FOTOgraphia 176 novembre 2011

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Mensile, 6,50 euro, Poste Italiane SpA - Spedizione in abbonamento postale - D.L. 353/2003 (convertito in Legge il 27-02-2004, numero 46), articolo 1, comma 1 - DCB Milano

ANNO XVIII - NUMERO 176 - NOVEMBRE 2011

Ricordo LA LINEA GIALLA Dalla storia VOLTI ANONIMI


Non è venduta in edicola. Per averla hai una sola possibilità: sottoscrivere l’abbonamento annuale. 12 numeri 65,00 euro

Abbonamento 2011 (nuovo o rinnovo) in omaggio 1839-2009

Dalla Relazione di Macedonio Melloni alla svolta di Akio Morita M A U R I Z I O

R E B U Z Z I N I

1839-2009 Dalla Relazione di Macedonio Melloni alla svolta di Akio Morita

Come dire, dal dagherrotipo all’acquisizione digitale di immagini. E consecuzioni

INTRODUZIONE

DI

GIULIANA SCIMÉ

F O T O G R A P H I A L I B R I



prima di cominciare UN ALTRO SOGNATORE. La triste notizia era nell’aria da tempo. La malattia era nota: Steve Jobs, il geniale fondatore di Apple Computer, si è spento il cinque ottobre, a cinquantasei anni. Minato da un rarissimo tumore al pancreas, ha guidato la sua azienda fino alla fine dello scorso agosto, quando ha dovuto inevitabilmente cedere. Nato nel 1955, nell’epoca che gli americani storicizzano come “baby boom”, che ha registrato un sostanzioso incremento delle nascite (all’indomani della Seconda guerra mondiale, dal 1946 al 1964), Steve Jobs ha interpretato in maniera straordinaria lo spirito di frontiera che ha caratterizzato, una volta ancora nella storia americana, la sua generazione. Al pari di altri geni, i sogni e i miti di Steve Jobs hanno letteralmente trasformato la nostra esistenza quotidiana: prima con un personal computer a dir poco esemplare, poi con applicativi radicalmente innovatori, simbolo evidente dei nostri giorni: iMac, iPod, iPhone, iPad. Altri lo ricordano con biografie di circostanza. A me viene invece da richiamare un episodio di qualche stagione fa, che rivela un’etica e morale (anche del capitalismo) delle quali andare fieri e orgogliosi. Del resto, ne sono più che convinto, le nazioni si costruiscono sull’onore e l’integrità, una pietra solida sopra un’altra pietra solida. E lo stesso penso per i mercati, il commercio... e l’esistenza individuale, che si proietta nel collettivo. Dunque, venuto a sapere che un ragazzo era stato ucciso durante uno scippo, per rubargli l’iPod, Steve Jobs ha costituito un fondo economico a sostegno della sua famiglia. Più che per i prodotti che ha genialmente inventato, o sollecitato a inventare, per soddisfare sogni e visioni di un mondo migliore, ricordo Steve Jobs per questo. Per quanto influenti sulle esistenze di ognuno di noi (come le tecnologie influenzano / hanno influenzato la nostra vita), i sogni non hanno tempo, né geografia. Sono sogni, che respirano nel vento, e che ci raggiungono quando meno ce lo aspettiamo. M.R.

Gocce di memoria. Punto. Maurizio Rebuzzini; su questo numero, a pagina 23 Volevo mangiare la fotografia sui libri, mi è rimasto il suo smarrimento addosso. Pino Bertelli; su questo numero, a pagina 63 L’arte: lo specchio che mostra le modificazioni e i rimodellamenti del reale che l’uomo opera intorno a sé. Andrea Villanis; su questo numero, a pagina 16 Magia e fascino della fotografia anonima (e privata), che compensa il racconto professionale di avvenimenti annunciati e previsti, sui quali si sono accesi i riflettori dell’attenzione pubblica e globale. Antonio Bordoni; su questo numero, a pagina 58

Copertina La vita è segnata dalle nostre motivazioni affettive, alle quali la fotografia offre testimonianza. Su un pensiero di Beppe Vigasio, fotonegoziante storico di Brescia, un incontro a dir poco emozionante. Gocce di memoria

3 Altri tempi (fotografici) Dalla copertina del Catalogo Generale Kodak, del 1910. Una volta ancora, una volta di più, mai una volta di troppo, eleganza della presentazione fotografica, che dalla Box Kodak, del precedente 1888 (la prima delle grandi svolte senza ritorno), ha aperto alla raffigurazione al femminile: consecuzione secondaria

7 Editoriale In ripetizione, d’obbligo: gocce di memoria. Punto.

8 Grazie, signora Winkler A fine ottobre, è mancata Helga Winkler, presidente di Fowa, azienda di distribuzione fotografica da lei creata nel 1971, in trasformazione dell’originaria Fotoexakta, del 1958. Interpretando con straordinarie personalità il proprio ruolo, è stata una grande imprenditrice, probabilmente la più grande del settore fotografico. Ha dato molto al nostro mercato e a tutti noi. Grazie di Maurizio Rebuzzini

10 Notizie Attrezzature, vicende e altre segnalazioni

12 Seducenti animazioni Dalla home page del sito Apple, il laconico e laico annuncio della scomparsa del fondatore Steve Jobs.

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Avvincente retrogusto fotografico tra le pieghe del film Una notte al museo 2 - La fuga, nel quale si anima una delle icone della Storia della fotografia. Evviva Ricerca iconografica di Filippo Rebuzzini


NOVEMBRE 2011

R , RIFLESSIONI IFLESSIONI, OSSERVAZIONI E COMMENTI OSSERVAZIONI E COMMENTI SULLA FOTOGRAFIA SULLA FOTOGRAFIA

16 Le Violon d’Ingres Davanti a una delle più avvincenti espressioni della fotografia surrealista, di Man Ray. Con saggezza di Andrea Villanis

Anno XVIII - numero 176 - 6,50 euro DIRETTORE

RESPONSABILE

Maurizio Rebuzzini

IMPAGINAZIONE

Maria Marasciuolo

18 Immancabilmente, Araki

REDAZIONE

Ennesima monografia di Nobuyoshi Araki, autore contemporaneo tra i più apprezzati e ammirati al mondo: pubblicata da Phaidon, Io vita morte è adeguatamente rappresentativa di una fantastica parabola espressiva di Angelo Galantini

FOTOGRAFIE

Angelo Galantini Rouge

SEGRETERIA

Maddalena Fasoli

HANNO

COLLABORATO

Progetto collettivo degli autori del Gruppo Polaser: fotografia in accompagnamento a poesia dialettale di Pino Valgimigli

Pino Bertelli Antonio Bordoni Mosé Norberto Franchi Gruppo Polaser Yossi Loloi Chiara Lualdi Franco Sergio Rebosio Ciro Rebuzzini Filippo Rebuzzini Pino Valgimigli Beppe Vigasio Andrea Villanis

30 La linea gialla

Redazione, Amministrazione, Abbonamenti: Graphia srl, via Zuretti 2a, 20125 Milano; 02-66713604 www.FOTOgraphiaONLINE.it; graphia@tin.it.

22 Gocce di memoria A valle di un milione di scatti, un milione di fotografie. Un milione di ricordi. Un milione di gocce di memoria di Maurizio Rebuzzini

24 La mia terra

L’appassionante monografia La ferrovia transappenninica: il viaggio, i territori, la gente è scandita su e con un ritmo doppio: fotografie di sei autori in coro e racconti a tema di Mosé Norberto Franchi

40 Ottima sceneggiatura In ricordo di Sergio Bonelli, l’incontro di Tex Willer con il fotografo dell’Ottocento Timothy H. O’Sullivan

48 Dal SWPA 2011 Fotografie non professionali, segnalate nelle sezioni Open Nature and Wildlife e Open Travel dello strepitoso Sony World Photography Award 2011. Altre a seguire

54 Volti anonimi The Face in the Lens racconta una certa fotoricordo: capitolo straordinario della Storia della fotografia di Antonio Bordoni

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Rivista associata a TIPA

60 Inviolabilmente, Betty Un’altra mostra celebra e conferma il mito di Betty Page: alla Wave Photogallery, di Brescia, dal tre dicembre

63 Fotografia della libertà Per una filosofia libertaria dell’arte fotografica di Pino Bertelli

www.tipa.com

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editoriale G

iunti a questo punto (di tecnologia), si impongono riflessioni e considerazioni che vadano oltre la sola superficie delle questioni. Come previsto, oltre che temuto, una volta risolti gli equilibri principali (la sovrastruttura portante), l’inviolabile richiesta di novità a tutti i costi ha imposto ai produttori di andare oltre: di arrivare sottotraccia, di muoversi per vie traverse e affrontare l’infrastruttura della ripresa fotografica. Così che sono ormai obbligatorie le fantomatiche funzioni “artistiche” e “creative”, che a un tocco di pulsante trasformano la fotografia standard -ritenuta troppo banale e poco appagante-, trasportata verso altre esuberanze formali. Soltanto formali. Ovvero, detta altrimenti: la fotografia, che meriterebbe di essere apprezzata in quanto tale -fotografia-, va ad assumere altri connotati, indossando abiti diversi (soprattutto pittorici) e anche propri (dall’apparenza delle macchine giocattolo alla fisionomia delle copie a sviluppo immediato). Invece di essere “artistica” in relazione e dipendenza dei propri valori lessicali e grammaticali, lo diventa in subordine all’acquisizione di altri parametri, alla portata di un semplice tasto, da premere in clamorosa scorciatoia di intenti. Ci sarebbe tanto da dire al proposito, ma non qui e non ora. Soltanto, annoto come e quanto gli equilibri concettuali attorno la fotografia si basano su intrecci infiniti, all’interno di una vicenda che, senza soluzione di continuità, passa dalla tecnica alla creatività, dalla produzione all’utilizzo, dal proprio ambito alla società, dal linguaggio alla comunicazione. E tanto altro ancora. Ciò rilevato, non soltanto per questo, considero quantomeno disdicevole questa attuale indicazione industriale, che riporta indietro l’ipotesi fotografica di decenni, se non secoli, addirittura. Anche senza averne avuta l’intenzione (escludo che l’industria produttrice abbia tanta competenza storica), in un certo senso torniamo allo stucchevole pittorialismo del secondo Ottocento, quando la fotografia pietiva di accedere all’arte dimostrando di saper imitare e applicare gli stereotipi della raffigurazione pittorica (appunto). A distanza di decenni, in avanti, furono altri gli autori che offrirono alla fotografia l’agognata patente, applicando esclusivamente il linguaggio esplicitamente fotografico. Storia antica, storia nobile, della quale dobbiamo essere fieri. E allora: nessuna elemosina deve essere richiesta, ma si devono esigere riconoscimenti per se stessi e per le proprie prerogative ed espressività. La fotografia che sembra un quadro, magari buona per le pareti del salotto di nonna Speranza, non è né una né l’altro. Smette di essere dignitosamente se stessa, senza peraltro fare alcun balzo avanti (?). Sia professionale, dal giornalismo alla moda, alla pubblicità, sia espressiva, sia fotoricordo, la fotografia resti sempre e soltanto fotografia. Tanto basta, senza peraltro mai avanzare. Tanto ci basti. Con emozionanti gocce di memoria. Punto. Maurizio Rebuzzini

Gocce di memoria. Evocate in copertina e celebrate da pagina ventidue. Gocce di memoria. Punto.

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Ricordo di Maurizio Rebuzzini

GRAZIE, SIGNORA WINKLER

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ALBERTO DUBINI

Q

Quesito intrigante. I rapporti professionali che contemplano una inevitabile scala gerarchica possono delineare una sorta di “amicizia”? Non parlo di amicizia complice, che si manifesta soprattutto nel susseguirsi delle giornate e delle singole esistenze che si incrociano -tratteggiate anche da confidenza, familiarità, fratellanza, intimità-, ma di qualcosa di più elevato, perché intangibile, perché lontano da impellenze e urgenze quotidiane. Parlo di affetto. Mi pongo la domanda all’indomani della scomparsa di Helga Winkler, fondatrice e presidente di Fowa (azienda di distribuzione fotografica creata nel 1971, in trasformazione dell’originaria Fotoexakta, del 1958), mancata sabato ventidue ottobre. Avrebbe compiuto settantotto anni a dicembre; dunque, ci hanno separato diciotto anni di età, lo spessore e valore del suo ruolo nel mondo del commercio fotografico italiano... e due autonome scale di esperienze individuali. Ma! Ma ho sempre pensato alla signora Winkler con sentimenti di amicizia e affetto, che nulla hanno avuto da spartire con possibili strategie e tattiche professionali. Tanto più che in tutti gli incontri pubblici, organizzati a sostegno e supporto dei marchi rappresentati da Fowa, la signora ha sempre rivelato una sua interpretazione d’amore del commercio fotografico. Fatti salvi i legittimi princìpi della redditività di impresa, la signora ha sempre e comunque espresso passione: non tanto per la fotografia (all’eventuale proposito, non ne so nulla), quanto del e per il suo ruolo, sistematicamente indirizzato e declinato verso il suo referente unico: il cliente, sia quello finale sia il fotonegoziante intermediario. A questo punto, si impone un aneddoto. La scorsa estate 2010, nella tarda mattinata di domenica, la signora ha raggiunto i locali torinesi nei quali si stava svolgendo la quindicesima edizione del Pentax Day (che fa bandiera della linea di apparecchi da tempo distribuiti da Fowa). Si è guardata in giro alla sua solita

Helga Winkler, presidente di Fowa, azienda di distribuzione fotografica da lei creata nel 1971, in trasformazione dell’originaria Fotoexakta, del 1958, è mancata sabato ventidue ottobre.

maniera -che abbiamo conosciuto tutti noi che operiamo in allungo sul commercio fotografico-, e ha richiamato l’attenzione del servizio di catering sulla quantità e qualità del rinfresco proposto, oltre che su alcune inadeguatezze del locale. A memoria, ma molto prossimo al testuale: «Ci sono persone che ho invitato io; sono miei ospiti: voglio che vengano accuditi al meglio possibile». Da cui, pensando ai tanti anni di incontri con la signora Winkler, rivelo che soprattutto a lei (forse soltanto a lei, a parte un altro caso, ormai defilato: Lorenzo Cattaneo, di Genova) debbo la consapevolezza che accompagna, cullandola, la mia frequentazione professionale del mercato fotografico; ovverosia, consapevolezza che il mercato non sia composto soltanto da cifre e valori, che pure lo definiscono, ma animato anche da personalità e individua-

lità, delle quali fare prezioso tesoro. Così, non per retorica (ci mancherebbe: lei ha meritato qualcosa di più e meglio), in questo momento non posso ignorare una virtù della signora Winkler che ha stabilito una differenza autentica; in ripetizione, d’obbligo: ha raggiunto una ragguardevole redditività di impresa (legittima, lecita e regolare) interpretando il commercio fotografico anche con amore e passione. Dopo di che, le sue passioni professionali, le sue preferenze, sono note a tutti: Yashica (fenomeno che ha letteralmente inventato, portandolo ai vertici di vendita), Hasselblad e il comparto tedesco rappresentato da Carl Zeiss (e Contax), Metz e Minox. Fino al più recente impegno con Pentax. Tanti aneddoti, tante leggende avvolgono e raccontano il mito della signora Winkler; a parte la loro manifestazione ufficiale, indistintamente, tutti sono attraversati da una irrinunciabile trasversalità: una sottile linea di amore verso se stessa e gli altri, che ha altresì stabilito le linee conduttrici di una attività imprenditoriale spesso condizionata da decisioni imposte, da scelte inderogabili. Sicuramente, la signora Winkler è stata una dei grandi del commercio fotografico. Potrei addirittura azzardarmi a definirla la più grande (soprattutto tenuto conto di quanto ha fatto con un prodotto originariamente più che modesto, Yashica, e con un altro marchio, Hasselblad, sì leader, che in Italia si è affermato come in nessuna altra parte del mondo). Sì, la signora Winkler è mancata. Mi auguro che la sua lezione le sopravviva avanti negli anni. L’ho sempre ammirata e stimata; il nostro è stato un rapporto professionale attraversato da affetto e ricco di curiosi momenti: questi sono tutti conservati nel mio cuore; tutti contribuiscono al bagaglio delle mie esperienze irrinunciabili. Signora Winkler, grazie per tutto quello che hai fatto per il mercato della fotografia e per ciascuno di noi. Io, tra tutti. ❖



Notizie a cura di Antonio Bordoni

CHE REFLEX! La strada autonoma di Sigma, che dalla proposta di obiettivi universali di eccellenti prestazioni si allunga sull’intero comparto della fotografia dei nostri giorni, approda a una configurazione reflex di alta qualità e avvincente prestigio: da non sottovalutare (anzi, e addirittura, è vero l’esatto contrario: da tenere in alta e grande considerazione). Anzitutto, e prima di tanto altro, la reflex Sigma SD1 fa valere la risoluzione di ben quarantasei Megapixel (4800x3200 pixel, per tre strati!), con sensore a immagine diretta 24x16mm APS-C X3. Ammiraglia del proprio sistema fotografico, che percorre una strada eccezionalmente autonoma (che dovrebbe essere premiata dal mercato), la reflex Sigma SD1 è dotata di corpo leggero e robusto in lega di magnesio e anelli O-Ring, che la rendono stagna all’acqua e alla polvere, anche nelle condizioni d’impiego più dure e in condizioni ambientali particolarmente avverse. Oltre il consistente sensore a immagine diretta 24x16mm APSC X3, appena menzionato, si registra la presenza di un doppio processore di immagine True II (Three-layer Responsive Ultimate Engine), che sovrintende alla rapida elaborazione delle immagini ad alta risoluzione con ampia gamma di sfumature colore e restituzione tonale. La SD1 è la più attuale e recente configurazione reflex Sigma, e offre tutte le caratteristiche richieste da professionisti e non professionisti, che applicano un consistente e convinto esercizio fotografico. Bisognerebbe poter considerare i parametri tecnologici per quanto possono offrire alla ripresa fotografica, senza alcun preconcetto e alcuna prevenzione di marchio e/o modello: sogno che non trova riscontro nelle manifestazioni quotidiane del commercio fotografico italiano (quantomeno), altrimenti orientate e indirizzate. Ma! Ma così spesso sogniamo che sia. Anche per poter approfondire le prestazioni fotografiche di questa straordinaria configura-

