FOTOgraphia 177 dicembre 2011

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Mensile, 6,50 euro, Poste Italiane SpA - Spedizione in abbonamento postale - D.L. 353/2003 (convertito in Legge il 27-02-2004, numero 46), articolo 1, comma 1 - DCB Milano

ANNO XVIII - NUMERO 177 - DICEMBRE 2011

Viaggio in India MAURO VALLINOTTO CON NIKON 1 V1

David Letterman incontra ANNIE LEIBOVITZ


Non è venduta in edicola. Per averla hai una sola possibilità: sottoscrivere l’abbonamento annuale. 12 numeri 65,00 euro

Abbonamento 2012 (nuovo o rinnovo) in omaggio 1839-2009

Dalla Relazione di Macedonio Melloni alla svolta di Akio Morita M A U R I Z I O

R E B U Z Z I N I

1839-2009 Dalla Relazione di Macedonio Melloni alla svolta di Akio Morita

Come dire, dal dagherrotipo all’acquisizione digitale di immagini. E consecuzioni

INTRODUZIONE

DI

GIULIANA SCIMÉ

F O T O G R A P H I A L I B R I



prima di cominciare VENDITA RECORD (CON ACCOMPAGNAMENTO DI HCB). Per quanto la crisi economica complessiva, che da tempo attraversa e sconvolge il mondo occidentale, abbia minato anche il mercato dell’arte e, per quanto ci interessa più da vicino, quello della fotografia venduta come tale (arte), si continuano a registrare picchi e record proiettati verso l’alto. Il quotidiano è penalizzato da contrazioni forti e palesi; mentre, e al contrario, lo straordinario registra proprie immancabili proiezioni in avanti, verso l’eccezionale [e comunque, qui e ora, non entriamo nel merito/demerito della vicenda, ben più sostanziosa, che definisce la vendita mercantile di opere fotografiche, per la quale abbiamo la nostra opinione -contraria, opposta e ostile-, che però esula dal contesto odierno, orientato altrimenti]. Esattamente un anno fa, abbiamo segnalato e commentato la quotazione record raggiunta da una particolare stampa di Dovima con gli elefanti, di Richard Avedon: 841.000 euro (1.151.976 dollari), a un’asta di Christie’s, di Parigi, ottava aggiudicazione fotografica di tutti i tempi. Un anno dopo, oggi torniamo sull’argomento, per segnalare i convincenti risultati di un’altra sessione d’asta di Christie’s, sempre nella sede parigina, dove lo scorso undici novembre una consistente quantità di stampe vintage (e dintorni), fornite dalla Fondation Henri Cartier-Bresson, ha raggiunto la ragguardevole e pregevole quota di 2.122.700 euro totali, ben superiori alla stima originaria di partenza di un milione e quattrocentomila euro (1.400.000 euro). Tra tanto, segnaliamo che è stato ottenuto e affermato un suggestivo record fotografico, con l’aggiudicazione a quattrocentotrentatremila euro (433.000 euro) di una stampa bianconero del 1946 di Derrière la gare Saint-Lazare (Parigi, 1932), di Henri CartierBresson (qui sotto). Di fatto una delle quotazioni più alte per una copia di un’immagine assolutamente estranea a qualsivoglia circuito artistico e presuntamente tale.

Assoluzione e perdono, che non si negano neppure al più incallito dei delinquenti, alla fine non tarderanno a giungere, perché tutto possa finire in gloria. Mauro Vallinotto; su questo numero, a pagina 35 Si tratta di non portare rispetto a nessuna arte, bensì di avere il coraggio di farla. Pino Bertelli; su questo numero, a pagina 64 La fotografia è un’espressione visiva sofisticata, elegante e intrigante: che dà verità alle proprie illusioni. Maurizio Rebuzzini; su questo numero, a pagina 50 Anche la competenza della storia degli apparecchi fotografici è (sarebbe) preziosa, perché mette in sintonia con una vicenda ricca di interpretazioni straordinarie. Antonio Bordoni; su questo numero, a pagina 20

Copertina Qualcuno ha detto che le coincidenze sarebbero gli unici avvenimenti che rivelano quanto la vita possa avere anche senso (o giù di lì). Coincidenza, peraltro voluta e ricercata: dalla copertina del numero di febbraio, di esordio 2011, a questa di dicembre, di conclusione dell’anno, con lo stesso autore, il bravo Danilo Pedruzzi, con visione della natura che si fa di sé medesima pittrice (Oleandro; Carta Agfa Brovira Record Rapid 3; 100 minuti)

3 Altri tempi (fotografici) Da un annuncio pubblicitario dell’Ing. Ippolito Cattaneo, di Genova, in piazza Cinque Lampadi 17, del 1929. Queste forniture per fotografia e cinematografia, che avevano già acquisito la rappresentanza Leica, si sono allungate avanti nei decenni. Con grande onore

7 Editoriale Per quanto doverosa, e forse anche qualcosa di più, se possibile, la celebrazione del settantesimo anniversario dalla prematura scomparsa di Tina Modotti (a più voci, da pagina otto) impone anche un distinguo. Il nostro

8 Tina Modotti è morta 5 gennaio 1942-2012: nel settantesimo anniversario della prematura scomparsa, ricordo a più voci. Anche Pino Antonelli, Pablo Neruda e Pino Bertelli di Vincenzo Marzocchini

14 Daguerre, dalla nascita L’anniversario della nascita di Louis Jacques Mandé Daguerre, il padre ufficiale della fotografia (in forma di dagherrotipo; sette gennaio e diciannove agosto del 1839), è stato celebrato dalla pagina iniziale di Google: 18 novembre 1787-2011

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DICEMBRE 2011

R , RIFLESSIONI IFLESSIONI, OSSERVAZIONI E COMMENTI OSSERVAZIONI E COMMENTI SULLA FOTOGRAFIA SULLA FOTOGRAFIA

16 Tornando a casa Sceneggiato dall’omonimo romanzo di Scott Anderson (pubblicato in Italia con il titolo Reporter di guerra), il film Triage elabora una complessa e profonda riflessione sulla fotografia di guerra. Più specificamente, sul fotogiornalista che sopravvive a un’azione di guerra Ricerca iconografica di Filippo Rebuzzini

20 Quante innovazioni. Ma! Per quanto fuori tempo (massimo), il casellario composto da Todd Gustavson celebra in modo adeguato centosettanta anni di innovazioni tecnologiche: 500 Cameras, dalle origini ai nostri giorni. O quasi di Antonio Bordoni

Anno XVIII - numero 177 - 6,50 euro DIRETTORE

RESPONSABILE

Maurizio Rebuzzini

IMPAGINAZIONE

Maria Marasciuolo

REDAZIONE

Angelo Galantini

FOTOGRAFIE Rouge

SEGRETERIA

Maddalena Fasoli

HANNO

COLLABORATO

Sequel dell’originario Marvels, del 1994, l’attuale Marvels. L’occhio della fotocamera replica il punto di vista del fotografo Philip Sheldon, voce narrante di Angelo Galantini Ricerca iconografica di Ciro Rebuzzini

Pino Antonelli Pino Bertelli Antonio Bordoni Chiara Lualdi Vincenzo Marzocchini Danilo Pedruzzi Franco Sergio Rebosio Ciro Rebuzzini Filippo Rebuzzini Mauro Vallinotto

30 Annie Leibovitz in tv

Redazione, Amministrazione, Abbonamenti: Graphia srl, via Zuretti 2a, 20125 Milano; 02-66713604 www.FOTOgraphiaONLINE.it; graphia@tin.it.

