che abbiamo confezionato. A memoria: la celebrazione degli apparecchi fotografici “giocattolo”, nel settembre 1998, in avanguardia e anticipo rispetto le parole che altri hanno espresso dopo, parlandone (tanto, troppo?) fino ai nostri giorni; l’ipotesi della fine di tutto, in coincidenza con la fine di decennio-secolo-millennio, nel dicembre 1999 (Salviamo il salvabile, con annessi e connessi); le riflessioni sullo stato della fotografia, nel giugno e luglio 2002; la solenne celebrazione dei primi cinquanta anni di World Press Photo, nel febbraio 2006 [e, su questo stesso numero, da pagina 18, relazioniamo sull’attuale cinquntaquattresima edizione 2011, per fotografie scattate nel 2010] e qualcosa d’altro ancora. Lo ricordo bene, in anticipo sul prossimo PhotoShow 2011 (a Milano, dal venticinque al ventotto marzo), nella cui occasione di incontro e confronto realizzeremo ancora un’edizione particolare di FOTOgraphia (ne dovremo parlare): per quel lontano PhotoShow 2001, oltre la rivista standard, confezionammo altri quattro fascicoli da omaggiare a chi ci veniva a trovare: ognuno in uno solo dei quattro colori di stampa litografica. Dunque, con coraggio e ardimento, quattro copie supplementari: solo giallo, solo magenta, solo cyan e solo nero. Ora, in sequenza redazionale serrata, riprendiamo e riproponiamo la serie di considerazioni a tema che dieci anni fa composero l’ossatura di quel numero particolare di FOTO graphia, rivelatore di condizioni di stampa litografica a quattro colori. Sono rilevazioni ancora di attualità (come se il tempo si fosse fermato, ma non è vero), ancora spendibili nella pratica fotografica quotidiana, come anche finalizzabili a quella competenza complessiva che compone il prezioso bagaglio delle proprie esperienze individuali. Sempre e comunque... irrinunciabili. ❖ A seguire: E colore sia!, tra utilità e qualità individuale (di Vita); Colori in teoria, opportune letture a tutto campo; I colori del bianco, esperienza antica, di immutata attualità (concettuale); I colori del Mondo, mostra a tema (quasi); Di tutti i colori!, un fumetto... a tema; Colori che hanno scritto la Storia, chiusura con la tavola cromatica Macbeth ColorChecker.

30




E COLORE SIA! Ancora oggi, come da decenni, pur con una trasformazione in gestione e lavorazione digitale, la stampa grafica del colore si basa sulla combinazione dei colori primari sottrattivi giallo, magenta e cyan (più nero). Per questo, gli originali fotografici in riproduzione vengono predisposti separando le rispettive componenti. Semplifichiamo le considerazioni, per visualizzare il concetto di stampa grafica a quattro colori. Ma non parliamo soltanto di questo (in forma utilitaristica, spendibile subito), per riflettere sulla Qualità e la Vita. Come spesso diciamo, e ora una volta di più, mai una di troppo: la qualità individuale della vita cambia noi e il nostro lavoro, ma cambia anche gli altri. Perché la qualità individuale è come un’onda. Inarrestabile 33


di Antonio Bordoni e Angelo Galantini

R

ipetiamolo: oggi è un tempo nel quale la stampa litografica ha messo convenientemente a frutto le possibilità operative offerte dalla tecnologia digitale. Soprattutto, e oltre tanto altro, si consideri che, a differenza dei tempi ormai trapassati, si arriva alla stampa offset (e altre) evitando le pellicole di selezione, con passaggio diretto di file digitali, che consentono la preparazione delle lastre offset. Nonostante questa evoluzione maturata nell’ultimo decennio, dopo il marzo 2001 di nostro riferimento odierno, nell’industria grafica, si considera originale di lavorazione tutto quanto viene riprodotto per essere successivamente stampato con procedimenti litografici, offset o rotocalco (semplificando al minimo necessario) in base alla tiratura: offset fino a certe quantità, rotocalco per quantità significativamente superiori. Per quanto ci riguarda, la professione in fotografia prevede la riproduzione litografica, ovvero l’attuale acquisizione con scanner, da originali altrettanto fotografici. Oggigiorno, sono originali anche i file digitali ottenuti per esposizione diretta o per acquisizione in proprio da supporti fotografici tradizionali, trasmessi al laboratorio di fotolitografia per l’adeguata trasformazione ad uso della stampa grafica, oppure lavorati in proprio con i programmi di gestione e/o impaginazione. In ogni caso, e in assoluto: pur in assenza delle precedenti pellicole di quadricromia (giallo, magenta, cyan e nero), e pur nella comunicazione virtuale diretta, da file di impaginazione a lastra, senza intermediazione di impianti litografici, i princìpi rimangono inviolati. Ciò che conta, e che puntualizziamo, è che non si tratta tanto di progressioni tecnologiche, inevitabili e auspicabili, quanto di comprensione filosofica dell’essenza: ogni attività manuale o intellettuale di gestione degli originali è una produzione, che deve essere cosciente e convinta. Come abbiamo già annotato, il vero male della tecnologia non sono tanto i prodotti in sé, quanto la tendenza che la stessa tecnologia ha di isolare la gente, di abituarla ad atteggiamenti di indifferenza al mondo, ai rapporti tra le persone e alla consapevolezza professionale individuale. Per contrasto, e reazione, qualsiasi lavoro si svolga, se, quando e per quanto si trasforma in arte ciò che si sta facendo, con ogni probabilità si arriverà a scoprire di essere divenuti per gli altri persona interessante e non oggetto (o soggetto passivo). Questo perché le decisioni prese e manifestate tenendo conto della Vita (della qualità individuale della vita) cambiano ciascuno di noi! Meglio: non soltanto cambiano noi e il nostro lavoro, ma cambiano anche gli altri: perché la qualità individuale è come un’onda. Il lavoro di Qualità, che si pensava nessuno avrebbe notato, viene notato, eccome; e chi lo riesce a vedere si sente un pochino meglio: certamente trasferirà negli altri questa sua sensazione, e in questo modo la qualità continuerà a diffondersi.

LAVORAZIONE DEGLI ORIGINALI La riproduzione grafica è sempre una copia dell’originale, ovvero una trasposizione in mezzi tecnici di stampa conformi all’immagine di partenza e alle esigenze della sua stampa grafica in tiratura. Indipendentemente dal dettaglio di questa trasformazione, in relazione alle condizioni richieste per la moltiplicazione con processi di stampa adatti, nel linguaggio tecnico si parla di “mezzatinta”. Questa identificazione individua e dà ragione alla stampa grafica, che passa gradual-

34


35

FOTOGRAFIA DI IRVING PENN

PER

VERSACE (DA FOTOGRAPHIA,

LUGLIO

1998)



mente dalle ombre alla luce con mezzi toni intermedi. Essenzialmente, le fasi di lavorazione sono oggettivamente immutate da decenni, anche se l’evoluzione tecnologica dei mezzi ha drasticamente e radicalmente stravolto le singole operazioni, non più condotte né a mano né con passaggi successivi tra pellicole litografiche. Oggi, tutte le lavorazioni sono controllate ed eseguite in modo asciutto dal monitor di computer provvisti di opportuni software di gestione e manipolazione delle immagini. ❯ Acquisizione a scanner da originali fotografici analogici (stampe su carta, negativi o diapositive). ❯ Dai file diretti o da quelli acquisiti a scanner, gestione dei colori nelle proprie tonalità ottimali, ritocco delle eventuali imperfezioni (oggi gestione al computer, senza produzione di alcuna pellicola intermedia). ❯ Prova di stampa e correzioni cromatiche delle singole immagini (oggi valutabile direttamente dal monitor, piuttosto che da copie colore preventive). ❯ Preparazione delle lastre, in relazione ai rispettivi sistemi di stampa grafica. L’attuale sistema di lavorazione a computer ha azzerato i materiali intermedi, ha semplificato l’intera gestione e consente interventi correttivi in ogni fase. Per non parlare di una qualità finale decisamente superiore... a patto di saper lavorare e non credere che basti la proprietà dei mezzi di produzione. Serve ancora la capacità di usarli. La questione è sempre la stessa: dalla ripresa alla postproduzione, dalla fotografia in quanto tale alla sua trasformazione grafica, i professionisti possessori, oltreché di attrezzature, anche delle cognizioni necessarie per adoperarli bene e al meglio, sono fatalmente avvantaggiati. Sapersi muovere con sicurezza tra le condizioni generali del lavoro e le applicazioni particolari è un dovere professionale e un diritto personale.

SOVRAPPOSIZIONE SOTTRATTIVA La stampa grafica del colore si basa sulla sovrapposizione controllata dei colori primari sottrattivi giallo, magenta e cyan, ai quali si aggiunge un quarto passaggio di nero per l’adeguato contrasto, la plasticità del disegno e la resa delle ombre (diciamola così). Per separare i colori originari nei tre colori primari sottrattivi giallo, magenta e cyan, gli attuali software ripetono automaticamente le procedure della selezione dei colori mediante adeguati filtri complementari in dotazione con le reprocamere del passato. Alla fine, i file virtualmente scomposti nei quattro colori di stampa grafica servono a gestire le inchiostrazioni in modo che in sovrapposizione si ottengano le colorazioni desiderate, fedeli all’originale. Il princìpio è noto: la sovrapposizione di due colori primari sottrattivi crea l’intonazione complementare. Ovvero: il rosso (come noi l’intendiamo) nasce dalla combinazione di giallo più magenta; invece, giallo più cyan formano il verde; e magenta più cyan danno vita al blu. Calibrando le singole percentuali, si ottengono le intonazioni intermedie, le adeguate sfumature cromatiche. Per arrivare ai risultati migliori, un tempo serviva un buon cromista, che sapeva ritoccare i negativi e le pellicole positive là dove i procedimenti meccanici non erano riusciti a “pescare” in modo adeguato i passaggi tonali graduati. Oggi, non è molto diverso; agendo con un software finalizzato alla selezione fotolitografica serve anche un operatore dotato di eccellente sensibilità alla natura e combinazione del colore. ❖

37


Soprattutto oggi, in un tempo nel quale il fotografo è tornato alla figura delle origini (pre Box Kodak, dal 1888), e deve possedere le capacità di gestire tecnicamente le proprie immagini, oltre la creatività della loro ideazione, si dovrebbero conoscere quei sacri testi sui quali si sono formate generazioni e generazioni di professionisti della selezione grafica a colori di Maurizio Rebuzzini Arte del colore, di Johannes Itten; Il Saggiatore, 1965 ed edizioni successive; 158 pagine 30x29,5cm, cartonato con sovraccoperta; 95,00 euro. Arte del colore Edizione ridotta; 96 pagine 20,5x20,5cm, cartonato; 22,00 euro.

Atlante cromatico; a cura di Fulco Douglas Scotti; Nicola Zanichelli Editore, 1989 ed edizioni successive; 240 pagine 17x24cm; 79,50 euro.

E

sauriti i tempi della specializzazione, da tempo la nostra società ha imboccato la via della generalizzazione: in assoluto, come nello specifico delle singole professioni. In questo senso anche la stampa grafica ha subìto le ingiurie del tempo. Per quanto l’autentica stampa grafica in tiratura richieda ancora oggi macchinari (appunto da stampa) economicamente impegnativi, fisicamente ingombranti e, tutto sommato, professionalmente selettivi, le lavorazioni infrastrutturali sono sfuggite dalle mani dei professionisti originari. Non si tratta tanto di un processo di sostanziale democratizzazione, come pure è, ma di una involuzione verso l’approssimazione. Peccato! La diffusione di beni strumentali economicamente accessibili ha presto eliminato figure professionali un tempo discriminanti: a partire dal fotocompositore (co-

lui il quale digitava i testi), per finire alla selezione fotolitografica (pure compromessa dagli scanner da pochi soldi, che poco hanno in comune con le unità professionali, ma producono una lavorazione superficialmente analoga). Dove sta la differenza tra il professionista e il parvenu dell’ultima ora? Non certo nella proprietà dei beni strumentali, quanto nella capacità di usarli. Così, diffondendosi l’uso del computer prêt-àporter, oggigiorno subiamo composizioni di testi quantomeno improbabili, stilisticamente fantasiose e graficamente improvvisate: a partire, orrore!, dalle composizioni con allineamento a bandiera e sillabazione (!: i proto dei decenni passati si sarebbero rifiutati). Lo stesso sta succedendo per quanto riguarda la competenza colorimetrica, che evidentemente manca a chi crede che il solo Macintosh basti e avanzi per la qualifica professionale. Invece, si dovrebbe tornare a consultare -non dico studiare- quei sacri testi sui quali si sono formate generazioni di professionisti della selezione grafica a colori. Conoscendo personalmente i cromisti di una volta, figure professionali di talento magistrale, sappiamo di cosa stiamo parlando. In fretta, segnaliamo una serie di titoli fondamentali, per il più proficuo orientamento nel mondo del colore di riproduzione grafica (ma non soltanto). Anzitutto, annotiamo che da decenni l’editore bolognese Zanichelli ha in catalogo un efficace Atlante cromatico, volume in confezione libraria di facile consultazione ereditato da analoghi prontuari colorimetrici che da tempo sono diffusi nel mondo delle arti grafiche. L’Atlante cromatico di Zanichelli è esattamente ciò che afferma di essere e serve per meglio orientarsi nella composizione grafica dei colori di stampa, che -come già annotato- si basa sulla combinazione dei colori primari sottrattivi giallo, magenta e cyan (più nero). Manuale per la ricerca rapida delle tinte che si possono ottenere con le combinazioni dei quattro colori fondamentali della stampa grafica, è sapientemente organizzato per tavole colorimetriche conseguenti: tavole a un colore, a

