FOTOgraphia 174 settembre 2011

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Mensile, 6,50 euro, Poste Italiane SpA - Spedizione in abbonamento postale - D.L. 353/2003 (convertito in Legge il 27-02-2004, numero 46), articolo 1, comma 1 - DCB Milano

ANNO XVIII - NUMERO 174 - SETTEMBRE 2011

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50 icone della fotografia LE STORIE DIETRO GLI SCATTI

Undici settembre 2001-2011 JOEL MEYEROWITZ: AFTERMATH (ma anche 1973: Cile)


Non è venduta in edicola. Per averla hai una sola possibilità: sottoscrivere l’abbonamento annuale. 12 numeri 65,00 euro

Abbonamento 2011 (nuovo o rinnovo) in omaggio 1839-2009

Dalla Relazione di Macedonio Melloni alla svolta di Akio Morita M A U R I Z I O

R E B U Z Z I N I

1839-2009 Dalla Relazione di Macedonio Melloni alla svolta di Akio Morita

Come dire, dal dagherrotipo all’acquisizione digitale di immagini. E consecuzioni

INTRODUZIONE

DI

GIULIANA SCIMÉ

F O T O G R A P H I A L I B R I



prima di cominciare ALTRO UNDICI SETTEMBRE. Non soltanto l’attacco alle Torri Gemelle di New York. L’Undici settembre ricorre anche l’anniversario del golpe cileno (1973), che ha portato alla terribile dittatura militare del generale Augusto Pinochet. Oltre il partecipe ricordo personale, una nota fotografica e una evocazione messa in musica dai Nomadi (Augusto Daolio, Beppe Carletti, Dante Pergreffi, Cico Falzone e Daniele Campani; dall’album Solo Nomadi, del 1990).

Il vero luogo natìo è quello dove per la prima volta si è posato lo sguardo consapevole su se stessi: la mia prima (e unica) patria sono stati i libri. La parola scritta mi ha insegnato ad ascoltare le voci. La vita mi ha chiarito i libri. Osservare, piuttosto che giudicare. Da cui! Maurizio Rebuzzini; su questo numero, a pagina 7 La bellezza, l’estetica perfetta, incorrotta e incorruttibile, da fermare ed eternare in un luogo. Andrea Villanis; su questo numero, a pagina 28 Grande è la stupidità sotto il cielo della fotografia al tempo della civiltà dello spettacolo. Pino Bertelli; su questo numero, a pagina 64

Sempre attribuita a un fotografo anonimo (in origine tale per ragioni di sicurezza, e il segreto è rimasto inviolato nei decenni), questa che qui visualizziamo è l’ultima fotografia del presidente cileno Salvador Allende, eletto democraticamente, che lo mostra mentre esce dal palazzo presidenziale della Moneda durante il colpo di stato militare (11 settembre 1973). Questa fotografia è stata World Press Photo of the Year 1973 (FOTOgraphia, febbraio 2006). Salvador (15 anni dopo) Salvador era un uomo, vissuto da uomo morto da uomo, con un fucile in mano. Nelle caserme i generali, brindavano alla vittoria con bicchieri colmi di sangue, di un popolo in catene. Da un cielo grigio di piombo piovevano lacrime di rame, il Cile piangeva disperato la sua libertà perduta. Mille madri desolate, piangevano figli scomparsi l’amore aveva occhi sbarrati di una ragazza bruna. Anche le colombe erano diventate falchi, gli alberi d’ulivo trasformati in croci. Da un cielo grigio di piombo piovevano lacrime di rame, il Cile piangeva disperato la sua libertà perduta. Ma un popolo non può morire, non si uccidono idee sopra una tomba senza nome, nasceva la coscienza. Mentre l’alba dalle Ande rischiara i cieli, cerca il suo nuovo nido una colomba bianca. Da un cielo grigio di piombo piovevano lacrime di rame, il Cile piangeva disperato la sua libertà perduta.

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La morte non è la perdita peggiore nella vita. La perdita peggiore è quello che muore dentro di noi mentre siamo ancora vivi. www.FOTOgraphiaONLINE.it/blogmr, 24 agosto 2011

Copertina Guarda che Luna! Dall’appagante e gratificante incontro con Edoardo Romagnoli, da pagina 36, in intervista di Lello Piazza: «Una sollecitazione che mi è servita per arrivare al segno della Luna riguarda le esperienze di viaggio. [...] Il cielo notturno presenta pochi elementi, altri li lascia immaginare e dà spazio alle fantasticherie. Dunque, ho cominciato a fotografare la Luna»

3 Altri tempi (fotografici) Copertina del dépliant Contaflex. La reflex da fotopiccole, del 1935, con illustrazione di straordinaria eleganza, non soltanto formale. Certo, una fotografia elitaria. Ma!

7 Editoriale Parole. Il passato. Solo uno strato di bugie sull’altro. È questo che facciamo: manipoliamo i fatti, per trovare la versione più accettabile da raccontare. Camuffiamo un poco le cose, aggiungiamo, sottraiamo per adattarle ai nostri bisogni, per rendere più tollerabile ciò che abbiamo fatto. In qualunque modo possiamo metterla e considerarla, i ricordi sono solo una sequenza di fantasie. Quello che raccontiamo, forse; ma dentro, nel profondo, ognuno di noi conosce la verità

8 Artisti prêt-à-porter Tecnologia e linguaggio. Fatti salvi e saldi i diritti di ciascuno, in questo caso dell’industria produttrice, nessuno sconfini oltre i propri margini istituzionali

12 Notizie Attrezzature, vicende e altre segnalazioni


SETTEMBRE 2011

R , RIFLESSIONI IFLESSIONI, OSSERVAZIONI E COMMENTI OSSERVAZIONI E COMMENTI SULLA FOTOGRAFIA SULLA FOTOGRAFIA

14 Undici settembre Nel decennale, 2001-2011, una rievocazione, a partire dalla fantastica monografia Aftermath, di Joel Meyerowitz

Anno XVIII - numero 174 - 6,50 euro DIRETTORE

RESPONSABILE

Maurizio Rebuzzini

IMPAGINAZIONE

20 Ici Bla Bla

Maria Marasciuolo

Appunti e attualità della fotografia internazionale a cura di Lello Piazza

Angelo Galantini

REDAZIONE

FOTOGRAFIE Rouge

25 Irresistibile leggerezza

SEGRETERIA

Detto meglio: l’irresistibile leggerezza dell’essere. Eccellente monografia d’autore, pubblicata da Phaidon, Scatti rivela la straordinaria personalità di Elliott Erwitt di Silvia Zotti

HANNO

28 Alice Liddell Davanti al ritratto realizzato da Lewis Carroll: tentativo di “appropriazione” del mondo, con la fotografia di Andrea Villanis

31 Tra le mani Apparecchi fotografici in scenografie cinematografiche Ricerca iconografica di Filippo Rebuzzini

34 Guarda che Luna! Incontro con Edoardo Romagnoli, fotografo proiettato nel mondo e mercato dell’arte. Emozione e commozione di Lello Piazza

45 A proposito di Arles 2011 Convincente confronto tra il mondo della fotografia e quello dell’arte. Con considerazioni in conseguenza di Caterina De Fusco Ricerca iconografica di Beppe Bolchi

Maddalena Fasoli COLLABORATO

Pino Bertelli Beppe Bolchi Antonio Bordoni Caterina De Fusco Chiara Lualdi Grazia Neri Lello Piazza Franco Sergio Rebosio Edoardo Romagnoli Ciro Rebuzzini Filippo Rebuzzini Andrea Villanis Silvia Zotti Redazione, Amministrazione, Abbonamenti: Graphia srl, via Zuretti 2a, 20125 Milano; 02-66713604 www.FOTOgraphiaONLINE.it; graphia@tin.it. ● FOTOgraphia è venduta in abbonamento. ● FOTOgraphia è una pubblicazione mensile di Graphia srl, via Zuretti 2a, 20125 Milano. Registrazione del Tribunale di Milano numero 174 del Primo aprile 1994. Poste Italiane SpA - Spedizione in abbonamento postale - D.L. 353/2003 (convertito in Legge il 27-02-2004, numero 46), articolo 1, comma 1 - DCB Milano. ● A garanzia degli abbonati, nel caso la pubblicazione sia pervenuta in spedizione gratuita o a pagamento, l’Editore garantisce la massima riservatezza dei dati forniti dagli abbonati e in suo possesso, fatto diritto, in ogni caso, per l’interessato di richiederne gratuitamente la rettifica o la cancellazione ai sensi della legge 675/96.

52 Dal SWPA 2011

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Fotografie non professionali, segnalate nelle sezioni Open Architecture e Open Panoramic dello strepitoso Sony World Photography Award 2011. Altre a seguire di Angelo Galantini

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56 Sì, icone! Basta il titolo, garantisce l’editore Taschen Verlag: 50 icone della fotografia - Le storie dietro gli scatti. Casellario indispensabile, a cura di Hans-Michael Koetzle di Maurizio Rebuzzini

Fotocomposizione DTP e selezioni litografiche: Rouge, Milano Stampa: Arti Grafiche Salea, Milano

Rivista associata a TIPA

64 Sabine Korth Sguardi su un’interprete della fotografia della disinvoltura di Pino Bertelli

www.tipa.com

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editoriale P

arole. Sono facili da usare, e reperibili in un qualsivoglia dizionario: a disposizione. L’uso delle parole, così come della fotografia, è arbitrario secondo intenzioni. Ci diciamo quelle che vogliamo sentire, fino a credere a ogni nostra meschina menzogna, e diciamo quelle che vogliamo far sentire agli altri. Con la Fotografia, è esattamente lo stesso. Tanto che concordo con coloro i quali, a partire da Ferdinando Scianna, attento fotogiornalista contemporaneo capace di pensare e ragionare sulla comunicazione visiva (e non soltanto su questa), affermano che non esiste un’etica specifica della fotografia, ma l’etica e la morale sono valori universali, sovrastanti. Allora? Quando mi guardo attorno, da troppo tempo constato amaramente la clamorosa assenza di etica e morale, ovverosia di onestà intellettuale, ovverosia di intelligenza. Nonostante cerchi di evitarli, non mi è possibile eludere incontri nei quali, ormai, sento soprattutto parole inutili, parole in libertà, menzogne a piene mani, imbecillità senza alcuna soluzione di continuità. Parole che perdono e umiliano il proprio valore originario. Raramente, sempre più raramente, la parola è usata per se stessa, per la comunicazione e la condivisione per la quale l’intelligenza umana l’ha elaborata nei secoli e millenni. Più spesso, la Parola è usata per motivare, fino a giustificarle, azioni men che nobili. E lo stesso vale, ahinoi, per la Fotografia. Ovviamente, ripetendo quanto appena espresso, ognuno vanta una sorta di legittimità a dire e mostrare, raccontando -prima di tutto a se stesso- bugie convincenti. Ciò che definisce, fino a qualificarla, la realtà attuale è l’assoluta autoreferenzialità, che induce ciascuno a elevare se stesso a modello, a campione di qualità: fino alla completa sopraffazione e non considerazione delle ragioni degli altri, delle ragioni degli altri, delle ragioni degli altri. Tutti si ergono a Sole, attorno al quale fanno ruotare le esistenze altrui, con una forza di gravità che ha del miracoloso. Lacerati da questo, che si manifesta a ogni livello della società dei nostri giorni, abbiamo finito per cedere, e riprodurre ciascuno nel proprio microcosmo l’aberrazione del macrocosmo globale e complessivo. Le parole, che sarebbero pietre, sono diventate piume, che volano via con un soffio di vento. Eccoci qui: a scambiarci parole sempre più inutili, alle quali non corrispondono comportamenti, a raccontarci e raccontare “storie” (leggi, “balle”). Personalmente, mi dissocio: sia con e per il valore che assegno alle parole che esprimo, sia con e per le fotografie che considero e condivido, sia con e per le affermazioni che paleso. Del resto, lo confesso, sono un privilegiato. L’isolamento (volontario?) mi ha impedito di conoscere il compromesso. Ancora: il vero luogo natìo è quello dove per la prima volta si è posato lo sguardo consapevole su se stessi: la mia prima (e unica) patria sono stati i libri. La parola scritta mi ha insegnato ad ascoltare le voci. La vita mi ha chiarito i libri. Osservare, piuttosto che giudicare. Da cui! Maurizio Rebuzzini

Il passato. Solo uno strato di bugie sull’altro. È questo che facciamo: manipoliamo i fatti, per trovare la versione più accettabile da raccontare. Camuffiamo un poco le cose, aggiungiamo, sottraiamo per adattarle ai nostri bisogni, per rendere più tollerabile ciò che abbiamo fatto. In qualunque modo possiamo metterla e considerarla, i ricordi sono solo una sequenza di fantasie. Quello che raccontiamo, forse; ma dentro, nel profondo, ognuno di noi conosce la verità.

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Tecnologia e linguaggio di Maurizio Rebuzzini

ARTISTI PRÊT-À-PORTER

C

Che ci saremmo dovuti arrivare, è fin scontato. Il passaggio epocale dalla tecnologia fotografica meccanica (che nelle proprie ultime, più recenti stagioni si è espressa con abbondanza di funzioni controllate elettronicamente) a quella ad acquisizione digitale di immagini ha definito, determinandole, mille e mille consecuzioni inevitabili. Non è tempo, questo, né spazio, questo ancora, per approfondire un tema, un argomento con infiniti e profondi risvolti sociali, che pure sono eccezionalmente sostanziosi. Invece, qui e ora ci limitiamo a considerazioni a volo alto, leggere (ma non è poi proprio così vero), e specifiche: volontariamente e consapevolmente limitate nel tempo e nello spazio. L’argomento merita la nostra attenzione! Dunque, non scaviamo nel profondo, ma neppure ci allontaniamo da concretezze con le quali si debbono fare gli attuali conti tecnologici. Nello specifico, valutiamo quello che si è soliti definire come lo stato dell’arte della tecnologia, andando a sottolinearne successioni probabili. Cosa offre, nel concreto, la tecnologia soltanto elettronica, soltanto digitale, che non avrebbe potuto caratterizzare la precedente meccanica? Soprattutto l’esplosione e moltiplicazione esponenziale di funzioni aggiuntive, di funzioni di utilizzo e regolazione che superano alla grande la sola e semplice impostazione di tempi e diaframmi finalizzati alla corretta esposizione, piuttosto che a quella coscientemente scorretta: entrambe comunque finalizzate all’espressività fotografica. Certo, nulla è oggettivamente cambiato: da centosettanta anni abbondanti, ciò che definisce l’atto originario dello scatto fotografico rimane il coordinamento della quantità (e qualità, anche) della luce che per decenni (secoli) ha impressionato la pellicola fotosensibile e che da

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Ovviamente, chiedo scusa per questo uso finalizzato (non necessariamente improprio) di uno dei brani più epici della Resistenza (che, personalmente, non riesco ad ascoltare senza commuovermi, senza pensare al valore di coloro i quali si sono sacrificati per ideali nei quali anch’io credo). Altrettanto ovviamente, e come evidenziato in sottolineatura, si tratta di questo, che riguarda il mondo dell’espressività e creatività fotografica nel proprio complesso: (in metafora) Una mattina mi son svegliato... e ho trovato l’invasor.

qualche anno dà forma all’acquisizione digitale su supporto di altra percettibilità. Soltanto, nella irrinunciabile corsa alla semplificazione di uso e sicurezza di risultati formalmente ottimali, l’esuberanza delle funzioni aggiuntive dell’era digitale manifesta qualcosa di autenticamente inquietante.

Una mattina mi son svegliato O bella ciao, bella ciao, bella ciao ciao ciao una mattina mi son svegliato e ho trovato l’invasor. O partigiano portami via O bella ciao, bella ciao, bella ciao ciao ciao o partigiano portami via che mi sento di morir. E se io muoio da partigiano O bella ciao, bella ciao, bella ciao ciao ciao e se io muoio da partigiano tu mi devi seppellir. Seppellire lassù in montagna O bella ciao, bella ciao, bella ciao ciao ciao Seppellire lassù in montagna sotto l’ombra di un bel fior. E le genti che passeranno O bella ciao, bella ciao, bella ciao ciao ciao e le genti che passeranno mi diranno che bel fior. Questo è il fiore del partigiano O bella ciao, bella ciao, bella ciao ciao ciao questo è il fiore del partigiano morto per la libertà.

IN ANTICIPO Prima del commento al proposito, sono obbligatorie alcune precisazioni di fondo e origine. Uno: non intendiamo affatto affrontare, o dare fiato, a qualsivoglia diatriba da stadio (“era meglio prima” e contorni); infatti, prima è stato, ora è. Punto. Due: non siamo così ingenui da non comprendere le logiche e necessità del commercio fotografico, che, al pari di altri di analogo tasso tecnologico, dipende anche, o forse soprattutto, dal continuo e costante aggiornamento in avanti, smerciato, propagandato e presentato per se stesso e in quanto tale (in apparenza). Tre: non ci erigiamo a giudici (giurati e boia) e profeti di nulla e nessuno; soltanto, osserviamo; soltanto, pensiamo; soltanto, prendiamo nota. Non giudichiamo: soltanto, annotiamo. Quattro: non abbiamo nulla da rimproverare alla tecnologia di acquisizione digitale di immagini, quantomeno qui e ora. Dunque, nella stessa successione, la tecnologia fotografica digitale dei nostri tempi attuali ha ragione e motivo di essere, sia in relazione ai più ampi e generali equilibri e traguardi raggiunti dalla società, sia in dipendenza della inevitabile evoluzione dei modi. Altrettanto, l’industria produttrice e, a ridosso, quella distributrice hanno pieno diritto di comportarsi come si stanno comportando, fino ad arrivare a quelle accelerazioni commerciali che hanno portato la tecnologia fotografica ad esprimersi persino nei termini di “collezione primavera” e


Tecnologia e linguaggio “collezione autunno”, che da qualche stagione definiscono, datandole, le novità di mercato. Infine, se avessimo inteso giudicare (a campo ampio), avremmo impostato la nostra stessa esistenza in altro modo, magari percorrendo un tragitto di tipo giuridico, invece di stare qui a scorrere fotografie: dall’espressività linguistica alla proiezione verso la società tutta, alla tecnica esecutiva (indispensabile, non solo necessaria).

NEL DUNQUE Da capo: che ci saremmo dovuti arrivare, è fin scontato. Al rientro dalla Photokina di Colonia, passerella internazionale della tecnologia fotografica applicata, edizione 2010, di fine settembre, un anno fa, circa, abbiamo anticipato un concetto, una riflessione. Espressa in forma di congettura, quella osservazione si è presto trasformata in predizione. Diamine! Testuale, da FOTOgraphia di novembre 2010: «Tra le sue innumerevoli prerogative tecniche, tutte ammirevoli, tutte da ammirare, la Casio Exilim EX-ZR10 propone un’opzione in più, attorno la quale, alla Photokina, Casio ha addirittura allestito il proprio stand. Una volta acquisita un’immagine, premendo un pulsante predisposto la si può trasformare in quadro. Non abbiamo approfondito se l’effetto “artistico”, così come è presentato e vantato, sia a scelta, ovverosia se si possa, come presumiamo probabile, selezionare anche lo stile pittorico, oppure se si debba dipendere da una artisticità di fondo, senza altro pretendere. «Quando si mostra una propria fotografia ad amici o parenti, sollecitando un parere, un’opinione, si è autorizzati a picchiare l’interlocutore se e quando questo dovesse apprezzare la fotografia, bella “che sembra un quadro”. Non c’è offesa peggiore per la fotografia; forse c’è, ma non andiamo a indagare, quantomeno qui e ora. La fotografia merita di essere apprezzata, se e quando lo merita, in quanto tale: fotografia. Non perché asso-

miglia a qualcosa d’altro, non perché imita qualcosa d’altro, non perché indossa abiti altrui. I suoi, che dipendono da un linguaggio straordinario e variegato, bastano e avanzano per definirne la qualità espressiva, piuttosto che, all’opposto, l’eventuale infamia. «Dunque, la fotografia è “artistica” in relazione ai e dipendenza dai propri valori lessicali e grammaticali, non certo in subordine all’acquisizione di altri parametri. Il discorso parrebbe secondario, se non che non possiamo, né vogliamo, ignorare come e quanto gli equilibri concettuali attorno la fotografia si basino su intrecci infiniti, all’interno di una vicenda che, senza soluzione di continuità, e con percorso di andata e ritorno, passa dalla tecnica alla creatività, dalla produzione all’utilizzo, dal proprio ambito alla società, dal linguaggio alla comunicazione. E tanto altro ancora. «Soprattutto per questo, ma non soltanto per questo, consideriamo quantomeno disdicevole questa indicazione industriale, che riporta indietro l’ipotesi fotografica di decenni, se non secoli, addirittura. Anche senza averne avuta l’intenzione (escludiamo che l’industria produttrice abbia tanta competenza storica), in un certo senso torniamo allo stucchevole pittorialismo del secondo Ottocento, quando la fotografia pietiva di accedere all’arte, dimostrando di saper imitare e applicare gli stereotipi della raffigurazione pittorica (appunto). A distanza di decenni, in avanti, furono altri gli autori che offrirono alla fotografia l’agognata patente, applicando esclusivamente il linguaggio esplicitamente fotografico. Storia antica, storia nobile, della quale dobbiamo essere fieri. «Nessuna elemosina deve essere richiesta, ma si devono esigere riconoscimenti per se stessi e per le proprie prerogative ed espressività. La fotografia che sembra un quadro, magari buona per le pareti del salotto di nonna Speranza (rinvigorite dal cattivo gusto al quale sta educando la televisione dei nostri giorni), non è né una né l’altra. Smet-

te di essere dignitosamente se stessa, senza peraltro fare alcun balzo avanti (?). Sia professionale, dal giornalismo alla moda, alla pubblicità, sia espressiva, sia fotoricordo, la fotografia resti sempre e soltanto fotografia. «Tanto basta, senza peraltro mai avanzare. «Tanto ci basti».

IN ATTUALITÀ Ora, in aggiornamento temporale, registriamo la prosecuzione di questa vicenda. Sull’onda della bizzarra ipotesi originaria appena riferita -così possiamo conteggiarla e storicizzarla-, e in sintonia con quanto già da tempo viene proposto in altri ambiti -che si esprimono anche in termini fotografici (a partire da iPhone e derivati)-, sono arrivati e stanno arrivando apparecchi fotografici altrettanto comprensivi di funzioni “artistiche”. Cosa si intende con “artistico”? Tutto ciò che in fotografia si discosta dalla norma, come se la norma fotografica fosse una banalità dalla quale sfuggire: così, ecco qui i file prontamente trasformabili alla-maniera-di. A scelta, e senza soluzione di continuità, tante arbitrarietà, un tempo discriminanti e qualificanti, oggi prêtà-porter: foro stenopeico, toy camera (Holga, Diana e dintorni, a proposito delle quali, in anticipo temporale su tutti, ne abbiamo scritto fin dall’inizio del 1998!, in tempi non sospetti, non inquinati, non condizionati da mode effimere), polaroid (con immancabile cornicetta caratteristica), sfocatura, alti toni, bassi toni, pittorico... e tanto altro ancora. In conferma: quando lo è e per quanto possa esserlo, la fotografia è artistica soltanto quando (e non solo soprattutto) si esprime con il proprio linguaggio, che può anche essere declinato con le personalizzazioni formali appena elencate, ma deve esserlo per finalità espressiva, non alla semplice pressione di un tasto di funzione. Ciò a dire che ciascuno di noi, in espressione pittorica, può oggi ripetere un quadro di Mondrian (è elementare), uno di Kandinskij o Malevich (è altrettanto facile) o

una trasformazione alla Andy Warhol: può replicare pedissequamente, sì, ma senza sperare di aver realizzato altro che una ripetizione (discorso diverso sono gli autentici e dichiarati omaggi-a). Declinare l’arbitrarietà espressiva come sinonimo di “artisticità” (e la fotografia sarebbe tale soltanto quando non appare come se stessa, come fotografia), non solo è grottesco: è addirittura colpevole. Così che, per quanto rimaniamo fermi e saldi sull’opinione in base alla quale «l’industria produttrice e, a ridosso, quella distributrice avrebbero pieno diritto di comportarsi come si stanno comportando», non possiamo non rimproverare uno slittamento ideologico verso qualcosa che non compete loro. Tanto che, per dirne una in paragone, per quanto l’industria automobilistica possa realizzare vetture sportive e brillanti, non si osa allinearle a quelle da gara, promettendo ai propri utilizzatori prestazioni analoghe ed emozioni coincidenti. Tanto che, ancora in altro paragone, per quanto l’industria alimentare vanti cibi precotti adatti a qualcuno dei ritmi attuali di vita individuale, non garantisce personalità da chef. Fuor di metafora, dateci pure gli apparecchi fotografici che il mercato esige e richiede (in relazione alle vostre attendibili ricerche sul campo) e che la tecnologia consente, ma non andate oltre, non inoltratevi in campi estranei alla vostra competenza specifica, in campi che introducono pericolose involuzioni, sia nel concreto delle ideologie e filosofie, sia nell’effimero dei comportamenti sociali.