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zione tecnica (e tecnologica), che interpreta le possibilità operative con piglio e decisione. Con franchezza, le notazioni operative discriminanti: a partire dal sensore a immagine diretta da quarantasei Megapixel (tecnologia proprietaria), nel quale ciascun pixel è sensibile ai colori primari della sintesi RGB. Oltre tanto altro, ciò garantisce la resa completa di tutta la gamma colore. I sensori inseriti in tre strati di Silicio, posti uno sopra l’altro, mettono convenientemente a frutto la caratteristica dello stesso Silicio di assorbire selettivamente, strato per strato, la luce rossa, blu e verde. Ciò permette di avere una risoluzione, pixel per pixel, migliore rispetto ai sensori convenzionali. L’architettura del sensore non genera l’effetto moiré, perciò non è richiesto il filtro passa-basso. Si può affermare che luci e colori, generati dal sensore a immagine diretta APS-C X3 da quarantasei Megapixel della reflex Sig-

ma SD1, sono fotograficamente restituiti nella propria completa tridimensionalità. Ancora e oltre. Ancora e in combinazione. Come appena rilevato, la Sigma SD1 è dotata di doppio processore di immagine True II, che aumenta la velocità di elaborazione e la qualità dell’immagine finale. Un particolare algoritmo di elaborazione garantisce immagini in alta risoluzione ricche di toni e cromatismi, in raffinata interpretazione. La Sigma SD1 adotta schede di memoria CF Tipo I. La reflex è anche compatibile UDMA, per la veloce elaborazione di una grande quantità di dati. Il sensore autofocus è basato su undici punti di lettura disposti a doppia croce. Il passaggio alla doppia croce aumenta l’accuratezza della messa a fuoco AF. Il Monitor LCD TFT da tre pollici, brillante e ben visibile, è definito da una risoluzione di ben 460.000 pixel, con ampio angolo di visione che facilita il con-

trollo della messa a fuoco e dell’inquadratura (e composizione). La reflex Sigma SD1 dispone di un sistema ottico di quaranta obiettivi, in innesto a baionetta Sigma SA, con conveniente passaggio dalla visione ultra grandangolare all’avvicinamento tele spinto; nella gamma sono comprese configurazioni fotografiche specialistiche, che includono disegni macro, fish-eye e dedicati alle più particolari condizioni della ripresa. In assoluto, sono dotazioni ottiche di alta qualità, che adottano elementi in vetro ottico FLD (a basso indice di dispersione), vetri alla fluorite e lenti asferiche. Nelle focali necessarie, fisse o zoom, la stabilizzazione ottica garantisce risultati fotografici eccellenti. In assoluto, l’autofocus si basa sul motore di messa a fuoco HSM ipersonico (tecnologia proprietaria) e ogni disegno ottico vanta rivestimenti Super Multi Strato. (M.Trading, via Cesare Pavese 31, 20090 Opera Zerbo MI; www.m-trading.it). ❖



Cinema

di Maurizio Rebuzzini - Ricerca iconografica di Filippo Rebuzzini

SEDUCENTI ANIMAZIONI

S

Sequel dell’originario Una notte al museo, di Shawn Levy, del 2006 (Night at the Museum), il consequenziale Una notte al museo 2 La fuga, stessa regia, del 2009 (Night at the Museum: Battle of the Smithsonian), ha spostato l’azione da New York a Washington: dal Museum of Natural History allo Smithsonian, dichiarato nel titolo statunitense. Protagonista è ancora Larry Daley (interpretato dall’apprezzato attore Ben Stiller, una delle star della più recente generazione), non più custode notturno, come fu all’interno del newyorkese Museo di Storia Naturale, ma chiamato a contrastare una pericolosa ribellione di personaggi storici in parata, alleati per conquistare il fatidico Potere (senza alcuna soluzione temporale di continuità, cattivi di ogni epoca: dall’antico Egitto a gangster del primo Novecento). Come al solito, non ci occupiamo della sceneggiatura cinematografica, se non per definire i confini dell’azione che sottolineiamo, in merito e dipendenza della propria consueta componente fotografica. Dal titolo è esplicito: anche in questa seconda tornata, tutto si svolge nell’arco di una sola notte; in analoga ripetizione: come già al Museum of Natural History, di New York, anche allo Smithsonian, di Washington, di notte le opere esposte nelle sontuose sale si animano e vivono una propria esistenza autonoma, che si interrompe invariabilmente alle prime luci dell’alba, quando tutti tornano al proprio posto, in forma pittorica e/o scultorea. Notazione d’obbligo: per esigenze di sceneggiatura, nel film, quadri e sculture conservati in altri musei, sono riuniti all’interno delle sale dello Smithsosian, che per la prima volta si sono concesse al cinema. Questo va rilevato e detto.

IN RIVOLTA La differenza sostanziale tra i due film dipende essenzialmente da logiche, intuibili e legittime esigenze cinematografiche. Ovverosia, si basa su una necessaria accelerazione della sce-

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Per sfuggire all’assalto di antichi guerrieri egiziani [a pagina 14], i protagonisti di Una notte al museo 2 - La fuga (di Shawn Levy, del 2009, sequel dell’originario Una notte al museo, del 2006), Larry Daley (Ben Stiller) e Amelia Earhart (Amy Adams), entrano nella celebre fotografia di Alfred Eisenstaedt, del bacio in Times Square. Improvvisamente, si trovano accanto alla folla festante per la fine della Seconda guerra mondiale, nei pressi del marinaio e della crocerossina che si stanno scambiando l’appassionante bacio passato alla Storia (non soltanto della fotografia). Prima di uscire dal passato (e bianconero), Larry Daley allontana il marinaio, e bacia a propria volta la crocerossina!

(pagina accanto) Amabili e cortesi animazioni, dal film Una notte al museo 2 - La fuga: del famoso e celebrato Nightawks, di Edward Hopper, del 1942, e di una interpretazione pittorica di pattinatori sul ghiaccio, elaborata e realizzata a partire da due opere coeve e pressoché identiche di Saul Kovner e Anges Tait, entrambe del 1934, entrambe titolate Skatin in Central Park.


Cinema neggiatura, che dalle lievi emozioni della prima tornata approda a una convulsa battaglia, al solito votata al bene (dell’Umanità). Infatti, i personaggi dello Smithsonian non soltanto si animano, ma addirittura progettano la conquista malefica del mondo. Da cui e per cui, Larry Daley (Ben Stiller) è chiamato all’inevitabile e immancabile salvataggio, a suon di scossoni e fragori. In tutto questo, si registra l’affascinante e seducente animazione di opere che non appartengono soltanto alla storia culturale e sociale statunitense, al cui interno peraltro nascono, ma si sono proiettate nella cultura universale, prepotente bagaglio dei nostri tempi. Ovviamente, c’è qualcosa di fotografico che ha richiamato la nostra attenzione mirata e consapevole. Ma prima di arrivarci, ancora altre considerazioni più generali, seppure mai generiche. Amabili e cortesi animazioni, anzitutto. Tra le tante che si verificano all’interno delle sontuose sale museali annesse alla prestigiosa e autorevole Smithsosian Institution, di Washington, una delle più notevoli degli Stati Uniti, una in particolare merita attenzione autonoma. È quella del famoso e celebrato Nightawks, dipinto da Edward Hopper, nel 1942, comunemente tradotto in I nottambuli (olio su tela 76,2x144cm), tra tanto altro, una delle icone più amorevolmente “profanate” e volgarizzate dalla fantasia popolare [FOTOgraphia, ottobre 2009]. Dall’immobilità generale, in gesti ampiamente noti e riconosciuti, sia del barista sia dei tre clienti al banco, in Una notte al museo 2 - La fuga si passa a una sequenza di azioni e rapporti tra i quattro personaggi [a sinistra, in alto]. Altrettanto dicasi per una interpretazione pittorica di fantasia -almeno, così la penso-, di pattinatori sul ghiaccio, elaborata e realizzata a partire da due opere coeve e pressoché identiche di Saul Kovner e Anges Tait, entrambe del 1934, entrambe titolate Skatin in Central Park (a propria volta ispirate al Paesaggio invernale con pattinatori e trappola per uccelli, di Pieter Bruegel il Vecchio, del 1565): anche qui e ancora qui, i pattinatori, originariamente isolati in un istante, interagiscono tra loro e animano una situazione

plausibile di vita, sotto gli occhi stupefatti del protagonista Larry Daley (Ben Stiller) [a sinistra].

ALLORA, FOTOGRAFIA! L’allineamento fotografico del film Una notte al museo 2 - La fuga chiama in causa addirittura una delle leggendarie icone della stessa fotografia; tanto tale, “icona”, da essere riportata sulla copertina del prestigioso e potente casellario 50 icone della fotografia - Le storie dietro gli scatti, di Hans-Michael Koetzle, presentato lo scorso settembre. Ovviamente, stiamo evocando (ma lo ha fatto il film, e noi in rimando e commento) Il giorno della vittoria, di Alfred Eisenstaedt, del 14 agosto 1945: uno dei baci più famosi della storia della fotografia, trasmigrato nella società e nel costume. La guerra è finita. Si lascia alle spalle un incubo. In questo caso (soltanto!), l’animazione è più dettagliata e avvincente delle altre -due delle quali appena riferite-; addirittura, il protagonista Larry Daley (Ben Stiller) entra nell’immagine, per vivere in proprio e in diretta quei fantastici ed euforici momenti in Times Square, a New York, di festeggiamenti spontanei per la fine della Seconda guerra mondiale. Ovviamente, non è solo, ma in compagnia dell’inevitabile comprimaria femminile dell’occasione, necessaria a ogni sceneggiatura cinematografica che si rispetti. In questo caso, la citazione è còlta e storica. Insieme al protagonista agisce Amelia Earhart, una delle figure storiche che si animano e prendono vita durante la notte (al Museo). Una digressione. Poco nota al di fuori dei confini statunitensi, Amelia Earhart è stata una aviatrice da leggenda, che ha stabilito numerosi record di volo: prima donna ad attraversare l’oceano Atlantico (17 giugno 1928); prima trasvolata femminile in solitaria, da Terranova a Londonderry, nell’Irlanda del Nord (1937; in assoluto, seconda solo a Charles Lindbergh); prima donna a compiere il giro del mondo in aereo (1937)... e altro ancora. Nel cinematografico Una notte al museo 2 - La fuga, l’eroina Amelia Earhart (interpreta da una suadente Amy Adams) offre i tratti di una adeguata miscela di tempi e ricorsi sto-

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Cinema

rici, grazie alla quale il presente si arricchisce di un intrepido passato: e l’avventura continua! Tornando in cronaca, Larry Daley e Amelia Earhart vengono assaliti da un agguerrito gruppo di antichi guerrieri egiziani, che li attaccano lance in resta. La prima e unica difesa che il protagonista riesce a individuare, lì a portata di mano, è il forcone originariamente impugnato dall’agricoltore dipinto in American Gothic, di Grant Wood, del 1930, altra icona della storia culturale statunitense, al-

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tro soggetto consistentemente parodiato (olio su tela 74,3x62,4cm). Avvicinatosi al quadro, Larry Daley strappa il forcone dalle mani dell’attonito agricoltore, e affronta i guerrieri, in formazione attorno a lui e alla sua audace e coraggiosa compagna d’avventura [qui sopra]. Quindi, entrambi chiusi in un angolo, i due protagonisti trovano una via di fuga entrando nella celebre fotografia di Alfred Eisenstaedt, appesa lì alla parete. Improvvisamente, si trovano in Times Square (e in bianconero), ac-

Larry Daley (Ben Stiller) e Amelia Earhart (Amy Adams) vengono assaliti da un agguerrito gruppo di guerrieri egiziani. La prima e unica difesa che il protagonista riesce a individuare è il forcone impugnato dall’agricoltore di American Gothic, di Grant Wood, del 1930.

canto alla folla festante. Ma, soprattutto, nei pressi del marinaio e della crocerossina che si stanno scambiando l’appassionante bacio passato alla Storia (non soltanto della fotografia). La tentazione è forte, addirittura irresistibile: Larry Daley (Ben Stiller) allontana il marinaio, e bacia a propria volta la crocerossina! [a pagina 12]. Questo è cinema, bellezza, e non possiamo farci niente. Se non annotare e catalogare. Una ennesima combinazione con la fotografia, que❖ sta volta persino storica.



Davanti a una fotografia di Andrea Villanis

LE VIOLON D’INGRES

È

È possibile, o semplicemente onesto, discutere di dadaisti e surrealisti? Meglio: quanto può essere onesto “parlare di surrealisti”? Quello che provo di fronte al sacrilegio di parlare, tradurre in una dimensione codificata (quale quella del linguaggio) un sentiero così misterioso e abissale come quello che vive nelle dimensioni analogiche del pensiero umano è un estremo disagio. Ci sono misteri che vanno svelati e altri che vanno ri-velati... quindi vanno velati due volte! Ho sempre provato profondo disprezzo per quella “critica”, per quei tipi di riflessione che pur di com-prendere, codificano, decodificano, rendono finito qualcosa che finito non è, qualcosa che non ha interesse nel possedere un inizio e una fine, ma che funge solo da pre-testo. Ho sempre pensato che la musica suonata dall’arte partorita dalla Grande guerra -che, nel tempo, è andata svuotandosi lungo il proprio tragitto fino a noinon sia altro che un moto di profonda disperazione umana. Quel che conosciamo col nome Dada e il suo successivo “oppositore”, il Surrealismo (che tenterà di canalizzare la vitalità distruttiva del Dada), altro non sono che l’estrema conseguenza di ciò che ci distingue in quanto esseri umani: la consapevolezza della nostra condizione. Se neanche il pensiero ereditato da una civiltà dalla purezza cristallina (quale fu la società Illuministica) è servito a riscattarci, allora siamo definitivamente persi. Il pensiero altro non fa che modificare le forme di una brutalità insita nella sottile linea d’ombra dell’animo umano: la paura e il bisogno di controllo all’interno di una realtà incontrollabile. Dopo la Grande guerra, il razionalismo scientifico non fa altro che svelarsi per quello che è: l’ultima grande illusione! Il Dada

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”La morte non mi avrà vivo” diceva. E rideva, lo scemo del paese, battendosi i pugni in viso.

Giorgio Caproni (da Allegretto, 1978) non può che balbettare l’ultima grande verità; assolutamente lontana dal presunto logos... non può che rantolare innanzi al nonsenso di ciò che è accaduto e che non sarebbe mai dovuto accadere. La paura moltiplica la violenza dell’invettiva e la sua portata distruttiva: se tutto ciò che non doveva accadere è accaduto, allora a nulla sono serviti ventimila anni di vita umana e la sua presunta evoluzione, se non a sconvolgere e distruggere un meccanismo perfetto.

La politica: il cervello dell’uomo, la sua centralina di controllo. Ha ormai preso il sopravvento sulla sua stessa funzione, controllando anche se stessa. L’economia: lo strumento che consente alla politica di gestire le risorse umane e della natura. Ha preso le redini della politica, finendo nel diventare ancor più autoreferenziale e tautologica della politica stessa. La scienza e le tecnologie: le menti operative del mondo nel mondo, che ne studiano le leggi:

quelle che consentono di creare le protesi che acuiscono esponenzialmente le abilitas dell’uomo. Infine, l’arte (qualunque linguaggio o mezzo espressivo utilizzi): lo specchio che mostra le modificazioni e i rimodellamenti del reale che l’uomo opera intorno a sé. L’occhio che vede fuori e attraverso e si restituisce a se stesso. Contemplazione. Uno specchio, solo uno specchio. Saper guardare è un allenamento: più guardi, più osservi e più impari a distinguere, a vedere e a giocare con ciò che vedi. Non credo che sia un caso che all’interno della mitologia di tutto il mondo, i veggenti vengano rappresentati come persone non vedenti, perlopiù inascoltati e impotenti. Io non so spiegare quanto dolore possa causare il vedere ciò che tutti guardano, ma che nessuno vede! Il vedere richiede una doppia vista speciale e faticosissima da sostenere, se utilizzata in modo onesto: una vista esterna e interna contemporaneamente... una vista che denuda, che spoglia la realtà. L’ultimo sguardo riflesso che riconosco come vero, autentico e puntuale è proprio quello di questi strani, disperati uomini: i dadaisti. Con il Surrealismo, movimento al quale successivamente aderirà Man Ray, abbiamo solo un rifugio, l’ultimo rifugio dei veggenti: troppa è la portata distruttiva, troppo il non-sense da sopportare all’interno dello specchio dei dadaisti... è troppo per un essere umano. Meglio rinunciare alla doppia vista e ri-piegarsi su di sé, ri-flettere e riflettersi. Questo è il lavoro di Man Ray: dare visibilità a una “finestra di dentro”, quella che appartiene a tutti, quindi a nessuno. E l’analogia diviene il modo. Dato che il razionalismo scientifico non ci ha risparmiato, meglio darsi all’analogia del sogno, nel quale tutto è possibile. Non


Davanti a una fotografia legami logici, ma irrazionali e talvolta anarchici. Come si spiega la disperazione e l’ebbrezza che ne deriva? Come si spiega il delirio di onnipotente bellezza che genera e distacca dal reale, per abbracciare il surreale, nel quale tutto è lecito: lo sterminio di massa, ma anche l’amore e anche a-mors... senza morte, quella morte che tutti ci accomuna, alla quale siamo tutti condannati, senza soluzione di continuità... ma non è solo questo ciò di cui si parla... è la vera morte: l’estinzione. Niente più Leonardo, Dante, Shakespeare, Hegel, Platone, Aristotele, Picasso, Bach, Shonberg... nessuna traccia più. Questo è l’urlo del mio Dadaismo sull’insensatezza del tutto, su una sorta di innaturale naturalezza! La fissazione di Man Ray sul termine “creare/creazione” mi

insospettisce: che in qualche parte di sé intuisca la fine imminente, ma voglia credere possibile la prosecuzione dell’immortalità umana? In qualche parte di me sento che quella del creare è un’azione perlopiù sopravvalutata! Nessuno crea nulla... tutti noi di ieri e di domani camminiamo su un sentiero e tutt’al più ci occupiamo di portare (per chi ne ha la facoltà, a proprio modo), di spostare un testimone un po’ più avanti... tutto qua! Una facoltà che inerisce la disponibilità di un corpo a rendersi non tanto creatore, ma strumento, veicolo di una forza esterna. Prima, tutti lo sapevano; prima, tutti sapevamo che il termine ispirazione aveva a che vedere con inspirazione: il soffio di un dio o di una musa che possedeva l’uomo. Non erano, non potevano essere esclusivamente giochini di profitto, celebrazione o,

peggio, di autocelebrazione: erano atti biologici. Ma abbiamo perso sapienza, sapere e sapore. Un corpo è anche un violino... ma cosa ci può essere di surreale in questo? Un corpo di donna si trasfigura moltiplicando le associazioni e frantumando i significati. Due questioni mi sorgono subito: uno, chi se ne frega?; due, cosa possono mai essere i significati? Meglio, forse, soffermarsi o sul significante (quindi la pura forma) o su un senso possibile. Nati come dispositivi ambulanti “datori di senso”, noi esseri umani ci siamo totalmente smarriti... necessitiamo di didascalie, titoli e spiegazioni di una “mente superiore” per capire e comprendere... tutte tracce di consolazione e comodità, per non pensare, per non fare ciò che ci è stato richiesto fin dall’origine del nostro tempo: trovare un senso (che per esser tale

deve esser necessariamente mutevole, fluido, eppure, sempre uguale) in una realtà che il logos non può neanche sperare di sfiorare, ma che i sensi possono intuire... dovevamo lavorare per migliorare e raffinare ciò che in natura ci era dato in modo grezzo. A me risulta abbastanza chiaro che qui non si tratta di creare (checché ne dica Man Ray), ma di eseguire un dictat del caso o caos, detto anche visione... ma questo lui lo sapeva molto bene: è qui il gap del linguaggio! L’azione non è più rappresentabile; quindi, come rendere visibile ciò che è invisibile? Con la pittura, per Man Ray. Come rendere più visibile il già visibile? Con la fotografia, sempre per Man Ray. Si tratta solo di tentativi, ma il tempo è giunto quasi al termine. Cosa avrà mai a che vedere tutto questo con una donna-violino? ❖