COLORE 38

IN TEORIA


due colori, a tre colori e, infine, a quattro colori. Concretamente teorico, e assolutamente fondamentale, è poi l’Arte del colore, di Johannes Itten, direttore e docente alla Kunstgewerbeschule di Zurigo, la celeberrima scuola di arti e mestieri che ha raccolto l’eredità dell’esperienza originaria del Bauhaus, di Weimar, dove lo stesso Itten (1888-1967) cominciò la propria esperienza didattica con corsi per pittori, grafici, architetti e fotografi. Pubblicata da Il Saggiatore, con edizioni successive dall’originaria italiana del 1965, l’Arte del colore riunisce la sostanza delle conoscenze di un autentico maestro della colorimetria. Oltre la sua edizione completa, è disponibile anche una pratica Edizione ridotta, pubblicata con analoga cura formale, che può essere considerata come un opportuno sunto orientativo. Da qui in poi, consigliamo di diffidare dalle pubblicazioni approssimative, che possono soltanto confondere le idee. In tanta confusione di titoli, garantiamo personalmente per una identificata serie di saggi a tema. ❯ Osservazioni sui colori (Una grammatica del vedere), di Ludwig Wittgenstein; Giulio Einaudi Editore; 142 pagine 12x20cm; 16,00 euro. ❯ Le armonie del colore, di Augusto Garau; Feltrinelli; 108 pagine 20,5x20,5cm; 23,00 euro. ❯ Storia dei colori, di Manlio Brusatin; Giulio Einaudi Editore; 148 pagine 10,5x18cm; 14,00 euro. ❯ La sfera del colore (e altri scritti sull’“arte nuova”), di Philipp Otto Runge; Abscondita, 2008; 186 pagine 13x22cm; 22,00 euro [Il Saggiatore, 1985; 200 pagine 14,5x20,5cm]. ❯ Le Scienze - La visione dei colori ; numero 115, del marzo 1978; monografia comprensiva di un dotto intervento di Edwin H. Land, inventore della fotografia a sviluppo immediato e fondatore della Polaroid Corporation: La nuova teoria della visione dei colori.

MA, SOPRA TUTTO, GOETHE Scrittore tedesco, appartenente a una famiglia dell’alta borghesia, Johann Wolfgang von Goethe (1749-1832) si è occupato delle scienze naturali e dell’arte per passione personale, che oggi definiremmo da “dilettante”. Però, così dicendo, non daremmo giusto peso e significato a un periodo storico nel quale l’idea Illuminista faceva nascere nuove figure di maestri del pensiero: vivaci e accattivanti personalità di indole liberale, nemiche di dogmi e pregiudizi, amanti delle letture istruttive e istruite, aperte a ogni esperienza e a tutti gli incontri, curiose della vita. In questo senso, anche Goethe (del Faust e dei Dolori del giovane Werther ) fu rispettoso della scienza e dell’arte, fino al punto di non volerle vedere compromesse con la contingenza dell’utile e del profitto. A parte le considerazioni specifiche, che riguardano l’odierna passerella (replicata) sulle componenti del colore (di stampa grafica, ma non soltanto), il suo saggio La teoria dei colori rivela appunto pure questa condizione, che do-

vrebbe appartenere anche alla nostra vita, sia personale sia professionale. Trasponendo magari scienza con tecnica (sinonimo con scarto di significato), dovremmo fare nostra l’idea della scienza/tecnica (appunto) costruttiva, non solo della cultura, ma dello spirito umano. Ovvero, dovremmo dare peso e misura alla positività della scienza, della tecnica e della cultura come agenti moderatori delle vertiginose, pericolose e disperanti cadute dell’ispirazione esistenziale. Soprattutto dal nostro punto di vista fotografico, in questo senso oggettivamente e soggettivamente privilegiato,

possiamo intendere la cultura come un diverso modo di conoscenza, anche concreta, per immagini e non per concetti, per filosofie e non per contingenze. Ma queste sono annotazioni parallele. Ciò che La teoria dei colori di Goethe dà è anche concretamente utilitaristico, appunto in riferimento alle conoscenze del colore e della sua percezione. Pur antico, e magari proprio per questo, il testo puntualizza come la conoscenza non sia frutto di illuminazioni improvvise, ma dipenda dalla pazienza e onestà della ricerca e della sperimentazione. Poi: come la metodologia fenomenologica sia dipendente dalle conoscenze e dall’esperienza. Infine: come l’assoluta soggettività del percepire non significhi necessariamente arbitrarietà. Infatti, l’indagine teorica di Goethe non è condotta sull’anatomia dell’occhio, che funziona come meccanismo di osservazione. Invece, siccome la natura-oggetto e la persona-soggetto sono realtà vive e in movimento, ciò che si deve cogliere è proprio la relazione tra i due ritmi di moto; Goethe considera il comportamento dell’occhio nell’insieme della percezione e mai, in nessun caso, come istantanea. La sua è dunque sempre un’analisi del processo della mente. Contenuto, non forma. E qui dovremmo agganciarci all’esperienza teorica di Vasilij Vasilevič Kandinskij: il processo della conoscenza è infinito, e apre sempre nuove affascinanti vie. A ciascuno, le proprie. ❖

La teoria dei colori, di Johann Wolfgang von Goethe; Il Saggiatore, 1979 ed edizioni successive; 286 pagine 14,5x20,5cm; 12,60 euro.

39


I COLORI DEL BIANCO La miscelazione dei colori dovrebbe essere nota a chi si occupa di fotografia. Dunque, non stupisca una (ormai antica, ma sempre attuale) curiosa applicazione del colore sovrapposto, finalizzato sia alla resa neutra sia alla controllata combinazione cromatica. Un esempio certamente datato, ne siamo consapevoli e coscienti, comunque capace di visualizzare un concetto basilare senza tempo. Anche in epoca di acquisizione digitale di immagini

40


di Antonio Bordoni

P

rima di trasferirsi negli Stati Uniti, dove lavora nella pubblicità e nella moda, lo svizzero Remo Mayer ha collaborato con un programma didattico di visualizzazione degli effetti visivi dell’illuminazione fotografica. In particolare, il suo gruppo di lavoro alla scuola d’arti e mestieri di Zurigo, la qualificata Kunstgewerbeschule nella quale si sono formati professionisti di grande fama (come l’italiano Oliviero Toscani), ha indagato le proprietà della luce flash e di quella al tungsteno, abbinate alle rispettive pellicole colore bilanciate per 5500 e 3200 kelvin nominali (con corrispondente riscontro odierno nell’acquisizione digitale di immagini, con relativi concetti di bilanciamento del bianco). Molte procedure sono state seriosamente scientifiche, altre allegramente disincantate e giocose. Oggettivamente giocosa, se così possiamo dire, è stata la visualizzazione pratica della sovrapposizione ragionata di luce colorata, che verso la metà degli anni Ottanta (tanto, tanto, tanto tempo fa) Remo Mayer ha realizzato per un incarico professionale: illustrazione della copertina di un

CD musicale, nel quale le proprietà di filtri colorati applicati a torce flash Balcar sono state interpretate con un certo disincanto tecnico. Il riferimento a pellicole chimiche a colori, rigorosamente finalizzate a una sola temperatura colore, nello specifico i circa 5500 kelvin della luce naturale e di quella flash, è straordinariamente esplicativa. Ancora oggi. Soprattutto oggi.

IL COLORE DELLA LUCE Come si sa, i colori nascono dalla mescolanza delle luci primarie, additive o sottrattive, che vengono riflesse da ciascuna superficie in funzione del proprio assorbimento. Non è il caso chiamare in causa le tante filosofie sulla soggettività della percezione visiva, che, per quanto riguarda il colore, è stata studiata e analizzata soprattutto da Johannes Itten (per anni docente alla già citata Kunstgewerbeschule, e autore di un testo assolutamente fondamentale: Arte del colore, pubblicato in Italia da Il Saggiatore; a pagina 38). In semplicità, ci basta annotare che la somma delle tre luci primarie additive rosso, verde e blu dà il bianco neutro e le sovrapposizioni parziali creano intensità cromatiche intermedie: rosso Un primo flash filtrato in rosso viene collocato a destra del punto di ripresa. Puntato direttamente sulla modella, produce una colorazione monocromatica, con un’ombra disegnata sul fondo, immediatamente dietro al soggetto.

Il secondo flash è colorato con un filtro blu primario additivo. Sistemato sopra l’apparecchio fotografico, miscela la luce che raggiunge la modella. Le due ombre autonome sono colorate nei toni del rosso e del blu, mentre l’illuminazione sul volto della modella risulta magenta (tonalità miscelata di rosso e blu).

Finale. Luce bianca. Il terzo flash è sistemato alla sinistra del punto di ripresa, sempre diretto sul soggetto. Monta un filtro verde primario, il cui cromatismo -miscelato con il rosso e il blu- rende neutra, ovverosia bianca, la luce sulla modella, e scompone le ombre attorno al volto nelle tonalità intermedie del giallo, magenta e cyan.

41


FINO AL BIANCO, MA ANCHE FINO AL NERO

La sovrapposizione dei colori è un princìpio applicato a molti campi della fotografia. Nella stampa chimica a colori si usano teste in sintesi sottrattiva con filtri giallo, magenta e cyan, che sono appunto i colori primari sottrattivi usati anche nella stampa litografica (come rivela concretamente l’odierna scomposizione di FOTOgraphia, che riprende quanto già riferito dieci anni fa). Sovrapposti a due a due danno il colore complementare comune a entrambi: giallo più magenta uguale rosso, giallo più cyan uguale verde, magenta più cyan uguale blu. Se tutti e tre i colori sono sovrapposti, assorbono tutta la luce e dunque si ha il nero. Le correzioni delle eventuali dominanti delle copie colore si basa sulla sottrazione di percentuali

della tinta in eccesso o su incrementi della tinta complementare. Invece, la sovrapposizione dei colori raccontata in questo articolo si basa sulla mescolanza additiva dei colori (analoga a quella RGB delle stampanti digitali dei nostri giorni). Proiettando a parete i tre colori primari additivi rosso, verde e blu si ottengono le rispettive colorazioni e le relative combinazioni. Dalla mescolanza di due colori primari additivi derivano i rispettivi complementari giallo (rosso più verde), magenta (rosso più blu) e cyan (verde più blu). I tre colori insieme danno il bianco: appunto sfruttato da Remo Mayer sul volto della ragazza, attorniata da ombre colorate in dipendenza delle diverse sovrapposizioni parziali di due colori.

Mescolanza additiva dei colori (RGB) Sovrapposti tra loro, i colori primari additivi rosso, verde e blu danno la luce bianca. Le sovrapposizioni di due colori creano l’intonazione complementare: rosso più verde uguale giallo; rosso più blu, magenta; verde più blu, cyan.

Mescolanza sottrattiva dei colori (CMYK) Sovrapposti tra loro, i colori primari sottrattivi giallo, magenta e cyan danno il nero. Le sovrapposizioni di due colori creano l’intonazione complementare: giallo più magenta uguale rosso; giallo più cyan, verde; magenta più cyan, blu.

più verde uguale giallo; rosso più blu uguale magenta; verde più blu uguale cyan. Ed è su questo princìpio che ha lavorato Remo Mayer. Analogamente, la somma delle tre luci primarie sottrattive giallo, magenta e cyan dà il nero. Le sovrapposizioni parziali di due colori creano l’intonazione complementare: giallo più magenta uguale rosso; giallo più cyan uguale verde; magenta più cyan uguale blu.