DEL RESTO Del resto, la fotografia non avrebbe potuto sperare, né tantomeno sognare, di rimanere estranea al convulso ritmo che il mondo occidentale sta scandendo. Se siamo condizionati a vivere con monitor a portata di vista e mani, con collegamenti sempre attivi alla Rete, con oggetti che ci stanno trasformando più in fretta e profondamente di quanto ha potuto fare l’Evoluzione della specie, per-

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Tecnologia e linguaggio ARTE IN KIT (E NEL CUORE)

Nel film Mona Lisa Smile, del 2003, che per quanto ci riguarda contiene anche un gustoso e significativo siparietto fotografico, di decifrazione dell’America degli anni Cinquanta (non qui, non ora), l’attrice Julia Roberts interpreta Katherine Ann Watson, insegnante d’arte in un istituto femminile della provincia degli Stati Uniti. Già accennato, la vicenda si svolge nei primi anni Cinquanta, e coinvolge signorine che si preparano ad affrontare e assolvere il ruolo loro destinato dalla società del tempo: casalinghe senza sogni, né grilli per la testa, brave mogli, brave cuoche, brave mamme... brave e buone, e basta. Invece, la progressista Katherine Ann Watson le sollecita al pensiero autonomo, al raggiungimento di personalità individuali, non stereotipate o obbligate da schemi preordinati. Questo è il succo del film, che ognuno -se intende farlo- rintracci e guardi nell’intimità dei propri spazi domestici. In estrapolazione, a ridosso delle nostre osservazioni odierne, citiamo soltanto un episodio: l’insegnante d’arte Katherine Ann Watson (Julia Roberts) arriva in aula con un “Kit van Gogh” acquistato in un negozio della città. Apre la scatola, estrae il contenuto, mostra una tavolozza con un disegno bianconero schematizzato, da colorare seguendo un codice numero-colore specificato nelle istruzioni. Conclude (circa): la traccia è indiscutibilmente van Gogh, l’attribuzione dei colori è legittima... ma se completate questa tavolozza non siete van Gogh e neppure vi potete avvicinare alla sua arte. L’arte è qualcosa che ciascuno deve trovare prima di tutto in se stesso. Nel film Mona Lisa Smile, Julia Roberts interpreta Katherine Ann Watson, insegnante d’arte in un istituto femminile dell’America degli anni Cinquanta.

ché la fotografia avrebbe dovuto rimanere estranea al processo? Dunque, accettiamo un poco tutto. Accettiamo passivamente (i distinguo sono solo esercizi di stile: questo nostro attuale, al pari di tutti), ed esaltiamoci: anni fa (secoli fa), siamo stati sconvolti dall’automatismo di esposizione a priorità, poi da quello a doppia priorità a scelta, poi dall’autofocus, poi dagli zoom con escursioni in precedenza improponibili. Perché non fare altrettanto per tutte le semplificazioni nel proprio complesso, per la funzione aggiuntiva Gps (che una volta frequentata diventerà irrinunciabile, così come non possiamo più vivere senza computer, Internet, email, telefono cellulare...), per le modalità dedicate a soggetti individuati (una sola perplessità per la funzione “Fuochi d’artificio”: va bene il “Ritratto”, l’“Azione” e tutto quanto sta alla portata della vita di ogni giorno, ma quanti diamine di fuochi di artificio possiamo incontrare in un anno? Tanti da meritare una dedica tecnologica finalizzata? Sarà!). Se poi tutto questo assume i connotati dell’involuzione, anziché quelli dell’evoluzione, sono fatti privati: a ciascuno, la propria esistenza. Così come, in contemporanea, a ciascuno le proprie resistenze. Le nostre, tra tutte. ❖



Notizie a cura di Antonio Bordoni

C’È ANCHE PENTAX. Nel momento nel quale si registra un significativo passaggio di proprietà (il Primo ottobre si costituisce una nuova società Pentax, le cui azioni sono acquisite da Ricoh Corporation), la leggendaria produzione giapponese, erede di una lunga storia, approda alla configurazione mirrorless. La nuova Pentax Q è una reflex compatta a obiettivi intercambiabili di dimensioni estremamente contenute, entro lo spessore del corpo macchina di appena 3,1cm. Grazie all’alta risoluzione di 12,4 Megapixel, fornita dal sensore Cmos retroilluminato da 1/2,3 di pollice, la Pentax Q offre un’ampia varietà di caratteristiche evolute, tra le quali spiccano i nuovi obiettivi supercompatti in innesto a baionetta Q; su-

bito sono disponibili cinque disegni ottici. Quindi, si registra una ripresa continua ad alta velocità fino a cinque fotogrammi al secondo, rumore contenuto anche all’alta sensibilità di 6400 Iso equivalenti, una finitura di qualità in lega di magnesio e un ampio monitor LCD da tre pollici, con 460.000 pixel e visione grandangolare di 170 gradi. Inoltre, la Pentax Q presenta la funzione filmati Full-HD, con registrazione a trenta fotogrammi al secondo e uscita HDMI. A dimostrazione della completa funzionalità e praticità della mirrorless, il sistema di esposizione multi-modale include le funzioni manuali, come la modalità di esposizione a priorità di diaframmi, mentre la funzione Immagine personalizzata consente di finalizzare la finitura delle immagini in base ai soggetti e al tocco personale. Come le reflex Pentax tradizionali (diciamola così, per distinguere le configurazioni tecniche), anche la Pentax Q dispo-

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ne di stabilizzazione di immagine incorporata SR (Shake Reduction) e dispositivo anti-polvere DRII (Dust Removal II). In livrea bianca o nera. (Fowa, via Tabacchi 29, 10132 Torino; www.fowa.it).

INTERPRETAZIONI OTTICHE. Ripetizione d’obbligo. La giapponese Sigma non è più soltanto una produzione di obiettivi universali, disponibili in montatura a baionetta per le reflex dei nostri giorni, ma offre e propone una invidiabile gamma, non soltanto alternativa ai sistemi ottici ufficiali, ma addirittura autonoma nelle interpretazioni fotografiche. Così, per quanto le due nuove interpretazioni Sigma 12-24mm f/4,55,6 II DG HSM (angolo di campo da 122 a 84,1 gradi) e Macro 105mm f/2,8 EX DG OS HSM siano anche oggettivamente allineate con configurazioni analoghe, presenti nei sistemi ottici delle reflex di ultima generazione, ciascuna è definita da un disegno assolutamente autonomo, finalizzato soprattutto all’acquisizione digitale di immagini. Nella sua combinazione di diciassette lenti divise in tredici gruppi, lo zoom grandangolare Sigma 12-24mm f/4,5-5,6 II DG HSM dispone di un elemento in vetro ottico SLD, a basso indice di dispersione, e quattro elementi FLD, la cui combinazione compensa l’aberrazione cromatica e assicura immagini di alta qualità formale. Ancora: tre lenti asferiche in vetro ottico molato e una ibrida sono altrettanto finalizzate alla qualità fotografica, e, allo stesso momento, mantengono compatto e leggero il corpo dell’obiettivo.

Il trattamento Super Multistrato riduce il flare e le immagini fantasma. Anche alla massima apertura relativa, lo zoom mantiene una eccellente luminosità periferica e assicura immagini incise e di alto contrasto. Il motore ipersonico di messa a fuoco automatica HSM (Hyper Sonic Motor) garantisce un accomodamento rapido e silenzioso, senza rinunciare alla messa a fuoco manuale in qualsiasi momento e condizione di impiego. A fuoco da 28cm a tutte le lunghezze focali, fornisce un rapporto massimo di ingrandimento di 1:64; scala dei diaframmi fino a f/22; dimensioni 85x102,2mm, per 670g di peso (in baionetta Sigma). Di diversi intenti fotografici, il Sigma Macro 105mm f/2,8 EX DG OS HSM è un medio tele di grande apertura massima dalle grandi prestazioni, soprattutto indirizzato alla ripresa a distanza ravvicinata: appunto, macro. Tecnologia proprietaria, il sistema di stabilizzazione OS (Optical Stabilization) consente l’accomodamento a mano libera a ogni distanza di inquadratura e messa a fuoco, anche ai valori prossimi al punto di visione. Nel disegno ottico di sedici lenti divise in undici gruppi, elementi in vetro ottico a basso indice di dispersione (SLD) e uno in vetro ad alto indice di rifrazione offrono una eccellente correzione della distorsione e di tutti i tipi di aberrazione. Il sistema di messa a fuoco flottante posiziona due gruppi di lenti, compensando il difetto di astigmatismo e aberrazione sferica; contemporaneamente, l’accomodamento garantisce una eccellente qualità ot-

tica a tutte le distanze di ripresa: dall’infinito alla inquadratura macro al naturale (1:1; da 31,2cm). Il trattamento Super Mulstistrato delle lenti riduce il flare e le immagini fantasma. È anche possibile usare il Sigma Macro 105mm f/2,8 EX DG OS HSM assieme ai moltiplicatori di focale dedicati Sigma Apo Tele Converter 1,4x EX DG e 2x EX DG. Il motore ipersonico HSM (Hyper Sonic Motor) permette una messa a fuoco automatica veloce e silenziosa, assieme alla possibilità di messa a fuoco manuale. Scala dei diaframmi fino a f/22; dimensioni 78,3x126,4mm, per 725g di peso. (M.Trading, via Cesare Pavese 31, 20090 Opera Zerbo MI; www.m-trading.it).

SECONDA GENERAZIONE (O TERZA). Nato in doppia configurazione, il sistema mirrorless Sony Nex [FOTOgraphia, dicembre 2010] approda ora alla versione Nex-C3, con sensore Cmos Exmor di dimensioni APS-C, risoluzione da 16,2 Megapixel, video HD e integrazione di effetti artistici (che qui registriamo soltanto, senza commenti ulteriori: a tempo e spazio debito). Proprio una nuova interfaccia intuitiva e le dotazioni di “Effetti Artistici” e “Effetti Creativi” si propongono come novità tecnica saliente, capace di offrire sostanziose differenze di utilizzo, sia a fotografi adeguatamente esperti, che si rivolgono all’efficacia della configurazione compatta a obiettivi intercambiabili mirrorless, sia a utilizzatori neofiti, che possono mettere adeguatamente a frutto le semplificazioni implicite di questa genìa di apparecchi fotografici. In particolare, viene sottolineata e vantata proprio la doppia funzione “Effetti Artistici / Creativi”, con anteprima in tempo reale del risultato fotografico, allamaniera-di. Ancora, non si sottovalutino le tecniche di imaging multi-frame (combinazione di fotogrammi), tra le quali si impongono soprattutto il risultato 3D Sweep Panorama, l’Auto HDR e le modalità Handheld Twilight. In assoluto, la nuova Sony


Notizie Nex-C3 vanta un primato assoluto: è la compatta a obiettivi intercambiabili più piccola e leggera della categoria (mirrorless). Il nuovo, accattivante design, disponibile in due livree, abbina la robustezza del telaio in metallo a una linea affusolata, che facilita l’impugnatura. Le dimensioni ridotte dei circuiti principali hanno permesso di limitare il peso del corpo macchina a soli 225g, quasi il sei percento in meno rispetto l’originaria Nex-3. Oltre la forma, che ha la propria importanza, soprattutto nel mercato consumer dei nostri giorni, al quale la fotografia è obbligata a riferirsi (anche), si sottolinea il contenuto. La Sony Nex-C3 dispone dell’ampio sensore Cmos Exmor HD APS, da ben 16,2 Megapixel effettivi, sinonimo di nitidezza esemplare negli scatti fotografici e nella registrazione video HD a 720p. Inoltre, il senso-

re di consistenti dimensioni permette di produrre effetti di sfocatura dello sfondo (bokeh) di qualità professionale, sia in fotografia sia in video ad Alta Definizione. Ancora, la nuova interfaccia “Effetti Creativi” sostituisce i termini tecnici come “apertura”, “valore di esposizione” e “bilanciamento del bianco” con i più familiari e intuitivi “sfocatura dello sfondo”, “luminosità” e “colore”. Senza menu complessi, si intuiscono e deducono gli effetti prodotti sulla composizione dell’immagine dalle varie opzioni. Basta ruotare la ghiera di comando per avere sul monitor un’anteprima istantanea del-

le impostazioni. Volendo, si possono anche abbinare due o più impostazioni diverse, per ottenere effetti creativi ancora più sofisticati. Una nuova funzione denominata “Effetti Artistici” permette di conferire maggiore originalità (?) alle immagini, nel momento stesso in cui vengono scattate o riprese, saltando del tutto la fase di post-editing. Il monitor LCD Xtra Fine ad alto contrasto, da tre pollici (7,5cm), inclinabile per una visione confortevole da qualsiasi angolazione, integra la tecnologia TruBlack, per offrire neri ricchi e profondi, ed è l’ideale per inquadrare e valutare gli effetti delle impostazioni scelte anche all’aperto, sotto la luce del sole. Le tecnologie avanzate di ima-

ging multi-frame di Sony (combinazione di fotogrammi) ampliano ancora di più gli orizzonti della Nex-C3. La funzione 3D Sweep Panorama realizza avvincenti immagini panoramiche tridimensionali, da ammirare poi su un TV 3D. La funzione Auto HDR realizza una rapidissima sequenza di tre esposizioni successive, per produrre in un unico frame la massima definizione efficaci dettagli sia nelle zone più scure sia in quelle più luminose. Analogamente, le modalità Handheld Twilight (Crepuscolo senza treppiedi) e AntiMotion combinano automaticamente sei esposizioni, per assicurare immagini nitide e a bassissimo rumore, evitando il mosso causato dagli spostamenti della mano e dai movimenti del soggetto, anche in condizioni di scarsa luminosità. (Sony Italia, via Galileo Galilei 40, 20092 Cinisello Balsamo MI; www.sony.it). ❖


Ricorrenza di Maurizio Rebuzzini

C

Come ben sappiamo, la celebrazione degli anniversari impone cadenze preordinate: salvo altre intenzioni individuali, di solito, un anno, cinque anni, dieci, venti, venticinque, cinquanta. L’undici settembre è il decimo anniversario dell’Undici settembre per antonomasia: quello dell’attacco terroristico al Word Trade Center, dell’11 settembre 2001. Se in occasione del primo anniversario, nel 2002, sono state pubblicate diverse monografie fotografiche a tema, è logico pensare che altrettanto stia per avvenire nell’attuale decennale 2001-2011. Allo stesso tempo, non mancheranno saggi e approfondimenti politici della tragica vicenda. In ogni caso, anniversari a parte, l’abbattimento delle Torri Gemelle, alla cui fotografia in cronaca abbiamo dedicato spazio e riflessioni sul nostro numero del dicembre 2001 [qui, a destra], è entrato a far parte di una sorta di consuetudine sociale. Qui, ora, non sconfiniamo in considerazioni politiche conseguenti, fino

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11 settembre 2001, 9,59 del mattino: collasso della Torre 2.

alla controversa guerra in Iraq e dintorni, fino alle dietrologie e speculazioni che non sono mancate in questi dieci anni: il nostro non è certamente spazio adeguato a tanto e tale approfondimento (e neppure le nostre opinioni meritano attenzione pubblica: meglio lasciar parlare chi ha effettivamente qualcosa da dire al proposito). Soltanto, ci consentiamo una annotazione leggera a margine: attiriamo l’attenzione su come la data dell’Undici settembre sia risultata discriminante in tutta la società statunitense, andando addirittura a influire sulle sceneggiature cinematografiche e televisive. Ma questa, come spesso annotiamo, è tutta altra questione. Non possiamo prevedere quali e quante monografie, soprattutto illustrate, ma anche saggi e approfondimenti (e nuove rivelazioni?), arriveranno in libreria nel decennale. Soltanto, con osservazione facile e consapevole, pensiamo che poco o nulla potrà valere quanto la straordinaria raccolta fotografica di Joel Meyerowitz, pubblicata nell’autunno 2006, nel quinto anniversario.

AFTERMATH

Nel dicembre 2001, abbiamo realizzato un numero speciale dedicato a New York, all’indomani dell’Undici settembre: quarantasei pagine dalla cronaca al ricordo, all’evocazione, alla celebrazione della città, a qualcosa d’altro ancora, a cura di Antonio Bordoni, Angelo Galantini e Maurizio Rebuzzini, con fotografie di reportage fornite dall’Agenzia Grazia Neri, come contributo all’informazione.

Difficilmente l’imponente edizione di Aftermath potrà mai essere eguagliata: quattrocento immagini di Joel Meyerowitz, a tutti gli effetti uno dei più noti e affermati autori contemporanei, al quale si riconduce quel linguaggio del colore ponderato che ha fatto scuola in tutto il mondo (Italia compresa, dove è diventato motivo stilistico distintivo del movimento definito Nuovo paesaggio, che dagli anni Settanta e Ottanta si è esteso in avanti, arrivando fino a noi). Prima dell’analisi dell’argomento, peraltro ovvio (Aftermath, nel senso di conseguenza spiacevole), occorre proprio soffermarsi su questa fotografia di Joel Meyerowitz, il cui profondo contenuto si basa su una identificata e dichiarata mediazione tecnica. Anche a Ground Zero, sulle rovine e macerie di quelle che furono le Torri Gemelle di New York, appunto soggetto esplicito di Aftermath, il bravo e

LORI GRINKER (PRESS IMAGES)

MARY ALTAFFER (WOODFIN CAMP AND ASSOCIATES)

UNDICI SETTEMBRE


Ricorrenza

JON KRAL (MATRIX)

11 settembre 2001, pomeriggio: primi soccorsi nelle Torri abbattute.

Dopo Undici settembre: l’orgoglio nazionale statunitense, che ha portato alla moltiplicazione esponenziale di bandiere davanti alle abitazioni, sulle automobili, in spille indossate sugli abiti. 18 settembre 2001, The Flag Center, di Little Havana, a Miami, lavora senza sosta per far fronte alle richieste. Le mani che cuciono sono di Martha Chigosh, ottantatreenne che lavora in fabbrica da trentasei anni.

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Ricorrenza

attento Joel Meyerowitz ha applicato i canoni formali e compositivi del proprio linguaggio fotografico. E per questo, occorre rilevarlo, è stato anche aspramente biasimato e censurato da certa critica statunitense che -a nostro personale modo di vedere- ha clamorosamente confuso i termini del discorso, ignorando peraltro il primo emendamento della loro costituzione, che garantisce la terzietà della legge rispetto al culto, e il suo libero esercizio, nonché la libertà di parola e stampa. Limitandosi a giudicare il dito che indica la luna, questa critica ha contestato l’approccio fotografico di Joel Meyerowitz, coerente con se stesso e la propria concezione dell’immagine. Insomma, mentre per altri soggetti l’uso riflessivo del grande formato 8x10 pollici è stato elevato a valore e significato, sulle rovine delle Torri è stato considerato cinico e crudele.

CON IL CUORE Non siamo assolutamente d’accordo, perché non pensiamo che la mediazione tecnica della fotografia (necessaria, mai sufficiente) abbia altro ruolo che quello di portare alla costruzione di immagini. In linea di massima, non esiste un modo di fotografare irrispettoso, quando le inten-

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26 settembre 2001: visione dell’area di Ground Zero, da sud-ovest. 8 novembre 2001: la luce del sole dà risalto al fumo. (pagina accanto) 28 ottobre 2001: un vigile del fuoco depone fiori alla base del Building 4.

Aftermath, fotografie di Ground Zero di Joel Meyerowitz; Phaidon, 2006; 304 pagine 27,5x38cm, cartonato con sovraccoperta; 75,00 euro.

zioni dell’autore sono sollecite e premurose. Scattando con Deardorff 8x10 pollici (folding in legno di straordinario valore estetico: e sono altri fatti; Memorabilia, in FOTOgraphia del maggio 1998), Joel Meyerowitz ha espresso la propria concezione della fotografia, senza interferire con il doveroso rispetto che il soggetto merita, sempre e comunque. Però, probabilmente, la questione non riguarda tanto il modo di lavorare di Joel Meyerowitz, facile bersaglio di una critica che ha saputo usare termini capaci di far presa sui pensieri semplici, quanto la concessione che l’allora sindaco di New York City Rudolph Giuliani gli accordò: esaurite le urgenze della cronaca, unico fotografo con accesso continuativo al luogo dell’attentato. Tanto che le fotografie di Joel Meyerowitz sono dilatate nel tempo, dalla fine di quel tragico settembre per otto mesi successivi. In un momento nel quale anche il cinema d’autore ha raccontato a proprio modo quella vicenda (a partire dal commovente World Trade Center, di Oliver Stone, del 2006, e dal documentario in approfondimento Fahrenheit 9/11, di Michael Moore, del 2004), la serie fotografica di Joel Meyerowitz impone il senso e valore dell’immagi-


Ricorrenza Cinema

ne fissa: ribadiamolo, concentratamente costruita su un vetro smerigliato di dimensioni generose e declinata con evidente e avvincente partecipazione emotiva. Prima di tutto, del fotografo autore; in conseguenza, dell’osservatore che sfoglia con ritmo individuale le pagine di Aftermath. Nell’insieme delle immagini, presentate anche in una mostra itinerante, non si legge soltanto commozione, che pure forma il collante dell’intera serie, ma persino una non celata rabbia. Del resto, annotiamo anche questo, Joel Meyerowitz ottenne il permesso di attardarsi su Ground Zero, e di tornarvi per sessioni fotografiche successive, al culmine di una sorta di battaglia con le autorità politiche di New York, che consideravano il luogo “scena del crimine”. A favore del fotografo si espressero anche i lavoratori impegnati nell’area, e ora queste fotografie compongono una preziosa testimonianza storica del terribile evento e delle sue conseguenze (appunto, aftermath).