Monografia di Angelo Galantini

IMMANCABILMENTE, ARAKI

S

Senza ombra di dubbio, Nobuyoshi Araki è una personalità fondante della fotografia contemporanea. Piaccia o meno -e a noi ha smesso di piacere da tempo (ahinoi, dopo essere stati suoi estimatori in momenti non sospetti, antecedenti la sua celebrazione universale)-, è un autore che ha segnato in modo indelebile e in misura consistente i più recenti decenni. Confessione d’obbligo: l’abbiamo avvicinato, affrontato e ci ha entusiasmati anni fa, quando nessuno ne parlava, scriveva e apprezzava. Oggi, alla luce di esaltazioni oltremisura e fuori luogo, ne stiamo prendendo le distanze. Temiamo che si stia esagerando sul contemporaneo e che si stiano creando i presupposti della meteora, che non sopravvivrà a se stessa, a meno di operazioni mercantili che si allunghino in là nel tempo. Progetti come Sentimental Journey, del 1971 (fotografie del e dal viaggio di nozze con la moglie Yoko, prematuramente mancata nel 1990), Winter Journey, del 1991 (che racconta soprattutto gli ultimi giorni di vita di Yoko), e Erotos, del 1993, e la fantastica raccolta delle sue venti monografie illustrate originarie hanno segnato un tempo fotografico di eccezionale personalità: sono autentiche pietre miliari della Storia della fotografia. Da cui, immediatamente a seguire, abbiamo considerato straordinarie le sue visioni sull’industria giapponese del sesso, rappresentata (non soltanto raffigurata) in fotografie degli anni Ottanta, realizzate soprattutto nell’area di Kabukichō, nel quartiere a luci rosse di Shinjuku, nella capitale Tokyo (da cui la monografia Tokyo Lucky Hole, con fotografie del 1983-1985). Però, immediatamente a seguire, Nobuyoshi Araki ha continuato a ripetere il proprio cliché, insistendo sull’apparenza delle sue immagini, senza più aggiungere sostanza di contenuti. Individuato e apprezzato dal mercato, ha finito per alimentare la quantità delle proprie visioni fotografiche, abbandonando la quali-

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Nobuyoshi Araki: io vita morte; a cura di Akiko Miki, Yoshiko Isshiki e Tomoko Sako; con un saggio di Akiko Miki; Phaidon Press Limited, 2011 (www.phaidon.com); edizione italiana; 196 pagine 26x32,2cm, cartonato con sovraccoperta; 39,95 euro.

Kinbaku (To the Other World).

(pagina accanto) Kinbaku (To the Other World).

A’s Lovers.



Monografia

tà delle intuizioni originarie. Almeno, la pensiamo così. Con tutto, non possiamo ignorare, né vogliamo farlo, come e quanto l’editoria internazionale sia avida di titoli di maniera assolutamente apprezzati dal pubblico. Tanto che le monografie di Nobuyoshi Araki hanno da tempo superato la soglia dei trecentocinquanta titoli, e non è ancora finita. Eccola qui, una ennesima raccolta! Pubblicata in edizione italiana dall’attento e rigoroso Phaidon Press, che vanta tanti meriti fotografici, Nobuyoshi Araki: io vita morte si offre e propone come sostanzioso casellario di una lunga parabola fotografica: efficace sintesi dai progetti che si sono espressi nella successione e consecuzione dei decenni, adeguatamente cadenzati in una messa in pagina agile, brillante e, tutto sommato, adeguatamente ordinata.

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Sentimental Journey.

Di fatto, c’è tutto. Ovverosia, un poco di tutto, in modo da avere sotto gli occhi i tempi e modi di una espressività visiva che spesso ha elevato l’immaginazione a simbolo inviolabile di creatività. La prendiamo un poco larga, ma neppure poi tanto. Con tutti i tanti distinguo che ormai definiscono, fino a condizionarla, la nostra osservazione della fotografia di Nobuyoshi Araki, non possiamo non iscriverla nell’ampio e avvincente contenitore della fantastica illusione, alla quale la fotografia stessa ha offerto opere eccezionali. Infatti, siamo perfettamente consapevoli di come e quanto, nella propria straordinaria combinazione di regole logiche e usi arbitrari, nella successione degli anni, decenni (e secoli, addirittura), il linguaggio fotografico abbia saputo offrire interpretazioni che sono andate oltre l’immagine esplicita. Con Giacomo Leopardi: «L’anima

s’immagina quello che non vede». E la fotografia di Nobuyoshi Araki si iscrive in questa espressività, e qui si manifesta: appunto, nell’immaginazione che va oltre l’immagine. In conclusione, fatti salvi i nostri distinguo individuali e personali (che magari contano nulla), a differenza di altre raccolte di maniera, questa attuale monografia Nobuyoshi Araki: io vita morte è adeguatamente rappresentativa di una parabola espressiva che non va assolutamente ignorata. Come spesso diciamo, è esattamente vero il contrario. Va presa in considerazione per la forza e vigore che esprime. Dopo di che, avendo da tempo soddisfatte le richieste ed esigenze mercantili (adeguatamente redditizie), speriamo che l’intelligente autore giapponese possa tornare ad esprimere innovazione e immaginazione. Sappiamo bene che saprebbe farlo. Auspichiamo che voglia ancora farlo. ❖



GOCCE

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DI MEMORIA


La vita è segnata dalle nostre motivazioni affettive, alle quali la fotografia offre testimonianza. Un incontro emozionante. Gocce di memoria di Maurizio Rebuzzini

I

ndipendentemente dall’ufficialità dell’identificazione aziendale, che presuppone altre dizioni, Beppe Vigasio è un fotonegoziante storico di Brescia. Da decenni, gestisce un indirizzo che si è manifestato in molteplici personalità commerciali: in semplificazione funzionale, dallo svolgimento del mestiere alla vendita di attrezzature, a lavorazioni di laboratorio conto terzi. Ci conosciamo da tempo, in quel modo nel quale è possibile conoscersi quando si agisce nel medesimo ambito, seppure con ruoli diversi e personali. Al solito, non è la quantità che fa la differenza, ma -come sempre- la qualità. Così che la nostra conoscenza si basa anche su una reciproca stima, ne sono più che convinto, che ha dato vita a incontri e iniziative proficue ed efficaci per entrambi, oltre che per il comparto fotografico nel proprio insieme. A margine di tanto, e oltre le formalità, nel corso di un attimo privato, qualche mese fa, Beppe Vigasio mi ha donato una ampolla di vetro contenente settecento grammi di argento in gocce. Non intendo richiamare il valore economico e monetario di questa entità, quanto qualcosa d’altro che questo argento significa, a partire dalla sua causa e spiegazione. Subito detto: si tratta di argento recuperato dai bagni di trattamento di pellicola fotografica. Prima di entrare nello specifico di quanto è nato nel mio cuore, di fronte a queste gocce, che sto per condividere, è bene soffermarsi su questioni pragmatiche che ragguaglino sulla vicenda, che non è necessariamente nota a tutti. Un passo indietro, quindi, al tempo assoluto della pellicola fotosensibile, a base di alogenuro di argento: appunto catalizzatore dell’azione della luce. Non facciamola troppo lunga, e appianiamo i termini e la questione, rilevando che questo argento originario viene asportato dai bagni di trattamento della pellicola esposta (che diventa così il fatidico “negativo”). Anche se nel corso degli anni, le tecnologie di fabbricazione hanno sistematicamente ridotto le quantità di argento, e anche se ogni film ne ha avuto in quantità propria, in assoluto, alla fine di ogni trattamento, i bagni contengono argento residuo in sospensione. In relazione a consistenti quantitativi di pellicole trattate, è stato sempre possibile e redditizio recuperare questo argento residuo. Al proposito, in passato, sono esistite e sono state applicate diverse tecniche, e ancora oggi lo sono, sia chiaro (quando e per quanto conviene farlo; magari più da altri supporti, altre emulsioni fotosensibili, per esempio X-ray, caratterizzati/caratterizzate da maggiori concentrazioni originarie di argento). Per scegliere quella più adatta, ognuno tiene presenti l’entità dell’operazione e la quantità degli scarti di sviluppo. Naturalmente, tali procedimenti e tecniche sono stati adottati sempre in conformità a quanto stabilito dalla legge in materia di trattamento dei rifiuti, anche in termini autorizzativi. Per bassi volumi di scarti di chimica fotografica si usano cartucce di sostituzione del metallo, semplici da usare e con

poca manutenzione. Dopo l’uso, le cartucce vengono inviate a compagnie autorizzate per il trattamento e la raffinazione dell’argento, nonché per il recupero dell’argento metallico. Ancora, il recupero elettrolitico dell’argento è considerato la tecnica più efficiente per rimuovere l’argento dalle soluzioni fotografiche che ne contengono notevoli quantità. Il tipo di unità di recupero elettrolitico scelto è sempre dipeso dalle soluzioni trattate e dai volumi quotidiani di trattamento. Invece, l’eliminazione dell’argento dalle acque di lavaggio richiede tuttora una tecnologia più sofisticata, per esempio lo scambio di ioni, la nanofiltrazione e l’osmosi inversa (e ne prendiamo atto, senza altri dettagli). Infine, è anche disponibile la tecnica della precipitazione chimica, elaborata da Kodak, usata per produrre concentrazioni d’argento molto basse negli scarti fotochimici. Comunque, indipendentemente dalla tecnica usata, il processo di recupero dell’argento si è sempre rivelato economicamente vantaggioso. Alla sua conclusione, l’argento metallico è raccolto in diverse forme, per esempio anche a scaglie, e poi raffinato in aspetti che siano gradevoli e condivisibili: in generale, molti optano per il classico lingotto. Beppe Vigasio ha preferito le gocce, che conserva in ampolla. Eccoci qui! I conteggi che quantificano la quantità di argento recuperato dalle pellicole mi sono sconosciuti. Dunque, non so a quante pellicole poter riferire i settecento grammi di argento da cui sono partito, e che illustro in queste pagine. Del resto, non mi interessa neppure una quantificazione esatta e inconfutabile. Mi basta immaginare (su basi realistiche e ipotizzando molteplici varianti) che questi settecento grammi di argento stiano a valle di circa un milione di scatti, un milione di fotografie. Cifra tonda, di grande evocazione (e non mi importa se il conteggio non è corretto, né esatto). Ovvero: un milione di ricordi individuali. Ed è qui che mi ha portato il cuore. Ed è di questo che scrivo. Un milione di gocce di memoria. Già, il passato. Già, l’esistenza. Ormai, ai nostri giorni, la vita individuale è scandita anche al ritmo della fotografia, della fantastica fotoricordo: capitolo straordinario al quale non è possibile riferirsi concretamente, del quale non è possibile raccontare... perché sta nelle case di ognuno di noi, nel suo cuore, e non partecipa all’esistenza collettiva (come invece fa tutta l’altra fotografia, quella che dalla propria cronaca si proietta verso la Storia). Queste gocce di memoria sono fantastiche: guardandole, cerco di immaginare i momenti felici che quell’argento originario -reso sensibile alla luce, oppure grazie al quale un’emulsione è stata resa sensibile alla luce (non c’è differenza)ha donato a migliaia di persone. Da rifletterci: per quanto proiettati in avanti, dal presente al futuro, ognuno di noi edifica se stesso sul passato, sui ricordi, sulle emozioni, sulle esperienze. Non serve scomodare i luminari della psicoanalisi, per dare senso e valore all’inconscio che ci guida e governa. Nell’inconscio (assai consapevole) sopravvivono le nostre esperienze personali rimosse e represse. Rimosse significa messe da parte volontariamente; mentre represse dipende da una dimenticanza casuale. Però, anche aiutati dalla Fotografia (come e quanto la Fotografia influisce nelle nostre vite), non dimentichiamo niente: dunque, quello che ricordiamo è solo quello che vogliamo ricordare. La nostra vita è segnata dalle nostre motivazioni affettive, alle quali la fotografia offre concretezza e testimonianza. Gocce di memoria. Punto. ❖

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LA MIA

Vittorio Rivalta

TERRA Dùciu a san che, fuor di un incendi, di na pesta, e da l’invasion dai Turcs, i sincsènt àins da la nustra parrocchia (1444-1944), a no recuàrdin nuja. La so storia a è duta lì, lavorà, preà, patì, murì.

Pier Paolo Pasolini (in Stroligut di ca da l’aga; agosto 1944)

Ennesimo progetto collettivo degli autori che si identificano nel Gruppo Polaser. Immancabilmente con pellicola a sviluppo immediato, hanno realizzato una combinazione tra fotografia e poesia dialettale. Nello spirito del centocinquantenario dell’Unità d’Italia, un frastuono di voci e immagini che esorta... al silenzio individuale. Ascoltare e osservare, prima di tutto di Pino Valgimigli

R

iflessione doverosa. La posizione di Pier Paolo Pasolini nei confronti del dialetto ha una duplice motivazione: una affettivo-romantica, legata al carattere bucolico dell’entourage familiare contadino della madre; l’altra politica, di opposizione al paradigma che recita dialetto uguale autonomia regionale uguale frammentazione nazionale. Il dialetto è una ric(continua a pagina 28)

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Tëra e vita La tëra l’è e’ sângv dla vita. È bàsta un badìl, una sàpa e una vânga par crès una fòja o un fil d’érba da un trônc d’êlbar u s’ fa una cardénza o una pânca. Nèca se urmàj d’la tëra u n’i n’è piò parchè l’è tòt zimént, bàsta una polaròid par sgarné un sògn e’ dop la vita l’arlùs cóma ‘na scóla d’aqva in t’e sol. E’ alôra a pós córar long ’na caléra e andè indu cum pé! Lèbar cóma un fringuël e scaté cóma una polaròid!

Davide Argnani (Forlì) Terra e vita. La terra è il sangue della vita. // Basta un badile o una vanga / o una zappa / che subito spunta una foglia / o un filo d’erba // da un tronco d’albero / si costruisce una credenza / o una panca. // Anche se ormai non c’è ne più / perché gli uomini hanno seminato tutto cemento, / basta una Polaroid / per sgranare un sogno / e dopo la vita riluce come una pozzanghera d’acqua / nel sole. // E allora posso correre / lungo la carraia o un sentiero / e andare dove mi pare! // Libero come un fringuello / e scattare come una Polaroid!


Marco Ancarani

Fabio Iacuitti

E miàz

Riflessioni

L’è caschê in tëra coma una stràz. E scór e sângu in t’la tigamêla, e me a sènt za e góst d’una feta d’miàz.

Un quai di fa, ho ricevu el vulantin del cumun, quel che l’invita tutta la pupulasiun a ricurda el Tarcisio Beretta. (…) Fra tanti rob l’ha scrivu un liber che l’è la nostra memoria de quei chin nasu chi, ma anche de quei che dopu in riva e quest el ga un gran significà. (…) Un esempi il Beretta ghe l’ha da: “laurà per la comunità”. (…)

don Vasco Graziani (Granarolo Faentino - Ravenna)

Roberto Pizzo (Camparada - Monza Brianza)

ll migliaccio [dolce tipico fatto con il sangue di maiale]. È caduto in terra come uno straccio // Scorre il sangue nella ciotola / e io sento già il gusto di una fetta di migliaccio.

Riflessioni. Qualche giorno fa, ho ricevuto il volantino del Comune / quello che invita tutta la cittadinanza / a ricordare Tarcisio Beretta // Fra le tante cose, ha scritto un libro / che è la nostra memoria / di quelli nati qui / ma anche di quelli che sono arrivati dopo / e questo ha un grande significato // Tarcisio Beretta ci ha lasciato un esempio “lavorare per la comunità”.

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Pino Valgimigli

Katia Brigiari

Dnèz à la Tor d’Uriôl di Figh

L’acetello

La Tor d’Uriôl di Figh, cun i su pë u s’véd e’ m r, e Fëza, e la pianura. I mi i vë da la so: che vita dura! Parò in famèja, lo i s’avléva bë.

Quan’arnivno d’miete s’mettevno a sdé n’tol banchet d’legno se sciuccavno l’sudor dla fronte e bevevno l’acetello n’tla brocca ch’facevno cl’acqua fresca tirata su dal poszo e mez’ bicchier d’aceto.

Giuliano Bettoli (Faenza - Ravenna)

Marinella Amico Mencarelli (Bastia Umbra - Perugia)

Davanti alla Torre di Oriolo dei Fichi. La torre di Oriolo dei Fichi, coi suoi pini: / si vede il mare, e Faenza, e la pianura. // I miei vengono di lassù: che vita dura! // Però in famiglia, loro si volevano bene.

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L’acetello. Quando tornavano dalla mietitura / si mettevano seduti / sul banchetto di legno / si asciugavano il sudore sulla fronte / e bevevano l’acetello della brocca / che facevano con l’acqua fresca / tirata su dal pozzo / e mezzo bicchiere di aceto / quello fatto col vino / che aveva preso di spunto.


Fabio Del Ghianda

Elena Gianessi

Maraccio

Cuntrastu illa notti

L’onda, ormai stanca si distende a battigia e le granchielle di ’orsa riprendono il mare.

La notti no è mai buggja illu Canali. Da chi cala lu soli in mezzu mari e li spaglini l’umbri di la sera, lu fasciu luminosi di li fari piena tutta d’aleni la custera. Capu di Fenu chiama da maestrali, li rispondi a libecciu Capu Testa: tre lampi so lu nommu magistrali ch’accendi la spiranzia illa timpesta. Affaccammanu ammutta la custera: bandi istragni... suggjetti a dui freddi... aspettani chi calia torra sera pal chiamassi e pal dì “...semu sureddhi...”.

