Mensile, 6,50 euro, Poste Italiane SpA - Spedizione in abbonamento postale - D.L. 353/2003 (convertito in Legge il 27-02-2004, numero 46), articolo 1, comma 1 - DCB Milano
ANNO XVIII - NUMERO 171 - MAGGIO 2011
Google Art Project IN EPOCA DIGITALE
Contoversie DI OGNI TEMPO
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Abbonamento 2011 (nuovo o rinnovo) in omaggio 1839-2009
Dalla Relazione di Macedonio Melloni alla svolta di Akio Morita M A U R I Z I O
R E B U Z Z I N I
1839-2009 Dalla Relazione di Macedonio Melloni alla svolta di Akio Morita
Come dire, dal dagherrotipo all’acquisizione digitale di immagini. E consecuzioni
INTRODUZIONE
DI
GIULIANA SCIMÉ
F O T O G R A P H I A L I B R I
prima di cominciare ARCHIVI FOTOGRAFICI (E ALTRO ANCORA). Organizzato da Fratelli Alinari / Fondazione per la Storia della Fotografia, il Corso di Gestione di Archivi Fotografici 2011 si offre e presenta come una delle belle notizie che, ogni tanto (poche volte, per il vero), attraversano il mondo italiano della fotografia. Istituzionalmente, il corso affronta le problematiche legate alla conservazione e gestione di materiali fotografici, dalle prime tecniche dagherrotipiche ai supporti fotografici contemporanei, con particolare riguardo alle questioni legate alla conservazione, esposizione, legislazione e diritto d’autore, catalogazione, digitalizzazione, gestione e fruizione su web, storia della fotografia e delle tecniche fotografiche. Ufficiosamente, compone i tratti di una consapevolezza fotografica di statura internazionale: quella che serve, oltre le parole a vanvera che vengono spese ogni tanto nel nostro piccolo-grande contenitore fotografico nazionale. I termini burocratici, ora. Il corso è programmato in novantasei ore, distribuite su tre settimane; una al mese, a giugno, luglio e settembre, presso la sede Alinari di largo Fratelli Alinari 15 e il Museo Nazionale Alinari della Fotografia (Mnaf), di piazza Santa Maria Novella, sempre a Firenze. Nello specifico: dalle 14,00 di lunedì alle 13,00 di venerdì (6-10 giugno, 11-15 luglio, 19-24 settembre). A complemento, sono previste analisi dei materiali fotografici in originale conservati nelle Raccolte Museali Alinari. La didattica è affidata a docenti universitari, funzionari del Ministero dei Beni Culturali e dell’Opificio delle Pietre Dure, esperti del Museo di Fotografia Contemporanea (di Cinisello Balsamo MI), tecnici specializzati nel restauro e nella conservazione del Laboratorio della Fratelli Alinari, esperti del settore. Per ulteriori informazioni: Vincenzo Circosta (055-216310; circosta@alinari.it, fondazione@alinari.it), Emanuela Sesti (0552395235; emanuela.sesti@alinari.it).
Mi è spontaneo e naturale rispondere a una natura formata in parti uguali di cultura (?) e istinto. È giocoforza assecondare il vero luogo natio, quello nel quale per la prima volta si è posato lo sguardo consapevole su se stessi: la mia prima (e unica) patria sono stati i libri. Non i libri fini a se stessi, ma nella propria proiezione esistenziale; lo condivido: la parola scritta mi ha insegnato ad ascoltare le voci. La vita mi ha chiarito i libri: osservare, piuttosto che giudicare, fino al linguaggio fotografico, straordinaria combinazione di regole logiche e usi arbitrari. Maurizio Rebuzzini; su questo numero, a pagina 7 «Come l’acqua, il gas o la corrente elettrica, entrano grazie a uno sforzo quasi nullo, provenendo da lontano, nelle nostre abitazioni per rispondere ai nostri bisogni, così saremo approvvigionati di immagini e di sequenze di suoni, che si manifestano a un piccolo gesto, quasi un segno, e poi subito ci lasciano». Paul Valéry; su questo numero, a pagina 51 (da Scritti sull’arte - La conquista dell’ubiquità; 1934) Fotografare è un modo di conoscere e conoscersi. Pino Bertelli; su questo numero, a pagina 64
Copertina Autore che declina le proprie visioni con pellicola a sviluppo immediato, nelle proprie interpretazioni assolutamente personali, Gigi Vegini offre una natura che si fa effettivamente pittrice di sé medesima
3 Altri tempi (fotografici) Trasversale a questo intero numero della rivista: come la fotografia influenza e cambia la nostra vita. Da cui, inevitabile?, dalla copertina di un dépliant Kodak, del dicembre 1954: la fotografia in famiglia
7 Editoriale Appunto, e contrappunto, nel proprio insieme, questo numero della rivista è attraversato da un’idea sostanzialmente omogenea, oltre che volontaria: come la fotografia influenza e cambia la nostra Vita
8 Morti e altri dolori In ricordo di Tim Hetherington e Chris Hondros, uccisi da un colpo di mortaio, in Libia, lo scorso venti aprile. Due eccezionali fotogiornalisti che sono morti per fotografare la storia, per fare di noi persone ogni giorno migliori. Onore e merito (?) di Lello Piazza e Maurizio Rebuzzini
12 Notizie Attrezzature, vicende e altre segnalazioni
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MAGGIO 2011
R , RIFLESSIONI IFLESSIONI, OSSERVAZIONI E COMMENTI OSSERVAZIONI E COMMENTI SULLA FOTOGRAFIA SULLA FOTOGRAFIA
16 Nero-su-nero (e altro) Commenti a freddo che partono dalla nostra particolare edizione di aprile (Vogliamo parlarne?), senza concludersi in alcuna autoreferenza. Una volta ancora, una volta di più, mai una di troppo, spunti utili e proficui. Speriamo
22 Ici Bla Bla Appunti e attualità della fotografia internazionale a cura di Lello Piazza
26 Cameron - Hershel Davanti al ritratto di sir John Frederick William Herschel, peraltro figura fondamentale della Storia della fotografia, realizzato nel 1867 da Julia Margaret Cameron di Andrea Villanis
28 Polafiori Raccolti anche in elegante e preziosa cartella a tiratura numerata, i Polafiori di Gigi Vegini rappresentano una papitante testimonianza di un modo di interpretare la fotografia che ha attraversato il secondo Novecento
34 Controversie Al Museo Nazionale Alinari della Fotografia (Mnaf), di Firenze, è allestita una mostra straordinaria. Controverses. Una storia giuridica ed etica della fotografia, è una concentrata rassegna di fotografie di e da scandalo:senza alcuna soluzione di continuità, aspre controversie d’autore, di utilizzo, sociali, di costume e, anche, commerciali. Da non perdere di Antonio Bordoni
43 Monografie d’autore Fotografi A-Z è un prezioso casellario di quattrocento autori del Novecento: loro pubblicazioni significative di Angelo Galantini
50 Riproducibilità tecnica Google Art Project offre l’eccezionale opportunità di visitare diciassette musei del mondo. Fino al dettaglio di Maurizio Rebuzzini Ricerca iconografica di Ciro Rebuzzini
Anno XVIII - numero 171 - 6,50 euro DIRETTORE
RESPONSABILE
Maurizio Rebuzzini
IMPAGINAZIONE
Maria Marasciuolo
REDAZIONE
Angelo Galantini
FOTOGRAFIE Rouge
SEGRETERIA
Maddalena Fasoli
HANNO
COLLABORATO
Pino Bertelli Antonio Bordoni Chiara Lualdi Lello Piazza Franco Sergio Rebosio Ciro Rebuzzini Filippo Rebuzzini Gigi Vegini Andrea Villanis Silvia Zotti Redazione, Amministrazione, Abbonamenti: Graphia srl, via Zuretti 2a, 20125 Milano; 02-66713604 www.FOTOgraphiaONLINE.it; graphia@tin.it. ● FOTOgraphia è venduta in abbonamento. ● FOTOgraphia è una pubblicazione mensile di Graphia srl, via Zuretti 2a, 20125 Milano. Registrazione del Tribunale di Milano numero 174 del Primo aprile 1994. Poste Italiane SpA - Spedizione in abbonamento postale - D.L. 353/2003 (convertito in Legge il 27-02-2004, numero 46), articolo 1, comma 1 - DCB Milano. ● A garanzia degli abbonati, nel caso la pubblicazione sia pervenuta in spedizione gratuita o a pagamento, l’Editore garantisce la massima riservatezza dei dati forniti dagli abbonati e in suo possesso, fatto diritto, in ogni caso, per l’interessato di richiederne gratuitamente la rettifica o la cancellazione ai sensi della legge 675/96. ● FOTOgraphia Abbonamento 12 numeri 65,00 euro. Abbonamento annuale per l’estero, via ordinaria 130,00 euro; via aerea: Europa 150,00 euro, America, Asia, Africa 200,00 euro, gli altri paesi 230,00 euro. Versamenti: assegno bancario non trasferibile intestato a Graphia srl Milano; vaglia postale a Graphia srl - PT Milano Isola; su Ccp n. 28219202 intestato a Graphia srl, via Zuretti 2a, 20125 Milano; addebiti su carte di credito CartaSì, Visa, MasterCard. ● Nessuna maggiorazione è applicata per i numeri arretrati. ● È consentita la riproduzione di testi e fotografie, magari citando la fonte (ma non è indispensabile, né obbligatorio farlo). ● Manoscritti e fotografie non richiesti non saranno restituiti; l’Editore non è responsabile di eventuali danneggiamenti o smarrimenti. Fotocomposizione DTP e selezioni litografiche: Rouge, Milano Stampa: Arti Grafiche Salea, Milano
Rivista associata a TIPA
62 Proto fotografia (?) Tempi storici anticipati, in Ladri di cadaveri (1828) Ricerca iconografica di Filippo Rebuzzini
64 Angelo Palombini Sguardi sulla fotografia dell’incontro (e dell’inquietudine) di Pino Bertelli
www.tipa.com
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editoriale V
olente o nolente, ogni numero di questa rivista è in qualche modo e misura trasversale. Nel senso che la fogliazione e la messa in pagina (sinonimi?) sono niente affatto casuali. Per quanto gli argomenti presentati si propongano ognuno per se stesso, tutti compongono anche i tratti di un altro ordine (superiore?), che li collega assieme in un contesto quantomeno omogeneo: ognuno di loro risponde anche a un ordine più generale e, per così dire, complessivo. In definitiva, qual è la linea trasversale, ma neppure poi tanto tale (trasversale), che accompagna questa edizione della rivista? Facile, oltre che rivelato in alcuni dei suoi passi: come la fotografia influenza e cambia la nostra vita. Ovverosia, come, oggigiorno, la nostra Vita faccia i propri conti anche con quanto di fotografico la colpisce e raggiunge. Una volta ancora, con Paul Valéry (da Scritti sull’arte - La conquista dell’ubiquità; 1934), rievocato e richiamato, su queste stesse pagine, in chiusura della presentazione del fantastico Google Art Project, da pagina 50: «Come l’acqua, il gas o la corrente elettrica, entrano grazie a uno sforzo quasi nullo, provenendo da lontano, nelle nostre abitazioni per rispondere ai nostri bisogni, così saremo approvvigionati di immagini e di sequenze di suoni, che si manifestano a un piccolo gesto, quasi un segno, e poi subito ci lasciano». Tra tanto altro, che non manchiamo mai di sottolineare e approfondire, autentico linguaggio del Novecento, e oltre, verso il Ventunesimo secolo, la Fotografia è parte integrante delle nostre esperienze quotidiane. Personalmente, sono un privilegiato e favorito, non avendo altro di cui interessarmi e occuparmi. Per cui mi è facile pensare all’esistenza guidata dai gesti che ciascuno di noi compie nella propria vita, oltre che dalle emozioni che ne conseguono. Mi è spontaneo e naturale rispondere a una natura formata in parti uguali di cultura (?) e istinto. È giocoforza assecondare il vero luogo natio, quello nel quale per la prima volta si è posato lo sguardo consapevole su se stessi: la mia prima (e unica) patria sono stati i libri, e di questo scriviamo tanto spesso. Ma, attenzione: non i libri fini a se stessi, ma nella propria proiezione esistenziale; lo condivido: la parola scritta mi ha insegnato ad ascoltare le voci. La vita mi ha chiarito i libri: osservare, piuttosto che giudicare, fino al linguaggio fotografico, straordinaria combinazione di regole logiche e usi arbitrari. A ciascuno, il proprio: lo diciamo sempre, non soltanto spesso. A tutti noi, assieme, il senso e valore di quella comprensione degli altri attraverso la quale passa il riconoscimento di se stessi e di se stessi con gli altri. Le ragioni degli altri, il dolore degli altri, prima delle ragioni nostre e del dolore nostro. Affinché gli impegni di qualcuno e la vita di molti (ora penso a Tim Hetherington Chris Hondros, tra tanto altro, morti per fotografare la storia ) servano a tutti. Il resto, come sempre, è soltanto mancia. Maurizio Rebuzzini
Come la Fotografia influenza e cambia la nostra Vita. Come in molti ci credono. Qualcuno dalla comodità dei propri spazi vitali (io, MR, tra tutti). Altri in un impegno che mette in discussione l’esistenza individuale. Ancora qui, onore e merito (?) a Tim Hetherington e Chris Hondros, amaramente le due più recenti vittime di una storia di fotogiornalisti e giornalisti morti per fotografare la storia, per fare di noi persone ogni giorno migliori.
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In ricordo di Lello Piazza e Maurizio Rebuzzini
MORTI E ALTRI DOLORI
L
Laconico. «In besieged Libyan city of Misurata. Indiscriminate shelling by Qaddafi forces. No sign of Nato» (Dalla città assediata di Misurata, Libia. Attacchi indiscriminati da parte delle forze di Gheddafi. Non c’è traccia delle forze Nato). Questo è l’ultimo messaggio del fotogiornalista inglese Tim Hetherington (quarantuno anni), postato su Twitter il venti aprile scorso, poco prima di morire, centrato da un colpo di mortaio delle forze lealiste libiche. Assieme a Tim Hetherington, è morto anche Chris Hondros (quarantuno anni), finalista al Pulitzer nel 2004, in Libia per Getty Images, autore di una delle immagini più amate da Grazia Neri [a pagina 10]. Di lui, sul blog Lens, del New York Times, subito dopo la notizia, è apparso questo commento: «L’immagine che la gente ha di un fotografo di guerra è fatica, fiaschetta di whisky in tasca, passione per passatempi osceni. Per Chris Hondros, occorre cambiare cliché: giacca di tweed con le toppe ai gomiti, predilezione per il martini, amore per Mahler, passione per gli scacchi». Due grandi fotogiornalisti che se ne sono andati per tenere informato il mondo con la loro testimonianza visiva. Per loro, se non fosse stucchevole, la definizione appropriata sarebbe: due eroi. Sotto la stessa bomba, che ha ucciso anche sette civili libici e un medico ucraino, sono rimasti feriti pure il fotogiornalista britannico, basato a New York, Michael Brown (trentaquattro anni), che sta coprendo la rivoluzione libica utilizzando solo il telefonino iPhone 4 di Apple, e il suo connazionale e collega Guy Martin (ventotto anni). La vicenda libica è punteggiata di episodi delittuosi nei confronti della stampa. Tornando a Bengasi, il giornalista Al Jaber, di Al-Jazeera, è stato fermato da quattro uomini armati non identificati che hanno fatto fuoco sulla sua automobile, uccidendo lui e una persona che lo accompagnava. Gli altri abusi subìti da esponenti della stampa, durante la copertura della protesta del mondo arabo in alcuni
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settimana prima, in piazza Tahrir, al Cairo; la morte, durante una manifestazione a Tunisi, del fotogiornalista Lucas Mebrouk Dolega (trentadue anni), dell’agenzia francese Epa, avvenuta il quattordici gennaio. Ma la situazione più grave è in Libia, a causa del comportamento irrispettoso di ogni convenzione internazionale da parte delle forze fedeli a Gheddafi: la detenzione, durata otto giorni, dal sei al tredici marzo, di Andrei Netto, brasiliano, giornalista del quotidiano O Estado de São Paulo; le violenze e i trattamenti umilianti subiti da tre giornalisti della Bbc l’otto marzo; la scomparsa di Ghaith AbdulAhad, del quotidiano londinese Guardian, svanito nel nulla il venticinque marzo, mentre documentava i combattimenti tra le forze pro-Gheddafi e i ribelli; il sequestro dello staff del New York Times, del quale diamo notizia in Ici Bla Bla, su questo stesso numero, a pagina 22. All’indomani della scomparsa di Tim Hetherington, il National Geographic Channel (canale 403 di Sky) lo ha ricordato trasmettendo il suo docu-
Tim Hetherington (1970-2011).
Chris Hondros (1970-2011).
paesi del Nord Africa che si affacciano sul Mediterraneo, sono qui in elenco (incompleto): la morte di Ahmed Mohammed Mahmoud, del quotidiano Al-Ta’awun, avvenuta il quattro febbraio per le ferite di colpi d’arma da fuoco che lo avevano raggiunto una
mentario Restrepo. Inferno in Afghanistan [traduzione italiana del titolo originario], realizzato assieme a un celebre reportage fotografico (da cui la World Press Photo of the Year 2007 ). Ricordiamo che, alla più recente edizione del Sundance Film Festival, que-
In ricordo sto filmato, scritto e diretto con il giornalista Sebastian Junger, ha vinto il Grand Jury Prize, per il miglior documentario, e ha ricevuto la nomination per l’Academy Award 2011 (Oscar). Da Restrepo. Inferno in Afghanistan, la World Press Photo of the Year 2007: scattata il sedici settembre (2007), nella valle di Korengal, in Afghanistan, una delle valli nell’est del paese dove gli scontri sono più duri e frequenti. Mostra un soldato sfinito dalla stanchezza, appoggiato alle pareti del bunker Restrepo [qui sotto]. La fotografia di Tim Hetherington, in Afghanistan con un assegnato di Vanity Fair, ha fatto parte di un servizio che ha ricevuto il secondo premio nella sezione General News Stories [FOTOgraphia, aprile 2008]. Motivando la scelta della giuria, il presidente di turno Gary Knight dichiarò: «Questa immagine mostra lo sfinimento di un uomo e lo sfinimento di una nazione. Dobbiamo sentirci tutti coinvolti in questo sfinimento. L’uomo che vediamo sembra giunto alla fine di tutto». Il documentario Restrepo offre un accesso esclusivo alla vita delle truppe americane stanziate in Afghanistan. È la cronaca delle vicende degli uomini del secondo plotone della 173esima brigata aviotrasportata, che nel 2007 venne schierato per quindici me-
si nella valle di Korengal, in Afghanistan. L’avamposto si chiamava Restrepo, in onore del loro medico, Juan Restrepo, ucciso in missione. Senza acqua corrente, comunicazioni telefoniche e Internet, talvolta privo di elettricità e riscaldamento, ma gremito di munizioni e sacchetti di sabbia, l’avamposto veniva attaccato anche tre o quattro volte al giorno.
MORIRE IN GUERRA Il ventidue aprile, il quotidiano La Repubblica ha dedicato tre pagine alla morte in Libia dei due fotogiornalisti Tim Hetherington e Chris Hondros. Sotto un’immagine-simbolo (una reflex insanguinata), hanno preso avvio considerazioni di attualità e in retrospettiva. In un articolo ben redatto, documentato e coinvolgente, Bernardo Valli ha affrontato un tema spinoso, quello di Morire per fotografare la storia, nel cui ambito ha ricordato i tristi e terribili precedenti, tra i quali quello dell’italiano Raffaele Ciriello, ucciso a Ramallah da un proiettile israeliano, il 13 marzo 2002. Quindi, ancora in attualità, Giampaolo Cadalanu ha intervistato Paolo Pellegrin, che pure attraversa le guerre del mondo e dice la sua (a proposito, fino al quindici maggio, alla Fondazione Forma, di Milano, è esposta
World Press Photo of the Year 2007, di Tim Hetherington. 16 settembre 2007, un soldato sfinito dalla stanchezza, appoggiato alle pareti del bunker Restrepo, intitolato a un medico ucciso dai Talebani.
la sua personale Dies Irae, che si accompagna con un omonimo volumecatalogo, pubblicato da Contrasto: ne consigliamo vivamente la visita). In retrospettiva, le tre pagine di Repubblica richiamano celebri precedenti di fotogiornalisti morti nello svolgimento del proprio dovere, o di quello che interpretano e vivono come proprio dovere: Gerda Taro, la compagna di Robert Capa, schiacciata da un carro armato, il 26 luglio 1937, durante la Guerra civile spagnola, la prima effettivamente “coperta” dal fotogiornalismo internazionale; Robert Capa, del quale ricordiamo i pochi fotogrammi salvati del suo reportage sullo sbarco in Normandia, morto su una mina, in Indocina, nella provincia di Thai Binh, il 25 maggio 1954 (nove giorni dopo la tragica scomparsa di Werner Bischof, con il quale, nel 1947, aveva fondato la Magnum Photos); David “Chim” Seymour, altro fotografo Magnum Photos, ucciso a El Qantara, il 10 novembre 1956, mentre seguiva la crisi di Suez; e via via, fino a Fabio Polenghi, ucciso per le strade di Bangkok, lo scorso diciannove maggio (2010), durante l’assalto finale dell’esercito alle Camicie Rosse, che protestavano da giorni contro il governo [FOTOgraphia, settembre 2010]. Così che, in occasione di queste
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In ricordo
due recenti uccisioni (Tim Hetherington, World Press Photo of the Year 2007, e Chris Hondros), alla luce dell’irreparabile e definitivo, il tema del fotoreporter di guerra balza agli onori e oneri della cronaca. Non c’è molto da aggiungere, oltre la nostra commossa partecipazione, se non ricordare che le morti sono solo uno degli aspetti di una intricata vicenda: basta ascoltare il video-intervista di James Nachtwey, celebrato come il più grande tra i fotografi di guerra contemporanei (come se potesse essere stilata una graduatoria!). I suoi dubbi e i suoi coinvolgimenti esprimono una condizione esistenziale in precario equilibrio (?) tra il dovere di fotografare e l’angoscia di vedere e assistere al dolore (con Susan Sontag, in Davanti al dolore degli altri, pubblicato in Italia da Mondadori: le nostre visioni, ma anche quelle dei fotografi; da leggere e rileggere). Le parole di James Nachtwey rivelano come le guerre non facciano vittime tra i fotografi soltanto quando li uccidono sul campo. Già... il cuore.
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Fotografia di Chris Hondros (Getty Images). Samar Hassan, cinque anni, grida di terrore dopo che i suoi genitori sono stati uccisi dai soldati americani della 25esima Divisione di Fanteria, il 18 gennaio 2005, a Tal Afar, in Iraq. I suoi genitori non erano terroristi. Si erano soltanto avvicinati troppo (secondo gli americani) a un posto di blocco.
Non possiamo ignorare il caso del sudafricano Kevin Carter, presente nel casellario Controverses. Una storia giuridica ed etica della fotografia, al Museo Nazionale Alinari della Fotografia (Mnaf), di Firenze, fino al cinque giugno [che commentiamo da pagina 34], proprio con la fotografia dal Sudan dal quale è dipesa la sua esistenza. Nel 1993, Kevin Carter si trova in Sudan per un’inchiesta sugli effetti della guerra civile e della carestia che affliggono il paese. Giunto nei pressi del villaggio di Ayod, fotografa una bambinetta che si trascina faticosamente verso un punto di approvvigionamento, seguita da un avvoltoio. L’immagine viene pubblicata sul New York Times. Il successo della fotografia è folgorante. Al giornale giungono migliaia di lettere preoccupate per la sorte della bambina. Ma a Carter arrivano anche voci che mettono in discussione il suo atteggiamento. I critici arrivano al punto di paragonarlo all’avvoltoio della sua terribile fotografia (ma necessaria:
ancora con Michele Smargiassi, dal blog Fotocrazia / Lontano dagli occhi, dello scorso quattordici febbraio, riproposto in FOTOgraphia di marzo: «il dovere del fotoreporter è di fotografare»). L’immagine gli assicura tuttavia grande celebrità, culminata con il conferimento del Premio Pulitzer, nel 1994. Kevin Carter si è suicidato due mesi dopo aver ricevuto il riconoscimento. La sua vicenda è un esempio drammatico delle problematiche del coinvolgimento del fotografo nella situazione della quale è testimone. Deve intervenire o limitarsi a testimoniare? Morale ed etica: quelle di sempre. Deve stare discosto, o mettersi in gioco? Mettere in gioco la sua stessa vita? Appunto: Morire per fotografare la storia. Onore e merito (?) a Tim Hetherington e Chris Hondros, amaramente le due più recenti vittime di una storia di fotogiornalisti e giornalisti morti in guerra che è troppo lunga, di un elenco che è eccessivamente penalizzante. ❖
Notizie a cura di Antonio Bordoni
AGGIORNAMENTI PENTAX. Sono disponibili nuovi firmware per le reflex Pentax K-5 e 645D. Nello specifico, prestazioni aggiunte al firmware 1.03 per la Pentax K-5: precisione migliorata dell’autofocus in condizioni di bassa intensità luminosa, stabilità generale perfezionata e aggiornamenti consistenti, rispetto la precedente release 1.02.
Allo stesso tempo, altrettante prestazioni aggiunte al firmware 1.03 per la Pentax 645D: l’elaborazione per la riduzione del rumore con le lunghe esposizioni mostra il tempo rimanente sul pannello LCD; attraverso una funzione di personalizzazione del menu, è possibile impostare il tempo di sincronizzazione X corrispondente alla posizione “X” sulla ghiera delle modalità; collegando la reflex medio formato a un computer, tramite il cavo USB, il nome attribuito passa da [Removable Disk] a [645D]; formattando una scheda di memoria SD, l’etichetta di volume diventa [645D]; dopo il sollevamento dello specchio, il tempo di standby (che fa riabbassare automaticamente lo specchio in posizione originale) si allunga da circa un minuto a circa cinque minuti; se l’impostazione di spegnimento automatico è inferiore a cinque minuti, lo stesso tempo di spegnimento automatico prevale sul tempo di standby per lo specchio sollevato. L’aggiornamento del firmware (dei firmware) è a cura dell’utente e va eseguito rispettando istruzioni fornite. In versioni per Mac e Windows, i firmware e le istruzioni generali per effettuare l’aggiornamento sono disponibili nelle pagine prodotto delle
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reflex Pentax K-5 e 645D, al sito http://www.pentaxfoto.it/. (Fowa, via Tabacchi 29, 10132 Torino; www.fowa.it).
TOUCH SCREEN. Come precisato nella sigla identificativa, la nuova compatta Rollei Compactline 370 Touch Screen vanta prima di altro un display touch screen da tre pollici, che si allinea alla risoluzione video ad alta definizione. Superleggera (pesa solo 110g), la compatta è dotata di obiettivo grandangolare da 28mm (equivalente), che favorisce una ripresa ottimale nel paesaggio. Le trenta modalità di acquisizione dell’immagine garantiscono la massima semplicità di utilizzo, mentre la funzio-
ne di scatto continuo ad alta velocità consente di scattare ben trenta istantanee al secondo. Risoluzione effettiva di quattordici Megapixel, zoom ottico Apogon 4x, sensibilità fino a 3200 Iso equivalenti, livrea nera e argento. (Mafer, via Brocchi 22, 20131 Milano; www.maferfoto.it).