CON LA MENTE Rileva Joel Meyerowitz: «Per me, la “mancanza di fotografie” significa “mancanza di storia”, e in quel momento trovai il mio ruolo a Ground Zero; ho lavorato per creare un ar-

chivio fotografico per gli abitanti di New York: qualcosa che potesse descrivere in tutti i propri agghiaccianti dettagli l’impatto della devastazione sull’area sud di Manhattan». Nell’introduzione a Aftermath, lo stesso fotografo precisa e approfondisce il pensiero: «Quando mi recai sul posto, ero come un estraneo, un osservatore impegnato a preservare il ricordo, ma con il tempo ho cominciato a sentirmi parte integrante di quello stesso immane lavoro del quale ero testimone. [...] Ho documentato le conseguenze del disastro per tutti quelli che non hanno potuto essere là, ma questo libro è dedicato a quelli che c’erano» (oltre ottocento persone: operai edili, poliziotti, vigili del fuoco, saldatori, ingegneri, gruisti e volontari). In otto mesi, Joel Meyerowitz ha scattato oltre ottomila fotografie (certamente non tutte in 8x10 pollici, ma una sostanziosa parte sì), mille delle quali sono state donate al Museum of the City of New York, dove ora fanno parte del World Trade Center Archive, che, come tutti gli archivi e collezioni del Museo, è a disposizione pubblica per studi, ricerche e pubblicazioni (1220 Fifth Avenue, New York, NY 10029; 001-212-5341672; www.mcny.org). Questo suo pro-

getto è stato svolto in completa autonomia, ma anche solitudine fotografica. Infatti, non è stato possibile costituire un collettivo di fotografi sull’esempio di quanto fu fatto per la testimonianza visiva della Depressione degli anni Trenta, con la divisione fotografica della Farm Security Administration (pietra miliare della storia della fotografia). La preziosa edizione libraria di Aftermath, sulle cui ampie pagine sono raccolte quattrocento illustrazioni, riprodotte in generose dimensioni, si offre e propone come opera storica, che rappresenta con grande sensibilità e forza la straordinaria impresa di rimozione delle rovine e ricostruzione dell’area dove sorgevano le Torri Gemelle, abbattute dal terrorismo internazionale (?): sono stati scavati due milioni di tonnellate di detriti, e ora Ground Zero si presenta come spazio completamente libero da macerie, venti metri sotto il livello stradale. Unica testimonianza fotografica allungatasi in avanti nel tempo, oltre le cronache in diretta, la monografia si accompagna con racconti su uomini e avvenimenti. Il volume è attribuito sia all’autore delle fotografie Joel Meyerowitz, sia all’appena citato World Trade Center Archive. ❖

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Massimo De Gennaro con FOTOgraphia di aprile 2011 ne abbiamo parlato


Ici Bla Bla a cura di Lello Piazza

Questa rubrica riporta notizie che sono appartenute alla cronaca. Però, nel loro richiamo e riferimento molti motivi ci impediscono di essere tempestivi quanto la cronaca richiederebbe. Ciononostante riteniamo giusto proporle, perché siamo convinti che non abbiano perso la propria attualità, e continuino a offrire spunti di riflessione.

TUTTI VOGLIONO... «Tutti vogliono dire e scrivere, ma c’è ancora qualcuno che ascolta e legge?» (da Web Land, di Piero Gaffuri; Lupetti, 2011; 13,00 euro). Affissione pugliese legittimamente cancellata. Non servono altri commenti.

ta notizia l’anno scorso. In questo caso, non è sotto processo la fotografia ma lo slogan che l’accompagna «e tu dove glielo metteresti?» [a sinistra]. L’idea pubblicitaria è della catena pugliese Giallo Oro Gioielli. Il sindaco del capoluogo Michele Emiliano ne ha chiesto la cancellazione, denunciando la questione attraverso Facebook. È intervenuta anche la prefettura e il ministro delle Pari Opportunità, Mara Carfagna, che l’ha segnalata all’Istituto di Autodisciplina Pubblicitaria. Come se non bastasse, c’è un altro manifesto delle Cantine Grasso, postato da Massimo Malerba sul blog Lettera viola (www.letteraviola.it/) e apparso negli stessi giorni per le strade di Milazzo [a sinistra]. Che dire?

SE ATENE PIANGE, SPARTA NON RIDE. Pubblicità al sesso anche a New

Cosa dire ancora? Cosa dire di più? Oltre ad esprimere un certo disagio?

MI FA SCHIFO... Una situazione nella quale persone così volgari hanno il potere di realizzare manifesti di dimensioni tanto grandi con messaggi altrettanto lubrichi. Tutti diciamo volgarità in camera caritatis. Ma da qui a elevare le nostre misere volgarità a proposta ufficiale per il pubblico, ne passa. Adesso che l’affissione sei-metri-per-tre è stata censurata ed eliminata dagli spazi pubblici, succederà, come nel caso del manifesto Dolce&Gabbana segnalato a luglio, che gli autori grideranno contro la censura della propria artisticità. La vicenda si è svolta a Bari, all’inizio di agosto. La ragazza ritratta sul manifesto è Barbara Montereale, compagna di Patrizia D’Addario nelle notti sexy a Palazzo Grazioli con il presidente del Consiglio, delle quali si è avu-

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La fotografa statunitense Erica Simone sostiene che la campagna pubblicitaria More Than Shoes, dell’azienda di abbigliamento Zappos (a destra), sia copiata dalle immagini del suo progetto Nue York (qui sotto).

York. Ma la notizia è un’altra. Sempre all’inizio d’agosto, il magazine online Adweek. Today’s News in Advertising and Branding (www.adweek.com) segnala la protesta di una fotografa statunitense, Erica Simone, e la sua minaccia ad adire vie legali contro una campagna pubblicitaria More Than Shoes lanciata dall’azienda di abbigliamento Zappos [qui sotto]. Erica Simone sostiene che questa campa-

gna è copiata dalle immagini del suo progetto Nue York (www.ericasimone.com/nueyork.php; al centro, in basso). A me sembra difficile darle torto, anche se, come diceva Cetto Laqualunque, «u pilu tira sempre»; quindi, non sarebbe certo impensabile che l’agenzia di Zappos, Mullen, possa aver pensato al nudo autonomamente: il nudo, quello femminile, soprattutto, tira, e come, nella pubblicità. Dunque, anche negli Stati Uniti, la fantasia dei pubblicitari finisce spesso lì, anche se c’è una differenza abissale tra la volgarità del manifesto di Bari (della nota precedente) e le immagini americane. Prometto che non seguiremo gli sviluppi della vicenda. Per la cronaca, segnalo che Erica Simone è nata Knoxville (Tennessee, Usa), nel 1985. Agisce nei campi più vari della fotografia, dalla moda al ritratto, dalla documentary photography alla fine art. Ha pubblicato su molti giornali, tra i quali National Geographic, Photo, El Mundo, La Repubblica, Photo District News e altri. Le sue immagini sono apparse in mostre personali e collettive in vari paesi del mondo.

DIECI ANNI. Ancora New York, per una mostra a Roma. Dal dieci settembre al nove ottobre, presso la Centrale Montemartini (via Ostiense 106; www.centralemontemartini.org), è allestita Cities of New York. A cura di Mariateresa Cerretelli, photo editor, giornalista e, dal 2004, presidente del Grin (Gruppo dei Redattori Iconografici Nazionale), l’esposizione si propone come prosecuzione dell’annuale The September Concert, omaggio musicale agli indimenticabili avvenimenti che hanno colpito New York l’11 settembre 2001. Gli artisti coinvolti sono Allan Tannenbaum, newyorkese, con fotografie riprese quel giorno drammatico nel centro di Manhattan, Susan Crile, americana, con dipinti ispirati a Ground Zero, Michael Ackerman, con una sequenza polaroid dei volti delle vittime. E poi, Gabriele Basilico, Luciano Bobba [pagina accanto], Angelo Bucarelli, Giusy Caltagirone, Gabriele Croppi, Olimpia Ferrari, Franco Fontana, Maurizio Galimberti, Moreno Gentili e Jay One, esponente di graffiti art. Saranno inoltre esposte le fotografie di backstage e il video del film Rebirth, realizzato in partnership con Cbs


Ici Bla Bla Da Cities of New York, a cura di Mariateresa Cerretelli, dal dieci settembre al nove ottobre alla Centrale Montemartini, di Roma, una visione di Luciano Bobba.

nabooks (144 pagine 30x24cm; 35,00 euro). E, con piacere, segnaliamo anche l’insolita sede per una mostra fotografica: quella della Questura di Trieste, in via Tor Bandena 6, dal diciassette settembre (040-3790502; urp. quest.ts@pecps.poliziadistato.it)

DA NON PERDERE: MONIKA BULAJ. Lo scorso cinque agosto, presso il Palazzo Ducale di Venezia, si è inaugurata la mostra Nur, straordinario quaderno di viaggio della fotogiornalista polacca Monika Bulaj, che da anni risiede in Italia, e che percorre i luoghi più ostili del mondo alla ricerca di quello che i media non raccontano: fino al Primo ottobre [qui sotto]. Da sola in Afghanistan al tempo della guerra, in autobus, a cavallo, in autostop, a piedi o a dorso di yak, con o senza burka, Monika Bulaj ha rea-

Entertainment e con colonna sonora di Philip Glass, già presentato al Sundance Festival e accolto dal pubblico con una standing ovation (Roma ospiterà la prima italiana del video la sera del dodici settembre, all’Auditorium Parco della Musica).

RENDIAMO OMAGGIO AL LAVORO VOLONTARIO. Proseguendo l’idea manifestata nel luglio 2010, e con lo stesso titoletto, torniamo a rendere omaggio al lavoro di Tiziana Volta, la cui competenza fotografica si è formata alla scuola di Gardenia, mensile dedicato al verde e ai giardini, che io insisto a certificare giornalistico, rivendicando alla definizione di giornali-

smo uno spettro molto più ampio di quello riservato a questo sostantivo dalla comunità dei critici di fotografia (e non soltanto da loro, ahinoi). Sono irrimediabilmente convinto che non siano i temi di riferimento a identificare il giornalismo, ma il modo di affrontarli, e bisognerà pur trattare, una volta o l’altra, questo argomento. Di Tiziana Volta segnaliamo la mostra Naturalmente Bello, da lei curata, dedicata alle immagini del fotografo veneziano Dario Fusaro [qui sotto] e alle sculture in legno dell’architetto ambientalista Fabio Giorgio Salvi. Per l’occasione, viene anche presentata la monografia Un giardino coraggioso, di Dario Fusaro, pubblicata da Cremo-

Nur, di Monika Bulaj, al Palazzo Ducale di Venezia fino al Primo ottobre.

Da Naturalmente Bello, mostra di Dario Fusaro a cura di Tiziana Volta: a Trieste, dal diciassette settembre.

lizzato una serie di immagini su “riti segreti, magie, transumanze, fanatismi, canzoni, dolore, santità, droga, contrabbando, povertà e un affascinante pianeta femminile”. Stampate in dimensioni generose, centotrenta di queste immagini sono esposte nella Loggia Foscara del Palazzo Ducale. Possiamo consigliarvi di non perderle queste immagini? Di studiarle? Possiamo suggerirvi di lasciarvi penetrare dal loro inquietante messaggio? Non è una mostra di pittura: è una mostra giornalistica e racconta un sacco di cose sul mondo. L’esposizione è stata promossa dall’Assessorato alle Politiche Giovanili e Pace del Comune di Venezia, in collaborazione con la Soprintendenza per i Beni Archittettonici e Paesaggistici di Venezia e Laguna, con Emer-

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Ici Bla Bla gency e sotto il patrocinio del Ministero per i Beni e le Attività Culturali; sponsor: Montura; stampe del laboratorio Newlab, di Brescia; grafica: Roberto Steve Gobesso. Per Nur sono previste altre tappe: ❯ Roma: Officine Fotografiche, in collaborazione con Punto di Svista; dal sedici dicembre al quindici gennaio; ❯ Trieste: Ex Pescheria, Il Salone degli Incanti, a cura dell’Assessorato alla Cultura del Comune di Trieste; dal quindici gennaio al ventotto febbraio; ❯ Gallerie Leica (sedi in fase di definizione): da gennaio a giugno 2012.

VISA POUR L’IMAGE: VENTITRÉ. Sotto la direzione di Jean François Leroy, dal ventinove agosto al quattro settembre ha luogo a Perpignan (Francia) la ventitreesima edizione di uno dei festival fotogiornalistici più importanti del mondo. Sono allestite ventisei mostre. Tra queste, ci limitiamo a segnalare quelle di tre fotogiornalisti italiani, rimandando per le altre, al sito del festival (www.visapourlimage.com): Martina Bacigalupo (Agence VU), vincitrice del

Prix Canon de la Femme Photojournaliste 2010 con un reportage dedicato alla vita quotidiana di Filda Adoch, una donna ugandese, che vive nel nord del paese, devastato da una guerra tribale; Valerio Bispuri, sulle carceri nell’America del Sud; Riccardo Venturi, sul dopo Haiti [qui sotto]. Riccardo Venturi (dopo Haiti), Martina Bacigalupo (vita quotidiana di Filda Adoch, una donna ugandese, che vive nel nord del paese, devastato da una guerra tribale) e Valerio Bispuri (carceri nell’America del Sud) a Visa pour l’Image 2011.

Il Fatto Quotidiano mette sempre i crediti alle fotografie.

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MANIPOLAZIONE. Per descrivere quale severa attenzione si dedica negli Stati Uniti alla manipolazione della fotografia e/o dell’informazione giornalistica, anche apparentemente innocua, ascoltate questa storia. L’undici luglio, il sito web del Poynter Institute (www.poynter.org), una scuola nata per formare nuovi giornalisti, ispirare chi già svolge la professione, garantire un alto livello di giornalismo alla società americana, denuncia la manipolazione di un’immagine realizzata dal fotogiornalista freelance Miguel Tovar, on assignement per Associated Press alla Coppa America di calcio, in Argentina. Secondo il Poynter Institute, Miguel Tovar avrebbe cancellato la sua ombra rimasta sull’erba in primo piano di una sua fotografia di una squadra di ragazzini, poi pubblicata sul sito di AP ed entrata nel circuito internazionale. Una correzione apparentemente innocua, no? Invece, per questo, Miguel Tovar è stato immediatamente escluso da qualsiasi tipo di collaborazione con AP, e tutte le sue immagini sono state cancellate dall’archivio. Esagerati? Secondo me, no: perché, come dice il proverbio, si sa dove si comincia ma non dove si finisce.

BRAVI A IL FATTO QUOTIDIANO. Oltre ad altri e molto più importanti meriti -per i quali citiamo per tutti la quasi totale indipendenza dalla pubblicità, l’assoluta obiettività nei report sul nostro mondo politico, e il fatto (mi si scuserà il bisticcio di parole) che Il Fatto Quotidiano è l’unico quotidiano a crescere in termini di copie vendute-, c’è un altro merito a noi molto caro di questo giornale, quello di mettere i crediti alle fotografie, anche alle piccolissime vignette con il faccino di un politico [qui sopra]. Bravi, bravi, bravi per tutto. ❖




Monografia di Silvia Zotti

N

Non bisognerebbe mai prendersi troppo sul serio. Molto probabilmente, Elliott Erwitt non lo fa e non l’ha mai fatto. Attenzione, però: di certo ci vuole serietà, costanza, coraggio per perseguire determinati risultati, per essere. Pubblicata da Phaidon, edizione italiana dell’originario Snaps, l’attuale monografia Scatti è la testimonianza approfondita e definitiva di una intera vita dedicata alla fotografia (senza mai prendersi sul serio): una raccolta di oltre cinquecento immagini, duecento delle quali sostanzialmente inedite, che ripercorre sessant’anni di vita e lavoro di uno dei più famosi e incisivi testimoni del nostro tempo, che ha attraversato brillantemente stagioni successive del fotogiornalismo e della fotografia del e dal vero. Il consistente volume, con testi in italiano, offre e propone una incessante sequenza di immagini, ognuna con relativa didascalia identificativa (finalmente, si è capito che la didascalia è sempre indispensabile), ordinate in nove sostanziosi capitoli tematici: Leggere, Riposare, Toccare, Stare, Raccontare, Indicare, Guardare, Muoversi, Giocare (alla maniera di Dire-fare-baciare-lettera-testamento). Charles Flowers, curatore del volume e autore dei testi introduttivi ai capitoli, informa che non si tratta di un casellario di attività quotidiane, come l’ermeticità dei titoli potrebbe far supporre. Invece, e nel concreto, la suddivisione suggerisce, più che imporre, spunti per una lettura non scontata di un così vasto archivio di fotografie, che in molti casi giocano, per assonanze e/o dissonanze, con le parole e i significati più immediatamente percettibili. Il tutto è riconducibile alla esuberante personalità di Elliott Erwitt, che attraversa l’intera raccolta: efficace occasione per conoscere e approfondire un autore contemporaneo di prima grandezza. Oltre le fotografie, non si sottovaluti l’accurata e sentita introduzione di Murray Sayle, giornalista e scrittore, che ha conosciuto Elliott Erwitt nel 1977 e collaborato con lui

in una lunga sequenza di lavori giornalistici comuni. Sia Murray Sayle sia Charles Flowers raccontano piccole manie, attitudini al lavoro e aneddoti di vita del fotografo. Nato a Parigi, nel 1928, da genitori russi di origine ebraica, Elliott Erwitt (all’anagrafe Elio, omaggio del padre all’Italia, dove la famiglia ha vissuto fino alla seconda metà degli anni Trenta) ha avuto una infanzia segnata da un continuo muoversi, spostarsi di luogo in luogo, tra Italia e Francia, per approdare negli Stati Uniti, prima a New York e poi a Los Angeles (e, infine, New York è stato l’indirizzo definitivo). Arrivato alla fotografia con percorso scolastico, immediatamente seguito da un incarico presso un laboratorio di sviluppo e stampa, Elliott Erwitt ha subito e sempre distinto il lavoro per commissione dalla passione individuale, con propri stile, gusto personale e attitudine alla ricerca. Disposizione che ha sempre mantenuto viva e vivace -come racconta Murray Sayle-, portandosi immancabilmente appresso, oltre a tutta l’attrezzatura per il lavoro, la sua personale “hobby camera”, una Leica M3 [in questa pagina]: bisogna pur aiutare la fortuna nel lasciarsi baciare!

QUESTI SCATTI Il titolo della monografia è pragmatico: al pari dell’originario Snaps, l’italiano Scatti indica la caratteristica principale di Elliott Erwitt, la sua destrezza nel cogliere la felice intuizione, senza mai perdere di vista i princìpi del “fare fotografia”, in allineamento con il “momento decisivo” che Henri Cartier-Bresson ha declinato in fotografia, facendolo suo, riprendendolo da un pensiero del Cardinale de Retz: «Non vi è alcunché a questo mondo che non abbia un momento decisivo». Le regole della composizione non sono secondarie: il fotografo stabilisce cosa far entrare nell’inquadratura, e quanto ne deve essere escluso, avendo in mente la lettura e costruzione complessiva dell’immagine.

MAURIZIO REBUZZINI

IRRESISTIBILE LEGGEREZZA

Leica M3 nera di Elliott Erwitt, consumata dall’uso. Per chi sa di cosa stiamo parlando, per chi ha attenzione per i dettagli, per altri ancora (a ciascuno, il suo), segnaliamo che la Leica M3 è comprensiva di leva artigianale aggiuntiva per il riavvolgimento semplificato della pellicola esposta.

Elliott Erwitt. Scatti; a cura di Charles Flowers; Phaidon Press Limited, 2011 (www.phaidon.com); 512 pagine, 19x27cm, 49,95 euro.

Ed è appunto con la sezione Leggere che si apre la sequenza di fotografie, avviata dall’immagine che è valsa all’autore l’attenzione della celebre agenzia Magnum Photos (della quale entra a far parte nel 1954, invitato da Robert Capa, e della quale è stato per anni presidente): un afroamericano beve al lavandino riservato ai “colored”, distinto da quello per i “white”, negli Stati Uniti della segregazione, nel 1950. Nella propria lievità apparente, un’immagine forte, che racconta di un paese (per fortuna) cambiato; una fotografia / una realtà per noi difficile, assurda, incomprensibile, quasi da leggere. Lo abbiamo appena detto: a dispetto della tranquilla ironia che definisce la sua costruzione fotografica, Elliott Erwitt non è affatto un autore “leggero”. Il suo fotogiornalismo è stato intenso e pronto a cogliere momenti di rara intensità e drammatica dissonanza (una croce con accanto una gigantografia pubblicitaria della Pepsi, ironia grottesca). Letture di segni, di parole, di sguardi, oltre le lingue, oltre le differenze culturali: bambini (insieme ai cani, i suoi soggetti preferiti) che imparano a scuola, celebrità nel privato (un’ammiccante Marilyn Monroe, fotografata sul set di Gli spostati, del 1960, sul quale si sono alternati tutti o quasi i fotografi Magnum Photos).

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Monografia

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Monografia Con i suoi testi, Charles Flowers svela e rivela il processo con il quale Elliott Erwitt affronta e risolve la sua fotografia. Si presenta come osservatore distaccato, ai margini della vicenda, apparentemente passivo, ma instancabile e implacabile nel ragionamento che precede, definisce e segue il momento della fotografia realizzata. Dunque, l’ipotesi di Riposare non sembra essergli particolarmente congeniale, eppure dal riposo evocato nascono relazioni di forte impatto: come la fotografia della prima moglie con il suo primogenito accanto, struggente, a New York, nel 1953. Nella sezione Toccare, contatti fisici, visivi, reali e suggeriti, tra persone, oggetti, luoghi: per esempio, la proboscide di un elefante e una mano; ancora, Muhammad Ali e Joe Frazier, nel 1971, al Madison Square Garden, di New York, in quello che è considerato l’incontro (di boxe) del secolo.

INVIOLABILMENTE SCATTI Come evocare la generica condizione dello Stare? Con il gusto per l’ironia e l’inatteso, tanto caro a Elliott Erwitt (come lo è la passione nel collezionare ogni sorta di oggetto curioso). Luoghi immobili e stranianti, gambe umane accanto a zampe di onnipresenti cani, espressioni di attesa e momenti spiazzanti. Umanità prima di tutto, vista, rappresentata: Raccontare è attività innata per l’uomo. Il pettegolezzo è una forma di evoluzione e sopravvivenza della specie, attività così spontanea eppure a volte carica di mistero e seduzione (straordinaria potenza dell’immagine di un sacerdote confessore, con due donne in attesa, intente a raccontarsi chissà cosa, in Polonia, nel 1964). Personaggi celebri abbondano nella sezione Indicare, forse per la stessa carica aggressiva del gesto: la famosissima fotografia di Richard Nixon (ancora lontano dall’essere presidente) col dito puntato sul petto di Nikita Krusciov, a Mosca, nel 1959. Sezione particolarmente ricca di personaggi, ripetiamo: John Fitzgerald Kennedy, Michelangelo Antonioni, Henry Kissinger, Andy Warhol... e Elliott Erwitt. E frecce, segnali, riferimenti appuntiti all’altro, che siano un dito o un grattacielo svettante verso il cielo.

In un certo modo, Guardare e Muoversi distinguono l’essenza del fotografo dal resto di ciò che gli “altri” possono fare. E allora, fulminante la fotoricordo Magnum Photos (1988): fotogiornalisti con le mani sul volto, in uno sciopero ironico del loro sguardo ammirato e apprezzato! E bisogna davvero guardare con ammirazione le fotografie di Elliott Erwitt, perché si può correre il rischio di limitarsi alla loro apparenza, che trasuda di confortante “semplicità” di esecuzione. Niente affatto! Vero niente! Le fotografie di Elliott Erwitt concentrano talento, tempismo e tecnica, affinata con l’esercizio continuo che porta a capire quando e come scattare (per esempio, le straordinarie istantanee di movimenti congelati, di cagnolini sospesi a mezz’aria). Nessun dettaglio è lasciato al caso, tutto quello che rientra all’interno della composizione ne fa parte, assume un significato esatto. Muoversi come gesto innato, senza tempo, senza cultura, senza limiti. Balli sfrenati, piedi che camminano, movimenti densi di rigidità e compostezza in momenti terribili (Jacqueline Kennedy ai funerali del marito assassinato, il presidente Kennedy, nel novembre 1963). Non è un caso che la lunga se-

Da Riposare: New York, 2000.