Claudio Vallini (San Vincenzo Piombino - Livorno)

Angela Antona (Santa Teresa di Gallura - Olbia)

Maraccio. L’onda, ormai stanca / si distende a battigia / e le granchielle [granchio rosso] di corsa / riprendono il mare.

Un dialogo notturno. La notte non è mai scura sulle Bocche di Bonifacio // Quando il sole si tuffa nel mare, / mentre calano le ombre nella sera, / il fascio luminoso dei fari / riempie le coste di aliti di vita // Capo di Feno chiama da Maestrale, / gli risponde a Libeccio Capo Testa: / tre lampi sono il nome magistrale / che accende la speranza nella tempesta // All’albeggiare la costa ammutolisce: / rive straniere... assoggettate a due lingue diverse / ma... aspettano che cali ancora la sera / per richiamarsi e per dirsi: “...siamo sorelle...”.

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Fabrizio Giulietti

L’uncinatore È pròpio acussì: che gnènte è fèrmo e tutt ha lo stess clore Ntna giornèta de combruno, corco supl’ultmo matòccio nnants a la buffatèa, l confino tra l trubblo dl èria e quil de la biuta, lu svelto amanisce l’uncinaja Vòle stroppè ta la fòrtsa del Tevre - mò lu ha sdraichè dda la terra quj’albri mòlli che doventète mostre chiappon vèrtso Roma arancanno a l’òrca dl acqua Cinino e tamanto, l’uncinatore sa na legge nissun pòl èsse padrone del Tevre e de quil che c’è scòte drento E proprio acussì che tutto sgangula e gnènte sbrillòcc’ca.

Diego Mencaroni (Perugia)

L’uncinatore. È proprio così: che nulla è fermo / e tutto ha lo stesso colore // In un giorno di crepuscolo / piegato sull’ultimo masso / di fronte alla schiuma, il confine / tra il torbido dell’aria e quello del fango, / lui rapido prepara l’uncino // Intende strappare alla forza del Tevere / - come questi ha sradicato dalla terra - / quegli alberi bagnati che diventati mostri / scappano verso Roma / cavalcando l’acqua / Piccolo e immenso, l’uncinatore conosce una legge: / nessuno può essere padrone del Tevere / né di cosa vi sguazza // E proprio così che tutto si dimena / e niente riluce.

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(continua da pagina 24) chezza culturale, è il cuore pulsante e l’anima nobile di un popolo; il dialetto è una lingua che è esistita prima di noi. Quindi, guai a cancellarlo! Intellettuale raffinato, uomo di cultura autentica, personalità di straordinaria fascino, Pier Paolo Pasolini non aveva un rapporto distaccato con il friulano. Lo coltivava con affetto, come successivamente farà poi con altri dialetti: il romanesco (Ragazzi di vita, Una vita violenta, Accattone), il napoletano (Il Decameron), il lucano, il calabrese, l’abruzzese (Il Vangelo secondo Matteo) e le lingue e i dialetti africani e orientali. Ne paventava la fine, anzi la preannunziava. E così gli pareva imminente la fine di ogni civiltà contadina e artigiana in ogni parte del mondo. Nei suoi viaggi in Africa e in Oriente, Pier Paolo Pasolini lamentava come ogni cultura e, in particolare, ogni lingua venisse sopraffatta dal modello occidentale. Si accostava a qualsiasi dialetto come ci si accosta a una lingua straniera; non come a un espediente letterario o formale, da sfruttare per aggiungere “colore”, ma con il rispetto che si riserva a una cultura da difendere e salvare dall’aggressione di una barbarie massificata. Siamo tanti popoli, tante tradizioni e anche tanti dialetti diversi che, però, rischiano di estinguersi. I dialetti non si devono perdere nell’oblio dell’indifferenziazione globalista, perché sarebbe molto grave perdere un tale patrimonio di tradizioni, usi e costumi che si tramanda da generazioni attraverso questi antichi idiomi, che ancora oggi si usano in tantissime zone d’Italia, sia rurali sia cittadine, trasmettendo ai futuri un bagaglio culturale ricchissimo di storia e letteratura. Basti pensare, per esempio, alla lingua veneziana, al napoletano, al sardo, oppure alle opere di Goldoni, Belli, Totò, Trilussa, per ricordarci quanto sia importante il dialetto. I dialetti rappresentano non soltanto una lingua che proviene dal passato, ricca di espressioni che poi si sono riversate nella lingua italiana, ma sono anche un legame indissolubile che ci riporta ai nostri padri, ai nostri nonni, una radice nel terreno che non dovremmo mai recidere. Svolta questa premessa, con il pensiero di uno dei maggiori artisti e intellettuali del Novecento, descrivo il progetto fotografico del Gruppo Polaser. Il Gruppo Polaser ha soci che vanno dal Sud al Nord dell’Italia (dalla Sicilia al Piemonte, alla Lombardia, al Friuli, passando dalla Toscana, all’Umbria, all’Emilia Romagna): quindi, quale migliore occasione per “abbracciare” tutto il nostro paese, a centocinquanta anni dall’Unità d’Italia? Ogni autore, partecipante al progetto, in collaborazione con un poeta dialettale vivente, della stessa area geografica del fotografo, ha “illustrato” fotograficamente un verso dialettale scritto dal poeta. La poesia è poi accompagnata anche dalla relativa traduzione italiana. Il progetto si intitola La mia terra, e, oltre a rappresentare una contaminazione di poesia-fotografia, si propone come lavoro composto da due artisti (fotografo e poeta), che hanno lavorato in sintonia. Quindi: simbiosi tra due autori (indipendenti, ma qui associati), per celebrare la grande ricorrenza del centocinquantenario dell’Unità d’Italia. Come sempre, le fotografie degli interpreti del Gruppo Polaser sono realizzate con pellicola a sviluppo immediato. Dopo l’anteprima, in primavera, ad ArtePhoto2011, nel Castello della Rocca di Cento, in provincia di Ferrara, le immagini sono esposte a Forlì fino a fine novembre. ❖



LA LINEA Parole con uso di fotografia: l’appassionante monografia illustrata La ferrovia transappenninica: il viaggio, i territori, la gente è scandita su e con un ritmo doppio: fotografie di sei autori in coro e racconti a tema. A ciascuno, il proprio: fotografie con parole di collegamento e atmosfera; oppure, parole con fotografie di collegamento e atmosfera. Fa esattamente lo stesso, perché -comunque lo si declini- il risultato è avvincente e convincente. Oltre una selezione di immagini d’autore, qui e ora proponiamo uno dei racconti del libro. Dal libro

di Mosé Norberto Franchi


GIALLA


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ietro le quinte: da anni, in agosto, Mosé Franchi, appassionato di fotografia, riunisce a Porretta Terme, sull’Appennino Bolognese, luogo natio, un qualificato gruppo di fotografi. A volte, per proporre mostre apprezzate dalla cittadinanza; sempre, per la convivialità di una buona compagnia. A un certo momento, Gianni Berengo Gardin suggerisce «Perché non facciamo un libro?». L’argomento è lì a portata di mano: la Ferrovia Transappenninica, conosciuta anche come Transappenninica Porrettana, che parte dal

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capoluogo Bologna. Elemento forte del luogo, altresì legato alla vita dello stesso Mosé Franchi, figlio e nipote di ferrovieri, dalla metà dell’Ottocento, la ferrovia scandisce i tempi del luogo. Da cui, Gianni Berengo Gardin, Mosé Norberto Franchi, Luciano Marchi, Davide Ortombina, Donatella Pollini e Massimo Zanti si sono divisi i compiti fotografici. Quest’estate, la monografia è stata pubblicata: le fotografie sono accompagnate da racconti di Mosé Norberto Franchi. Tra tutti, ne proponiamo uno: La linea gialla. Parole con uso di fotografia. M.R.


FERROVIA LOCALE

La Ferrovia Transappenninica è stata la prima grande via di comunicazione della Vallata del Reno. Prima della sua realizzazione, lo sviluppo del territorio, e in particolare di Porretta, in provincia di Bologna, è stato condizionato dalla mancanza di collegamenti adeguati e sicuri con le principali città dell’Emilia e della Toscana. La Statale 64 Porrettana fu terminata nel 1847, dopo trent’anni di lavori, non riuscendo però a soddisfare le necessità del viaggiatore dell’epoca a causa della scarsa sicurezza e dell’incertezza sulla durata del viaggio. Dopo una serie di controversie, nel 1851, il Governo Austriaco, i Ducati di Parma e Modena, il Granducato di Toscana e lo Stato Pontificio hanno sottoscritto una convenzione per la costruzione di una Ferrovia, denominata “Strada ferrata dell’Italia Centrale”, che avrebbe collegato Piacenza a Pistoia. Il tratto Bologna - Bagni della Porretta - Pistoia venne iniziato nel 1856 (e seguìto da uno staff di fotografi, che hanno documentato l’avanzamento dei lavori: esempio unico e inconsueto di lungimiranza storica, a meno di vent’anni dall’invenzione della fotografia: da riparlarne). Fino a quel momento, in Italia, non era mai stata realizzata un’opera di tale portata: basti pensare che nel tratto in questione, la linea è caratterizzata dalla presenza di ben quarantasette gallerie, su un percorso di centotrentatré chilometri. I lavori vennero affrontati con grande velocità, e nel 1863 la nuova linea ferroviaria veniva inaugurata a Bagni della Porretta da Vittorio Emanuele II, per essere aperta al traffico regolare l’anno successivo. La stazione di Porretta divenne così uno scalo di primo piano a livello nazionale, passaggio obbligato nel collegamento tra l’Italia Centrale e Settentrionale. La Ferrovia ha contribuito in modo determinante allo sviluppo economico e sociale delle popolazioni della Valle del Reno, rompendo il loro antico isolamento.

«

Il treno regionale proveniente da Porretta Terme è in arrivo sul binario Uno; allontanarsi dalla linea gialla»: così recitava l’altoparlante, mentre Lui guardava il binario davanti a sé. Troppe cose erano cambiate, o forse lui ancora di più. Non c’era bisogno di annunci, un tempo: bastava la campanella e la mamma di fianco a sé. «Stai lontano dai binari», avrebbe detto lei, «perché il treno ti risucchia». Non aveva mai compreso il potere “aspirante” del treno, ma istintivamente volse lo sguardo verso la sua famiglia, più in giù: alla fine del marciapiedi. “Che brave erano state le sue donne”, pensò lui, “avevano deciso di accompagnarlo a Pistoia, sul suo treno, quello che rammentava sempre”. Forse era stato convincente, più probabilmente si era trattato di una concessione offerta a un padre mai cresciuto, che aveva ancora idee per i treni. “Non avrebbero potuto capire”, si disse lui. “Quel

La Ferrovia Transappenninica: il viaggio, i territori, la gente; fotografie di Gianni Berengo Gardin, Mosé Norberto Franchi, Luciano Marchi, Davide Ortombina, Donatella Pollini e Massimo Zanti; racconti di Mosé Norberto Franchi; Nuèter, 2011; 96 pagine 30,5x30,5cm, cartonato; 30,00 euro. Reperibilità certe: Foto Ottica Marchi, piazza della Libertà 74, 40046 Porretta Terme BO (0534-21057; www.foto-ottica-marchi.it); Associazione Gruppo di Studi Alta Valle del Reno, via don Minzoni 31, 40046 Porretta Terme BO (www.nueter.com); Idea Bozzi, via Adamello 11, 37069 Villafranca di Verona VR (045-7900078; www.graficabozzi.it).

binario era popolato dai suoi angeli, che ogni anno venivano fuori, da sempre”. Non erano personaggi veri e propri, forse ritagli di un calendario cresciuto col tempo e che adesso, d’estate, si strappava in un attimo: ma un foglio alla volta. Un tempo, la stazione, per piccola che fosse, era un enorme palcoscenico, popolato solo da comparse. C’era il capostazione, è vero, ma anche uno che passava in bicicletta e che andava lontano: laggiù, dove tu non potevi andare. Lo sportello, se dovevi partire, te lo aprivi da solo. «Vai più avanti», diceva il nonno, «qui sotto ci sono le ruote»; e tu cercavi il tuo posto: per il viaggio, ma anche per il tempo in treno. Sì, perché tra partenza e arrivo c’era un’area sociale, nella quale comprendere e capire: comunque confrontarsi; ed era per quello che da bambino, il giorno prima, venivi “laccato” di tutto punto. Per un attimo chiuse gli occhi: ricordava la tinozza e i nonni che si bagnavano con lui. L’esta-

Fotografia di Donatella Pollini, da Dentro la galleria. Fotografia di Luciano Marchi, da Quel bel mare di Pistoia.

(pagina accanto) Fotografia di Massimo Zanti, da Una notte con Rita.

(doppia pagina precedente) Fotografia di Mosé Norberto Franchi, da La via più breve.

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Fotografia di Massimo Zanti, da Una notte con Rita.

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te finiva con una cospicua dose di borotalco, poi a letto presto: perché l’indomani ci si sarebbe svegliati che era ancora buio. Fu la prima alba che vide, quella coi nonni, con i binari nella penombra e delle luci bluastre qua e là. Poi un treno fantasma e gallerie, tante: con alla fine la luce di un giorno normale. Era già a Firenze, quando suo nonno portava la valigia sulla spalla. Dopo, un lungo treno e la propria casa, a Roma: con ancora il caldo dell’estate e un’avventura da raccontare. Quando tornò su quella ferrovia? Molto tempo dopo, per un viaggio a ritroso. Suo nonno era andato a prenderlo: per l’ultima volta. “Si vedeva che non stava bene”, dicevano tutti: ma l’infanzia non ti fa capire quelle cose, perché l’ospedale era solo il luogo dove ti avevano dato due punti di sutura in un ginocchio, quale ricordo di una partita di pallone. E poi, suo nonno in quel viaggio era stato felice. Aveva parlato con gli ex colleghi fino a Firenze, poi da Pistoia si era mes-

so al finestrino. Tentava di dire: «Questa è la linea del fresco», ma non ci riusciva mai, perché il boato di una galleria lo interrompeva sempre. C’era da aver paura, ma era vicino al suo nonno, così poteva emozionarsi con le luci dei finestrini sul buio della galleria: ora più vicine, poi un po’ più lontane; ma anche con quella riga bianca che saliva e scendeva, regolarmente. Quel nonno se ne sarebbe andato a dicembre, oltre la linea gialla. Eccolo il treno da Porretta Terme. Si ferma davanti a lui, ma le porte non sbattono più. Ricorda suo padre, quando veniva a trovarlo. Le porte chiuse dal Capotreno erano un’indicazione: da lì non sarebbe sceso. Poi, eccolo: immobile, un po’ commosso; si fermava per farsi riconoscere, ma anche per intuire se, e quanto, fosse gradito. Dopo, un abbraccio: nel quale intuivi quanto fosse invecchiato, diventando, pian piano, più piccolo di te.


Il treno si muove, lentamente: lasciando una debole scia di caldo. Subito dopo, una voce. «Ciao» «Babbo, cosa fai qui?». «No, non sono venuto a prenderti: non è il momento». La voce del padre era leggermente roca, le labbra poi si muovevano disgiunte dalle parole: come in un film montato male. Il volto si era fatto grande, gigantesco, a coprire parte della montagna. «Non ti alzare, non passare la linea gialla!», continuò il padre. «Non passare cosa?». «Siamo in tanti, di qua: ci conosci tutti». Li riconobbe. Si muovevano come quegli addobbi che si preparano per le feste di compleanno: tante figure umane, collegate dalle mani e dai piedi. Non parlavano, ma potevano farsi capire: perché risultavano sereni, felici, forse solo leggermente trasparenti. Erano nomi e sopranomi, ma anche episodi, sentimenti: som-

ma di un tempo andato, che riusciva a concentrarsi lì, in quel momento. Lo spettacolo era inconsueto e fantastico, ma una strana forza lo costringeva alla panchina. Era un peso antico, quello di un’esistenza: una gravità intangibile, che toglieva il respiro. «Io ti ho tagliato il pallone, ricordi?». «Quando?». «Giocavi con i tuoi amici, e io non volevo, non in quel campo». «È passato tanto tempo». «Forse non avrei dovuto farlo...». «Non importa, altri momenti». Il tempo andato, però, per loro non passava: era evidente. L’esistenza, oltre la linea gialla, risultava circolare e concentrica: soggettiva e in comune al tempo stesso. Ognuno provava il “suo”, ma altri potevano accorgersi di quella sensazione. Un altro gigante: «Ciao». «Nonno!».

Fotografia di Gianni Berengo Gardin, da L’età di Fulvia. Fotografia di Davide Ortombina, da La linea gialla.

(sulla doppia pagina) Fotografia di Gianni Berengo Gardin, da L’età di Fulvia.

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Fotografia di Luciano Marchi, da Quel bel mare di Pistoia. Fotografia di Davide Ortombina, da La linea gialla.

(sulla doppia pagina) Fotografia di Mosé Norberto Franchi, da La via più breve.

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«Non sei diventato medico, lo avevo chiesto anche a tuo padre». «Non è colpa sua e me ne sono pentito» «Sì, l’ho capito...». «Sono sulla tua ferrovia, quella del fresco...». «Ti ricordi?». «Ti ricordo!». Il nonno, suo nonno. Di lui rammentava tutto, eccome: l’affetto, la bontà, la consistenza; anche la parsimonia, da dedicare agli altri. È strano come i ricordi ti vengano restituiti diversi man mano che il tempo passa. Alle volte si completano, prendendo forma: come se gli anni aumentino la tua capacità di lettura, di interpretazione. Ora lo vedeva bene, suo nonno, e ricordava: meglio. Era bello sdraiarsi al suo fianco mentre lui riposava, intuendone il profilo della giubba, e anche quel lento respirare di chi è nel sonno: quello realmente voluto. Dopo poco si sarebbe svegliato, accorgendosi di lui; poi gli

avrebbe raccontato una storia, magari anche quella della volta prima. Non importava, perché quel momento era tutto da vivere, a occhi aperti: con lo sguardo al lampadario e l’odore della stanza a migliorare la consapevolezza. Già, l’odore. La memoria ti restituisce sensazione e sentimenti, che li puoi raccontare; gli odori, no: riesci solo a descriverli per quanto ti è parso che fossero. Eppure lì, di fronte alla linea gialla, pareva quasi che i personaggi fossero in grado di restituirgli anche il profumo dei momenti e dei luoghi; una sorta di regalo che riusciva a rendere più attuale il ricordo nella sua forma completa. La forza che lo costringeva alla panchina era più forte. Chiuse gli occhi: respirò. Quasi in un gioco, suo padre gli portò l’odore dell’uva fragola settembrina: quello che gli faceva capire come l’inizio della scuola fosse vicino; gli ricordava anche le partite di pallone in una strada in discesa, con Carlo, Federico, Raffaele, Riccardo. Un


altro respiro, ed ecco l’odore del freddo, del fumo dei camini, della televisione accesa da troppo tempo, del vino rovesciato sul tavolo. “Basta!”, si diceva, “dove sono adesso? Qui non ce la faccio”, ma la forza spingeva più forte. Guardava la figlia che veniva verso di lui e avrebbe voluto mandarla via, ma non riusciva a parlare. Intanto, la danza dei personaggi continuava davanti a lui, con tutto il seguito di odori e dettagli: suo nonno Bruno che si lavava mani e braccia nella vasca, usando il detersivo in polvere; il sorriso soddisfatto della nonna Mercedes; ma poi tutti i vicini di casa, le persone dimenticate, i luoghi frequentati una sola volta eppure oggi realmente importanti. Quasi si sentiva soffocare, ma la curiosità fu attratta da un tavolo quadrato d’osteria. Due persone anziane sembrava stessero aspettando qualcuno. «Te l’ho detto che erano giocatori!», diceva uno. E l’altro: «Ho perso per non litigare con mio figlio».