26 Mondo Marvel

Ospite del prestigioso Late Show with David Letterman, la celebre fotografa commenta la monografia Pilgrimage

34 Viaggio in India Cronaca fotografica attraverso alcuni peccati capitali: ospite d’onore, protagonista assoluta, la Nikon 1 V1 testo e fotografie di Mauro Vallinotto

42 Di sé medesima pittrice Con gesto antico, in declinazione moderna e attuale, il bravo Danilo Pedruzzi riprende e ripete esperienze fotografiche delle origini. Addirittura, della pre-fotografia di Maurizio Rebuzzini

50 Fantastica illusione America by Car, dell’intramontabile Lee Friedlander, esprime i termini di una espressione visiva intrigante: capace di dare l’aspetto della verità alle proprie illusioni

60 Dal SWPA 2011

● FOTOgraphia è venduta in abbonamento. ● FOTOgraphia è una pubblicazione mensile di Graphia srl, via Zuretti 2a, 20125 Milano. Registrazione del Tribunale di Milano numero 174 del Primo aprile 1994. Poste Italiane SpA - Spedizione in abbonamento postale - D.L. 353/2003 (convertito in Legge il 27-02-2004, numero 46), articolo 1, comma 1 - DCB Milano. ● A garanzia degli abbonati, nel caso la pubblicazione sia pervenuta in spedizione gratuita o a pagamento, l’Editore garantisce la massima riservatezza dei dati forniti dagli abbonati e in suo possesso, fatto diritto, in ogni caso, per l’interessato di richiederne gratuitamente la rettifica o la cancellazione ai sensi della legge 675/96. ● FOTOgraphia Abbonamento 12 numeri 65,00 euro. Abbonamento annuale per l’estero, via ordinaria 130,00 euro; via aerea: Europa 150,00 euro, America, Asia, Africa 200,00 euro, gli altri paesi 230,00 euro. Versamenti: assegno bancario non trasferibile intestato a Graphia srl Milano; vaglia postale a Graphia srl - PT Milano Isola; su Ccp n. 28219202 intestato a Graphia srl, via Zuretti 2a, 20125 Milano; addebiti su carte di credito CartaSì, Visa, MasterCard. ● Nessuna maggiorazione è applicata per i numeri arretrati. ● È consentita la riproduzione di testi e fotografie, magari citando la fonte (ma non è indispensabile, né obbligatorio farlo). ● Manoscritti e fotografie non richiesti non saranno restituiti; l’Editore non è responsabile di eventuali danneggiamenti o smarrimenti. Fotocomposizione DTP e selezioni litografiche: Rouge, Milano Stampa: Arti Grafiche Salea, Milano

Rivista associata a TIPA

Fotografie non professionali, segnalate nelle sezioni Open People e Open Smile dello strepitoso Sony World Photography Award 2011. Ultima puntata

64 Joel-Peter Witkin Sguardi sulla fotografia liquida o consumerista di Pino Bertelli

www.tipa.com

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editoriale T

utto sommato, non condivido nessuno dei tre ricordi, delle tre evocazioni, di Tina Modotti, che pubblichiamo in ricorrenza dei settanta anni dalla sua controversa (e prematura) scomparsa: 5 gennaio 19422012 (altre fonti, sei gennaio; da pagina otto). Ancora oggi, dal 2001, non sono affatto d’accordo con l’investitura che il bravo e onesto Pino Bertelli le assegna. Altrettanto, posso affermare per il testo di Vincenzo Marzocchini, che oggi fa da contenitore complessivo della commossa rievocazione. Per non parlare, poi, della terrificante celebrazione di Pablo Neruda, poeta amato, che si è certamente fatto guidare più dall’atroce centralismo democratico (guida comportamentale del Partito) che da altra onestà intellettuale. In tutto questo prendere le distanze, sicuramente sto più con l’amorevole Pino Antonelli, del quale recuperiamo e riproponiamo una tavola oggettivamente antica, ma sempre vivace, attuale e dinamica. Quindi, se debbo dire la mia, sono perfettamente consapevole di come e quanto Tina Modotti sia stata anticipatrice di molto: personaggio controverso, affascinante, che ha lasciato traccia; personalità che ha realizzato cose sorprendenti, soprattutto se pensiamo ai tempi, impensabili per una donna; ha vissuto una vita avventurosa, fitta di mistero, sacrificio, frivolezze, sangue, politica e intrighi. Ma alla lunga, mi pare che sia una fotografa sopravvalutata, magari proprio in dipendenza della sua esistenza spericolata. Non apprezzo molte delle sue fotografie, forse me ne piacciono addirittura poche: quelle politiche, da altri esaltate, mi paiono addirittura pedanti e inutili, oltre che banalmente stereotipate; non è l’accostamento compositivo di una falce con un martello che può sostenere artisticamente un’idea (il comunismo). Ci vuole ben altro, ci vuole altro, è bene che serva altro. E lo stesso dicasi, dico, per tutte quelle che sono definite fotografie “politiche”, non soltanto di Tina Modotti, in dipendenza di soggetti espliciti, raffigurati ed evocati. Semmai, quello politico è un pensiero che deve abbracciare i comportamenti della vita, a partire da un centimetro oltre la punta del proprio naso. Allora, perché ricordare questo settantesimo anniversario dalla prematura e controversa scomparsa di Tina Modotti? Proprio perché si tratta di un anniversario tondo, da non lasciare passare inosservato, così come ci siamo spesso soffermati su altre ricorrenze, non necessariamente soltanto fotografiche. Indipendentemente dalle mie opinioni, e arricchiti da quelle di Pino Bertelli, Vincenzo Marzocchini e Pino Antonelli (Pablo Neruda lasciamolo perdere), ricordare una personalità libera e anticipatrice di altre rivoluzioni sociali, quale è stata Tina Modotti, non è soltanto un dovere giornalistico, è soprattutto un diritto che debbono esercitare coloro i quali si occupano attivamente e convincentemente di fotografia. Noi, tra tutti. Io, tra tutti. Anche se... non condivido, non aderisco, prendo le distanze. A ciascuno, le proprie opinioni. Sempre e comunque. Maurizio Rebuzzini

Tina Modotti a Tacubaya, nel 1923: fotografia di Edward Weston.

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Settanta anni fa di Vincenzo Marzocchini

TINA MODOTTI È MORTA

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Tina Modotti è entrata tardivamente nel novero dell’élite fotografica mondiale. Ma -soprattutto per merito di alcune ricercatrici universitarie- sta recuperando quegli spazi che dal 1942, quando è immaturamente mancata, fino agli anni Ottanta le sono stati interdetti. Ammontano a più di trenta i volumi interamente dedicati a lei e a oltre sessanta gli articoli apparsi su riviste, periodici e quotidiani di spessore internazionale, di valore culturale alto e inviolabile. Se la convivenza, nel primo periodo messicano, con il grande e già celebrato fotografo statunitense Edward Weston ha contribuito alla sua maturazione artistica, ne ha anche ostacolato il successivo riconoscimento come autrice autonoma. Tina Modotti esce dall’ombra del suo maestro non appena aumentano le distanze tra i loro modi di concepire la vita. Alla sua immatura e controversa scomparsa, tante furono le motivazioni di un così lungo oblio sulla sua figura come artista. L’appartenenza al mondo culturale della sinistra rivoluzionaria di inizio Novecento confinò la pubblicazione dei suoi lavori alle sole testate dei sindacati e degli organi dei partiti social-comunisti (Messico, Germania, Stati Uniti). In seguito, è molto probabile che il rifiuto di riscriversi al Partito comunista, dopo la forte militanza politica internazionale, abbia contribuito ad affievolirne intenzionalmente il ricordo. Inoltre, una delle più gravi limitazioni al riconoscimento dei dovuti meriti artistici di Tina Modotti va attribuita alla deprecabile realtà che le storie della fotografia, fino ai primi anni Settanta, sono state scritte da uomini e, tra l’altro, la fotografa italo-messicana fu una donna molto libera e indipendente, si potrebbe azzardare una femminista ante litteram, comunque un modello di donna decisamente scomodo. A dimostrazione di una storia della fotografia prevalentemente maschilista, rilevo che la stessa sorte è toccata ad altre autrici, tra l’altro dello stesso periodo storico nel quale agì

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Tavola dedicata a Tina Modotti, con la quale, nel febbraio 1996, su FOTOgraphia, sono esordite le Storie a strisce, di Pino Antonelli.

anche Tina Modotti: Gerda Taro, prima di tutte, e, immediatamente a seguire, Germaine Krull, le cui opere sono rimaste a lungo dimenticate; un’altra fotografa impegnata nella guerra civile spagnola, l’ungherese Kati Horna, è letteralmente scomparsa.