APOCROMATICI DI ALTA CLASSE. Lo zoom tutto tele Sigma Apo 120-300mm f/2,8 EX DG OS HSM e il lungo fuoco Sigma Apo Macro 150mm f/2,8 EX DG OS HSM, con funzioni operative indirizzate anche alla fotografia a distanza ravvicinata (per l’appunto, Macro), sono due recenti configurazioni ottiche che fanno tesoro della costruzione apocromatica dei propri rispettivi disegni ottici, finalizzata alla massima qualità
formale della ripresa fotografica. Inoltre, come rivela la lunga e dettagliata sigla identificatoria, comprensiva di tutte le specifiche tecniche adottate, entrambi incorporano il sistema Sigma di stabilizzazione ottica, tecnologia proprietaria Optical Stabilizer (OS, che estende di quattro stop la gamma di tempi di otturazione utilizzabili nella ripresa a mano libera), ed entrambi sono provvisti di motore HSM (Hyper Sonic Motor), che garantisce una messa a fuoco rapida e silenziosa e, nel contempo, permette la messa a fuoco manuale in qualsiasi momento. Al solito, con ordine. Lo zoom Sigma Apo 120300mm f/2,8 EX DG OS HSM è tropicalizzato, per poter essere usato in condizioni ambientali difficili. Per correggere nel modo migliore le aberrazioni, nel suo schema ottico di ventitré lenti in diciotto gruppi sono stati adottati due elementi in vetro ottico FLD e uno SLD, a basso indice di dispersione. Quindi, il trattamento multistrato Super Multi Layer Coating riduce il flare e le immagini fantasma. Il sistema di messa a fuoco e la selezione zoom interni assicurano immagini nitide a tutte le focali dell’ampia escursione tele, da 120 a 300mm: con corrispondente inquadratura da 20,4 a 8,2 gradi di angolo di campo; scala dei diaframmi fino a f/22 e messa a fuoco da 150 e 250cm (ingrandimento massimo 1:8,1, alla focale 200mm). A completamento, i moltiplicatori di focale dedicati Sigma Apo Tele Converter 1,4x EX DG e 2x EX DG estendono e raddoppiano la gamma di focali dello zoom: 168420mm e 240-600mm. Il nuovo Sigma Apo Macro 150mm f/2,8 EX DG OS HSM è caratterizzato e definito da una eccellente apertura relativa (ovverosia, luminosità), che ne estende l’impiego in ogni condizione di luce, anche debole. Da cui, per poter lavorare in condizioni estreme, è anche dotato di tropicalizzazione. Quindi, un sistema di messa a fuoco flottante sposta
due gruppi di lenti, che provvedono anche alla correzione delle aberrazioni astigmatica e sferica, per garantire ottime prestazioni ottiche (formali) dall’infinito fino al rapporto di riproduzione macro 1:1 (al naturale): a fuoco da 38cm, angolo di campo 16,4 gradi, diaframma minimo f/22. In un disegno ottico di diciannove lenti in tredici gruppi, tre elementi in vetro ottico SLD (Special Low Dispersion) provvedono a una eccellente correzione di tutti i tipi di aberrazione. Il rivestimento Multistrato Super Multi Layer Coating riduce il flare e le immagini fantasma. Anche alla massima apertura relativa f/2,8, l’obiettivo offre una elevata luminosità periferica e costruisce immagini definite e contrastate. Ancora, sono utilizzabili i moltiplicatori di focale dedicati Sigma Apo Tele Converter 1,4x EX DG e 2x EX DG, che estendono e raddoppiano la focale: 210mm e 300mm. (M.Trading, via Cesare Pavese 31, 20090 Opera Zerbo MI; www.m-trading.it).
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❯ Lexar Professional SDXC 133x, da 64GB a 128GB. Progettata per i professionisti dell’immagine e della ripresa video, la nuova scheda Lexar SDXC Classe 10, della serie Professional, con consistente capacità, consente la memorizzazione di una eccellente quantità di fotografie, anche in formato RAW (sempre più utilizzato), e di lunghe riprese video in alta definizione, fino allo standard 1080p. ❯ Lexar Echo MX e ZX Drive USB. Due pendrive USB ad alta velocità, dedicate a chi svolge la propria attività al notebook e al netbook. I due nuovi dispositivi di memorizzazione Lexar offrono il criptaggio AES a 128 bit per la sicurezza e la riservatezza dei dati salvati al proprio interno. Disponibili in capacità di 8GB, 16GB,
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32GB, 64GB e 128GB (Echo MX) e 8GB, 16GB e 32GB (Echo ZX). ❯ Lexar JumpDrive S70, S50 e V10 USB Flash Drive. Nuovi colori e stili per la nota serie di dispositivi di storaggio JumpDrive di Lexar. Capaci di garantire affidabilità e alte capacità di memorizzazione dati, i nuovi modelli vantano la crittografia protetta da password a 256 bit e l’opzione File Shredder (per il top di gamma JumpDrive S70), la protezione microbica Microban che previene macchie e cattivi odori (JumpDrive S50) e, infine, l’indicatore LED che lampeggia indicandone l’attività (tutti e tre i modelli). Al top di gamma, il JumpDrive S70 è il massimo in termini di sicurezza e riservatezza dei dati memorizzati; possibilità di criptare i file mediante password a 256 bit e suddividere lo spazio a disposizione in più porzioni, dette “Encrypted Vaults”, a propria volta protette da cifratura. Nelle capacità di 4GB, 8GB, 16GB, 32GB e 64GB. Il JumpDrive S50 ha il cappuc-
cio di protezione del connettore USB scorrevole e vanta la protezione antimicrobica “Microban”, che previene la formazione di microbi e muffe che con il tempo potrebbero causarne il deterioramento. Nelle capacità di 4GB, 8GB, 16GB, 32GB e 64GB. Il JumpDrive V10 punta alla semplicità di uso. Si presenta in diversi colori, ciascuno associato alla capacità di memoria: celeste per 4GB, blu per 8GB, arancione per 16GB e, infine, bianco per 32GB. (Nital, via Tabacchi 33, 10132 Torino; www.nital.it).
MEDIO FORMATO IN KIT. Sono disponibili i kit Mamiya RZ33 e RZ22, per acquisizioni digitali di consistente qualità formale. I kit si basano sul corpo macchina noto e apprezzato Mamiya RZ67 Pro IID, con mirino pozzetto, dorso Mamiya DM22 o DM33, adattatore dorso per RZ e -udite, udite- comprendono anche il nuovo corpo Mamiya 645DF. Praticamente, due sistemi in uno! Nel corso degli anni, dei decenni, la grande versatilità di impiego della Mamiya RZ67 ha definito i termini di un utilizzo convinto da parte dei fotografi professionisti della pubblicità, della moda, del beauty, industriali, del ritratto e dell’architettura. In allineamento, gli obiettivi Mamiya
serie RZ sono dotati di otturatore centrale sincronizzato elettronicamente, per la massima precisione, fino a 1/400 di secondo. La gamma include obiettivi specialistici e finalizzati, quali il 75mm Tilt & Shift, il 120mm Macro e il Fisheye. I kit Mamiya proposti sono ideali per coloro i quali già possiedono obiettivi RZ67, adeguatamente utilizzabili anche in acquisizione digitale di immagini. Allo stesso momento, i kit offrono nuove possibilità fotografiche, grazie al corpo macchina Mamiya 645DF, evoluta configurazione digitale che può utilizzare i nuovi obiettivi disegnati in collaborazione con Schneider, mantenendo la compatibilità con i sistemi ottici Mamiya 645 AFD, Mamiya AF, non AF e Hasselblad V (con apposito adattatore). Kit RZ33: dorso digitale Mamiya DM33, da 33 Megapixel,
6726x5040 pixel, 16 bit/channel (batteria, caricabatterie e cavo FW800, per acquisizione con connessione computer). Kit RZ22: dorso digitale Mamiya DM22, da 22 Megapixel, 5356x4056 pixel, 16 bit/channel (batteria, caricabatterie e cavo FW800, per acquisizione con connessione computer). Entrambi con: Mamiya RZ67 Pro IID (otturatore centrale, dorso ruotabile 90 gradi orizzontale/verticale, soffietto di messa a fuoco), Mamiya 645DF (otturatore centrale, sincronizzazione flash fino a 1/1600 di secondo, tempi di otturazione da 1/4000 di secondo a un’ora) e software Leaf Capture One DB. (Image Consult, via Cavalcanti 5, 20127 Milano; www.imageconsult.it, www.mamiyaitalia.it). ❖
Parliamone di Maurizio Rebuzzini
NERO-SU-NERO (E ALTRO)
Q
(in basso, a destra) Allo stand di FOTOgraphia: Gianni Berengo Gardin, Michele e Marco Fanelli; Maurizio Galimberti, Fabrizio Jelmini, Lello Piazza e Maurizio Rebuzzini.
Prima dell’apertura del PhotoShow 2011 e durante il PhotoShow 2011: copertina di aprile occultata e poi svelata. ANTONIO BORDONI
Quante, tante le storie che hanno accompagnato il nostro ritorno al PhotoShow, dopo anni di esilio volontario (indesiderati e sgraditi a qualcuno, sappiamo bene a chi, abbiamo garbatamente tolto il disturbo). Per la nostra partecipazione al PhotoShow 2011, a Milano, alla fine dello scorso marzo, abbiamo confezionato una edizione particolare di FOTOgraphia, ne stiamo per riferire, e abbiamo inteso un impegno in proiezione convintamente propositiva. A parte l’accoglienza conviviale, per stare assieme a chiacchierare -in compagnia di pane, salame e buon Barbera (del Monferrato, imbottigliata in
cente edizione Photokina 2010, commentata in FOTOgraphia dello scorso novembre, come, in facile previsione, agli svolgimenti che incontreremo (?) i prossimi anni, già dall’autunno 2012: inderogabilmente, spunti utili e proficui sia al comparto tecnico-commerciale sia al mondo della fotografia espressiva e creativa. Come ho sostanziosamente rilevato in tante occasioni, da tempo la Photokina, appuntamento fotografico di inevitabile riferimento, non è più Fiera di novità tecniche: che ci sarebbero state anche senza mettere in piedi una tale kermesse e che si sarebbero conosciute comunque, indipendentemente dall’appuntamento ufficiale di Colonia, in Germania, della fine di settembre. E lo stesso dovrebbe essere per l’italiano PhotoShow, in proiezione commerciale soltanto nazionale. Oggigiorno, non è più un problema di novità di mercato, come è stato fino a qualche anno fa, quando si allestivano fiere merceologiche per annotare le nuove interpretazioni fotografiche realizzate e proposte. Al giorno d’oggi, per essere annunciate e, addirittura, proposte al mercato, le novità tecniche non attendono più gli appuntamenti fieristici canonici. Per quanto riguarda la comunicazione, il tempo reale della rete Internet assolve egregiamente e risolve. A conseguenza, le fiere vanno allestite per esprimere e manifestare la cifra stilistica di un settore. In particolare, consumi generici a parte, l’industria fotografica deve as-
zona di produzione da Stefano Massone, di Capriata d’Orba, in provincia di Alessandria)-, all’esterno del nostro spazio fieristico abbiamo proposto una mini mostra con fotogrammi cinematografici selezionati: in quattro pannelli tematici, attori con apparecchio fotografico tra le mani [pagina accanto]. Curiosamente, questa è stata una delle rare apparizioni di fotografia in un momento fieristico che a questa dovrebbe essere rivolto. Anche così, purtroppo anche così, va il mondo italiano della fotografia, tanto privo di idee e proposte gratificanti. Noi abbiamo fatto la nostra parte; pochi altri possono affermare lo stesso. Lo rileviamo senza alcuna soddisfazione, ma con non celata amarezza: diamine, vogliamo finalmente capire che anche il commercio della fotografia, forse soprattutto questo, deve basarsi sull’appagamento di un hobby, una passione, un interesse che non sono affatto disgiunti, separati e distinti dal risultato fotografico finale, verso il quale tutto è proiettato?
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FRANCO SERGIO REBOSIO
Dopo anni di assenza volontaria e consapevole, siamo tornati al PhotoShow, appuntamento nazionale della fotografia, ribadendo la nostra assoluta e ferma convinzione che le fiere merceologiche dei nostri giorni non possono (non potrebbero!) svolgersi secondo il copione che fu vincente e appassionante decenni fa. E qui ripetiamo, ribadendole, le nostre opinioni al proposito. Personalmente, ho espresso più volte le mie, confezionando addirittura un libro-saggio, compilato all’indomani dello svolgimento della Photokina 2008, fiera internazionale della fotografia: appunto, Alla Photokina e ritorno, le cui rilevazioni non sono affatto datate, né circoscritte al 2008 di richiamo e riferimento esplicito (oltre che utilitaristico). Infatti, con onestà intellettuale, la sostanza delle osservazioni e analisi lì espresse è ancora di grande attualità, tanto che le sue parole possono essere tranquillamente trasposte alla più re-
ANTONIO BORDONI
FRANCO SERGIO REBOSIO
FIERA COMMERCIALE
Parliamone Sulla parete esterna dello stand di FOTOgraphia, rara presenza di fotografia al PhotoShow 2011 (che a questa dovrebbe essere rivolto): fotogrammi da film, con attori con apparecchio fotografico tra le mani. A CURA DI FILIPPO REBUZZINI (4)
sonale e individuale. Ovvero, come annotato in tempi antecedenti a oggi, in tempi non sospetti, il valore aggiunto è proprio questo: la fotografia finale che ciascuno realizza. Oltre la logica di mercato, che viene dibattuta in territori appositi, l’industria fotografica deve tornare, oppure arrivare (secondo i casi), a promuovere un discorso di immagine. Non si tratta di cultura asettica e arida, ovvero di kultura, ma di autenti-
ANTONIO BORDONI
solutamente rendersi conto che per quanto riguarda la solidità dei consumi e la consistenza delle fondamenta sulle quali edificare impianti solidi, l’elemento fotografico non dipende soltanto dalle statistiche commerciali e dai volumi di vendita, ma a monte di tutto sta il fatto che l’esercizio della fotografia, a ogni proprio livello, dalla semplice fotoricordo all’impegno altamente professionale, non può prescindere dalla soddisfazione per-
ca consapevolezza finalizzata a risvolti commerciali. Così il PhotoShow dovrebbe imparare dalla Photokina, che non è più un insieme di novità, ma definisce e delinea lo spirito di un intero mercato. Cioè, la Photokina ha un rapporto relativo con le novità che i produttori annunciano e presentano. L’anima, il senso e lo spirito attuali della Photokina prescindono, quindi, dalla quantità e qualità di novità espresse nei suoi giorni, che pure ne compongono l’irrinunciabile ossatura. In un tempo tecnologico e commerciale come è l’attuale, le alternanze ed evoluzioni tecniche (e commerciali) prescindono ormai da un qualsiasi appuntamento fieristico: per cui è più che grottesco circoscrivere e limitare il valore della PhotoShow a questo. Sia alla luce del ritmo con il quale i prodotti fotografici si inseguono sugli scaffali di vendita, sia in considerazione dei nuovi/innovativi veicoli di informazione verso il pubblico (a partire dalla già ricordata rete Internet), la tecnica fotografica è un divenire continuo e inarrestabile. Soprattutto per questo, ma non soltanto per questo, nella propria passerella pubblica PhotoShow, l’industria dovrebbe esprimersi e manifestarsi al di là e oltre della somma algebrica delle novità annunciate con la sua occasione, delle quali ne sollecita e favorisce soltanto la presentazione. Con tutto, non sono affatto contrario agli incontri professionali, che già come tali, “incontri”, spesso bastano e sono più che sufficienti al conforto e confronto reciproci e allo scambio di opinioni ed esperienze; né mi oppongo all’approfondimento merceologico. Infatti, sono perfettamente consapevole di come e quanto il commercio della fotografia avrebbe bisogno di indagini e visioni che possano superare le sterili barriere dell’impegno professionale quotidiano, per quanto remunerativo, dietro i banchi di vendita. Però, questa ipotesi ha nulla da spartire con la goliardica rimpatriata periodica (riferimento consapevole allo scoraggiante Photokina Day, che l’associazione di categoria Ascofoto allestisce, a Milano, a ridosso dell’originale). Al contrario, questa stessa idea si basa sul prin(continua a pagina 20)
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Parliamone
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Parliamone
Simulazione grafica del nero-su-nero del numero (particolare) di aprile 2011 di FOTOgraphia (Vogliamo parlarne?): il nero (nulla? o tutto?) come assenza di effettivo approfondimento della materia.
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Parliamone INTERPRETI
Per la confezione nero-su-nero della edizione particolare di FOTOgraphia, di aprile 2011, abbiamo coinvolto autori che, senza sapere cosa sarebbe successo, ci hanno dato fiducia (sulla sola idea che avremmo “rovinato” le loro fotografie, per uno scopo collettivo: sollecitare parole e dibattito). I nostri ringraziamenti a: Gian Paolo Barbieri, Guido Bissattini, Massimo De Gennaro, (Euclide), Douglas Kirkland, Yossi Loloi, (Betty Page), Danilo Pedruzzi, Gianfranco Salis e Stefano Zardini. E a coloro che hanno agito: Antonio Bordoni, Angelo Galantini, Chiara Lualdi, Maria Marasciuolo, Maddalena Massone, Lello Piazza, Emanuel Randazzo, Ciro Rebuzzini, Filippo Rebuzzini. Analogamente, sulle stesse premesse che non hanno rivelato nulla, ci hanno seguìto aziende distributrici, grazie al cui contributo economico abbiamo potuto confezionare queste pagine in lavorazione litografica/serigrafica: A/D Imaging, Aproma, Canon Italia, DPF Photocenter, Fowa (Pentax), Fujifilm Italia, M Trading (Sigma), Nital (Nikon, Impossible, Lexar), Photò 19, Polyphoto (Olympus, Leica, Tamron), Ra.Ma., Silvestri Fotocamere, Sony Italia, Unionfotomarket. Grazie a tutti, nella convinzione che questa edizione (insieme a tanto altro) serva alla fotografia italiana. Sulle pagine, dieci portfolio: ❯ Gian Paolo Barbieri: Tahiti Tattoos; ❯ Gianfranco Salis: Moana. Casta diva; ❯ Guido Bissattini: Animalia; ❯ Betty Page: Dalla Collezione di M.R.; ❯ Yossi Loloi: FullBeauty; ❯ Stefano Zardini: Snowland; ❯ Douglas Kirkland: Body Stories; ❯ Danilo Pedruzzi: Flores; ❯ Massimo De Gennaro: A Schiele; ❯ Gli Elementi di Euclide. A seguire, la Galleria del mese (aprile) del sito www.FOTOgraphiaONLINE.it ha presentato i portfolio completi (estesi rispetto la messa in pagina sulla rivista cartacea) di Gian Paolo Barbieri, Massimo De Gennaro, Douglas Kirkland, Stefano Zardini, Gianfranco Salis e Guido Bissattini.
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(continua da pagina 17) cìpio secondo il quale, per bocca dei propri rappresentanti nazionali (gli importatori e le filiali di multinazionali), l’industria produttrice ha/avrebbe molto da raccontare e trasmettere, sempre nella proiezione verso quella competenza tecnica e commerciale che potrebbe essere anche capace di fare l’autentica differenza. Non c’è Internet che tenga. Non c’è relazione su rivista che possa bastare. È necessaria una educazione commerciale che si estenda oltre i soli riferimenti tecnici, per comprendere la definizione di un commercio rivolto all’applicazione attiva di un interesse; l’ho già rilevato in tante occasioni, e a propria volta questa ulteriore potrebbe non essere l’ultima, ma soltanto una ancora e una in più: sia che si tratti di semplice fotoricordo domenicale, sia che si tratti di impegno individuale più sostanzioso (quel fotoamatorismo, anche organizzato, frequentato da molti), la fotografia è un hobby diverso dagli altri. Diverso, perché migliore: sempre e comunque attivo e non passivo. Il valore del Tempo che l’attraversa non è certo questione da poco. Ripeto, ribadisco e concludo: il PhotoShow dovrebbe offrirsi come l’espressione più chiara, trasparente e concreta di tutti questi intrecci, legami e collegamenti. PhotoShow non dovrebbero essere i soli strumenti della fotografia. Al PhotoShow e con il PhotoShow, l’intero mercato italiano della fotografia dovrebbe manifestare spiriti e filosofie trasversali, da decifrare per allineare e finalizzare ogni personalità commerciale quotidiana; anche quelle giornalistiche, sia chiaro.
VOGLIAMO PARLARNE? Come precisato in sua introduzione e nell’Editoriale di accompagnamento (i due unici testi dell’intero numero), FOTOgraphia dello scorso aprile, in edizione nero-su-nero, ha inteso sottolineare una condizione della fotografia italiana tutta. In breve: cari operatori commerciali, cari operatori culturali, se dipendesse da quanto sapete di fotografia e da come la promuovete, questo è quanto si potrebbe/dovrebbe pubblicare mese dopo mese... niente. Nero! Nello specifico, il ragionamento è stato articolato. Ne riprendiamo i passaggi significativi, non prima di aver
sottolineato l’omaggio esplicito e dichiarato a Nadar, che ha avuto l’ardire di elevare la fotografia al di sopra delle arti (con relativa visualizzazione della litografia ironica di Honoré Daumier Nadar élevant la Photographie à la hauteur de l’Art / Nadar eleva la Fotografia all’altezza dell’arte). E non prima di aver specificato il contenitore della stessa edizione redazionale, compresa tra un richiamo a Franti, luminoso eroe del Cuore, di Edmondo De Amicis (Tutti si voltarono a guardar Franti. E quell’infame sorrise) e uno Sguardo di Pino Bertelli (La fotografia autentica è fatta dello stesso dolore o della stessa bellezza di cui sono fatti i sogni). Comunque, testuale: «[...] Ciò che ci preme dibattere e sottolineare è una certa idea di Fotografia al giorno d’oggi. Non ci eleviamo di tono, non saliamo in cattedra, ma soltanto sollecitiamo scambi di opinioni, di verifiche. In origine, per essere istigatore, ma non “provocatorio”, questo numero è stato pensato con sole pagine nere: che è ciò che consentirebbe il mondo italiano della fotografia, soprattutto diviso e scomposto in orticelli senza scambi, né punti di contatto, che servano a tutti; ognuno agisce per se stesso e con se stesso. Poi, nel prosieguo, abbiamo optato per la formula nero-su-nero, con consistente presentazione di immagini (si fa per dire), per le quali abbiamo coinvolto autori che, senza sapere cosa sarebbe successo, ci hanno dato fiducia [...]. Analogamente, sulle stesse premesse che non hanno rivelato nulla, ci hanno seguìto aziende distributrici, grazie al cui contributo economico abbiamo potuto confezionare queste pagine in lavorazione litografica/serigrafica. «[...] Complice una vasta serie di fattori, in precario equilibrio tra connotazioni tecnologiche e considerazioni di fondo, da qualche tempo, in Italia il parlare di Fotografia, l’occuparsi di Fotografia ha come subìto una evidente e tangibile battuta di arresto. Nonostante in apparenza si siano moltiplicate le vetrine della Fotografia, soprattutto nella misura della crescita numerica degli spazi espositivi, canonici oppure ospitati all’interno di negozi, ristoranti, bar e quant’altro, nella sostanza si è fondamentalmente persa la vivacità di incontro e dibattito di qualche stagione fa. Il
FRANCO SERGIO REBOSIO
Parliamone
IN NERO E BIANCO
Copertina nera, copertina a invito: Vogliamo parlarne?, come unico richiamo. Tra i tanti accostamenti alla nostra copertina di aprile 2011, ne isoliamo due di prestigio più che alto: dell’autorevole settimanale The New Yorker, che in quanto a copertine ha fatto storia (ricordiamo la celebre copertina di Saul Steinberg: View of the World from 9th Avenue, del 29 marzo 1976, riprodotta in poster e riproposta infinite volte). La prima è lontana, indietro nel tempo: 24 settembre 2001, in evocazione dell’attentato dell’Undici settembre. Appunto 9/11, di Art Spiegelman ha isolato le torri gemelle in una visione blu scuro su nero. La seconda è temporalmente coincidente con la nostra: Dark Spring, di Christoph Niemann, dello scorso ventotto marzo. Da qui, all’opposto, il bianco-e-basta del successo editoriale di questi tempi: What every Man thinks about apart from Sex, di Sheridan Simove, è un libro di duecento pagine che sottolineano che ogni uomo non pensa altro delle donne, a parte il sesso. Duecento pagine bianche si allineano con le nostre sessantotto nere: altrettanto niente. O tutto?
Al PhotoShow 2011, l’edizione particolare di FOTOgraphia di aprile (nero-su-nero) si è accompagnata con una T-shirt a tema, indossata dallo staff in alternativa alle analoghe T-shirt con la raffigurazione di Elementi di Euclide, e con trecento bottiglie personalizzate di Barbera del Monferrato (imbottigliate da Stefano Massone, di Capriata d’Orba, in provincia di Alessandria).
9/11, di Art Spiegelman, evocazione dell’Undici settembre: The New Yorker, 24 settembre 2001.
Dark Spring, di Christoph Niemann: The New Yorker, 28 marzo 2011.
What every Man thinks about apart from Sex, di Sheridan Simove: duecento pagine vuote, che sottolineano che ogni uomo non pensa altro delle donne, a parte il sesso.
buio, il silenzio (nero?) ci avvolgono. «[...] Bisogna prendere atto che in Italia la Fotografia non gode della stessa visibilità e partecipazione collettiva [di altre geografie]. Rimane un territorio circoscritto, che -negli ultimi tempi- ha altresì ridotto il proprio potenziale. Non sappiamo cosa si possa fare per migliorare la situazione (forse lo sappiamo). Però siamo convinti che, avendone coscienza, si possa fare qualcosa per invertire il senso di marcia. Noi ci rendiamo disponibili; e dalle nostre pagine, che a proprio modo cercano di essere sollecite e stimolanti (quantomeno del pensiero individuale e collettivo), conserviamo l’originale fiducia nella parola e nella riflessione. «Sulla e per la Fotografia». E poi, ancora: «Nonostante tutto, e tutti, continuiamo a credere che il compito di una rivista di fotografia (così come lo intendiamo e la intendiamo: compito e rivista, in questo ordine) riguardi anche la sollecitazione al dibattito. Non basta registrare ciò che accade, dall’espressione tecnologica all’applicazione del linguaggio, ai risvolti sociali (e contorni), ma si dovrebbe andare anche sottotraccia, per individuare percorsi che siano utili e proficui all’intero comparto e a tutti quanti si occupano di fotografia con intensità e consapevolezza. Per questo, ribadiamo di aver confezionato questa monografia in nero (si fa per dire), intendendo che il nero (niente? tutto?) è quello che si potrebbe compilare se solo si assecondassero le malevoglie generalizzate che attraversano il mondo fotografico italiano: autoreferenziale e scomposto. Ciascuno per sé, e basta. «[...] Vogliamo parlarne? Vogliamo confrontarci, affinché le opinioni di ognuno arricchiscano tutti, le esperienze dei singoli diventino collettive? Vogliamo?». Ne abbiamo parlato e convenuto con tanti. Ora, facciamo in modo che qualcosa cambi, qualcosa maturi, qualcosa accolga consistenti discorsi fotografici. Così che, come precisato in Editoriale, una linea trasversale percorre già questa edizione di FOTOgraphia, di maggio, nella quale gli argomenti presentati sottolineano tutti (o quasi tutti o forse proprio tutti) come la Fotografia influenza e cambia la nostra vita. Ed è questo che! ❖
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Ici Bla Bla a cura di Lello Piazza
Questa rubrica riporta notizie che sono appartenute alla cronaca. Però, nel loro richiamo e riferimento molti motivi ci impediscono di essere tempestivi quanto la cronaca richiederebbe. Ciononostante riteniamo giusto proporle, perché siamo convinti che non abbiano perso la propria attualità, e continuino a offrire spunti di riflessione.