Da Muoversi: Provenza, Francia, 1955.

quenza di immagini si concluda con la sezione Giocare, l’attività che più si addice all’autore (e non soltanto a lui): molti bambini e tanti adulti intenti a “giocare” secondo proprie regole. Già! A conclusione delle informazioni sulla sua vita, sul sito Internet di Elliott Erwitt si legge che gli piacciono i bambini e i cani (l’abbiamo appena rivelato). Forse proprio perché riescono, per l’appunto, a mostrare l’incredibile leggerezza dell’essere (all’esatto opposto, il leggendario attore Laurence Olivier si è sempre rifiutato di recitare accanto a bambini e cani, dei quali temeva le capacità interpretative...). Non si riesce a sfogliare distrattamente questa raccolta: a detta di Charles Flowers, non lo vorrebbe nemmeno Elliott Erwitt. «Il miglior modo per farlo felice visitando una sua mostra è guardare uno scatto appeso alla parete, allontanarvi, fermarvi, poi tornare indietro a accertarvi se avete veramente visto ciò che pensate di aver visto. Forse Elliott sarà nascosto dietro un pilastro a osservare la scena. Il fatto che torniate indietro, sarà per lui il massimo della gratificazione. E sospetto che lo abbiate fatto spesso mentre sfogliavate le pagine di Scatti». ❖

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Davanti a una fotografia di Andrea Villanis

C

Che la forma ritrattistica/autoritrattistica (come del resto tutta l’arte) sia un tentativo di “appropriazione” del mondo da parte dell’Uomo, l’ho sempre saputo. Ma sapere una cosa e accorgersi di una cosa sono due questioni alquanto separate tra loro. Difatti, mai il concetto di “appropriazione” come forma di cattura mi è stato così chiaro come nell’istante nel quale ho guardato per la prima volta la fotografia Alice Liddell as “The Beggar Maid” (estate 1858), di Lewis Carroll. L’indagine fotografica svolge all’ennesima potenza questa tensione, sempre cercata e mai trovata, dell’Uomo. Tutto mi appare più chiaro: il concetto di “appropriazione/cattura” o di “shoot” propugnato da Susan Sontag, così come il concetto di fotografia come “piccola morte” alla quale fa riferimento Roland Barthes... una forma di potere. Tante sono le parole spese sull’opera di Lewis Carroll, pseudonimo letterario del diacono, matematico e docente Charles Lutwidge Dodgson (Daresbury, 27 gennaio 1832 - Guildford, 14 gennaio 1898), autore di Le Avventure di Alice nel paese delle meraviglie e Attraverso lo specchio e quel che Alice vi trovò; molti hanno commentato la sua presunta pedofilia; tutti hanno supposto, affermato, dedotto... nessuno sa o potrà mai sapere se Charles Lutwidge Dodgson sia morto vergine o meno, se quella che potremmo definire una sorta di “fissazione” sui soggetti infantili e femminili, dotati di una particolare estetica, abbia avuto o meno seguito concreto. L’uomo è morto, e con lui i suoi minuziosi scritti (non tutti); le congetture sono ormai pressappoco inutili... ma il fotografo no! Nessuno di noi prova difficoltà nel constatare che qualunque fotografo o artista (essere umano, in fondo)

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ALICE LIDDELL convive con determinate “fissazioni”: è una questione insita nell’intimità di quel concetto di “appropriazione” connaturato nell’Uomo, così come la non lontana “mania” della “collezione”. Collezionare il mondo significa possederlo. Possedere è sempre un atto in certo qual modo morboso, che inerisce una forma di patologia condivisa e atta ad allontanare la fugacità dell’attimo, il suo essere estremamente effimero. Prendere qualcosa e custodirla in una bacheca (qualunque essa sia!) significa rendere qualcosa eterno, immortale e quindi immobile... l’eternità non è forse un cruccio estremamente umano? Eppure, tutto ciò che è immobile risulta sempre insufficiente, sempre così immancabilmente fermo, morto... è atto! È già stato ed è immutabile, certo carico di conseguenze, ma ciò che è non potrebbe essere in altro modo. In tutto ciò, Charles Lutwidge Dodgson è stato, mentre Lewis Carroll è un’entità lievemente diversa dal suo “portatore”... quasi l’eco di quel Signore delle Tenebre che conosciamo (in modo profondamente ironico) come Lucifero (portatore di luce). Ma colui di cui parlo è quel Lucifero descritto all’interno del racconto di Fernando Pessoa L’ora del Diavolo: «Sono proprio il Diavolo. Non si preoccupi, tuttavia, perché sono realmente il Diavolo e perciò non faccio male. Certi miei imitatori, sulla Terra e più in alto, sono pericolosi come tutti i plagiari, perché non conoscono il segreto del mio modo di essere. Shakespeare, che ho ispirato più volte, mi ha reso giustizia: ha detto che ero un cavaliere. Perciò, si senta a suo agio: in mia compagnia starà bene. Sono incapace di una parola, di un gesto che possa offendere una signora. Se non fosse nella mia natura, mi obblighe-

rebbe Shakespeare a esserlo. Ma, per l’appunto, non è mai stato necessario». Quasi non fosse mai esistita, se non nella mente di Lewis Carroll, Alice Liddell rappresenta contemporaneamente tutto questo potenziale e molto di più. Parlo di potenza, perché è un concetto insito nel corpo-bambino: “adulto in miniatura”, il bambino è tutto ciò che è in procinto di sbocciare, ma non completo, al limite dell’azione esitata, ancora da compiere e quindi ricca di vivacità e spontaneità e, nel contempo, è una vita maggiormente vicina al mondo dei morti che a quello dei vivi, in quanto appena venuta da quel Regno del quale non ricordiamo nulla e verso il quale tutti ci dirigiamo. Più di ogni altra modella (vediamola così), Alice Liddell ha rispecchiato questo nell’immaginario di Lewis Carroll... come sarebbe potuto essere altrimenti? Sguardo adulto in corpo-bambino, Lewis Carroll (e non Charles Lutwidge Dodgson) riesce a trasfigurarla e a vederne l’intima essenza. Creatura sospesa a mezz’aria, con alle spalle un muro che sembra quasi lo sfondo di una scenografia magico-bucolica. Lewis Carroll annusa e non sfiora, intuisce, plasma il suo sogno e questo può bastare... ma Charles Lutwidge Dodgson no! È creatura divina, eppure balbuziente: la massima espressione dell’esitazione del linguaggio. «Non ho mai avuto infanzia, né adolescenza, né quindi ho mai raggiunto l’età adulta. Sono la negazione assoluta, l’incarnazione del nulla. Quello che si desidera e non si può avere, quello che si sogna perché non può esistere, di questo è costituito il mio regno nullo e lì sta vacante il trono che non mi fu mai dato. Quello che avrei potuto essere, quello che avrei potuto avere, quello che la Legge o la Sorte non mi

hanno mai dato, l’ho passato all’anima umana, che si è profondamente turbata nel sentire la vita reale in ciò che non esiste. Sono l’oblio di tutti i doveri, l’esitazione di tutti i propositi. I tristi e i delusi della vita, una volta desti dall’illusione, volgono a me gli occhi, perché anch’io, a modo mio, sono la Stella Brillante del Mattino. È da tanto tempo che lo sono! Un altro mi è venuto a sostituire» (ancora da L’ora del Diavolo, di Fernando Pessoa). Genio esitante, matematico, che necessita di comprensione, fotografo per fermare, per capire, per comprendere, per com-prendere, Charles Lutwidge Dodgson cerca di afferrare non la materia, ma la sua essenza. «In quest’atmosfera in cui la carne si corrompe, in cui i corpi si disfano per l’umidità, in cui tutto marcisce; in questa atmosfera che, per eccesso di vita, affretta la morte, mi sono aggrappato a esseri immateriali, a entità che né il caldo soffocante né l’umidità potevano corrompere. [...] Per resistere a quel delirio di materie destinate a perire, mi sono immerso nella purezza immobile del cristallo» (Denis Guedj, Il teorema del pappagallo). La bellezza, l’estetica perfetta, incorrotta e incorruttibile, da fermare ed eternare in un luogo che non sarà quello del diacono d’epoca vittoriana Charles Lutwidge Dodgson, ma il non-luogo della produzione letteraria e fotografica di Lewis Carroll. ❖ Ricordiamo che Lewis Carroll ha scritto anche racconti a sfondo fotografico: Fotografia straordinaria (1855), Hiawatha fotografo (1857), La scampagnata di un fotografo (1860) e La leggenda di Scozia (pubblicato postumo, nel 1899), tutti riportati in due volumi successivi dell’editore Abscondita, di Milano (una prima volta, in Lewis Carroll. Sulla fotografia, del 2007; quindi, nella monografia Lewis Carroll. Fotografo, del 2009).


Davanti a una fotografia

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Cinema

di Maurizio Rebuzzini - Ricerca iconografica di Filippo Rebuzzini

S

TRA LE MANI

Subito una confessione, d’obbligo. Non sono particolarmente benevolo con il cinema italiano, nel quale riscontro molto provincialismo e poca consistenza. Da una parte, per propria logica e natura, il cinema avrebbe l’obbligo di essere spettacolo; da un’altra, ben vengano (eccome!) valori aggiunti che si insinuano nel cuore e nella mente degli spettatori. Ma, comunque, il cinema, come ogni forma di comunicazione, non necessariamente soltanto visiva, avrebbe regole ed equilibri da rispettare. Così, quando mi capita di girare per canali televisivi (raramente, per il vero: e sono fatti soltanto miei), capisco subito, non soltanto presto, di essermi imbattuto in una produzione italiana, soprattutto televisiva: lo rivela l’assoluta mancanza di “luce” (mentre le produzioni altre, avanti a tutte quelle statunitensi, fanno tesoro della luce), e poi, in immediato subordine, lo svela l’incapacità recitativa di coloro i quali nel nostro paese sono immeritatamente elevati a rango di attori. Nessun preconcetto, sia chiaro, ma gli attori di scuola statunitense sono ben altro: e rilevarlo mi costa tanto, tanto, tanto, tanto dolore. In ogni ruolo recitino, sono sempre credibili; l’unico caso italiano positivo che mi viene in mente è quello di Gian Maria Volonté, che è stato capace di passare dalla commedia all’impegno civile e politico, al film western, addirittura! Ma non è questo: caratterizzazioni a parte, alcune persino odiose e spocchiose (tante ce ne sono nelle serie televisive statunitensi, anche in quelle di maggior successo commerciale), nei film e telefilm statunitensi sono credibili tutti quelli che compaiono nella sceneggiatura, anche per pochi istanti (per esempio, i baristi, le lavandaie, i giornalai interrogati dai detective della polizia per una manciata di secondi).

SCENOGRAFIA A questo punto, entrando nello specifico della materia fotografica, che costituisce il nostro argomento unico, è giocoforza richiamare anche le attente scenografie di certa cinematogra-

fia, ribadisco estranea e lontana dalla nostra italiana. Soprattutto, ma forse anche soltanto, ci preme annotare come vengono impugnate le macchine fotografiche dagli attori chiamati a interpretare personaggi mirati. In linea di massima, nei film italiani, le macchine fotografiche vengono impugnate in maniera curiosa, se non già grottesca, tanto lontana dal vero. E anche questa verosimiglianza fa la differenza di qualità del film/telefilm (oggi: serie televisive), ovverosia della loro credibilità, pur nel delicato territorio della raffigurazione cinematografica: che è finzione pura e assoluta. È cinema, non vita: ma un allineamento, quantomeno visivo, quantomeno plausibile, non fa di certo male. In genere, il fotografo dei film italiani impugna la reflex portata all’altezza dell’occhio con braccia allargate in esterno; se va bene, regola la messa a fuoco tenendo immancabilmente la mano sopra l’obiettivo; insomma, i suoi gesti sono casuali ed estranei a qualsivoglia plausibilità! Altrove, no. Altrove, la credibilità interpretativa si delinea anche nella sincerità del gesto professionale, che per quanto ci interessa direttamente riguarda la macchina fotografica. Da qui, una concentrata e quantitativamente limitata serie di segnalazioni assolutamente personali: non un casellario, ma soltanto rilevazioni individuali, per annotare ciò che più ci piace, più ci è piaciuto (dunque, invitiamo chi di dovere ad astenersi dal ricordarci qualche dimenticanza: non si tratta di questo -dimenticanza, né omissione-, ma proprio di segnalazioni assolutamente private, riprese e recuperate da un bagaglio di conoscenze a dir poco enciclopedico; punto, e basta).

Harvey Keitel (Augustus “Auggie” Wren), in Smoke, di Waine Wang, del 1995. Candice Bergen (Margaret Bourke-White), in Gandhi, di Richard Attenborough, del 1982. Ned Eisenberg (Joe Rosenthal), in Flags of Our Fathers, di Clint Eastwood, del 2006.

Joe Pesci (Bernzy / Leon Bernstein, o Grande Bernzini [diciamo Weegee]), in Occhio indiscreto, di Howard Franklin, del 1992.

CIÒ CHE CI PIACE Passerella d’onore per Harvey Keitel, l’ammaliante tabaccaio Augustus “Auggie” Wren di Smoke, di Waine Wang, del 1995. Immancabilmente, alle otto di ogni mattina, fissa sul treppiedi la sua Canon AE-1 (ottenuta in modo fraudolento; Il racconto di Na-

Dawn Addams (Ann Kay), in Un re a New York, di Charles Chaplin, del 1957.

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Cinema Robin Williams (Seymour “Sy” Parrish), in One Hour Photo, di Mark Romanek, del 2002.

Nicole Kidman (Diane Arbus), in Fur. Un ritratto immaginario di Diane Arbus, di Steven Shainberg, del 2006.

Sheryl Lee (Astrid Kirchherr), in Backbeat Tutti hanno bisogno di amore, di Iain Softley, del 1994.

Sam Waterston (Sydney Schanberg), in Urla del silenzio, di Roland Joffé, del 1984.

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tale di Auggie Wren, di Paul Auster, in FOTOgraphia del maggio 2010), per fotografare ogni giorno l’angolo tra la Terza Strada e la Settima Avenue, di Brooklyn, dove si aprono le vetrine della sua tabaccheria (The Brooklyn Cigar Co), epicentro della sceneggiatura del film e di un mondo di riflessioni e considerazioni [a pagina 31]: da non perdere. Flessibile tra le dita, occhio all’orologio, Auggie Wren scatta alle otto in punto di ogni santo giorno: «Sai com’è: domani e domani e domani, il tempo scorre a piccoli passi». Tre Speed Graphic accompagnano altrettanti tre fotografi in trasposizioni realistiche: Margaret Bourke-White, interpretata da Candice Bergen, nella biografia Gandhi, del regista Richard Attenborough, del 1982; Joe Rosenthal, con il volto dell’attore Ned Eisenberg (perfettamente somigliante), nell’entusiasmante Flags of Our Fathers, di Clint Eastwood, del 2006; Weegee (non proprio lui, ma l’ispirazione è palese, oltre che ufficializzata), nei panni di Bernzy (Leon Bernstein, o Grande Bernzini), interpretato da un convincente Joe Pesci, in Occhio indiscreto, di Howard Franklin, del 1992. Tre Speed Graphic perfettamente impugnate: e vi assicuriamo che non è facile scattare in 4x5 pollici a mano libera; bisogna saperlo fare. Lo hanno saputo fare i fotogiornalisti e fotocronisti statunitensi dei decenni a cavallo di metà Novecento; lo hanno saputo interpretare i tre bravi attori appena menzionati [a pagina 31]. E poi, a margine e per completare, ricordo anche e ancora la Speed Graphic su treppiedi con la quale Dawn Addams, nei panni di Ann Kay, fotografa Charles Chaplin (King Shahdov), in Un re a New York, del 1957, diretto dallo stesso Charles Chaplin. Niente male, ma, oggettivamente, solo coreografia e nulla di più, né diverso [ancora, a pagina 31]. Macchine fotografiche a parte, tanto per un intervallo di tutto respiro, come non evocare Robin Williams, nei panni del paranoico Seymour “Sy” Parrish, addetto a un minilab presso un lindo centro commerciale della grande provincia statunitense, in One Hour Photo, di Mark Romanek, del 2002? Guanti bianchi di protezione (che raramente incontriamo nel laboratori di sviluppo e stampa che conosciamo), quando osserva un negativo colore

per trasparenza compie un gesto che ha del mirabile [a sinistra]. Occhio attento, mente concentrata e pertinente valutazione delle densità, da trasferire ai parametri colorimetrici della stampante: dalla finzione, avremmo voluto assistere nella realtà a tanto scrupolo (ma è cinema, bellezza, e non possiamo farci niente).

ROLLEIFLEX Quando chiedemmo al compianto Guido Crepax, mancato nell’estate 2003, perché la sua Valentina fotografa con una biottica, alternata tra Rolleiflex certificata e Polly Max di fantasia, la risposta fu esemplare: «Era la più bella da disegnare, tutto lì. Aveva belle forme e poi era bella da tenere tra le mani; se si potesse dirlo, era fotogenica. Poi, mi piaceva anche perché lasciava libero il viso, mentre altre macchine fotografiche si debbono portare all’altezza dell’occhio. La Polly Max e la Rolleiflex sono state congeniali alle esigenze del disegno» [FOTOgraphia, settembre 2003]. Già, la Rolleiflex è fotogenica, ma anche cinegenica. A parte richiami alla realtà, che possono essere considerati d’obbligo, altre biottica sono state adeguatamente sceneggiate. Anzitutto, in allungo sulle presunte biografie, è inevitabile il richiamo alla Rolleiflex con flash usata da Nicole Kidman, nei panni di Diane Arbus: in Fur. Un ritratto immaginario di Diane Arbus, di Steven Shainberg, del 2006. Oltre il banco ottico Sinar Norma, utilizzato in sala di posa, in tempi antecedenti la propria strada espressiva, e Hasselblad e Leica d’obbligo, proprio la Rolleiflex biottica accompagna le escursioni di Diane Arbus / Nicole Kidman nella ricerca della propria personalità fotografica [a sinistra]. Ancora è biottica, questa volta in versione Rolleicord, per Sheryl Lee, nei panni di Astrid Kirchherr, fotografa ad Amburgo, legata alla preistoria dei Beatles: come evoca con commovente lievità il cinematografico Backbeat - Tutti hanno bisogno di amore, di Iain Softley, del 1994 (FOTOgraphia, dicembre 2008). La fotogenia è analoga, e il periodo storico rispettato: all’inizio degli anni Sessanta, la fotografia 6x6cm ha vissuto l’apice della propria straordinaria stagione originaria, via via evocata e richiamata nei decenni a seguire... ma l’impulso originario è tutt’altra


Cinema vicenda e questione della fotografia moderna [pagina accanto]. Curiosamente, un’altra Rolleiflex, assolutamente insospettabile e non certo a proprio agio, compare nelle scene finali di Urla del silenzio, di Roland Joffé, del 1984 [ancora, pagina accanto], quando il giornalista newyorkese Sydney Schanberg, interpretato da Sam Waterston, torna in Cambogia, per salvare Dith Pran (sulle schermo, Haing S. Ngor), portandolo con sé negli Stati Uniti. Ricordiamolo: mancato il 30 marzo 2008, Dith Pran è il fotogiornalista alle cui immagini si devono le testimonianze più importanti del genocidio perpetrato dai Khmer Rossi in Cambogia, che nel periodo della dittatura di Pol Pot trasformò il paese in un obitorio: dal 1976 al 1979 sono stati sterminati almeno due milioni di cittadini inermi, che prima dell’esecuzione venivano fotografati dalla maniera della fototessera di identificazione, davanti a un improvvisato fondo bianco (FOTOgraphia, settembre 2007).

UN POCO D’ITALIA No, non riesco proprio a ignorare qualcosa di italiano. Nonostante tutto... mi limito a due apparecchi fotografici in legno, del passato remoto: da Amarcord, di Federico Fellini, del 1973, e Miseria e nobiltà, di Mario Mattoli, del 1954, dall’omonima commedia di Eduardo Scarpetta. In Amarcord, l’anonimo fotografo fa capolino in due occasioni: quando scatta l’immancabile fotografia di gruppo scolastico, nel cortile dell’istituto (delizioso il dialogo con una maestra che si schernisce, perché non viene bene in fotografia) [a destra]; e poi sulla spiaggia, sempre per una fotografia di gruppo, in gita. Quindi, della vicenda nella quale, in Miseria e nobiltà, lo scrivano Don Felice Sciosciammocca (Totò) si sostituisce al fotografo Don Pasquale (Enzo Turco), assentatosi momentaneamente dalla propria postazione [ancora, a destra], abbiamo ampiamente riferito nel nostro numero del settembre 2008. Non serve ripetizione. Però, è opportuno ricordare altri attraversamenti fotografici di Totò. In Che fine ha fatto Totò baby?, di Ottavio Alessi, del 1964, uno dei film girati per sfruttare il richiamo esplicito all’attore, in un momento di suo alto

gradimento popolare, Totò enuncia quella che pomposamente presenta come la «Prima regola del manuale del delinquente: farsi fotografare solo per la foto segnaletica. Foto fatta capo ha». Dal testo al contesto, è evidente il gioco di parole, elaborato su un modo di dire a tutti noto (appunto, “frase fatta capo ha”). Così, la sua trasformazione fotografica ci è gratificante, nel senso che la fotografia abbandona per un istante i lustrini del proprio dibattito culturale (spesso arido), per esprimere un significato fondamentale universalmente riconoscibile. Addirittura, facendone proverbio, sottintendiamo un princìpio didattico e morale di norma, avvertimento, consiglio o massima dettato dall’esperienza (come appare nel contesto del film). A seguire, citiamo un momento fotografico di Totò che fa capolino in Totò, Vittorio e la dottoressa, di Camillo Mastrocinque, del 1957. Nel corso di un pedinamento, due improvvisati investigatori privati, Michele Spillone detto Mike (Totò) e Gennaro detto Johnny (Agostino Salvietti), fanno uso di una attrezzatura fotografica opportunamente camuffata: la macchina a soffietto sotto il cappello di Totò, il flash sotto quello del compare [a destra]. Totò e Sophia Loren (anche nel cast di Miseria e nobiltà) sono quindi i protagonisti dell’episodio La macchina fotografica, il nono di Tempi nostri - Zibaldone n. 2, di Alessandro Blasetti, del 1954, che conclude il film, l’unico sceneggiato da Age e Scarpelli. Con la scusa di fotografarla, nei panni del bellimbusto Dionillo, Totò cerca di accedere alle grazie della prorompente Sophia Loren, dopo aver vinto una biottica Rolleiflex in un gioco a estrazione (beato lui!). È ovvio: viene derubato in un momento di distrazione. Ancora Italia, e poi basta, la chiudiamo qui, per l’epocale La dolce vita, di Federico Fellini, del 1960, dal quale, tra tanto altro, parte il neologismo di “Paparazzo”, dal cognome del fotografo che attraversa la sceneggiatura del film (nell’interpretazione di Walter Santesso). Subito, e soltanto, liquidiamo la nota scena dell’arrivo di Sylvia (Anita Ekberg) all’aeroporto, con i fotocronisti attorno la scaletta dell’aereo [qui accanto]: tante Rolleiflex, qualche Speed Graphic, ma, soprattutto, una Exakta... con tappo sull’obiettivo. ❖

Amarcord, di Federico Fellini, del 1973.

Totò (Don Felice Sciosciammocca), in Miseria e nobiltà, di Mario Mattoli, del 1954.

Totò (Michele Spillone, detto Mike) e Agostino Salvietti (Gennaro, detto Johnny), in Totò, Vittorio e la dottoressa, di Camillo Mastrocinque, del 1957.

La dolce vita, di Federico Fellini, del 1960.

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GUARDA C


CHE LUNA! Incontro con Edoardo Romagnoli, fotografo proiettato nel mondo e mercato dell’arte. A partire dalle sue particolari interpretazioni della Luna (con Giacomo Leopardi, Che fai tu, luna, in ciel? dimmi, che fai, / Silenziosa luna? ), fino ai progetti in essere e divenire. Ma protagonista è qui la Luna, raffigurata in visioni a dir poco coinvolgenti e ammalianti. Non è una questione di forma (raffigurazione), ma di contenuti (rappresentazione). Emozione e commozione. Turbamento e apprensione. Tenerezza. Coinvolgimento. Implicazione

di Lello Piazza


«Gli Autoriscatti sono realizzati di notte, nel buio assoluto, con apparecchio fotografico su treppiedi, otturatore aperto: io recito davanti all’obiettivo, facendomi individuare dalla macchina fotografica grazie a una torcia elettrica che accendo e spengo».

«Nelle fotografie più recenti, faccio colloquiare la Luna con le stelle, o, detto meglio, con un altro corpo celeste, Venere, che a occhio nudo sembra una stella. E anche qui riproduco gli stessi movimenti della Luna».

(doppia pagina precedente) «Un’altra sollecitazione che mi è servita per arrivare al segno della Luna riguarda le mie esperienze di viaggio. Durante i mesi che ho passato nel Sahara e nelle lande dell’Europa del Nord e dell’Alaska, ho scoperto il cielo notturno in assenza di inquinamento luminoso, che è ancora più affascinante e più bello di una giornata di sole. Il cielo notturno presenta pochi elementi, altri li lascia immaginare e dà molto spazio alle proprie fantasticherie. Dunque, ho cominciato a fotografare la Luna».