Sotto certi aspetti, per Tina Modotti e Gerta Pohorylle (successivamente Gerda Taro, 1910-1937) si può parlare di vite parallele: formazione culturale socialista; determinate nei propri ideali e intellettualmente non condizionate; comportamenti sociali


Settanta anni fa Tina Modotti (Assunta Adelaide Luigia Modotti Mondini) Udine, 17 agosto 1896 - Città del Messico, 5 gennaio 1942

NEL RICORDO DI PABLO NERUDA

Quando voglio ricordare Tina Modotti devo fare uno sforzo, come se si trattasse di afferrare un pugno di nebbia. Fragile, quasi invisibile. L’ho conosciuta o non l’ho conosciuta? Era ancora molto bella: un ovale pallido circondato da due ali nere di capelli raccolti, grandi occhi di velluto che continuano a guardare attraverso gli anni. Diego Rivera ci ha lasciato la sua figura in uno dei suoi murales, aureolata da coronazioni vegetali e da lance di mais. Questa rivoluzionaria italiana, grande artista della fotografia, arrivò in Unione Sovietica tempo fa col proposito di ritrarre folle e monumenti. Ma lì, attratta dal prorompente ritmo della creazione socialista, gettò la sua macchina fotografica nella Moscova e giurò a se stessa di consacrare la sua vita ai più umili compiti del partito comunista. Mentre adempiva a questo giuramento la conobbi in Messico e la sentii morire quella notte. Accadde nel 1941. Suo marito era Vittorio Vidali, il celebre Comandante Carlos del Quinto Reggimento. Tina Modotti è morta di un attacco cardiaco nel taxi che la riportava a casa. Lei sapeva che il suo cuore non stava bene, ma non lo diceva affinché non le riducessero il lavoro rivoluzionario. Era sempre disposta a fare quello che nessuno vuol fare: scopare gli uffici, andare a piedi nei posti più lontani, passare le notti in bianco scrivendo lettere o traducendo articoli. Nella guerra spagnola fece l’infermiera per i feriti della Repubblica. Aveva avuto un episodio tragico nella sua vita, quando era la compagna del grande dirigente della gioventù cubana Julio Antonio Mella, allora in esilio in Messico. Il tiranno Gerardo Machado mandò dall’Avana alcuni sicari per uccidere il dirigente rivoluzionario. Stavano uscendo dal cinema un pomeriggio, Tina al braccio di Mella, quando questi cadde sotto una raffica di mitra. Caddero insieme a terra, lei spruzzata dal sangue del suo compagno morto, mentre gli assassini fuggivano ben protetti. E il colmo fu che gli stessi funzionari di polizia che avevano protetto i criminali volevano accusare Tina Modotti dell’assassinio. Dodici anni dopo si esaurirono silenziosamente le forze di Tina Modotti. La reazione messicana cercò di far rivivere l’infamia coprendo di scandalo la sua morte, come prima aveva voluto coinvolgerla nella morte di Mella. Intanto, Carlos ed io vegliavamo il piccolo cadavere. Vedere soffrire un uomo così robusto e coraggioso non è uno spettacolo gradevole. Quel leone sanguinava nel ricevere sulla ferita il veleno corrosivo dell’infamia che voleva macchiare Tina Modotti ancora una volta, dopo morta. Il Comandante Carlos ruggiva con gli occhi arrossati; Tina era di cera nella sua piccola bara di esiliata; io tacevo impotente di fronte a tutta l’angoscia umana riunita in quella stanza. I giornali riempivano intere pagine di immondizia da romanzo d’appendice. La chiamavano «la donna misteriosa di Mosca». Alcuni aggiungevano: «è morta perché sapeva troppo». Impressionato dal furioso dolore di Carlos presi una decisione. Scrissi una poesia minacciosa contro quanti offendevano la nostra morta. La mandai a tutti i giornali senza alcuna speranza di vederla pubblicata. Oh, miracolo! Il giorno dopo, invece delle nuove e favolose rivelazioni che avevano promesso il giorno prima, comparve su tutte le prime pagine la mia indignata e straziata poesia. La poesia s’intitolava Tina Modotti ha muerto. La lessi quella mattina al cimitero di Città di Messico, dove lasciammo il suo corpo e dove giace per sempre sotto una pietra di granito messicano. Su quella pietra sono incise le mie strofe. Quella stampa non scrisse mai più una riga contro di lei. Pablo Neruda (da Confesso che ho vissuto)

Tina Modotti ha muerto Tina Modotti, sorella, non dormi, no, non dormi: forse il tuo cuore sente crescere la rosa di ieri, l’ultima rosa di ieri, la rosa nuova. Riposa dolcemente, sorella. La nuova rosa è tua, tua è la nuova terra: ti sei messa un nuovo vestito di seme profondo e il tuo soave silenzio si colma di radici. Non dormirai invano, sorella. Puro è il tuo dolce nome, pura è la tua fragile vita: d’ape, ombra, fuoco, neve, silenzio, spuma; d’acciaio, linea, polline, si costruì la tua ferrea, esile struttura. Lo sciacallo sul tuo prezioso corpo addormentato protende la penna e l’anima insanguinate come se tu potessi, sorella, levarti sorridendo al di sopra del fango. Nella mia patria ti porto perché non ti sfiorino nella mia patria di neve perché alla tua purezza non giunga l’assassino, né lo sciacallo, né il venduto: laggiù starai in pace. Lo senti quel passo, un passo pieno di passi, qualcosa di grandioso che viene dalla steppa, dal Don, dal freddo? Lo senti quel passo fiero di soldato sulla neve? Sorella, sono i tuoi passi. E passeranno un giorno dalla tua piccola tomba prima che le rose di ieri appassiscano; passeranno per vedere quelli di un giorno, domani, dove stia ardendo il tuo silenzio. Un mondo marcia verso dove andavi tu, sorella. Ogni giorno cantano i canti delle tue labbra sulle labbra del popolo glorioso che tu amavi. Col tuo cuore valoroso. Nei vecchi focolari della tua patria, sulle strade polverose, una parola passa di bocca in bocca qualcosa riaccende la fiamma delle tue adorate genti, qualcosa si sveglia e comincia a cantare. Sono i tuoi, sorella: quelli che oggi pronunciano il nome tuo noi che da ogni luogo delle acque e della terra col tuo nome altri nomi taciamo e pronunciamo. Perché il fuoco non muore. Pablo Neruda (da Tre residenze)

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Settanta anni fa anticonformisti; belle e attraenti; diversi legami sentimentali; entrambe allieve di un maestro diventato famoso (Edward Weston per Tina Modotti; Endre Ernő Friedmann, alias Robert Capa, per Gerda Taro), nella cui ombra rimasero nascoste per

un certo periodo; fine prematura. È solo da poco più di un paio di decenni che possiamo leggere frasi come questa, riportata nel dizionario Larousse di fotografia (tradotto in Italia, dal francese, da Rizzoli-Contrasto): Tina Modotti è una delle fi-

gure femminili più interessanti della storia della fotografia. Certamente, se sottolineiamo le vicende della sua vita, lo è stata più di qualsiasi altra donna fotografa. Infatti, la sua fu un’esistenza molto complessa: giovane volitiva, dal ca-

SGUARDO SU TINA MODOTTI (DI PINO BERTELLI)

Assunta Adelaide Luigia Modotti (Tina), nasce a Udine il 17 agosto 1896. Nel 1913, raggiunge il padre e la sorella Mercedes a San Francisco, dove lavora come operaia in una fabbrica di tessuti. Nel 1915, si lega al poeta e pittore Roubaix de l’Abrie Richey (Robo), con il quale, dopo due anni, si trasferisce a Los Angeles. Recita in compagnie teatrali del quartiere italiano. A Hollywood, Tina la “rossa” lavora come comparsa. Nel 1920, è la protagonista del film The Tiger’s Coat, di Roy Clements. L’anno successivo conosce il fotografo Edward Weston e prende parte al film western Riding with Death (1921). Posa per fotografi commerciali e per Weston, dal quale è subito attratta. Robo muore di vaiolo in Messico (1922). Tina termina il terzo film, I Can Explain, e parte per Città del Messico per i funerali. Porta con sé fotografie di Weston, che vengono esposte all’Accademia di Belle Arti. Nel 1923, accompagna Weston, Johan Hagemeyer e Margrethe Mather in un vagabondaggio fotografico. Tra il 1923 e il 1926, Tina e Weston divengono amici dei maggiori esponenti della cultura messicana: Diego Rivera, David Alfaro Siqueiros, José Clemente Orozco. Tina espone le proprie fotografie con quelle di Weston, in due mostre a Città del Messico (1925). Quando Weston ritorna negli Stati Uniti (1926), mantiene per lui un forte sentimento di stima e amore, come documentano le loro numerose lettere. Dal 1927, le sue fotografie vengono pubblicate in riviste specializzate: Mexico Folkways, Creative Art, Forma e altre. Tina si iscrive al Partito comunista, lavora per El Machete e diviene la compagna di Xavier Guerrero, direttore del giornale. Fotografa i murales di Rivera e Orozco. Frequenta lo scrittore John Dos Passos e partecipa alla campagna di liberazione per gli anarchici Sacco e Vanzetti. Incontra il rifugiato cubano Julio Antonio Mella e l’italiano Vittorio Vidali (giunto in Messico per incarico del Comintern). Guerrero è chiamato a Mosca alla scuola del Partito. Tina s’innamora perdutamente di Mella. Nel 1928, la rivista tedesca AIZ e la rivista radicale americana New Masses pubblicano alcune sue immagini. Tina Modotti conosce la pittrice Frida Kahlo. I servizi segreti fascisti la segnalano come provocatrice e terrorista. Nel 1929, Julio Antonio Mella viene assassinato per la strada, mentre cammina a fianco di Tina. Una grande mostra delle sue fotografie è allestita all’Università Autonoma di Città del Messico. Nel febbraio 1930, in seguito a un attentato contro il nuovo presidente del Messico, Pascual Ortiz Rubio, Tina viene arrestata ed espulsa dal Messico. Giunge a Berlino, ma non riesce a trovare lavoro come fotografa. Pubblica su AIZ e Der Arbeiter-Fotograf. Si trova in gravi difficoltà economiche. Mostra le sue immagini a Lotte Jacobi e in ottobre raggiunge a Mosca Vittorio Vidali, suo nuovo compagno. Abbandona la fotografia e lavora per il Soccorso Rosso Internazionale. Nel 1935-1936, è con Vidali a Parigi e poi in Spagna.