UN, DUE, TRE TEMPI Come rivela la sequenza delle illustrazioni che pubblichiamo, Remo Mayer ha controllato sistematicamente gli effetti colore progredendo con i cromatismi singoli della luce primaria additiva, a partire dalla luce flash filtrata in rosso. Per arrivare al risultato desiderato, un ritratto con illuminazione bianca contornato da sovrapposizioni di tonalità variate, ha appunto agito con tre punti luce filtrati nei tre colori primari additivi: fusione totale e parziale tra rosso, verde e blu. Una torcia lampo con gelatina rossa è stata sistemata a destra del punto di ripresa, puntata direttamente sulla modella, in posa davanti a un fondale bianco, tanto vicina da creare un’ombra

42

netta (a pagina 41). Con una filtratura così intensa, che non ha paragone con i delicati filtri di correzione cromatica o di bilanciamento, si ottiene un’immagine assolutamente monocromatica, appunto colorata tutta in rosso, con un’ombra decisa sul fondo, originariamente bianco, immediatamente dietro al soggetto (sempre a pagina 41). Secondo passo. In aggiunta al primo punto luce, una seconda torcia flash con gelatina blu, sistemata immediatamente sopra l’apparecchio fotografico e sempre diretta sul soggetto, miscela la luce che raggiunge la modella (ancora a pagina 41). Le ombre si colorano nei due rispettivi toni, mentre l’illuminazione sul volto della modella risulta magenta (tonalità appunto creata dalla sovrapposizione di rosso e blu). Una terza torcia flash monta una gelatina verde, che si aggiunge al rosso e al blu. Sistemato alla sinistra del punto di ripresa e diretto sul soggetto, il cromatismo verde rende neutra -ovverosia bianca- la luce sulla modella, appunto miscelata dalla sovrapposizione dei tre colori primari, e scompone le ombre attorno al volto in combinazioni variopinte di colori complementari (giallo, magenta e cyan).


Riassumendo: la sovrapposizione completa delle tre luci colorate nei primari additivi rosso, verde e blu, disposte attorno al punto di ripresa, crea una illuminazione bianca neutra. Mentre ogni singola luce dà una propria ombra colorata, così come la combinazione di due luci produce una tonalità intermedia: rosso più blu uguale magenta, rosso più verde uguale giallo, verde più blu uguale cyan.

COLORI IN PARATA

L’intensità delle ombre e gli effetti cromatici creati dai singoli punti luce filtrati in colore dipendono dalla distanza e inclinazione delle torce flash rispetto l’ipotetico asse principale tra il punto di ripresa e il soggetto inquadrato. Ovviamente, modificando la posizione dei flash, si ottengono ombre più allungate, oppure compresse. Agendo invece sul raggio della luce emessa dai flash si governano gli effetti cromatici sul fondo. In base alla composizione tra i tre colori primari additivi, che assieme danno la luce bianca, si producono ombre di colorazione diversa. Quando si miscelano la luce rossa e quella blu, si ottiene un’ombra magenta; quando si combinano il blu e il verde, si ottiene un’ombra cyan; e quando si sovrappongono rosso e verde, si crea un’ombra gialla. Per intenderci è l’effetto che si ottiene passando davanti al triplice fascio luminoso di quei proiettori tricromatici che una volta si usavano per videoproiezione. Immediatamente, si creano ombre e alterazioni cromatiche che dipendono dall’oscuramento di uno o più tubi luminosi. Nel caso del set fotografico, allestito con la modella davanti al fondo bianco, l’ampiezza del raggio di luce emesso dipende dal tipo di riflettore montato sulle torce flash (costruzione e diametro), e dalla regolazione della parabola di quelli portatili.

INQUADRATURA DEFINITIVA A partire da questi valori base, per lo svolgimento del proprio incarico professionale, Remo Mayer ha prima di tutto stabilito i confini della com-

posizione, e quindi studiato la sovrapposizione parziale dei fasci di luce. Da qui allo scatto definitivo sono quindi intervenuti tutti i dettagli e sono state valutate tutte le sfumature su cui si basa il linguaggio fotografico. Come sappiamo, la fotografia è quell’alchimia che è tecnica per quanto riguarda la propria esecuzione e creativa per ciò che concerne la propria anima. Dunque, gli accomodamenti, le correzioni, i ritocchi appartengono alla sensibilità personale. Sta al fotografo (tra)guardare nel mirino, sul display (o sul vetro smerigliato), studiare l’inquadratura, sia in sala di posa sia in esterni, nella fotografia di natura, di paesaggio o di reportage, per arrivare al risultato finale. Non si può codificare, quando e perché ciascuno di noi sente maturare la fotografia. Però tutti sappiamo riconoscere l’istante nel quale tutti gli elementi sono a posto e confluiscono nel risultato perfetto. Nel caso dell’allestimento scenico raccontato in questa occasione (iperdatato!), l’emozione del fotografo si è basata anche sull’apporto di contributi esterni, dalla posa della modella all’efficacia del trucco e degli elementi complementari. Alla fine, ecco che Remo Mayer ha ottenuto ciò che è andato cercando per il suo incarico professionale (in apertura, a pagina 40, e qui sopra): una colorazione fantasiosa e variegata. Questa combinazione di luci filtrate è certamente datata (non ci stanchiamo di ripeterlo): come rivela un certo gusto compositivo (tra)passato. Però è adeguata alle considerazioni sul colore. Senza tempo. ❖

43


IDEL COLORI MONDO -

? . º

˝

" 1

?

$ Ł ¯ + ?

@ 5

1 C

? ò

- ? ? ’ ´

Meraviglie d’autunno. In autunno, nel North Carolina, le foglie di un acero giapponese si tingono di rosso intenso (fotografia di Melissa Farlow, © National Geographic).

à ?

6

44

E

@

à

di Lello Piazza

R

osso: colore della terra, del fuoco, delle comunità, degli usi e costumi, delle donne, dei bambini, degli uomini; è il colore del cuore, del sangue, della passione. Verde: il mondo in tutte le proprie espressioni, come colore dell’oggi e del domani, il verde della speranza; è il colore della

natura, della vegetazione, dell’esistenza stessa. Bianco: l’immacolato dei luoghi colpiti dal riscaldamento globale, degli animali a rischio di sopravvivenza; è il colore dell’innocenza e della purezza. Azzurro: il colore dell’acqua e del cielo, dei mari e dei suoi “abitanti”; è il colore della gioia di esistere e della tranquillità. I colori del Mondo è una mostra organizzata da National Geographic Italia, a cura di Guglielmo


In volo. Un’ara giacinto nella regione brasiliana del Pantanal (fotografia di Joel Sartore, © National Geographic).

Pepe, allestita fino al Primo maggio al Palazzo delle Esposizioni, di Roma: novantacinque immagini, inedite nell’edizione italiana del magazine, declinate attraverso quattro colori, il rosso, il verde, il bianco e l’azzurro. «La mostra nasce dal desiderio di illustrare come i fotografi di National Geographic sono riusciti, e riescono, a interpretare la vita sul nostro pianeta facendone risaltare i colori -spiega

il curatore Guglielmo Pepe, editorialista di National Geographic Italia-. Attraverso i colori, capiamo come vivono donne, bambini, uomini in tanti paesi vicini e lontani da noi; qual è la condizione dell’esistenza per chi deve combattere contro fame, povertà, guerra, malattia; come gli animali riescono a resistere alle trasformazioni del proprio habitat; cosa succede all’ambiente sotto i colpi dei cambiamenti climatici. Ma vediamo anche la Terra nella propria unicità, le persone in momenti felici, le altre specie nelle proprie fantastica diversità, la natura e la sua straordinaria bellezza». Oltre a quattro fotografi italiani -Alessandro Gandolfi, Antonio Politano, Sandro Santioli e Stefano Unterthiner-, sono presenti altri quarantaquattro autori, scelti tra i fotografi più prestigiosi che pubblicano sul magazine: Sam Abell, Lynsey Addario, William Albert Allard, Stephen Alvarez, Ira Block, Robert Clark, Jodi Cobb, Bill Curtsinger, Peter Essick, Melissa Farlow, George Grall, David Alan Harvey, Chris Johns, Lynn Johnson, Ed Kashi, Karen Kasmauski, Tim Laman, Brian Lanker, Sarah Leen, Gerd Ludwig, Pascal Maitre, Manoocher, Steve McCurry, James Nachtwey, Michael Nichols, Paul Nicklen, Flip Nicklin, Randy Olson, Carsten Peter, Reza, Jim Richardson, Joel Sartore, Shaul Schwarz, Stephanie Sinclair, Brian J. Skerry, James L.Stanfield, George Steinmetz, Brent Stirton, Amy Toensing, Tomasz Tomaszewski, Alex Webb, Steve Winter, Cary Wolinsky, Michael S.Yamashita. La mostra è stata realizzata con i contributi di Barilla e Levissima e con il supporto tecnico di Artiser. Partecipa anche National Geographic Channel (canale 402 di Sky), con la proiezione di tre documentari che raccontano la vita sul nostro pianeta sotto diversi punti di vista. ❖ I colori del Mondo. Fotografie inedite di National Geographic Italia; a cura di Guglielmo Pepe. Palazzo delle Esposizioni, via Nazionale 194, 00184 Roma (Spazio Fontana, con accesso diretto da via Milano 13; 06-39967500; www.palazzoesposizioni.it). Fino al Primo maggio; da martedì a giovedì 10,00-20,00, venerdì e sabato 10,00-22,30, domenica 10,00-20,00.

(al centro) Uria nera. Un’uria nera sotto un iceberg scavato dalle onde nelle Isole Svalbard, in Norvegia (fotografia di Paul Nicklen, © National Geographic). La chiesa e il taxi. Una tipica chiesa dell’isola greca di Santorini, in una giornata nuvolosa (fotografia di Sam Abell, © National Geographic). Giochi di bambini. Bambini gitani giocano di fronte a una casa a Barrio del Pilar, Spagna (fotografia di Tomasz Tomaszewski, © National Geographic).

(pagina accanto) Fortezza. I resti di Dun Carloway, una struttura preistorica sull’Isola di Lewis, in Scozia (fotografia di Jim Richardson, © National Geographic). Siccità. Maharashtra, India: il mancato arrivo delle piogge monsoniche ha rovinato il raccolto di miglio (fotografia di Lynsey Addario, © National Geographic). Gli altissimi alberi. I baobab del Madagascar, molto apprezzati per i frutti e la corteccia, possono raggiungere i trenta metri di altezza (fotografia di Pascal Maitre, © National Geographic).

45


DI TUTTI I COLORI Quadricromia litografica nella còlta fantasia di un’avventura a fumetti. Martin Mystère, l’intrigante detective dell’impossibile, si muove a proprio agio anche tra vicende cromatiche: con immancabile lezione di stile. A quattro colori: giallo, magenta, cyan e nero di Angelo Galantini

Da Martin Mystère Di tutti i colori!, una tavola che visualizza la stampa in quadricromia (della quale parliamo su questo stesso numero, da pagina 32).

Di tutti i colori!, numero 100 della serie Martin Mystère; luglio 1990; Sergio Bonelli Editore; 108 pagine 16x21cm.

46

T

radizionalmente, i fumetti pubblicati da Sergio Bonelli Editore celebrano le proprie mete significative con numeri speciali, in genere colorando le avventure che sono solitamente stampate in bianconero al tratto (bianco-enero). È accaduto alla sequenza di Tex, Dylan Dog, Nick Raider, Nathan Never, Legs, Zagor... e Martin Mystère. Appunto del detective dell’impossibile ci occupiamo in questo contenitore “colore”: perché il numero 100 di Martin Mystère non è stato semplicemente stampato a colori, ma si è occupato specificamente del colore. Prima di tutto, precisiamo che si tratta di un’avventura autoconclusiva, pubblicata nel luglio 1990. Dunque, si può richiedere come arretrato, o lo si deve rintracciare nel mercato dell’usato: a questo proposito, i negozi di fumetti sono abbastanza diffusi in Italia, così come sono recentemente proliferati i mercatini specializzati. Dopo di che, entriamo nello specifico di Martin Mystère numero 100, adeguatamente intitolato Di tutti i colori!: e di questo si tratta proprio. Di un’avventura del rinomato detective dell’impossibile, che vive a New York, nell’amabile Washington Mews, tratto di via privata con villettine a un pia-

no a due passi da Washington Square Park, interamente dedicata a dissertazioni di carattere colorimetrico. Con il pretesto di una indagine su un ennesimo enigma, il capace e còlto sceneggiatore Alfredo Castelli fa agire Martin Mystère tra le caselle di un dichiarato puzzle di percezioni visive, appunto nel senso della percezione colorimetrica (ai cui studi ha dedicato tante energie il geniale Edwin H. Land, inventore della fotografia a sviluppo immediato e fondatore della Polaroid Corporation). Ci si muove in un baraccone da fiera, nel quale il doctor Spektor, appunto “Master of Colors”, imbonisce il proprio pubblico con una serie di giochi visivi e all’interno del quale si susseguono allucinazioni collettive. Nei fatti, l’avventura si scompone in tre singoli episodi, in qualche modo concatenati tra loro, che prendono in esame altrettante questioni fondamentali della colorimetria: dallo scienziato che si domanda se la percezione dei colori è uguale per tutti (a parte le definizioni codificate delle tinte, ciò che identifichiamo verde è autenticamente tale, quel verde, per ciascuno di noi?) al fotolitista che non riesce a restituire sulla stampa grafica l’intensità originaria di un quadro monocromaticamente blu di prussia (esposto nelle inconfondibili sale del Guggenheim Museum), alla regione delle nebbie avvolta in un grigio uniforme. La sceneggiatura è fantasiosa per quanto riguarda la trasposizione nel linguaggio del fumetto. Ma le proprie basi sono oggettivamente e sostanzialmente realistiche. Addirittura scientifiche: per un racconto avvincente e appassionante. ❖


COLORI CHE HANNO SCRITTO LA STORIA Tavola cromatica Macbeth ColorChecker, a uso fotografico e grafico 47


Ezio, raccontami di te tutto, in un fiato, senza interromperti. «Come sabbia che scende dal bulbo superiore di una clepsamia, raccontando granello dopo granello lo scorrere degli istanti, così il passaggio di ogni globulo, di ogni molecola di plasma nel più piccolo capillare segna il flusso della nostra vita. «Coincidenza vuole la mia nascita coeva al movimento Fluxus, anche se questa consapevolezza la ritrovo solo ora, a cinquant’anni suonati. «Il flusso delle idee, prima dell’età della ragione, ha coinciso con il fluire di frequenze sonore, di ammassi di note su uno spartito, di concerti davanti alle tastiere, assieme ai coetanei che accomunavano con me il proprio “fluxus”. E, mentre le pulsazioni metronomiche lasciavano intravedere qualche “freeze-frame”, qualche flash che meritava di essere ricordato più intensamente di altri, ho avvertito la necessità di estrarre da questo flusso qualche fotogramma. Cos’è poi un album di fotografie, se non uno storyboard della nostra vita? Cos’è un racconto fotografico se non uno spot su un argomento a piacere?