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hissà se, più di un milione di anni fa, l’Homo abilis riusciva già a formulare una specie di “Guarda che Luna!”, quando scendeva la notte sulle savane dell’Africa dove viveva? Chissà perché i popoli nomadi dell’inizio della Storia ritenevano che la Luna morisse ogni notte? Chissà perché Saffo cita l’astro nella sua celeberrima poesia, fusione di versi sparsi messi insieme in epoca tarda: Tramontata è la luna / e le Pleiadi a mezzo della notte; / anche giovinezza già dilegua, / e ora nel mio letto resto sola. / Scuote l’anima mia Eros, / come vento sul monte / che irrompe entro le querce; / e scioglie le membra e le agita, / dolce amara indomabile belva. / Ma a me non ape, non miele; / e soffro e desidero. E chissà perché, prima che Galileo desse un’occhiatina con il suo telescopio, scoprendo montagne e vallate, per secoli, tutti avessero continuato a credere che la Luna fosse liscia come una perla, perché lo sosteneva Aristotele. Insomma, non c’è epoca storica nella quale la Luna non abbia giocato un ruolo fondamentale per l’Uomo. Ed ecco Rumi, il poeta sufi che nel Milleduecento scrive: Io sono la Luna, / dappertutto e in nessun luogo. / Non cercarmi al di fuori; / abito nella tua stessa vita. / Ognuno ti chiama verso di sé; / io ti invito solo dentro te stesso. / La poesia è la barca / e il suo significato è il mare. / Vieni a bordo, subito! / Lascia che io conduca questa barca! Anche ai giorni nostri, la più grande impresa mai realizzata dall’Uomo è stata la conquista della Luna. E i poeti, sotto ogni cielo, vedono la Luna. Da Leopardi: O graziosa luna, io mi rammento / che, or volge l’anno, sovra questo colle / io venia pien d’angoscia a rimirarti: / e tu pendevi allor su quella selva / siccome or fai, che tutta la rischiari. / Ma nebuloso e tremulo dal pianto / che mi sorgea sul ciglio, alle mie luci / il tuo volto apparia, che travagliosa / era mia vita: ed è, né cangia stile, / o mia dilet-

ta luna. E pur mi giova / la ricordanza, e il noverar l’etate / del mio dolore. Oh come grato occorre / nel tempo giovanil, quando ancor lungo / la speme e breve ha la memoria il corso / il rimembrar delle passate cose, / ancor che triste, e che l’affanno duri! A Neruda: Luna della città / mi sembri / stanca, / più stanca / più triste / più ricolma di fumo. / D’un tratto / arrivo / vicino al mare / e un’altra luna / mi sembri: / bianca, / bagnata e fresca, / giovane / come una perla. Ad Alda Merini: La luna geme sui fondali del mare, / o Dio quanta morta paura / di queste siepi terrene, / o quanti sguardi attoniti / che salgono dal buio / a ghermirti nell’anima ferita. / La luna grava su tutto il nostro io / e anche quando sei prossima alla fine / senti odore di luna / sempre sui cespugli martoriati / dai mantici / dalle parodie del destino. / Io sono nata zingara, non ho posto fisso nel mondo, / ma forse al chiaro di luna / mi fermerò il tuo momento, / quanto basti per darti / un unico bacio d’amore. In ogni epoca, la letteratura ha avuto il suo linguaggio, il suo sentimento, la sua filosofia. Così è capitato per l’ultima giovane musa che, come le sue più antiche sorelle, ha il compito di deliziarci, come una geisha celeste: la fotografia. Nel riquadro che pubblichiamo a pagina 40 si vede la prima (forse) fotografia mai scattata alla Luna, poi un suo ritratto scientifico, poi una sua radiografia, poi la Luna di Ansel Adams, come l’hanno vista gli astronauti, poi l’uomo con la sua automobilina sul suolo lunare, per finire con uno scatto con il telefonino di Alessandro Alcibiade. Ma nessuno finora, proprio nessuno, aveva fotografato la Luna come Edoardo Romagnoli. La sua è stata un’idea strabiliante, che nega le leggi di Keplero, secondo le quali i pianeti si muovono nello spazio seguendo orbite ellittiche. La Luna di Edoardo Romagnoli è danzante, come la stella del Zarathustra di Nietzsche. Ma la sua idea non nega solo le leggi dell’astronomia: persino quelle della fotografia, che, per fotografare l’astro nel buio della notte, richiederebbero un treppiedi. Com’è che ti sei messo a fotografare la Luna? Con questo stile? «Parto da lontano; dal 1969, quando tutti abbiamo assistito alla discesa dell’Uomo sulla Luna. È l’immagine più forte che mi porto dentro, assieme a quelle dell’assassinio del presidente John Kennedy e del crollo delle Twin Towers. «Poi, c’è l’attrazione che provo per il segno grafico, che mi ha portato all’amicizia con Giulio Confalonieri [noto designer]. Sono sempre stato stimolato a ottenere il risultato togliendo invece che aggiungendo: solo così si raggiunge la purezza del segno. «Un’altra sollecitazione che mi è servita per arrivare al segno della Luna riguarda le mie esperienze di viaggio. Durante i mesi che ho passato nel Sahara e nelle lande dell’Europa del Nord e dell’Alaska, ho scoperto il cielo notturno in assenza di inquinamento luminoso, che è ancora più affascinante e più bello di una giornata di sole. Il cielo nottur-



«Sono il risultato di una ricerca che conduco in parallelo. Non penso che il bianconero sia più importante del colore: viaggiano uno a fianco dell’altro. Per esempio, questo è il tentativo di far vivere la Luna sullo sfondo di un territorio che potrebbe essere acqua, Marte o simil-Marte, o roccia, o addirittura fuoco. Mi piace il risultato».

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no presenta pochi elementi, altri li lascia immaginare e dà molto spazio alle proprie fantasticherie. «Dunque, ho cominciato a fotografare la Luna, i primi scatti dal terrazzo del mio appartamento, a Milano, alla ricerca di un segno con cui rappresentarla, di un’astrazione con cui renderla». Anch’io amo la Luna e ho cercato di fotografarla, anzi, l’ho fotografata. Ma utilizzando un teleobiettivo più lungo possibile, perfino un telescopio, stabile su un treppiedi, in modo da catturare i suoi crateri e i suoi “mari”... Come sei passato dal desiderio di fotografare la Luna al fatto di fotografarla con un medio tele e a mano libera, per cui negli scatti la Luna risulta mossa, e lascia solo una sorta di ombra luminosa? «Perché sono un poco Giamburrasca, un ragazzo dispettoso, voglio dire. E un dispetto è realizzare fotografie volontariamente mosse; per contrasto, se facessi cinema, realizzerei immagini ferme. «Perché no? Muoviamola questa macchina fotografica! «Questo stile, questa tecnica mi permette di entrare in totale intimità con la Luna. Mi sembra di andare a prenderla per mano, con la macchina fotografica, e portarmela a spasso. Penso che così ci divertiamo entrambi». A sentirti, mi sembri il Qfwfq delle Cosmicomiche di Italo Calvino, che parla della Luna come se fosse sempre a portata di mano. «Sì, certo. Si ha l’impressione di toccarla e agganciarla per le corna portandola a noi, ma poi... rimane irraggiungibile». E dunque? «Dunque, c’è il movimento. Questo mi dà la sensazione che stiamo facendo qualcosa insieme, noi due: io e la Luna, intendo. «La Luna è stata al centro delle fantasie di grandi uomini, scienziati e poeti, ma forse, così come appare nelle mie fotografie, è solo per me». Come è noto, i fotografi, dipendono dalla tecnologia: per questo genere di fotografia, ti trovi meglio con apparecchi digitali? «Ho vissuto un momento di crisi quando c’è stato il passaggio dall’analogico al digitale, perché i primi apparecchi digitali non permettevano una qualità decente. Per contro, con il digitale ho potuto controllare subito quello che stavo facendo, e questo ha rappresentato un grande vantaggio. Infatti, con la mia tecnica, con il mio modo di fotografare la Luna, si sbaglia molto. Penso a un movimento al quale assoggettare l’astro, ma non mi è facile muovere le mani in modo che la Luna disegni effettivamente il segno che ho in mente. Non sempre, il segno che lascia la Luna viene come me lo ero immaginato. «Potendo verificare subito il risultato, valuto immediatamente se quello che ho ottenuto è quel che avevo in mente o se devo ripetere lo scatto. Non devo più aspettare lo sviluppo della pellicola, perdendo il flusso creativo. «All’inizio della tecnologia digitale, questo vantaggio era vanificato dalla scarsa qualità. Con le re-

flex attuali, che sono anche full frame, c’è la qualità e ci sono i vantaggi. «Con l’acquisizione digitale sono anche riuscito a far apparire, accanto la parte illuminata della Luna, la sua parte in ombra, che sulla pellicola spariva e si confondeva con il nero della notte. Il digitale legge bene nel buio. E questo risultato è una libidine, perché si fotografa quello che si vede, ma anche quello che non si vede. «Insomma, oggi è infinitamente meglio di ieri». Ho visto anche fotografie a colori... «Sono il risultato di una ricerca che conduco in parallelo. Non penso che il bianconero sia più importante del colore: viaggiano uno a fianco dell’altro. Per esempio, quello che vediamo qui [sopra] è il tentativo di far vivere la Luna sullo sfondo di un territorio che potrebbe essere acqua, Marte o simil-Marte, o roccia, o addirittura fuoco. Mi piace il risultato». Intervieni in postproduzione? «Nelle fotografie della Luna non c’è mai postproduzione. Le mie fotografie sono “lavorate” esclusivamente in fase di scatto». (continua a pagina 42)


«La Luna rappresenta tante idee nella mia testa. Una l’ho realizzata alla Biennale di Alessandria 2011, allestita in una vecchia caserma diroccata che si propone in un affascinante contrasto con le opere di arte moderna esposte. Per questa mostra, ho abbinato una stampa di grandi dimensioni [225x150cm], che è stata disposta al centro di una stanza. Di fronte, per terra, un’immagine ottenuta come per riflessione dalla prima, stampata su pvc [370x150cm]. Passandoci sopra, il visitatore ha potuto immaginarsi di camminare sulla superficie lunare... lasciando impronte proprio come Neil Armstrong».

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«Ancora, mi è piaciuto riprendere la Luna all’alba, alle cinque e mezza - sei del mattino, quando sta per sparire. La notte finisce e si comincia a intravedere il paesaggio. Striscio la Luna, e il paesaggio appare leggero ed evanescente, come in certe pitture giapponesi».

(dall’alto e da sinistra) Quella che è considerata la prima fotografia scattata alla Luna, ritrovata in una libreria di New York, alla fine degli anni Ottanta: dagherrotipo del 1840, di John William Draper, professore di chimica. Ricostruzione scientifica della Luna. La Luna ai raggi-X, ripresa dall’Osservatorio astronomico orbitante Rosat, il 29 giugno 1990. Moonrise, Hernandez, New Mexico (1948), di Ansel Adams.

La Luna, sul profilo della Terra, fotografata dalla missione Space Shuttle Columbia, il cui equipaggio è morto al rientro nell’atmosfera, per un’avaria tecnica, il Primo febbraio 2003. Sesta e ultima missione spaziale sulla Luna: gli astronauti Harrison “Jack” Schmitt e Eugene Cerman, di Apollo 17, si muovono sulla superficie con il modulo lunare. La Luna fotografata con il telefonino, da Alessandro Alcibiade.

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DOVE NASCE IL TALENTO?

C’è chi identifica il proprio carattere, visione del mondo, preferenze culturali, in un duro lavoro di rifiuto dei condizionamenti e insegnamenti dell’eredità familiare. C’è chi, invece, va alla ricerca delle proprie radici, richiamando padri, madri, zii, nonni e bisnonni. Personalmente, crediamo che ognuno abbia la propria strada e che questa sia il risultato, diversamente bilanciato per ciascuno di noi, di ribellione alla famiglia, di conquista personale e anche di un poco di fortuna e Caso (maiuscola volontaria e consapevole). Ma è certo che quando nella propria famiglia ci sono talenti rilevanti, è difficile non convincersi che una parte delle proprie doti sia stata trasmessa attraverso la misteriosa azione dei geni. Da cui, accompagniamo la presentazione di Edoardo Romagnoli con uno schema sintetico del suo albero genealogico, per il quale siamo stati ispirati da quell’enorme monumento funebre, il Civico Mausoleo Palanti, che ospita, nel Cimitero Monumentale di Milano, parte dei suoi avi, oltre a Hermann Einstein, padre del celebre fisico Albert Einstein, a Luigi Berlusconi, padre del premier Silvio, al noto impresario teatrale Paolo Grassi e agli attori Franco Parenti e Walter Chiari, sepolto con il suo vero cognome di Annicchiarico. Tornando a Edoardo Romagnoli, apparentemente i geni artistici sembrerebbero provenire dal ramo Palanti, a partire dal bisnonno Giovanni, ebanista in Milano (1850?-1920). Giovanni riposa con la moglie, Virginia De Gaspari (1850?-1906), nel Mausoleo al Cimitero Monumentale, progettato dal figlio Mario. Mario Palanti (1885-1979) ha svolto la sua carriera di architetto in Sud America. Sono suoi i progetti di importanti palazzi a Buenos Aires e Montevideo. Suo fratello Giuseppe Palanti (1881-1946) è l’artista Il Civico Mausoleo Palanti, al Cimitero Monumentale più importante della famiglia. di Milano, che, oltre ai componenti della famiglia, Docente di Composizione presso ospita personaggi illustri della città. l’Accademia di Brera, è il nonno di Edoardo Romagnoli: «Sono molto legato a mio nonno, per i racconti di mia mamma e per i dipinti meravigliosi che ci ha lasciato». Giuseppe sposa Ada Romussi, figlia di Carlo Romussi, deputato e direttore di Il Secolo, importante quotidiano milanese, il giornale più venduto nei decenni a cavallo del Novecento. Dal matrimonio nascono due figli, Giancarlo e Maria Virginia. Giancarlo (1906-1977) è stato un architetto razionalista, socio di Franco Albini e Renato Camus. Il suo studio di via Panizza 4, a Milano, è quello dove lavora Edoardo Romagnoli. Maria Virginia (1910-1974), mamma di Edoardo, è stata una pittrice che si è dedicata alla natura morta, fiori e paesaggi. Dal suo matrimonio con Pier Carlo Romagnoli (1914-2009), una delle figure più rappresentative del settore assicurativo italiano e internazionale, oltre a Edoardo, fotografo, sono nati Un’opera pittorica di Giuseppe Palanti (1881-1946), nonno del fotografo Edoardo Romagnoli. Paola e Luciana.

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(continua da pagina 38) Puoi descrivere nei dettagli la tua tecnica? «Come diceva Giulio Confalonieri, “regala l’emozione e mantieni il suo segreto”». Progetti e pensi i tuoi grafismi, o semplicemente ti lasci guidare dall’intuito? Ci pensi, ci dormi sopra? «Ci dormo e ci sto sveglio. «Per esempio, l’altro giorno, tornando dall’Idroscalo, ho visto che ci sono delle vecchie strutture industriali dalle quali hanno staccato le pareti. Adesso, è rimasto solo lo scheletro. Subito, ho pensato di far viaggiare la Luna attraverso quelle strutture. Tornerò lì di sicuro, fisserò una scala sul portapacchi della mia auto e a questo punto sarò a circa sei metri d’altezza [mi viene in mente Ansel Adams, sul tetto della sua De Soto]. Aspetto una notte tersa, che purtroppo è più frequente d’inverno, e mi piazzerò davanti alle strutture, pronto a far viaggiare la Luna all’interno dell’edificio svuotato. Questo è un desiderio, non so se è un progetto. Per me, sarà come portare fuori una donna a ballare. «Nelle fotografie più recenti, come quelle che ho portato al Mia [prima fiera-mercato della fotografia, organizzata da Fabio Castelli, a Milano, lo scorso maggio], faccio colloquiare la Luna con le stelle, o, detto meglio, con un altro corpo celeste, Venere, che a occhio nudo sembra una stella. E anche qui riproduco gli stessi movimenti della Luna [a pagina 37]. «Ancora, mi è piaciuto riprendere la Luna all’alba, alle cinque e mezza - sei del mattino, quando sta per sparire. La notte finisce e si comincia a intravedere il paesaggio. Striscio la Luna, e il paesaggio appare leggero ed evanescente, come in certe pitture giapponesi [a pagina 40]». Sulla Luna hai altro da dire? «La Luna rappresenta tante idee nella mia testa. «Ti parlo di una di queste, che ho realizzato alla Biennale di Alessandria 2011, allestita in una vecchia caserma diroccata che si propone in un affascinante contrasto con le opere di arte moderna esposte. Per questa mostra, ho abbinato una stampa di grandi dimensioni che avevo già portato al MiArt l’anno scorso [225x150cm], che è stata disposta al centro di una stanza. Di fronte, per terra, un’immagine ottenuta come per riflessione dalla prima, stampata su pvc [370x150cm]. Passandoci sopra, il visitatore ha potuto immaginarsi di camminare sulla superficie lunare [a pagina 39]. «Il giorno successivo all’inaugurazione, ho sollecitato Sabrina Raffaghello, curatrice della Biennale, e il sindaco di Alessandria, Piercarlo Fabbio: “chiudiamo gli occhi e mettiamoci a camminare su questo pezzo di Luna qui per terra, camminiamo lentamente, immaginandoci di essere più leggeri, su un terreno soffice, immaginiamo che il nostro passo sia incerto...”. Conclusa la passeggiata, siamo tornati sulla Terra e, guardando alle nostre spalle la fotografia in pvc, ci siamo resi conto di aver lasciato impronte proprio come Neil Armstrong. Questa idea di camminare sulla Luna avrà certamente seguito».


Hai un gallerista? «Sì, Bruno Grossetti (www.grossettiart.it). Suo papà trattava Lucio Fontana, Piero Manzoni e l’avanguardia italiana degli anni Sessanta. «Quello che mi interessa, è che sia un gallerista di arte contemporanea più che di fotografia, e che il mio lavoro venga distribuito da una galleria d’arte e non da una galleria di sola fotografia, perché la mia non è solo fotografia». Grossetti rappresenta altri fotografi? «Oltre a me, rappresenta Rossella Bellusci, Michael Wesely, Giulio Cassanelli e Tancredi Mangano, artisti-fotografi che si avvicinano alla pittura informale e all’espressionismo astratto». E oltre la Luna? «C’è tutta una serie di progetti molto diversi uno dall’altro. Uno è legato alla natura, ai fiori, all’albero. Si tratta di lavori che hanno le proprie radici nelle mie prime esperienze di reportage di viaggio degli anni Settanta e Ottanta, ma si indirizzano verso la creazione artistica. «Adesso, sto lavorando a una serie che chiamo Duplex: realizzo un’immagine di un certo soggetto e a questa aggiungo un’immagine mossa ricavata da un’altra serie di scatti [qui a destra]». Tutto sempre in fase di ripresa? «No, questi lavori si chiamano Duplex proprio perché le immagini vengono assemblate dopo la ripresa. Un’immagine fissa fa da base; poi individuo quale delle immagini mosse si adatta meglio, ai fini di ottenere il risultato estetico più emozionante. «Su questo filone, ho in preparazione tutto un lavoro che ho svolto a Orticola 2011 [mostra mercato di fiori e piante]. «Poi, c’è il ritratto, che mi attira e intimorisce. Mi è più congeniale l’autoritratto, intorno al quale è in itinere un lavoro interiore che è iniziato nel 1999. Una serie di autoritratti, gli Autoriscatti, è stata presentata al Festival di Ravello, nel luglio 2010, in una mostra che ha avuto per tema la Follia dell’Arte, curata da Achille Bonito Oliva -che ha favorevolmente commentato le mie immagini- e catalogo con testi di Gianluca Ranzi. «Gli Autoriscatti sono realizzati di notte, nel buio assoluto, con apparecchio fotografico su treppiedi, otturatore aperto: io recito davanti all’obiettivo, facendomi individuare dalla macchina fotografica grazie a una torcia elettrica che accendo e spengo. «Poi c’è il progetto del Ritratto in scatola, ma, per ora, non ne voglio parlare». Sono affascinanti anche le tue immagini dell’uomo nella terra, il tuo nuotare nella sabbia... «Quel lavoro fa parte degli autoritratti. Un’esperienza forte è stata quando ho piazzato la macchina fotografica e mi sono fatto seppellire sotto i sassi neri di Nonza, in Corsica. Dissotterrandomi, indicavo a un’altra persona quando scattare. «Poi ci sono le fotografie che raffigurano quando mi sono messo a nuotare nella sabbia, per dare un’idea di maggior sforzo, di una specie di fatica di Sisifo. Ho voluto “spiegare” come sia faticoso per l’uomo uscire dalla terra, con l’idea, che ci

hanno legittimamente trasmesso i nostri genitori, che maggiore è la fatica per ottenere qualcosa, maggiore è la soddisfazione nell’ottenerla». Il futuro cosa prevede? «Mi piacerebbe un futuro nel quale miglioro il risultato di quello che faccio, in rapporto a come lo penso prima di mettermi a farlo. «Penso di giorno e di notte... Tra l’altro, un risultato che ho raggiunto da quando mi sono messo con grande impegno a lavorare su questi progetti interiori è che dormo molto meglio, nel senso che, se dormo, dormo, ma, se non dormo, penso e sono anche contento di non dormire. Quindi, praticamente, ho annullato il problema dell’insonnia. «Riassumendo, per il futuro vorrei riuscire a tradurre meglio quello che mi ronza in testa». Legato a nessun soggetto in particolare? «No, no, sempre legato al ritratto e all’autoritratto, con lo scopo di tradurre il mio pensiero in immagini». Forse posso apparire un poco ingenuo, ma mi sembra che al centro delle tue immagini, non solo ritratti e autoritratti, ci sia sempre l’uomo... «Anche la donna». Certamente. Intendo l’essere umano e poi forse, più che l’essere umano, si vede soprattutto te, non altro. «C’è altro, ma non è ancora uscito...». ❖

«Adesso, sto lavorando a una serie che chiamo Duplex: realizzo un’immagine di un certo soggetto e a questa aggiungo un’immagine mossa ricavata da un’altra serie di scatti. Questi lavori si chiamano Duplex perché le immagini vengono assemblate dopo la ripresa. Un’immagine fissa fa da base; poi individuo quale delle immagini mosse si adatta meglio, ai fini di ottenere il risultato estetico più emozionante. Su questo filone, ho in preparazione tutto un lavoro che ho svolto a Orticola 2011 [mostra mercato di fiori e piante]».

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A PROPOSITO DI ARLES 2011 Ispiratore della mia visita a Les Rencontres d’Arles Photographie 2011 è stato il fotografo Beppe Bolchi, che tempo addietro mi ha chiesto un confronto tra il mondo della fotografia e quello dell’arte -mio territorio principale d’azione-; confronto nel quale mi ero già coinvolta avendo curato alcune mostre fotografiche e scritto commenti critici molto apprezzati

di Caterina De Fusco ricerca iconografica di Beppe Bolchi

S

ono andata ai Rencontres d’Arles per approfondire il campo della fotografia, considerando che, in tale aspetto, sono neofita, mentre sono un’esperta di Storia dell’Arte. Ed è in questa veste che esprimo il mio punto di vista su alcune esposizioni del Festival, raggiungendo comunque quel “confronto” verso il quale Beppe Bolchi mi ha sollecitata e invitata. Fascinoso l’articolarsi, il muoversi tra spazi espositivi, osservando e discutendo delle possibili connessioni dei due punti di vista, quello fotografico e quello storico-artistico.