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Si arruola nel Quinto reggimento comandato da Carlos J. Contreras (Vittorio Vidali), col nome di Maria. Nel 1937, lavora col medico canadese Norman Bethune e scrive per il giornale Ayuda. Nel 1939, ritorna in Messico. Vive con Vidali. All’amico fotografo Manuel Álvarez Bravo confida che la fotografia non la interessa più. Non ritira la tessera del Partito. La notte del 5 gennaio 1942, dopo aver passato una serata tra amici, in casa dell’architetto Hannes Mayer, Tina muore misteriosamente in un taxi a Città del Messico.

Fotografia & rivoluzione La fotografia è una finestra sul mondo o una stupida merce. È una poetica dell’amarezza che rompe i confini del banale truccato o una categoria ruffiana della società dello spettacolo integrato, dove ciascuno è parte di un flusso conviviale che fa della mediocrità il proprio oracolo. Tina Modotti si accosta alla fotografia nel 1923, ma è nel 1926 che comprende l’importanza comunicativa/espressiva di questa “scatola magica”, che a volte riesce a rendere balbuzienti anche gli dèi dell’ordine costituito. In principio, con la sua Graflex, immortala fiori, murales, edifici, giochi d’ombre... poi va nei mercati, nelle osterie, nelle lavanderie, nei bordelli e ruba all’eternità momenti irripetibili della gente comune. Per sette anni, mescola vita, arte e rivoluzione. Nel 1932, butta la Leica (che ha appena acquistato) in una scatola da scarpe, o la regala a un fuoriuscito italiano, e s’immerge nell’attività politica a tempo pieno. La fotografia perde un maestro. La politica ingoia un’eretica. Le fotografie di Tina Modotti sono sovente “mosse” o sgrammaticate, ma contengono una sensualità delle cose, un peso dei corpi, un’aristocrazia dei gesti che fanno del suo sguardo fotografico e della sua passionalità utopica il crogiolo di una storia delle idee, dove non c’è salvezza se non nell’insurrezione dell’intelligenza che non smette di sognare un mondo più giusto e più umano. È un fare-fotografia che fa dell’intuizione dell’istante anche una psicoanalisi del fuoco. L’eros epico delle sue immagini porta a un’estasi della presenza che tocca il cuore delle cose, delle forme e nell’amore dell’altro e nell’amore di sé riflette il respiro dell’insieme comunitario... è l’amore che porta all’amore e l’anima di ciascuno fiorisce quando qualcosa del profondo muore. Quando l’anima si fa trasparenza o, meglio, quando la trasparenza dell’anima si fa vita. Ciò che ci spinge a disobbedire è anche ciò che ci dà la forza di rinascere. La fotografia della libertà di Tina Modotti è un linguaggio visuale/radicale ulcerato dall’eresia che ha corso le tracce di ogni dove e ha provato il fascino degli estremi ma non si è fermato a metà strada tra le lacrime e la dinamite... ha sbarazzato di ogni pudore le miserie della ragione e l’arroganza della merce e ha fatto franare ovunque la teologia generale del facsimile smerciata come arte. Le sciocchezze che sono state scritte su Tina Modotti come


Settanta anni fa rattere forte e battagliero, dalla sensibilità raffinata; donna libera, caratterizzata da una generosità non comune, dalla curiosità culturale aperta a molteplici interessi, che l’hanno vista impegnata nel teatro, nel cinema, nella politica e nella fotografia.

Il suo carattere forte e indipendente, la sua personalità, i suoi giudizi sull’impegno sociale contro le ingiustizie e a sostegno dei più deboli e dei più poveri, Assunta Adelaide se li è formati in Friuli: lavorando adolescente per aiutare la famiglia, sof-

fotografa e come rivoluzionaria si sprecano. C’è chi l’ha deificata come «maestra in tutto» (Adys Cupull), chi ha subìto il suo fascino di donna che «ama gli uomini, ecco tutto. Li accoglie in sé finché diventano carne della sua carne» (Elena Poniatowska). Altri si sono lasciati prendere il cuore del suo senso di trasgressione del prestabilito (Pino Cacucci). C’è chi ha trovato nelle lettere di Tina a Edward Weston «un essere femminile luminoso e singolare, che assorbe il meglio della molteplicità delle culture attraversate» (Valentina Agostinis). Per molti era solo una puttana, una donna disponibile e priva di ogni morale. Però, le cose più stupide su Tina Modotti, come donna e come artista, le ha dette il suo ultimo compagno, Vittorio Vidali... quel «leggendario comandante Carlos del Quinto Reggimento, che costituì il nucleo dell’esercito popolare in difesa della Spagna democratica contro l’attacco fascista» (Attilio Colombo). Un bufala. La storia “disvelata” di questo spietato sicario, per niente leggendario, è un’altra. Il Vidali / Contreras / Sormenti... era uno sgherro di Stalin, di Palmiro Togliatti, agente dei servizi segreti russi che si spacciava come dirigente del Soccorso Rosso Internazionale. I suoi assassinii politici non si contano e qualcuno si conosce (Carlo Tresca, Ignacio Reys, Andrés Nin)... da più parti gli viene attribuita l’organizzazione degli omicidi di Trockij, Camillo Berneri, Julio Antonio Mella, Buenaventura Durruti e della stessa Modotti. Vidali non andava per il sottile quando si trattava di sparare, avvelenare, linciare... chi sapeva troppo o chi deviava dalla linea di condotta del Partito. Tina lavorava nella segreteria del Soccorso Rosso Internazionale. Conosceva bene anche ciò che accadeva nel famigerato Hotel Lux, di Mosca, dove Paolo Robotti, cognato di Togliatti, dirigeva il Club degli Emigrati politici. In quelle stanze, si decideva l’epurazione dei “deviazionisti” (comunisti libertari, trotzkisti, anarchici) e molti finirono nei campi di concentramento della Siberia, nei manicomi o fucilati nei cortili delle prigioni segrete. I boia si chiamavano Togliatti, Pajetta, Roasio, Robotti, Longo, Vidali... e il loro profeta Stalin. Quando gli viene chiesto di rivivere gli anni di militanza e d’amore passati con Tina, Vittorio Vidali dice: «Amo ricordare Tina, donna modesta, gentile, dal carattere forte, stoico, intelligente... amo ricordarla dolce, generosa, ricca di femminilità». Davvero un bel quadretto. Tina invece lascia di lui questo ritratto: «È un assassino. Mi ha trascinata in un crimine mostruoso. Lo odio con tutta la mia anima. Eppure, nonostante ciò, devo seguirlo fino alla morte. Fino alla morte». Di lì a poco morì avvelenata in un taxi (qualcuno dice d’infarto), la stessa tecnica usata per eliminare un altro rivoluzionario inviso alla dittatura comunista, Victor Serge. Vidali non partecipò ai funerali. Forse per paura che qualche campesino non controllato potesse dargli una picconata in testa. Gli stupidi, come i tiranni, sono sempre ammazzati troppo tardi. L’iconografia della povertà e la cultura del sorriso La scrittura fotografica di Tina Modotti è rivoluzionaria perché intreccia l’esistenza libertaria con l’arte vissuta come cammino per realizzarla.

Tina Modotti. Sulla fotografia sovversiva. Dalla poetica della rivolta all’etica dell’utopia, di Pino Bertelli; NdA Press, 2008 (224 pagine 21x20cm; 17,00 euro).