«Altra coincidenza vuole che l’avvento di Mtv, del personal computer, della Sony Mavica coincida con il mio passaggio da un flusso di onde sonore più o meno sinusoidali alla precisa onda quadra del flusso informatico. «Il flusso digitale non ha rappresentato solo l’utensile che sto usando anche adesso per scrivere, ma una complessa estesa percezione di presenza oltre l’apparenza. Quello è il mondo che ho voluto rappresentare con la fotografia. Quello è il mondo dei videogame, della realtà virtuale, del cyberspazio. Non sono stato il solo ad accorgermene: nello stesso momento, anche William Gibson ha pubblicato il suo capolavoro Neuromancer, che tanto ha anticipato del nostro attuale vivere, e come lui molti altri. «Dopo qualche anno, il suono preciso dei modem ha scandito il fluire delle mie nottate, esteso di fatto il mio universo ben oltre il tubo catodico che avevo di fronte. La fotografia, da sola, arrancava a fatica nel rappresentare la mia realtà. Ben presto, avrei dovuto chiedere aiuto al mio passato musicale, per riuscire a mettere assieme i flussi di idee che avevo in mente, addizionando immagini e suoni.


«Qualche tempo prima, ebbi un incontro molto fugace, ma che, nel tempo, mi avrebbe segnato per sempre. Era una “semplice” dimostrazione, fatta da un poco conosciuto (almeno per me) direttore di una rivista fotografica, sull’uso della polaroid. In pochi minuti, questa persona (che risponde al nome di Maurizio Rebuzzini) ha trasformato la “solita fototessera” in uno splendido acquarello su carta cotone: il passaggio tra il virtuale, da me tanto amato, e la reale, tangibile, palpabile materia. «Se un flusso viene modellato dalle interferenze che incontra, questa, nel mio caso, ha piantato un seme che mi avrebbe portato molto distante. Distante perlomeno dalle mie convinzioni, dove tutto ciò che era tecnologico, elettronico, digitale, fosse un sintetizzatore, un computer o una macchina fotografica, destava un particolare fascino. «Sarà stata l’ormai incalzante inflazione informatica, che di fatto ha tolto quella patina di sperimentazione che il suo uso primordiale l’accompagnava, sarà stata la consapevolezza che la fotografia, restando prettamente elettronica, lasciava in cantina, assieme alle bottiglie di prodotti

chimici, anche il suo passaggio dalla virtualità alla materia, sarà stata anche la mia età che, avanzando, cercava continuamente un riscontro con la realtà quotidiana... ebbi qui una folgorazione! «In occasione di un incontro con alcuni fotografi del Gruppo Polaser, dopo aver infilato un occhio dentro una splendida SX-70, a fatica ho tentato di tornare alle mie vecchie convinzioni. «Non ce l’ho fatta. Da quel momento, tutto il mio lavoro fotografico è passato attraverso le polaroid e, ovviamente, il Polaser. «Certo, nel lavoro quotidiano, facendo il grafico, i computer sono strumenti insostituibili, ma quando voglio ritagliarmi un mio spazio, raccontare una mia idea, quei pochi centimetri quadri di materia plasmabile diventano la vita stessa. «Non so ancora quanti granelli di sabbia scandiranno i miei istanti, ma so che ogni mia polaroid porterà dentro il segno delle mie mani, dei miei pensieri, dei frammenti di flusso pulsante di quegli istanti; potrà raccontare di me. Quale soddisfazione migliore, per un uomo». Toglimi una curiosità? [da Neuromancer] Il cielo sopra il tuo porto ha cambiato colore o ha ancora il colore della televisione sintonizzata su un canale morto? «Il colore pulsante, vivace, astratto di un televisore sintonizzato su un canale morto libera la fantasia come un cielo vivace di nuvole. Posso vederci quello che la mia mente vi proietta. «Sopra il mio porto, il cielo è molto variabile, può passare dal plumbeo al saturo colore puro. «La mia mente proietta quello che l’istante suscita. Il flusso degli eventi porta con sé vibrazioni delle più disparate frequenze. Ognuna ha un colore che l’accompagna». Pino Valgimigli

www.polaser.org

«La limitazione dei mezzi determina lo stile, dà vita a nuove forme e dà impulso alla creatività» Georges Braque Questa citazione dal pittore Georges Braque aiuta a comprendere lo slancio e spirito che guida e ispira gli artisti del Gruppo Polaser, eterogenei per interessi artistico-culturali e per provenienza da molte città italiane e anche dall’estero, accomunati dalla ricerca e sperimentazione di nuove possibilità espressive nelle molteplici forme dell’arte, dalla fotografia alla pittura, scultura, design, architettura, ceramica, letteratura, teatro, a altro ancora.


di Maurizio Rebuzzini

P Weegee di Weegee. Un’autobiografia; traduzione di Maria Baiocchi e Anna Tagliavini; Contrasto, 2011; 176 pagine 15x21cm, con sovraccoperta; 78 illustrazioni; 19,90 euro.

eccato! È un vero peccato che il recente Weegee di Weegee. Un’autobiografia venga pubblicato da sé e per se stesso, e sia privo e privato di un possibile appoggiolancio-supporto di una mostra del celebre fotocronista (fotogiornalista), che potrebbe “tirargli la volata”: diciamola così. Se questa entusiasmante e affascinante autobiografia di Weegee, una delle figure chiave della fotografia del vero e dal vero del Novecento, approdasse al bookstore di una mostra d’autore, l’inevitabile emozione e commozione dei visitatori in uscita (con nel cuore le fotografie di Weegee) imporrebbe il suo acquisto. E, per quanto mi interessa personalmente, determinerebbe la diffusione di uno dei libri che considero indispensabili, ripeto e ribadisco indispensabili, proprio indispensabili, sui ripiani delle librerie di coloro i quali si occupano di fotografia, in posizione di prestigio. Non solo sul ripiano, sia chiaro, per quanto in posizione di prestigio: è un testo da leggere avidamente, subito dopo aver acquistato il libro; poi, dopo averlo accantonato per un poco (due-tre settimane, al massimo), va ripreso e riletto. Quindi, un anno dopo, va riletto una terza volta. Altrimenti, se

Da non perdere. Da correre in libreria ad acquistarlo! Non è una minaccia, ma una esortazione, con accompagnamento di promessa: finalmente in edizione italiana, pubblicata da Contrasto, Weegee di Weegee. Un’autobiografia garantisce una straordinaria gratificazione e crescita individuale a tutti coloro che si occupano di Fotografia (e non soltanto a loro). Autobiografia di una delle figure/personalità fondamentali della fotografia del Novecento, è una lettura da ripetere. Almeno tre volte

50

DA UNKNOWN WEEGEE: CRONACHE AMERICANE : GIRL JUMPED OUT OF CAR, AND WAS KILLED, ON PARK AVE.; PROBABILMENTE 1940 (STAMPA AL BROMURO D’ARGENTO; 18,1X22,9cm)

Le illustrazioni che accompagnano questo intervento redazionale non richiamano necessariamente le fotografie pubblicate in Weegee di Weegee. Un’autobiografia, in edizione italiana Contrasto. Soprattutto, ma forse soltanto, contornano la straordinaria personalità di Weegee: lui stesso (The Famous), più delle fotografie che ha realizzato nella sua avvincente carriera.

ET VOILÀ,


WEEGEE

51


52

LOREDANA PATTI (4)

NAKED CITY (LIBRO E FILM)

Nel 1948, a tre anni dalla propria pubblicazione, la raccolta Naked City, di Weegee, ispirò la sceneggiatura del film The Naked City, di Jules Dassin, (in Italia, La città nuda), che ne ha replicato lo spirito e il clima. A propria volta, dal film fu derivata una serie televisiva, che è andata in onda negli Stati Uniti dal 1958 al 1963, registrando quattro stagioni successive. La serie ha vinto quattro Emmy per serial televisivi di prima serata e ottenuto una consistente serie di altri riconoscimenti. Come ricorda lo scrittore Lawrence Block, in Mille modi di morire (traduzione risicata dell’originario Eight Million Ways To Die; Il Giallo Mondadori / 1803, del 21 agosto 1983), alla fine del telefilm una voce dai toni profondi e drammatici recitava: «Ci sono otto milioni di storie nella città nuda. Questa è una di quelle». Io (mR) considero Naked City una delle più significative raccolte della Fotografia, con la quale confrontarsi per decifrare e considerare l’essenza del suo stesso linguaggio espressivo. A book is born, un libro è nato, recita il primo dei diciotto capitoli nel quale l’insieme è scomposto (diciassette di immagini e uno, conclusivo, di annotazioni tecniche). Sulla pagina a fronte, a sinistra, l’imperterrito ritratto di Weegee con la Speed Graphic tra le mani e il sigaro tra i denti, didascalizzato: Weegee and his Love - his Camera. Ovvero, Weegee con il suo amore, la sua macchina fotografica: binomio indissolubile, segno di un’esistenza votata alla fotografia di cronaca. In Naked City (Essential Books; New York, 1945; e poi anastatiche Da Capo Press, New York, dal 1973 e del 2002) sono raccolte fotografie di archivio, che Weegee ha rivisto e riaccostato tra loro, dividendole in capitoli tematici. Esaurite le rispettive cronache newyorkesi originarie, non solo di nera, ma soprattutto di nera, le immagini raccontano con un ritmo visivo nuovo e innovativo. Successivamente, molte di queste fotografie sono state riproposte in raccolte monografiche d’autore, andando a comporre i tratti di una personalità tra le più straordinarie della fotografia del Novecento. Sinceramente, tutte queste monografie moderne (e sono tante, mai troppe) sono state prodotte con particolare attenzione, tanto da vantare, tra l’altro, un’ottima riproduzione litografica, che non qualifica, invece, Naked City. Quindi, se si vogliono avvicinare le fotografie di Weegee nella propria alta qualità formale sono indispensabili le raccolte successive: tanti i titoli tra i quali scegliere.

Weegee firma copie di Naked City, in una libreria newyorkese: immancabile la Speed Graphic.

Selezione di doppie pagine di Naked City, di Weegee. Alcune di queste immagini, non tutte, fanno parte della produzione fotografica di Weegee accolta e celebrata dalla critica internazionale, e sono sistematicamente riproposte nelle monografie sull’autore; altre rimangono vincolate a questo racconto, uno dei più efficaci della storia della fotografia.

Però, la sequenza originaria di Naked City mette a diretto contatto con lo spirito dell’autore. Diciamola anche così, in paragone: un conto sono i CD che riuniscono i presunti brani migliori dei Beatles (in compilation), tanto per fare un esempio, e un altro è ascoltare la consecuzione dei motivi degli album originari, quali Revolver (1966), Sgt. Pepper’s Lonely Hearts Club Band (1967), oppure Abbey Road (1969). Ancora oggi, a distanza di sessanta anni abbondanti, è emozionante sfogliare Naked City. Mi piacerebbe poterlo fare insieme ad altri, affinché i commenti di ognuno possano arricchire le opinioni di tutti. Invece, per come va la vita, posso farlo soltanto in privato: e solo mi concedo un allineamento in più, con il Toscano tra i denti (non un semplice sigaro, ma proprio un Toscano, che fumava anche Mario Giacomelli: e il parallelo mi è estremamente gradito).

Pellicola non esposta (al Greenwich Village); a pagina 229 di Naked City.

Weegee davanti al manifesto di The Naked City, film ispirato dalla e alla sua raccolta di immagini.