RIVOLUZIONE MESSICANA Quest’anno, il Festival ha dato particolare rilievo al Messico, nonostante le difficoltà incontrate per avere, esporre e proporre vasto materiale, che dimostra un’intesa fortemente amicale della Francia con il paese centroamericano. L’esposizione della Rivoluzione messicana, resa possibile grazie alla Fondazione Televisa, ha permesso la lettura di un repertorio fotografico assai importante, non soltanto per l’America Latina, ma per tutte le Nazioni partecipanti. Attraverso tagli compositivi, prospettive e luci, le immagini catturano forme, rilievi, campi di battaglia che consentono una ricostru-

zione minuta, precisa dei momenti significativi della rivoluzione. Il mezzo fotografico, pur se del primo Novecento, evidenzia ottime peculiarità nel sapiente dosaggio di inquadrature, luci ed ombre. Parla con forza, attraverso ritratti di rivoluzionari, fucili, pistole, cannoni, così come attraverso antiche linee ferroviarie che hanno trasportato, come se fossero merci, persone, uomini donne, bambini [a pagina 46]. I fotografi del tempo non si sono risparmiati nel riferire e richiamare l’atrocità di quella guerra. Connessa a tale ricostruzione, c’è da affiancare

Il ritrovamento della valigia perduta, contenente negativi della Guerra di Spagna di Robert Capa, Gerda Taro e David “Chim” Seymour, è stato annunciato con sostanzioso clamore dal New York Times, di domenica 27 gennaio 2008 [approfondimento in FOTOgraphia, del marzo 2008].

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L’esposizione della Rivoluzione messicana ha permesso la lettura di un repertorio fotografico assai importante, che ha consentito una ricostruzione minuta, precisa dei momenti significativi della rivoluzione.

Le immagini di Daniela Rossell offrono uno spaccato sull’identità e il quotidiano della classe alta della società messicana.

L’indagine fotografica di Maya Goded punta l’obiettivo sulla prostituzione esistente in una fascia rossa tra il Messico e gli Stati Uniti. Dulce Pinzón narra dei Supereroi. I lavoratori messicani, immigrati a New York, sono un esempio di eroi, che passano inosservati (con e da Walker Evans: sia lode ora a uomini di fama).

la leggendaria valigia messicana di Robert Capa, contenente i negativi della Guerra di Spagna, svoltasi tra il luglio 1936 e l’aprile 1939 [del rocambolesco ritrovamento della valigia abbiamo ampiamente riferito in FOTOgraphia, del marzo 2008]. Considerata perduta nel 1939, recentemente, la valigia è stata ritrovata in Messico [a pagina 45]: oltre a negativi di Robert Capa, contiene anche negativi di Gerda Taro, che coprì fotograficamente il fronte spagnolo assieme a Capa, e David “Chim” Seymour, che invece si interessò di momenti complementari del conflitto, di soldati sul fronte interno e cittadini colti al lavoro in piccoli villaggi. Una volta ancora si impone una sottolineatura che rileva la presenza di una donna in area di guerra: appunto, Gerda Taro, la prima fotoreporter della storia che opera, con Robert Capa, sul fronte di guerra. E che qui muore, prima vittima accertata e storicizzata di un elenco di fotogiornalisti che purtroppo si è allungato, anno dopo anno, guerra dopo guerra, fino ai casi recenti di Tim Hetherington e Chris Hondros: morti il Libia, lo scorso venti aprile, mentre fotografavano la storia [FOTOgraphia, maggio 2011]. Gerda Taro muore nel 1937, dopo la battaglia di Brunete; domenica venticinque luglio è in viaggio verso Villanueva de la Cañada, quando un carro armato urta la sua automobile, che si rovescia: finisce sotto i cingoli, e muore all’alba del giorno dopo, a ventisette anni. In Spagna, diversamente dalla rivoluzione messicana, le fotografie sono più “professionali” e “giornalistiche”: puntano per lo più a indagare la gente, inquadrata da vicino, per cogliere e sottolineare emozioni, drammi che si disegnano sui volti. Dunque, non tanto il contesto di una guerra, quanto l’approfondimento di stati d’animo, particolarmente nelle fotografie di Gerda Taro e Robert Capa.

MESSICO D’OGGI A questo punto, vorrei evidenziare il grosso compito svolto dalla fotografia fin dagli inizi del Novecento. La pellicola bianconero, come la pittura, ha avuto il compito di indagare con forza realistica gli accadimenti della storia, così come sul moto dei corpi, le espressioni di singoli individui. A mio avviso, l’edizione 2011 dei Rencontres d’Arles, la quarantaduesima dalle origini, ha creato questo confronto tra ciò che appartiene al passato e ciò che appartiene al presente. Osserviamo alcuni fotografi messicani contemporanei esposti al Festival, per poter cogliere cosa e se qualcosa rimane dell’antico. Le immagini di Daniela Rossell, nata nel 1973 e basata a New York, offrono uno spaccato sull’identità e il quotidiano della classe alta della società messicana. Non offre una tesi sulla gente della quale esegue il ritratto, ma punta l’attenzione sulla visualizzazione degli oggetti con i quali rappresentano se stessi in pubblico. Come le inquadrature evidenziano [in questa pagina], Daniela Rossell ha compiuto studi sul teatro, perché il modo nel quale e con il quale gli oggetti e le figure si propongono ha molto a che vedere con

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il mondo del palcoscenico. Le sue inquadrature evidenziano corpi e visi come disponibili a un consumo pubblico. Le sue donne parlano di quell’universo pubblico che loro stesse si sono create. L’abbondanza di pose, gesti, sguardi, abiti è testimonianza che quella realtà sociale -l’“alta società”- se la sono costruita chiudendosi in un mondo di illusioni. Avanti, in un certo qual modo, Maya Goded è il contraltare di Daniela Rossell. La sua indagine fotografica punta l’obiettivo sulla prostituzione esistente in una fascia rossa tra il Messico e gli Stati Uniti. Procacità di seni in primo piano, fotografie di nudi provocanti appese in ambienti poveri e sudici e, ancora, particolari sessuali più o meno raccapriccianti [pagina accanto]. E non solo. L’indagine di Maya Goded (1970, da Città di Messico) è anche legata alle donne ancora presenti nelle campagne dell’America Latina, accusate di “stregoneria”. La sua fotografia induce a riflettere tra paura e vili giochi di potere. Queste donne, le cosiddette streghe, vivono esiliate da tutte le altre donne del villaggio. Dulce Pinzón (1974, basata a Brooklyn) narra la verità storica dei Supereroi. Riflessione sull’idea di “eroe” che nel tempo odierno risulta essere idea ricorrente nell’“immaginario collettivo”. In questo nostro tempo di “crisi”, che attraversa non solo l’Europa, ma il mondo, la fotografa esprime la necessità di raccontare del lavoro e della straordinaria determinazione di individui che si sacrificano per altri della propria comunità [ancora, pagina accanto]. I lavoratori messicani, immigrati a New York, sono un esempio massimo di eroi, che passano inosservati [con e da Walker Evans: sia lode ora a uomini di fama]. L’economia messicana è dipendente dal denaro inviato dai lavoratori residenti negli Stati Uniti, così come l’economia americana è dipendente dalla manodopera messicana. L’interesse fotografico va quindi a osservare, a mettere a fuoco, proprio questo sacrificio, che altrimenti passerebbe sotto silenzio. Comunque, e oltre, una annotazione parallela che significa qualcosa, forse molto: Daniela Rossell, Maya Goded e Dulce Pinzón, tre fotografe contemporanee al femminile.

ALLORA E ADESSO Da quanto affermo, c’è diversità di comunicazione tra vecchio e nuovo? o è possibile scorgere similitudini? La fotografia del nostro tempo è soprattutto a colori, e non solo. Ovviamente, le tematiche sono cambiate, ma quanto la rivoluzione ha realmente liberato la popolazione messicana dalla schiavitù? Come si legge dalle fotografie attuali, diversificate ed eterogenee nella propria visione, si è passati da una dipendenza e da una sopraffazione a un’altra. E le immagini fotografiche ben lo evidenziano. “Mondo illusorio” nel quale si va cacciare l’alta società, vivendo di soli feticci; prostituzione, caccia alle streghe (attività tanto amata dal potere quando ha paura di qualcosa che non sa gestire) e “eroi”, che lavorano in condizione disagiate, pur di provvedere al fabbisogno delle proprie famiglie.

Restando ancora nel campo della fotografia messicana, Fernando Montiel Klint fornisce altre indicazioni agli spettatori, a noi. Le sue costruzioni visive trasportano in una realtà artificiale, composta di atmosfere assurde. Stampate in grandi dimensioni, le sue immagini sottolineano come la società industriale abbia trasformato l’uomo nella dualità di consumatore e vittima della merce, minando alla base le sue relazioni umane [qui sopra]. Nelle sue fotografie, abitazioni e natura appaiono estranee ai protagonisti; tra gli individui la comunicazione è assente. I protagonisti presi a pretesto e simbolo abitano spazi che evidenziano il proprio isolamento, come si deduce da alcune forme mania-

Fernando Montiel Klint costruisce la sua immagine con sapiente maestria. Conduce gli osservatori a quell’introspezione che per l’artista diviene lento e progressivo cammino verso la liberazione individuale.

LES RENCONTRES D’ARLES 2011

Cinquantadue le mostre ufficiali, più tutte quelle (innumerevoli) del Festival Off, più quelle spontanee ospitate in negozi e sale private (storica, per esempio, quella di Ken Damy presso l’Hotel Forum, nell’omonima piazza), visitate da oltre tredicimila persone provenienti da tutti i paesi del mondo, solo nella prima settimana di apertura, dal quattro luglio (e conclusione il diciotto settembre). Nello stesso periodo sono stati venduti oltre settemila trecento biglietti (altro importante contributo alla casse della manifestazione). Cinquecentodiciassette giornalisti accreditati, provenienti da trenta paesi, prevalentemente europei ma con una significativa partecipazione dagli Stati Uniti e la presenza di Corea, Giappone, Cina, Russia, Algeria, India, Brasile e Messico. Settemila gli spettatori che hanno partecipato agli eventi serali, presso il Teatro Antico, con una media di millesettecento per serata. La notte bianca, purtroppo organizzata male, ha richiamato ben cinquemila quattrocento partecipanti. Non eclatanti le cifre della Lettura portfolio (a pagamento e con prenotazione): duecentoventisei fotografi a confronto con centododici esperti.

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Miquel Barceló, pittore-fotografo spagnolo, riflette su una identità dell’essere che si sfaccetta, si deforma. Un’identità che nella deformazione non è mai uguale a se stessa. Nelle sovraesposizioni, cancellature e in alcune risultanti come da negativo, la sua fotografia ricorda la pittura di Francis Bacon; ovviamente, non nella tecnica, quanto nel messaggio inviato.

cali visibili in scaffali di libri ordinati o accortezza di tovagliati e parati. Luci e ombre della composizione son ben calibrate, così come i punti di vista rialzati o abbassati. Con sapiente maestria, Fernando Montiel Klint costruisce la sua immagine e necessariamente conduce noi osservatori a quell’introspezione che per l’artista diviene lento e progressivo cammino verso la liberazione individuale. L’interazione tra individui, presente prima dell’avvento della tecnologia, è stata totalmente soppiantata dall’introspezione: questa la via che l’artista intraprende e alla quale, silenziosamente, invita il suo pubblico. Gli elementi da me evidenziati nella panoramica sul Messico ai Rencontres d’Arles rivelano come dall’analisi di diversi strati sociali si giunga sempre all’Uomo, al singolo individuo, irrinunciabile collante sociale.

IL VOLTO A questo punto, in continuazione ideale, approdati all’Uomo, inteso come individuo, riferisco della sezione del Festival relativa ai Ritratti, che si è svolta in un piccolo ambiente allestito con lavori di William Ropp e in

una sezione più ampia, dove erano presenti Miquel Barceló, di Maiorca, e Douglas Gordon, di Glasgow. William Ropp indaga volti, cattura espressioni e sguardi in una forma “manierata”. I suoi ritratti non hanno più una forma puramente realista, in quanto l’estrema cura dei particolari rende immobile l’immagine, allontanandola dalla realtà. Il suo intento è entrare all’interno della persona, per sottolinearne la psiche. Miquel Barceló, pittore-fotografo spagnolo, riflette su una identità dell’essere che si sfaccetta, si deforma. Un’identità che nella deformazione non è mai uguale a se stessa. Non una riflessione sui giochi di ruolo, a seconda della realtà da vivere, ma una deformazione che parte dall’interno. Nelle sovraesposizioni, cancellature e in alcune risultanti come da negativo, la sua fotografia ricorda la pittura di Francis Bacon; ovviamente, non nella tecnica, quanto nel messaggio inviato [a sinistra]. Invece, Douglas Gordon, fotografo prodigio della giovane generazione britannica, utilizza il mezzo fotografico per descrivere il volto, negandolo. Sottolinea storture, fa emergere ciò che la figura non vorrebbe rivelare. Nell’inquadratura di un volto, in alcune sue parti cancellate con il fuoco (bruciate), ogni volta diverse, inserisce “specchi”. Non è una novità, altri si sono già cimentatati con questo tipo di rappresentazione, ma in questo caso il risultato è particolarmente significativo. Lo specchio inserito cambia i connotati del volto fotografato, ma al tempo stesso quello scatto “nello specchio” riflette l’“altro”, colui che passa ad osservarli. Ognuno di noi può specchiarsi nel volto di un altro, può accorgersi che le proprie peculiarità non sono dissimili da quelle dell’“altro”. Il tuo volto è il “tuo” e insieme quello dell’“altro”, una sorta di doppio e non solo. Miquel Barceló e Douglas Gordon sono stati collocati in uno spazio espositivo di grande impatto. Un ambiente spazioso coperto da travature lignee sotto le quali sono stati collocati faretti che hanno proiettato sulle stampe una luce sapientemente dosata, che sottolinea gli aspetti peculiari di ciascun autore. Ancora il Messico protagonista nello straordinario allestimento espositivo dedicato al regista Gabriel Figueroa. Nel connubio di nude strutture architettoniche e immagini di scena di film in bianconero, proiettate a parete, si è respirata una tale atmosfera emozionale, che è sembrato di esser dentro, di vivere quelle scene dall’interno. Eccellenti, le capacità nel rendere con la luce contorni di attori e attrici, particolari dei volti, i profili, i corpi, la cui resa plastica è potenziata da pochi e semplici elementi: senza ombra di dubbio, una presa fotografica così netta e precisa mostra le grandi doti di Gabriel Figueroa [a pagina 50]. Solo un professionista di tale rango ha potuto esser scelto da un altro grande professionista, come Luis Buñuel.

DALLA FORMA (?) ALLE CONCLUSIONI Gli allestimenti, gli spazi, la cura dell’illuminazione sono una componente fondamentale di un programma fotografico internazionale e di ampio respiro quale è

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agire, a produrre opere altamente qualificate. Nella piccola cittadina di Arles, nella Francia meridionale, ho potuto vedere dal vivo cosa significhi realmente promozione. Come accennato, nelle sue nuove linee di programmazione, il Festival si appoggia notoriamente anche su un premio annuale di fotografia per la scoperta di giovani “talenti”, attraverso una selezione di commissari ed esperti. Promuovere, e non dunque deprimere, come invece fa il nostro paese. Tra l’altro, considerato il gran numero di visitatori provenienti da diverse nazioni, eventi presenti in Francia come Les Rencontres d’Arles Photographie e Paris Photo aiutano il paese a far vivere la Cultura così come il Turismo.

ALTRO ANCORA Prima di concludere con le considerazioni, riprendo la panoramica evidenziata, per non lasciare sotto silenzio la presenza al Festival di una sezione interamente dedicata a Les photographies du New York Time Magazine, nel trentennale delle sue edi-

50X60cm / 2: IL RITORNO

Si è avverato il sogno di molti, noi tra questi (nonostante nostri pessimismi, espressi anche pubblicamente e ufficialmente: sempre con dialogo, mai slogan). Impossible produce convincenti filmpack per fotografia a sviluppo immediato. Nulla in comune con gli originali Polaroid, dismessi da tempo, ma comunque qualcosa di affascinante, con il quale confrontarsi e relazionarsi, se e per quanto si intende frequentare l’espressività della fotografia pronta una manciata di secondi dopo lo scatto. Nulla in comune con gli originali Polaroid, ma emulsioni adeguate e indirizzate alla creatività espressiva, qualsiasi cosa significhi questa identificazione e collocazione (distribuzione Nital). Tra tanto altro, del quale si dovrebbe parlare, Impossibile ha rivitalizzato la straordinaria Polaroid 50x60cm: la nuova emulsione è stata appunto approntata anche nello straordinario grande formato 50x60cm. Nell’ambito dei Rencontres d’Arles 2011 è stata allestita una postazione Polaroid 50x60cm indirizzata al ritratto. Beppe Bolchi ha fotografato Caterina De Fusco, alla quale dobbiamo l’attuale approfondita cronaca (e tanto altro) da Arles: «Che emozione! Il posizionamento della Giant Camera, le operazioni di inquadratura e messa a fuoco, la gestione della luce da parte del fotografo sono state affascinanti, tanto che mi è risultato difficile posare con assoluta naturalezza; ma il risultato è stato oltremodo appagante. Vedere l’immagine che via via si va formando, e in quella dimensione, è stata veramente una esperienza fantastica». Con la nuova emulsione autosviluppante, collocata direttamente dietro l’obiettivo, senza specchi di raddrizzamento, il ritratto realizzato appare rovesciato destra-sinistra, perché l’esposizione è diretta, appunto. Come i dagherrotipi delle origini. Evviva! Anche questo è un segno di Vita, della Vita che scorre e ritorna immancabilmente. Ieri, oggi e domani. E domani e domani. BEPPE BOLCHI

quello dei Rencontres d’Arles. È doveroso sottolineare quanto le fotografie degli autori siano state accompagnate, esaltate dalla cura della loro esposizione. Agli occhi di tutti è stato visibile e tangibile quanto spazi, supporti alle immagini e illuminazione abbiano creato sinergie tanto preziose che, unitamente alle peculiarità dei singoli artisti, hanno permesso di catturare l’attenzione degli spettatori. Vorrei esprimere anche una notazione sull’ampliamento dello spazio espositivo effettuato dagli organizzatori di questa quarantaduesima edizione, che hanno riattato anche un ex magazzino industriale, per esporre i giovani e creare uno spazio attento ai testi di fotografia. Anche l’editoria è un punto fondamentale nella trasmissione di ciò che la fotografia ha svolto e svolge. Direi che gli organizzatori non hanno trascurato alcunché e posso affermare che, nell’eccellente qualità espositiva, è stata riservata grande cura anche allo spazio editoriale; infatti, su una lunga linea di banco ligneo, ciascuna monografia è stata illuminata singolarmente, come si fa con il protagonista sul palcoscenico. Al contrario, va rilevato, il nostro paese dà scarso rilievo a tutto ciò. L’Italia, che tutto il mondo addita come culla dell’arte, è incurante della sua autentica promozione e visualizzazione. Disordinate mostre di fotografia, e non solo, evidenziano scarsa o totale incuria negli spazi e, quel che è peggio, nei criteri di illuminazione. Spesso, ho visitato eventi nei quali la luce anziché esaltare le peculiarità artistiche le ha danneggiate. Per la realizzazione di Les Recontres d’Arles sono stati determinanti gli investimenti, il quarantasette percento dei quali (quasi cinque milioni e mezzo di euro) è arrivato da Enti Pubblici (Ministeri, Provincia, Distretto, Comune), e solo il venti percento da parte di privati (Sfr telefonica, Olympus, Fnac e Bmq, da sette anni sponsor anche di Paris Photo). Con la sua stessa presenza, il ministro della Cultura e della Comunicazione Frédéric Mitterand ha dato lustro al Festival di Arles. Tutto questo mette in risalto quanto la Francia e le sue istituzioni politiche diano valenza a una promozione culturale che miri a far circolare conoscenza e confronto, non soltanto dei propri talenti, ma di tutto il mondo. Una vera politica culturale sottende volontà di investire e di relazionarsi, perché la cultura è circolare, non autoreferenziale, come pensa l’Italia. Troppo spesso ho riscontrato che il nostro paese ha un’enorme paura del “confronto”. Ribadisco che sono una storica dell’arte e nel mio campo e, come sto scoprendo, anche in quello della fotografia, non c’è desiderio di indagare, approfondire, capire perché, per entrare nel circuito del “vernissage”, basta sapere di marketing e di superficie. Dichiaro che mostre fotografiche e artistiche sono per lo più organizzate per puro interesse economico di fondazioni e compagnie assicurative. Manca totalmente il piacere di curare la cultura per migliorare la qualità del pensiero, delle idee, delle intuizioni, e dunque della vita italiana. Nel nostro paese, i “finti” investimenti economici sembrano volti più a “deprimere” i giovani che non a stimolarli ad

Caterina De Fusco accanto alla Polaroid 50x60cm, utilizzata da Beppe Bolchi per un suo ritratto immediato.

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Da Les photographies du New York Time Magazine, nel trentennale delle sue edizioni, una visione di Gregory Crewdson, dal progetto Dream House [ FOTOgraphia, settembre 2008]: l’attrice Julianne Moore. Nello straordinario allestimento espositivo dedicato al regista Gabriel Figueroa si sono incontrate le sue eccellenti capacità nel rendere con la luce contorni di attori e attrici, particolari dei volti, i profili, i corpi, la cui resa plastica è potenziata da pochi e semplici elementi: senza ombra di dubbio, una presa fotografica così netta e precisa mostra le grandi doti del regista.

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zioni, che ha svolto e svolge un importante ruolo per la fotografia, riservando grande attenzione al fotogiornalismo, alla fotografia di moda, al ritratto [Gregory Crewdson, qui sopra]. Inoltre, un forte riconoscimento di gratitudine è andato a Michel Bouvet, al quale è stato dedicato uno spazio autonomo: da quarantatré anni grafico dei Rencontres d’Arles, per realizzare i suoi manifesti, che sono poi il segno distintivo di ogni edizione, si è sempre servito del regno animale e vegetale. Una legittima testimonianza del lavoro svolto nei decenni ha rivelato come la sua grafica abbia seguìto uno studio sul colore, analizzando primari, secondari, complementari e utilizzato sempre un segno semplice ma efficace. Infine, testimonio del mio incredibile incontro con la favolosa e gloriosa Polaroid 50x60cm. La rinascita della fotografia a sviluppo immediato, innescata da Impossible, è stata celebrata con la presentazione di una nuova attività dell’azienda austriaca fondata da Florian Kaps, dedicata al contatto con i fotografi particolarmente orientati alla espressività e creatività immediata.

Con sede a Parigi, e diretta da Valérie Hersleven, Impossible Works si propone la creazione, il supporto e la presentazione della fotografia analogica a sviluppo immediato realizzata con pellicole Impossible. Questa attività no-profit selezionerà fotografi e partner per costruire una raccolta di immagini con le stesse finalità della famosa Collezione Polaroid. Quindi, il richiamo e l’utilizzo dell’apparecchio Polaroid 50x60cm, convertito alle nuove emulsioni Impossible, è stato doveroso [FOTOgraphia, novembre 2010]: strumento per la realizzazione di immagini ad altissimo livello. Già le sue dimensioni e la sua mole sono impressionanti; non credo che molti abbiano mai avuto la possibilità di vederlo e toccarlo. Lo stupore di essere fotografata è stato oltremodo gratificante. Florian Kaps, con il quale mi sono piacevolmente intrattenuta, ha invitato Beppe Bolchi a realizzare uno scatto, proponendomi come soggetto. Che emozione! Il posizionamento della Giant Camera, le operazioni di inquadratura e messa a fuoco, la gestione della luce da parte del fotografo sono state affascinanti, tanto che mi è risultato difficile posare con assoluta naturalezza; ma il risultato è stato oltremodo appagante. Vedere l’immagine che via via si va formando, e in quella dimensione, è stata veramente una esperienza fantastica. Sapere poi di entrare tra i primi nella prestigiosa nuova Collezione, che si sta formando, è certamente fonte di orgoglio. Sembra che il Caso, che molto spesso caso non è, abbia voluto che una semplice neofita di fotografia, curiosa di approfondimenti, sia in qualche modo diventata protagonista di un mitico e nobile strumento. Con un così vasto panorama di fotografia, il confronto -dato di partenza di questa articolata analisimi ha permesso di comprendere che il campo di ricerca e riflessione della fotografia di questi tempi non è poi così distante dal mondo dell’arte, perché indagini sull’uomo, sul sociale, sulle difficoltà del vivere in questa ”stritolante” realtà tecnologica appartengono sia all’uno sia all’altro spazio, con i dovuti distinguo di strumenti tecnici ed espressivi. ❖



SWPA

DAL201 1

a cura di Angelo Galantini

OPEN Architecture e Panoramic

Secondo di cinque appuntamenti programmati (i prossimi, a seguire, fino a dicembre), dal Sony World Photography Award 2011, del cui svolgimento abbiamo ampiamente riferito nel numero dello scorso giugno, andando sottotraccia e approfondendo connessioni e considerazioni adeguatamente cadenzate e scandite. In ripetizione, d’obbligo: per quanto già presa in consistente considerazione, la sezione non professionale del fantastico concorso fotografico internazionale (Open) non esprime tutto il proprio esemplare valore con la sola segnalazione dei dieci vincitori di categoria, tra i quali è poi indicato il vincitore assoluto. Dunque, e per completezza di informazione, dopo le registrazioni di vertice (per l’appunto, lo scorso giugno), continuiamo, presentando anche fotografie segnalate, che confermano, ribadendola a gran voce, la nostra considerazione assoluta: straordinari esempi di fotografia (non professionale); avvincenti visioni e interpretazioni che promuovono la fotografia; convincenti conferme che la fotografia è una passione (un hobby) diversa da ogni altra... perché migliore. Dopo Action e After Dark (lo scorso luglio), proseguiamo con Architecture e Panoramic, altre due categorie Open del Sony World Photography Award 2011. Nei prossimi mesi, le restanti sei, fino al totale delle dieci categorie di riferimento Sony World Photography Award 2011 Open - Architecture: vincitore di categoria, Marek Troszczynski (Polonia).