In questo senso diviene un linguaggio-icona che fa della «realtà del reale» (Nietzsche), la condizione “normale” dell’umanità. Ogni fotografia è l’apparire d’una coscienza, un “eco dell’anima”, che nel ri/vedere il proprio passato proietta una luce nuova, un’immagine diversa sulla realtà mai completamente compresa. È nell’istante nel quale la fotografia viola la linea del presente imposto, che comincia a risplendere ciò che realmente è dentro e fuori dell’Uomo. Nei “ritrattati” di Tina Modotti, il linguaggio della speranza sorge ancora e non è vero che «gli uomini del suo mondo non sono felici» (come ha scritto un critico tedesco dopo un’esposizione privata delle fotografie di Tina nello studio di Lotte Jacobi). Una visione/lettura più approfondita delle sue immagini apre un terreno/spazio di autenticità che testimonia l’imprevedibile e l’eccezionale. Le mani del burattinaio (1926), Composizione con falce, cartucce e chitarra (1927), La macchina per scrivere di Julio Antonio Mella (1928), Donna in nero (1929), Donna con bandiera nera anarcosindacalista (1928), Donna incinta con bambino in braccio (1929), Marcia di campesinos (1929), Donna di Tehuantepec (1929), Giovani pionieri (Germania 1930)... sono immagini che bruciano la carne mentre le vediamo. Nell’affabulazione figurativa di Tina Modotti c’è una psicologia del profondo, un oblio picaresco, una visuale eroica che rovescia i confini di una quotidianità sofferta e sborda oltre gli steccati di ogni ideologia, per involarsi in una didattica di re-immaginazione del reale, una specie di contro educazione del linguaggio fotografico dominante/mercantile. Al fondo delle fotografie di Tina Modotti, e non importa se lo sapeva o no, c’è la rêverie di Bachelard, il Fanciullo Divino di Jung, l’età dell’innocenza di Blake, la trasvalutazione di tutti i valori di Nietzsche e, più ancora, l’angelologia amorosa che conduce al Paese di Non-Dove di Rilke, Lorca e Klee. La Terra dell’immaginale ha inizio là dove il reale è insorto e ha preso il suo posto. L’amore dei sognatori porta in sé l’oblio e l’incanto di una stagione azzurra che verrà e nel biancore dell’innocenza ritrovata esprime una cultura del sorriso, un respiro dell’aria che sboccia ai limiti estremi dell’universo già esistente e fa della libertà di amare e dell’iconografia della povertà la prima cosa da gridare. Alla radice dei suoi ritratti c’è una resurrezione della luce, la manifestazione di un’attività onirica che ridesta l’emotività e si fa rappresentazione unica della vita. Se il mercato del collezionismo moderno paga le Rose di Tina Modotti centosessantacinquemila dollari e ora le sue stampe sono in collezioni private e musei di mezzo mondo, la sua opera fotografica resta patrimonio dei popoli senza voce che si sono ribellati a tutte le forme di tirannia. La storia autentica sorge soltanto per mezzo di uomini liberi che hanno preso nelle loro mani il loro destino e annunciato ovunque il crollo delle gerarchie immortali. Pino Bertelli, 9 volte aprile 2001 (da FOTOgraphia, settembre 2001)

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Settanta anni fa frendo la fame, partecipando alle manifestazioni socialiste con suo padre e conoscendo già da bambina l’emigrazione nella vicina Austria. Giunta a San Francisco, dove raggiunge negli Stati Uniti il padre, la sorella e un fratello immigrati qual-

cui si stava orientando Tina Modotti. Il fotografo californiano ha sempre collocato al vertice dei valori della sua vita la fotografia e l’estetica della purezza formale, al di là dei contenuti rappresentati nelle immagini [la forma della passione, la passio-

ne della forma]. Invece, e al contrario, Tina Modotti si impegna sempre più nel sindacato; nel 1927, si iscrive al Partito comunista e si lega sentimentalmente al rivoluzionario cubano Julio Antonio Mella. Nel febbraio 1929, Mella viene as-

BIBLIOGRAFIA ESSENZIALE

Per celebrare l’ Informazione fotografica, il 30 giugno 1978 le Poste Italiane hanno emesso un francobollo sul quale è stata riprodotta una fotografia di Tina Modotti: Linee del telefono, Messico, 1925.

che anno prima, durante il giorno lavora in una filanda e la sera studia e recita. Con il primo compagno, il poeta Robo, conosciuto nel 1917, si trasferisce a Los Angeles, e la loro casa è un salotto dove si incontrano personalità artistiche emergenti: poeti, pittori, fotografi di rilievo (Edward Weston, Margrethe Mather, Johan Hagemeyer, Imogen Cunnigham). In questo periodo, Tina Modotti prende anche parte, con ruoli sempre più importanti, a diversi film, ma rifiuta ben presto l’ambiente effimero del cinema californiano e orienta altrove i propri interessi. Nel 1922, Roubaix de l’Abrie Richey (detto Robo), ammalato, muore in Messico, dove si era recato per sondare la possibilità di trasferirvisi alla ricerca di nuovi stimoli culturali. Nel 1923, Tina Modotti raggiunge Città del Messico con Edward Weston, fotografo assetato di nuove spinte creative. Convivono fino al 1924, ma la loro collaborazione artistica continuerà anche dopo il distacco sentimentale, fino al rientro definitivo del fotografo americano negli Stati Uniti, nel 1926. Edward Weston non è minimamente attratto dalla fotografia sociale e dall’impegno politico verso

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❯ Modotti. Una protagonista del secolo breve (a fumetti, volume due), di Ángel de la Calle; 001 Edizioni, 2008 (144 pagine; 16,00 euro). ❯ Modotti. Una donna del Ventesimo Secolo (a fumetti, volume uno), di Ángel de la Calle; 001 Edizioni, 2008 (128 pagine; 16,00 euro). ❯ Tina Modotti. Sulla fotografia sovversiva. Dalla poetica della rivolta all’etica dell’utopia, di Pino Bertelli; NdA Press, 2008 (224 pagine; 17,00 euro). ❯ Tina Modotti. Vita, arte e rivoluzione. Lettere a Edward Weston 1922-1931, a cura di Valentina Agostinis; Abscondita, 2008 [riedizione della pubblicazione originaria; Feltrinelli, 1994] (234 pagine; 24,00 euro). ❯ Tina Modotti. Fra arte e rivoluzione, di Letizia Argenteri; Franco Angeli, 2005 (320 pagine; 24,00 euro). ❯ Tina, di Pino Cacucci; Feltrinelli, 2005 [riedizione della pubblicazione originaria; Interno Giallo, 1991] (240 pagine; 8,00 euro). ❯ Julio Antonio Mella e Tina Modotti contro il fascismo, di Froilán González e Adys Cupull; Achab Editrice, 2005 (224 pagine; 12,00 euro). ❯ Tina Modotti. Fotografa irregolare, di Elisa Paltrinieri; Selene, 2004 (144 pagine; 13,50 euro). ❯ Vita di Tina Modotti. Fuoco, Neve e ombre, di Patricia Albers; Postmedia, 2003 (320 pagine; 18,80 euro) [FOTOgraphia, luglio 2003]. ❯ Tina Modotti. Verità e leggenda, di Christiane Barckhausen; Giunti Editore, 2003 (256 pagine; 10,00 euro). ❯ Edward Weston e Tina Modotti in Messico, di Mariana Figarella; Biblioteca dell’Immagine, 2003 (250 pagine; 20,00 euro). ❯ Tina Modotti. Ritratto di donna, di Vittorio Vidali; Arti Grafiche Friulane, 2002 (128 pagine; 12,50 euro). ❯ Tina Modotti, Arte Vita Libertà, di Riccardo Toffoletti; Il Ramo d’Oro Editore, 2001 (220 pagine 29x 30,5cm, illustrato; 31,00 euro). ❯ Tinissima, di Elena Poniatowska; Frassinelli, 1997 (422 pagine; 14,98 euro). ❯ Tina Modotti, una vita nella storia, atti del Convegno Internazionale di Studi, a cura del Comitato Tina Modotti; Arti Grafiche Friulane, 1995 (352 pagine; 30,95 euro). ❯ Tina. La vita di una donna straordinaria: Tina Modotti, di Pino Cacucci; Edizioni Teadue, 1995 (seconda edizione 2001; 202 pagine; 5,90 euro). ❯ Tina Modotti. Vita, arte e rivoluzione. Lettere a Edward Weston 1922-1931, a cura di Valentina Agostinis; Feltrinelli, 1994 (152 pagine) [rieditato da Abscondita nel 2008]. ❯ Tina Modotti: gli anni luminosi, di Valentina Agostinis; Biblioteca dell’Immagine, 1992 (246 pagine, illustrato; 30,00 euro). ❯ Tina, di Pino Cacucci; Interno Giallo, 1991 (202 pagine) [rieditato da Feltrinelli nel 2005]. A questi titoli, si aggiunge una consistente quantità (e qualità?, non sempre) di tesi di laurea dedicate a Tina Modotti. Per conoscenza diretta, ne segnaliamo almeno una: Tina Modotti: percorso artistico dalla fotografia estetica alla fotografia sociale, di Marta Madotto [nomen omen], Università Cattolica del Sacro Cuore, sede di Brescia, Facoltà di Lettere e Filosofia, Corso di Diploma in Scienze dei Beni Culturali, Anno Accademico 2006-2007, relatore professor Maurizio Rebuzzini, correlatore professor Francesco Tedeschi. E tante altre tesi di laurea su Tina Modotti attraversano tutte le università italiane, allargandosi anche oltre i nostri confini nazionali.