Riconobbe una storica partita a briscola e tresette, contro due campioni anziani. Rammentò l’atmosfera, la gente attorno, le discussioni e l’inverno, quello vero, fuori dalla porta. Gianni era il suo compagno, teso e plausibile; lui, di fronte, sentiva il momento. Ma le carte girarono per bene, come la vita in certi periodi; e vinsero, come nessuno avrebbe potuto immaginare. Ora la partita era lì ad aspettarli, alla fine della vita. Il senso d’ansietà aumentava, come il peso di esistere di fronte a quel palcoscenico. La danza delle comparse divenne più vorticosa. Schiacciato sulla panchina, cercava il padre. Ma era solo gente, tanta, unanime, mossa questa volta da un’unica regia. Era il turbinio della vita passata, rivissuta in tutte le combinazioni possibili. Le circostanze quasi si mescolavano, come gli amori e i sentimenti. Le comparse rivivevano il passato, ma anche tutto quanto avrebbero potuto far loro se solo avessero voluto. Il respiro era quello di porte che

Fotografia di Davide Ortombina, da La linea gialla.

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Fotografia di Davide Ortombina, da La linea gialla. Fotografia di Luciano Marchi, da Quel bel mare di Pistoia.

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si aprono e si chiudono, riportando tutti dov’erano: almeno nei pensieri. Per loro la vita sarebbe potuta essere quella sognata, questo se solo avessero usato bene emozioni e sentimenti. Ecco sì, per tutte quelle comparse la responsabilità non era nei gesti o nei comportamenti, tantomeno nell’accaduto; erano le idee a essere celebrate o condannate, le stesse che rendevano goffe le movenze di ogni personaggio. Era il pensiero a essere pesante e oppressivo, e arrivava fino alla panchina. Più di una volta credette di non farcela, poi tutto si risolse: di colpo. Per un attimo percepì un colpo alla gola, e dopo un senso di leggerezza. Comparirono anche i rumori consueti e le voci di moglie e figlie, ora attorno a lui. «Cosa c’è?», gli chiesero. «Ho visto...». «Chi hai visto?». «Niente, nessuno», rispose. «Andiamo?», chiese Daniela.

«Solo un attimo...», aggiunse lui. Daniela e Elly erano già fuori dalla stazione. Guardò ancora verso la montagna, ma non scorse niente. Camminò per qualche metro, poi si volse indietro per l’ultima volta. Suo padre era lì, al di là del binario: come salito dal fiume. «Parlami ancora», disse, «ne ho bisogno». Ne ottenne solo un sorriso. «Non lasciarmi così», aggiunse. Ma fu solo silenzio, quello che si percepisce dentro su un treno che sta partendo. Rassegnato, si voltò in avanti. Cercava le sue donne, che forse lo aspettavano vicino alla macchina. Una piccola mano cercò e trovò la sua: era quella di Giorgia. «Non si può avere tutto..., lo dice anche la mamma». «Tutto cosa?». «Non pestare la linea gialla», continuò Giorgia, «di là non si può andare». ❖



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SCENEGGIATURA


Doverosamente, riprendiamo e ripetiamo note già presentate su questa rivista, dieci e quattro anni fa, per riferirle a Sergio Bonelli, mancato a fine settembre, che -con lo pseudonimo di Guido Nolitta- ha sceneggiato l’avventura a fumetti nella quale Tex Willer incontra e affianca il fotografo Timothy H. O’Sullivan, uno dei grandi interpreti statunitensi della seconda metà dell’Ottocento, un protagonista della Storia. Sapiente combinazione tra realtà e invenzione in un racconto che nasce nel deserto del Nevada, per svolgersi nelle giungle dell’America centrale; e poi, si registra anche un ritorno, ancora sceneggiato da Sergio Bonelli. Episodi avvincenti. Avventura allo stato puro di Maurizio Rebuzzini

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ll’indomani della sua scomparsa, lunedì ventisei settembre, Sergio Bonelli è stato soprattutto ricordato come editore di fumetti. Dopo di che, sono state sottolineate due sue creazioni, Zagor e Mister No, che fanno parte di una compatta squadra editoriale di personaggi di forte personalità: sopra tutti, Tex (creato dal padre Gian Luigi), Dylan Dog, Martin Mystère, Nathan Never, Legs Weaver e Julia. A conti fatti, i più seguìti e fascinosi fumetti italiani contemporanei. Quindi, non va ignorato, né sottovalutato, che con lo pseudonimo di Guido Nolitta, Sergio Bonelli ha sceneggiato molte avventure di Tex Willer. Dal nostro punto di vista mirato, e finalizzato alla fotografia, segnaliamo che una sceneggiatura ha consistentemente incrociato la fotografia, facendo agire accanto a Tex un fotografo che occupa un posto di primo piano nella storia della fotografia: Timothy H. O’Sullivan. Su queste pagine, ne abbiamo già riferito in due occasioni: una prima, nel febbraio 2001, in occasione di una sofisticata edizione libraria dell’episodio, originariamente distribuito su tre fascicoli consecutivi di Tex mensile, dal numero 250 (prima pubblicazione, nell’agosto 1981); una seconda volta, nel giugno 2007, quando l’editore Hachette ha realizzato una statuina di Timothy H. O’Sullivan, nell’ambito della collana Il mondo di Tex. Dunque, ne abbiamo scritto quattro e dieci anni fa. A conti fatti, e con il tempo ormai trascorso, è più che legittimo ricordare oggi Sergio Bonelli (nei panni di Guido Nolitta), richiamando una volta ancora proprio quell’avventura di Tex Willer, in compagnia di Timothy H. O’Sullivan. Con doveroso ritorno successivo, sempre sceneggiato da Guido Nolitta-Sergio Bonelli.

CHE SCENEGGIATURA! Con una sapiente combinazione tra realtà e invenzione, l’avventura di Tex nella quale il fotografo statunitense Timothy H. O’Sullivan affianca l’intrepido Ranger, diventando protagonista della storia, nasce nel deserto del Nevada, per svolgersi poi nelle giungle dell’America centrale, dove ha effettivamente agito Timothy H. O’Sullivan. Come appena annotato, la storia è originariamente distribuita su

tre fascicoli consecutivi di Tex, il primo dei quali evoca giusto la figura e personalità del fotografo: Il solitario del West (numero 250, dell’agosto 1981, e repliche successive; a pagina 44). Dopo di che, nel dicembre 2000, Mondadori ha riunito in un unico volume l’intera avventura, pubblicandola in una edizione impreziosita da un sostanzioso ingrandimento delle tavole, in trecentocinquantasei pagine 22x31cm, che per l’occasione sono state anche colorate in toni accesi e contrasti confortevoli. Derivazione diretta dai fascicoli originari, questo Tex nell’Inferno Verde replica le attribuzioni e paternità originarie: sceneggiatura di Guido Nolitta-Sergio Bonelli, che qui ricordiamo all’indomani della sua scomparsa, e disegni del senese Giovanni Ticci, nello staff di Tex dal 1967. La narrazione di Guido Nolitta-Sergio Bonelli è piacevole, lineare e scorrevole. Dopo la propria edizione originaria in bianconero, questa avventura di Tex acquista nuova vitalità nella colorazione Mondadori, che dà tono e spessore alla precisione del disegno, di grande livello, e alla visualizzazione di luoghi e situazioni. Si parte dal West, per approdare all’impervia giungla centroamericana. Ovviamente, non tutto scorre liscio, e non mancano intrighi e colpi di scena, come in ogni vicenda nella quale Tex Willer si impegna con i propri pard: alternativamente nelle vesti di Ranger o di capo bianco degli indiani Navajo (per i quali è Aquila della Notte). Si sfiora il giallo; e tra realtà e fantasia, la narrazione di Guido Nolitta-Sergio Bonelli è adeguatamente e felicemente coinvolgente. Tutto ciò per il piacere dei cultori della letteratura a fumetti, che con Tex possono sempre contare sia su eccellenti sceneggiature, sia su tratti grafici precisi, dettagliati e ricchi di apprezzate sfumature. Nello specifico di Tex nell’Inferno Verde (oppure da Il solitario del West, in avanti), lo svolgimento attira l’attenzione del mondo fotografico, appunto coinvolto attraverso la figura storica e reale di Timothy H. O’Sullivan, comprimario (e non comparsa) di un brillan-

Il fotografo statunitense del secondo Ottocento Timothy H. O’Sullivan è il Solitario del West che affianca Tex Willer in una storia a fumetti con consistente retrogusto fotografico: sceneggiatura di Guido Nolitta, pseudonimo letterario di Sergio Bonelli, noto soprattutto come editore, mancato lo scorso settembre. Pubblicata da Mondadori, nel 2000, l’avventura Tex nell’Inferno Verde riunisce la storia a fumetti originariamente divisa su tre fascicoli di Tex mensile, dal numero 250 / Il solitario del West, dell’agosto 1981: 356 pagine 22x31cm, cartonato; tavole colorate.

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te Tex Willer, per l’occasione addirittura più brioso, vivace e arguto del solito. Per intenderci, all’altezza del Tex di Dodge City, Yampa Flat, Old Pawnee Bill, El Rey, Yuma!, El Morisco, Condor Pass... tanto per citare episodi che appartengono alla Storia del fumetto italiano.

IL SOLITARIO DEL WEST Ottimo interprete di se stesso, Tex Willer sa mettersi discretamente in secondo piano quando la scena viene presa e momentaneamente occupata da una personalità di carattere. E questa intelligenza la dice lunga sulla capacità dei soggettisti e degli sceneggiatori del fumetto, che «attingono alla realtà senza falsarla, modulando spesso la propria scrittura in base all’essenza dei fatti; riportando fedelmente, anche se in forma fantasiosa, “la pura verità” dell’epopea western» (Renato Genovese, in introduzione a Tex nell’Inferno Verde). Dunque, questa storia è meno di Tex, che pure rimane il protagonista inviolabile della serie a lui dedicata, di quanto non sia di Timothy H. O’Sullivan, fotografo dell’Ottocento, pioniere della foto-

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grafia di rilevazione del territorio alla quale ancora si riferiscono (spesso impropriamente) molte esperienze visive contemporanee. Fu avviato alla fotografia da Mathew B. Brady, che lo coinvolse nella documentazione della guerra Civile americana assieme a Alexander Gardner; nei decenni successivi, il giovane Timothy Henry O’Sullivan (1840-1882) seguì come fotografo diverse spedizioni scientifiche. Dal 1867 al 1869, il suo leggendario carro fotografico, perfettamente attrezzato (che compare pure nella sceneggiatura di Tex nell’Inferno Verde / Il solitario del West; pagina accanto), si accodò alla spedizione di Clarence King per l’esplorazione geologica del Quarantesimo parallelo. In quegli anni, Timothy H. O’Sullivan fotografò le Montagne Rocciose, il deserto del Nevada e vari insediamenti minerari. Poi, nel 1870, partecipò alla spedizione scientifica che avrebbe dovuto valutare la possibilità di tracciare un canale attraverso l’istmo di Panama (ed è alla vigilia di questa missione che, nella fantasia del fumetto, si incontra con Tex Willer); infine, dal 1871 al 1873 collaborò con William Bell nella spe-

dizione di George M. Wheeler verso il Centesimo meridiano e viaggiò in Arizona, Nevada, Utah e Nuovo Messico (riprendendo, in questa occasione, il Canyon de Chelly, già mostrato a Tex nel 1870: all’inizio dell’avventura che commentiamo, alla cui sceneggiatura concediamo, come a ogni finzione, il beneficio della forma fantasiosa; qui sotto). Nel 1875, Timothy H. O’Sullivan lasciò definitivamente il selvaggio West; e nel 1880, dopo diverse esperienze professionali, ottenne un incarico presso il Dipartimento del Tesoro a Washington. Malato di tubercolosi, dovette abbandonare il lavoro. È morto a Staten Island, nel 1882, lasciando un vasto patrimonio fotografico sull’epopea del West, che è stato raccolto in una vasta serie di volumi illustrati.

(pagina accanto) Incontro tra Tex Willer e Timothy H. O’Sullivan, all’inizio della storia a fumetti che li vede compagni di avventura. L’ottima sceneggiatura di Guido Nolitta (pseudonimo letterario di Sergio Bonelli) è stata attenta anche ai dettagli significativi della fotografia della metà dell’Ottocento: con raffigurazione del carro fotografico di Timothy H. O’Sullivan, fotografato nel Carson Desert, in Nevada, nel 1867.

A VOLTE, TORNANO Come sanno bene coloro i quali frequentano i fumetti, e conoscono lo stile narrativo di Tex, a volte la sceneggiatura delle singole avventure richiama e ripropone personaggi, comprimari e comparse di precedenti episodi. È accaduto spesso con l’irlandese Pat Mac Ryan, El Morisco, il governatore Montales, la giubba rossa Jim Brandon, il forzuto Gros-Jean e altri. È accaduto anche con Timothy H. O’Sullivan. Conclusa la serie dei tre fascicoli successivi -Il solitario del West (appunto Timothy H. O’Sullivan; 250), Giungla crudele (251) e Il volto del traditore (252), da cui il volume Tex nell’Inferno Verde-, Timothy H. O’Sullivan fa ancora capolino a margine di un’altra avventura. Non più protagonista, ma comparsa, Timothy H. O’Sullivan torna a essere il fotografo delle selvagge terre dell’Ovest nella vicenda che si distribuisce su alti tre fascicoli. Con disegni di Galep (Aurelio Galleppini, per l’ultima volta con Tex ), la storia parte con Il killer senza volto (da pagina 56 del numero 287, L’uomo nell’ombra), si allunga in Grido di guerra (288) e si conclude a pagina 70 di La vendetta di Tiger Jack (289).

Timothy H. O’Sullivan mostra a Tex Willer alcune sue fotografie, tra le quali si identifica il Canyon de Chelly, nel Nuovo Messico, ripreso durante la spedizione di George M. Wheeler verso il Centesimo meridiano, alle frontiere del territorio (1873). Temporalmente, l’incontro con Tex è antecedente l’esplorazione geologica a Panama, del 1870 (nella quale Tex accompagna Timothy H. O’Sullivan): questo slittamento è concesso alla fantasia del fumetto, che, come ogni finzione, gode del beneficio della forma fantasiosa.

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ORIGINALI, RISTAMPE E ALTRO ANCORA

Come rilevato nel corpo centrale di questo intervento redazionale, l’avventura di Tex Willer raccolta anche nel volume Tex nell’Inferno Verde è stata originariamente pubblicata a puntate in tre fascicoli mensili successivi (sceneggiatura di Guido NolittaSergio Bonelli, disegni di Giovanni Ticci): Il solitario del West, numero 250, dell’agosto 1981; Giungla crudele, numero 251, del settembre 1981; Il volto del traditore, numero 252, dell’ottobre 1981. Diversamente dalle consuetudini di Tex, che in genere divide le proprie storie a cavallo degli albi, la vicenda che comprende la presenza del fotografo Timothy H. O’Sullivan occupa esattamente tre numeri: per l’appunto, comincia con il numero 250 e si conclude con il 252. Dopo la prima pubblicazione, gli stessi tre albi sono stati ristampati nelle collane Tex-Tre stelle (dicembre 1984, gennaio e febbraio 1985), TuttoTex (quindicinale: 29 luglio, 14 agosto e 27 agosto 1997) e Nuova ristampa (quindicinale: 13, 27 febbraio e 13 marzo 2010). In tutti i casi, sono stati confermati i riferimenti della stampa litografica in bianconero di 16x21cm, inferiore alla preziosa edizione Mondadori a colori, che offre altresì il respiro di dimensioni gradevolmente superiori, 22x31cm. Come annotato, la figura di Timothy H. O’Sullivan torna in una successiva avventura di Tex Willer, distribuita su altri tre fascicoli: L’uomo nell’ombra, numero 287, del settembre 1984; Grido di guerra, numero 288, dell’ottobre 1984; La vendetta di Tiger Jack, numero 289, del novembre 1984. In questo caso, la storia, l’ultima disegnata da Galep (Aurelio Galleppini),

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inizia a metà dell’Uomo nell’ombra (con Il killer senza volto, da pagina 56), e si conclude a metà della Vendetta di Tiger Jack (a pagina 70). Ovviamente, vanno segnalate anche le ristampe mensili di Tex-Tre stelle (gennaio, febbraio e marzo 1988) e quindicinali di TuttoTex (13, 26 febbraio e 11 marzo 1999) e Nuova ristampa (17 settembre, Primo e 15 ottobre 2011). Se nella prima, consistente avventura (sceneggiata da Sergio Bonelli), riproposta da Mondadori, Timothy H. O’Sullivan trascina Tex Willer nella Storia, in questa seconda partecipazione, il fotografo viene coinvolto nella Storia degli Stati Uniti, arrivando a fotografare la firma al trattato di pace con gli indiani Cheyenne del fiero Appanoosa. Come dichiara Timothy H. O’Sullivan, nella fantasia della sceneggiatura di Guido Nolitta-Sergio Bonelli (ancora!): «Ho fatto fotografie di tutti i tipi nel corso della mia carriera, Tex, voi lo sapete bene... Battaglie, incendi, alluvioni, eruzioni, cataclismi e poi indiani, cinesi, banditi e sceriffi, insomma tutto quello che questa straordinaria terra può offrire a un occhio attento come il mio... Ma, per una strana serie di coincidenze, non mi è mai capitato di immortalare un fatto storico come questo: la firma di un trattato di pace tra una grande potenza militare e industriale e un gruppo sparuto di poveri, primitivi individui che sembrano l’immagine di un passato scomparso. Questa potrebbe essere l’ultima volta che si verifica un avvenimento di questo genere, capite? La mia ultima occasione!». Detto, fatto: le relative tavole sulla pagina accanto.