ALTRE MORTI SCAMPATE. Oltre quanto commentato su questo stesso numero, da pagina 8, in relazione all’uccisione di Tim Hetherington e Chris Hondros, ancora in Libia, fortunatamente non si è trasformata in tragedia un’altra vicenda che ha coinvolto quattro giornalisti, di parole e immagini: i fotografi Linsey Addario e Tyler Hicks, il cineoperatore Stephen Farrell e l’inviato Anthony Shadid, tutti del New York Times. Catturati a un posto di blocco delle forze governative, nel quale sono incappati per errore, sono rimasti sei giorni nelle mani del colonnello libico e sono stati liberati solo grazie all’intervento diplomatico del governo turco. Durante la prigionia, i giornalisti sono stati costantemente minacciati di morte e Linsey Addario è stata anche molestata sessualmente. Linsey Addario e Tyler Hicks sono i personaggi più noti dei quattro. Ricordiamo che hanno fatto parte dello staff del New York Times premiato con il Pulitzer 2009, nella categoria International Reporting: Linsey Addario per il suo lavoro realizzato in Afghanistan, Talebanistan; Tyler Hicks per i suoi reportage dal Pakistan e Afghanistan. Nel 2009, a causa di un incidente automobilistico in Pakistan, nei pressi del confine afgano, la stessa Linsey Addario ha rischiato di morire, rimanendo a lungo immobilizzata in ospedale. Ho preparato questa nota, ricavata da Repubblica del ventitré marzo scorso, che ha dato notizia dell’accaduto, richiamando un articolo di Jeremy Peters, pubblicato sul New York Times. Prima dell’aggiornamento/riferimento alla successiva uccisione di Tim Hetherington e Chris Hondros (venti aprile), l’ho preparata per la convincente fotografia che la accompagnava (purtroppo senza credito), che mostra l’atteggiamento umanissimo di molti repor-
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ter di guerra, che fuggono spaventati da un attacco improvviso [qui sopra]. Tra loro, indicati da un cerchietto, Linsey Addario e Tyler Hicks.
La Repubblica del ventitré marzo ha riferito del sequestro in Libia di quattro giornalisti del New York Times, accompagnando la notizia con la documentazione di reporter impegnati in guerra; tra loro, indicati da un cerchietto, Linsey Addario e Tyler Hicks.
EDITORIALE INFELICE. Con il titolo Sedotti senza perché, Giuseppe Di Piazza, direttore di Sette, il magazine settimanale del Corriere della Sera, motiva in Editoriale una delle tante insignificanti copertine (almeno nel periodo recente): quella del numero 5, dello scorso tre febbraio, dedicata a due interviste, una a Monica Bellucci, l’altra a Robert De Niro, realizzate in occasione del lancio del film Manuale d’amore, di Giovanni Veronesi [qui sotto]. Ecco un florilegio di banalità. «Un uomo e una donna incrociano lo sguardo. Non succede niente. Oppure succede tutto». Neanche Giuseppe Ungaretti sarebbe potuto arrivare a questi livelli di inquietudine; a confronto, Si sta come / d’autunno / sugli alberi / le foglie (Soldati, compilata a Bosco di Courton, nel luglio 1918) diventa una quisquilia, un nonnulla. Alla luce dell’inquietudine intuita in quegli sguardi incrociati, l’editoriale prosegue: «Il mistero della seduzione è proprio qui, nell’incertezza che governa i nostri incontri, le nostre vite». A questo punto, Giuseppe Di Piazza sente la necessità di fare un «Esempio». Eccolo: «Robert De Niro incrocia lo sguardo di Monica BelSedotti senza perché, di Giuseppe Di Piazza, direttore di Sette, motiva in Editoriale una delle tante insignificanti copertine del magazine: quella del numero 5, del tre febbraio.
lucci. Facile: succede tutto. Due totem del desiderio messi in una stessa stanza, in uno stesso fotogramma: cosa volete che accada?». Anche il direttore è evidentemente reso incerto dal suo stesso argomentare. Ecco come prosegue: «La seduzione è preliminare, al solo sentire i loro nomi». Sedotto dai nomi... «Nel caso di De Niro, le cose si complicano. È la sua esperienza a sedurre le donne, il suo sguardo adulto, la sicurezza che sa infondere. Lui ha stabilito, in un’intervista, la regola aurea del genere maschile: Ogni uomo, a qualunque età, crede di avere venticinque anni. Un pensiero semplice, che contiene una dose di verità impressionante». Impressionante, davvero! «Monica invece è una donna che diventa grande, diventa madre, e conquista gli uomini con la morbidezza del corpo che si muove nelle vesti di ogni personaggio che interpreta. Monica e la seduzione». Ma non ricorda un po’ il Petrarca? Rivisitato dall’esperienza del Futurismo, si intende. «Due sinonimi e nessuna domanda; solo sequenze cinematografiche che tutti vorremmo vivere. Non c’è niente da capire negli incontri, non esistono età, non ci sono perché né dove: quando la bellezza è immortale si crea il mito, e il mito conquista il cinema, e non solo». Ma, diavolo!, Sette non è un newsmagazine? Ce ne sono di notizie! Solo per fare un esempio, meno di due mesi prima, il diciassette dicembre, Mohamed Bouazizi, giovane tunisino, diplomato e disoccupato, si suicida per protesta dandosi fuoco. Il suo gesto disperato mette in fibrillazione tutto il Nord Africa che sta per esplodere. Il venticinque gennaio comincia una grande rivolta al Cairo. Girano fotografie straordinarie. Tentare di fare un po’ di informazione su questo, no?
A PROPOSITO DI RITRATTI. Per ricordare che le droghe distruggono il corpo e la mente, si mangiano il cervello, fanno cadere i denti e alzano a valori impossibili la pressione sanguigna, l’ufficio dello sceriffo della Contea di Multnomah, a Portland, nell’Oregon, Usa, ha realizzato un poster
Ici Bla Bla Poster realizzato dallo sceriffo della Contea di Multnomah, a Portland, nell’Oregon, Usa, che mostra le devastazioni rilevabili sui volti di alcuni drogati, con efficacissimo confronto tra prima e dopo l’assunzione di metanfetamine.
che mostra le devastazioni rilevabili sui volti di alcuni drogati, con efficacissimo confronto tra prima e dopo l’assunzione di metanfetamine [qui sopra]. Per la stampa e gli enti che si occupano di lotta alla droga ha anche pubblicato in rete (www.sheriff-mcso. org) alcune immagini che proponiamo qui a destra. Si tratta di fotografie segnaletiche dell’orrore.
A PROPOSITO DI ALTRI RITRATTI. Alla recente edizione del PhotoShow 2011, dal venticinque al ventotto marzo scorsi a Milano, ho avuto modo di rimanere basito, per l’ennesima volta, di fronte all’interesse che il maschio fotografico prova nei confronti di qualche signorina un po’ discinta. La sola apparizione di una modella in costume da bagno o vestita da moglie di Tarzan (come quelle che appaiono qui sotto) provoca inquietanti assembramenti davanti agli stand. Sono d’accordo che c’è di peggio e che ci sono cose più importanti di cui occuparsi. Ma non riesco a non indignarmi. Qualcuno ha voglia di farmi compagnia? Lanciamo una campagna contro la modella desnuda negli stand?
Segnaletiche dell’orrore pubblicate sul sito dell’ufficio dello sceriffo della Contea di Multnomah (www.sheriff-mcso.org).
(a destra) Indignatevi!, di Stéphane Hessel (Add editore; cinque euro): «Non vi esasperate, ma sperate e indignatevi!».
Ancora “modelle” al PhotoShow 2011. Lanciamo una campagna contro la modella desnuda negli stand?
PREZIOSO LIBRICCINO. A proposito del nostro vizio di indignarci per molto, il che ci rende così invisi a tanti, abbiamo trovato sponda nel libriccino Indignatevi!, (Add editore, Torino 2011; sessantaquattro pagine; 5,00 euro - edizione italiana dell’originale francese Indignez-vous!, settecentomila copie vendute in patria, caso editoriale dell’anno) [a destra, in basso]. L’autore è un giovane vecchietto di ventitré anni, Stéphane Hessel, diplomatico francese, ex partigiano [a destra, in basso]. Di partenza, altri due titoli mica male: diploma nel 1939 all’École normale supérieure, di Parigi, e amico di Walter Benjamin (autore dell’indimenticabile L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica: «bisognerebbe rileggerlo ogni tre mesi», afferma Maurizio Rebuzzini). Catturato dai tedeschi, Stéphane Hessel riesce a fuggire e a raggiungere De Gaulle, a Londra. Nel 1944, viene rispedito in Francia dal generale per coordinare la Resistenza francese. Catturato di nuovo, viene deportato nel campo di concentramento di Buchenwald. Evade ancora e viene ripreso, ma salta da un treno e riesce a raggiungere l’esercito americano che sta avanzando in Europa. Dopo la fine della guerra, collabora con il segretario generale dell’Onu, il norvegese Trygve Lie, per la stesura della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo. Nel 1981, François Mitterrand lo nomina Ambasciatore di Francia e, nel 2006, viene insignito del titolo di Grand’Ufficiale della Legion d’Onore. Qualche pensiero tratto dal libro. «Non vi esasperate, ma sperate e indignatevi! La peggiore abitudine è l’indifferenza. Indignarsi è il primo passo per impegnarsi». «Ci rivolgiamo alle giovani generazioni perché facciano vivere, trasmettano, l’eredità della Resistenza e i suoi ideali. Diciamo a voi: Prendete il testimone della staffetta, Indignatevi!». «Basta con questa società in cui i media sono nelle mani degli “arricchiti”. Una vera democrazia ha bisogno di una stampa indipendente; la Resistenza lo sapeva già, lo esigeva, quando difendeva “la libertà di stampa, il suo prestigio e la sua indipendenza nei confronti dello Stato, dei poteri economici e dell’influenze straniere”. Ma tutto questo oggi è in pericolo». «L’immenso scarto tra i molti po-
veri e i troppo ricchi, una differenza che non cessa di accrescersi. È la novità a cavallo del Ventesimo e Ventunesimo secolo: i più poveri nel mondo oggi guadagnano appena due dollari al giorno. Non si può permettere che questa differenza cresca ancora. Questo scandalo basterebbe da solo a suscitare un impegno. La seconda sfida riguarda i diritti dell’uomo e lo stato di salute del pianeta. Certo esiste un’altra concezione della storia. I progressi compiuti dalla libertà, la competizione, la corsa al “sempre di più”, tutti fattori che potrebbero però essere visti come un uragano distruttore». «Si osa dirci che lo Stato non può più assicurare i costi di alcune misure civili, sociali. Ma come possono mancare oggi i soldi per mantenere e prolungare queste conquiste, mentre la produzione delle ricchezze è enormemente aumentata dalla Liberazione, periodo in cui l’Europa era distrutta? In realtà il potere del denaro, fortemente combattuto dalla Resistenza, non è mai stato così grande, insolente, egoista, con i propri “servitori” fino alle più alte sfere dello Stato. Le banche ormai privatizzate si mostrano preoccupate soprattutto dei loro dividendi e
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Ici Bla Bla degli altissimi stipendi dei loro dirigenti, non dell’interesse generale. Lo scarto tra i più poveri e i più ricchi non è mai stato così enorme; e la corsa al denaro, la competizione così incoraggiata. Il pensiero produttivistico, esportato dall’Occidente, ha incatenato il mondo in una crisi da cui bisogna uscire con una rottura radicale con la fuga in avanti dal “sempre di più”, dalla dittatura della finanza, ma anche dal dominio delle scienze e della tecnica. È arrivato il tempo che il pensiero dell’etica, della giustizia, dell’equilibrio sostenibile divenga prevalente, perché rischi gravissimi ci minacciano e possono mettere un termine all’avventura umana su un pianeta che potrebbe diventare inabitabile per l’uomo». E il suo monito finale: « A tutti coloro che faranno il Ventunesimo secolo, diciamo con affetto: creare è resistere. Resistere è creare».
SCIENZIATI E INFORMAZIONE. Insegno felicemente al Politecnico, di Milano, da quasi quarant’anni. Con Internet, tutti i dipendenti dell’ateneo dispongono di uno straordinario mezzo di comunicazione: l’email. Grazie alla posta elettronica, possono mettere in comune ogni propria riflessione e notizia raggiunta, dai comunicati del Senato Accademico a ragionamenti ispirati dalla cronaca, alla segnalazione di seminari. Al proposito, il dodici aprile ricevo una comunicazione su un incontro, che si sarebbe tenuto presso la sede di Piacenza del Politecnico, dal titolo Seminario sull’incidente nucleare di Fukushima. L’immagine a corredo è la fotografia (rassicurante) della centrale giapponese nel proprio splendore, prima del terremoto.
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All’altare di Dio è una mostra fotografica di Vittoriano Rastelli, esposta a Roma e Varsavia: l’interiorità di papa Giovanni Paolo II, sia nel suo rapporto con le folle oceaniche dei fedeli, sia nel suo dialogo con Dio.
(a destra, in basso) Sandro Vannini è presente all’interno del Padiglione Italia della Biennale con la sua fantastica documentazione fotografica del tesoro di Tutankhamun, il più conosciuto tra i faraoni dell’Antico Egitto ( FOTOgraphia, ottobre 2007).
Seminario sull’incidente nucleare di Fukushima, alla sede di Piacenza del Politecnico di Milano: come è stato promosso e come avrebbe dovuto essere promosso.
Mi sono sentito in dovere di girare ai colleghi una riflessione, che qui condivido. «Le immagini (lo sappiamo) catturano l’attenzione e possono cambiare la valenza delle notizie. È del tutto chiaro che la scelta di un’altra immagine di Fukushima, una più attuale, che mostri lo stato dell’arte della centrale, stato dell’arte di cui i relatori parleranno, per esempio una di quelle immagini scattate dal robot elicottero che ha recentemente sorvolato la centrale, sarebbe stata più giornalistica e più coerente. «Una cosa è assistere a un seminario su un disastro vedendo le fotografie del disastro, un’altra sentire delle parole e vedere un meraviglioso impianto nella sua scintillante e operosa tecnologia. «Quindi, mi permetto di dire che al Poli non dovrebbero circolare patacche, quando anche queste patacche fossero, come credo, soltanto frutto di una leggerezza comunicazionale». Ho condiviso questa riflessione, perché comunicare con le immagini è parte del nostro interesse vitale: sì, vitale. A sinistra, in basso, alla locandina inviata dai relatori del seminario, accosto una sua rielaborazione realizzata con l’immagine che, secondo me, ci sarebbe dovuta essere.
PAPA GIOVANNI PAOLO II. Centoventi fotografie di Vittoriano Rastelli, uno dei grandi fotogiornalisti del periodo d’oro del settimanale Epoca (per il quale hanno fotografato Mario De Biasi, Walter Bonatti, Giorgio Lotti e Sergio Del Grande), verranno esposte a Roma e Varsavia, in due mostre identiche dal titolo All’altare di Dio, dedicate a papa Giovanni Paolo II (Musei Capitolini di Roma fino al venticinque settembre; www.museicapitolini.org - dal diciassette maggio al trentuno luglio al Castello Reale di Varsavia). Per anni, Vittoriano Rastelli ha seguìto il papa, in Italia e nel mondo. Le sue fotografie non rappresentano soltanto istantanee degli eventi religiosi ufficiali, ma soprattutto compongono i tratti di un lavoro di ricerca inteso a cogliere l’interiorità dell’uomo, sia nel suo rapporto con le folle oceaniche dei fedeli, sia nel suo dialogo con Dio [in alto]. La mostra contribuisce alla testi-
monianza della spiritualità di Karol Wojtyla attraverso una selezione di immagini incentrate sui dettagli del volto e dei gesti, per rivelarne la natura più intima. L’evento si colloca all’interno delle manifestazioni per la beatificazione di Giovanni Paolo II, a Roma, il Primo Maggio.
ITALIA IN BIENNALE. Su proposta di Vittorio Sgarbi, nell’ambito delle celebrazioni per i Centocinquanta anni dell’Unità d’Italia, il Ministero degli Affari Esteri ha promosso il progetto Biennale di Venezia: il Padiglione Italia nel mondo. Attraverso mostre allestite nelle sedi nazionali, dal quattro giugno al ventisette novembre, la collaborazione di ottantanove Istituti Italiani di Cultura sparsi nel mondo valorizza artisti italiani individuati tra coloro che sono attualmente attivi all’estero. A Venezia, all’interno del Padiglione Italia della Biennale, verranno proiettati video dedicati al lavoro dei singoli autori selezionati. Per celebrare l’iniziativa è in corso di stampa un catalogo bilingue italiano-inglese, a cura di Marsilio, di Venezia. Tra gli artisti coinvolti, i fotografi italiani Carlo Pisa (espone a San Pietroburgo), Fabio Sgroi (Belgrado), Sandro Vannini (Cairo [qui sotto]) e Mario Verin (Tripoli). ❖
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Davanti a una fotografia di Andrea Villanis
CAMERON - HERSCHEL
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Da tempo nutro il sospetto che quando il lavoro si rovescia, si trans-formi in missione. Prima di proseguire con questa speculazione, tengo a sottolinearne la totale arbitrarietà. Io che scrivo qui e in questo momento non sono un esperto di fotografia, bensì un esploratore. Quando utilizzo il termine “lavoro”, la mia attenzione si volge subitaneamente verso analogie di natura biologica. Gli “organi” lavorano e, coordinando tra loro funzioni differenti e concorrenti, vanno a comporre un “sistema”. A propria volta, un complesso di sistemi si organizza per comporre un “organismo”. Il fine comune di tutti questi elementi è il perfetto funzionamento del termine ultimo: l’organismo. Ecco. Da tempo, tra i vari sistemi che contribuiscono al funzionamento corretto dell’organismo sociale, ne individuiamo uno: il sistema dell’arte, nel quale, come in tutti i sistemi, esistono diverse figure cui corrispondono altrettante funzioni. Il termine primo di questo sistema è “arte”. A partire dalla propria doppia radice (latina ritus e sanscrita rta), il termine “arte” inerisce il tentativo dell’Uomo di ordinare lo sguardo sul reale, in un mondo a lui estraneo e ostile. Ne risulta che se l’arte ha a che vedere con un punto di vista sul reale, la discussione (ormai trapassata) sull’appartenenza o meno della fotografia (in quanto priva di techne classica) in questo campo di ricerca umano risulta totalmente fuori luogo o, quantomeno, gretta. Quello che mi risulta lampante è che se, un tempo, il lavoro fu un atto biologico dell’Uomo, rivolto a soddisfarne le necessità prime, non ultimo il bisogno di esorcizzare la paura nell’ambito di un mondo totalmente sconosciuto e violento, noto con il nome di “natura”, con l’avvento
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dell’industrializzazione, il lavoro diventa quasi una “coazione a ripetere”, un’attività tutta presa e compresa nel soddisfare necessità di mercato. Per soddisfare queste necessità di mercato, il prodotto che ne consegue deve possedere soprattutto due caratteristiche: originalità (chissà cosa vorrà dire?) e vendibilità. La maggior parte delle arti (ma in realtà quasi tutto ciò che ci circonda), che a oggi ci impiegano in qualità di “fruitori” e “produttori”, risultano quasi interamente aderenti alla questione “immagine”. Se volessimo sintetizzare al massimo alcune possibili defini-
zioni, diremmo che da sempre la letteratura evoca immagini tramite la caratteristica altamente comunicativa della parola; la poesia emancipa la parola, spogliandola delle vesti inerenti la comunicazione verbale, per conferirle una potenza evocativo-espressiva che rende visibile l’invisibile; le arti sceniche esperiscono la strenua fatica della “vivenza” (o sopra-vivenza) della parola orale contro la fugacità dell’atto scenico, in sé irripetibile e altamente effimero (in realtà per noi, che da quei luoghi veniamo, ciò che fa il teatro non ha a che vedere propriamente con la parola, ma con i corpi e le relazioni tra corpi in
uno spazio/tempo che potremmo definire “altro”... ricreazione di realtà); la musica evoca mondi, visioni di mondi possibili tramite suoni, armonia e melodia; il cinema è pura immagine filtrata da uno schermo, nonché l’apice dell’industrializzazione della stessa; la fotografia, da cui lo stesso cinema deriva (forse), è immagine sospesa nel tempo... tessera di puzzle sottratto e astratto dal reale, assoluto, sciolto da ogni legame. La maggior parte delle arti che a oggi esperiamo traducono in immagini concetti, idee, viaggi, parole. Ma quando il lavoro si rovescia, cosa succede? Quando il lavoro dell’arte si rovescia succede che l’immagine diventa suono; il suono, movimento; la comunicazione di valori socialmente accettabili/accettati diventa espressione di un qualcosa di primitivo, primordiale; l’eco di un qualcosa che è stato e di cui il corpo, in qualche piega remota, rimane memore. Tutto rimanda al “sé” e a qualcosa oltre quel “sé”... e il lavoro si transforma, per divenire missione: quella parte attiva e quasi religiosa che attiene la re-ligio, quel legame umano e umanizzante, garante per la creatura “uomo” della propria sopravvivenza in uno spazio/tempo oscuro e quanto mai impenetrabile. Tradurre l’intraducibile, trasformare l’arma della comunicazione in espressione, sovvertire le regole, quelle che si conoscono e anche quelle che non si conoscono, per ritrovare un piccolo pezzo di sé in altri occhi, in altri corpi, in corpi nuovi... tutto questo credo sia stata, a un certo punto, la “danza alla rovescia” (prendendo in prestito un’espressione artaudiana) di quell’anima che un tempo chiamarono Julia Margaret Cameron. Quello che si può scoprire rapidamente di questa donna, an-
Davanti a una fotografia che solo visitando pagine web, anche solo consultando testi autorevoli, sono delle rapide “carrellate” biografiche. Per esempio: nacque nei pressi di Calcutta, nell’India coloniale, studiò a Parigi e il suo interesse fotografico nacque solo nel 1863, quando, quarantottenne, ebbe in dono dalla figlia maggiore, Julia, un apparecchio fotografico che fungesse da “anti-depressivo”. Continuando a scavare, presto udiremmo voci di diverse bocche che sottolineano il suo stile... così vicino al pittorialismo pre-raffaellita. Scorrendo ancora, troveremmo un qualcosa di maggiormente intrigante, quel qualcosa che, personalmente, mi colpisce: tutte queste voci, senza eccezione alcuna, quasi fossero un coro, parlano di quella che un tempo fu la critica più pungente indirizzata allo sguardo della fotografa: leggermente sfocato (non nel senso del “leggermente fuori fuoco”, del quale ha fatto bandiera Bob Capa). Dai critici più severi, le sue fotografie furono bollate negativamente per (come dire?!) “carenza tecnica”. Difatti, ciò che tutti notano, oltre la sfocatura, è il sistematico “maltrattamento” dei negativi, giunti a noi spesso sciupati da poca cura e cattiva conservazione. Altre voci, contemporanee, come quella di Giuliana Scimé, rivisitano quel “piccolo difetto” a favore del genio e dell’indubbio gusto compositivo della fotografa. La stessa Julia Margaret Cameron si oppose alle critiche, con motivazioni alquanto originali per l’epoca, definendo il centro del suo esperire fotografico: la riproduzione del reale così come appare alla nostra mente (l’occhio e il cervello non danno uguale importanza a ciò che si presenta innanzi, come invece fa la fotografia: ma non la visione fisiologica, che sfuma i contorni a favore di ciò che sul quale si mette a fuoco, si concentra l’attenzione). Allontanandoci solo apparentemente, per un momento prendiamo in esame l’opera di Julia
Margaret Cameron. Subito si intuisce come i suoi soggetti preferiti fossero bambini e adolescenti, ripresi in pose che definiremmo sognanti (pittorialismo). Questi soggetti furono “usati” soprattutto per rappresentazioni allegoriche di racconti e romanzi, ma, al proprio esordio, l’interesse della fotografa (prima di rivolgersi ai “personaggi” del suo tempo, come Charles Darwin, William Rossetti, Robert Browning, Julia Jackson e John Herschel), si soffermò anche su soggetti di natura religiosa. Ecco: in questo suo viaggio, che affonda le radici nel pittorialismo pre-raffaellita, nella ricerca della bellezza, nell’allegoria (anche di natura religiosa) e, non ultimo, nella sua peculiare sfumatura, inizio a intravedere tutti i tratti di quella “missione”, ovvero di quel lavoro inteso come atto biologico con il quale ho esordito. Ho la netta sensazione, fisica, concreta che la “missione” nasca da un’impossibilità, da miserie umane che in strani modi vanno a comporre la “deità” dell’uomo, mutandone profondamente il Dna culturale, il suo sguardo sul mondo. Che la ricerca ossessiva della bellezza, da parte di Julia Margaret Cameron, fosse dovuta alla ricerca della propria bellezza? Che l’amore per la fotografia non fosse “gratuito”, ma dovuto alla necessità di sfuggire alla sua presunta depressione? Che la sua sfocatura fosse frutto non tanto di un’intuizione fotografica, né di una incapacità tecnica... che fosse una sorta di incidente, di una caratteristica che risulta prescindente dalla volontà individuale? Che Julia Margaret Cameron fosse miope? Ora, non avendo nessun desiderio di spiattellare nuove e “agghiaccianti” teorie, dato che, come rivelato, non sono (ancora?) un “addetto al settore”, ma un semplice spectator, un occhio claudicante (per dirla così)... quello che avviene è un inciampare, non tanto in diatribe sull’aspetto tecnico dell’opera della fotografa o la sua vicinanza al pre-raf-
faellitismo, bensì sulla religiosità grottesca di un volto da lei fotografato, quello di sir John Frederick William Herschel (chimico, matematico e astronomo, al quale la fotografia deve le proprie origini, in due sensi: in tempi di ricerche pionieristiche, la scoperta fondamentale del fissaggio, ovverosia della proprietà dell’iposolfito di sodio di sciogliere i sali d’argento non colpiti dalla luce, e, all’indomani della concretezza dell’invenzione, il conio del termine “fotografia”): un volto cedevole, scolpito in un contrappunto selvaggio di luce e ombra, che spaccano a metà tanto la visione di chi osserva, quanto la personalità del referente. Attraverso la seriosità dei lineamenti del soggetto, il ritratto di John Herschel pare dispiegarsi, mostrando la forza di ciò che un tempo fu quell’uomo insieme alla delicatezza racchiusa nell’involucro della sua vecchiaia (il ritratto è del 1867; John Herschel ha settantacinque anni). Testimone di questo, il piglio orgoglioso e aggrottato della fronte e delle sopracciglia, che si stagliano in due punti differenti del ritratto: luce e ombra, quasi come se la luce ci desse una chiave di lettura, una grammatica dell’immagine. È in luce tutto ciò che John Herschel è (stato): un uomo vecchio, con volto cadente e labbro imbronciato; è in ombra tutto ciò che quell’uomo fu prima di questa rappresentazione e che ogni tanto (s)buca (dal)la fotografia... quasi che i nostri occhi debbano chiedere perdono per l’intrusione. A mio avviso, la compiutezza e bellezza di questo ritratto non stanno nell’apparente “semplicità” della fotografia, ma nella sua sotterranea complessità. Quando guardo il ritratto di John Herschel non vedo solo lui, ma anche Julia Margaret Cameron: vedo lei che guarda lui [con William Bayer, da Il dettaglio: «Di quando in quando osservo l’ultimo scatto che le ho fatto, subito dopo averle sparato. L’ho preso in mano per l’ennesima
volta proprio ieri sera. L’avrò studiato per almeno un’ora. Come ogni altra fotografia che le ho scattato, non mi dice nulla di lei. Niente di niente. Ma mi rivela qualcosa di Geoffrey Barnett {il protagonista, che racconta in prima persona}. Individua il momento in cui si è reso conto di poter essere implacabile. Comincio a pensare che sia proprio questo il senso di ogni genere di fotografia. Non è detto che una fotografia vi dica qualcosa del suo soggetto. Ma se la osservate attentamente, e se siete stati voi a scattarla, vi può rivelare molto su voi stessi»]. A differenza di altre arti, ho sempre riscontrato una estrema difficoltà in ambito fotografico nel riconoscere “la mano che comanda lo scatto”. Per quanto riguarda Julia Margaret Cameron, questa difficoltà svanisce a causa di una unicità inconfondibile, complice quella che, se fosse una reale “miopia” (chissà se mai lo sapremo?), in realtà sarebbe un vero miracolo, perché questa donna avrebbe involontariamente esaudito uno dei più grandi desideri dell’Uomo; e se non dell’Uomo in assoluto, di sicuro il mio: provare a “indossare il mondo” con gli occhi di un altro. Non vedere quello che lui ha visto, bensì vedere come lui ha visto... un miracolo! In ultima analisi, mi interessa sottolineare la totale gratuità della ricerca artistica di Julia Margaret Cameron, che -senza alcuna velleità nei confronti delle varie e eventuali esigenze di mercato, fuori da quel sistema di fotografia “industrializzata” (che all’inizio ho definito “lavoro”) e svuotata del suo più intimo e segreto valore (l’essere un atto biologico, fisico!)- muove i primi passi tra fotografi non-professionisti, dimostrando di essere (e in questo non posso che sentirmi profondamente partecipe del pensiero di Giuliana Scimé) una delle prime, se non la prima personalità del mondo fotografico a cogliere le potenzialità di espressione artistica di questo medium... una vera pioniera! ❖
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POLAFIORI
Gigi Vegini è un autore che declina le proprie visioni con pellicola a sviluppo immediato. Utilizza emulsioni della serie a strappo. Raccolti anche in elegante e preziosa cartella a tiratura limitata e numerata, i Polafiori rappresentano una palpitante testimonianza di un modo di declinare e interpretare il linguaggio visivo che ha attraversato il secondo Novecento. In allungo sulle intenzioni dei pionieri (dal Settecento), ecco qui una natura che si fa effettivamente pittrice di sÊ medesima. A sviluppo immediato 28
di Maurizio Rebuzzini
C
uriosamente, il gesto fotografico di Gigi Vegini si esprime in termini oggettivamente contraddittori: anche in questo sta il suo avvincente fascino. Da una parte, utilizzando soprattutto pellicola a sviluppo immediato, fa tesoro e linguaggio di una sostanziosa industrializzazione dei tempi e modi della fotografia; dall’altra, intervenendo con piglio e personalità sulla resa originariamente imparziale dell’emulsione adottata (per quanto riguarda i Polafiori, film-
pack Polaroid 669), introduce una individualità attraverso la quale e con la quale esprime la propria dichiarata creatività. Altrettanto curiosamente, lo stesso gesto fotografico ha due analoghi debiti di riconoscenza, singolarmente divergenti (ma non contraddittori). La modernità della fotografia a sviluppo immediato, che tanto ha offerto all’espressività fotografica, si combina con portamenti e azioni che risalgono addirittura alle origini della fotografia, che addirittura affondano le proprie radici nei decenni antecedenti la sua nascita ufficiale. Così che, in un collegamento ideale, neanche troppo nascosto (è addirittura ve-
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ro l’esatto contrario), i Polafiori di Gigi Vegini si riallacciano direttamente alle sperimentazioni dei pionieri. Quando l’ora dell’invenzione era giunta, per allineamento tra scoperte scientifiche e pensiero filosofico, ognuno all’oscuro degli altri, in molti agirono per fissare le immagini della camera obscura, nota da
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secoli: tutti agirono/agivano rivolgendo il proprio sguardo alla natura, osservata così come è (da e con Francis Bacon). A distanza di due secoli, Gigi Vegini indirizza analogamente il proprio sguardo, non per osservare la natura così come è, ma per darne e offrirne una interpretazione personale che compone un
singolare intreccio di spazio e tempo: lo spazio della composizione, anche; il tempo abbreviato dell’apparizione della fotografia a sviluppo immediato. Eccoli qui, i Polafiori con i quali Gigi Vegini avvicina la natura a se stessi e formalizza l’irripetibile gesto individuale che supera a piè pari la semplice riproduzione del vero.