ARCHIVIO FOTOGRAPHIA

non avete queste intenzioni, lasciatelo nella libreria dove lo incontrate, a disposizione di chi -non voi- ha chiaro in mente verso quale viaggio dello spirito (fosse anche soltanto fotografico) ci si incammina: una, due, tre letture sono obbligatorie. Imperativo! Il libro originario è datato indietro nei decenni: Weegee è mancato il 26 dicembre 1968, a sessantanove anni. Ma la profondità di questa autobiografia è senza tempo (e senza spazio), tanto da aver conservato la propria freschezza, nonostante gli imperativi sottolineati dalle pagine di calendario che si sono inviolabilmente consumate. Di suo, Weegee è personaggio sopra le righe e di spessore più che straordinario, ovvero è uno dei grandi/grandissimi del Novecento, protagonista indiscusso della Storia della fotografia; in sovramercato, il suo modo di raccontare e raccontarsi è superlativo: brillante, ironico e umile. Doti che nel fotogiornalismo si accompagnano sempre con etica e morale, cioè deontologia. Non a tutti gli autori della Storia possiamo riconoscere altrettanto.

WEEGEE: IL FAMOSO (E ALTRO) Come certificato dal timbro di identificazione delle copie su carta delle sue fotografie, che recita «Credit Photo by Weegee - The Famous», Weegee di

Testimoniamo che la fotografia Gun Shop, di Weegee, del 1943, è stata usata per la sovraccoperta di un romanzo di James Ellroy, che si ispira sempre alla cronaca nera americana degli anni Cinquanta e dintorni (sebbene a quella di Los Angeles, la sua città): Corpi da reato; Bompiani, 1999. Quindi, in allungo coerente, un altro Gun Shop, del 1940, e due combinazioni tra Weegee e negozi di armi: qui sopra, in un autoritratto al volante della sua Chevrolet-studio, del 1940, davanti allo stesso negozio; e poi, appollaiato su un cornicione, pronto all’azione, nei pressi di un altro negozio di armi di New York.

autodefiniva “Il famoso” [a pagina 50]. Inventore di un genere fotografico molto particolare, il suo, in questo modo Weegee rivela anche la propria inclinazione all’autoironia e all’atteggiamento disincantato: un autentico buffone, nella più positiva e propositiva delle accezioni possibili. In un mondo, come è il nostro (di tutti i tempi e ogni geografia), nel quale gli assoluti non sono possibili, per il fotogiornalista Weegee, e per lui soltanto, posso anche declinarne uno: sì, il più grande... quantomeno in tutto quanto (tanto) ha fatto. E il recente Weegee di Weegee. Un’autobiografia, pubblicato da Contrasto a cinquanta anni esatti dall’edizione originaria Ziff-Davis Publishing Company, del 1961 [e riedizione Da Capo Press, del 1975, a proposito di una copia della quale riferiamo a pagina 56], offre i termini esatti di paragone e considerazione: leggetelo! Rileggetelo! Nato Usher Fellig, a Zloczów, vicino a Lemberg (Austria-Galizia; oggi Zolochiv, Ucraina), il 12 giu-

Il Quartier generale di Weegee: febbraio 1941 (con scatto flessibile) e tardi anni Quaranta.

53


Weegee con altri fotocronisti, il primo da sinistra, al Quartier Generale del NYPD (New York Police Department); 1934 circa.

(in alto, centro pagina) Autoritratto di Weegee in un furgone cellulare del NYPD (anche sulla copertina dell’attuale Weegee di Weegee. Un’autobiografia); didascalia esplicita: Il mio studio. In abbinamento, elaborazione per la copertina del romanzo La lunga notte, di Emilio Tadini (Rizzoli, 1987).

Scrivevo le didascalie alle mie foto[grafie]. 1942: Weegee al lavoro, nel portabagagli della sua Chevrolet, dal 1935 adibita a studio volante. La tempestività del suo fotogiornalismo nella cronaca nera newyorkese si deve alla rapidità che questo modo di agire gli ha sempre consentito.

54

gno 1899, diventato Arthur Fellig, arrivando a New York, nel 1909 (o 1910), soprannominato Weegee, è vissuto nel lower East Side di New York assieme a tanti altri immigrati. Fonti accreditate e autorevoli annotano che il fortunato soprannome Weegee, affibiatogli all’inizio della sua carriera giornalistica, nasce da una trascrizione fonetica (onomatopeica) di Ouija (un tavolo con le lettere dell’alfabeto, usato per la divinazione). Si deve al suo arrivo sulla scena del crimine, di incendi o altre situazioni di emergenza, pochi minuti dopo la segnalazione alle autorità. A volte, Weegee si è attribuito il conio del soprannome, altre volte lo ha accordato alle receptionist dell’agenzia Acme Newspictures e a un funzionario di polizia. In ogni caso, la tempestività del suo fotogiornalismo nella cronaca nera newyorkese si deve allo studio ambulante nel portabagagli della sua Chevrolet, attivo dal 1935 [in autoritratto del

Dalla mostra Unknown Weegee: cronache americane, allestita a Milano tre anni fa ( FOTOgraphia, settembre 2008), riprendiamo Check for Two Murders (circa 1939; stampa al bromuro d’argento 21,3x31,1cm): riproduzione di una ricevuta di Time Incorporated, per la fotografia di due morti assassinati. Weegee l’ha didascalizzata come Murder was my business: l’omicidio è stato il mio affare (il mio lavoro). Con l’occasione, ricordiamo che Murder is My Business (è il mio affare) è il titolo di una mostra che Weegee ha esposto alla newyorkese Photo League, nel 1941.

1942, pagina accanto, in basso]. Weegee aveva anche ottenuto il permesso di installare una ricetrasmittente sintonizzata sulle onde della polizia. In ripetizione (ossessiva?), Weegee-the-Famous è una delle figure/personalità fondamentali della fotografia del Novecento. Il suo gesto e le sue immagini hanno fornito straordinaria materia al suo stesso significato espressivo, proiettandosi ben oltre l’assolvimento originario della cronaca nera newyorkese degli anni Trenta e Quaranta. Non per paradosso con la cruda realtà delle inquadrature, ma per significato autentico, questa è poesia nel senso effettivo del riconoscimento di una fotografia che non vale solo per se stessa, e le proprie intenzioni e/o necessità di partenza, ma per qualcosa di altro, che ciascuno trova prima di tutto in se stesso. Con Paul Strand, altra figura di spicco della fotografia del Novecento: «La finalità di Weegee non è il sensazionalismo. È un artista, un uomo dai sentimenti seri e forti. Nell’area della vita nella quale ha vissuto e lavorato, le sue fotografie sono la registrazione veritiera del suo modo di vedere. Per questo critico, sono uno straordinario amalgama di umorismo sardonico, indignazione per l’ingiustizia, pathos e una compassione velata di amarezza. Sembrano ripetere La vita deve avere una propria dignità». Quindi, una testimonianza diretta: «Quando scatto una fotografia mi sembra davvero di entrare in trance: è l’effetto del dramma in corso o in procinto di scatenarsi: nasconderlo e andarsene in giro con occhiali dalle lenti rosa è impossibile. In altre parole, abbiamo bellezza e bruttezza: tutti amano la bellezza, ma la bruttezza permane... Non dimentichiamo che si tratta di un fattore umano».

PORTFOLIO LEGGENDARIO Per merito della passione e intelligenza di Lino Volani, fotografo a Rovereto, il cui ricordo mi è tanto doloroso (è prematuramente mancato a fine gen-


ARCHIVIO FOTOGRAPHIA

DIETRO DUE QUINTE

naio 2010), il programma di RoveretoImmagini 2009 ha potuto annoverare la prestigiosa e superba esposizione di The Weegee Portfolio, nell’autorevole Sala Iras Baldessari, nella centrale via Portici 14. Oltre la statura di Weegee, uno degli autori di spicco della Storia, preciso il valore di quelle quarantacinque impeccabili stampe 40x50cm, realizzate da Sid Kaplan, che dipende anche dalla loro sostanziale unicità: dal diciotto luglio al trenta agosto di due anni fa, rara, preziosa e impareggiabile occasione per incontrare un’espressione discriminante della fotografia del Novecento. Prodotti all’indomani della scomparsa di Weegee, i ventisei Portfolio sono andati sostanzialmente di-

Meglio: due dietro-le-quinte, più vero ma meno titolo. Come specificato altrove [a pagina 52], dalla raccolta Naked City, di Weegee, è stato ricavato materiale per la sceneggiatura di un film di Jules Dassin, appunto The Naked City (in Italia, La città nuda; 1948), liberamente ispirato alla monografia pubblicata nel 1945 [a margine ricordiamo che il regista Jules Dassin finì nelle liste nere del maccartismo]. Da qui parte una curiosa consecuzione, che condividiamo con piacere. Quando era ancora fotografo, prima di diventare regista, Stanley Kubrick fu inviato da Look Magazine sul set di The Naked City, dove conobbe Weegee: su quel set, armato di Rolleiflex, il futuro regista fotografò lo stesso Weegee in cima a una scala, mentre riprende le scene del “suo” film. Sedici anni dopo, Stanley Kubrick ingaggiò Weegee come fotografo di scena per Dr. Strangelove or: How I Learned to Stop Worrying and Love the Bomb (in Italia, Il dottor Stranamore, ovvero come imparai a non preoccuparmi e ad amare la bomba; 1964). Su questo set, l’accento anglotedesco di Weegee è stato copiato/ironizzato da Peter Sellers per caratterizzare il personaggio dello scienziato nazista pazzo che ama la bomba: sia nella dizione originaria, oggi alla portata del Dvd del film, sia nel suo doppiaggio italiano.

Con Rolleiflex tra le mani, Stanley Kubrick sul set di The Naked City, di Jules Dassin, film ispirato all’omonima raccolta fotografica di Weegee (da Stanley Kubrick. Una vita per immagini, a cura di Christiane Kubrick: Rizzoli, 2003; FOTOgraphia, aprile 2004). Weegee fotografato da Stanley Kubrick, inviato di Look Magazine sul set di The Naked City (1947).

Il regista Stanley Kubrick fotografato da Weegee sul set del Dottor Stranamore (1963).

55


Ritratto di Weegee realizzato da Philippe Halsman, nel 1961, e sua prova preventiva con Polaroid Type 53, a sviluppo immediato: questa volta, niente Speed Graphic, ma Hasselblad.

(pagina accanto, dall’alto) Oltre il ritratto classico di Weegee, del 1942, ufficialmente identificativo della sua personalità, altre due raffigurazioni analoghe e coincidenti, sempre con Speed Graphic, flash e sigaro: autoritratto del 1940 (circa) e ritratto eseguito da Lisette Model, nel 1945, all’indomani della pubblicazione di Naked City.

Il più celebre e noto ritratto di Weegee, di autore sconosciuto (1942): con Speed Graphic dotata di flash a lampadine e sigaro tra i denti. Quindi, interpretazione sulla copertina di una rivista popolare italiana del 1954.

56

strutti in seguito a un allagamento nell’appartamento newyorkese di Wilma Wilcox, la compagna del fotografo. Si sono salvate stampe singole e si ha notizia di due sole copie integre del Portfolio: una di proprietà del MoMA di New York, il celebre Museum of Modern Art, che tanto ha dato alla fotografia, ricevendone probabilmente altrettanto; l’alta, eccoci, conservata a Rovereto, nell’abitazione dell’attento collezionista Paolo Dalbosco, dalla quale è temporalmente uscita per essere proposta al pubblico in un allestimento adeguato. Emozionante, è dire poco.

AUTOBIOGRAFIA Ecco che l’attuale Weegee di Weegee. Un’autobiografia colma un vuoto temporale assoluto (le edizioni statunitensi del passato remoto sono sostanzialmente introvabili), ma anche uno tutto italiano, così povero di approfondimenti (in lingua) su Weegee. E quello che anche c’è stato cerchiamo di dimenticarcelo: il Weegee. Violenti e violentati, del 1979, è un libro colpevole sotto infiniti punti di vista, da quelli prettamente editoriali ai contenuti italiani, senza alcuna soluzione di continuità. A parte rilevare che le edizioni librarie di Contrasto

WEEGEE BY WEEGEE

Dell’edizione originaria dell’autobiografia di Weegee, ora tradotta e pubblicata in italiano da Contrasto, intitolata Weegee by Weegee: An Autobiography e pubblicata da Ziff-Davis Publishing Company, di New York, nel 1961, possediamo soltanto una accurata fotocopia. Invece, siamo riusciti a rintracciare ed acquistare la seconda edizione, del newyorkese Da Capo Press (1975), che ha curato anche le anastatiche di altri suoi titoli, a partire dall’epocale Naked City. Per quanto questo nostro volume sia bibliograficamente (e feticisticamente) inferiore all’originario, e sia altresì penalizzato dalla sovraccoperta ritagliata e deturpata, c’è qualcosa in questo oggetto che lo distingue e qualifica. Come testimoniamo, si tratta della copia appartenuta alla biblioteca della prestigiosa Time-Life Books (stanza 305D: dalla quale è stato proditoriamente sottratto? o forse soltanto eliminato!): lo certifica il timbro sul frontespizio, altresì comprensivo di annotazioni e riferimenti a matita (a sinistra). Allo stesso momento, e in sovramercato, la proprietà Time-Life Books è attestata dalla scrittura a pennarello nero sul bordo destro e superiore del volume (qui accanto). Insomma, così si accontenta un certo feticismo, che osa anche immaginare quali e quanti fotografi dello staff lo abbiano avuto tra le mani (quali e quante impronte digitali potremmo isolare!). Ma l’edizione originaria è altro: ne siamo consapevoli e lo riconosciamo.