Sony World Photography Award 2011 Open - Panoramic: vincitore di categoria, Wolfgang Weinhardt (Germania).

Lo scorso luglio: Action e After Dark. Dalla sezione Open del Sony World Photography Award 2011 (fotografia non professionale), sui prossimi numeri di FOTOgraphia, non necessariamente in questo ordine: Arts and Culture e Fashion, Nature and Wildlife e Travel, People e Smile.

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ROB CHERRY (INGHILTERRA): OPEN ARCHITECTURE

URS ALBRECHT (SVIZZERA): OPEN ARCHITECTURE

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ANTON HAZEWINKEL (CINA): OPEN PANORAMIC

JADRANKO SILIC (AUSTRALIA): OPEN PANORAMIC

DAVID MILLARD (INGHILTERRA): OPEN PANORAMIC

ANDREW SCRIVEN (INGHILTERRA): OPEN PANORAMIC


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SÌ, ICONE!


Come sottolineiamo spesso, staremmo distanti dalla combinazione fotografia-icona, troppo abusata, soprattutto a sproposito. Ancora: è tanta la considerazione nella quale teniamo il termine e riferimento di “icona”, che non vorremmo fossero invalidati da attribuzioni date alla leggera. Ma! Ma il casellario delle 50 icone della fotografia, efficacemente compilato dal bravo e competente Hans-Michael Koetzle, e pubblicato dal valoroso e colto Taschen Verlag, è di tale pregio e virtù da dare merito all’ipotesi stessa di “icona”. Dopo di che, altri distinguo, soltanto trasversali, che non intaccano la sostanza di questa raccolta: unica, e per questo indispensabile di Maurizio Rebuzzini

O

gniqualvolta affronto il tema delle icone della fotografia, esprimo premesse che mi paiono indispensabili. Anche qui, in presentazione dell’ottimo 50 icone della fotografia, di Hans-Michael Koetzle, in edizione Taschen Verlag (e in lingua italiana, diciamolo subito), sono necessari alcuni preliminari, che definiscono i termini e/o confini delle attribuzioni. In loro assenza, in loro mancanza, potrebbero sorgere equivoci, e spesso sono sorti equivoci. Evitiamoli, per amor di dio. Uno. L’attribuzione di “icona” dovrebbe essere parsimoniosa, soprattutto più di quanto è in uso (leggero!) nei nostri tempi. Non arrivo alla sacralità dei termini e valori, ma neppure mi discosto troppo da questa. Quindi, pur nella convinta laicità della mia esistenza, preferirei maggiore rispetto per le assegnazioni e definizioni. Anche perché l’esagerazione confonde i termini del discorso e mina l’autentica scala di valori che dovrebbe definire anche la fotografia. Due. In ogni caso, in tutti i casi, sarebbe opportuno un indice di riferimento certo e oggettivo. “Icona” della fotografia per chi? Per il pubblico (generico) al quale si rivolge l’insieme delle immagini,

50 icone della fotografia - Le storie dietro gli scatti, di Hans-Michael Koetzle; Taschen Verlag, 2011 (distribuzione Inter Logos, strada Curtatona 5/2, Località Fossalta, 41100 Modena; 059-412648; www.books.it); in italiano; 304 pagine 24x30,5, cartonato; 19,99 euro.

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Karl Blossfeldt: Adianto (circa 1900). Visualizzazione di fiori e piante con doppia maestria: fotografica e botanica.

Nadar: Sarah Bernhardt (circa 1864). Il ritratto in sala di posa; indagine della personalità interiore.

(a pagina 56) Eugène Durieu e Eugène Delacroix: Nudo di spalle (circa 1853). Inizia la grande avventura del nudo in fotografia.

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siano del e dal vero (soprattutto, fotogiornalismo) o costruite (dalla moda e pubblicità, per esempio, alla ricerca espressiva e creativa)? Per gli addetti ai lavori, che elevano la Storia della fotografia fino alla propria autoreferenzialità? Ciò a dire che l’identificazione “icona” è comunque soggettiva, è comunque indirizzata e riferita. Tre. In assoluto, prendo sempre le distanze dalle segnalazioni che vantano di indicare quelle che sarebbero le fotografie che “hanno cambiato il mondo”, che si offrono in forma di raccolta monografica (tante ce ne sono) oppure nella giungla dell’ormai inevitabile Rete (altrettante ce ne sono). Infatti, il più delle volte, non si tratta mai di fotografie che hanno cambiato il mondo, ma di fotografie di “avvenimenti che hanno cambiato il mondo”. La differenza non è da poco. Curiosamente, e per contrappasso, due fotografie autenticamente epocali, entrambe dal Vietnam (l’esecuzione sommaria per strada di un presunto Vietcong, di Eddie Adams, del 1968, e la bambina bruciata dal Napalm, di Nick Ut, del 1972 [FOTOgraphia, dicembre 2004]), raffigurano accadimenti normali di una qualsivoglia guerra: dunque è il loro “peso” autenticamente e inviolabilmente fotografico a fare la differenza, non il soggetto esplicito.

CINQUANTA ICONE Ciò premesso, e come anticipato, il riferimento e richiamo alla celebrazione in icona di ognuna delle cinquanta immagini raccolte e commentate nell’ottimo 50 icone della fotografia è più che legittimo e

ampiamente giustificato. Da una parte, sì, le immagini indicate e presentate dal bravo e competente Hans-Michael Koetzle rientrano perlopiù nell’ambito degli addetti; dall’altra, altrettanto sì, la maggior parte di loro appartiene alla storia del Mondo. Realizzato sulla base di un precedente casellario analogo, Photo Icons - The story behind the pictures, del 2005 (FOTOgraphia, ottobre 2005), e ampliato sia nelle dimensioni (da 15,5x21,7cm alle attuali 24x30,5cm), sia nel contenuto (da trentasei a cinquanta fotografie prese in considerazione), 50 icone della fotografia - Le storie dietro gli scatti ha due meriti in più, che lo qualificano e distinguono, almeno ai nostri occhi: è in edizione italiana, e non è poco, e costa soltanto 19,99 euro [e poi, anche edizioni in inglese, tedesco, francese e spagnolo; con tutte le considerazioni del caso, mi spieghino gli editori italiani come fanno i volumi illustrati Taschen a rimanere sempre entro cifre oggettivamente e soggettivamente abbordabili al grande pubblico: venti euro per un’opera di questa mole, trecentoquattro pagine, e tanto contenuto sono effettivamente pochi, senza riscontro alcuno nell’editoria internazionale e nazionale]. Come appena rilevato, rispetto l’originario Photo Icons - The story behind the pictures, del 2005, che ha affrontato e commentato trentasei immagini, concludendosi temporalmente al reportage di Sebastião Salgado dal Kuwait, del 1991, il recente e straordinario 50 icone della fotografia - Le storie dietro gli scatti si allunga, aggiungendo altre quattordici immagini, che portano appunto a cinquanta il totale e che approdano al 2001 dell’attentato terroristico dell’Undici settembre (attenzione, le integrazioni non sono soltanto cronologiche, dal 1991 di precedente conclusione al 2001 di questa conclusione, che riguarda soltanto tre immagini, ma sono distribuite lungo tutto il percorso: sottolineatura nell’apposito riquadro a pagina 63). Da ciò, e per altri tanti motivi, si tratta di una monografia, di una raccolta assolutamente indispensabile nelle librerie personali di coloro i quali, noi tra questi, si occupano con convinzione e concentrazione di fotografia. Non ho alcun dubbio in proposito.

RACCONTO FANTASTICO Tra i tanti modi di raccontare la storia evolutiva del linguaggio fotografico, ricca di mille e mille sfumature, per il suo attuale 50 icone della fotografia - Le storie dietro gli scatti, come rilevato evoluzione consequenziale e magistrale del precedente Photo Icons - The story behind the pictures, del 2005, il tedesco Hans-Michael Koetzle ne ha adottato uno che si distingue per originalità. Ed è questo il pregio discriminante del suo concentrato saggio illustrato, che l’attento Taschen Verlag di Colonia ha pubblicato in una edizione a dir poco esemplare: in una convincente e consistente forma, che riveste l’importanza del contenuto. Frutto di una selezione meticolosa e personale, quella di Hans-Michael Koetzle non è una semplice cronologia di date e avvenimenti, che pu(continua a pagina 62)



CINQUANTA ICONE: DAL 1827 AL 2001

Completato da una pertinente prefazione del curatore Hans-Michael Koetzle (Leggere le immagini: da leggere, per l’appunto) e da una apprezzata appendice bibliografica conclusiva, nella quale sono indicate le monografie più rappresentative degli autori presentati, 50 icone della fotografia - Le storie dietro gli scatti racconta le vicende di cinquanta casi fotografici, proiettati nella Storia evolutiva del linguaggio visivo e nella Storia più in generale. La cadenza è convenientemente cronologica (indipendentemente da altre sottigliezze e/o definizioni, qui manteniamo le grafie dei nomi e le indicazioni dei titoli come sono riportate nella monografia, a volte tradotti, altre volte lasciati nelle proprie dizioni originarie).

1827 [altre fonti riportano 1826] Joseph Nicéphore Niépce: Vista dalla finestra a Le Gras. La prima fotografia riuscita, riconosciuta e identificata come tale. 1838 Louis Jacques Mandé Daguerre: Boulevard du Temple. La prima fotografia [dagherrotipo] nella quale compare la figura umana [considerazioni specifiche in 1839-2009. Dalla Relazione di Macedonio Melloni alla svolta di Akio Morita, di Maurizio Rebuzzini]. 1840 Hippolyte Bayard: Autoritratto da annegato. Vicenda memorabile, vicenda straordinaria: il primo autoritratto fotografico della Storia è un autoritratto impossibile, in quanto sarebbe stato realizzato da un annegato suicida! [ancora considerazioni specifiche in 1839-2009. Dalla Relazione di Macedonio Melloni alla svolta di Akio Morita, di Maurizio Rebuzzini, e nel suo Blog, dalla home page del sito www.FOTOgraphiaONLINE.it, del quattordici luglio scorso, nel centosettantaduesimo anniversario della prima mostra fotografica considerabile come tale]. 1850 Alois Löcherer: Busto della Baviera. Allegoria in divenire, sottolinea il curatore, che va ad analizzare una raffigurazione delle lavorazioni diversificate di fusione, trasporto e collocazione in luogo di una statua colossale: agli albori di una identificata fotografia di attualità. 1853 (circa) Eugène Durieu e Eugène Delacroix: Nudo di spalle. Inizia la grande avventura del nudo in fotografia [a pagina 56]. 1856 Duchenne de Boulogne: Contractions musculaires. La fotografia finalizzata alla ricerca scientifica. 1857 Robert Howlett: Isambard Kingdom Brunel. Al cospetto della Great Eastern, che fu una delle grandi navi a vapore del Diciannovesimo secolo: il piccolo uomo tra ingranaggi giganteschi (e altri ce ne saranno nella storia della fotografia e del cinema: al proposito, rimandiamo alla monografia L’uomo e la macchina, pubblicata da Logos, presentata in FOTOgraphia dello scorso febbraio). 1862 Auguste Rosalie Bisson: Ascensione al Monte Bianco. La fotografia al seguito di una spedizione alpinistica. 1864 (circa) Nadar: Sarah Bernhardt. Il ritratto in sala di posa; indagine della personalità interiore [a pagina 59]. 1867 François Aubert: La camicia dell’imperatore Massimiliano. Messico: fine di un impero nella raffigurazione di una camicia con evidenti tracce di un attentato; ispirazione per Edouard Manet. 1871 André Adolphe Eugène Disdéri: Comunardi uccisi. Dal fotografo che ha “democratizzato” il ritratto, inventando la carte-de-visite (altra storia; svolta epocale, sulla quale riflettere), una cruda rappresentazione dei morti della Comune di Parigi. 1894 (circa) Maurice Guibert: Toulouse-Lautrec nel suo studio. Nell’intimità di un grande artista, simbolo del proprio tempo. 1898 Max Priester e Willy Wilcke: Bismarck sul letto di morte. Il grande statista, cui si devono le tracce dell’Europa contemporanea, sul letto di morte [una delle controversie della storia della fotografia: in Controverses. Una storia giuridica ed etica della fotografia, al Museo Nazionale Alinari della Fotografia (Mnaf), fino allo scorso

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cinque giugno, mostra commentata in FOTOgraphia di maggio]. 1898 Heinrich Zille: Raccoglitrici di rami secchi. Carretti di legna: storia antica? 1900 (circa) Karl Blossfeldt: Adianto. Visualizzazione di fiori e piante con doppia maestria: fotografica e botanica [a pagina 58]. 1907 Alfred Stieglitz: The Steerage (Il ponte di terza classe). Anticipazione di quella che sarebbe diventata la fotografia della nuova obbiettività, nell’immagine dei passeggeri di terza classe in traversata atlantica (quante le dissociazioni e opinioni avverse!). 1908 Lewis Hine: Girl Worker in a Carolina Cotton Mill. Fotografia umanista. Alle origini di quella documentazione visiva del lavoro minorile che convinse il Congresso degli Stati Uniti a modificare le leggi sul lavoro. 1912 Jacques-Henri Lartigue: Grand Prix de l’Automobile Club of France. Il giovane Lartigue (diciottenne) alle prese con la metafora della velocità e della tecnologia del proprio tempo. 1914 August Sander: Giovani contadini. Dal grande e ambizioso progetto Uomini del Ventesimo secolo, un esempio significativo di un modo di mettere in posa la realtà: in rappresentazione fotografica di archetipo [Davanti a una fotografia, di Andrea Villanis, in FOTOgraphia dello scorso luglio]. 1916 Paul Strand: Blind Woman [nota personale: un autore altrove dimenticato]. Più antropologia che giornalismo, nella visione di un fotografo al quale non interessa l’attimo fuggente, ma la storia dei propri soggetti, da dove vengono e cosa rappresentano. 1926 Man Ray: Noire et blanche. Se ne è scritto parecchio, se ne scriverà ancora altrettanto: indefinibile, disorientante e irriverente personaggio del Ventesimo secolo, trasversale a fotografia, pittura, scultura e altre forme d’arte, che si colloca in un panorama storico fertilissimo di idee e pulsante di innovazioni [una delle controversie della storia della fotografia: in Controverses. Una storia giuridica ed etica della fotografia, al Museo Nazionale Alinari della Fotografia (Mnaf), fino allo scorso cinque giugno, mostra commentata in FOTOgraphia di maggio]. 1927 Konrad Ressler: Bertolt Brecht. Ritratto di un giovane, che a ventinove anni appena compiuti si offre all’obiettivo fotografico, già consapevole della strada intrapresa; lastre in vetro rintracciate alla metà degli anni Ottanta, acquisite dal Fotomuseum, di Monaco [al solito: e l’Italia sta a guardare, non riuscendo a comportarsi in modo analogo con la propria storia raccontata per fotografie]. 1928 André Kertész: Meudon. Per tanti versi, alle origini poetiche di quella street photography (qualcosa di più di fotografia di strada), che poi si è manifestata in molteplici sfumature e personalità. 1936 Robert Capa: Morte di un miliziano lealista (Falling soldier). Ancora il miliziano, ancora una riflessione su una vicenda che la storia della fotografia si trascina da decenni (per lo più, con motivazioni e posizioni inutili); parole chiare ed efficaci, fuori da coro, dai preconcetti e dalle tignosità che si avvertono altrove. 1936 Dorothea Lange: Migrant Mother, Nipomo, California. Una indiscutibile icona del Novecento in una analisi originale per punto di vista e taglio, con altre visioni di ambiente; se ne sentiva il bisogno [a pagina 63]. 1937 Sam Shere: Lakehurst New Jersey / Usa. Il disastro dell’Hindenburg, che esplode al suo atterraggio a New York, il sei maggio. La fine dei dirigibili per uso commerciale e di trasporto. 1939 Horst P. Horst: Mainbocher Corset. Moda? È soltanto moda? L’autore del testo offre una inattesa chiave interpretativa (alla nostra solita maniera: come la fotografia influenza la vita). 1945 Alfred Eisenstaedt: Il giorno della vittoria. Uno dei baci più famosi della storia della fotografia, trasmigrato nella società e nel costume. La guerra è finita. Il mondo si lascia alle spalle un incubo [in copertina della stessa monografia


50 icone della fotografia - Le storie dietro gli scatti; a pagina 57]. 1945 Henri Cartier-Bresson: Germania. Tra immagini note (questa, per esempio) e rappresentazioni meno viste, un occhio sul disfacimento di una nazione, dilaniata da una guerra che non ha risparmiato la popolazione civile, sconvolgendone gli animi. 1945 Richard Peter sen: Veduta verso sud dalla torre del municipio di Dresda. Ancora le distruzioni della guerra; ancora domande alle quali, per le quali, trovare risposta. 1947 Ernst Haas: Vienna. Aspettando un miracolo (il miracolo). Sognando di rivedere il proprio figlio, disperso in guerra. È l’immediato dopoguerra, che porta ancora con sé i segni indelebili delle ferite. 1950 Robert Doisneau: Bacio all’Hotel de Ville. Incredibile: c’è altro da dire sul celeberrimo bacio fotografato da Robert Doisneau; inattesi approfondimenti e nuove osservazioni, tra riferimenti storici e considerazioni di fondo (con messa in pagina originaria). 1955 Dennis Stock: James Dean on Times Square. Altre immagini, oltre quelle più note, che appartengono all’immaginario collettivo; e poi una contestualizzazione giornalistica su un autentico Mito. 1960 Will McBride: Barbara con Shawn in pancia. Inizia una fotografia più intima, partecipe di se stessi. In origine, questa fotografia della moglie incinta del fotografo destò sorpresa, scandalo e persino censura. Ma da qui, anche da qui, comincia una nuova stagione visiva. 1960 Robert Lebeck: Leopoldville. La fotografia che fece il giro del mondo, accompagnata dall’intero reportage: l’aggressione a re Baldovino, come simbolo di una condizione razziale nei caldi momenti del proprio culmine sociale [a pagina 62]. 1961 Peter Leibing: Salto nella libertà. Il Muro di Berlino non è ancora stato edificato (comincerà il tredici agosto). Il confine tra Est e Ovest è provvisorio. Un soldato della Germania Democratica salta verso occidente. È un segno dei tempi, è un’immagine che va oltre il proprio istante: una autentica icona. 1962 Bert Stern: Marilyn - L’ultima seduta [magari qui era il caso di lasciare l’originaria Marilyn’s Last Sitting: la traduzione non serve, la traduzione esclude la magia della Last Sitting, nota in quanto tale e così storicizzata]. Già fiumi di inchiostro sono stati consumati per raccontare la vicenda dell’ultima sessione fotografica di Marilyn Monroe prima della sua prematura e controversa scomparsa. Cosa altro aggiungere, cosa altro rivelare, oltre le speculazioni di sempre? 1963 René Burri: Che. Per quanto l’icona di Ernesto Che Guevara sia un’altra, e non stiamo qui a ripeterci, la sequenza fotografica di René Burri ha il grande e indiscutibile merito di presentare l’uomo, più del mito; fantastica galleria di ritratti, che rivelarono al mondo intero il volto di una leggenda, immediatamente all’indomani della vittoriosa rivoluzione cubana. 1966 Gerard Malanga: Andy Warhol e i Velvet Underground. Poeta e tanto altro ancora, Gerard Malanga è stato uno dei più attenti testimoni dall’interno della Factory; oggi le sue immagini sono rivitalizzate dalla nostalgia dei nostri tempi recenti, che ha prodotto una identificata lunga serie di titoli retrospettivi. 1972 Nick Ut: Kim Phúc - Napalm contro i civili. Sì: una delle fotografie che hanno cambiato il mondo, richiamando

l’attenzione pubblica sull’andamento della guerra in Vietnam. È opinione diffusa che questa fotografia, autenticamente tale, di un avvenimento sostanzialmente normale in guerra (dunque, non il fatto, ma proprio la fotografia) abbia contribuito agli accordi di pace [John G. Morris, in FOTOgraphia del dicembre 2000]. Ancora: della storia della bambina/donna Pham Thi Kim Phúc abbiamo riferito in FOTOgraphia del dicembre 2004. 1973 Barbara Klemm: Leonid Brežnev, Willy Brandt, Bonn. Prima visita ufficiale di un leader sovietico in Germania, dalla fine della Seconda guerra mondiale; implicazioni politiche dietro una semplice fotografia di reportage. 1977 RAF: Hanns Martin Schleyer prigioniero della RAF. Un anno prima della celebre polaroid di Aldo Moro prigioniero delle Brigate rosse, una analoga certificazione fotografica con la quale il gruppo terrorista tedesco Rote Armee Fraktion, comunemente conosciuto come Banda Baader-Meinhof, dai due esponenti guida Andreas Baader e Ulrike Meinhof (e Gudrun Ensslin), rivendicò il rapimento del presidente della Confindustria tedesca (cinque settembre), in un disperato tentativo di liberare i propri leader storici rinchiusi nel carcere di Stammheim. 1981 Helmut Newton: Eccole!, Dalla serie dei definiti “grandi nudi”, con relativo redazionale su Vogue, una immagine è presa a simbolo e metafora della nuova consapevolezza femminile; anche in copertina della monografia originaria Photo Icons - The story behind the pictures. 1981 Sandy Skoglund: Revenge of the Goldfish. Una finestra sulla fotografia d’arte: argomento principe dei decenni a cavallo del Millennio. A partire dagli anni Ottanta, si registra una consistente azione creativa di fotografi artisti, che costruiscono le proprie immagini in evocazione di sogni o incubi. Straordinaria immaginazione, applicata a un medium che è raffigurativo per natura, ma rappresentativo per volontà espressiva. 1982 Robert Mapplethorpe: Lisa Lyon. Il più discusso fotografo degli anni Ottanta, prematuramente scomparso nel 1989, con una delle sue più presentabili rappresentazioni del corpo. 1987 Joel-Peter Witkin: Un santo oscuro. Autore controverso (amato e odiato incondizionatamente), che fa del macabro uno stile raffigurativo, elevato ai più alti ranghi e livelli della fotografia d’arte. 1991 Sebastião Salgado: Kuwait. Emblematico reportage, per tanti versi lontano da crude drammaticità, che pone interrogativi. Come spesso accade, tante le domande, per risposte in attesa. 1991 Martin Parr: Acropoli, Atene, Grecia. Brillante esponente di vertice della nuova fotografia europea a colori, dalla fine degli anni Settanta, l’inglese Martin Parr osserva la vita quotidiana, documentandola in maniera autenticamente personale. 1992 Bettina Rheims: Chambre Close. Una modesta camera d’albergo, a Parigi (una camera di un modesto albergo parigino, fa lo stesso). Giovani donne posano seguendo le morbose indicazioni di un anziano voyeur, Serge Bramly. Specchio dei tempi? Sempre e comunque maschilismo? A qualcuno, è piaciuto. 2001 Thomas Hoepker: Manhattan vista da Williamsburg, Brooklyn 11 settembre 2001. Da lontano, ma vicino, la vita continua come se nulla fosse. È questa la vita dei nostri giorni?