Autore capace e intelligente, esprime l’ansia di impadronirsi del proprio soggetto, con un insieme di rappresentazioni che coniugano la fotografia come gesto d’arte antico e sempre di attualità: l’irripetibilità delle sue interpretazioni personali nasce dalla fugacità e ripetibilità dei soggetti inquadrati. Spogliando
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i Polafiori da ogni sovrastruttura fotografica convenzionale, Gigi Vegini richiama quanto nella natura è della stessa specie e dà vita a questa uguaglianza anche nell’irripetibile. Con Lásló Moholy-Nagy: «Le possibilità creative del nuovo, in genere, si rivelano attraverso forme vecchie». La forma espres-
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siva di Gigi Vegini è tanto conosciuta, da poter essere classificata come “vecchia” (fotografia a sviluppo immediato); così come la sua creatività è fantasticamente nuova e ammaliante. L’apparente (o effettiva) restituzione della realtà dei suoi Polafiori esprime qualche cosa sopra e oltre la stessa realtà. ❖
CONTROVE Oliviero Toscani (nato nel 1942): Virginal Love (Amore illibato); 1992 (Stampa Dye Transfer; Musée de l’Élysée, Losanna). Immagine simbolo del passaggio italiano di Controverses. Una storia giuridica ed etica della fotografia, al Mnaf, di Firenze, fino al cinque giugno. Oliviero Toscani è famoso in tutto il mondo per la sua collaborazione con il marchio italiano Benetton, dal 1982 al 2000. In tutte le campagne pubblicitarie di questi anni, si dimostra provocatorio ed esplicito: mai il prodotto in quanto tale, ma argomentazioni sociali. I suoi manifesti sull’Aids, la pena di morte e la guerra suscitano polemiche. Secondo alcuni, Toscani induce i consumatori a riflettere. Per altri, è uno sfruttamento della sofferenza umana. Virginal Love contrappone il bacio carnale e profano alle promesse solenni pronunciate da chi prende i voti. Contrapponendosi alla regola del celibato dei religiosi, Virginal Love sciocca parte dell’opinione pubblica. In Italia, sotto la pressione del Vaticano, le autorità ne proibiscono la diffusione. In Francia, a seguito delle numerose rimostranze delle associazioni religiose, il Bureau de Vérification de la Publicité, l’organo di controllo della pubblicità, richiede il ritiro dei manifesti. In compenso, Virginal Love si aggiudica l’Eurobest Award inglese. Viceversa, per lo stesso inserzionista Benetton, la fotografia di un neonato ancora insanguinato e attaccato al cordone ombelicale è ammessa in Francia e in Italia, mentre è censurata in Inghilterra.
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di Antonio Bordoni
E
sposte insieme, le immagini della colta selezione Controverses. Una storia giuridica ed etica della fotografia permettono di capire come la cultura e la società guardino se stesse e, in tal modo, portano a considerare i dibattiti contemporanei con un occhio più critico (ancora: come la Fotografia influenza e cambia la nostra vita). Per mille motivi, tutti leciti e condivisibili, la mostra allestita al Museo Nazionale Ali-
nari della Fotografia (Mnaf), di Firenze, ha evitato le raffigurazioni più forti e aspre (come, per esempio, l’autoritratto di Robert Mapplethorpe, del 1979, evocativo dell’Aids, dal quale era lui stesso minato): l’ubicazione e indirizzo del Mnaf, anche meta di turismo fiorentino e famiglie, con bambini impressionabili, presuppone comportamenti adeguati. Se proprio vogliamo, e magari lo vogliamo, anche questa potrebbe essere considerata un’altra vertenza possibile, rispetto la quale abbiamo la nostra opinione. Non censura, sia chiarito subito, ma adeguamento al
ERSIE luogo espositivo e al suo indirizzo istituzionale. Così che, rispetto il volume-catalogo, che non è stato tradotto ed è proposto nella propria edizione francese originaria (Controverses. Une histoire juridique et éthique de la photographie; a cura di Daniel Girardin e Christian Pirker; Actes Sud / Musée de l’Élysée, 2008; 320 pagine 22x28cm; 55,00 euro), nel passaggio italiano, la mostra si compone di settanta fotografie e di documentazioni video, provenienti dalla collezione del Musée de l’Élysée, di Losanna, e dalle Raccolte Museali della Fratelli Alinari.
QUANTE, TANTE DISPUTE Come accennato, le dispute fotografiche sottolineate dall’intelligente casellario di Controverses. Una storia giuridica ed etica della fotografia sono di vario genere e adeguatamente eterogenee. Anzitutto, ci sono disaccordi specifici di immagine, di fotografia in quanto tale. Entrando nel dettaglio, e proiettandoci all’esterno del dibattito squisitamente fotografico, è doveroso richiamare prima di altro il Ritratto di giovane, del 1910-1914 circa, realizzato da Rudolf Lehnert (1878-1948) e Ernst Landrock (1878-1966) [a pagina 36]. Nel mondo occidentale, è opinione diffusa che l’Islam sia una religione che bandisce la rappresentazione umana. Ma nella tradizione musulmana, gli Sciiti autorizzano tale rappresentazione. Pertanto, il regime iraniano ha consentito la vendita di manifesti religiosi che rappresentano il Profeta da ragazzo. Per molti di questi manifesti, è stata presa a modello proprio questa fotografia realizzata dallo studio Lehnert & Landrock. Il soggetto è un giovane egiziano, Mohamed, assistente di Lehnert, il cui ritratto è stato pubblicato in una cartolina nel 1921. Negli anni Novanta, alcuni pubblicitari iraniani vi si ispirarono per realizzare manifesti popolari che ebbero grande diffusione. Si ritiene che rappresentino Maometto da giovane, secondo un quadro dipinto da un monaco che si dice abbia conosciuto il Profeta. Altrettanto sociale, diciamola così, è stato l’intenso dibattito acceso, nel 1916, dalla fotografia Una fata offre fiori a Iris, delle cuginette Elsie Wright (1901-1988) e Frances Griffiths (1907-
Controverses. Une histoire juridique et éthique de la photographie; a cura di Daniel Girardin e Christian Pirker; Actes Sud / Musée de l’Élysée, 2008; 320 pagine 22x28cm; 55,00 euro.
Prima e unica tappa italiana della mostra realizzata dal Musée de l’Élysée, di Losanna (Svizzera), che ha avuto un grandissimo successo di pubblico e critica nel tour internazionale che ha toccato alcune delle principali sedi europee: Losanna, Parigi, Bruxelles, Vienna e proseguirà a Praga, per spostarsi poi in Australia. Esposta al Museo Nazionale Alinari della Fotografia, di Firenze, Controverses. Una storia giuridica ed etica della fotografia è una concentrata rassegna di fotografie di e da scandalo: scatti discussi, polemici, spesso finiti in tribunale, che, come indica il titolo dell’esposizione, hanno sollevato dispute e dibattiti. Attenzione: senza soluzione di continuità, controversie d’autore, di utilizzo, sociali, di costume e, anche, commerciali 35
Rudolf Lehnert (1878-1948) e Ernst Landrock (1878-1966): Ritratto di giovane; 1910-1914 circa (Fotoincisione; Musée de l’Élysée, Losanna). Nel mondo occidentale, è opinione diffusa che l’Islam sia una religione che bandisce la rappresentazione umana. Ma nella tradizione musulmana, gli Sciiti la autorizzano. Pertanto, il regime iraniano ha consentito la vendita di manifesti religiosi che rappresentano il Profeta da ragazzo. Per molti di questi manifesti, è stata presa a modello una fotografia realizzata dallo studio Lehnert & Landrock. Il modello è un giovane egiziano, Mohamed, assistente di Lehnert, il cui ritratto è stato pubblicato in una cartolina nel 1921. Negli anni Novanta, alcuni pubblicitari iraniani vi si ispirarono per realizzare manifesti popolari che ebbero grande diffusione. Si ritiene che rappresentino Maometto da giovane, secondo un quadro dipinto da un monaco che si dice abbia conosciuto il Profeta.
1986), di sedici e dieci anni [qui, a destra]. Con una macchina fotografica prestata loro dal padre di Elsie, intesero dimostrare l’esistenza degli esseri soprannaturali che sostenevano di incontrare nelle loro passeggiate. Al momento di sviluppare la pellicola, la famiglia constata con stupore la presenza delle fate. Ne fu coinvolto addirittura lo scrittore inventore di Sherlock Holmes, sir Arthur Conan Doyle, esperto di fotografia e appassionato di spiritismo, che si entusiasmò immediatamente per queste immagini. Convinto della loro autenticità e sostenuto da una lunga indagine, pubblica le fotografie, provocando un effetto tale da far assumere rilevanza nazionale alle fate di Cottingley. La polemica durerà per diversi decenni. All’età di ottantatré anni, Elsie dichiara che lei e la cugina avevano costruito le fate con figure ritagliate da un libro. Invece, Frances non confermerà mai la dichiarazione della cugina e rimarrà fedele Elsie Wright (1901-1988) e Frances Griffiths (1907-1986): Una fata offre fiori a Iris; 1916 (Stampa digitale da originale; Musée de l’Élysée, Losanna). Nel 1916, la fotografia Una fata offre fiori a Iris, delle cuginette Elsie Wright (1901-1988) e Frances Griffiths (1907-1986), di sedici e dieci anni, sollecitò dibattiti sull’esistenza degli esseri soprannaturali che sostenevano di incontrare nelle loro passeggiate. Al momento di sviluppare la pellicola, la famiglia constata con stupore la presenza delle fate. Ne fu coinvolto addirittura lo scrittore inventore di Sherlock Holmes, sir Arthur Conan Doyle, esperto di fotografia e appassionato di spiritismo, che si entusiasmò immediatamente per queste immagini. Convinto della loro autenticità e sostenuto da una lunga indagine, pubblica le fotografie, provocando un effetto tale da far assumere rilevanza nazionale alle fate di Cottingley. La polemica durerà per diversi decenni. All’età di ottantatré anni, Elsie dichiara che lei e la cugina avevano costruito le fate con figure ritagliate da un libro. Invece, Frances non confermerà mai la dichiarazione della cugina e rimarrà fedele alla propria versione fino alla fine dei suoi giorni.
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alla propria versione fino alla fine dei suoi giorni. Squisitamente fotografiche sono, quindi, le rilevazioni attorno la manipolazione di immagini, piuttosto che riguardo la loro autenticità. Tra quanti indicati dalla selezione Controverses. Una storia giuridica ed etica della fotografia è ammirevole ed emblematico il caso della fotografia degli anni Trenta, di autore anonimo, che ritrae insieme Josif Stalin, Kliment Voroshilov, Vjačeslav Molotov e Nikolai Iejov. Nel 1936, Nikolai Iejov diventa Commissario del Popolo per gli Affari Interni e assume la direzione della NKVD, la polizia segreta. Nel dicembre 1938, viene sostituito da Lavrentij Pavlovic Béria, che lo fa arrestare. Sarà fucilato nel febbraio 1940, dopo essere stato torturato, passando dalla condizione di carnefice a quella di vittima, secondo la logica di un sistema che aveva servito fedelmente. Le due fotografie esposte in questa rassegna mostrano, in successione, Josif Stalin con e senza Nikolai Iejov [pagina accanto]. Il partito comunista controlla ogni aspetto della vita sociale, culturale e politica del paese. La storia viene riscritta, proprio come la finzione. I romanzi sono sistematicamente rivisti e corretti, numerosi personaggi spariscono dai libri, proprio come dalla realtà. La fotografia ritoccata è un messaggio politico. Non cerca di negare i fatti, anzi vuole mostrarli. Stalin eleva il ritocco a vero e proprio sistema e inventa così un’estetica della scomparsa, che non
suscita la controversia, bensì il terrore, spezzando ogni tentativo di manifestazione critica. E a questo proposito vanno ricordati almeno due testi: quello lontano di Alain Jaubert, Le commissariat aux archives (Les photos qui falsifient l’histoire), pubblicato da Barrault, nel 1989 (con edizione italiana Commissariato agli archivi (Le fotografie che falsificano la storia); Corbaccio, 1993), e quello recente di Michele Smargiassi, Un’autentica bugia. La fotografia, il vero, il falso, in edizione Contrasto, del 2009. Soprattutto il titolo di Michele Smargiassi è una lettura irrinunciabile per coloro i quali si occupano di fotografia con attenzione e concentrazione.
Anonimo: Josif Stalin con Voroshilov, Molotov e Iejov, Mosca, anni Trenta (Stampe digitali da originali; Musée de l’Élysée, Losanna). La fotografia degli anni Trenta, di autore anonimo, che ritrae insieme Josif Stalin, Kliment Voroshilov, Vjačeslav Molotov e Nikolai Iejov è ammirevole ed emblematica della revisione storica praticata nei regimi dell’Est. Nel 1936, Nikolai Iejov diventa Commissario del Popolo per gli Affari Interni e assume la direzione della NKVD, la polizia segreta. Nel dicembre 1938, viene sostituito da Lavrentij Pavlovic Béria, che lo fa arrestare. Sarà fucilato nel febbraio 1940, dopo essere stato torturato, passando dalla condizione di carnefice a quella di vittima, secondo la logica di un sistema che aveva servito fedelmente. Le due fotografie esposte in Controverses. Una storia giuridica ed etica della fotografia mostrano, in successione, Josif Stalin con e senza Nikolai Iejov. Il partito comunista controlla ogni aspetto della vita sociale, culturale e politica del paese. La storia viene riscritta, proprio come la finzione. I romanzi sono sistematicamente rivisti e corretti, numerosi personaggi spariscono dai libri, proprio come dalla realtà. La fotografia ritoccata è un messaggio politico. Non cerca di negare i fatti, anzi vuole mostrarli. Stalin eleva il ritocco a vero e proprio sistema e inventa così un’estetica della scomparsa, che non suscita la controversia, bensì il terrore, spezzando ogni tentativo di manifestazione critica.
VICENDE DI MERCATO Nell’ambito di Controverses. Una storia giuridica ed etica della fotografia si incontrano anche contese di carattere commerciale. Due i casi emblematici. Anzitutto, registriamo quello di una stampa di Noir et Blanche, di Man Ray (1890-1976), del 1926 [qui, a destra]. Nel 1997, il collezionista Werner Bokelberg acquista settantotto stampe di Man Ray, tra le quali questa eletta a simbolo della vicenda (la parte per il tutto). La collezione deve essere presentata al Metropolitan Museum of Art, di New York. Maria Morris Hambourg, la conservatrice della collezione di fotografie del Museo, è colpita dalla perfezione delle copie. La assale, però, un dubbio, e Werner Bokelberg fa analizzare la sua collezione: una ventina di stampe sono in realtà realizzate su carta fabbricata tra il 1992 e il 1993 e le altre su carta degli anni Sessanta. Secondo la perizia, le stampe ritenute originali degli anni Venti e Trenta, ovvero vintage, risultano stampe di gran lunga posteriori o postume. Werner Bokelberg esige la restituzione dei due milioni e trecentomila dollari che ha già pagato. Ne recupera la metà, a fronte della restituzione delle stampe contestate, ma sporge comunque denuncia contro ignoti. Nel frattempo, le stampe d’epoca contestate vengono distrutte dalla compagna del venditore. Non appena la questione diventa di pubblico dominio, si insinua il sospetto in particolare riguardo a una trentina di fotografie vendute all’a-
Man Ray (1890-1976): Noir et Blanche; 1926 (Stampa digitale da originale; Musée de l’Élysée, Losanna). Nel 1997, il collezionista Werner Bokelberg acquista settantotto stampe di Man Ray, tra le quali Noir et Blanche, del 1926. La collezione deve essere presentata al Metropolitan Museum of Art, di New York. Maria Morris Hambourg, la conservatrice della collezione di fotografie del Museo, è colpita dalla perfezione delle copie. La assale, però, un dubbio, e Werner Bokelberg fa analizzare la sua collezione: una ventina di stampe risultano realizzate su carta fabbricata tra il 1992 e il 1993 e le altre su carta degli anni Sessanta. Secondo la perizia, le stampe ritenute originali degli anni Venti e Trenta, ovvero vintage, sono in realtà stampe di gran lunga posteriori o postume. Werner Bokelberg esige la restituzione dei due milioni e trecentomila dollari che ha già pagato. Ne recupera la metà, a fronte della restituzione delle stampe contestate, ma sporge comunque denuncia contro ignoti. Nel frattempo, le stampe d’epoca contestate vengono distrutte dalla compagna del venditore. Non appena la questione diventa di pubblico dominio, si insinua il sospetto in particolare riguardo a una trentina di fotografie vendute all’asta nel 1983 e provenienti dalla medesima fonte. Certamente, questa vicenda avrebbe fatto sorridere Man Ray, il quale diceva che creare è divino e copiare umano.
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troppo recente per essere vintage. Un altro collezionista fa analizzare le sue stampe d’epoca. Il risultato è inequivocabile: risalgono al più presto agli anni Cinquanta, cioè dieci anni dopo la morte di Lewis W. Hine. Questa dicotomia potrebbe riguardare centinaia di stampe di Hine. I sospetti cadono su un amico e allievo di Lewis W. Hine, che ha venduto personalmente diverse stampe controverse e firmato lettere che garantiscono l’autenticità dei vintage, che in realtà sarebbero postumi. L’Fbi apre un’inchiesta nel 2001. La verità non si saprà mai: pare sia stato raggiunto un accordo extragiudiziale con i venditori, con la creazione di un fondo di un milione di dollari per risarcire gli acquirenti insoddisfatti. D’ora in avanti, i collezionisti devono verificare la data di stampa e anche che le fotografie siano originali. E anche qui, un richiamo bibliografico recente: per quanto riguarda le controversie “commerciali”, ribadiamo l’utilità dell’ottimo Collezionare fotografia - Il mercato delle immagini, di Denis Curti e Sara Dolfi Agostini, pubblicato da Contrasto alla fine dello scorso anno (FOTOgraphia, dicembre 2010).
E POI, PLAGIO
Lewis W. Hine (1874-1940): Three Riveters, Empire State Building; 1931 (Stampa ai sali d’argento; Musée de l’Élisée, Losanna). Nel 1999, in occasione di una vendita all’asta, una copia di Three Riveters, Empire State Building, di Lewis W. Hine, del 1931, viene venduta per circa trentamila dollari. Cinque anni prima, un originale della stessa tiratura era arrivato a novantamila dollari. Tra le due aste si è insinuato un dubbio. Un gallerista ha effettivamente ritirato Three Riveters da una fiera newyorkese, ritenendo che sembrasse troppo recente per essere vintage. Un altro collezionista fa analizzare le sue stampe d’epoca. Il risultato è inequivocabile: risalgono al più presto agli anni Cinquanta, cioè dieci anni dopo la morte di Lewis W. Hine. Questa dicotomia potrebbe riguardare centinaia di stampe di Hine. I sospetti cadono su un amico e allievo di Lewis W. Hine, che ha venduto personalmente diverse stampe controverse e firmato lettere che garantiscono l’autenticità dei vintage, che in realtà sarebbero postumi. L’Fbi apre un’inchiesta nel 2001. La verità non si saprà mai: pare sia stato raggiunto un accordo extragiudiziale con i venditori, con la creazione di un fondo di un milione di dollari per risarcire gli acquirenti insoddisfatti. D’ora in avanti, i collezionisti devono verificare la data di stampa e che le fotografie siano originali.
sta nel 1983 e provenienti dalla medesima fonte. Certamente, questa vicenda avrebbe fatto sorridere Man Ray, il quale diceva che creare è divino e copiare umano. Del tutto analogo è il caso di una fotografia di Lewis W. Hine (1874-1940): Three Riveters, Empire State Building, del 1931 [qui sopra]. Nel 1999, in occasione di una vendita all’asta, una copia viene venduta per circa trentamila dollari. Cinque anni prima, un originale della stessa tiratura era arrivato a novantamila dollari. Tra le due aste si è insinuato un dubbio. Un gallerista ha effettivamente ritirato Three Riveters da una fiera newyorkese, ritenendo che sembrasse
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Altri due casi emblematici, tra i tanti e approfonditi proposti dall’avvincente e convincente rassegna Controverses. Una storia giuridica ed etica della fotografia. Occupiamoci del plagio dell’immagine, ovverosia di fotografia in qualche modo rubate, oppure rubacchiate. Il primo caso che commentiamo è emblematico di un modo “allegro” di agire. Nel novembre 1988, tre esemplari di una scultura di Jeff Koons, String of Puppies (Fila di cuccioli), vengono venduti per trecentosessantasettemila dollari. Il fotografo Art Rogers riconosce l’immagine che è all’origine dell’opera: è una sua fotografia realizzata nel 1980, che raffigura otto cuccioli in braccio ai loro padroni [pagina accanto]. Aveva effettivamente ceduto i diritti dell’immagine a un editore di cartoline, ma assolutamente non per una scultura. Quindi, fa causa a Jeff Koons per contraffazione. Il processo è seguìto da tutti gli ambienti artistici, perché il Tribunale deve decidere sulla legalità di un concetto chiave della creazione contemporanea, dopo i ready-made di Marcel Duchamp: l’appropriazione. Vari elementi giocano a sfavore di Koons. L’artista aveva mandato un esemplare della cartolina dei Puppies ad artigiani incaricati di realizzare la scultura e aveva preventivamente strappato l’indicazione del copyright di Rogers, che vi appariva. Nel 1992, Jeff Koons è condannato per contraffazione. Questa vertenza è emblematica del problema del diritto d’autore nei confronti della realtà della creazione contemporanea, che usa le immagini altrui come in altri tempi si utilizzavano i pigmenti. Ancora avanti, con un’altra segnalazione, con propria coda. Nel 2003, Jean-Baptiste Mondino
Art Rogers (nato nel 1948): Puppies (Cuccioli); 1980 (Stampa ai sali d’argento; Musée de l’Élysée, Losanna). Nel novembre 1988, tre esemplari di una scultura di Jeff Koons, String of Puppies (Fila di cuccioli), vengono venduti per trecentosessantasettemila dollari. Il fotografo Art Rogers riconosce l’immagine che è all’origine dell’opera: è una sua fotografia realizzata nel 1980, che raffigura otto cuccioli in braccio ai loro padroni. Aveva effettivamente ceduto i diritti dell’immagine a un editore di cartoline, ma assolutamente non per una scultura. Quindi, fa causa a Jeff Koons per contraffazione. Il processo è seguìto da tutti gli ambienti artistici,
perché il Tribunale deve decidere sulla legalità di un concetto chiave della creazione contemporanea, dopo i ready-made di Marcel Duchamp: l’appropriazione. Vari elementi giocano a sfavore di Koons. L’artista aveva mandato un esemplare della cartolina dei Puppies ad artigiani incaricati di realizzare la scultura e aveva preventivamente strappato l’indicazione del copyright di Rogers, che vi appariva. Nel 1992, Jeff Koons è condannato per contraffazione. Questa vertenza è emblematica del problema del diritto d’autore nei confronti della realtà della creazione contemporanea, che usa le immagini altrui come in altri tempi si utilizzavano i pigmenti.
Guy Bourdin (1928-1991): per Vogue France; 1972 (Stampa Fujiflex; Musée de l’Élysée, Losanna). Nel 2003, Jean-Baptiste Mondino realizza un videoclip per il singolo di Madonna, Hollywood, che sul piano estetico sembra ampiamente ispirato a un lavoro del fotografo Guy Bourdin (1928-1991), per Vogue France, del 1972. Samuel Bourdin, figlio del fotografo, intenta una causa legale contro Mondino, Madonna, Warner Bros e Mtv. Denuncia le analogie con l’opera del padre, se non addirittura il plagio della composizione, degli arrangiamenti, delle scene e della luce. La controversia sarà risolta in via stragiudiziale, con un indennizzo all’erede di Guy Bourdin, il cui importo non viene reso noto. Madonna si era già ispirata ai miti della fotografia per la canzone Vogue, il cui video in bianconero si richiama alle immagini di Marilyn Monroe e Marlène Dietrich, realizzate da George Hurrell, come pure a due fotografie di Horst P. Horst, una delle quali è Mainbocher-Corset, e a Cowboy Kate, di Sam Haskins ( FOTOgraphia, febbraio 2010). Questa vicenda mette in discussione i concetti di ispirazione, di citazione e di copia. Fino a che punto si può proteggere il primo creatore senza limitare la libertà di espressione dei successivi?