Settanta anni fa sassinato sotto gli occhi di Tina Modotti. Per protesta contro la rilassatezza e noncuranza con cui vengono condotte le indagini (all’inizio, con il supporto di false testimonianze, lei stessa è stata imputata dell’omicidio), Tina Modotti rifiuta l’incarico di fotografa ufficiale del Museo Nazionale del Messico. Intanto, la situazione politica cambia, i comunisti vengono allontanati dagli incarichi politici e amministrativi, e, infine, esiliati. Anche Tina Modotti, dopo essere stata accusata di aver preso parte al tentativo di assassinio del presidente Pascual Ortiz Rubio, viene espulsa dal Messico. Si ferma per un breve periodo in Germania, a Berlino, accompagnata da Vittorio Vidali (fuoriuscito triestino al servizio del Comintern sovietico, da un paio d’anni operante in Messico). Dopo pochi mesi, durante i quali vive sotto false generalità, pubblicando comunque propri servizi fotografici sul settimanale del Partito Comunista Tedesco AIZ (Arbeiter Illustrierte Zeitung / Giornale Illustrato dei Lavoratori) e sul mensile Der Arbeiter-Fotograf, prende parte a una mostra collettiva organizzata dalla fotografa Lotte Johanna Jacobi. Comunque, non riesce a integrarsi in questa nuova realtà sociale e ad adattarsi alla situazione di vita corrispondente, e matura l’idea di trasferirsi a Mosca. In un’epoca nella quale, in Germania, stanno mutando gli assetti politici e si affaccia sulla scena l’ideologia nazionalsocialista, la visione del mondo di Tina Modotti non si adatta alle richieste ed esigenze giornalistiche; su insistenza di Vittorio Vidali, si convince ad andare a lavorare per il Partito Comunista Sovietico. Spirito carico di altruismo e umanità, dotata di una forte tempra, Tina Modotti si vota per molti anni alla causa rivoluzionaria alle dipendenze della macchina burocratico-organizzativa del Partito. Dopo numerose e rischiose missioni in diversi paesi europei, sempre sotto falso nome, viene inviata in Spagna, alle dipendenze del Soccorso Rosso, contro i franchisti, dove rischia ripetutamente la vita. Non esistono prove di un’attività fotografica costante di Tina Modotti in Unione Sovietica, se non per alcuni ritratti di dirigenti del partito, soprattutto donne, e per l’acquisto di

«Ma non voglio parlare di me. Desidero parlare soltanto di fotografia e di ciò che possiamo realizzare con l’obiettivo. Desidero fotografare ciò che vedo, sinceramente, direttamente, senza trucchi, e penso che possa essere questo il mio contributo a un mondo migliore» Tina Modotti (1926)

una Leica, che poi donò o lasciò in prestito a un giovane fuoriuscito italiano. Invece, esistono testimonianze sul periodo della Guerra civile spagnola (1936-1939), durante la quale fotografò per la rivista repubblicana Ayuda, il cui archivio è purtroppo andato distrutto. Sul fronte spagnolo, operavano Robert Capa e la sua compagna Gerda Taro, che Tina Modotti conobbe. I due fotogiornalisti tentaro-

Annullo filatelico del giorno di emissione (30 giugno 1978) del francobollo con cui le Poste Italiane hanno celebrato l’ Informazione fotografica. La cartolina illustrata, realizzata da Ippolito Cattaneo, di Genova, ai tempi distributore del marchio Leica, accosta una antica Leica Compur a una moderna Leica R3 Electronic, allora di sostanziale attualità tecnica.

no inutilmente di convincerla a riprendere le redini professionali del suo mestiere di fotografa. Nonostante queste pressioni, la sua attività fotografica in Spagna dovette essere sicuramente molto saltuaria, perché da testimonianze risulta che era intensamente impegnata come infermiera e prendeva parte alle riunioni del Soccorso Rosso, per il quale, dalla Spagna, compì ripetute missioni in diversi paesi europei. Alla disfatta dei repubblicani spagnoli, Tina Modotti non ritorna in Unione Sovietica, e dopo un breve passaggio negli Stati Uniti, dove non può soggiornare perché le viene negato il permesso, rientra in Messico. Però, nell’amato paese sono mutate sia la situazione politica sia gli atteggiamenti delle antiche amicizie, e così non aderisce più al Partito comunista. Viene invitata a riprendere la sua attività di fotografa, ma ormai l’antica passione -quella fotografia nella quale aveva creduto come mezzo fondamentale per far luce sulle condizioni degli operai, dei contadini e degli oppressi, oltre che come strumento di informazione sociale e di formazione delle coscienze- rimane un ricordo. Vive un rapporto privato controverso e tormentato anche con Vittorio Vidali, che nel frattempo si è legato sentimentalmente a una giovane donna, che sposerà dopo la morte di Tina Modotti. L’omicidio di Lev Trockij [una delle infinite grafie possibili e plausibili], rifugiato anche lui a Città del Messico, ordinato da Stalin, il patto di non aggressione tra Germania e Unione Sovietica, l’avvicinamento del Messico agli interessi statunitensi contribuirono a sancire il disincanto di Tina Modotti verso le posizioni originarie nei confronti dell’ideologia comunista. Ognuno per sé, e tutti insieme, questi fatti costituirono tante delusioni verso il mondo nel quale aveva creduto, e negli ultimi mesi della sua esistenza vive in un muto isolamento, pur continuando a frequentare gli ambienti di sinistra e le serate dedicate a incontri culturali: muore, proprio al rientro a casa da una di queste serate, su un taxi, all’età di quarantacinque anni, per un attacco cardiaco. La sua morte ha lasciato uno strascico di quesiti ancora non del tutto chiariti. ❖

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Celebrazione di Antonio Bordoni

DAGUERRE, DALLA NASCITA

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Giorno dopo giorno, quasi!, la pagina iniziale di Google, il più frequentato motore di ricerca in Rete, celebra personalità o avvenimenti del mondo, in occasione di una ricorrenza certificata. Sarebbe intrigante se riuscisse effettivamente a farlo tutti i giorni, ma non in tutti i giorni dell’anno è accaduto qualcosa da ricordare effettivamente. Così, questa evocazione non è quotidiana, non riempie tutte le date dell’anno, come vorremmo che fosse, ma poco ci manca (altra e più accondiscendente e generosa -rileviamolo-, è l’unità di misura in base alla quale compiliamo la segnalazione di accadimenti quotidiani, sul nostro sito www.FOTOgraphiaON-

La pagina iniziale di Google, dello scorso diciotto novembre ha ricordato l’anniversario della nascita di Louis Jacques Mandé Daguerre.

LINE.it, in aggiornamento autenticamente ed effettivamente quotidiano). Comunque, lo scorso diciotto novembre, Google ha ricordato l’anniversario della nascita di Louis Jacques Mandé Daguerre, al quale va riconosciuta la paternità ufficiale della fotografia, annunciata e presentata nel 1839 (il sette gennaio e il diciannove agosto), in forma di dagherrotipo, appunto. Una brillante visualizzazione grafica di Google ha richiamato l’anniversario dal 18 novembre 1787 (Daguerre è poi mancato il 10 luglio 1851, a sessantaquattro anni di età). Con l’occasione, ci preme segna-

Nel 1939, la Francia ha celebrato il centenario della fotografia con una emissione filatelica. Il francobollo francese del centenario della fotografia (1839-1939) rievoca le figure di Joseph Nicéphore Niépce e Louis Jacques Mandé Daguerre, indicando anche gli anni dei rispettivi successi fotografici: 1822 e 1839. Rue Daguerre, a Parigi (quattordicesimo arrondissement), traversa dell’Avenue du Maine. Targa in rue Léon-Jouhaux, a Parigi, che identifica il luogo nel quale Daguerre aveva il suo Diorama, incendiatosi nel 1839.