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L’edizione originaria Photo Icons - The story behind the pictures, di Hans-Michael Koetzle, del 2005, è composta da 352 pagine 15,5x21,7cm; 9,99 euro. La sua edizione è oggi superata dall’attuale 50 icone della fotografia - Le storie dietro gli scatti, in italiano, che ha aggiunto altre quattordici fotografie epocali.

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(continua da pagina 58) re si sono susseguite e susseguiti, e come tali sono scanditi dalla sequenza del casellario, ma è una raffinata e colta visione sottotraccia. Attenzione, a suo straordinario merito, tra altre opere dello stesso autore Hans-Michael Koetzle, ricordo anche l’ottimo Fotografi A-Z, imponente casellario di trecentonovantotto (quattrocentotré) autori che hanno lasciato una impronta indelebile nella Storia della fotografia, presentato in FOTOgraphia dello scorso maggio, e l’avvincente, ma selettivo (ahinoi, in tedesco) Das Lexikon del Fotografen - 1900 bis heute. Invece di dilungarsi sulla sequenza soltanto temporale dei fatti, l’autore ha individuato punti focali a proprio modo di vedere rappresentativi dell’insieme, ovvero rappresentativi dell’intera vicenda nel proprio complesso. In definitiva, è questa la chiave rivelata dal sottotitolo Le storie dietro gli scatti, ovvero la storia dietro le immagini. Nella successione (dal 1827 al 2001) non conta tanto l’avvicendarsi di date, quanto la palese manifestazione di fatti fotografici significanti, sia per l’ambito propriamente fotografico, sia per la relativa proiezione sulla società e il costume, ovvero sulla Storia. Con la forza delle proprie opinioni, Hans-Michael Koetzle ha selezionato una consecuzione di ele-

menti discriminanti, oltre che rappresentativi, e li ha commentati, ripetiamolo in duplice proiezione: verso l’evoluzione del linguaggio espressivo e verso lo svolgimento più ampio della vita. In pratica, conservando una successione temporale, a partire dalla originaria Vista dalla finestra di Gras, di Joseph Nicéphore Niépce (1826-27), universalmente riconosciuta e identificata come la prima fotografia riuscita, Hans-Michael Koetzle ha indicato e percorso una serie di tappe a proprio modo di vedere ideologicamente espressive. Non una storia che esaurisce l’esauribile (ammesso, e non concesso che questo sia anche possibile, e che le altre storie questo facciano), ma una storia disegnata unendo puntini apparentemente autonomi, ma collegabili, quindi collegati. Per fare questo, Hans-Michael Koetzle analizza non un insieme di fotografie, né una consecuzione di autori; invece, per ognuno degli autori selezionati si sofferma su una sola immagine emblematica e da questa parte per e con il suo racconto (elenco completo a pagina 60). Ciò detto, va sottolineato il pregio del lavoro di ricerca e documentazione, arricchito da testimonianze di prima mano e da combinazioni che (finalmente!) inquadrano le singole immagini in propri conte-


QUATTORDICI IN PIÙ

L’originaria raccolta Photo Icons - The story behind the pictures, del 2005, ha riunito trentasei fotografie (commentandole in edizione non italiana, va rilevato). Dello stesso curatore Hans-Michael Koetzle, l’attuale monografia ampliata 50 icone della fotografia - Le storie dietro gli scatti approda a cinquanta fotografie, certificate nel titolo (in edizione italiana dei testi). In entrambi i casi, tra i tanti modi di raccontare la storia evolutiva del linguaggio fotografico, ricca di mille e mille sfumature, il curatore ne ha adottato uno che si distingue per originalità. Frutto di una selezione meticolosa e personale, questa non è una semplice cronologia di date e avvenimenti, che pure si sono susseguite e susseguiti, e come tali sono scanditi dalla sequenza del casellario, ma è una raffinata e colta visione sottotraccia. Per il passaggio da trentasei a cinquanta, sono state prese in considerazione quattordici fotografie in più. In ordine cronologico: ❯ Hippolyte Bayard: Autoritratto da annegato (1940); ❯ Alois Löcherer: Busto della Baviera (1850); ❯ Robert Howlett: Isambard Kingdom Brunel (1857); ❯ Konrad Ressler: Bertolt Brecht (1927); ❯ Sam Shere: Lakehurst New Jersey / Usa (1937); ❯ Alfred Eisenstaedt: Il giorno della vittoria (1945); ❯ Ernst Haas: Vienna (1947); ❯ Will McBride: Barbara con Shawn in pancia (1960); ❯ Peter Leibing: Salto nella libertà (1961); ❯ Nick Ut: Kim Phúc - Napalm contro i civili (1972); ❯ RAF: Hanns Martin Schleyer prigioniero della RAF (1977); ❯ Martin Parr: Acropoli, Atene, Grecia (1991); ❯ Bettina Rheims: Chambre Close (1992); ❯ Thomas Hoepker: Manhattan vista da Williamsburg, Brooklyn 11 settembre 2001 (2001).

sti realistici. Nessuna fotografia è trattata a sé, come elemento asettico di una non-storia (errore che troppo spesso si commette: già ne abbiamo scritto in occasioni precedenti), ma tutte sono, come si dice, contestualizzate. Quasi a dire -alla nostra maniera-, come la fotografia influenza / ha influenzato la vita. Un esempio, tra i tanti possibili, riguarda il mitico Bacio all’Hotel del Ville, di Robert Doisneau, del 1950. È lo spunto per presentare l’autorevole autore francese, ma il racconto non è teorico e, addirittura, si completa con la presentazione delle pagine di Life, del 1950, dove la fotografia fu pubblicata per la prima volta, all’interno di un ampio servizio (di Robert Doisneau) sullo scambio di effusioni/baci a Parigi. Analogamente, ogni altra immagine commentata da 50 icone della fotografia è trattata e presentata allo stesso modo, nella propria contemporaneità prima della proiezione storica: fotografie in quanto tali, prima di diventare icone. La trattazione di Hans-Michael Koetzle è a dir poco competente, tanto che ne consegue un racconto avvincente. Come accennato, le scelte sono individuali e quindi non necessariamente condivisibili: ognuno di noi ne avrebbe sicuramente fatte di diverse. Ma questo del personalismo sottintende un merito e valore che non vanno sottovalutati. Anzi, è esattamente vero il contrario: soprattutto oggi, in epoca di “politicamente corretto”, nella quale ancora pochi scelgono e indicano vie. In un mondo nel quale i più si limitano a seguire e accontentare il branco, ben vengano quelle voci che si elevano non per il tono, ma per i contenuti. ❖

Robert Lebeck: Leopoldville (1960). La fotografia che fece il giro del mondo, accompagnata dall’intero reportage: l’aggressione a re Baldovino, come simbolo di una condizione razziale nei caldi momenti del proprio culmine sociale.

Dorothea Lange: Migrant Mother, Nipomo, California (1936). Una icona del Novecento in una analisi originale per punto di vista e taglio, con altre visioni di ambiente.

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Sguardi su

di Pino Bertelli (Piombino, dal vicolo dei gatti in amore, 8 volte luglio 2011)

G

SABINE KORTH

Grande è la stupidità sotto il cielo della fotografia al tempo della civiltà dello spettacolo. La situazione è dunque eccellente per i fotografi del banale fantasmato come “arte”, ed invece è soltanto spazzatura colorata Photoshop (ma anche con la fotografia analogica è la medesima cosa; il mezzo non conta, e neppure il supporto sul quale si raccoglie la propria imbecillità): è facile collocare ogni artista nella schiuma culturale della propria epoca, difficile è avere stima della sua opera! La sola grandezza alla quale un artista può aspirare è la scoperta della bellezza come fuoco dell’eresia che si fonda sul “peccato”, demistifica ogni forma di autorità e annuncia il deicidio dell’arte e dei suoi cortigiani. L’imperfezione del vero è il passaggio verso la conoscenza di sé e il primo passo per la decostruzione dell’apparenza come forma normale di delirio. La criticità corrosiva di ogni opera d’arte senza bavagli figura una metafisica della solitudine che attraverso la metafora deterge la trattatistica della retorica e dissemina in ogni campo della comunicazione valenze di liberazione dei linguaggi domestici. Il gusto è una singolarizzazione (fotografica, pittorica, filmica, scritturale o della comunicazione antagonista dei social network, anche) dell’atto conoscitivo e fa della centralità del soggetto il principio di tutte le disubbidienze. Il disinganno dell’arte di Palazzo consuma il proprio fallimento nella tradizione genuflessa e l’intelligenza del buono decifra l’eminenza del meglio. Le imprese degne di plauso sono quelle indocili alle richieste del mercato e l’ingegno, il gusto o l’anomalia sanno riconoscere la propria forza e la sfera in cui esercitarli. Lo strappo delle regole perfeziona tutta la bellezza del divenire.

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SULLA FOTOGRAFIA DELLA DISINVOLTURA

Il sospetto di tradimento della fotografia autentica ha inizio nel reparto dei ritardati mentali dell’industria culturale. Una volta che si è entrati nella condizione di buffoni dell’immagine riciclata (non importa se argentica o numerica), mai più si esce dal disprezzo dei poeti che rifiutano le aspettative del consenso a tutto, in cambio di una sana eresia delle passioni e dei sentimenti che rifiuta le affettazioni (o le zavorre) dei dominatori a favore delle generosità del cuore (che non si occupano di miracoli, ma di lacrime e sangue dei giorni).

caduta del principe, se il cuore muore in un letamaio di convenienze e sottomissioni. Trovare una via di mezzo tra il tutto e il nulla (una terra libera) è sulla punta della strada o nel profanare i confini della prostituzione dell’intelligenza con fermezza e insolenza. Bandito l’incantamento dell’effetto, resta la gentilità del segno rovesciato, che è una scorciatoia per la riconoscenza di sé e dell’arte del vero. In ogni albergazione dell’arte, alcuni sarebbero stati celebri prodigi nel proprio impegno, se altri non li avessero preceduti. Grande vantaggio essere interpreti di singolarità avversate

«La disinvoltura, anima di ogni pregio, vita di ogni perfezione, vigore delle azioni, grazia delle parole, fascino di ogni buon gusto, lusinga l’intelligenza e meraviglia la spiegazione. È distinzione delle stesse distinzioni ed è bellezza formale» Baltasar Gracián Il catalogo della fama è un elencario di deficienti che fanno professione di servire le cattedre del successo. Tutta la macchina politica/culturale dissimula le loro volgarità e alleva uno sterminato verminaio di sciocchi che si riconoscono nella patologia della merce o nella sindrome dell’artista incompreso finalmente realizzato. La sola arte che sanno realizzare con giudizio è quella della firma sugli assegni! Che importa che l’arte partecipi alla

dal pensiero dominante (o censurate, sovente anche recuperate). «Sono tenuti imitatori del passato quelli che seguono, e, per quanto sudino, non possono liberarsi dalla faccia dell’imitazione. I primi portan via il maggiorascato della fama, e per i secondi restano a malapena gli alimenti» (Baltasar Gracián). I cammini che portano alla singolarità in ogni campo del sapere sono scorciatoie di grandezze che denudano la storia del potere del-

le proprie nefandezze o ipocrisie edulcorate. La fotografia della disinvoltura di Sabine Korth consiste nella pratica di un’affabulazione artistica che evita o incrina le regole del fare: fotografia come viene dispensata nell’insegnamento scolastico, nelle casistiche dell’avanguardia o nell’esasperazione della comunicazione fine a se stessa. È una ricerca surreale dell’universo fotografico che non disdegna l’eleganza del figurale o il valore del vero: si richiama all’eleganza dell’onirico iconografico con disinvoltura, appunto, con leggerezza, anche; tuttavia, si oppone alla facilità del bizzarro, e, con la spigliatezza propria alla sovranità delle passioni, travalica i princìpi ordinari della macchina fotografica (quale essa sia). Lavora le immagini con “segni” diversi (montaggi arbitrari, nemmeno sempre fotografici, inserimenti di elementi pittorici o grafici), e nella tessitura finale ciò che conta è la vitalità che fuoriesce da forme altre del comunicare. L’impresa inattesa figura acutezze interpretative del reale e l’artificio si trascolora in eloquenza fuori da ogni vana ostentazione segnica. Quando il mescolamento tra immagine fotografica e materiali occasionali è compiuto, le immagini della fotografa raggiungono una metafisica (cosmogonia) del sogno di notevole pregnanza del reale e riportano il gesto fotografico in altri ambiti della lettura immediata. Detto meglio: come gli oggetti d’affezione di Man Ray (e non voglio qui ricordare i grandi fautori del fotomontaggio fotografico, perché vorrebbe dire altro riguardo al lavoro fotografico di Sabine Korth), le costruzioni iconografiche della fotografa tedesca esprimono la consapevolezza del desiderio e in un’autobiografia (mai apertamente enunciata) dei


Sguardi su sentimenti struccati esprimono l’architettura di un pensiero che parte dalla fotografia per approdare a un iperrealismo della condizione umana. Insomma, ogni forma d’arte di pregio risiede nella forza di amare o odiare, che deriva dal reale che abbracci o che bruci. Le idee sono più potenti dei fucili, le immagini più indelebili del sangue versato dai popoli in rivolta. Non ci interessa per nulla ricordare qui gli studi, le docenze internazionali, le mostre, i premi, i libri di Sabine Korth; nemmeno le interviste d’occasione, gli articoli banalizzati, la cortesia della fotografa a quanti si sono occupati del suo lavoro. Invece, c’importa approfondire il suo percorso espressivo, il fotocollage terapeutico, gli scatti digitali solidali, la fotografia sperimentale. Le sue fotoscritture invitano a un viaggio fuori dall’abitudinario e nel disavanzo di una malinconia della realtà riconducono alla comunicazione interiore e alla rivisitazione di sensi spesso trascurati, come la riappropriazione del corpo in rapporto all’ambiente nel quale sopravvive, o non viene tenuto in grande considerazione. È strano, la civiltà dello sguardo sembra aver dimenticato il gesto, il toccare, il contatto con gli altri e al contempo perseguire necessità e bisogni estranei al vero piacere. Le strade della fotografia sono piene di abatini o mercenari dell’illusione fotografica, ma sono pochissimi i filatori di sogni. «Tutti i critici andrebbero assassinati. Un critico non ha ragion d’essere, a meno che non scriva l’elogio di ciò che ama e taccia su quel che disapprova» (Man Ray). Già, Man Ray non aveva torto quando voleva fucilare i depositari della ragione critica, ma si sbagliava (e molto) quando sosteneva che dovevano tacere sulla merda artistica preda di storici, galleristi, operatori del settore, che fanno di ogni opera d’arte (anche la più imbecille) un affare di banca. La vera audacia di un artista consiste nell’esprimere

interamente se stesso e comprendere (non importa nemmeno bene) che un nuovo modo di vedere e fare dell’arte è minare le fondamenta del potere e far saltare in aria le chiese del sapere. Ci sono più meraviglie nelle insurrezioni popolari che fotografano se stesse (con macchine usa-e-getta, telefonini, videocamere amatoriali poi diffuse nel Web, come è accaduto nelle recenti rivolte arabe) che in tutti i musei della Terra. È il valore d’uso dello strumento (e come si usa, Karl Marx diceva) a creare l’opera d’arte, il resto è merce reificata per la domesticazione delle masse. Lavorare con la luce, non significa limitarsi a registrare ciò che il fotografo si trova dinnanzi, ma interpretare la realtà della quale è spettatore, complice o uomo/donna in rivolta. L’espressione di un’idea stimola l’immaginazione e in virtù di una morale egualitaria, tutti (anche i più emarginati) sono il prossimo e sono degni di far parte della geografia etica dell’umanità.

SULLA FOTOGRAFIA DELLA DECOSTRUZIONE La deriva fotografia di Sabine Korth (Mannheim, Germania, 1958) emerge dalla decostruzione figurativa dell’immagine presa e contaminata. Le sue fotografie segnano il progressivo annullamento dei canoni classici del linguaggio fotografico, lavorano al lato dei meccanismi della visione ottica comune, infrangono lo spazio, la prospettiva, l’assetto tradizionale della scrittura fotografica. È una visione impressionista del costruire il fotografico in ciò che sborda al lato dalle immagini originarie... una ricerca o un’esplorazione di territori fotografici fuori dalle regole... un’autonomia d’espressione che buca le terminologie del bianconero e del colore, sposta l’angolazione della ricezione e mostra il punto di vista dell’artista. Questa elaborazione espressiva ha maestri illustri, certo, nella pittura (Marcel Duchamp), nel-

la fotografia (Robert Frank), nel cinema (Hans Richter)... tuttavia la molteplicità dei punti di vista, sovente minimi, a volte non percepibili a una prima lettura, colloca le fotografie di Sabine Korth al di là, o al di qua, dell’immediato e costruisce una sintesi emozionale che incrocia la realtà evocata con l’immaginale della fotografa. Immagini sovrapposte, sdoppiamenti di senso, interventi di materiali plastici diversi si srotolano in racconti onirici e intrecciano la tecnologa digitale in montaggi manuali anche arditi, a volte persino troppo, e come in un film sperimentale riproducono una mimesis della realtà data, che rovescia o denuda le pontificazioni del vero. «La decostruzione -ricorda Jacques Derrida- non è una teoria, né una filosofia. Né una scuola, né un metodo. Neanche un discorso, un atto o una pratica. È ciò che accade, che sta accadendo oggi. La decostruzione è l’“evento” che ridisegna (rifotografa) uno spazio e delegittima il senso imposto nella “differance” come traccia sotterranea o ponte o approdo che risale dal significante al significato, e nell’immediata presenza di sé dà forma e senso alle intenzionalità dell’autore. È una rivalutazione della comunicazione, del linguaggio metaforico, che nella sparizione del “segno archetipale” dal quale parte riconduce alla ricomposizione del buono e del bello. La fotografia della decostruzione è un dispositivo che dissemina incertezze, e nell’ambito del simbolico o del surreale coinvolge autore e lettore in una partitura visuale che è eco/interazione di quell’umanesimo aperto del quale parlava Jean-François Lyotard: «L’interazione che trasforma il destinatario in destinatore; i corpuscoli di materia, che in fisica sono sia referente che codice; l’arte che ha trasformato materiali e codici in referenti; il cemento in architettura che da supporto della forma diventa parte del codice che

può modificarla e così via». L’immaterialità della decostruzione fotografica («abolizione della distinzione tra materia ed energia -che da contrari divengono opposti correlativi a favore di entità ibride- nel senso che parte della materia si sottrae alla forma», Jean-François Lyotard diceva) destituisce la “naturalezza” del soggetto, e nel processo di decostruzione successivo riconfigura l’opera d’arte. A leggere con attenzione le fotografie di Sabine Korth (ombre sulla spiaggia, pesci volanti in cieli improbabili, figurine di carta ritagliate alla maniera dei bambini, pecorelle smarrite in specchi che sembrano laghi, cammelli inseriti in ambienti estranei alla loro quotidianità, edifici, stazioni, treni trattati come paesaggi della memoria, autoritratti giocosi, bocche di ruscello che si perdono nel mare, arbusti seccati dall’inquinamento industriale, pagine di libro che bruciano o parole disperse nello spazio architetturale dell’opera... sovente contaminati da elementi sarcastici... fotomontaggi coraggiosi, perfino troppo ridondanti... ma anche la ritrattistica familiare ritagliata su altri versanti compositivi) non è difficile riconoscere il suo tentativo (in parte riuscito, specie nella produzione in bianconero realizzata in Germania) di coniugare la decostruzione della fotografia con l’intimità del proprio immaginario e la capacità di mostrare l’anima a riduzione del dolore del mondo. Le sue immagini attraversano i margini dell’ordinario e si collocano sotto la pelle del reale. Fotografia e filosofia s’intrecciano e l’emozione prevale sulla tecnica; ciò che ne consegue è il compimento di un passaggio dal figurale all’insorgenza di un bisogno, quello di padroneggiare il tempo delle cose materiali e fare della fotografia il debutto di un sogno: una fusione tra etica ed estetica, che esplora e sintetizza l’ordine del discorso. Fotografare significa arrestare la realtà, non per contemplarla, ma per domarla, nutrirsene e restituirla agli angeli

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Sguardi su gnostici della felicità ritrovata. Una fotografia senza museo (se non quello della strada) annuncia un’estetica della libertà... e non c’è fotografia che conti senza un’idea di rivoluzione (non solo fotografica) che la sostenga. I fotomontaggi di Sabine Korth composti nella raccolta Da Sud a Nord contengono l’anima poetica della fotografa disvelata: sono immagini di singolare bellezza autoriale, che lasciano intravedere le lezioni estetiche/etiche di Jerry Uelsmann, David Hockney e Grete Stern, specialmente. Ma sotto tagli di luce trasversali, forbici magiche e giustapposizioni improvvise riescono a restituire nel proprio splendore l’immaginario poetico di un fare-fotografia che assembla scene di vita quotidiana ad ambienti nudi, figure mosse, alberi, binari, corpi di ragazzi distesi su lenzuoli sacrali della povertà, qua-

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si a testimoniare relazioni tra creatività e disagio del vivere... maternità infantili, giovinezze impoverite, infanzie allegre in strade allagate, sguardi abbassati di donne infagottate in veli pesanti... letti di hotel, baci appassionati, cimiteri di croci accatastate e circondate da muri bianchi, balli di maschere antiche. Sono il prontuario estetico nel quale Sabine Korth disperde la sua carica eversiva e la qualità dell’espressione libera che costruisce situazioni che producono uno stile. La trasfigurazione dei corpi, dei luoghi, dei segni è deposta in un’architettura poetica, nella quale l’esistenza dell’artista è anche l’arte dell’esistenza e basta una sola immagine di Sahara dancers, dove si vede una donna bianca che balla con un nero e ride di piacere, per comprendere la regalità della fotografia come can-

to o edificazione del meraviglioso che mira all’eguaglianza del diverso da sé. L’eleganza, la grazia, la maniera, lo stile della fotografia di Sabine Korth riportano al decoroso, all’equilibrio, all’imperfetto che affermano l’identità dell’istante scippato alla crudeltà della storia. La fotosurrealtà elaborata di Sabine Korth veicola immagini, fotomontaggi, tracce di un vocabolario di sensazioni, desideri, timori. Sono un vivaio educativo che non lusinga, né ferisce e riporta a infanzie interminabili mai dimenticate. L’autonomia del significante le permette di produrre un incanto, mai ingannevole, che la porta a giocare con gli interlocutori fuori dalla morale giubilatoria di ciò che si deve fare o che non si deve dire nella vita ordinaria. Le sue immagini annunciano il futuro che avanza sul passato

che non muore mai e ciò che è stato detto si fa vedere, si fa ascoltare, si espone a non essere frainteso. Il linguaggio è quello dell’humour, dell’ironia, del cinismo libertino, anche. Senza aggressività, finzioni o distorsioni estetizzanti è una fotografia che funziona sul princìpio delle affinità elettive, dove tutto è possibile se la percettibilità dell’altro entra in sintonia con quanto vede di fronte a sé. È una scrittura fotografica dei “trovatori” (cantastorie), che nella pratica dell’amore cortese riuscivano a comunicare la dolcezza dell’amore e l’insolenza del piacere come scoperte del sé: un’associazione spirituale tra corpo e materia che riporta alla bellezza convulsiva della quale parlava Nietzsche, punto di congiunzione tra destino del tragico ed eterno ritorno alla fondatezza dell’esistenza. ❖




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