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Steven Meisel (nato nel 1954): Sophie Dahl per Yves Saint Laurent Parfums; 2000 (Stampa digitale; Musée de l’Élysée, Losanna). Steven Meisel è un caposaldo della fotografia di moda. Nel 2000, ha realizzato la campagna pubblicitaria del profumo Opium, per Yves Saint Laurent. Pubblicata inizialmente nelle riviste di moda, l’immagine appare su manifesti pubblicitari nelle strade inglesi. Scoppia lo scandalo. Secondo alcuni, è una pubblicità oscena e trasmette un’immagine degradante della donna. Dopo le novecentocinquantanove querele depositate all’Advertising Standards Authority, l’autorità di controllo della pubblicità, in Gran Bretagna, viene ordinato il ritiro dai manifesti, ma non dalle riviste. Nella storia della pubblicità inglese, solo una campagna del 1995 per l’uso del preservativo, nella quale appariva papa Giovanni Paolo II con indosso un casco, aveva provocato un maggior numero di querele. Quando si rivolge al grande pubblico, fino a che punto la pubblicità deve tener conto della decenza? Come non limitare illegittimamente la libertà di espressione, imponendo un rigoroso codice morale? In Francia, mentre l’ondata delle pubblicità “porno chic” infiammava il dibattito, questa campagna del profumo Opium è stata affissa per settimane alle pensiline delle fermate dei mezzi pubblici, senza alcun problema.
realizza un videoclip per il singolo di Madonna, Hollywood, che sul piano estetico sembra ampiamente ispirato a un lavoro del fotografo Guy Bourdin (1928-1991), per Vogue France, del 1972. Samuel Bourdin, figlio del fotografo, intenta una causa legale contro Mondino, Madonna, Warner Bros e Mtv. Denuncia le analogie con l’opera del padre [a pagina 39], se non addirittura il plagio della composizione, degli arrangiamenti, delle scene e della luce. La controversia sarà risolta in via stragiudiziale, con un indennizzo all’erede di Guy Bourdin, il cui importo non viene reso noto. Madonna si era già ispirata ai miti della fotografia per la canzone Vogue, il cui video in bianconero si richiama alle immagini di Marilyn Monroe e Marlène Dietrich, realizzate da George Hurrell, come pure a due fotografie di Horst P. Horst, una delle quali è Mainbocher-Corset, e a Cowboy Kate, di Sam Haskins (FOTOgraphia, febbraio 2010). Questa vicenda mette in discussione i concetti di ispirazione, di citazione e di copia. Fino a che punto si può proteggere il primo creatore senza limitare la libertà di espressione dei successivi?
TANTO ALTRO ANCORA
Questi ricordati sono solo alcuni dei casi fotografici raccolti e visualizzati nell’ottima selezione Controverses. Una storia giuridica ed etica della fotografia, al Museo Nazionale Alinari della Fotografia (Mnaf), di Firenze, fino al cinque giugno. Una rassegna che non si esprime tanto nella propria esposizione di ingrandimenti, alcuni originari, molti in copie digitali da originale, che in questo caso hanno meno significato rispetto altre esposizioni fotografiche retrospettive. Al caso, e in allungo, è determinante il volume-catalogo che accompagna la mostra. Purtroppo, come già rilevato, nella sua sola edizione originaria in francese; in ripetizione: Controverses. Une histoire juridique et éthique de la photographie; a cura di Daniel Girardin e Christian Pirker; Actes Sud / Musée de l’Élysée, 2008; 320 pagine 22x28cm; 55,00 euro. È su queste pagine che sono ben presentate e dibattute tutte le controversie affrontate, molte anche di carattere etico e morale, alcune (opportunamente) assenti dalle sale del Mnaf. Così che la Storia della fotografia si arricchisce di un casellario ulteriore a quello della propria progres-
Boris Lipnitzki (1887-1971): Jean-Paul Sartre, Théâtre Antoine; Parigi; 1946 (Stampa digitale da originale; Musée de l’Élysée, Losanna). Nel 1946, Boris Lipnitzki fotografa Jean-Paul Sartre che, con una sigaretta in mano, osserva gli attori durante le prove di una sua commedia. Nel 2005, il mozzicone sparisce dall’immagine usata per la locandina e il catalogo della mostra su Jean-Paul Sartre, alla Bibliothèque nationale de France. Infatti, l’attuale legge francese sulla lotta al tabagismo proibisce «ogni propaganda o pubblicità, diretta o indiretta, a favore del tabacco». La stampa denuncia il «sanitariamente corretto» dell’immagine ritoccata. La BnF si scusa e si dichiara preoccupata di «non voler mai dare l’impressione di negare la realtà storica e ancora meno di truccare una fotografia per riscrivere la storia». Ma è difficile trovare una fotografia di Sartre, che era un grande fumatore, senza sigaretta e dunque divulgarne l’immagine legalmente. È evidente che in questo caso il ritocco non comporta gravi conseguenze. Ma questa vicenda attesta la banalizzazione della manipolazione delle immagini facilitata dagli strumenti digitali e quindi i rischi della disinformazione. Perché una fotografia del passato dovrebbe essere ritoccata per rispettare delle leggi del presente, senza curarsi della realtà storica? Chi può decidere tali manipolazioni?
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Frank Fournier (nato nel 1948): Omayra Sánchez, Armero, Colombia; 1985 (C-print; Musée de l’Élysée, Losanna). Questa fotografia è stata scattata da Frank Fournier, nel 1985, ad Armero, in Colombia, poco dopo che il vulcano Nevado del Ruiz entrasse in attività eruttiva [ World Press Photo of the Year 1986]. La colata di fango scatenata dall’eruzione causò la morte di ventiquattromila persone. La giovane Omayra Sánchez è prigioniera delle macerie. I soccorritori cercheranno di liberarla per due giorni e tre notti, ma le attrezzature per il salvataggio non arriveranno in tempo. Sfinita, Omayra muore per un attacco cardiaco. La sua dignità e il suo coraggio hanno commosso il mondo intero. Frank Fournier si rende subito conto di non poter fare nulla: quelle centinaia di vittime hanno bisogno di cure mediche urgenti per essere salvate. Assalito da una sensazione di impotenza, capisce che la cosa più utile è dare testimonianza della sofferenza della giovane. Ancora l’anno seguente, dopo aver ricevuto per questa immagine il premio World Press Photo, è assalito dai dubbi. Si può mostrare la sofferenza senza venir meno al rispetto? Ma ci ricorderemmo ancora della tragedia di Armero se questa fotografia non ci avesse sconvolto a tal punto?
Jock Sturges (nato nel 1947): Christina, Misty & Alisa, Northern California; 1989 (Stampa ai sali d’argento; Musée de l’Élysée, Losanna). Jock Sturges è un fotografo rinomato per i ritratti di famiglie naturiste. Nell’aprile 1990, dei poliziotti, allertati dal laboratorio di sviluppo delle stampe, perquisiscono la sua casa. L’appartamento è messo a soqquadro, il materiale fotografico e gli archivi sequestrati. Le fotografie incriminate raffigurano bambini nudi. Ma Sturges fotografa con il loro consenso e con quello delle famiglie che adottano il naturismo come stile di vita. Il testo della legge americana riguardante le immagini di carattere pedofilo è molto vago. Di conseguenza, la sua applicazione dà adito a interpretazioni difformi. Lo Stato di San Francisco vorrebbe archiviare la vicenda, ma l’Fbi muove sue accuse e prosegue gli interrogatori. Sturges è continuamente occupato a discolparsi e non riesce più a lavorare. Nell’agosto 1991, il dossier viene definitivamente archiviato, senza conseguenze per il fotografo. Ma le sue fotografie continuano a sollevare interrogativi attuali. Come fotografare un bambino nudo con rispetto, ma in tutta la sua dimensione umana, cruda e commovente?
sione temporale e/o lessicale, andando a comporre i tratti di una vicenda parallela, spinosa, ma, ahinoi, di sconcertante presenza e attualità: nel mercato della fotografia, come anche nell’ambito della sua realizzazione e veicolazione. Da cui, sentiamo l’obbligo e dovere di segnalare titoli complementari, che pure fanno luce sull’intera vicenda nel proprio complesso. Alcuni li abbiamo già menzionati in riferimento a questioni specifiche, altrettanti sono stati già presentati sulle nostre pagine. In assoluto, comunque, una segnalazione bibliografica più che opportuna, forse addirittura indispensabile. ❯ Collezionare fotografia - Il mercato delle immagini, di Denis Curti e Sara Dolfi Agostini; Contrasto, 2010; 318 pagine 15x21cm; 21,90 euro. ❯ Commissariato agli archivi (Le fotografie che falsificano la storia), di Alain Jaubert; Corbaccio, 1993; 206 pagine 22x28cm; 16,53 euro. ❯ Un’autentica bugia. La fotografia, il vero, il falso, di Michele Smargiassi; Contrasto, 2009; centocinquanta illustrazioni; 320 pagine 15x21cm; 19,90 euro. ❯ Addio alla verità, di Gianni Vattimo; Meltemi, 2009; 144 pagine 12x19cm; 13,00 euro. ❯ Etica e fotogiornalismo, di Ferdinando Scianna; Electa, 2010; venticinque illustrazioni; 76 pagine 15x23cm; 19,00 euro. ❯ La foto di Moro, di Marco Belpoliti; I sassi nottetempo, 2008; 44 pagine 10,5x14,7cm; 3,00 euro. ❯ Davanti al dolore degli altri, di Susan Sontag (1933-2004); Arnoldo Mondadori Editore, Milano, 2003; 112 pagine 15x21cm; 8,50 euro (dall’originale Regarding the Pain of Others). ❯ Vita e morte dell’immagine. Una storia dello sguardo in Occidente, di Régis Debray; Il Castoro, Milano, 1999; 318 pagine 15x21cm; 22,00 euro (dall’originale Vie et mort de l’image, une histoire du regard en Occident ). ❖ Controverses. Una storia giuridica ed etica della fotografia. Museo Nazionale Alinari della Fotografia (Mnaf), piazza Santa Maria Novella 14a rosso, 50123 Firenze; www.mnaf.it. Fino al 5 giugno; giovedì-martedì 10,00-18,30.
Anonimo [Brigate Rosse]: Aldo Moro ostaggio; 1978 (Stampa digitale da originale; Musée de l’Élysée, Losanna). Si devono divulgare i messaggi dei terroristi? Questo interrogativo, sempre attuale, appariva nel titolo di un articolo di fondo del Corriere della Sera, nel marzo 1978. Il sedici marzo, Aldo Moro, presidente della Democrazia Cristiana, viene rapito dalle Brigate Rosse. Sarà ucciso ai primi di maggio. Il suo assassinio poteva convenire a molti: alle Brigate Rosse, ma anche ai servizi segreti, alla mafia. Le Brigate Rosse pubblicano nove comunicati, si servono delle lettere del prigioniero e mandano fotografie. Questa è la prima a essere pubblicata dai quotidiani. Nel suo editoriale, la redazione del Corriere della Sera spiega il proprio dilemma tra censura e pubblicazione.
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MONOGRAFIE
D’AUTORE Fantastica raccolta, indispensabile più che utile a coloro che si occupano di fotografia con piglio e decisione (noi, tra questi), Fotografi A-Z, dell’impetuoso e colto Taschen Verlag, editore dai mille e mille meriti, compone un casellario di trecentonovantotto (quattrocentotré) autori che hanno lasciato una impronta indelebile nella Storia della fotografia. Ognuno è osservato e presentato non per immagini asettiche ed estrapolate da qualsivoglia contesto concreto, ma attraverso la pubblicazione di consistenti monografie. In allineamento, forti e caratterizzati da un amore personale e incondizionato per il libro fotografico, apprezziamo questo punto di vista particolare, che dà risalto alla trasformazione e veicolazione della fotografia, così come la intendiamo e consideriamo. In doverosa conferma e ripetizione: come la Fotografia influenza e cambia la nostra vita di Angelo Galantini
S
ubito una precisazione, necessaria per collocare l’attuale Fotografi A-Z, a cura di Hans-Michael Koetzle, in edizione italiana di Taschen Verlag (immancabilmente, lui), in una fenomenologia bibliografica di recente nascita e manifestazione, ma già consistentemente ricca di titoli e visioni. Già avvincente e affascinante, l’insieme di queste eccellenti raccolte si arricchisce con un ulteriore casellario commentato in lingua italiana, e dunque di facile avvicinamento e decifrazione. Volendo storicizzare, indipendentemente dalle rispettive date di pubblicazione, ma considerandone il peso e l’ideologia, le edizioni di raccolte di fotografie presentate nella propria pubblicazione originaria parte alla fine del 2005 con la significativa selezione Things as They Are - Photojournalism in Context Since 1955, grandioso volume realizzato in occasione del cinquantesimo anniversario del World Press Photo, del quale abbiamo riferito nell’aprile 2006. Curata da Mary Panzer, storica della fotografia, e arricchita da una postfazione di Christian Caujolle, allora direttore dell’agenzia fotografica e della galleria VU (FOTOgraphia, giugno 2003), critico fotografico di fama mondiale, la monografia è stata pubblicata da Chris Boot (2005; 384 pagine 23x30cm,
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Fotografi A-Z; a cura di Hans-Michael Koetzle; Taschen Verlag, 2011 (distribuzione Inter Logos; 059-412648; www.books.it); 444 pagine 25x31,7cm, cartonato; 49,99 euro.
Brassaï (Gyula Halász) è stato un autore che ha illuminato la prima metà del Novecento. Folgorante ed esaltante, la sua raccolta Paris de nuit, del 1933 (e ristampe successive, tra le quali quella Pantheon Books, del 1987, nella nostra biblioteca), ha rivelato una capacità di racconto che dischiude l’evidenza della realtà soltanto a quei fotografi che sanno coglierli nell’apparenza anonima che assumono nel volto umano.
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cartonato con sovraccoperta; 68,00 euro). Riprendendo un’altra precisazione già riferita, confermiamo l’interpretazione critica del titolo, estrapolato da un aforisma tratto dall’opera The new organon or true directions concerning the interpretation of nature del filosofo sir Francis Bacon (1561-1626), pubblicata nel 1620: «The very contemplation of things as they are, without superstition or imposture, error or confusion, is in itself more worthy than all the fruit of inventions» (La semplice contemplazione delle cose così come sono, senza superstizioni o inganni, errori o confusioni, vale di più di tutti i frutti dell’invenzione). Le sottolineature sono nostre, ad evidenziare che il casellario di Things As They Are ripercorre e interpreta cinquant’anni di fotogiornalismo all’interno di una impalcatura e struttura dichiaratamente preconcetta, nella propria onesta dichiarazione: appunto, le cose così come sono. Altri titoli analoghi sono presto segnalati, nell’ordine nel quale stanno nella nostra capace biblioteca personale (ne riferiamo a parte, nel riquadro pubblicato sulla pagina accanto): The Book of 101 Books, a cura di Andrew Roth, si offre e propone come Seminal Photographic Books of the Twentieth Century (catalogazione dei libri fotografici del Ventesimo secolo, diciamola così), ovvero antepone la meta dei centouno titoli a qualsiasi e qualsivoglia altra identificazione (comunque sia, preziosa catalogazione); con sequenza cronologica, il tedesco Kiosk, pubblicato da Steidl, nel 2001, catalogo dell’omonima mostra al Museum Ludwig, di Colonia, dal ventinove giungo al sedici settembre, afferma di essere Eine Geschichte der Fotoreportage 1839-1973 (facile: una storia del fotogiornalismo definito e identificato dalle date di riferimento dal 1839 [ma quale giornalismo?] al 1973); tra autori, movimenti e testate giornalistiche, in rigoroso ordine alfabetico, lo spagnolo Fotografía pública sintetizza la storia della fotografia attraverso pubblicazioni periodiche o in volume, dal 1919 al 1939; ancora, e in fine, sono confortanti i due capitoli The Photobook: A History, curati da Martin Parr (fotografo Magnum Photos, attento osservatore delle fenomenologie fotografiche e curioso collezionista di libri fotografici) e Gerry Badger, pubblicati da Phaidon Press nel 2004 e 2006, censimenti per generi e movimenti.
DALLA A ALLA ZETA
Al pari dell’alfabetico del prezioso Fotografia del XX secolo, in catalogo con lo stesso Taschen Verlag, anche il casellario dell’attuale Fotografi A-Z vanta il fantastico merito e valore della consultazione semplificata e lineare: appunto soltanto alfabetica, e non preordinata per altre chiavi di interpretazione da decifrare a priori. Da Slim Aaron e Berenice Abbott a Willy Otto Zielke e Piet Zwart, si incontrano trecentonovantotto autori della Storia della fotografia (quattrocentotré, con cinque coppie), presi in considerazione dall’accreditato Hans-Michael Koetzle, che abbiamo già incontrato, su queste stesse pagine, per la redazione dell’eccellente Photo Icons - The story behind the pictures, sempre Taschen Verlag, del quale abbiamo riferito nell’ottobre 2005. Certo, la selezione e individuazione è personale. Altri curatori avrebbero potuto compilare un elenco diverso, ma non è questo che conta, così come non è importante stare a puntualizzare quanti e quali autori italiani sono compresi nel casellario (per la cronaca, Gian Paolo Barbieri, Gabriele Basilico, Gianni Berengo Gardin, Mario De Biasi, Franco Fontana, Caio Garrubba, Luigi Ghirri, Mario Giacomelli, Ugo Mulas, Federico Patellani, Franco Pinna, Paolo Roversi, Ferdinando Scianna, Tazio Secchiaroli e Massimo Vitali: quindici su trecentonovantotto, neanche male). Ciò che conta è l’opera nel proprio complesso. Il punto di vista e la relativa straordinaria lezione. Con Michele Smargiassi, da Il Venerdì di Repubblica, dello scorso undici marzo: «Guardatelo bene questo libro di libri [fotografici], perché in futuro non ne vedrete molti altri. [...] Per ogni fotografo che abbia a cuore il proprio lavoro, il libro è ancora un approdo. Ma la cultura del libro come vocazione o apoteosi della fotografia, è finita con il secolo che l’ha portata all’eccellenza; e un’estetica fotografica intera è finita con essa». Già... il mondo cambia, si evolve, e fa le proprie vittime... inevitabili (con Mao Zedong, «La rivoluzione non è un pranzo di gala, non è una festa letteraria, non è un disegno o un ricamo, non si può fare con tanta eleganza, con tanta serenità e delicatezza, con tanta grazia e cortesia, la rivoluzione è un atto di violenza»). L’evoluzione tecnologica, sociale ed esistenziale è analoga: per quanto concede, qualcosa altro travolge.
Così che, questa selezione di fotografie impaginate, non di fotografie asettiche e svincolate dal proprio contesto originario che le ha definite, compone i tratti espressivi di un percorso controllato e governato dagli autori. Altri tempi, altri climi, come rileva ancora Michele Smargiassi nella sua sapiente recensione, appena richiamata: «I fotografi erano consapevoli delle tecniche di stampa, e ne tenevano conto quando scattavano [più probabilmente, quando stampavano]. Non si capisce lo stile fotografico di un’era se non si tiene conto delle tecnologie di riproduzione disponibili al momento. I vaporosi toni high-key degli anni Quaranta erano adattissimi alla finezza del retino zincografico, i neri impastati e untuosi delle foto[grafie] beat degli anni Sessanta erano esaltati dal rotocalco, e non ci sarebbe stata la rivoluzione del colore negli anni Settanta e Ottanta senza i miracoli dell’offset». Insomma, per quanto limitato ad autori del Nove-
CELO, CELO, MANCA, MANCA
Inviolabilmente, serve l’anagrafe giusta. Bisogna avere qualche decade sulle spalle (sei, sulle mie), e ricordare gli anni giovanili delle raccolte di figurine, soprattutto di calciatori, con inevitabili scambi tra i corridoi della scuola elementare e/o nel cortile dell’Oratorio (di san Gioachimo, a Milano). In fonema semplificato, “Celo” significava “Ce l’ho”, e “Manca” non ha bisogno di traduzione. Celo, celo, manca, manca: cantilenante ritornello indirizzato a colui il quale sfogliava il mazzetto dei propri doppi (come facessimo a ricordare a memoria figurina per figurina rimane un mistero). Già dalla copertina di Fotografi A-Z, si è ripetuto il motivetto: celo, celo, manca, manca, come se l’attualità di una biblioteca personale equivalesse alle raccolte di figurine dei decenni scorsi. Per una curiosa serie di circostanze, lo scorso inverno, ho svolto una lettura sul valore dei libri fotografici. Del furore di avere libri (fotografici) è stato replicato in tre sedi, e sarà di attualità in altre occasioni a venire: a me, è servito per fare ordine sugli scaffali della mia libreria personale, a uso editoriale per l’edizione di FOTOgraphia. Rispondendo a una natura formata in parti uguali di cultura e istinto, ho sottolineato come il vero luogo natio sia quello dove per la prima volta si è posato lo sguardo consapevole su se stessi: la mia prima (e unica) patria sono stati i libri. Ancora, la parola scritta mi ha insegnato ad ascoltare le voci. La vita mi ha chiarito i libri: osservare, piuttosto che giudicare, fino al linguaggio fotografico, straordinaria combinazione di regole logiche e usi arbitrari. Da cui, la lettura Del furore di avere libri (fotografici), che si protrae in tre ore, con accompagnamento di duecentoventitré immagini, per ottantatré titoli ampiamente commentati. La preparazione mi ha indotto a conteggiare la biblioteca che avvolge la redazione di FOTOgraphia: duecentosettantacinque metri lineari, per una stima plausibile di oltre undicimila titoli di fotografia. Quindi, ecco qui... celo, celo, manca, manca. Un gioco, niente di più: il piacere di stare con la Fotografia, una volta ancora, una di più, M.R. mai una di troppo. In Fotografi A-Z, più celo di quanti manca. Inevitabile. Una pietra miliare della Storia della fotografia: Images à la Sauvette, monografia di esordio ed esplosione della fotografia di Henri Cartier-Bresson, del 1952 (nella nostra libreria, l’edizione statunitense coeva The Decisive Moment).
William Claxton, fantastico cantore della musica del secondo Novecento, mancato recentemente. Esemplare, la monografia Jazzlife, pubblicata nel 1961, e riproposta da Taschen Verlag.
(centro pagina) Per Kishin Shinoyama è d’obbligo richiamarsi alla collettiva di quattro maestri della fotografia erotica, del 1970, che si estese anche a una edizione italiana.
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FOTOGRAFI A(ARONS)-Z(WART)
Ufficialmente, Fotografi A-Z presenta trecentonovantotto autori: ma in realtà sono quattrocentotré. Infatti, bisogna considerare cinque coppie che lavorano assieme: Bern e Hilla Becher, Manassé (Olga Spolarics e Adorján von Wlassics), Gabriele e Helmut Nothhelfer, Pierre et Gilles (Pierre Commoy e Gilles Blanchard) e Inez van Lamsweerde & Vinoodh Matadin. Da Slim Aarons e Berenice Abbott a Willy Otto Zielke e Piet Zwart, in rigoroso ordine alfabetico (quindici fotografi italiani). Slim Aarons, Berenice Abbott, Ansel Adams, Robert Adams, Max Alpert, Manuel Álvarez Bravo, Nobuyoshi Araki, Diane Arbus, Tony Armstrong-Jones (Lord Snowdon), Eve Arnold, Eugène Atget, Richard Avedon, David Bailey, Roger Ballen, Dmitrij Baltermants, Lewis Baltz, Gian Paolo Barbieri, Gabriele Basilico, Lillian Bassman, John Batho, Herbert Bayer, Peter Beard, Cecil Beaton, Bern e Hilla Becher, Hans Bellmer, E.J. Bellocq, Gianni Berengo Gardin, Ferenc Berko, Aenne Biermann, Ilse Bing, Werner Bischof, Karl Blossfeldt, Kurt Blum, Erwin Blumenfeld, Édouard Boubat, Pierre Boucher, Guy Bourdin, Margaret Bourke-White, Bill Brandt, Brassaï (Gyula Halász), Hugo Brehme, Josef Breitenbach, Marianne Breslauer, Alexey Brodovitch, Anton Bruehl, John Bulmer, Max Burchartz, René Burri, Larry Burrows, Edward Burtynsky, Claude Cahun, Harry Callahan, Robert Capa, Henri Cartier-Bresson, Francisco Català-Roca, Evgenij Chaldej, Martín Jiménez Chambi, Jean-Philippe Charbonnier, Chargesheimer (Karl-Heinz Hargesheismer), Hermann Claasen, Larry Clark, William Claxton, Lucien Clergue, Alvin Langdon Coburn, Clifford Coffin, Michel Comte, Anton Corbijn, Johan Cowan, Gregory Crewdson, Imogen Cunnigham, Edward Sheriff Curtis, Luoise Dahl-Wolfe, Josef Heinrich Darchinger, Bruce Davidson, Mario De Biasi, André de Diénes, John Deakin, Dmitrij Debabov, Thomas Demand, Patrick Demarchelier, Raymond Depardon, Philip-Lorca diCorcia, Jean Dieuzaide, Rineke Dijkstra, Robert Doisneau, Ken Domon, Terence Donovan, Sante D’Orazio, František Drtikol, David Douglas Duncan, Rémy Duval, Harold Eugene Edgerton, William Eggleston, Alfred Ehrhardt, Alfred Eisenstaedt, Arthur Elgort, Hugo Erfurth, Elliott Erwitt, Elger Esser, Walker Evans, Bernard Faucon, Louis Faurer, Gertrude Fehr, Andreas Feininger, Erwin Fieger, Larry Fink, Hans Finsler, Arno Fischer, Trude Fleischmann, Franco Fontana, Joan Fontcuberta, Günther Förg, Martine Franck, Robert Frank, Leonard Freed, Gisèle Freund, Lee Friedlander, Masahisa Fukase, Jaromír Funke, Anatoli Garanin, Cristina García Rodero, Alberto García-Alix, Flor Garduño, Caio Garrubba, Luigi Ghirri, Mario Giacomelli, Ralph Gibson, Tim N. Gidal, Bruce Gilden, Rolf Gillhausen, David Goldblatt, Nan Goldin, Jean-Paul Goude, Paul Graham, Milton H. Greene, Philip Jones Griffiths, Sid Grossman, Franz Christian Gundlach, Andreas Gursky, Ernst Haas, Heinz Hajek-Halke, Ruth Hallensleben, Philippe Halsman, Sam Haskins, Naoya Hatakeyama, Raoul Hausmann, Robert Häusser, John Heartfield, Keld Helmer-Petersen, Fritz Henle, Florence Henri, Lucien Hervé, Lewis W. Hine, Hiro (Yasuhiro Wakabayashi), Hannah Höch, David Hockney, Candida Höfer, Heinrich Hoffman, Thomas Höpker, Emil Otto Hoppé, Horst P. Horst, Frank Horvat, Eikoh Hosoe, George Hoyningen-Huene, Franz Hubmann, Axel Hütte, Georges Hugnet, David Hurn, George Hurrell, Boris Ignatovič, Irina Ionesco, Yasuhiro Ishimoto, Graciela Iturbide, Izis (Israëlis Bidermanas), Lotte Jacobi, Klement Kalischer, Yousuf Karsh, Benjamin Katz, Rinko Kawauchi, Peter Keetman, Seydou Keïta, André Kertész, Ihei Kimura, William Klein, Barbara Klemm, Nick Knight, Herlinde Koelbl, François Kollar, Rudolf Koppitz, Alberto Korda, Josef Koudelka, Les Krims, Germaine Krull, Hiroji Kubota, Fritz Kühn, David LaChapelle, Dorothea Lange, Frans Lanting, Sergio Larrain, Jacques-Henri Lartigue, Guy Le Querrec, Robert Lebeck, Annie Leibovitz, Neil Leifer, Arthur Leipzig, Saul Leiter, Helmar Lerski, Helen Levitt,
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Da Fotografi A-Z, la doppia pagina che in ordine alfabetico accosta Bruce Weber a Weegee. Appunto vincolata dall’ordine alfabetico, la monografia presenta molte consecuzioni curiose.