Gli albi Il solitario del West (250, agosto 1981), Giungla crudele (251, settembre 1981) e Il volto del traditore (252, ottobre 1981), nei quali è divisa l’avventura che comprende la presenza del fotografo Timothy H. O’Sullivan, sono stati ristampati nelle collane Tex-Tre stelle (dicembre 1984, gennaio e febbraio 1985), TuttoTex (quindicinale: 29 luglio, 14 agosto e 27 agosto 1997) e Nuova ristampa (quindicinale: 13, 27 febbraio e 13 marzo 2010). (pagina accanto, in basso) Timothy H. O’Sullivan torna in una successiva avventura di Tex Willer, su altri tre fascicoli, sceneggiata ancora da Guido Nolitta-Sergio Bonelli e disegnata da Galep (Aurelio Galleppini): L’uomo nell’ombra (287, settembre 1984), Grido di guerra (288, ottobre 1984) e La vendetta di Tiger Jack (289, novembre 1984). Ristampe mensili di Tex-Tre stelle (gennaio, febbraio e marzo 1988) e quindicinali di TuttoTex (13, 26 febbraio e 11 marzo 1999) e Nuova ristampa (17 settembre, Primo e 15 ottobre 2011). Il ritorno di Timothy H. O’Sullivan su Tex, dopo la sua avventura originaria, si scompone tra l’incontro con Tex Willer e Tiger Jack, con relativa dichiarazione di intenti (integralmente proposta in questo riquadro), e la documentazione fotografica della firma al trattato di pace con gli indiani Cheyenne del fiero Appanoosa.

Dopo alterne circostanze, al solito gestite e risolte da provvidenziali interventi di Tex Willer, Kit Carson e Tiger Jack, che sbrogliano una complessa matassa di equivoci e reciproche diffidenze, si approda alla storica firma del trattato tra il Governo degli Stati Uniti, rappresentato dal generale Thomas Madison e dai senatori William Meredith e Richard Fletcher, e il capo Cheyenne Appanoosa. Proprio Timothy H. O’Sullivan scatta la fotografia ufficiale dell’incontro, con i protagonisti in posa davanti all’immancabile treppiedi [a sinistra]. La sua partecipazione all’episodio, in gergo “cameo”, è distribuita tra questo finalino buonista e l’inizio della vicenda, quando Tex i suoi pard si imbattono nel suo carro fotografico, e grazie al suo intervento danno una significativa e conclusiva svolta a un’indagine basata su un ritratto di donna, guarda caso eseguito proprio da Timothy H. O’Sullivan (bontà del margine di fantasia e invenzione che si concede ogni bravo sceneggiatore). Dal dialogo tra Tex e Tiger Jack, il fedele pard Navajo: «Mi venga un colpo! Ma quello... quello non ti ricorda il carro di quel simpaticone di O’Sullivan?»; «Woah! Mi sembra quasi uguale...», «... anzi, proprio uguale, tanto uguale che...»; «Ma è lui!! È proprio lui, quel matto di fotografo!»; «O’Sullivan! Ma è incredibile!». Da crederci, invece! ❖

Una significativa tavola da Tex nell’Inferno Verde, trasposizione a colori da albi originari di Tex mensile: nella giungla centroamericana, il fotografo Timothy H. O’Sullivan incontra un pericolo mortale. Leggiamola come una concessione che rivela la capacità dei soggettisti e degli sceneggiatori del fumetto (Guido Nolitta Sergio Bonelli), che «attingono alla realtà senza falsarla, modulando spesso la propria scrittura in base all’essenza dei fatti; riportando fedelmente, anche se in forma fantasiosa, “la pura verità” dell’epopea western» (Renato Genovese, in introduzione a Tex nell’Inferno Verde ).

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Yossi Loloi con FOTOgraphia di aprile 2011 ne abbiamo parlato


SWPA

DAL201 1

a cura di Angelo Galantini

OPEN Nature and Wildlife e Travel Quarto di cinque appuntamenti programmati (il prossimo, conclusivo, a dicembre), dal Sony World Photography Award 2011, del cui svolgimento abbiamo riferito lo scorso giugno, andando sottotraccia e approfondendo connessioni e considerazioni opportunamente cadenzate e scandite. In ripetizione, d’obbligo: oltre tanti altri propri valori espliciti e impliciti -a partire dalla fantastica promozione di se stesso e della fotografia in toto (ben presentata ed esposta in un palcoscenico di richiamo, come è stato quello di Londra)-, il concorso Sony ha il considerevole merito di dare risalto anche a una fotografia non professionale di effettiva espressività e concretezza (in sovramercato, spesso proveniente da paesi insospettabili, da paesi estranei al consueto circuito della fotografia occidentale). Da cui, la nostra caparbia segnalazione delle fotografie segnalate nelle sezioni Open (fotografia non professionale) ribadisce e conferma come e quanto la fotografia sia una passione diversa da ogni altra. Diversa, sia chiaro e dichiarato, perché... migliore! Dopo Action e After Dark (luglio), Architecture e Panoramic (settembre) e Arts and Culture e Fashion (ottobre), altre due categorie Open del Sony World Photography Award 2011. A dicembre, le restanti due, fino al totale delle dieci categorie di riferimento. Sony World Photography Award 2011 Open - Nature and Wildlife: vincitore di categoria, Andiyan Lutfi (Indonesia). Sony World Photography Award 2011 Open - Travel: vincitore di categoria, James Chong (Singapore).

A luglio, settembre e ottobre: Action e After Dark, Architecture e Panoramic, Arts and Culture e Fashion. Dalla sezione Open del Sony World Photography Award 2011 (fotografia non professionale), sul prossimo numero di FOTOgraphia: People e Smile.

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KIERAN O’CONNOR (AUSTRALIA): OPEN NATURE AND WILDLIFE

NENAD SALJIC (CROAZIA): OPEN NATURE AND WILDLIFE

TANJA ZECH (GERMANIA): OPEN NATURE AND WILDLIFE

ALEX BERNASCONI (ITALIA): OPEN NATURE AND WILDLIFE

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DMITRY MIROSHNIKOV (RUSSIA): OPEN NATURE AND WILDLIFE

ANTOINE BEYELER (SVIZZERA): OPEN NATURE AND WILDLIFE

CEDRIC FAVERO (SVIZZERA): OPEN NATURE AND WILDLIFE

LUCA NEVE (INGHILTERRA): OPEN NATURE AND WILDLIFE


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52 YAP WAL LEONG (MALESIA): OPEN TRAVEL

GLENN LOSACK MD (USA): OPEN TRAVEL


AUSTRALIA Camera CANADA Photo Life CINA Chinese Photography FRANCIA Réponses Photo GERMANIA Digit! • Foto Hits • Inpho Imaging & Business • Photographie • Photo Presse • ProfiFoto GRECIA Photographos • Photo Business INGHILTERRRA Digital Photo • Photography Monthly • Practical Photography • Professional Photographer ITALIA Fotografia Reflex • FOTOgraphia OLANDA Fotografie F+D • FotoVisie • P/F POLONIA Foto SPAGNA Arte Fotográfico • Diorama • Foto/Ventas • FV / Foto Video Actualidad • La Fotografia Actual SUDAFRICA PiX Magazine STATI UNITI D’AMERICA Shutterbug UNGHERIA Digitális Fotó Magazin

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VOLTI

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ANONIMI


di Antonio Bordoni

O

pportunamente e intelligentemente scomposta in dieci capitoli tematici, The Face in the Lens è un’altra di quelle raccolte di fotografie anonime, doppiamente anonime (autori e soggetti, senza alcuna soluzione di continuità), che traguardano la Storia della fotografia, osservandola di traverso. Ovverosia, non in relazione alla statura degli interpreti o al valore dei soggetti, ma in dipendenza di quei milioni e milioni di fotoricordo e fotografie familiari che compongono i tratti di una autentica e inviolabile storia sociale. Fantastico linguaggio visivo del Novecento, comunque venga realizzata, la fotografia raccoglie e conserva il Tempo, fosse anche quello individuale, che racconta inevitabilmente le epoche e il mondo. Su questo argomento, abbiamo avuto già modo di esprimerci. Soprattutto, lo abbiamo fatto nel febbraio 2008, presentando tre raccolte insieme, più una ancora, collegate tra loro dal filo comune della fotografia anonima: Anonymous (per l’appunto), che sottotitola Enigmatic Images from Unknown Photographers (Anonimo - Immagini enigmatiche di autori sconosciuti; a cura di Robert Flynn Johnson; Thames & Hudson, New York, 2004), Photo trouvée (Fotografie ritrovate; a cura di Michel Frizot e Cédric de Veigy; Phaidon Francia, 2006) e Picture Machine, ovvero The Rise of American Newspictures (che prende in esame la fotocronaca statunitense; a cura di William Hannigan e Ken Johnston; Harry N. Abrams, New York, 2004). Ovviamente, si trattò di tre titoli singoli e autonomi, accostati soltanto dal nostro punto di vista mirato, esplicitamente e volontariamente propositivo di una riflessione sulla fotografia anonima. A questi tre, in riquadro, si aggiunse Snapshots - The Eye of the Century (Istantanee - L’occhio del Secolo), corposo volume-catalogo di una esposizione di originali, itinerante nell’Europa di lingua tedesca dal maggio 2004 (a cura di Christian Skrein; in tedesco e inglese; Hatje Cantz Verlag, 2004).

Già affermato in altre occasioni, ma la ripetizione si impone. C’è un fantastico capitolo della Storia della fotografia che non può essere raccontato e neppure classificato: è quello della fotoricordo, che vive negli album di famiglia, che è polverizzato in miliardi di abitazioni private. Quindi, ben vengano quelle raccolte, come la recente The Face in the Lens, che danno risalto e visibilità alla esaltante fotografia anonima, sia di autore sia di contenuto, e che, allo stesso momento, rivelano come e quanto la fotografia sia l’autentico linguaggio del Novecento. Ancora qui: come la Fotografia influenza e cambia la nostra vita

The Face in the Lens, a cura di Robert Flynn Johnson; University of California Press, 2009; 208 pagine 24,5x25cm, cartonato; 31,86 dollari.

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(a pagina 54) Dalle note introduttive a The Face in the Lens: stampa bianconero; Usa, circa 1930. (a pagina 55) Da Immaturity: stampa in seppia; Usa, circa 1920.

(pagina accanto, dall’alto e da sinistra) Da Masculinity: stampa in seppia; Usa, circa 1917. Da Masculinity: stampa colorata a mano; Usa, circa 1930. Da Femininity: stampa bianconero; Francia, circa 1980. Da Femininity: Ruby, Elise and Ruth, Pismo Beach; stampa in seppia; Usa, circa 1920.

Da Compatibility: polaroid; Usa, circa 1965.

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IN DIECI PASSI

Preceduti da due doverose introduzioni (in inglese), che fanno il punto sul senso e valore della fotografia anonima, della fotografia che racconta una sorta di esistenza quotidiana, e seguiti da note complementari, comprensive di una apprezzata descrizione museale delle singole immagini presentate, come appena rilevato, dieci capitoli tematici scompongono e mettono in ordine le istantanee presentate sulle pagine di The Face in the Lens, ben accolto casellario della fotografia anonima nei due propri sensi. Immaturity, Masculinity, Femininity, Compatibility, Celebrity (anonimi solo gli autori), Singularity, Activity, Festivity, Adversity e Inevitability (alla lettera, Immaturità, Mascolinità, Femminilità, Compatibilità, Celebrità, Singolarità, Attività, Feste, Avversità e Inevitabilità) scandiscono dieci plausibili ordinamenti di catalogazione. Dato il vasto ed eterogeneo materiale fotografico proposto dall’ampio contenitore della fotografia anonima, altre scomposizioni sono/sarebbero altrettanto legittime, altre identificazioni sono/sarebbero altrettanto accomunabili. Dunque, questi dieci capitoli sono congeniali soltanto a questa raccolta: a ciascuno, eventuali altre frazioni. Comunque la si veda e racconti, ciò che ha soprattutto importanza è la fenomenologia della fotografia anonima in se stessa e per se stessa: in proiezione verso il proprio inevitabile racconto (fotografico e sociale allo stesso tempo). Per questo, al pari di ogni altra analoga che l’ha temporalmente preceduta, e di quelle che ancora verranno (lo speriamo), il grande e assoluto valore di

questa recente raccolta si basa sull’indelebile traccia che l’insieme delle fotografie quotidiane, private o meno che siano, lasciano dietro di sé. Per quanto anche l’attuale The Face in the Lens sia geograficamente limitato e concentrato soprattutto alla visione americanocentrica (ed è inevitabile: ormai, soltanto negli Stati Uniti si dà fiato a qualsivoglia osservazione intelligente della fotografia), la sua analisi visiva va oltre le immagini presentate, tanto che ognuno può/potrebbe partire da qui per ulteriori censimenti a casellari basati sull’esperienza personale. Oppure, e sarebbe veramente bello, continuiamo a sognare e sperare che qualche istituzione nazionale promuova lo studio e approfondimento di questo fenomeno: se soltanto le istituzioni esistessero; ma non è vero, perché tutti gli indirizzi italiani potenzialmente preposti (Musei, Accademie e contorni) non sono indirizzati alla ricerca, tantomeno storica, ma limitati alla registrazione di quanto già c’è.

APPUNTO, RACCONTI DELLA VITA Quello applicato da The Face in the Lens, ulteriore titolo di una genìa a dir poco avvincente, è un affascinante e particolare modo di guardare la Fotografia, la sua storia e la sua influenza sulla e dalla società; ancora, sempre e inevitabilmente: come la Fotografia influenza e cambia la nostra vita. In definitiva, è stata composta e realizzata una suggestiva visione esterna al proprio privato, osservata dalla consecuzione di fotografie che appartengono a un casellario latente di arte accidentale (che negli Stati Uniti è anche sostanziosa materia di collezionismo: e The Face in the Lens è appunto la catalogazione per tematiche di una collezione privata). Il casellario proposto nei dieci capitoli del racconto è assolutamente seducente. Il consistente insieme di circa duecento fotografie, stampate con cura e messe in pagina con attenzione (forma, oltre il contenuto), è suddiviso in dieci capitoli tematici, a fronte di una manifesta metodologia di archiviazione e conservazione. Come annotato, queste fotografie anonime, identificate per anno e luogo (oltre che dimensioni delle relative copie su carta), non fanno parte della linea evolutiva del linguaggio fotografico così come lo si intende solitamente, ma a questo si riconducono, essendo state inquadrate, composte e scattate con le attenzioni di chi ne conosce la grammatica espressiva. Quindi, non appartengono alla Storia della fotografia, quanto, più ampiamente, alla storia del mondo, raccontato da visioni private, guidate da emozioni personali e non condizionato da preconcetti di ordine professionale o culturale. Per quanto a questo sia doveroso riferirsi e richiamarsi, il risultato è a dir poco entusiasmante: dischiude le porte di un universo che rivela quanto la Fotografia sia effettivamente l’autentico linguaggio della modernità, entrato di forza e per diritto nel panorama culturale dell’uomo contemporaneo. È fotografia da ogni luogo e in


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Da Activity: Tarpon caught at Hours Bluff; stampa in seppia; Usa, circa 1880.

Da Activity: stampa bianconero; Francia, circa 1930.

ogni situazione, che mette sapientemente a frutto il princìpio originario del suo stesso criterio, quello di superare tempo e spazio per mostrare ciò che c’è e avviene senza alcuna barriera. E anche, in ripetizione ossessiva: come la Fotografia influenza e cambia la nostra vita. Che racconti straordinari si alzano da queste immagini! Pagina dopo pagina, siamo come presi per mano e accompagnati a comprendere situazioni e realtà precedentemente ignorate: magia e fascino della fotografia anonima (e privata), che compensa il racconto professionale di avvenimenti annunciati e previsti, sui quali si sono accesi i riflettori dell’attenzione pubblica e globale. Nel proprio insieme, si tratta di fotografie scattate con e per la curiosità di osservare oltre la propria sfera personale. Magari semplici fotoricordo, e comunque autentici racconti da situazioni e luoghi interpretati con partecipazione convinta: quindi, fotografie intenzionalmente destinate ad essere mostrate ad altri, per condividere insieme esperienze ed emozioni.

OLTRE IL VOLTO

Da Celebrity: Charles Lindbergh after landing in Paris; stampa bianconero [dettaglio]; Francia, 1927.

Da Singularity: Marvelous Deyoes; stampa in seppia; Usa, circa 1890.