LOREDANA PATTI

(a destra) Autoritratto di Weegee, da cabina automatica per fototessera (da Weegee di Weegee. Un’autobiografia: Che pretendi per un decino alla macchinetta?).

Frontespizio della nostra copia di Weegee by Weegee: An Autobiography, nell’edizione Da Capo Press, New York, 1975: a parte le annotazioni a matita, il timbro rivela l’appartenenza originaria di questo volume alla biblioteca di Time-Life Books, sottolineata dalle scritture a pennarello sui bordi esterni.


ARCHIVIO FOTOGRAPHIA

ARCHIVIO FOTOGRAPHIA

Fotografia di Weegee: Si vive insieme, in solitudine; New York City, 1940. E sua messa in pagina su Il Politecnico, rivista di cultura contemporanea diretta da Elio Vittorini, numero 39; dicembre 1947.

57


AL CINEMA E IN STRISCIA

sceneggiato da Yann Le Pennetier e disegnato da Philippe Berthet, uno dei tanti ispirati a Betty Page, pubblicato in Italia nella collana Euromaster Tuttocolore, che abbiamo anticipato in FOTOgraphia del marzo 2001. Per un istante, tra le pieghe della vicenda a sfondo poliziesco, che attraversa la parabola fotografica di Betty Page, appare Weegee, inquadrato proprio come impertinente fotografo di cronaca. Attenzione, come visualizziamo, oltre la grafia errata del nome (Wegee), la traduzione italiana in “re dei guardoni” risulta più forte di quanto non sia l’originaria definizione di “Peeping Tom”, che vuol dire lo stesso, ma lo esprime con altra lievità. [A margine, annotiamo che Peeping Tom è il titolo del film di Michael Powell, del 1960, che in italiano diventa L’occhio che uccide. Tra le mani di Mark Lewis (o Carl Boehm, interpretato dall’attore tedesco Karlheinz Böhm), la cinepresa è strumento di morte, usata per riprendere il terrore delle vittime che si rendono conto di ciò che sta per succedere loro (vengono trafitte da una lama fissata sulla gamba di un treppiedi allungato verso il loro petto). Metafora sull’arte della visione, l’opera di Michael Powell è anche un geniale saggio sul cinema come voyeurismo, in questo caso arricchito di necrofilia e scopofilia: il bisogno morboso e patologico di contemplare attraverso la mediazione di strumenti tecnici, quali sono quelli cinematografici e quelli fotografici]. ARCHIVIO FOTOGRAPHIA (2)

Parlando di Weegee, come oggi facciamo in occasione dell’edizione italiana della sua autobiografia (Weegee di Weegee. Un’autobiografia, pubblicata da Contrasto), è sempre indispensabile richiamare il film Occhio indiscreto (in originale The Public Eye, di Howard Franklin; Usa, 1992), del quale ci siamo occupati in diverse occasioni: dalla prima segnalazione nel marzo 1996. In particolate, ricordiamo come in Occhio indiscreto la messa in scena di un reporter anni Quaranta richiami esplicitamente la figura e personalità di Weegee. Così come l’originale, anche il cinematografico Bernzy o Grande Bernzini (Leon Bernstein) si muove nel sottobosco newyorkese: in una città violenta, nella quale ogni notte si rinnova la sfida della vita, e dove il valore dell’esistenza non supera i tre dollari a cadavere con i quali i giornali di nera pagano ogni fotografia di morti ammazzati. Nel film, un ottimo Joe Pesci replica bene modi, gesti e atteggiamenti nei quali ognuno è disposto a individuare il leggendario Weegee, a partire dall’immancabile sigaro tra i denti, anche quanto il mirino della Speed Graphic è portato all’occhio. E non mancano, sia chiaro, consistenti riflessioni sulla fotografia, che contornano la vicenda principale, di altro indirizzo. Quindi, Weegee fa capolino anche in un fumetto: definiamolo cameo. Lo si incontra nel terzo volume della serie Pin-up, fumetto

Protagonista di Occhio indiscreto ( The Public Eye, di Howard Franklin; 1992), il reporter di cronaca nera Bernzy (Leon Bernstein o Grande Bernzini) è tagliato sulla figura e personalità di Weegee. L’attore Joe Pesci ne replica bene i gesti e gli atteggiamenti; quindi, la ricostruzione scenografica propone la combinazione di Speed Graphic e sigaro tra i denti.

DANILO PEDRUZZI

Weegee nel fumetto Pin-up: dall’originale francese alla traduzione italiana riscontriamo l’errore nel nome (Wegee) e l’espressione un poco forte e forzata di “re dei guardoni”. Allestimento della mostra The Weegee Portfolio, organizzata da Lino Volani per RoveretoImmagini 2009, dove e quando è stata esposta nella Sala Iras Baldessari. Quarantacinque impeccabili stampe 40x50cm, realizzate da Sid Kaplan, di proprietà dell’attento collezionista Paolo Dalbosco. Weegee: tredicesimo soggetto della serie degli annunci Personaggi e cultura della fotografia, realizzati per conto di Fujifilm: da FOTOgraphia, dell’ottobre 2002.

58

si sono ormai affermate come le più attente alla fotografia, raccontata in lingua italiana, ripeto che il coraggio e la volontà di proporre l’autobiografia di Weegee è perlomeno temeraria. Almeno, quanto è còlta. Da sola, questa annotazione dovrebbe smuovere le coscienze, tanto da premiare la tenace interpretazione della personalità editoriale di Contrasto. Ma nessuno deve essere benefattore di nessuno. Per cui, egoisticamente e individualmente, i venti euro (circa) del prezzo di copertina di Weegee di Weegee. Un’autobiografia arricchiscono le casse dell’editore assai meno di quanto arricchiscono il cuore e la mente di tutti noi. Perché è chiaro e assodato che ora tutti debbono andare in libreria a comperarlo. Non è una minaccia, ma una esortazione: una promessa di straordinaria gratificazione e crescita individuale, che non ho voluto tenere per me, ma condividere. Come sempre, del resto. ❖



Largo ai giovani intervista di Lello Piazza

ALESSANDRA QUADRI

N

Nata a Padova, nel 1980, Alessandra Quadri risiede attualmente a Roma. Dopo una laurea al Dams di Padova (Art of Music and Entertainment Disciplines) e una specializzazione in Storia e Tecnica della Fotografia, ha frequentato un master in Storia della Fotografia presso la Scuola Romana di Fotografia. Da allora, ha lavorato svolgendo servizi di matrimonio (per sopravvivere, sottolinea) e facendo l’assistente di studio per un fotografo di still life. Al contempo, ha investito, dedicandosi a progetti giornalistici e di ricerca personale. Questi progetti riguardano soprattutto il sociale. Ne citiamo alcuni: la storia dell’integrazione di una giovane donna islamica a Roma; le pratiche matrimoniali infantili nel Rajastan, India (questo lavoro è stato premiato al Santa Fe Center for Photography’s Project Competition ed è stato selezionato per l’autorevole e qualificato Slide Show Night, dell’Anneneberg Space for Photography, di Los Angeles); uno studio sulle famiglie serbe e bosniache a Srebrenica (Bosnia-Erzegovina); uno studio iniziato nel 2006 sulla comunità Rom di Roma (una parte di questo lavoro si è affermata alla Lettura Portfolio, di Corigliano Fotografia 2010). I due più recenti progetti riguardano viste dei dintorni di San Lorenzo, riprese dal tetto della basilica e uno studio di autoritratti (http://alessandraquadri.photoshelter.com/).

Dove sei nata e che studi hai compiuto? «Sono nata a Padova. Il mio percorso di studi è artistico: dopo la maturità artistica sperimentale, mi sono laureata in Lettere. Tesi sulla estetica della fotografia a sviluppo immediato. Nel 2005, ho iniziato il master triennale alla Scuola Romana di Fotografia, a Roma, dove mi sono diplomata nel 2008». Da quanto tempo fotografi? «Dal 2004». Dove hai imparato a fotografare? «Ho sempre disegnato, dipinto. Ma amavo anche riprendere con la te-

60

Roma, Campo di Casilino 900; 2007. Famiglia di Shakira. Progetto iniziato nel 2006, con la documentazione della vita familiare e sociale delle comunità Rom di Roma, in campi attrezzati o abusivi. Questo progetto fotografico si colloca in due significative fasi di transizione per i Rom d’Italia: una politica, che ha portato alla chiusura di molti campi, e una culturale, che con l’avvento di nuove generazioni sta comportando una graduale perdita dell’identità etnica Rom.

Roma, Campo sulla strada Pontina. 2008. Preoccupazione degli abitanti Rom del campo a seguito di un corto circuito, che ha causato un incendio in un container (per fortuna disabitato).

Autoritratto polaroid di Alessandra Quadri.

lecamera. Odiavo usare la macchina fotografica. Poi, in uno degli ultimi esami, mi sono innamorata del corso di storia e critica della fotografia tenuto dal professor Carlo Alberto Zotti Minici. Poco dopo, ho frequentato un corso sull’autoritratto, sempre all’università. «Non avrei mai pensato che la fotografia potesse aprirmi la strada a un nuovo modo di espressione. Un linguaggio diretto, collegato con me e la realtà. Mi sono sentita magica,

come Palomar. Ho iniziato un percorso personale sul mio modo di vedere le cose e di vedermi. «Dopo quasi un anno a Roma, mi sono ritrovata in un luogo incredibile, il Residence Bravetta, dove vivevano immigrati di varie nazionalità e italiani che aspettavano le case popolari. Mi sono legata a una famiglia di Rom rumeni e in quel posto, e tra quelle persone, ho maturato di dedicarmi alla fotografia di documentazione sociale».


Largo ai giovani

Quali sono i fotografi che ami di più? «Domanda complessa... no, risposta complessa. «Me ne piacciono troppi. Troppi lavori. Per me, è più semplice identificare il direttore della fotografia che amo di più: senza dubbio, Vittorio Storaro, di Ultimo tango a Parigi, Novecento e Apocalypse Now. «Ho amato e studiato anche le inquadrature dei film di Alfred Hitchcock. Come pure, ho amato molti dei fotografi che hanno scritto la storia della fotografia. Mi piacciono tutti i fotografi-inventori, da Niépce a Land. Mi piace la curiosità, il provare. Impiegare la scienza per l’arte. Poi, ancora, le forme di Alvin Langdon Coburn, Alfred Stieglitz, Paul Strand, Irving Penn. La ricerca personale di Francesca Woodman e di Joel-Peter Witkin. «Da quando mi occupo di fotografia di reportage e documentazione, guardo moltissimi lavori fotografici che rientrano in questa visione. «Soprattutto, mi affascina la luce. Il suo modo di cadere sulle cose e plasmarle. Mi piacciono i lavori fotografici che hanno una bella luce come soggetto quasi essenziale». Vuoi impegnarti nella professione fotografica? In che settore? Fotogiornalismo, sport, moda, fine art, viaggio, food? «Voglio proseguire nella professione di fotografo. I miei orientamenti naturali sono documentazione e ricerca personale, che sfocia nella fine art. Purtroppo, due settori in forte crisi, in questo periodo».