Alexander Liberman, Peter Lindbergh, O. Winston Link, El Lisitskij, Herbert List, Loretta Lux, George Platt Lynes, Danny Lyon, Dora Maar, Shinzō Maeda, Felix H. Man, Man Ray (Emmanuel Radnitzky), Manassé (Olga Spolarics e Adorján von Wlassics), Sally Mann, Robert Mapplethorpe, Charlotte March, Mary Ellen Mark, Mark Markov, Jim Marshall, Herbert Matter, Roger Mayne, Willy Maywald, Will McBride, Linda McCartney, Leonard McCombe, Donald McCullin, Steve McCurry, Frances McLaughlin, Ralph Eugene Meatyard, Roger Melis, Joel Meyerowitz, Duane Michals, Boris Mikhailov, Gjon Mili, Lee Miller, Richard Laurence Misrach, Lisette Model, Tina Modotti, Willi Moegle, László Moholy-Nagy, Moï Ver (Moshé Raviv-Vorobeichic), Jean-Baptiste Mondino, Sarah Moon, Inge Morath, Yasumasa Morimura, Daidō Mōriyama, Stefan Moses, Ugo Mulas, Martin Munkácsi, James Nachtwey, Takuma Nakahira, Hans Namuth, Ikkō Narahara, Floris Michael Neusüss, Arnold Newman, Helmut Newton, Lennart Nilsson, Simon Norfolk, Gabriele e Helmut Nothhelfer, Paulo Nozolino, Ken Ohara, Lennart Olson, Ruth Orkin, Josè Ortiz Echagüe, Paul Outerbridge, Norman Parkinson, Gordon Parks, Martin Parr, Federico Patellani, Irving Penn, Gilles Peress, Walter A. Peterhans, Anders Petersen, Pierre et Gilles (Pierre Commoy e Gilles Blanchard), Gueorgui Pinkhassov, Franco Pinna, Bernard Plossu, Robert Polidori, John Rawlings, Tony Ray-Jones, Albert Renger-Patzsch, Bettina Rheims, Marc Riboud, Eugene Richards, Bob Richardson, Terry Richardson, Leni Riefenstahl, Herb Ritts, Alexander Rodčenko, George Rodger, Willy Ronis, Walter Rosenblum, Sanford H. Roth, Arthur Rothstein, Paolo Roversi, Thomas Ruff, Willi Ruge, Sebastião Salgado, Erich Salomon, August Sander, Jan Saudek, Roger Schall, Steve Schapiro, Xanti Schawinsky, Max Scheler, Hugo Schmölz, Gotthard Schuh, Ferdinando Scianna, Tazio Secchiaroli, Friedrich Seidenstücker, David Seidner, Andres Serrano, David “Chim” Seymour, Ben Shahn, Charles Sheeler, Cindy Sherman, Kishin Shinoyama, Stephen Shore, Julius Shulman, Malick Sidibé, Jeanloup Sieff, Aaron Siskind, Sandy Skoglund, Anatolij Skurichin, Alexander Slyussarev, W. Eugene Smith, Alec Soth, Emmanuel Sougez, Alice Springs, Anton Stankowski, Edward Steichen, Otto Steinert, Bert Stern, Joel Sternfeld, Louis Stettner, Alfred Stieglitz, Dennis Stock, Sasha Stone, Paul Strand, Liselotte Strelow, Christer Strömholm, Thomas Struth, Jock Sturges, Josef Sudek, Hiroshi Sugimoto, Larry Sultan, Karel Teige, Juergen Teller, Mario Testino, Miroslav Tichý, Wolfgang Tillmans, Herbert Tobias, Shōmei Tōmatsu, Larry Towell, Ronald Traeger, Shōji Ueda, Umbo (Otto Maximilian Umbehr), Tony Vaccaro, Ed van der Elsken, Johan van der Keuken, Inez van Lamsweerde & Vinoodh Matadin, André Vigneau, Roman Vishniac, Massimo Vitali, Lucien Vogel, Ellen von Unwerth, Chris von Wangenheim, Tim Walker, Jeff Wall, Nick Waplington, Andy Warhol, Albert Watson, Alex Webb, Bruce Weber, Weegee (Usher / Arthur Fellig), William Wegman, Dan Weiner, Brett Weston, Edward Weston, Minor White, Garry Winogrand, Joel-Peter Witkin, Reinhart Wolf, Paul Wolff, Wols (Alfred Otto Wolfgang Schulze), Tom Wood, Yva (Else Ernestine Simon nata Neuländer), Alexander Zhitomirskij, Willy Otto Zielke, Piet Zwart.
Fenomeno attuale della fotografia contemporanea, David LaChapelle è identificato in Fotografi A-Z attraverso due titoli che ne hanno affermato la personalità: Hotel LaChapelle (Gingko Press / Callaway, New York; 1999) e Heaven to Hell (Taschen Verlag; 2006).
La rocambolesca scoperta di Eugéne Atget, all’indomani della sua scomparsa (1927), si deve a Berenice Abbott, che ha salvato il suo archivio. Prima raccolta: Atget. Photographe de Paris, del 1930. E tante altre a seguire, ancora oggi.
Della serie fotografica Storyville Portraits, di E.J. Bellocq, abbiamo riferito in diverse occasioni, la più recente delle quali si riconduce alla presentazione della prima edizione italiana, pubblicata da Abscondita ( FOTOgraphia, aprile 2009). In ripetizione, uno degli autentici capisaldi della storia della fotografia e della sua cultura.
cento, Fotografi A-Z ha le stimmate del libro epocale, che fa il punto di una Storia, nello stesso momento nel quale ne celebra una certa conclusione: oggigiorno, tra semplificazioni di stampa, improvvisazioni editoriali, casualità diffuse e incapacità di giudizio, il libro fotografico sta vivendo una strana stagione, divisa tra la capacità di esprimere (da parte degli autori) e la inettitudine e incompetenza di chi dovrebbe intuire ciò che si proietta in avanti, diverso da quanto -seppure esuberante- è destinato a concludersi in se stesso e nella propria effimera cronaca. Chiusura allineata con la chiusura di Michele Smargiassi (da Alla ricerca della foto perduta, in Il Venerdì di Repubblica, dell’undici marzo scorso): «Questo non è un Pantheon, è una playlist: una scel-
ta come altre possibili, una compilation dove l’ordine alfabetico diventa fonte di curiosi accostamenti e confronti, pagina dopo pagina [...], dove è divertente farsi trascinare piluccando autore dopo autore, libro dopo libro, consapevoli che questa è solo la nomenclatura d’élite di una storia molto più grande, la storia di tutti coloro che quei libri d’autore li sfogliarono e cercarono di imitarli con le loro macchinette, o li ignorarono e continuarono lo stesso a fare fotografie ai picnic con la famiglia e ai tramonti infuocati, a incollarle sugli album di famiglia, quei milioni e milioni di libri in una copia sola che hanno fatto anch’essi la storia della fotografia. E pure loro, tra social network e hard disk, non la faranno più». Così è, ci piaccia o meno. ❖
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Sono a Cesenatico, sta nevicando come fossimo a Cortina, tutto è bianco. Da un momento all’altro mi aspetto di vedere un gruppo di sciatori con scarponi e sci in spalla, che attraversano il lungomare... ma di là, c’è la spiaggia, non le Tofane! A un tratto, sulla destra, intravedo una insegna particolare, con una grande “A”, sulla facciata di un albergo: sono arrivato. La porta è aperta, anche se mancano due mesi alla stagione; entro e incontro un imbianchino al lavoro, sto per domandargli qualcosa... si volta e, sorpresa, è Claudio Bocchini, proprietario dell’albergo (insieme alla sua famiglia). Amante dei viaggi, della bella vita, amante della fotografia e di ogni altra espressione artistica, oggi Claudio Bocchini è verniciatore e imbianchino nel suo hotel. Molti albergatori del mare di Romagna (e Claudio è tra questi) chiudono le porte dei propri alberghi a fine settembre, per riaprirle ai primi di maggio. Nei sette mesi di vacanza forzata, ognuno deve trovare qualcosa da fare; c’è chi svolge un altro lavoro e chi, invece, dedica il tempo alle proprie passioni. Ogni anno, Claudio Bocchini frequenta la fotografia creativa. Mi porta a visitare le camere già pronte per la stagione estiva; mi fa visitare la stanza “Raul e Mirco Casadei Beach Band”, arredata con fotografie, disegni, chitarra, cimeli e firme dei due musicisti; poi, la stanza dedicata alla Gioconda, fino ad arrivare alla numero 10, dedicata a Maurizio Galimberti, con sue polaroid alle pareti, libri e, sul muro, la firma più grande che Maurizio Galimberti abbia mai fatto. Claudio, sei uno stimato albergatore. Cosa rappresenta per te la fotografia? «La fotografia è la mia memoria storica. La fotografia mi fa sognare, incidendo nella mente i momenti belli, le scene emozionanti della mia vita e, soprattutto, è la possibilità di condividere con gli altri questi attimi». Quando hai iniziato ad appassionarti alla fotografia? «A tredici anni, comprai la mia prima macchina fotografica, percorrendo poi tutto il tragitto tra passione e curiosità: bianconero, sviluppo e stampa, diapositive, polaroid e ora il digitale». Polaroid. Come ti appassionasti alla fotografia a sviluppo immediato, quando l’hai avvicinata? «All’inizio degli anni Ottanta, compilando un ordine di prodotti per l’albergo, mi regalarono una SX-70. Fu un amore a prima vista: vedere l’immagine appena scattata comparire lentamente sotto i miei occhi scriveva nella mia mente una sensazione bellissima, inspiegabile... una magia! Poco dopo, scoprii che si poteva manipolare, trasformando la fotografia come fosse un quadro a olio, con colori delicati. Ero un fotografo che scattava poco, e quindi avevo trovato la mia macchina fotografica ideale, anche perché le pellicole avevano un certo costo, che interpretai come un vantaggio: la polaroid mi obbligava a non sprecare immagini, ma soprattutto a vedere e pensare». Ho visto le tue fotografie esposte in diverse fiere d’arte: erano tutte degli anni Novanta. Non ne hai conservato nessuna degli anni precedenti? «La prima fotografia manipolata che scattai con una SX-70 è del 1983. Peccato che ne siano rimaste poche di quel periodo, perché a quel tempo non si dava importanza alla polaroid, una macchina che solitamente veniva regalata per le prime comunioni o in occasione dei compleanni. Sembrava quasi di essere sminuiti, come fotografi. Comunque, erano gli anni delle diapositive e delle camere oscure, le proiezioni e gli ingrandimenti erano all’apice; il principiante che fotografava con polaroid si ritrovava in mano una copia di dieci centimetri di lato, compresa la cornice, mentre altri proiettavano dia-
positive di tre metri per tre. Purtroppo, in Italia, la polaroid non era capìta. «Passarono gli anni, e nel 1994 partecipai a un concorso, a Bibbiena, in provincia di Arezzo, con quattro stampe ingrandite con una delle prime fotocopiatrici laser a colori: vinsi il primo premio nella sezione colorprint. Fu in quell’occasione che conobbi Maurizio Galimberti, una persona fantastica e generosa di consigli: “In fotografia -è solito affermare-, i segreti sono come quelli di Pulcinella; quindi, la mia conoscenza la metto a disposizione di tutti”. «In seguito, con Maurizio Galimberti ci siamo ritrovati nel Gruppo Polaser: lui come socio fondatore e io, per un disguido, entrai poco tempo dopo. Da quel momento, Image, 600, SX-70, Alpha, corsi polaroid, Pino Valgimigli... in una parola, il Polaser. «È stato un viaggio stupendo, che mi auguro possa continuare ancora, anche se tu hai deciso di scendere dalla guida». Qual è il tuo pensiero sulla fine di quella “magica” pellicola e sulle nuove Impossible? «Fino a quando riuscirò a trovare le vecchie polaroid, le comprerò, anche se scadute; poi, come tutte le cose che finiscono, resteranno i bei ricordi. «Per quanto riguarda le nuove pellicole Impossible, apprezzo il lavoro di questi appassionati che cercano di non far morire il sogno. Per il momento, sono agli inizi; auguro loro di riuscire a continuare quella magia durata sessant’anni e magari ad andare anche oltre l’incantesimo». Ciao Claudio, continua a pitturare, ci vediamo il giorno dell’inaugurazione della stagione estiva 2011. Pino Valgimigli
www.polaser.org
«La limitazione dei mezzi determina lo stile, dà vita a nuove forme e dà impulso alla creatività» Georges Braque Questa citazione dal pittore Georges Braque aiuta a comprendere lo slancio e spirito che guida e ispira gli artisti del Gruppo Polaser, eterogenei per interessi artistico-culturali e per provenienza da molte città italiane e anche dall’estero, accomunati dalla ricerca e sperimentazione di nuove possibilità espressive nelle molteplici forme dell’arte, dalla fotografia alla pittura, scultura, design, architettura, ceramica, letteratura, teatro, a altro ancora.
RIPRODUCIBILITÀ
TECNICA Ufficialmente, presentiamo il Google Art Project, attivo dallo scorso Primo febbraio. Sì, di questo trattiamo... ma! Ma, soprattutto, insistiamo sul princìpio secondo il quale occuparsi di Fotografia e stare con la Fotografia non deve essere un arido punto di arrivo, ma uno straordinario, fantastico e impagabile s-punto di partenza. Non la Fotografia in quanto tale, estraniata dalla società, ma i suoi rapporti relativi e conseguenti: l’Uomo con la Fotografia e la Fotografia nella società (in rispettivi tragitti di andata-e-ritorno, senza alcuna soluzione di continuità). In aggiornamento all’attuale era digitale Google Art Project (www.googleartproject.com) è un programma di raffinata presentazione dell’arte: l’Uomo con la Fotografia e la Fotografia nella società (in rispettivi tragitti di andata-e-ritorno, senza alcuna soluzione di continuità) e fonte che alimenta la vita e l’evoluzione dell’esistenza. Al momento della sua partenza, conta sulla presenza e collaborazione di diciassette musei di prima grandezza, di eccellente grandezza, di nove paesi (e undici città). L’homepage cambia ogni giorno, con alternanza tra i diciassette musei coinvolti nel progetto.
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di Maurizio Rebuzzini ricerca iconografica di Ciro Rebuzzini
V
ivere in Italia è un privilegio. Vivere con gli italiani, con un certo modo di essere italiani (ne sto per parlare), lo è ancora di più: una palestra esistenziale, che rivela presto e subito ciò che è bene non fare, come è bene non essere. Fedeli al princìpio secondo il quale il nostro occuparci di Fotografia e stare con la Fotografia non è mai un arido punto di arrivo, ma uno straordinario, fantastico e impagabile s-punto di partenza, è necessario ribadire. Non mi interessa nulla, non soltanto poco, della Fotografia in quanto tale, estraniata dalla società, ma pensarla e viverla sempre e comunque per i rapporti relativi e conseguenti: l’Uomo con la Fotografia e la Fotografia nella società (in rispettivi tragitti di andata-e-ritorno, senza alcuna soluzione di continuità). In questo senso, e questa direzione, ho anche orientato la docenza a incarico di Storia della Foto-
grafia, alla Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università Cattolica del Sacro Cuore (sede di Brescia): non tanto sterile sequenza cronologica di date, autori e movimenti, ma incantevole e coinvolgente tragitto trasversale alla Vita, all’Esistenza. In conforto, se mai ce ne fosse bisogno, registro il sottotitolo chiarificatore di una convincente monografia che ha osservato la Storia della fotografia con occhio vigile. L’inglese The Genius of Photography è un fantastico percorso attraverso i decenni, definiti e disegnati dalla Fotografia. Il sottotitolo è esplicito, eccoci: How photography has changed our lives, ovvero come la fotografia a cambiato le nostre vite (l’edizione libraria raccoglie le sei puntate di un programma televisivo prodotto dalla Bbc e venduto in molti paesi, non in Italia). All’esatto contrario, oltre che opposto, vivere la fotografia in Italia è un privilegio, esteso alle sue inevitabili frequentazioni. Così, nell’estate 2009, in occasione dell’inaugurazione della rievocazione La magia della polaroid, allestita nelle autorevoli sale del Centro Italiano della Fotografia d’Autore, di Bibbiena, in provincia di Arezzo, ho potuto assistere a un siparietto che avrebbe fatto invidia a Totò. Un pistolotto contro il computer tirato da un Maestro (che comunque non sta tre minuti consecutivi senza maneggiare un telefonino cellulare di ultimissima generazione, sistematicamente aggiornato) ha prodotto un entusiasmo da stadio. La logica è sempre la stessa, e non è il caso di insistere: in Italia si fa vanto e gloria di quanto nel resto del mondo risulterebbe soltanto grottesco (nella propria inutilità di fondo).
TECNOLOGIA E DINTORNI Orbene, non voglio sollecitare alcuno schieramento, perché, come sempre certifico, non si tratta mai di pensarci l’un contro l’altro armati (Guelfi e Ghibellini), a difesa delle proprie opinioni. Non è questo il
Dalla Relazione intorno al dagherrotipo, di Macedonio Melloni, del 12 novembre 1839 (riprendendo concetti espressi da François Jean Dominique Arago nella presentazione del diciannove agosto, successiva all’annuncio del sette gennaio) [in 1839-2009. Dalla Relazione di Macedonio Melloni alla svolta di Akio Morita, di Maurizio Rebuzzini; Graphia, 2009]: «Tante perfezioni, riunite alla somma facilità e prontezza del metodo, hanno destato un entusiasmo universale. Dappertutto si ripetono le sperienze del Dagherrotipo, ognuno vorrebbe avere tra le mani questo prezioso strumento, ognuno bramerebbe impiegarlo, il più presto possibile, a ritrarre, non solo stampe, disegni, statue, monumenti, ma i quadri ad olio de’ nostri più celebri artisti, i più bei mazzi di fiori, e le vario-pinte farfalle. Invano si disse dell’Arago, dal Gay-Lussac che il Dagherrotipo non poteva servire a copiare gli oggetti colorati; moltissimi sperano tuttavia ottenere sulle lamine dagherriane, se non i vivi e svariati colori che ci presentano la natura ed il genio delle arti, almeno le loro traduzioni esatte in chiaroscuro. Anzi abbiam udito non pochi pittori proporsi di studiare queste copie con gran frutto rispetto alle intensità relative delle tinte, ed ai punti ove devon figurarsi nelle loro composizioni ad olio la massima e la minima illuminazione».
discorso, non è questa la questione. Semmai, bisogna essere capaci di assecondare l’intelligenza che ci è stata donata (?), consentendole di esercitare il dialogo, la discussione e lo scambio di opinioni. Ora, è obbligatoria una precisazione personale: non guardo la televisione, che neppure è sintonizzata su un qualsivoglia canale (e faccio male); là dove e quando posso, scrivo con la penna stilografica, caricata con inchiostro verde; per la fotografia di mio piacere, scatto in otto-per-dieci (pollici), con un apparecchio folding, che ha da poco sostituito la Sinar Norma attiva fino a qualche stagione fa; scatto anche in stereo, panoramica a obiettivo rotante e con il foro stenopeico, oltre che attraverso la scomposizione del caleidoscopio. Utilizzo soprattutto pellicole chimiche e non ho interesse per approfondire le tematiche tecniche dell’acquisizione digitale di immagini (e, anche qui, faccio male). Però! Però, sono consapevole di quali e quante opportunità vengano sistematicamente offerte e proposte da qualsivoglia evoluzione tecnologica: è stato sempre così, e lo è anche e ancora oggi, in era digitale (non La nuit étoilée, di Vincent van Gogh (olio su tela, 73,7x92,1cm; 1889), dal MoMA, di New York. Ingrandendo, si scopre la forma della pennellata, ricca di infinite sfumature di gialli, verdi, blu, bianchi, si entra in un micro mondo nascosto sotto la superficie del dipinto, superficie alla quale solitamente si arresta la nostra percezione visiva.
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Nature morte, di Paul Cézanne (olio su tela, 68,6x92,7cm; 1895-1898) e Grandcamp, un soir, di Georges-Pierres Seurat (olio su tela 66,2x82,4cm; 1885), entrambi dal MoMA, di New York. Ancora ingrandimenti selettivi sulle opere, alla scoperta della materia e della lavorazione.
Come è noto e risaputo, Google è un motore di ricerca per Internet; in assoluto, è il sito più visitato del mondo. Oltre a catalogare e indicizzare il World Wide Web (www), si occupa anche di immagini, fotografie, newsgroup, notizie, mappe e video. È stato creato nel 1998 da Larry Page e Sergey Brin, allora studenti dell’Università di Stanford, che elaborano la teoria secondo la quale un motore di ricerca basato sull’analisi matematica delle relazioni tra siti web avrebbe prodotto risultati migliori rispetto le tecniche empiriche usate precedentemente. Da cui, l’adozione di una definizione (matematica) già esistente: Googol, termine coniato da Milton Sirotta, nipote del matematico statunitense Edward Kasner, nel 1938, per riferirsi al numero rappresentato da “1” seguìto da cento zeri: perfetta metafora della vastità del web. Già esistente il dominio Googol, nacque la trasformazione in Google, che tutti conosciamo. Dettaglio non da poco (per noi, almeno): una particolarità di Google è quella che in determinate date cambia il logotipo caratteristico, a celebrare un avvenimento avvenuto in quel determinato giorno.
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soltanto in fotografia). Comunque, oltre tanto d’altro, la fotografia è anche una scienza: progredisce, deve progredire, malgrado tutto e nonostante tutti. Però, ancora, insisto con la Fotografia s-punto di partenza e con i rapporti relativi e conseguenti: l’Uomo con la Fotografia e la Fotografia nella società (in rispettivi tragitti di andata-e-ritorno, senza alcuna soluzione di continuità). Così, benedico quanto la tecnologia digitale offre all’esistenza e alla professione quotidiane. Con Francesco Guccini, da Eskimo, del 1978: «Bisogna saper scegliere in tempo, non arrivarci per contrarietà». Certo, non è tutto oro quello che cola, e -come in tutto, del resto- c’è anche il rovescio della medaglia, spesso amaro, ma mai contrapposto. E la tecnologia tutta, che è pure «quella stessa fonte che alimenta la vita e l’evoluzione dell’esistenza» (autocitazione, dall’incipit di Alla Photokina e ritorno), è altresì minata da altro. Con Antonio Bordoni e Angelo Galantini, da FOTOgraphia dello scorso marzo: «Ciò che conta, e che puntualizziamo, è che non si tratta tanto di progressioni tecnologiche, inevitabili e auspicabili, quanto di comprensione filosofica dell’essenza: ogni attività
Dans la Serre, di Edouard Manet (olio su tela 115x150cm; 1878-1879), all’Alte Nationalgalerie, di Berlino.
Album di calligrafia, di Shah Mahmud Nishapuri e Salim al-Katib (inchiostro e oro su carta, 26,1x16,3cm; Sedicesimo secolo), alla Freer Gallery of Art-Smithsonian, di Washington.
Deposizione di Maria, di Giotto (tempera su legno; 75x179cm; 1310), alla Gemäldegalerie Alte Meister, di Dresda.
Donne supplicano per la vita dei prigionieri (Costantina, Siviglia), fotografia di autore sconosciuto (stampa ai sali di argento, 18,6x23,3cm; 1936), al Museo Nacional Centro de Arte Reina Sofia, di Madrid.
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manuale o intellettuale [...] deve essere cosciente e convinta. [...] Il vero male della tecnologia non sono tanto i prodotti in sé, quanto la tendenza che la stessa tecnologia ha di isolare la gente, di abituarla ad atteggiamenti di indifferenza al mondo, ai rapporti tra le persone e alla consapevolezza professionale individuale. Per contrasto, e reazione, qualsiasi lavoro si svolga, se, quando e per quanto si trasforma in arte ciò che si sta facendo, con ogni probabilità si arriverà a scoprire di essere divenuti per gli altri persona interessante e non oggetto (o soggetto passivo). Questo perché le decisioni prese e manifestate tenendo conto della Vita (della qualità individuale del-
la vita) cambiano ciascuno di noi ! Meglio: non soltanto cambiano noi e il nostro lavoro, ma cambiano anche gli altri: perché la qualità individuale è come un’onda. Il lavoro di Qualità, che si pensava nessuno avrebbe notato, viene notato, eccome; e chi lo riesce a vedere si sente un pochino meglio: certamente trasferirà negli altri questa sua sensazione, e in questo modo la qualità continuerà a diffondersi».
NELL’ERA DIGITALE In assoluto, e con i dovuti distinguo che mi fanno riconoscere i retrogusti amari, ribadisco, confermando: benedico quanto la tecnologia digitale offre al-
HALTADEFINIZIONE
Marchio della società novarese HAL9000, Haltadefinizione ha pubblicato in Rete, consultabili gratuitamente, una serie di icone della storia dell’arte figurativa, da La deposizione, del Pontormo, alla Sacra Sindone, dalla Canestra di frutta, di Caravaggio, all’Ultima Cena, di Leonardo. La consultazione può esplorare fino ai più minuti dettagli delle opere e permette di scoprire particolari assolutamente invisibili a occhio nudo: www.haltadefinizione.com. Per dare un’idea della qualità delle immagini, riferiamo le caratteristiche tecniche del file che contiene l’Ultima Cena: dimensione, circa sedici miliardi di pixel (172.181x93.611 pixel); profondità di colore, 16 bit per canale; numero di scatti per comporre il file, milleseicentosettantasette (1677); calcolo per la fusione degli scatti eseguito grazie a un computer con sedici Gigabyte di memoria RAM, dotato di due processori Quad Core AMD Opteron e disco fisso da due Terabyte; macchina fotografica Nikon D2xs con AF-S Nikkor 600mm f/4D IF-ED II; software di acquisizione in tempo reale Nikon Camera Control Pro; software di verifica e postproduzione Nikon Capture NX; dispositivo di puntamento con testa panoramica motorizzata Clauss Rodeon V. Il progetto di Haltadefinizione è nato dall’esperienza maturata nell’ambito della fotografia digitale: galleria di immagini in altissima definizione dei più grandi capolavori della storia dell’arte. Grazie alla collaborazione con importanti partner tecnologici internazionali (tra i quali Nikon/Nital), Haltadefinizione ha realizzato un sofisticato procedimento di ripresa fotografica, certificato dall’Istituto Superiore per la Conservazione e il Restauro, che permette di produrre immagini di opere d’arte la cui definizione riproduce con estrema nitidezza anche i dettagli più minuti. Le immagini di Haltadefinizione, acquistabili anche in forma di poster o stampa fine art, costituiscono un valido supporto alle indagini scientifiche di restauro e trovano applicazione negli ambiti dedicati alla valorizzazione e promozione del patrimonio storico-artistico. Oltre il programma standard, dallo scorso diciassette novembre,
Marchio della società novarese HAL9000, Haltadefinizione pubblica in Rete, consultabili gratuitamente, una serie di icone della storia dell’arte figurativa: www.haltadefinizione.com.
sul sito Haltadefinizione si può visitare virtualmente la Cappella degli Scrovegni, di Padova. Grazie a tecnologie di ripresa innovative, che permettono di ingrandire i dettagli senza perdita di definizione, e a un visore interattivo, si possono esplorare dettagli del capolavoro di Giotto: senza limiti d’altezza, senza dover mantenere alcuna distanza di sicurezza e senza limiti di tempo, si incontrano le singole pennellate che hanno disegnato i volti, le trasparenze di alcuni panneggi, l’uso dell’oro e dell’azzurro lapislazzulo e tutti gli straordinari particolari che il restauro concluso nel 2002 ha riportato all’antico splendore. La Cappella degli Scrovegni in alta definizione costituisce il traguardo di un progetto di valorizzazione del patrimonio culturale italiano, accessibile a tutti, iniziato con l’Ultima Cena, di Leonardo, che in futuro prevede altre consistenti pubblicazioni.