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Come svela e rivela il titolo, la raccolta The Face in the Lens è definita, più che caratterizzata, da un minimo comune denominatore: il volto, la presenza umana. Ovverosia, la figura è il motivo conduttore della visione globale, che risponde al secondo comune denominatore dell’autore anonimo (celebrità a parte, anche del soggetto anonimo). Da mille provenienze diverse, si compone un quadro comune, un puzzle omogeneo nell’accostamento ragionato delle sue singole tessere. Nessun autore di queste fotografie ha affrontato l’inquadratura e composizione con piglio da studioso, né con intenzioni sociologiche, ma l’insieme delle immagini ordinate sulle pagine della monografia finisce per rivelare questo: l’osservazione e l’emozione immediata e individuale sono trasversali a tutte le immagini e ne rappresentano quella che si potrebbe definire la relativa “cifra stilistica”. Tutte visioni delicate, che si identificano con il soggetto, del quale ne offrono una interpretazione a dir


poco coinvolgente: soprattutto per noi, che osserviamo oggi queste fotografie del passato estraniati dalle singole intenzioni originarie. Addirittura, è nell’ordine del linguaggio fotografico esplicito, declinato con grammatica consapevole e convinta o interpretato con spartana spontaneità (soprattutto nell’ambito della fotografia anonima e di famiglia), che l’osservatore approdi a considerazioni che sono endemiche nella Fotografia. The Face in the Lens : è inevitabile che ci si debba guardare in viso (in fotografia, anche), per sapere da dove veniamo e chi siamo. Inevitabile che, per come e quanto la Fotografia influenza e cambia la nostra vita, ci si è abituati a guardare in faccia gli altri per lo stesso scopo. Quest’opera è dunque un capitolo in più che si aggiunge al fantastico atlante di volti che la Fotografia sta componendo da decenni, da centosettanta anni abbondanti. Nel 1907, Alfred Lichtwark, osservatore delle fenomenologie dell’esistenza e direttore della Kunsthalle di Amburgo, dal 1886, annotò che «Nella nostra epoca non esiste nessuna opera d’arte che venga osservata con tanta attenzione quanto la propria fotografia, oppure la fotografia dei parenti prossimi e degli amici, dell’amata». Spostando l’analisi dall’ambito delle distorsioni estetiche (e specialistiche, per esempio fotografiche) a quello delle funzioni sociali (come e quanto la Fotografia ha influenzato e cambiato la vita), Lichtwark ha altresì anticipato stagioni successive. Non siamo lontani dal vero (speriamo di non esserlo), quando e per quanto ora rileviamo che nel proprio insieme The Face in the Lens sottolinea anche un altro passaggio proprio del linguaggio fotografico. Così che arriviamo addirittura a intravedere quella socialità che scarta a lato la concezione estetica della fotografia in quanto arte, per affermare il fenomeno sociale ben più profondo dell’arte in quanto fotografia. Alternativamente con occhio discreto o indiscreto, a ciascuno il proprio, questi autori anonimi hanno fotografato persone e situazioni con persone. Nell’eterogeneità di linguaggi visivi autonomi, caratterizzati da personalità variegate, hanno edificato una rappresentazione significativa della curiosità verso la vita, appunto sottolineata con la controllata complicità del mezzo fotografico. Le fotografie di The Face in the Lens sono spesso ingenue, a volte concettualmente modeste, per lo più semplici nella propria proposizione... ma sempre vive e palpitanti di voglia di raccontare, mostrare, capire e far capire. Nel complesso, rivelano vite inattese, diverse da quelle della cronaca, composte da fantastiche sottolineature d’ambiente e di costume. Dunque, pur agendo ciascuno per se stesso, alla fine un qualsivoglia insieme di fotografie realizza una fantastica e ammirevole comunità di intenti: osservare per vedere, vedere per comprendere, comprendere per coinvolgere. Se ci è concesso un giudizio di merito, è questa l’essenza stessa della Fotografia e dell’uso dell’Immagine. ❖

Da Festivity: stampa in seppia; Usa, circa 1915.

Da Adversity: stampa in seppia; Usa, circa 1880.

Da Inevitability: stampa in seppia; Usa, circa 1880.

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Ancora lei! di Angelo Galantini

INVIOLABILMENTE, BETTY

S

Sì, è vero. Ci occupiamo spesso di Betty Page, fantastica icona della metà del Novecento, il cui mito (quantomeno visivo) si è allungato in avanti nei decenni, crescendo anno dopo anno, e approdando ai nostri giorni. Sì, è vero: ma la consistenza dell’argomento, con implicazioni e consecuzioni, è assolutamente meritevole. E poi, siamo talmente competenti in materia (senza alcuna inutile falsa modestia), da contrastare le banalizzazioni che da tempo si stanno manifestando nel nostro paese, con colpevoli semplificazioni di socialità del passato, che cercano di rivitalizzare l’originario burlesque con grottesche imitazioni. Attenzione, tutto si svolge e deve svolgere nel proprio tempo e con i propri tempi: mal declinata e mal indirizzata, la nostalgia non esprime nulla e si esaurisce in se stessa. È vuota e svuotata. Allora. Anzitutto, abbiamo scritto e riferito di Betty Page in occasione di tre avvincenti combinazioni: accostata all’estetica della funzionalità della Pacemaker Speed Graphic, degli stessi anni Cinquanta, nel settembre 1997, la sua iconografia fu sollecitata dall’evocazione esplicita nel film di David Lynch, Lost Highway (in Italia, Strade perdute), nel quale il personaggio principale ha ripreso i connotati esteriori della celebre modella; a seguire, nel marzo 2001, abbiamo commentato l’edizione italiana del fumetto di origine francese Pin-up, dichiaratamente ispirato a Betty Page, appunto, sessioni fotografiche comprese; quindi, nel maggio 2006, in stretta attualità, fummo sollecitati dal successo di pubblico che negli Stati Uniti premiò il film-biografia The Notorious Bettie Page, che in Italia è stato veicolato soltanto tra le pay tv, rimbalzando da una all’altra.

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Ancora due altri interventi redazionali: nel febbraio 2009, all’indomani della scomparsa (il precedente undici dicembre), e novembre 2010, in presentazione di una consistente mostra allestita presso la Galleria Contemporary Concept, di Bologna, a cavallo dell’anno. Torniamo ora su e con Betty Page per un’altra mostra, alla Wave Photogallery, di Brescia, dal tre dicembre. Una volta ancora, trenta ingrandimenti di dimensioni generose (50x65cm), dalla Collezione di Maurizio Rebuzzini, composta da quattrocentottantanove soggetti, in stampe vintage (?) 10x13cm. Da cui, poi, anche animazioni sceniche da scoprire e incontrare in galleria (sagome, colorazioni e qualcosa d’altro). Sì, è vero. Ci occupiamo spesso di Betty Page, ma mai con nostalgia: sempre e soltanto per sottolineare i valori e meriti di un fenomeno legato al proprio tempo e alle proprie socialità. Assolutamente diversa dalle altre modelle che negli stessi primi anni Cinquanta alimentarono il mercato/commercio di fotografie scabrose, Betty Page ha definito una sostanziosa differenza, fino a trasformare le modeste sceneggiature (sceneggiate?) della fotografa Paula Klaw, e proiettare queste immagini avanti nel tempo. Davanti all’obiettivo, Betty Page riusciva a trasformarsi in seducente femme fatale, capace di indossare con disinvoltura audaci guêpière e improbabili guarnizioni in pelle. Sia presentandosi per se stessa, in biancheria intima, sia interpretando le più acrobatiche situazioni bondage (sottomissione oggettivamente casereccia, fatta di fibbie, lacci e brividi assolutamente improbabili), Betty Page domina la scena e l’inquadratura. Il suo è stato un successo travolgente, estesosi su sette an-


Ancora lei! ni, dal 1950 al dicembre 1957. Comunque sia, è doveroso inquadrare la dimensione moderna e attuale del fenomeno Betty Page all’interno del contesto sociale che a nostro modo di vedere l’ha favorito. Per questo, rileviamo che l’interesse odierno per Betty Page non va considerato solo per se stesso e basta, ma va anche inquadrato nella più ampia rivalutazione degli anni Cinquanta. Ovverosia di un’epoca nella quale ciò che Betty Page ha rappresentato (lo scandalo e la licenziosità) ha fatto parte di un più generale clima di speranze e allegria. All’indomani del buio di un devastante conflitto mondiale, il dopoguerra portò con sé uno stile di vita e una narrativa positivi. Lo stato d’animo era ottimista; le automobili, i primi elettrodomestici per la casa e perfino le persone erano splendide e brillanti. Dopo la depressione della guerra, sia negli Stati Uniti, sia nel resto del mondo, la visione di una esistenza solida e tranquilla si concretizzò nelle menti di tutti: ogni ipotesi e ogni conclusione parevano felici. Ufficialmente, non c’erano problemi. E quelli che anche c’erano, ce li siamo ormai dimenticati. Nel momento in cui abbiamo assegnato agli anni Cinquanta l’aggettivo di “favolosi”, abbiamo altresì filtrato lo sguardo con lenti colorate in ammorbidenti toni rosa. Ecco perché nel corso dei decenni la solare allegria di Betty Page ha finito per prevalere su tutto e per imporsi come specchio dei tempi, come specchio di quei tempi, così come ci ostiniamo a considerarli oggi. ❖ Betty Page, dalla Collezione di Maurizio Rebuzzini (fotografie di Irving e Paula Klaw), a cura di Maurizio Rebuzzini; postproduzione di Filippo Rebuzzini. Wave Photogallery, via Trieste 32a, 25121 Brescia; 030-2943711; www.wavephotogallery.com, info@wavephotogallery.com. Dal 3 dicembre al 5 gennaio 2012; martedì-sabato 14,00-20,00.

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Sguardi su

di Pino Bertelli (Piombino, dal vicolo dei gatti in amore, 26 volte febbraio 2011)

FOTOGRAFIA DELLA LIBERTÀ

U

Uccidere un tiranno non è omicidio, è un atto di giustizia! Sparare alla fotografia ai tempi della società dello spettacolo è esattamente lo stesso! Volevo mangiare la fotografia sui libri, mi è rimasto il suo smarrimento addosso. Avrebbero dovuto sparare negli occhi agli storici, critici, mercanti e fotografi complici del buio della fotografia: consegno le spoglie della fotografia agli uomini in rivolta dei nostri e di tutti i tempi, perché so che il tuono e la folgore sono l’avvento di tutte le libertà. Quanta verità può esserci nella fame dei bambini o nei corpi trucidati dai carnefici dei tiranni. Dalla nascita dell’umanità, i popoli in rivolta (le insurrezioni attuali del mondo arabo lo dimostrano) ci hanno insegnato a vivere come a morire, e la libertà o rompe l’impostura e la falsificazione o la uccidiamo in noi. Il possibile attiene agli uomini addomesticati, mentre l’impossibile appartiene agli uomini in rivolta -fratelli di lotta- con le mani piene di speranza, che nell’incendio dei covi di serpi del potere si sono fatti re senza regno... e domani? domani non lo so. Intanto, i mucchi di cadaveri degli ultimi si oppongono all’imbroglio universale delle nazioni ricche e mafie delle multinazionali. Ogni uomo assassinato per la libertà non è un martire, né un santo! È un uomo che è balzato in piedi e ha infranto l’eredità della propria condizione di oppresso... ha rotto i vincoli del destino e rifiutato le briciole di pane e le lacrime della soggezione.

SULLA FOTOGRAFIA DELLA LIBERTÀ AI TEMPI DELLA SOCIETÀ DELLO SPETTACOLO

L’estetica fotografica della libertà non ha bisogno di fotografi, ma di testimoni che con ogni mezzo di comunicazione (macchine fotografiche, videocamere, telefonini, Internet) denunci-

no la marchiatura dell’autoritarismo e il dolore insopportabile degli umiliati e degli offesi. Gli strumenti del comunicare vanno messi nel tascapane (insieme ad altri arnesi di difesa sociale), e là dove la tirannia sporca di sangue l’innocenza del divenire non dimenticare ciò che hanno fatto i ragazzi della Resistenza, quando si legarono un straccetto rosso al collo (Pier Paolo Pasolini di-

forma di potere crolla. La vita è un tempo breve; se viviamo, è per ballare sulla testa dei padroni, diceva. Un giorno pieno d’amore e libertà vale un’intera esistenza piegata sul sagrato della domesticazione sociale. La fotografia, tutta la fotografia, è noiosa quanto la morte delle idee o il mercimonio della propria incoscienza. La fotografia autentica è sempre sporca di

«Il potere è per propria natura illegittimo... [dunque sono inevitabili nuove rivoluzioni che] dissolvono completamente il governo o lo riavvicinano all’istituzione legittima [democrazia partecipata, diretta o consiliare]. La sommossa che finisce con lo strangolare o detronizzare un sultano [un tiranno, un padrone o un papa] è un atto altrettanto giuridico quanto quelli con cui egli alla vigilia poteva disporre della vita e dei beni dei propri sudditi. Solo la forza lo sorreggeva, solo la forza lo abbatte» Jean-Jacques Rousseau ceva): si fecero partigiani e andarono alla macchia per conquistare il diritto alla bellezza. Se vuoi usare la fotografia per poter costruire una qualche forma di giustizia, fai (sempre) come se fosse l’ultima fotografia. C’è dell’amore nell’osare la bellezza dell’insurrezione. Mia nonna partigiana diceva che quando si difende la libertà non si deve temere di dare l’assalto al cielo della storia. Il delirio dei potenti è di carta (oltre che di crimini impuniti): bastano cinque minuti di autentica rivoluzione popolare e ogni

verità mai dette o celate dall’ordine costituito; quando la fotografia della violenza mette a fuoco l’imbecillità accettata delle morali dominanti, le vecchie proscrizioni autoritarie cadono. L’oscenità più oscena della fotografia liberata si stacca dall’infantilismo dei luoghi comuni; la passionalità di una visione comunarda dell’immagine deterge i ceppi dell’ingovernabile e rigetta la detestazione per la vita quotidiana della nomenclatura dei funzionari dell’odio. La fotografia rubata alla scena della storia si fa mondo, rabbia, rivolta e i ri-

trattati presi al momento della propria disaffezione ai modelli parassitari e nel coraggio affilato della contestazione radicale... calpestati, feriti, uccisi dagli sgherri del sopruso... rovesciano la banalità della frusta e della genuflessione e si riprendono (con le proprie morti o i propri sorrisi) il pane e le rose della storia. Un fotografo vale per quanta verità mette nel proprio fare-fotografia, un uomo per quanta voglia di libertà brucia nella propria rivoluzione. Le lacrime amorose degli ultimi fanno bene alla Terra.

PER UNA FILOSOFIA LIBERTARIA DELL’ARTE FOTOGRAFICA L’insurrezione del chiaro di luna non ha bandiere, né vessilli, che sostituiscono un potere con un altro. Non ci sono santi né puttane che tengano. Le sommosse popolari non si aggregano a programmi, né a proclami di politica spicciola, o a mestatori di ideologie che cavalcano l’onda del diniego. I giorni dell’ira cadono in fotografia, come nella storia, d’improvviso. Ogni pugno ha il proprio destinatario, e al momento della resa dei conti scongiura la pietra tombale dei concetti sui quali l’impero dello spettacolo e i regimi comunisti poggiano i propri consensi. La fotografia della separazione abita il movimento insurrezionale che la promuove a opera d’arte, perché fa dell’arte consumata o mistificata un orinatoio pubblico. Le fotoscritture della rivolta, sfocate, indecise, grezze, passano dalla strada ai social network e diventano patrimonio culturale di tutti: impastano i destini del momento al disincanto di una rottura sociale e disperdono negli occhi inguaribili d’informazione della Rete l’oltraggio di conquistare un diverso modo di abitare il mondo. Ogni ventata di libertà ha la propria realtà che smaschera la

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Sguardi su retorica dell’investitura economica o padronale come modello unico dell’edificio sociale. Pochi gestiscono le ricchezze che molti contribuiscono a produrre. Nella rivoluzione popolare sovente si è visto solo l’ombra, quasi mai la fata; ciò che ci strega è sempre un soprassalto dei sentimenti, una contingenza elettorale, i sorrisi ruffiani della politica televisiva: è la rivolta dei popoli la sola definizione di vita che ci aiuta a incanalare la sostanza delle nostre utopie. La fame di burrasca è fame vera e gli uomini del no! impugnano ogni attrezzo necessario per mettere fine al disonore dei saprofiti che albergano nei governi. La fascinazione delle ceneri di ogni stato è al fondo degli uomini in rivolta che inventano giorni dove anche le parole crollano, per fare posto ai baci al profumo di tiglio. Nessuno resta indenne nell’epifania della libertà e non basta sparare sulla croce per fare della propria arte un capolavoro. La fotografia di strada non obbedisce a nessuna regola che non sia quella che scoppia nel cuore: si specchia nel fantastico che muore e nell’aurora insanguinata che nasce sull’ultima rivolta.

SULL’OMICIDIO DELLA FOTOGRAFIA DELLO SPETTACOLO

Al limitare del pensiero fotografico s’incontrano schiere di stupidi incensati dal successo e turbe di imbecilli che credono alla fotografia come arte del consenso. Gli uni e gli altri sono parte del gioco giocato dall’industria culturale, e ciò che ci fa più specie è che tutti non hanno carezze che per loro stessi. Quando vedo un fotografo che alza la macchina fotografica sugli ultimi, gli indifesi, gli svantaggiati, per prendere “belle fotografie”, ho sempre voglia di mettere mano alla pistola. I fotografi andrebbero sterminati, impiccati al primo lampione o più semplicemente presi a schiaffi e mandati a pulire i cessi pubblici: è la grana veridica della storia che lo richiede; al di qua del non ancora, l’idea di eliminare alla radice l’intera cultu-