Finora, quali sono le tue esperienze professionali? «Nell’ambito del reportage, i miei progetti sono centrati soprattutto su temi sociali, in particolare sul mondo femminile e sulle problematiche delle donne: ho seguìto l’integrazione delle giovani donne islamiche a Roma, seguendole anche in Egitto e Marocco; ho indagato sul fenomeno del matrimonio infantile nella regione del Rajasthan, in India; sono entrata nelle case di famiglie serbe e bosniache a Srebrenica, nella Bosnia-Erzegovina; e dal 2006, seguo l’odissea delle comunità Rom di Roma. «Mi sono anche impegnata in progetti fotografici di genere del tutto diverso, quale è quello che segue una visione della mia città d’adozione, Roma, dai tetti del quartiere di San Lorenzo. «Ho lavorato e lavoro tutt’ora come assistente per fotografi, dalla moda al matrimonio. «Dall’ottobre 2008 fino al gennaio 2010, ho lavorato al Progetto Ares volto alla digitazione, riordino e indicizzazione del materiale fotografico dell’archivio per la documentazione dei restauri dell’Istituto Superiore per la Conservazione e il Restauro, per conto della Infracom IT». Come vedi la situazione di chi vuole fare questo tipo di professione? «Nera. Difficile. «Prima di frequentare l’università, lavoravo per poter fare quello che volevo, per arrivare all’università; poi, la Scuola Romana; infine, i miei reportage. Ho svolto mille lavori, dal-

l’operaia alla babysitter, dalla commessa alla telefonista. Tutti lavori che mi hanno permesso di coltivare le mie passioni. Tutto per la libertà e l’indipendenza. «Poi, a un certo punto, ho cominciato a lavorare come professionista nel settore fotografico, soprattutto come assistente. Ci sono molti giovani fotografi, soprattutto a Roma, molta concorrenza, anche solo per fare l’assistente. Se ci si riesce, bisogna ringraziare il cielo. Non lamentarsi, se si guadagna poco. Altrimenti qualcun altro è pronto a prenderti il posto, per una cifra anche inferiore. La crisi produce anche questo. «Non ho visto i tempi gloriosi della fotografia, negli anni Ottanta, ma si dice che anche chi a quel tempo guadagnava bene, ora sente differenze forti e negative con il passato. E se sono in difficoltà loro, figuriamoci la condizione dei giovani, a volte molto più cattivi e guardinghi tra loro, come cani affamati che hanno paura di perdere l’osso. Spesso, non c’è coesione e supporto tra i fotografi stessi. Il reportage, poi, è ancora più difficile: tanti fotografi e crisi nel settore editoriale. «Ho visto tanta frustrazione, oltre la mia. «Ma questa è solo la mia espe-

61


Largo ai giovani rienza. E rimane il fatto che non avrei potuto fare altrimenti. Fotografare mi fa stare bene». In generale, come vedi la situazione di un giovane che sta per affrontare il mondo del lavoro? «Si sopravvive». Pensi che sia meglio emigrare, per avere più possibilità di trovare lavoro? Se sì, dove? «L’Italia non ha la cultura fotografica che invece hanno acquisito altri paesi, come la Francia e la Germania. O gli Stati Uniti. «Per molti versi, l’Italia è ferma; troppo ricca di una storia dell’arte che l’ha resa gloriosa e splendente, fatica a considerare la fotografia come arte. In Italia, per esempio, non riesce a nascere un mercato d’arte fotografica rivolto alle gallerie. Negli altri paesi c’è. Come negli Stati Uniti. «Inoltre, nelle riviste straniere registro una cura particolare nelle ricerca delle immagini, nella ricerca di autorialità. C’è meritocrazia: se vali, sei premiato. Si dice che i fotografi (e i loro assistenti) guadagnino meglio che da noi. Probabilmente, c’è crisi anche lì, ma la grande macchina funziona meglio». Ci puoi spiegare in che cosa è consistito il Santa Fe Workshop? «Ho Inviato il mio lavoro sulle spose bambine della zona del Rajasthan al concorso Santa Fe Center for Photography’s Project Competition. Ho vinto la menzione d’onore, e sono stata invitata al Workshop. «Tre giorni durante i quali avrei potuto scegliere nove incontri tra i maggiori professionisti della fotografia dagli Stati Uniti che meglio si adattavano al mio lavoro: da photo editor

62

Danza del ventre. Roma, Associazione culturale Averroè; novembre 2007.

Moschea di Roma. Festa della fine del Ramadan; 2008.

Mukandpura, Bonli, Sawai Madhopur, Rajasthan, India; giugno 2009. Kali, otto anni, sposata da poco, durante un matrimonio collettivo. Il suo sposo si chiama Hardeal, ma lei si vergogna quando si pronuncia il suo nome. Kali frequentava la terza elementare, ma dopo il matrimonio ha lasciato la scuola. Dice di essere contenta di non andare più a scuola.

di grandi testate a galleristi, a curatori di libri fotografici. Tutte persone che hanno potere per indirizzare in maniera reale o addirittura comperare un lavoro fotografico. «Non avrei mai potuto frequentarlo, se non ci fosse stata una borsa di studio che ho vinto facendone richiesta (probabilmente, oltre al lavoro che svolgo, e ho presentato, i miei cinquecento euro reali che racimolo al mese devono averli impietositi). E per fortuna, perché è stata una grande esperienza. Ho conosciuto persone splendide. «Anche in Italia ci sono letture portfolio qualificate e qualificanti. Soprattutto quelle del circuito Fiaf [Federazione Italiana Arti Fotografiche]. Ho partecipato a qualcuna di queste. Di recente, ho vinto il primo premio a

Corigliano Calabro, con il lavoro sui Rom. Anche in questo caso, ho fatto ottimi incontri. Anche in Italia, ci sono grandi esperti di fotografia. Solo che inserirsi è più difficile». Come pensi che questo premio possa influire sulla tua vita professionale? «Cambiare radicalmente non credo. Mi hanno dato visibilità, offerto gallerie nelle quali esporre. Certo, è ancora presto per raccogliere quello che ho seminato». Qualche consiglio a un giovane come te che intraprende questa strada? «Non lo so... molto dura. Ci vuole una grandissima passione e perseveranza, e anche un poco di fortuna. Oppure, bisogna essere ricchi di famiglia». ❖



Sguardi su

di Pino Bertelli (Piombino, dal vicolo dei gatti in amore, 22 volte febbraio 2011)

FOTOGRAFIA DELLA COLLERA

L

La fotografia nasce libera. È la banalità del mercimonio che la rende stupida. Per fare la fotografia dell’ovvio e dell’ottuso basta un falso maestro o una falsa causa: sono gli stessi stilemi/simulacri delle tirannie dello spettacolo con i quali interi popoli sono tenuti in soggezione o violentati nella propria memoria e nella propria cultura. Tuttavia, la ruota della storia dell’infamia, a volte, si ferma dove si deve arrestare; e i popoli in rivolta insorgono con la bava alla bocca contro i loro affamatori. Il bacino del Mediterraneo è in fiamme, e l’auspicio è quello che l’insurrezione dell’intelligenza possa allargarsi là dove i diritti più elementari dell’Uomo sono calpestati, derisi, soppressi nel sangue. La speranza è che la richiesta di democrazia e bellezza, che fuoriesce dalle rivolte meridiane, contamini anche le democrazie consumereste; e attraverso la lotta di popolo (qualcuno dice di classe), gli operai, i precari, i disoccupati, i giovani, le donne e anche i cani bastardi... si riprendano il diritto di avere diritti e mordano alla gola i propri persecutori.

SULLA FOTOGRAFIA DELLA RIVOLTA La fotografia della collera che circola in Internet è una sorta di rivoluzione (non solo) telematica. È l’athanor della creatività del dolore, nel quale ciascuno esprime il proprio dissenso e si affranca con le ondate di rivolta che investono l’intero pianeta. Russia, Cina e tutte le moderne forme di tirannia, incluse quelle più “soffici” dei governi occidentali, tentano invano di censurare la Rete, la contro-informazione smaschera i loro misfatti e le violenze perpetrate contro gli umiliati e gli offesi. La video/fotografia sgranata, informe, sfocata di telefonini, piccole digitali, usa-e-getta è un’arma importante della rivoluzione telematica: la voglia di

64

sapere, conoscere, vivere delle giovani generazioni, la bellezza creativa delle donne scende nelle piazze e mostra il dissenso contro le forche dell’autoritarismo. Un’ondata indistinta di ribellione rifiuta le moderne forme di schiavismo, dichiara finita l’epoca della “buona condotta” e chiede l’avvento di un universo libero, egualitario e fraterno. Il nostro auspicio è che anche in Italia, e ovunque l’uomo opprime un altro uomo e lo riduce a catena degli interessi economici colossali delle multinazionali, politiche di domesticazione sociale o terrorismi orchestrati dalle chiese monoteiste, si possa gridare la mia parola è no!, e dalle ceneri di antiche sommosse popolari vedere nascere quelle spinte insurrezionali, quelle battaglie di strada che hanno affrontato a volto scoperto la disumanità di ogni sopruso. Il lavoro rende liberi, alla Fiat come ad Auschwitz! Prima o poi, torneranno le cicogne a nidificare sui nostri tetti e i vassalli della partitocrazia (sinistra inclusa) saranno presi a calci in culo e infilati nel postribolo della storia, dove meritano. Una annotazione. I più importanti momenti rivoluzionari hanno fatto della libertà creatrice il princìpio di tutte le disobbedienze: violenza aiuta dove violenza regna! La partitocrazia è una forma normale di delirio, ed è madre del crimine organizzato nelle cloache del parlamento; gli insorti del desiderio di vivere tra liberi e uguali non sono mai morti: a ogni giro della storia ritrovata, impugnano la critica delle idee e rendono gli schiaffi di ritorno a ogni angheria del potere. La democrazia che non si usa, marcisce! La civiltà dello spettacolo è l’apoteosi di un campo di rovine. I popoli impoveriti insorgono (giustamente) contro il “grande imbroglio” della politica e chiedo-

no con ogni mezzo il rispetto dei diritti umani più elementari. Le democrazie occidentali, i regimi comunisti, la polveriera del Medio Oriente, Nord Africa (ma ovunque c’è oppressione e dappertutto cova la rivolta) sono parte dei meccanismi di sfruttamento degli ultimi, e la dittatura dei mercati continua a essere supportata da economisti, politici, sociologi stipendiati dalle multinazionali che attraverso governi, eserciti, chiese monoteiste e dittatori d’ogni mascheratura hanno il proprio covo nei giochi terroristici della Borsa e nei crimini legalizzati dei nuovi imperi. Il neocolonialismo delle merci favorisce la centralità dei poteri forti, la menzogna politica discolpa i profittatori e li lascia liberi di agire in un campo di macerie. La fotografia, tutta la fotografia (argentica o numerica è la medesima cosa), incensa l’alienazione dominante e da una generazione all’altra di fotografi ciò che più circola nella fotografia dello spettacolo integrato è l’imbecillità del consenso e la celebrazione del successo in Cielo, in Terra e -soprattutto- nelle mostre museali che mercificano il culo di modelle insignificanti, le morti per fame dei bambini o le bombe di guerre “umanitarie”. Certe immagini, vezzeggiate da storici, critici, faccendieri della fotografia da parati, dovrebbero essere usate per sistemare le gabbie dei canili pubblici e gli autori mandati a spalare la merda. Il discorso eterno e universale della barbarie passa sulla genuflessione dell’arte all’ordine costituito, poi il fucile e l’aspersorio regolano i conti con i dissidenti. I movimenti antiautoritari portano con sé la libertà creatrice delle democrazie dirette: sono ostili a ogni forma di spettacolo e intendono riappropriarsi della vita quotidiana. Alla filosofia degli affari, preferiscono affermare il diritto di ognuno di fondare il

proprio destino e passare alla costruzione di situazioni favorevoli alla felicità di tutti. La Comune della fotografia è ovunque. Non importa essere fotografi, per raccontare il dolore e la felicità di una sommossa, una rivolta o una rivoluzione: uccidere un tiranno non è un delitto!, è un canto della giustizia popolare. Se poi l’effige del tiranno che penzola da una corda o muore sotto una raffica di mitra è messa in Internet dà forza e coraggio ad altre popolazioni che versano in condizioni di schiavitù. I crimini contro l’umanità non possono essere tollerati, i macellai della ragione imposta ancora banchettano sul genocidio della Rivoluzione sociale di Spagna del Trentasei e sui resti di ebrei, zingari, bosniaci, tutsi... giocano in Borsa. I governi dei paesi ricchi sonno conniventi con le mafie (le chiese) internazionali e si spartiscono gli utili del mercato delle armi, della droga e delle risorse della Terra (petrolio, diamanti, oro, acqua). Che bello! Tutti sanno! E nessuno dice niente! La sinistra mesta nello stesso porcile, intanto milioni di bambini, uomini, donne muoiono di fame, di sete o sotto i bombardamenti (benedetti dalla Nato), per permettere a una minoranza di caimani di diventare sempre più ricchi e potenti. Il libero profitto è il grande inquisitore e il boia della libertà. La disumanità cede il posto alla fotografia della rivolta che la denuncia, e non c’è bastardo della politica o dell’arte che possa impedirlo. Dove regnano la costrizione, il mercato, i dividendi delle banche non c’è vita autentica. I governati sono solo una merce -nemmeno di pregio- dell’orgia consumista che ha sconfitto il movimento operaio e uno strumento elettorale per perpetuare i privilegi degli oppressori in ogni anfratto della cosa pubblica. I falsi bisogni di consumo e garanti-


Sguardi Cinema su smo di una condizione sociale miserevole si sostituiscono alla gioia di vivere, e le immagini da questa disfatta dell’umano sono tutte nei “consigli per gli acquisti” o nell’auto di grossa cilindrata presa a rate. Quando il potere sancisce la tolleranza di tutte le idee, vuol dire che ha già legiferato l’intolleranza del prossimo atto barbarico. Le caste malavitose sistemate nei governi delle democrazie spettacolari fanno abitualmente uso dell’innocenza, e si portano dietro i campi di sterminio con altri mezzi. I parassiti della politica giocano sporco, ma restano impuniti (specie in Italia), e solo la scesa in campo del-

rogazione diretta e ha la capacità di tessere nuovi immaginari (non solo) estetici, etici, epici: ha anche l’ardire di mostrare che ogni potere è di carta straccia e ai popoli insorti bastano cinque minuti di autentica libertà, per far crollare il Palazzo (con i saprofiti che ci stanno dentro). Nessuno vuole governare, né essere governato a questo modo e a questo prezzo. In una democrazia autentica, partecipativa, diretta, i cittadini possono fare a meno di capi, generali, preti, bancari, poliziotti, perché tutto è di tutti; nessuno è ricco, perché nessuno è povero, e la ricchezza è ridistribuita per il bene comune. Tutto qui!

del profondo e conferisce a una poetica androgina dell’esistente quel fare-anima che è proprio a tutte le rivendicazioni sociali. Anche quando si diversifica, la fotografia resta una sola e quando è grande esprime la memoria (ferita) di un’epoca.