L’ Ultima Cena di Haltadefinizione ha una dimensione di circa sedici miliardi di pixel (172.181x93.611 pixel); è stata realizzata con milleseicentosettantasette (1677) scatti con Nikon D2xs dotata di AF-S Nikkor 600mm f/4D IF-ED II.
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l’esistenza e alla professione quotidiane. E, se solo ci fosse modo di essere ascoltati in qualche modo, o misura, ciascuno ne potrebbe raccontare delle belle, arricchendo chi sa udire (noi, tra questi). Tra tanti esempi, uno recente è addirittura luminoso. Dallo scorso Primo febbraio è attivo un fantastico sito Internet collegato a Google. Si tratta di Google Art Project, all’indirizzo www.googleartproject.com, anticipato da Lello Piazza nel suo Ici Bla Bla di marzo. In doverosa ripetizione: «Applicando la fotografia digitale ad altissima risoluzione, è incredibile quello che si riesce a vedere in un’opera d’arte: grazie all’Art Project (Progetto Arte), di Google, è un incredibile a
portata di mano. Ricordate l’androide Roy Batty, di Blade Runner [interpretato da Rutger Hauer]?: “Io ne ho viste cose, che voi umani non potreste immaginarvi”? Ecco, è a portata di mano un’esperienza simile, nella quale ci si può sentire un poco androidi dotati di una potente vista telescopica». Di cosa si tratti è presto detto, e tutto si basa, sia chiaro una volta per tutte, su una avvincente e convincente applicazione della tecnologia digitale, nel senso e direzione appena evocati: l’Uomo con la Fotografia e la Fotografia nella società (in rispettivi tragitti di andata-e-ritorno, senza alcuna soluzione di continuità) e fonte che alimenta la vita e l’ePiazza san Marco, a Venezia, di Canaletto (olio su tela, 141,5x204,5cm; 1723-1724), al Museo Thyssen-Bornemisza, di Madrid.
Senza titolo, di Vladimir Janousek (metallo su tavola di legno, 200x110cm; 1977), al Museum Kampa, di Praga.
The Ambassadors, di Hans Holbein il giovane (olio su quercia, 207x109,5cm; 1533), alla National Gallery, di Londra.
Nature morte au flambeau d’argent, di Meiffren Comte (olio su tela, 80x101cm; Diciassettesimo secolo), al Château de Versailles, di Parigi.
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Een watermolen, di Meindert Hobbema (olio su pannello, 62x85,5cm; 1662-1668), al Rijksmuseum, di Amsterdam.
Satan Smiting Job with Sore Boils, di William Blake (penna, inchiostro e tempera su mogano; 326x432cm; 1826 circa), alla Tate Gallery, di Londra.
La fragua, di Francisco Goya (olio su tela, 181,6x125,1cm; 1815-1820), alla The Frick Collection, di New York.
Vista di Toledo, di El Greco (olio su tela, 121,3x108,6cm; 1610 circa), al Metropolitan Museum of Art, di New York.
Tre grazie, di Antonio Canova (marmo, altezza 182cm; 1813-1816), all’Ermitage Museum, di San Pietroburgo.
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voluzione dell’esistenza. Come rivela la definizione esplicita, e presto tradotta (Progetto Arte), Google Art Project è un programma di raffinata presentazione dell’arte, appunto. Al momento della sua partenza, conta sulla presenza e collaborazione di diciassette musei di prima grandezza, di eccellente grandezza, di nove paesi (e undici città). Con ordine (il nostro; sul sito, la sequenza di presentazione è diversa): ❯ Galleria degli Uffizi (Firenze); ❯ Château de Versailles (Parigi, Francia); ❯ Alte Nationalgalerie (Berlino, Germania); ❯ Gemäldegalerie Alte Meister (Dresda, Germania); ❯ National Gallery (Londra, Inghilterra); ❯ Tate Gallery (Londra, Inghilterra); ❯ Rijksmuseum (Amsterdam, Olanda); ❯ Van Gogh Museum (Amsterdam, Olanda); ❯ Museo Nacional Centro de Arte Reina Sofia (Madrid, Spagna); ❯ Museo Thyssen-Bornemisza (Madrid, Spagna); ❯ Museum Kampa (Praga; Repubblica Ceca); ❯ Galleria Tret’jakov (Mosca, Russia); ❯ Ermitage Museum (San Pietroburgo, Russia); ❯ The Frick Collection (New York, Usa); ❯ Museum of Modern Art (MoMA; New York, Usa); ❯ Metropolitan Museum of Art (New York, Usa); ❯ Freer Gallery of Art-Smithsonian (Washington, Usa). A parte tanti altri dettagli, che ognuno individui e frequenti da sé, a partire dalla possibilità di aderire a una affascinante Artwork Collection personale (con oneri da assolvere), Google Art Project si concretizza soprattutto in due direzioni. Da una parte, per mezzo di una applicazione derivata dalla nota tecnologia Street View, è possibile compiere un tour a trecentosessanta gradi nelle sale dei musei coinvolti [in semplificazione, sintetizziamo a pagina 60]. Quindi, ogni museo ha messo a disposizione una consistente quantità di opere dalle proprie collezioni permanenti [in queste pagine, presentiamo un’opera per ognuno]. Qui entra in campo, entra in gioco, la tecnologia digitale ad altissima risoluzione. Le opere, per lo più quadri, ma anche sculture e qualche fotografia (immagini della Guerra civile spagnola, al Museo Nacional Centro de Arte Reina Sofia), sono visualizzate a tutto schermo. In basso a destra, un cursore consente di ingrandire dettagli interni, visualizzati sulla riduzione guida che accompagna la selezione. Ancora con Lello Piazza, in allungo sull’evocazione dell’androide Roy Batty, di Blade Runner, appena richiamata: «Ho fatto anch’io l’androide su alcuni quadri. Su uno di questi, la Notte Stellata, di Vincent van Gogh (73,7x92,1cm), che sta al MoMA, di New York, ingrandendo al massimo al centro di una delle straordinarie stelle che affollano il cielo, si scopre la forma della pennellata, ricca di infinite sfumature di gialli, verdi, blu, bianchi, si entra in un micro mondo nascosto sotto la superficie del dipinto, superficie alla quale solitamente si arresta la nostra percezione visiva. Senza gli strumenti [digitali!] di Google, un’esperienza analoga sarebbe possibile solo se si potesse arrivare vicinissimi alla tela originaria, armati
però di una lente a fortissimo ingrandimento» [in sequenza consequenziale a pagina 51]. Per la realizzazione dell’impresa, Google ha impiegato numerose squadre di esperti informatici e fotografici, che hanno realizzato decine di fotografie di ognuna delle più di mille opere rese oggi accessibili in Art Project. Ogni immagine pesa circa sette Gigabyte. L’autorevole parere di Cristina Acidini, Soprintendente al Polo Museale di Firenze, anticipa le nostre considerazioni: «Grazie a Google, la Galleria degli Uffizi, il museo più antico dell’Europa moderna, creato nel cuore di Firenze per accogliere le raccolte d’arte dei Medici, sommi mecenati del Rinascimento, diventa fruibile in qualunque istante, da qualunque parte del mondo. Attraverso il viaggio virtuale nella Galleria, l’utente può esplorare oltre settanta capolavori, da Cimabue a Goya, con particolare attenzione alla Nascita di Venere, di Sandro Botticelli: il supremo ideale di cultura e di bellezza umana, simbolo della fioritura di Firenze al
ANAMORFOSI
L’illusione è perfetta. Si entra nella chiesa di Santa Maria presso San Satiro (1476-1482), a Milano, sulla via Torino, a due passi da piazza del Duomo, e pare che, dietro l’altare, ci sia un grande spazio, un’abside regolare, ben completata da colonne e decorazioni. Non è così: ma l’illusione (l’inganno visivo?) dura a lungo, e per accorgersi che si tratta solo di un’illusione ottica bisogna arrivare proprio vicino all’altare, quasi toccare con mano; dietro l’altare non si passa, c’è poco meno di un metro di spazio. Insomma, l’abside che si vede dall’ingresso nella chiesa non esiste nella realtà. L’artefice di questa meraviglia visiva, o forse inganno (inganno prospettico: anamorfosi) è uno dei più grandi architetti del Rinascimento: Donato (Donnino) di Angelo di Pascuccio, detto il Bramante (1444-1514). Come è intuibile, questo affascinante capolavoro è nato da una necessità pratica: al momento di costruire la chiesa, la diocesi non ebbe i permessi necessari. Lo spazio ridotto, anzi annullato, avrebbe richiesto un altro progetto oppure reso impossibile l’opera; invece, Bramante accettò la sfida e riportò in scala le stesse misure che aveva previste in origine. Difatti la finta abside realizzata misura novantasette centimetri in profondità, invece dei nove metri e settanta centimetri previsti nel disegno originario. Di necessità, virtù; di urgenza, arte: dall’impedimento burocratico e logistico, Bramante ha tratto un capolavoro inaspettato, che si iscrive anche nelle opere della raffigurazione anamorfizzata (approfondita in FOTOgraphia, del luglio 2000) e che è antesignano di tutti gli esempi di trompe l’œil dei successivi sviluppi della storia dell’arte. La visualizzazione panoramica rotante di questo gioiello dell’arte e dell’architettura è pubblicata sul sito www.milano.arounder.com, che presenta luoghi italiani e stranieri.
Si entra nella chiesa di Santa Maria presso San Satiro, a Milano, sulla via Torino, a due passi da piazza del Duomo, e pare che, dietro l’altare, ci sia un grande spazio, un’abside regolare. No: l’abside che si vede dall’ingresso nella chiesa non esiste nella realtà. Si tratta di una illusione architettonica creata da Bramante, che in 97cm simula la realtà di 9,7m.
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La collana di smeraldi, di Viktor Borisov-Musatov (olio su tela e tempera, 125x214,3cm; 1903-1904), alla Galleria Tret’jakov, di Mosca.
La nascita di Venere, di Sandro Botticelli (tempera su legno, 172,5x278,5cm; 1483-1485), alla Galleria degli Uffizi, di Firenze.
Veld met bloemen bij Arles, di Vincent van Gogh (olio su tela, 54x65cm; 1888), al Van Gogh Museum, di Amsterdam.
tempo di Lorenzo il Magnifico si svela a tutti con una ricchezza di dettagli mai avuta prima». Ovvero, da casa propria, si accede ai beni culturali dell’Uomo. Sarebbe meglio visitare i musei dal vivo; ma, se non lo si può fare, Google Art Project è un succulento surrogato (speriamo momentaneo).
RIPRODUCIBILITÀ TECNICA Nel secondo Ottocento, tra tanto altro, la magica fotografia consentì di far conoscere l’apparenza di luoghi e situazioni (e da questo sono anche partite molte delle sue contraddizioni di contenuto: ma non qui, né adesso). Con Hubertus von Amelunxen, docente di Filosofia dei Media e Studi Culturali alla Graduate School di Saas-Fee, in Svizzera (da The Century’s Memorial. Photography and the Recording of History ): «L’effetto di realtà della fotografia riguarda innanzitutto la propria aderenza formale a ciò che rappresenta, il suo contenuto può essere manipolato e selezionato senza inficiare il suo supposto valore di verità documentaria fondato sulla tecnica». A conseguenza: la grande rivoluzione della fotografia è stata quella di mostrare la realtà senza apparenti mediazioni e da qui, forse, è nata la sua diffu-
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sione e popolarità anche come documento. Nell’ambito dell’arte, entro il quale stiamo ragionando, l’azione dei Fratelli Alinari fu esemplare: dalla seconda metà dell’Ottocento e per decenni e decenni, tutto il mondo ha conosciuto l’arte italiana attraverso le fotografie realizzate e distribuite proprio dai Fratelli Alinari, indirizzati e guidati da un’etica raffigurativa e rappresentativa assolutamente naturale. Lo stesso accade oggi, con mezzi tecnologicamente aggiornati, con il Google Art Project. In estratto utilitaristico (e in interpretazione), da quanto rilevato da Cristina Acidini, Soprintendente al Polo Museale di Firenze, appena riportato: «Grazie a Google, le raccolte d’arte di importanti musei diventano fruibili in qualunque istante, da qualunque parte del mondo. Attraverso il viaggio virtuale nelle gallerie, l’utente può esplorare oltre mille capolavori della storia dell’arte». Certo, la visita è virtuale e mediata dal computer. Però, meglio di niente, meglio del buio. E qui, chiamiamo in causa il filosofo tedesco Walter Benjamin, che con il suo saggio L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica (Das Kunstwerk im Zeitalter seiner technischen Re-
produzierbarkeit ), pubblicato nel 1936, circa cento anni dopo l’invenzione della fotografia (1839), ha affrontato e analizzato la questione e vicenda, rilevandone anche le possibili contraddizioni, delle quali oggi siamo (dovremmo essere) ben coscienti: un conto sono gli originali, un conto è la vita e la realtà, un altro le rispettive raffigurazioni fotografiche. [Annotazione parallela: l’edizione italiana di L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, pubblicata da Einaudi nella collana Piccola Biblioteca Einaudi, dal 1966, edizione più recente 2000, riunisce cinque saggi appartenenti agli ultimi anni della vita e attività di Walter Benjamin, legato all’attualità e alle prese con i problemi dell’arte di massa: oltre il saggio che dà titolo, si trovano anche Piccola storia della fotografia, Eduard Fuchs, il collezionista e lo storico, Che cos’è il teatro epico? e Commenti ad alcune liriche di Brecht ]. In L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, che torna di prepotente attualità alla luce delle considerazioni su Google Art Project, Walter Benjamin sostiene che l’introduzione, all’inizio del Ventesimo secolo, di nuove tecniche per produrre, riprodurre e diffondere opere d’arte a livello di massa ha radicalmente trasformato l’atteggiamento verso l’arte stessa, sia degli artisti sia del pubblico. Secondo Benjamin, tecniche quali la fotografia, il cinema e il fonografo invalidano la concezione tradizionale di “autenticità” dell’opera d’arte. Infatti, queste nuove tecniche permettono un tipo di fruizione nella quale perde di senso il distinguere tra fruizione dell’originale e fruizione di una copia. Per esempio, mentre per un quadro di epoca rinascimentale non è lo stesso valutarne l’originale o guardarne una copia realizzata da un altro artista, per un film questa distinzione non esiste, in quanto la fruizione dello stesso avviene mediante migliaia di copie che vengono proiettate contemporaneamente in luoghi diversi; e nessuno degli spettatori del film ne fruisce in modo “privilegiato” rispetto qualsiasi altro spettatore (da aggiornare alla televisione e agli attuali Dvd). In forza di ciò, si realizza il fenomeno che Walter Benjamin definisce la “perdita dell’aura” dell’opera d’arte. L’aura, secondo Benjamin, era una sorta di sensazione, di carattere mistico o religioso in senso lato, suscitata nello spettatore dalla presenza materiale dell’esemplare originale di un’opera d’arte. Secondo Benjamin, l’arte nacque storicamente in connessione con la religione (a tal proposito, Benjamin richiama l’esempio delle pitture rupestri di epoca preistorica), e proprio il fenomeno dell’aura costituì per lungo tempo una traccia di questa sua origine. Il concetto di “arte per l’arte”, tipico dell’estetismo decadente, rappresenta -secondo Benjamin- l’ultimo correlativo, in sede di teoria estetica, del fenomeno dell’aura. Ma contemporaneamente al decadentismo, nacque la cultura di massa: per Benjamin fu proprio questa che iniziò per la prima volta a rimuovere l’aura dalle opere artistiche. Le due forme sotto le quali si presenta l’arte del Ventesimo secolo -da una parte la cultura di massa,
INVITO A NOZZE
Le Nozze di Cana, olio su tela 660x990cm: straordinaria tela, destinata al Refettorio palladiano del monastero benedettino di San Giorgio Maggiore, a Venezia, che Paolo Veronese ha realizzato tra il 1562 e il 1564. Moderna pittura decorativa di grande fascino.
Olio su tela 660x990cm, ovverosia sei metri e mezzo abbondanti per quasi dieci, Le Nozze di Cana, di Paolo Veronese, è un’opera che i commissari francesi dell’esercito napoleonico trafugarono dalla propria collocazione originaria l’11 settembre 1797 (un altro Undici settembre), come bottino di guerra. Collocata al Musée du Louvre, di Parigi, dall’8 novembre 1798, dal 1997, la tela è esposta di fronte alla Gioconda, di Leonardo da Vinci, e dunque è ignorata dal pubblico, attratto dal magico sorriso di Monna Lisa. Dopo duecentodieci anni, l’11 settembre 2007, il dipinto Le Nozze di Cana è tornato al proprio posto, nel Refettorio palladiano del monastero benedettino di San Giorgio, Isola di San Giorgio Maggiore, a Venezia. Non vi è tornato nella propria forma originaria (olio su tela), ma in una ri-produzione digitale al naturale, realizzata da Adam Lowe, dell’Atelier Factum Arte. L’opera originale è stata scansionata in duemilasettecento parziali, che hanno consentito di suddividere la superficie del dipinto di Paolo Veronese (660x990cm) in trentasette sezioni verticali e trentotto orizzontali. Quindi, sono state stampate sezioni di 100x180cm, successivamente assemblate e ritoccate nelle giunture e parti comuni. Collocata nella propria sede, così come l’aveva localizzata l’autore, questa stampa digitale è stata giudicata da critici autorevoli e accreditati “non distinguibile dall’originale esposto al Louvre”! Inoltre, rispetto la propria esposizione museale, sta dove e come era stata prevista in origine. Copia digitale delle Nozze di Cana collocata nel luogo originario, dal quale l’opera fu trafugata dai commissari francesi dell’esercito napoleonico, nel 1797. Collocata nella propria sede, questa stampa digitale è stata giudicata da critici autorevoli e accreditati “non distinguibile dall’originale esposto al Louvre”! Nell’estate 2009, Le nozze di Cana, di Paolo Veronese, in ri-produzione digitale, sono state al centro di una performance multimediale di Peter Greenaway: avvincente visita, con sensibilità contemporanea e con l’utilizzo delle più moderne tecnologie dell’immagine, che fa parte di un progetto di incontro con le più celebri opere della storia dell’arte occidentale, dal Rinascimento fino a Picasso e Pollock.
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Galleria degli Uffizi (Firenze)
Château de Versailles (Parigi)
Alte Nationalgalerie (Berlino)
Gemäldegalerie Alte Meister (Dresda)
National Gallery (Londra)
Tate Gallery (Londra)
Rijksmuseum (Amsterdam)
Van Gogh Museum (Amsterdam)
Museo Nacional Centro de Arte Reina Sofia (Madrid)
Museo Thyssen-Bornemisza (Madrid)
Museum Kampa (Praga)
Galleria Tret’jakov (Mosca)
Ermitage Museum (San Pietroburgo)
The Frick Collection (New York)
Museum of Modern Art (MoMA; New York)
Metropolitan Museum of Art (New York)
Freer Gallery of Art-Smithsonian (Washington)
L’ARCHIVIO FOTOGRAFICO DI LIFE
Ancora possibilità e potenzialità dell’era digitale. Ancora l’Uomo con la Fotografia e la Fotografia nella società (in rispettivi tragitti di andata-e-ritorno, senza alcuna soluzione di continuità). Dal sito http://images.google.com/hosted/life, che offre l’intero archivio fotografico della casa editrice Time Life, si possono scaricare tutte le fotografie dell’archivio storico: sostanziosa fetta di storia del fotogiornalismo statunitense. Come preavvertito nelle istruzioni introduttive, le immagini recuperate (comprensive del watermark “Life”) non possono essere usate commercialmente, ma debbono restare in ambiti sostanzialmente privati. I file sono forniti in risoluzione adatta alla stampa fotografica (e litografica) in formato 8x10cm a 300dpi, ovverosia 15x20cm abbondanti ai 150dpi delle comuni stampanti domestiche. Ribadiamo: per solo uso privato.
Il sito http://images.google.com/ hosted/life offre l’intero archivio fotografico della casa editrice Time Life: si possono scaricare tutte le fotografie.
YALE JOEL
dall’altra l’avanguardia artistica- sono, sempre secondo Benjamin, accomunate entrambe dalla perdita dell’aura: come il cinema abolisce la contemplazione attraverso il rapido succedersi delle immagini, così il dadaismo dissacra letteralmente l’arte, utilizzando materiali degradati in funzione provocatoria. Avendo perso con l’aura il proprio carattere di sacralità (ovverosia, per usare la definizione coniata da Benjamin, il suo aspetto “cultuale”), l’arte del Novecento si propone di cambiare direttamente la vita quotidiana delle persone, influenzando il loro comportamento: cioè, l’arte assume un ruolo in senso politico lato. Sempre secondo Benjamin, tale influenza politica può esercitarsi sia in direzione progressista, sia in direzione reazionaria. Per Benjamin, un tipico esempio di uso reazionario dell’arte applicata alla politica è costituito dal fascismo. Il fascismo ha adoperato le nuove tecniche di produzione e diffusione del fatto artistico allo scopo di assoggettare le masse, ipnotizzandole mediante la riproposizione mistificante di una sorta di falsa aura, prodotta artificialmente attorno alla figura del Capo: «Il fascismo tende [...] a un’estetizzazione della vita politica. Alla violenza esercitata sulle masse, che vengono schiacciate nel culto di un duce, corrisponde la violenza da parte di un’apparecchiatura, di cui esso si serve per la produzione di valori cultuali». Se per Benjamin il fascismo ha estetizzato la politica, il comunismo (che per Benjamin è rappresentato essenzialmente dall’avanguardia marxista degli anni Venti e dei primi anni Trenta del Ventesimo secolo) gli risponde politicizzando l’arte. Nel cinema di Eizenstein e nel teatro di Bertolt Brecht si realizzano, secondo Benjamin, tendenze positive alla democratizzazione dell’arte e alla cessazione della distinzione tra artista e pubblico. Ma, soprattutto, testuale dalla Piccola storia della fotografia, uno dei cinque saggi di L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, nel cui contesto Walter Benjamin sottolinea che «In ultima analisi, i metodi di riproduzione meccanica [e per estensione Google Art Project, in epoca digitale] costituiscono una tecnica della riduzione e sono d’aiuto all’uomo nel suo tentativo di dominare opere di cui, senza di essa, non sarebbe possibile fruire». Immediatamente a seguire: «Se c’è qualcosa di utile per caratterizzare le attuali relazioni tra l’arte e la fotografia [ancora oggi, in epoca digitale], questo qualcosa è la tensione, non ancora scaricata, che si è stabilita tra esse attraverso la fotografia delle opere d’arte». Magistrale, profetico, sempre attuale, ancora attuale! Quindi, con Paul Valéry, opportunamente richiamato in L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica: «Come l’acqua, il gas o la corrente elettrica, entrano grazie a uno sforzo quasi nullo, provenendo da lontano, nelle nostre abitazioni per rispondere ai nostri bisogni, così saremo approvvigionati di immagini e di sequenze di suoni, che si manifestano a un piccolo gesto, quasi un segno, e poi subito ci lasciano» (da Scritti sull’arte
Comprensivi del watermark “Life”, i file sono forniti in risoluzione adatta alla stampa fotografica 15x20cm ai 150dpi delle comuni stampanti domestiche. Attenzione: le fotografie non possono essere usate commercialmente, ma debbono restare in ambiti privati (Philippe Halsman fotografa Salvador Dalí; 1954).
- La conquista dell’ubiquità; 1934). Dunque, in aggiornamento, e per doverosa conclusione, l’era fotografica digitale non dipende tanto dall’acquisizione di file e dalla sostituzione della pellicola fotosensibile con sensori e dintorni, ma -insistiamo- sempre e comunque per i rapporti relativi e conseguenti: l’Uomo con la Fotografia e la Fotografia nella società (in rispettivi tragitti di andata-e-ritorno, senza alcuna soluzione di continuità). Una volta ancora, mai una di troppo: come la Fotografia influenza e cambia la nostra vita. ❖
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Cinema
di Maurizio Rebuzzini - Ricerca iconografica di Filippo Rebuzzini
PROTO FOTOGRAFIA (?)