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ra filistea della fotografia non ci dispiace. Per sopprimere le loro nefandezze bastano una torcia o uno sputo. Tutto qui. L’arte fotografica è un’invenzione del mercato delle immagini, un eterno pregiudizio sul bene, sul bello, sull’eccezionale della fotografia che qualcuno dispensa nelle università dell’ignoranza, in libri inutili, corsi serali, dispense a rate, stage estivi. Nessuno o pochi comprendono che occorre uccidere l’arte fotografica, per dare risalto all’arte di vivere tra liberi e uguali. È un corpo a corpo con l’apparato dei saperi che tutto sa della merce e nulla dell’uomo in catene. La bellezza libertaria della fotografia di strada fa a meno di tutti i maestri della fotografia insegnata o mercificata; fuori dal fanatismo dell’artista incompreso impugna un qualsiasi strumento del comunicare, per fare la pelle al pregiudizio o alla menzogna dell’arte. Il senso profondo della fotografia di strada si coglie nello stesso bagliore del fuoco di legna fresca. La scintilla, lo scoppiettio, il canto delle fiamme che sale al cielo annuncia l’incendio più vasto di domani. È una risposta ai danni fatti alla bellezza e il viatico eccezionale di una filosofia materica dell’arte fotografica, che riporta l’immagine all’uomo e riflette la condizione esistenziale del suo stare al mondo. Nessun’alba della fotografia porta in sé i germi del dolore, ma contiene il florilegio della bellezza ritrovata. Fotografare i popoli in rivolta o registrare la morte della civiltà dello spettacolo è la medesima cosa. Si tratta di radicalizzare gli sguardi, fare della materia umana qualcosa da abbracciare o respingere. La gravità dei tempi sembra scongiurare la morte per inedia della fotografia; là dove il cielo si tinge di rosso, tutti sono fotografi o protagonisti della loro storia e non c’è nessun cretino che possa pubblicare impunemente immagini martoriate (intrise di sangue innocente) su qualche giornale a grande tiratura, senza farla fran-

ca. Gli uomini che pagano con la loro stessa vita attimi di libertà non possono essere rappresentati se non da quelli che insieme a loro passano dalle armi della critica alla critica delle armi, con tutto quello che ciò comporta. Il grande sonno della ragione s’aggrappa ai muri del potere, ma finché la rivoluzione sociale è in atto, ai ratti della politica, degli affari, delle religioni monoteiste non resta che nascondersi nelle proprie cloache. Per la loro famelica inclinazione al potere sarà sempre meno facile assoggettare interi popoli. Le stelle sono cadute in terra e non stanno più a guardare. I simulacri vacillano, le bandiere sventolano solo nelle parate ufficiali e i bambini che tirano i sassi alla Luna ci pisciano sopra. Anche gli inni nazionali fanno ridere; solo i vecchi colonizzatori, i militari scoppiati o i militanti dell’imbecillità patriottica non hanno compreso che le frontiere sono finite e ogni uomo è cittadino del mondo. Chi ama la libertà non può che disprezzare i credi, i governi, i padroni e i cani da guardia con i quali proteggono i loro misfatti. Un quadro d’insieme s’impone. Le ricchezze del pianeta che muore vanno ridistribuite equamente, e forse l’umanità potrà avere una speranza di salvezza da questo saccheggio secolare alimentato dai poteri forti, solo quando l’ultimo padrone sarà impiccato con l’ultimo prete. Una volta che i potentati sono spossessati del proprio ruolo di affamatori, non restano che piccoli uomini impauriti, balbettanti, stupidi come la loro stupida vita, in attesa di essere passati per le armi o buttati nelle fosse comuni con l’immunità parlamentare. Forse no, forse ce la faranno ancora a intorbidire le acque della rivolta planetaria. Riusciranno di nuovo a tessere trame eversive, terrorismi internazionali, colpi di stato... ma non sarà sempre così facile come in passato... i social network comunicano in tempo reale, e appena viene censurata la libera informazione... ecco che ne nascono di

nuovi e inondano l’universo degli internauti di parole, immagini, manifesti. Le insubordinazioni prendono corpo nell’immaginario sociale e nessuno potrà più fermare questo vento impetuoso di libertà, che mette fine all’oppressione dell’uomo sull’uomo. La rivolta continua. La bellezza della fotografia coincide con la verità. Il mistero della bellezza, in fotografia o in ogni altra forma d’arte, è nel disimparare a morire nella società dello spettacolo integrato: sapere che quanto viene fatto passare dalla dittatura dei media (che sono sempre in mano ai palafrenieri della politica) è menzogna o parzialità dell’informazione (cultura addomesticata), che riproduce il volere del potere in carica. La fotografia, anche, e da sempre, è una scatola delle illusioni che contiene i generi che le corrispondono (fotogiornalismo d’accatto, erotismo da supermercato, simbolismo razzista); il fascio dei suoi valori storiografici e salonistici non vale una goccia di sangue versato dall’uomo in rivolta. La fotografia autentica accende la luce sulla dittatura dello spettacolo, senza mai spegnere il fuoco della disobbedienza; acuisce le contraddizioni del sacro e rende pubblico l’oltraggio dei media (o delle preghiere) perpetuato contro gli ultimi, chi non ha voce, chi non si può difendere. Dove i nostri occhi giocano a mosca cieca, là sta la libertà in rivolta e nell’esplosione delle passioni e dei desideri liberati (nelle insurrezioni libertarie dell’intelligenza) annuncia la comunità che viene. Non esiste nessuna fotografia in libertà nella quale i corpi non parlino della loro vivenza oltraggiata. Solo là dove i corpi e i sogni di libertà sono la stessa cosa, lì l’esplosione poetica della fotografia ritrova la capacità di amare il diverso da sé che bussa alla porta e vuole essere risarcito da secoli di violenze subite, in nome di Dio, dello Stato e del profitto. Dove comincia la fotografia di strada, terminano le bugie e i tradimenti del gover-


Sguardi su no dello spettacolo. Di fronte alle richieste eversive di una crescita felice, il collante dei mercati globali crolla. Perfino lo stupido del villaggio ha compreso che gli indici delle borse e i dividendi delle banche si alzano sulla pratica del genocidio. L’estetica/etica fotografica della Rete s’insinua tra i risvolti del potere mediatico: è un movimento di verità, un agguato di cuori in amore, che spacca i muri dell’incomprensione e si fa beffe della devastazione comunicazionale (programmata) dei dominatori. La sottomissione docile non è più reale, e nemmeno la colonizzazione armata fa più storia. La fame, le malattie, i massacri non possono più essere taciuti o raccontati da storici che la storia non ha ammazzato. La voce del papa o di un capo di Stato non vale più di quella di un insorto ucciso in difesa dei propri diritti. Ogni bambino che nasce sotto il marchio di Caino è in potenza il prossimo rivoluzionario.

SULLA FOTOGRAFIA DELLA LIBERTÀ NEI SOCIAL NETWORK

Il Ventesimo secolo è stato il secolo dei genocidi, delle stragi, della pulizia etnica e, incidentalmente, della Shoah. Quello che ha appena debuttato sul boccascena della storia, auspichiamo sia il secolo delle rivolte, delle insurrezioni, delle rivoluzioni sociali. Ovunque i popoli impoveriti sono in ebollizione; dai deserti dell’Africa, le giovani generazioni rifiutano ogni sorta di schiavitù e insorgono a frotte contro i loro persecutori. La disobbedienza si allarga, milioni di persone si riversano nelle strade e prendono a picconate le regge, i parlamenti, le banche. Chiedono una vita più giusta e più umana e la fine dell’ingiustizia nella quale sono tenuti dagli eserciti dei paesi ricchi. Politici, governanti, faccendieri, criminali con i colletti bianchi tremano e temono di perdere i propri privilegi fondati sulle guerre, il saccheggio, il massacro e il mercato globale. Il libero profitto è la gogna di tutte le libertà. A mani nude o con le armi pre-

se ai loro massacratori, gli insorti rovesciano la barbarie sotto la quale sono stati inchiodati per secoli; senza temere di essere macellati dalla bestialità del più armato danno l’assalto ai palazzi del potere e qualche volta riescono a tagliare la gola (con un’antica grazia anarchica) al tiranno, al generale o al capo di Stato. I loro bravacci li destinano alla concimazione dei campi, dove i loro padri e i padri dei padri hanno sofferto la schiavitù o sono stati ammazzati a frustate. Oh! che bello! una volta tanto le zucche vuote dei potenti sono rotte, e i grandi finanzieri o mafiosi della politica si cacano sotto dalla paura: non si possono dimenticare i crimini contro l’umanità che hanno commesso. La libertà è il canto dell’emancipazione sociale e il fine supremo della storia. La disumanità che emerge dalla fotografia dell’insurrezione cede il posto alle immagini che la disvelano. La società mercantile fa mucchio; quando i venti di rivolta scuotono i giardini dei profittatori, tutti i pezzi di merda si mettono in cordata per emanare leggi, codici, valori, morali atti a contenere, arginare, recuperare il potere perduto: tutta gente che vende armi, droga, fabbriche, che se ne fotte dei giovani, dei precari, dei disoccupati... tutta gente (sinistre incluse) che andrebbe passata per le armi per dare inizio a una società fraterna e ugualitaria... che metta fine all’ingiustizia degli arricchiti. Nei libri paga dei mercanti d’alto bordo sono avvolti tutti gli affamatori del pianeta, e la servitù volontaria è specchio delle loro conquiste. La clemenza assicura i profitti in borsa del crimine organizzato e i governi orchestrano i saccheggi delle ricchezze della Terra (che non appartengono loro) in bella uniformità. Non c’è cazzo che tenga: l’uomo nasce libero, ma ovunque insorge è messo in catene. La fotografia dell’insurrezione dirotta dalle abituali forme di concezione e percezione dell’immagine. Ogni rivolta spontanea basta a se stessa e racconta con i

mezzi di comunicazione più semplici (basta un telefonino da pochi soldi), o con le fosse comuni, ciò che accade sulla pelle della storia. L’iconologia del dolore o della gioia che fuoriesce dalla Rete concorre, infatti, a un cambiamento del genere umano, a una trasformazione spirituale profonda e almeno in principio gli uomini dell’insurrezione riescono a concepire se stessi e proprie capacità di creare, decidere, agire, produrre, ricercare, amare: essere partecipi delle decisioni e delle possibilità di condivisione sociale della società aperta per la quale stanno lottando. I linguaggi multimediali e l’uso eversivo della tecnologia sono un rizomario di idee, visioni, poetiche incontrollabili, che bene si adattano ai bisogni dell’uomocreativo. Il sistema tecnologico è nelle mani dei padroni di tutto, ma sono sempre più clandestini o imprendibili i milioni di internauti che immettono in Rete ciò che il potere non desidera. In una società decente, che ha cancellato le sperequazioni tra schiavi salariati e padroni dell’immaginario (e quindi che ha abolito tutti i sistemi di domesticazione della fantasia), ogni cittadino avrà la possibilità di manifestare il proprio talento nella partecipazione diretta alla cosa pubblica (autogestione dell’economia, affari sociali, costruzione di situazioni creative): sarà incoraggiato a sperimentare opinioni e idee diverse tra loro, tuttavia metterà la propria intelligenza al servizio del bene comune. Il linguaggio argentico o numerico della fotografia entra nel progresso tecnologico; e sui crinali dell’industria delle immagini apre possibilità di autogestione della creatività e della comunicazione su larga scala (che non esisteva soltanto pochi anni fa). L’uso personale, politico, poetico della Rete coinvolge fotografi e fotografati come mai è successo nella storia dell’umanità, e ovunque si percepisce il bisogno di libertà, resistenza, insurrezione contro l’abuso della coercizione statuale. Quella della Rete è una

società “sotterranea”, indipendente, insolente, che ha preso i propri sogni per la realtà e li vuole realizzare in ogni modo e con ogni mezzo. È questa generazione di internauti che -insieme alle sollevazioni dei popoli impoveriti e alle fasce giovanili, le donne, gli uomini stanchi delle vessazioni infinite della civiltà dell’apparenza- si è presa il compito supremo di trasformazione sociale della società. Là dove il sistema tecnologico ha creduto di plasmare sempre più folle all’obbedienza e l’autocrazia industriale si è resa complice delle politiche di repressione dei governi occidentali (e dei regimi comunisti), i segnali di un’altra rivoluzione sono in atto: circolano in cieli incontrollabili della Rete e disseminano ovunque l’antica concezione foureriana della lotta allo Stato per l’ascesa all’emancipazione dell’Uomo. Per questa fratellanza rivoluzionaria è deprecabile vedere che la proprietà privata delle idee è un furto e conoscere la perpetuazione dello sfruttamento dei deboli da parte dei forti; ed è disdicevole per i fratelli del libero spirito che circola in Rete che l’acculturazione mediatica dell’immaginale sia fonte di sfruttamento dell’uomo da parte dell’uomo (oltre il manganello e l’aspersorio, s’intende). La fratellanza rivoluzionaria della Rete dice che la libertà è una condizione indispensabile da raggiungere per chi la libertà non l’ha mai avuta, e l’esercizio della libertà taglia le catene dei regimi e le sostituisce con i vincoli sociali di reciprocità. La bellezza della rivoluzione non è la conquista, ma la distruzione del potere statuale. La rivoluzione autenticamente democratica infiamma le strade della Terra e si rovescia nella Rete. Lo scopo della rivoluzione comunarda è consegnare la ricchezza sociale nelle mani dei creatori, dei produttori, dei fratelli e sorelle che -organizzati in libere associazioni- distribuiranno equamente ai cittadini. Il consiglio federale sarà la voce di tutti; e in questa situazione di non-comando, lo Stato non avrà ragione d’essere.

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Sguardi su Dunque, la Rete è una cosmogonia di linguaggi, uno specchio ustorio capace di incendiare gli animi in ebollizione degli uomini che vogliono farla finita con la soppressione dei diritti umani. La Rete partecipa al progresso culturale di una comunità libera a venire. Lo scatenamento dei linguaggi tecnologici, in particolare, è un processo di libera creazione, che contribuisce a destare la coscienza popolare e creare nuove partecipazioni all’insurrezione sociale. Nella Rete, l’iconografia dello spettacolo muore o non ha lo stesso impatto dell’universo pubblicitario o propagandistico (televisivo, soprattutto) che investe la quotidianità degli sfruttati. L’economia della predazione non risparmia l’uso delle armi, e nemmeno quello dei mezzi di comunicazione di massa, quando si tratta di educare gli uomini alla sottomissione e all’obbedienza. Gli utensili video/fotografici, per esempio, sono parte di un linguaggio desiderante imposto dal potere dello spettacolo per cavalcare l’edonismo di bassa lega dei clienti dei centri commerciali, trasformandoli in piccoli burocrati dell’immaginario incatenato alla società dell’indifferenza. Poi, i professionisti della fotografia sono le peggio puttane (male pagate, anche) di un fare-fotografia che è idiozia pura: quella che incensa auto, abiti, profumi, mutande, orologi, crociere e fucili di ultima generazione, per uccidere meglio, e senza sbagliare mira, qualche bambino morso dalla fame. Questi imbecilli dei calendari Pirelli e di tutti quelli fatti con le puttane più o meno celebri sono (quasi tutti) artisti senza talento e passano da un set all’altro, da un letto all’altro, da una mostra all’altra. Ancora: di mercante in mercante, di marchettaro in marchettaro, di feudo in feudo, per un posto (il consenso, il successo) nella società dello spettacolo nella quale sono soltanto dei pagliacci (specie quelli che si dipingono a sinistra), al soldo di ogni padrone. Potremmo anche ammirare ciò che fanno, tuttavia

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disprezziamo ciò che sono. Il miglior fondamento per fare una buona fotografia è una buona morale: opportunismo, convenienza, stupidità producono raramente una buona fotografia. I fotografi, in genere, sono degli stupidi che non sanno cosa succede all’interno delle loro case e pretendono di conoscere ciò che accade nel mondo. Non sanno nemmeno disquisire su una serena impiccagione di qualche tiranno, padrone o papa... non comprendono l’impiccagione come arte, quindi come possono comprendere l’arte della fotografia? La bellezza dell’impiccagione ha avuto tempi fulgidi, irripetibili, forse... quando il popolo è riuscito ad appendere i despoti alle campane delle chiese e poi le hanno suonate: devono essere stati momenti di delicata felicità popolare. Se i fotografi non provano questa sorta di euforia verso la giustizia sociale, come possono fotografare il tempo della storia? Riprendono solo la buccia dell’accadere, il falso, mai il vero; fanno della pubblicità a se stessi anche quando alzano la macchina fotografica su un morto ammazzato dalla polizia, una bambina in lacrime per lo stupro del padre o l’assassino di un capo di Stato che se la ride prima di essere ucciso da un agente dei servizi segreti truccato da gangster (o viceversa). I fotografi (anche i più sacralizzati), come il boia di Londra, si celano dietro una maschera (e nemmeno bene), ma la differenza con il boia è che non hanno stile. Anche il boia commette qualche errore, ma la sua gradevole personalità e professionalità permette di superare l’accidente con grazia e la seconda tirata di corda è fatale per l’impiccato... e senza un grido... qualche volta la piazza si commuove, piange. I fotografi no... cercano sempre un pubblico in adorazione... non comprendono, né possono, che non c’è crudeltà nell’impiccagione: lo slogamento del collo è l’ideale a cui si deve aspirare, diceva. I fotografi, invece,

hanno richieste ridicole... mettiti qui, spostati là, buttati dalla finestra, mostra il culo e le tette alla maniera di quel fottuto pittore, o inquadrano il cazzo allo stesso modo di un peperone. Per rendere le loro fotografie più interessanti, sovente si travestono da criminali pentiti e dicono tutto sulla potenzialità delle loro “armi” espressive. Però si vede che non hanno la statura eversiva di un criminale di professione o di un boia scrupoloso. La fotografia, tutta la fotografia (o in gran parte) a somiglianza con Dio o con il Padrone: due brutti scherzi della natura, buffoni da circo! La fotografia della libertà si oppone alla poetica generalizzata del disgusto; si affranca con i ragazzi, gli uomini, le donne che sono coscienti dei propri desideri di bellezza e insurrezione della verità; rifugge il mondo percepito come rappresentazione della verità unica e fa della soggettività, dei sentimenti, dei piaceri una visione cosmica immaginata e immaginaria. Il fascino poetico delle immagini così prese è collegato a universi nuovi, che agiscono nel profondo con il fotografo che li immagina. La fotografia della libertà è la fotografia dei sognatori e filatori di utopie: è una fotoscrittura pervasa dalla dolcezza e insegna a non dimenticare nulla dei nostri terrori. Figura una metafisica delle opposizioni, anche le più estreme, e il potere nulla può contro le evidenze fraterne e belligeranti di questo fare-fotografia. La realtà è costituita da un insieme di paure, vessazioni, violenze amministrate. La fotografia della libertà fa propria l’incapacità dell’umanità a superare la propria infanzia e le sue immagini diventano voce, corpo, azione degli indifesi della Terra. È più facile raccontare il dolore dei popoli in una fotografia, che racchiuderlo in mille parole. Prima delle ombre/immagini della caverna di Platone, le piste dei sogni indicavano la via... l’eterno ritorno alla bellezza archetipale degli antenati. L’immaginario della fotografia in libertà rianima il mon-

do delle prime parole, dei primi sguardi, dei primi sogni di liberazione. Tutto ciò che cade nella fotografia della libertà ha già guardato l’uomo e lo ha reso meno solo. Elaborare una cosmologia della luce significa incamminarsi verso un universo di bellezza che è fuoco, acqua, vento e sangue della Terra. La fotografia della libertà è una filosofia della gioia che invita al viaggio di ciò che siamo e di quello che sogniamo... parla di noi stessi e di ciò che ci circonda... è uno stato reale di disobbedienza civile che corrisponde alla ricerca della felicità di uno e di tutti gli uomini. Ogni immagine presa alla storia del dolore corrisponde a un tipo di felicità da conquistare. I fotografi della libertà sono testimoni o poeti che insegnano a sognare, a non dimenticare... ci nutrono con le loro immagini, grazie alle quali possiamo vedere di che materia sono fatti i nostri sogni. La coscienza e conoscenza di questi corsari della fotografia del vero e del bello diserta tutte le discipline dei linguaggi figurativi, spalanca le prigioni della realtà condizionata, affinché l’umanità non rinunci all’innocenza del divenire. Sono cani perduti senza collare, innescano il debutto della vita antiautoritaria che ha inizio con la scintilla libertaria dell’utopia. La fotografia della libertà fiorisce in affrancamento ai movimenti insurrezionali e ai cambiamenti sociali che sfuggono al controllo delle classi privilegiate... combatte le strutture del dominio, del sapere e della tecnica e deplora il cattivo uso della politica come museruola ai rivolgimenti sociali. Ogni potere è per propria natura cannibale, e la civiltà che ha fondato è una congiura ordita dai ricchi per perpetuare le loro violenze e proteggere le loro rapine. La fine dell’ineguaglianza è la spinta che muove le giovani generazioni alla rivolta, e la lotta per la libertà non avrà mai tregua sino a quando gli uomini tutti non godranno della medesima libertà... principio e fine di ogni filosofia creativa è la libertà. ❖




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