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lare, annotandolo, come al di fuori dei nostri confini nazionali certe personalità della fotografia siano tenute in legittima considerazione. Per cui, rimaniamo in compagnia di Louis Jacques Mandé Daguerre, volente o nolente l’inventore ufficiale della fotografia; e nulla contano altri distinguo, tra i quali i nostri personali, che attribuiscono maggiore peso e valore al disegno fotogenico, poi calotipo, di William Henry

Fox Talbot, che in evoluzione ha definito i tratti della fotografia come sempre l’abbiamo intesa e come ancora oggi l’intendiamo: matrice dalla quale ottenere copie in quantità teoricamente infinita. Rimaniamo in compagnia di Daguerre, per segnalare intriganti tributi francesi (parigini) alla sua personalità. E per ricordare anche qualcosa d’altro: in didascalia alle immagini qui visualizzate. ❖



Cinema

di Maurizio Rebuzzini - Ricerca iconografica di Filippo Rebuzzini

TORNANDO A CASA

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Produzione canadese sostanzialmente recente, Triage è un film uscito nelle sale internazionali a cavallo tra il 2009, di esordio, e il successivo 2010: 12 settembre 2009, debutto al Toronto International Film Festival; 15 ottobre 2009, prima proiezione europea al Film Festival di Roma; 16 giugno 2010, ultima data certa di esordio nazionale, a Parigi. Da qui, a seguire, l’edizione in Dvd alla comoda portata di ciascuno. Comunque, per quanto produzione cinematografica recente, il film Triage è stato sceneggiato da Danis Tanović (anche regista del film) sull’omonimo romanzo di Scott Anderson, del 1998, a propria volta retroambientato alla guerra in Kurdistan, del 1988 (pubblicato in Italia da Piemme, nel 2001, con il titolo Reporter di guerra). La sceneggiatura rispetta totalmente lo spirito del romanzo e la sostanziosa trasversalità esistenziale del protagonista, il fotogiornalista Mark Walsh (ottimamente caratterizzato dall’attore irlandese Colin Farrell). Tra terribili cronache di guerra, immancabili disagi e difficoltà pro-

fessionali e sconfortanti sfide imposte dalla vita quotidiana, il libro e il film affrontano e svolgono temi fondanti (non soltanto della fotografia), quali la colpa, il perdono, l’assoluzione, la natura della guerra moderna e il senso di appartenenza. La narrazione originaria di Scott Anderson e la trasposizione in sceneggiatura hanno mirabilmente collegato tra loro personaggi e situazioni, fino a creare complesse storie parallele, pur mantenendo una trama accattivante, un’attenzione sempre concentrata sul soggetto esplicito, che rappresenta poi il quesito fondamentale della fotografia di guerra, pronto a riproporsi tragicamente ogni qual volta si presenta un conto in vite umane [in FOTOgraphia dello scorso maggio, all’indomani dell’uccisione/morte in Libia di Tim Hetherington e Chris Hondros, ci siamo domandati cosa significhi morire per fotografare la storia, e se abbia senso che ciò avvenga, possa avvenire; in ogni caso, allora, onore e merito (?) a Tim Hetherington e Chris Hondros, amaramente le due più recenti vittime di una storia di fotogiornalisti e

Il film Triage, del 2009, è ambientato nel Kurdistan della guerra del 1988. Protagonista è il fotoreporter Mark Walsh (interpretato da Colin Farrell), con le sue ansie e i suoi affanni di sopravvissuto.

Le vicende narrate dal film Triage, pretesto per riflessioni sulla fotografia di guerra, ruotano attorno all’ospedale da campo nel quale il dottor Ahmet Talzani (l’attore Branko Djuric) deve prendere decisioni sempre terribili.

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giornalisti morti in guerra che è troppo lunga, di un elenco che è eccessivamente penalizzante].

NEL FILM Quando Mark Walsh (Colin Farrell) viene colpito da un proiettile di artiglieria in Kurdistan, il suo mondo si capovolge. Viene tratto in salvo, curato nell’ospedale da campo del dottor Ahmet Talzani (l’attore Branko Djuric), dove -come fotogiornalista inviato- Mark ha visto spesso sopprimere pietosamente i feriti incurabili, dopo essere stati identificati in base a un terribile -ma necessariocodice di cartellini colorati (ovvero, Triage): rosso, curabile; giallo, in attesa; azzurro, morte. Il dottor Ahmet Talzani non è inumano, non è immotivatamente cinico, né -tantomeno- sadico; più prosaicamente, sa che non ha tempo da riservare a chi non può essere curato, perché è solo e ogni giorno


Cinema

Avvincente e affascinante evocazione scenografica da Triage, film del 2009, di Danis Tanović, anche sceneggiatore, dall’omonimo romanzo di Scott Anderson, del 1998 (in Italia: Reporter di guerra; Piemme, 2001). Accampati in un ospedale di guerra, in Kurdistan, i fotogiornalisti Mark Walsh (interpretato dall’attore irlandese

la guerra gli invia feriti da curare e guarire. Decisione terribile: quesito esistenziale che va oltre le capacità umane di comprensione e amore. Ma certe guerre moderne debbono aver insegnato molto (spesso troppo) a chi le ha vissute sulla propria pelle, giorno dopo giorno, decisione dopo decisione. Comunque, tornando al racconto romanzato, Mark Walsh sopravvive, e torna a Londra. Il film rivela ancora nulla sul suo compagno-collega, il fotogiornalista David (interpretato dall’attore Jamie Sives): ed è anche questo il senso dell’approdo, del definitivo punto di arrivo, che per mille motivi non riveliamo (ma non è difficile immaginare come si siano svolti i fatti in Kurdistan). In effetti, indipendentemente da tutto, ma malgrado tutto, il tema della riflessione del romanzo e del film è il ritorno, la sopravvivenza a un evento tragico, che può ripetersi nello svolgimento quo-

Colin Farrell) e David (l’attore Jamie Sives) aspettano l’annunciata ripresa dei combattimenti. In attesa, Mark Walsh documenta la vita e le condizioni dell’ospedale. Ecco qui: avvincente e affascinante evocazione scenografica del caricamento del rullino 35mm nella reflex Nikon F3. I fotogiornalisti Mark Walsh e David (Colin Farrell e Jamie Sives) partecipano ai combattimenti della guerra in Kurdistan (1988), incuranti della propria incolumità fisica. È questo il senso del film Triage, che approda poi al dopoguerra, sceneggiato da Danis Tanović, anche regista, dal romanzo omonimo di Scott Anderson, del 1998 (pubblicato in Italia da Piemme, nel 2001, con il titolo Reporter di guerra).

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Cinema tidiano del proprio lavoro, che è latente e latitante sulla testa del fotogiornalista inviato di guerra. A questo proposito, ricordiamo una intervista a un fotogiornalista italiano che ha fotografato numerose guerre. A domanda specifica, ha risposto di non temere tanto la morte, quanto di rimanere ferito, ovverosia mutilato. E si tratta di una ammissione che dà il senso e valore del riconoscimento di una professione (e professionalità) che viene svolta sapendo guardare diritto in faccia una sua terribile componente, che riguarda appunto la partecipazione (disarmati!) a un’azione violenta e definitiva.