B
Brillante film di John Landis (il regista di cult cinematografici quali Animal House, del 1978, e The Blues Brothers, del 1980, entrambi con John Belushi, e del videoclip più famoso e costoso, Thriller, di Michael Jackson, del 1983), il recente Ladri di cadaveri - Burke & Hare, che nella propria identificazione ha mantenuto l’originale Burke and Hare, vanta numerosi meriti, sia per l’ottima scenografia e ricostruzione scenica sia per la vivace sceneggiatura. Anticipato e rivelato dal titolo italiano, ufficialmente, il film tratta un argomento oggettivamente spi-
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Fotografia (?) nel film Ladri di cadaveri. Interpretato dall’attore Allan Corduner, il proto fotografo Nicéphore (in omaggio esplicito a Niépce) fotografa un cadavere per contribuire alla creazione della mappa del corpo umano ambìta dal dottor Robert Knox (Tom Wilkinson), dell’università di Edimburgo: nel 1828.
noso: la sottrazione di cadaveri ad uso anatomico e universitario. Ufficiosamente, la vicenda è risolta in modo brioso, oltre che acuto. Siamo a Edimburgo, in Scozia, nel 1828, in un luogo e tempo nei quali le locali facoltà di medicina vantavano visioni e interpretazioni di assoluta avanguardia: osservate con attenzione dal mondo intero e valutate per l’originalità delle discipline. Alla resa dei conti, mentre i docenti in antagonismo serrato tra loro, tutti alla ricerca di un attestato regale, rimangono a bocca asciutta, il film
attribuisce a William Hare, leggendario ladro di cadaveri assieme all’amico William Burke, l’idea originaria di organizzare esequie e seppellimenti a pagamento, con relativa attestazione pubblica. Ma non è questo che ci interessa, quantomeno nel nostro ambito redazionale-giornalistico di osservazione della fotografia e delle proprie fenomenologie. Neppure ci interessano le ottime interpretazioni di tutti i protagonisti della intricata e controversa vicenda di compra-vendita di cadaveri: Simon Pegg e Andy Ser-
Cinema kis, nei panni dei serial killer a scopo lucrativo William Burke e William Hare, Tom Wilkinson e Tim Curry (il leggendario dottor Frank-N-Furter dell’epocale The Rocky Horror Picture Show, di Jim Sharman, del 1975), nei panni dei dottori antagonisti Robert Knox e Monro. E neanche stiamo qui a sottolineare l’ottimo impianto scenico e la brillante sceneggiatura, che traspone al 1828 usi, costumi e malcostumi dei nostri giorni. In tutti i casi, qualità di ordine cinematografico, sulle quali non siamo autorizzati a intervenire. Quello che ci interessa, al solito e come sempre, è la presenza della fotografia, che fa capolino nella garbata sceneggiatura, stravolgendo un poco i propri tempi storici (ribadiamo, siamo nel 1828, undici anni prima delle date ufficiali del 7 gennaio e 19 agosto 1839, di annuncio e presentazione del dagherrotipo). Già... la fotografia nel 1828! Assoluta libertà cinematografica, che osserviamo con il sorriso sulle labbra, senza alcun rimprovero storico. Lo ribadiamo, confermandolo: è cinema; la storia la leggiamo e studiamo altrove. È cinema, che si concede al-
legre appropriazioni indebite, che non fanno alcuna vittima, né danno. Intenzionato a compilare una autentica e oggettiva mappa del corpo umano, più fedele e precisa di quanto possa essere disegnata (ma quanto lungimiranti sono state le raffigurazioni leonardesche, tra le tante del passato remoto!), l’accademico Robert Knox si affida all’opera di un amico francese, guarda caso di nome Nicéphore (garbata citazione di Niépce), che avrebbe tra le mani una nuova invenzione: la natura che si fa di sé medesima pittrice, ovverosia le cose così come sono (a prestito dai pionieri della fotografia e in richiamo da quanto annotato dal filosofo sir Francis Bacon all’inizio del Seicento [su questo stesso numero, a pagina 44]). Nel film, Nicéphore, interpretato dall’attore Allan Corduner, vanta i pregi della sua eliografia («Eliografia?», osserva il dottor Knox; «No, sarebbe più opportuno definirla fotografia»), con la quale si possono realizzare riproduzioni fedeli della realtà, senza intervento manuale, ma con la fantastica oggettività dell’osservazione ottica. Certo, l’ipotesi è cinematograficamente fantasiosa, sia perché an-
Consueto siparietto finale di molti film, che si concludono con l’epilogo delle esistenze successive dei protagonisti (come anche in Animal House, dello stesso regista John Landis). Dopo le vicende di Edimburgo (1828), in Ladri di cadaveri, il proto fotografo Nicéphore torna in Francia, dove mette a frutto la sua invenzione: fotografia di gruppo familiare (cameo: in posa, la famiglia del regista Costa-Gavras).
tepone i risultati fotografici della ricerca pionieristica, sia perché traspone i personaggi, sia perché approda a risultati fantastici (copie seppia su carta di straordinaria nitidezza), con tempi di esposizione decisamente improbabili (otto secondi, in un interno illuminato dalla luce solare che arriva dalle finestre; per i dagherrotipi delle origini, in esterno soleggiato si posava fino a quindici-venti minuti). Però! Però, quanto fascino in questa collocazione della fotografia come supporto alla ricerca scientifica, undici anni prima della relazione con la quale, nell’agosto 1839, François Jean Dominique Arago presentò, commentandole, le possibilità implicite nell’applicazione della fotografia. Ancora, come già altrove, su questo stesso numero, con altro riferimento analogamente pertinente (a pagina 51, in introduzione al Google Art Project), riprendiamo dalla relazione di Macedonio Melloni, del dodici novembre [in 1839-2009. Dalla Relazione di Macedonio Melloni alla svolta di Akio Morita, di Maurizio Rebuzzini; Graphia, 2009]: «Tante perfezioni, riunite alla somma facilità e prontezza del metodo, hanno destato un entusiasmo universale. Dappertutto si ripetono le sperienze del Dagherrotipo, ognuno vorrebbe avere tra le mani questo prezioso strumento, ognuno bramerebbe impiegarlo, il più presto possibile, a ritrarre, non solo stampe, disegni, statue, monumenti, ma i quadri ad olio de’ nostri più celebri artisti, i più bei mazzi di fiori, e le vario-pinte farfalle. Invano si disse dell’Arago, dal Gay-Lussac che il Dagherrotipo non poteva servire a copiare gli oggetti colorati; moltissimi sperano tuttavia ottenere sulle lamine dagherriane, se non i vivi e svariati colori che ci presentano la natura ed il genio delle arti, almeno le loro traduzioni esatte in chiaroscuro. Anzi abbiam udito non pochi pittori proporsi di studiare queste copie con gran frutto rispetto alle intensità relative delle tinte, ed ai punti ove devon figurarsi nelle loro composizioni ad olio la massima e la minima illuminazione». Trasversale a questo numero di FOTOgraphia, trasversale alla sua intenzione giornalistica assoluta, trasversale al nostro interesse sulla materia: come la Fotografia influenza e cambia la nostra vita. ❖
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Sguardi su
di Pino Bertelli (Piombino, dal vicolo dei gatti in amore, 13 volte marzo 2011)
ANGELO PALOMBINI
F
Fotografare è un modo di conoscere e conoscersi. La fotografia è un atto dello spirito o non è niente. La fotografia autentica è un’intuizione di aurore poetiche che non hanno ancora brillato fino in fondo. Tuttavia, quando la fotografia è compiuta, figura il vocabolario dell’umano e lo sguardo del fotografo si trascolora in una visione del mondo che è fuoco, acqua e sangue della terra. La fotografia è l’epifania di un sogno che debutta dalla fine: esprime un doppio immaginario, quello del fotografo e quello del fotografato. Da un’immagine presa nella consapevolezza o nella surrealtà della propria creatività, il diverso da sé diventa storia. Solo là dove ci sono ombre, timori, cadute, anche estreme, ci sono resurrezioni. La qualità della fotografia mercenaria è (quasi) sempre scadente; niente è vero, dove tutto è falso e impera l’impostura dell’arte come sinedrio dello spettacolo. Sovente, i fotografi sono l’autoritratto della merce che incensano: che usino l’analogico o il digitale, è sempre lo stesso, sono parte della domesticazione sociale figurata nella civiltà dello spettacolo. La cartografia della fotografia dominante non vuole poeti né passatori di confine, e i rimbecilliti del consenso a tutto quanto fa successo (televisivo, specialmente) impongono l’arte (morta) dell’apparire. La maschera al posto del volto informe, la finzione al posto del gesto virtuoso; l’espressione dello stile è la distinzione che passa tra l’osceno e la volgarità. Ciò che la fotografia non uccide, fortifica la bellezza della sua unicità: elogio della diversità e pratica del frammento (non solo in fotografia) emergono da una dialettica tra significante e significato e mettere in campo il primo, si-
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gnifica fare del secondo l’origine di tutto il bene o tutto il male del mondo.
SULLA FOTOGRAFIA DELL’INQUIETUDINE Le fotoscritture di Angelo Palombini sono complesse... si richiamano agli studi di Lacan sullo specchio, alla filosofia della diversità di Pier Paolo Pasolini e alla poesia materica di Walt Whitman. Più ancora, è la bellezza autoriale della fotografia di Robert Mapplethorpe che fuoriesce dalle immagini, spesso eccellenti di Angelo Palombini.
ancora, architetta il suo lavoro di artista e non di tecnico, nel fascino indiscreto della ripetizione agnostica, anche licenziosa, di fratelli e sorelle del libero spirito. Il suo fare-fotografia pratica la sfida, l’ironia, la seduzione e non teme di dispiacere: respinge la coscienza ordinaria dell’istante e affabula una sperimentazione fuori dai maestri dell’avanguardia e dalle scuole incapaci di riconoscere la bella individualità dal conformismo sociale. Nella ricerca di sé, Angelo Palombini usa la fotografia come auto/analisi e si fotografa nei ga-
«Prendimi come sono, prendi tutto di me, senza scegliere tra i miei tratti, senza giudicare, senza porre domande: oppure prendimi senza che io debba fare qualcosa per essere qualcuno» James Hillman L’esistenza di un dolore personale tracima in un’estetica del disagio a vivere ed è subordinata al senso amorevole verso l’altro che gli corrisponde. Il fotografo non maschera il reale, né lo riveste di preziosismi di maniera; la sovranità del suo sguardo urta contro tutto ciò che è compiacente o occasionale: coltiva le differenze, apprezza il diverso da sé, non mette nulla al di sopra o al di sotto del proprio orizzonte paritario. Forse ama gli angeli caduti, perché ribelli; più
binetti, mentre urina. L’inquietudine che fuoriesce da queste immagini del privato, dell’intimo, dell’inconfessato... è di quelle forti. Non un’ossessione, come a prima vista si potrebbe intuire: è invece la messa in luce di un percorso estetico ed etico che si sviluppa tra il sensibile e lo spirituale, tra il gioco e la delicatezza del cuore. È un fareanima che gli psicoanalisti del profondo (James Hillman, in particolare) vedono come un accesso privilegiato alla cono-
scenza dell’anima; si richiama a un ri-vedere, a un re-immaginare la propria esistenza. La costruzione di situazioni operata da Angelo Palombini all’interno di un gabinetto, quale che sia, non ha niente di osceno; oscena è solo la volgarità, semmai è la figurazione di un’alterità dell’anima che si appropria di un ascolto di sé e denuda tradizioni, riti, costumi del senso comune. Sono immagini del fantastico, del poetico, un eccesso che accentua i conflitti e i confini dell’anima che si fa corpo, storia, poesia e restituiscono alla vita ciò che le appartiene. L’immaginale fotografico di Angelo Palombini, qui è allegorico (parleremo poi del suo fare-fotografia in altri campi), frantuma l’impostura e la falsificazione del gesto eclatante e libera nuove e sorprendenti intuizioni della fotografia che rimanda non tanto a qualcosa che è, quanto al gesto eversivo che si compie. Detto meglio. Le immagini di Angelo Palombini che urina, sfocate, sgangherate, mosse... non importa... si fanno corpo e sono portatrici di messaggi e risonanze che travalicano le immagini stesse e depositano l’inquietudine di vivere nell’alveo, difficilmente modificabile, della devastazione culturale alla quale gli uomini sono soggetti. «La psiche è il soggetto, e non già l’oggetto, delle nostre percezioni, è colei che percepisce attraverso la fantasia» (James Hillman). Di più. Il taglio metaforico delle fotografie di Angelo Palombini ha il centro focale non nel sesso o nell’urina che versa in un water, ma nelle molteplicità e nelle differenze ambientali/figurative che permettono di guardare un medesimo stato psichico in molti modi diversi. A ciascuno il suo dolore, giacché ognuno merita il rispetto del-
Sguardi su la coscienza per quello che è. Quando si dà spazio all’immaginale liberato, il grado di libertà aumenta. Infatti, la ciascunità è l’individuazione archetipale di sé (Jung, diceva), senza censure. Una varietà infinita di figure riflette l’infinità dell’anima in volo e i sogni, i desideri, i piaceri restituiscono alla coscienza il senso della molteplicità dell’amore di sé e per gli altri. Immaginare con il cuore è un modo di percepire e non si arresta davanti a nessuna forma d’arte, ma penetra fino al limite della ragione imposta, la supera o la infrange e fa della creatività il principio di tutte le battaglie culturali/politiche a venire. Aderire alle immagini del disagio di Angelo Palombini significa non tradurre la crosta della comunicazione come una semplice provocazione, ma accogliere una richiesta esperienziale che fa della vita fantastica un viatico (della sofferenza, anche) per conoscere se stessi. Ogni sua immagine dell’inquietudine è un angelo necessario in attesa di risposta... la presenza di una realtà ancora informe, ulcerata nella trasparenza dei sogni che custodiscono infanzie sovente maleamate o incomprese, tuttavia superate, che amplificano la richiesta d’amore sempre possibile. Le sue auto/fotografie abitano il senso sotterraneo dei corpi in amore e contengono il profumo della bellezza che si oppone alle banalità del quotidiano. Quando l’immaginazione immagina -e la fotografia dell’inquietudine di Angelo Palombini è piena d’immaginazione-, il firmamento della conoscenza s’illumina di verità e manifesta il risveglio di antiche tracce emozionali. La riscoperta dell’Io e la sua uscita dall’infanzia attraverso ostacoli e sconfitte: la resurrezione della luce è tutta qui.
SULLA FOTOGRAFIA DELL’INCONTRO Non si abita la fotografia, si abita un modo di vedere. Si può fotografare solo ciò che si prova, il resto è amarezza del contingente o vanità del sempre
uguale. Ecco perché i successi della fotografia mercantile fanno così male agli occhi. La sterilità delle idee è l’apoteosi del nulla celebrato ovunque e dappertutto e la civiltà dello spettacolo conserva ai propri servi il posto dei cani da passeggio! «Vi è del ciarlatano in chiunque trionfi in qualsiasi campo» (Emil M. Cioran). La sola fotografia che vale è quella degli eresiarchi di ogni eresia, che conferisce al piacere l’innegabile forza eversiva che interroga ogni potere. Non si può resistere davanti a fotografie celebrate dai falsi demiurghi dello spettacolo, senza impugnare una torcia e appiccare il fuoco a tutto, anche ai fotografi con il martini in mano e l’oliva in bocca... storici, critici, mercanti (che mai rinunciano alla santità della merce) sono di facile combustione; si può essere fieri di ciò che si è fatto, ma si dovrebbe piangere per la manchevolezza di non averlo fatto prima! A parte la fotografia sociale di Pietro Gori, tutto è menzogna; non scherziamo affatto: non si può assistere impunemente all’ondata di stupidità della fotografia che avanza sui lavatoi sporchi di sangue innocente del mercato globale, non si può assistere senza impazienza per più di un quarto d’ora alla disperazione degli sfruttati, degli oppressi, dei violentati, senza un moto di rivolta profonda. Le grandi verità si dicono sulla soglia della fotografia che partecipa all’insurrezione dei popoli impoveriti; non ci sono tiranni da rimpiangere, e nemmeno farabutti della politica che insegnano l’arte della sottomissione... le leggi, la galera e l’aspersorio fanno il resto. La missione di ciascuno (anche senza macchina fotografica) è portare a buon fine la bellezza, la fraternità, l’accoglienza del diverso da sé: nell’animo di un fotografo (come di qualsiasi uomo) alberga un imbecille o un poeta. La poetica fotografica dell’incontro di Angelo Palombini è elaborata all’interno dei camerini di
musicisti, attori, artisti: rimanda a una sorta di confessionale laico e a ben vedere raccoglie l’effigie del guitto, ma anche l’anatema dell’uomo/donna che resta impresso nella sua macchina fotografica. In apparenza, i suoi ritratti sono semplici, quasi grezzi, non manipolati né edulcorati... non deificano nulla dell’espressione da palcoscenico concessa dagli artisti, semmai cercano le origini della loro storia di uomini e donne prima di un debutto. Il fotografo sembra sapere che il cretinismo confina col genio, e lo stupore di esistere nel cuore del mondo è sovente sconosciuto, in Terra, in Cielo e in ogni luogo dove si fa professione di pensare. La felicità e l’infelicità confinano con l’amore, e l’infanzia del vero è la sola filosofia/poetica che ridicolizza la crudeltà dell’ordine costituito e si apre all’innocenza del divenire. Angelo Palombini nasce a Roma, nel 1981. Nel 2001, afferra una macchina fotografica e non la lascia più... fotografa un po’ tutto... si mette al seguito di gruppi musicali, collabora con Mtv, Grazia Neri, l’agenzia Lapresse; poi, entra nei camerini degli artisti e lavora a una ritrattistica singolare, per niente “cronachistica”, semmai sentimentale, amorevole, con i soggetti: basta sfogliare le immagini di Simone Cristicchi, Luxuria, Gabriele Lavia, Carlo Giuffrè, Massimo Dapporto, Stefano Bollani e Enrico Rava, per comprendere il senso profondo del fotografare di Angelo Palombini. L’inquadratura sciolta, il senso del rispetto, il gioco delle parti architettano un’iconografia del gusto che tocca il principio di bellezza in tutte le cose che finiscono nelle sue fotografie: libri lasciati tra ciprie e trucchi, fotografie di famiglia incorniciate tra miti e lampade accese su facce da commedia dell’arte, cani stretti a sorrisi imperdibili, mani aperte, trombe amate. Il ludico sborda ovunque e tutto è parte dell’insieme fotografato; i soggetti accettano lo scambio, a vol-
te lo interpretano, altre diventano vere e proprie icone di se stessi. L’ironia, la seduzione, la sfida sono disseminati in un gesto di eleganza o raccoglimento e traboccano fuori dalla coscienza ordinaria del momento condiviso; ci sono lucentezze infinite in queste immagini di Angelo Palombini: tenerezze insolite, delicatezze e purezze di cuore che manifestano altri modi di intuire la fotografia. È una filosofia dell’incontro, quella che il fotografo romano disperde all’incrocio della storia che narra: più di ogni cosa, si accosta all’intimità del soggetto e raccoglie le affinità elettive nello splendore di un’unicità espressiva che riporta la fotografia nella vita quotidiana. La fotografia dell’incontro di Angelo Palombini cattura la vitalità dei fotografati non per contemplarla, ma per nutrirsene. Gli atteggiamenti diventano forme, tracce, teatro di specchi... sovente i volti, i corpi, i segni dei fotografati si riflettono negli specchi dei camerini e l’immaginario attualizzato rimanda ad altri livelli di lettura dell’immagine. Al di là dell’uso giornalistico al quale sono destinate, le fotoscritture di Angelo Palombini contengono una densità artistica che decongestiona i luoghi (e i tempi) nei quali si manifesta, e gli artisti sono rimossi dalla barriere abituali della deificazione. L’intelligenza del suo linguaggio fotografico è una creazione di senso altro da ciò che corre ed è consumato in fretta (non solo) in fotografia: è la coniugazione tra l’esistenza d’artista e l’arte dell’esistenza... la catarsi del riso e delle lacrime, dello stupore e della meraviglia, che sono i princìpi di un’etica del dispendio di ogni poeta che ama l’amore di sé e per gli altri e nient’altro. Dunque, la fotografia dell’incontro di Angelo Palombini ha l’eleganza, la grazia, la maniera identitaria dell’istante scippato alla storia; e all’interno di una solitudine, anche disperata (ci sembra leggere nel suo libro di poesie Fango e Scintilla, ma non
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Sguardi su solo qui), c’è la consapevolezza di una dignità antica mista a rancore, risentimento contro la crudeltà e la benevolenza dei profittatori e restauratori della società omologata. Le fotoscritture di Angelo Palombini sono aperte e implicano ricchezza d’animo e dolce temperamento. Sono variazioni libere di un tema imposto; si avverte comunque un senso di perdita, di erranza, di nomadismo creativo fuori dalle categorie valoriali del suo tempo. In queste fotografie c’è amore, c’è libertà, c’è voglia di volare via dall’ovvio e dall’ottuso. Lo sguardo di Angelo Palombini è androgino, lascia il giudizio sospeso: in questo senso, ogni forma di amore (anche omosessuale o lesbico), di follia e di perdita di sé, è pura, se (o perché) è vera. Del resto, la fotografia della dissipazione che interpreta e fa
sua non è altro che la magnificazione dell’eccesso; e, come diceva William Blake, «la via dell’eccesso porta al palazzo della saggezza». Non c’è bellezza senza la piena consapevolezza che l’amore non sarà mai sconfitto e nell’ascolto dell’amore (in ogni forma d’arte) tutti i sistemi di crudeltà, sopraffazione, vessazione saranno sconfitti con la rivoluzione del cuore. La malinconia è un lavoro dell’anima e rivela la singolarità e l’unicità dell’uomo, della donna... bisogna vedere l’invisibile, distinguere le molteplicità, le sfumature in un suono, un colore, un’esistenza... restare sorpresi nella condivisione del dolore e fare della propria vita l’invito al viaggio dove ogni forma espressiva annuncia un atto di liberazione futuro. In arte, come in amore, tutto è permesso. ❖
BIANCO E NERO laboratorio fotografico fine - art solo bianco & nero
GIOVANNI UMICINI VIA VOLTERRA 39 - 35143 PADOVA
049-720731 (anche fax) gumicin@tin.it
Sguardi su la coscienza per quello che è. Quando si dà spazio all’immaginale liberato, il grado di libertà aumenta. Infatti, la ciascunità è l’individuazione archetipale di sé (Jung, diceva), senza censure. Una varietà infinita di figure riflette l’infinità dell’anima in volo e i sogni, i desideri, i piaceri restituiscono alla coscienza il senso della molteplicità dell’amore di sé e per gli altri. Immaginare con il cuore è un modo di percepire e non si arresta davanti a nessuna forma d’arte, ma penetra fino al limite della ragione imposta, la supera o la infrange e fa della creatività il principio di tutte le battaglie culturali/politiche a venire. Aderire alle immagini del disagio di Angelo Palombini significa non tradurre la crosta della comunicazione come una semplice provocazione, ma accogliere una richiesta esperienziale che fa della vita fantastica un viatico (della sofferenza, anche) per conoscere se stessi. Ogni sua immagine dell’inquietudine è un angelo necessario in attesa di risposta... la presenza di una realtà ancora informe, ulcerata nella trasparenza dei sogni che custodiscono infanzie sovente maleamate o incomprese, tuttavia superate, che amplificano la richiesta d’amore sempre possibile. Le sue auto/fotografie abitano il senso sotterraneo dei corpi in amore e contengono il profumo della bellezza che si oppone alle banalità del quotidiano. Quando l’immaginazione immagina -e la fotografia dell’inquietudine di Angelo Palombini è piena d’immaginazione-, il firmamento della conoscenza s’illumina di verità e manifesta il risveglio di antiche tracce emozionali. La riscoperta dell’Io e la sua uscita dall’infanzia attraverso ostacoli e sconfitte: la resurrezione della luce è tutta qui.
SULLA FOTOGRAFIA DELL’INCONTRO Non si abita la fotografia, si abita un modo di vedere. Si può fotografare solo ciò che si prova, il resto è amarezza del contingente o vanità del sempre
uguale. Ecco perché i successi della fotografia mercantile fanno così male agli occhi. La sterilità delle idee è l’apoteosi del nulla celebrato ovunque e dappertutto e la civiltà dello spettacolo conserva ai propri servi il posto dei cani da passeggio! «Vi è del ciarlatano in chiunque trionfi in qualsiasi campo» (Emil M. Cioran). La sola fotografia che vale è quella degli eresiarchi di ogni eresia, che conferisce al piacere l’innegabile forza eversiva che interroga ogni potere. Non si può resistere davanti a fotografie celebrate dai falsi demiurghi dello spettacolo, senza impugnare una torcia e appiccare il fuoco a tutto, anche ai fotografi con il martini in mano e l’oliva in bocca... storici, critici, mercanti (che mai rinunciano alla santità della merce) sono di facile combustione; si può essere fieri di ciò che si è fatto, ma si dovrebbe piangere per la manchevolezza di non averlo fatto prima! A parte la fotografia sociale di Pietro Gori, tutto è menzogna; non scherziamo affatto: non si può assistere impunemente all’ondata di stupidità della fotografia che avanza sui lavatoi sporchi di sangue innocente del mercato globale, non si può assistere senza impazienza per più di un quarto d’ora alla disperazione degli sfruttati, degli oppressi, dei violentati, senza un moto di rivolta profonda. Le grandi verità si dicono sulla soglia della fotografia che partecipa all’insurrezione dei popoli impoveriti; non ci sono tiranni da rimpiangere, e nemmeno farabutti della politica che insegnano l’arte della sottomissione... le leggi, la galera e l’aspersorio fanno il resto. La missione di ciascuno (anche senza macchina fotografica) è portare a buon fine la bellezza, la fraternità, l’accoglienza del diverso da sé: nell’animo di un fotografo (come di qualsiasi uomo) alberga un imbecille o un poeta. La poetica fotografica dell’incontro di Angelo Palombini è elaborata all’interno dei camerini di
musicisti, attori, artisti: rimanda a una sorta di confessionale laico e a ben vedere raccoglie l’effigie del guitto, ma anche l’anatema dell’uomo/donna che resta impresso nella sua macchina fotografica. In apparenza, i suoi ritratti sono semplici, quasi grezzi, non manipolati né edulcorati... non deificano nulla dell’espressione da palcoscenico concessa dagli artisti, semmai cercano le origini della loro storia di uomini e donne prima di un debutto. Il fotografo sembra sapere che il cretinismo confina col genio, e lo stupore di esistere nel cuore del mondo è sovente sconosciuto, in Terra, in Cielo e in ogni luogo dove si fa professione di pensare. La felicità e l’infelicità confinano con l’amore, e l’infanzia del vero è la sola filosofia/poetica che ridicolizza la crudeltà dell’ordine costituito e si apre all’innocenza del divenire. Angelo Palombini nasce a Roma, nel 1981. Nel 2001, afferra una macchina fotografica e non la lascia più... fotografa un po’ tutto... si mette al seguito di gruppi musicali, collabora con Mtv, Grazia Neri, l’agenzia Lapresse; poi, entra nei camerini degli artisti e lavora a una ritrattistica singolare, per niente “cronachistica”, semmai sentimentale, amorevole, con i soggetti: basta sfogliare le immagini di Simone Cristicchi, Luxuria, Gabriele Lavia, Carlo Giuffrè, Massimo Dapporto, Stefano Bollani e Enrico Rava, per comprendere il senso profondo del fotografare di Angelo Palombini. L’inquadratura sciolta, il senso del rispetto, il gioco delle parti architettano un’iconografia del gusto che tocca il principio di bellezza in tutte le cose che finiscono nelle sue fotografie: libri lasciati tra ciprie e trucchi, fotografie di famiglia incorniciate tra miti e lampade accese su facce da commedia dell’arte, cani stretti a sorrisi imperdibili, mani aperte, trombe amate. Il ludico sborda ovunque e tutto è parte dell’insieme fotografato; i soggetti accettano lo scambio, a vol-
te lo interpretano, altre diventano vere e proprie icone di se stessi. L’ironia, la seduzione, la sfida sono disseminati in un gesto di eleganza o raccoglimento e traboccano fuori dalla coscienza ordinaria del momento condiviso; ci sono lucentezze infinite in queste immagini di Angelo Palombini: tenerezze insolite, delicatezze e purezze di cuore che manifestano altri modi di intuire la fotografia. È una filosofia dell’incontro, quella che il fotografo romano disperde all’incrocio della storia che narra: più di ogni cosa, si accosta all’intimità del soggetto e raccoglie le affinità elettive nello splendore di un’unicità espressiva che riporta la fotografia nella vita quotidiana. La fotografia dell’incontro di Angelo Palombini cattura la vitalità dei fotografati non per contemplarla, ma per nutrirsene. Gli atteggiamenti diventano forme, tracce, teatro di specchi... sovente i volti, i corpi, i segni dei fotografati si riflettono negli specchi dei camerini e l’immaginario attualizzato rimanda ad altri livelli di lettura dell’immagine. Al di là dell’uso giornalistico al quale sono destinate, le fotoscritture di Angelo Palombini contengono una densità artistica che decongestiona i luoghi (e i tempi) nei quali si manifesta, e gli artisti sono rimossi dalla barriere abituali della deificazione. L’intelligenza del suo linguaggio fotografico è una creazione di senso altro da ciò che corre ed è consumato in fretta (non solo) in fotografia: è la coniugazione tra l’esistenza d’artista e l’arte dell’esistenza... la catarsi del riso e delle lacrime, dello stupore e della meraviglia, che sono i princìpi di un’etica del dispendio di ogni poeta che ama l’amore di sé e per gli altri e nient’altro. Dunque, la fotografia dell’incontro di Angelo Palombini ha l’eleganza, la grazia, la maniera identitaria dell’istante scippato alla storia; e all’interno di una solitudine, anche disperata (ci sembra leggere nel suo libro di poesie Fango e Scintilla, ma non
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Sguardi su solo qui), c’è la consapevolezza di una dignità antica mista a rancore, risentimento contro la crudeltà e la benevolenza dei profittatori e restauratori della società omologata. Le fotoscritture di Angelo Palombini sono aperte e implicano ricchezza d’animo e dolce temperamento. Sono variazioni libere di un tema imposto; si avverte comunque un senso di perdita, di erranza, di nomadismo creativo fuori dalle categorie valoriali del suo tempo. In queste fotografie c’è amore, c’è libertà, c’è voglia di volare via dall’ovvio e dall’ottuso. Lo sguardo di Angelo Palombini è androgino, lascia il giudizio sospeso: in questo senso, ogni forma di amore (anche omosessuale o lesbico), di follia e di perdita di sé, è pura, se (o perché) è vera. Del resto, la fotografia della dissipazione che interpreta e fa
sua non è altro che la magnificazione dell’eccesso; e, come diceva William Blake, «la via dell’eccesso porta al palazzo della saggezza». Non c’è bellezza senza la piena consapevolezza che l’amore non sarà mai sconfitto e nell’ascolto dell’amore (in ogni forma d’arte) tutti i sistemi di crudeltà, sopraffazione, vessazione saranno sconfitti con la rivoluzione del cuore. La malinconia è un lavoro dell’anima e rivela la singolarità e l’unicità dell’uomo, della donna... bisogna vedere l’invisibile, distinguere le molteplicità, le sfumature in un suono, un colore, un’esistenza... restare sorpresi nella condivisione del dolore e fare della propria vita l’invito al viaggio dove ogni forma espressiva annuncia un atto di liberazione futuro. In arte, come in amore, tutto è permesso. ❖
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