SULLA FOTOGRAFIA DELLA COLLERA I cuori degli stupidi sono sempre impenetrabili. Fatemi vedere una fotografia della collera, e io mi dichiaro capace di far impiccare chi l’ha scattata e diffusa In internet... diceva un capo di Stato alle orecchie interessate di un papa (o forse era il “tagliatore di teste” della Fiat, col maglioncino).

«A tutti i ragazzi che sono scesi nelle piazze, si sono dati fuoco, sono stati uccisi, feriti, hanno preso a calci in culo i tiranni e i pagliacci della partitocrazia e hanno fatto della propria vita in rivolta un’opera d’arte. A mia nonna partigiana, che mi ha insegnato a sparare, prima di strisciare... A mio padre “bombarolo” di mare, che mi ha lasciato in sorte queste parole: “Un uomo ha diritto di guardare un altro uomo dall’alto soltanto per aiutarlo ad alzarsi!”. La collera non si attenua, le collere primitive risvegliano infanzie abbandonate» Gaston Bachelard le giovani generazioni farà loro ingoiare le false promesse, le menzogne elettorali, le ingiustizie sociali che hanno portato un intero pianeta alla disperazione. La bellezza convulsiva della fotografia rubata e disseminata in Rete ha lo scopo di far conoscere la realtà feroce di ogni potere e il disprezzo dei ribelli che lo fanno crollare. La fotografia della rivolta è una scrittura popolare che conduce a uno stato d’animo nascente, è una filosofia dell’inter-

La fotografia della rivolta riporta all’innocenza del divenire, risveglia l’antica ricerca della felicità dell’uomo e gli consente di riviverla. Sotto ogni taglio, la fotografia è una manifestazione dell’anima, e rende sacro o profano ogni soggetto che suscita l’interesse del fotografo. Il sognatore di immagini è un filatore di sentimenti e di passioni, o non è nulla. La fotografia autentica è una lingua senza generi, esprime una fenomenologia del fantastico o

Però, la fotografia della collera non ha nome, né autore da affogare come un gatto rognoso, o recuperare e mercificare la sua opera, un po’ grezza, ma intrisa di verità profonde. Anche i media sono inadeguati ad accogliere tanta ricchezza espressiva, mai interessata alla scelta dell’inquadratura, al taglio della luce o semplicemente “mossa” secondo gli insegnamenti scolastici. Tuttavia, nelle redazioni sono sempre pronte le forbici della linea editoriale,

e i gestori dell’immaginario pubblico si guardano bene di non accusare troppo presidenti corrotti, dittatori assassini o puttane ascese all’olimpo della politica. Neanche Stalin è stato così stupido; sosteneva la menzogna e l’assassinio senza un filo di classe e nemmeno cercava di persuadere i propri sudditi che l’esecuzione dei dissidenti era il male minore: li uccideva, e basta! I governanti della società mercantile producono genocidi in gran copia, ma non vogliono risultare colpevoli. L’umanitarismo pubblicitario li assolve, e i loro elettori li ingessano nei parlamenti, a difesa dei propri privilegi; in cambio, gettano ai servi briciole di patetica democrazia. La fotografia della collera è l’autoritratto delle giovani generazioni del Millennio che viene. La Rete raccoglie l’insubordinazione generalizzata e dissemina ovunque la fine della corruzione e della violenza subìti dai popoli impoveriti. Le immagini di barricate nelle strade, scarpe alzate contro i simboli del potere, bombe incendiare buttate contro i carri armati, ragazzi che si danno fuoco per protesta, ragazzi ammazzati dagli sgherri dei tiranni, ragazzi che impugnano ogni strumento necessario e danno l’assalto al cielo dell’impostura... sono storie, anche le più diverse, che non vogliono essere ignorate. «L’onore dei capi di Stato, che tante volte è stato il disonore di una nazione, è oggi solo un orpello» (Raoul Vaneigem). Il nuovo che avanza sulle facce di milioni di giovani intende affossare l’epoca delle etichette, dell’arroganza, del disprezzo. Si tratta di destituire l’autorità, le sue gerarchie di lacchè, la sua schiera di schiavi in competizione, diceva. Abbattere una volta per tutte la giustizia dei ricchi e accedere alla partecipazione effettiva dei cittadini al bene pubblico. Nell’onda montante delle generazioni insorte, l’uso della Rete è uno strumento di comunicazione politico e creativo, che si insinua come un coltello nel cuore dei centri di potere. L’insurrezione degli internauti è in atto: è una

65


Sguardi su vera e propria rivoluzione delle differenze, che attraverso la Rete si scambiano notizie, denunciano repressioni, annunciano ribellioni spontanee. La catenaria della disobbedienza circola nei cieli svaligiati dagli internauti, e non ci sono dittature mai abbastanza forti (o governi intelligenti) da impedire lo scoppio di sommosse ovunque il potere mostra la propria paura (Cecenia, Grecia, Cina, Tunisia, Iran, Libia, Algeria, Egitto, Marocco, Chiapas). Anche le democrazie dello spettacolo temono che la circolazione libera delle idee possa ostacolare le ristrutturazioni brutali dell’economia, o scoprire le connivenze dei politici nei libri paga delle mafie. Le vie degli internauti non sono facili da controllare, e, quando accade, subito dopo, nascono altri focolai di dissenso del comunicare. Dappertutto li sorvegliano, si cerca di inceppare le immagini, le parole, le canzoni... che circolano libere ai quattro venti della Terra, ma nessuno è in grado di fermare questa marea libertaria -invisibile-, che chiede libertà e diritti civili per l’intera umanità. Per quanti non riescono a sfuggire alle inquisizioni, persecuzioni, roghi, imprigionamenti, processi sommari, molti altri continuano a diffondere la resistenza e l’insubordinazione che dalla Rete passa nelle piazze del mondo in rivolta. Nel film L’ultima minaccia (Deadline - U.S.A.; 1952), di Richard Brooks, Humphrey Bogart è il direttore [Ed Hutcheson] di un quotidiano [The Day] che combatte un’organizzazione criminale al gangster, che vuole distruggere il giornale: «Questa è la stampa, amico. È la stampa, bellezza. E tu non puoi fare niente!». E questo vale per ogni cazzo di censura che gli esercenti del dominio cercano di applicare -con risultati disgustosi- contro la Rete, che sogna che il battito d’ali di una farfalla a New York possa trasformarsi in una tempesta a Pechino. Infatti, la Rete è un rizoma di immagini/segni che lavora alla decostruzione delle teocrazie e si fa testimone di pro-

66

getti etici che usano il sapere, la conoscenza, la creatività come arma di disvelamento della morale amministrata ed esorta a non credere alla funzione salvifica dell’obbedienza: gli internauti rigettano ogni tipo di classificazione; sanno che la verità non può essere taciuta e dire la verità è nei fatti un atto rivoluzionario. Le icone spiazzanti della collera popolare non esprimono l’ideologia della radicalità, ma la radicalità delle passioni, dei desideri, della costruzione di situazioni estreme che vanno a distruggere l’edificio economico, politico, sociale e culturale che da duemila anni architetta la disumanità dell’ordine dominante. Le facce insanguinate, incazzate, sorridenti dei popoli in rivolta figurano un’estetica del rifiuto, e dentro un’epica della disobbedienza riescono a comunicare -come non mai- la bellezza dell’immaginario liberato. La poetica della rêverie o della collera che fuoriesce dall’insieme di questo fare-fotografia non supplisce a una necessità contingente, è invece il salto creativo dello sdegno di tanti che si fanno testimoni di bellezze sconosciute e hanno la capacità e lo spirito in libertà di scippare all’eternità della storia i ceppi della sua violenza. «Il fotografo (e scrittore di fotografia) possessore di visioni allargate ad altre discipline, apparentemente distanti, probabilmente estranee [come le immagini/testimonianze tragiche delle rivolte mediterranee che circolano in Rete o la rivoluzione gentile delle donne che aggiungono al fuoco della ribellione il loro profumo appassionato], è sicuramente avvantaggiato. Magari, non ne trarrà vantaggi concreti e tangibili, tradotti in redditività di impresa. Però, la differenza che queste conoscenze e competenze fanno nella sua vita è qualcosa di più, perché migliore, non pagabile, non acquistabile con altri sistemi che con la propria volontà e disponibilità» (Maurizio Rebuzzini). In questo senso, la rivoluzione gentile delle donne che deborda nei cortei, nelle manifestazioni, nel-

le lotte contro l’origine del male esprime un bagliore di eternità che è bellezza del mondo. Le donne di ogni colore (non solo della pelle) rivendicano il diritto alla vita, senza iniquità, sottomissioni o servitù... rompono i recinti ipocriti della sessualità codificata e ragazze, madri, nonne, lesbiche, puttane, svantaggiate, partigiane (con o senza veli) smascherano i comandamenti/valori dominanti e li ridicolizzano. A giusta ragione, conquistano il libero uso del proprio corpo e demistificano ogni forma di idolatria; non temono nulla, e inventano qualsiasi cosa che rigetta la limitazione, l’ottusità, la ferocia del potere con il quale gli uomini le hanno assoggettate per secoli. Si sbarazzano dell’universo olezzante dei miserabili che attraverso l’oppressione, l’ingiustizia, la violenza cercano di soffocare la lotta di classe, la disobbedienza collettiva o la rivoluzione sociale. La bellezza, l’amore, la dignità delle donne non sfugge alle turbolenze della storia e nemmeno le donne temono di distruggere l’edificio sociale per costruire o ricostruire meglio e con disincanto la vita quotidiana. La morale della felicità delle donne non contiene il timbro del peccato, né della confessione. Anche il senso di colpa è stato costruito dalla cultura dominante, come l’odio per l’intelligenza, il disprezzo per le diversità, la mortificazione dei piaceri. I princìpi del potere maschile poggiano sul bisogno irrefrenabile di dominare, fabbricare sudditi e reprimere ogni sorta di protesta. L’educabilità delle idee passa dalla prostrazione dei popoli, ma nessun despota può impedire alle donne la passione della conoscenza o la bellezza della verità. La lussuria raffinata o selvatica delle donne (la naturalezza della loro sessualità scatenata da ogni sorta di genuflessione) rompe il disordine del prestabilito: anzi, se ne frega di Freud, Jung o Lacan, e con la forza debordante della natura (nelle differenze sessuali, filosofiche, politiche, religiose o dei costumi) cancella tutti i vizi e tutte le virtù

catalogate, e si apre a una società dell’arcobaleno, autenticamente libertina e libertaria. L’iconografia della collera è la presa di coscienza di soggetti, interpreti, testimoni occasionali che vogliono comunicare la brutalità del potere e, al contempo, la forza rivoluzionaria che lo contrasta. L’“immagine povera” della fotografica collerica esprime una coscienza creatrice e raffigura l’origine di un mondo. È un’immagine-rêverie, appunto, che nasce nell’immaginazione dei ribelli, senza mai domandarsi in che modo muoia il tiranno. La fotografia della collera non solo fantastica a occhi aperti la fine di ingiustizie secolari; la pietas che affiora nelle sue immagini rimanda a una psicologia dello stupore che rinnova e moltiplica la gioia del meravigliarsi. È un linguaggio della grazia e del dolore. C’è ingenuità e imperizia in quel fare-fotografia: l’intenzionalità poetica è bandita e l’apertura coscienziale di ogni autore/fotografo è quella di passare dall’immagine della collera alla collera che determina la rottura con lo stato di cose esistenti. Ovunque arriva, e con qualunque mezzo debutti, la fotografia della collera amplia non solo il linguaggio fotografico, ma valorizza e alimenta la coscienza del comunicare. La fotografia-rêverie ramifica nella Rete e va a sollecitare la crescita della coscienza poetica/belligerante di ciascuno. È una creazione di getto, un gesto improvviso, un’opera aperta che invita a non strisciare più. A differenza di un sogno, le fotoscritture della collera non si raccontano: per comunicarle, bisogna viverle. In un mondo che nasce da un’opera d’arte insurrezionale (difficilmente incanalabile nell’estetica del mercimonio), l’uomo libero può diventare ciò che vuole. La fotografia della collera rappresenta dunque l’espressione della rivolta che si prende il merito di essere vista, ascoltata e vissuta là dove l’arroganza del potere crolla. Il potere non è più niente. Sta a noi essere tutto! ❖




Turn static files into dynamic content formats.

Create a flipbook
Issuu converts static files into: digital portfolios, online yearbooks, online catalogs, digital photo albums and more. Sign up and create your flipbook.