DAL FILM ALLA VITA Come annotato, e per quanto appena allineato con una testimonianza di realtà, dal romanzo originario di Scott Anderson al film firmato da Danis Tanović (regista e sceneggiatore), la riflessione di Triage riguarda la sopravvivenza individuale alla tragedia incontrata e, addirittura, subìta. Il ritorno a casa basta a cancellare tutto? Oppure, come è più probabile, più che probabile, la condizione di sopravvissuto è qualcosa di indelebile, che segna permanentemente l’animo? È stato detto, è stato teorizzato, che chi è stato ostaggio per qualche ora/giorno della propria vita, lo sarà per sempre, per il resto della vita, per quanto lunga possa essere. Lo stesso, potrebbe valere anche per la sopravvivenza? Si è sopravvissuti per sempre? Tra i tanti riferimenti ai quali richiamare e sui quali mobilitare questa inquietante ipotesi, per quanto ci riguarda direttamente, la relazione che Triage ipotizza con il fotogiornalismo di guerra ci è prossima, ci appartiene per statuto e interesse primario di osservazione. Subito rilevato: il film è scenograficamente efficace, fino a visualizzare in maniera superlativa l’argomento proposto. Subito precisato: il film è scenograficamente troppo efficace, fino a raffigurare in modo fortemente clinico situazioni e condizioni che colpiscono come un forte pugno nello stomaco. Subito evidenziato: ci sono scene nel film che sconsigliamo a coloro i quali (noi tra questi) sono sostanzialmente impressionabili. Da una parte, c’è l’emozione del Triage in base al quale il dottor Ah-

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Riflettendo sul senso e valore del proprio impegno professionale, nel film Triage (sceneggiato dall’omonimo romanzo di Scott Anderson), il fotogiornalista Mark Walsh (interpretato dall’attore irlandese Colin Farrell) mette in discussione la sua presenza nei conflitti del mondo. Da una parte, la sua condizione di sopravvissuto a un proiettile di artiglieria in Kurdistan lo fa riflettere sull’ipotesi di morire per fotografare la storia. Dall’altra, le sue meditazioni gli fanno ricordare e capire che -a voltela sua presenza ha alterato i fatti. Per esempio, il suo fotogiornalismo si è intromesso in un momento tragico della guerra in Libano, causando addirittura l’uccisione di un ragazzo.

met Talzani (interpretato dall’attore Branko Djuric) stabilisce chi -ferito curabile- può continuare a vivere e chi, invece e al contrario -ferito incurabile-, deve morire. Dall’altra, c’è anche, e soprattutto, l’esplosione di una bomba antiuomo, di una terribile mina terrestre, con le sue tragiche conseguenze, minuziosamente descritte dalla scenografia del film. Non è spettacolo per tutti (non lo è stato per noi). Non anticipiamo nulla, non sottolineiamo alcun nostro punto di vista. Invece, invitiamo a guardare il film (è facilmente recuperabile nella sua versione Dvd): ci si concentri sulle rifles-

sioni del protagonista Mark Walsh, fotogiornalista sopravvissuto a un’azione di guerra. Sono queste che valgono e contano, e che offrono materia al nostro vivere con la stessa fotografia e le sue consecuzioni. Dalla finzione alla realtà, il passo è meno lungo di quanto ci si potrebbe aspettare: merito, dote e pregio di una sceneggiatura (da romanzo) che non si è lasciata prendere la mano da inutili stereotipi, ma ha saputo visualizzare convincenti archetipi. In assoluto, approfondita riflessione fotografica, della quale fare prezioso tesoro. ❖



Attraverso la Storia di Antonio Bordoni

QUANTE INNOVAZIONI. MA!

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Pubblicata dalla qualificata Sterling Signature, di New York, per conto della George Eastman House, la nobile istituzione creata dal geniale inventore, fondatore della Eastman Kodak Company, 500 Cameras è una raccolta fuori tempo (massimo). Infatti, e nel concreto dei termini, questo casellario è più in linea con l’attenzione storica della tecnica fotografica che ha illuminato i decenni scorsi -diciamo dai tardi anni Settanta alla fine dei Novanta, e non oltre-, di quanto non lo sia con l’approssimazione, distrazione e trascuratezza (tecnica) dei nostri attuali giorni. Ovverosia, questo casellario sarebbe stato apprezzato ieri l’altro, più di quanto non possa esserlo oggi. In ogni caso, assolutamente qualificato, il racconto si distribuisce su 170 anni di innovazioni fotografiche -come specifica il sottotitolo-, individuate all’interno della capace collezione storica della stessa George Eastman House. Ma ormai è tardi: oggigiorno, nessuno è più interessato a conoscere la storia evolutiva della tecnologia fotografica, tantomeno dalle proprie lontane origini, all’alba del 1839 di nascita ufficiale. Per lo più, al giorno d’oggi, ci si appaga del solo presente, cioè delle

500 Cameras - 170 Years of Photographic Innovation, a cura di Todd Gustavson; Sterling Signature, 2011; 472 pagine 21,5x21,5cm; 26,95 dollari.

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Anthony’s Patent Novelette View Camera; E. & H. T. Anthony & Company, New York; 1884 circa.

cifre altisonanti che caratterizzano l’attualità dell’acquisizione digitale di immagini; numeri che sono specchio e quintessenza (ahinoi) di una esuberanza di belle promesse. Mentre che, a nostro modo di vedere, anche la competenza della storia degli apparecchi fotografici è (sarebbe) preziosa e utile, perché mette in contatto e sintonia con una vicenda affascinante, ricca di interpretazioni straordinarie , degne della massima attenzione. Certamente, non si tratta di una competenza spendibile nella pratica quotidiana, spendibile nell’esercizio della fotografia -qualunque questa sia-, ma di qualcosa che arricchisce il cuore, prima della mente, e che dà il senso, la misura e il ritmo di una successione che è stata a dir poco stupefacente e sbalorditiva.

CHE STORIA!

Per quanto la Storia della Fotografia che veramente conta e ha senso sia quella tracciata e definita dalle immagini, personalmente non sottovalutiamo come e quanto anche la Storia degli apparecchi fotografici sia altrettanto fascinosa, seppure meno fondante sul rapporto fotografia-società (ma non è neppure detto). Ancora: per quanto la Storia della Fotografia sia quella che incasella nomi di fantastici autori e interpreti, uno dietro l’altro, uno dopo l’altro, in una cronologia che spesso toglie addirittura il respiro, non vorremmo fosse sottovalutata e dimenticata quest’altra Storia, che registra innovazioni discriminanti, annota personalità a dir poco fantastiche e segnala interpretazioni au-


Attraverso la Storia Snappa; Rochester Optical & Camera Company, Rochester; 1902 circa.

(a destra, in basso) Eastman Commercial View; Eastman Kodak Company, Rochester; 1937 circa.

tenticamente significative. È certo. Altezzosamente sottovalutata da certa critica imperante, fino a essere spesso disprezzata, la storia degli apparecchi fotografici non si limita e circoscrive a se stessa, ma allunga la propria influenza sull’applicazione, ovverosia sulla ripresa fotografica. Come qualsiasi storia, può essere censita in diversi modi e raccontata per consecuzioni e linee evolutive altrettanto differenti. Nei decenni scorsi, quando la storiografia della tecnica fotografica ha vissuto una propria stagione luminosa, queste divergenze (e convergenze) di racconto hanno costituito materia di dibattito, con schieramenti agguerriti: ogni storico ha difeso a spada tratta la propria linea di pensiero. Ora, l’attuale 500 Cameras, a cura di Todd Gustavson (responsabile della sezione tecnologia alla George Eastman House, di Rochester, Usa), si aggiunge ai tanti e preziosi titoli di quella lontana stagione, proponendo un proprio cammino tra tipologia e cronologia. Non è più tempo di dibatterne, basta la registrazione e segnalazione (oggigiorno va così; oggigiorno ci si deve limitare a questo): gli apparecchi delle origini; collodio secco; field; detective; per istantanee; reflex; reflex biottica; folding; 35mm; professionali; panoramiche; stereo; miniatura; apparecchi giocattolo; specializzati; con processo di sviluppo incorporato.

Scovill & Adams Company Book Camera; Scovill & Adams, New York; 1892.

confini e tracciati inderogabili, perché nulla è transitato per percorsi lineari, ma tutto si è evoluto e trasformato con e per itinerari variegati, comprensivi di tanti aspetti e intrecci infiniti, ciascuno dei quali è stato -allo stesso tempo- causa ed effetto. In questo senso, è giocoforza richiamare la schematizzazione adottata al Museo Nazionale Alinari della Fotografia (MNAF), di Firenze, attivo dall’autunno 2006. A cura del nostro direttore Maurizio Rebuzzini, qui in veste di responsabile della sezione di storia degli apparecchi fotografici del Museo, Passo dopo passo: apparecchi fotografici dal 1839 al Duemila è esattamente ciò che dichiara di essere: un (inedito) percorso attraverso gli strumenti della fotografia, a partire dalle origini. In questa collocazione, il tragitto non è cronologico, ma si scompone e ricompone in nove capitoli monografici, accostati in uno spazio autonomo, e otto tematici, distribuiti a contorno del percorso storico delle immagini. Nel dettaglio, le otto tematiche di In principio, Box Kodak, Leica e Contax, Rolleiflex, Polaroid, Hasselblad, Nikon F e A domani identificano momenti fondanti, circoscrivibili a una identificata ed esplicita interpretazione tecnica. Mentre le serialità trasversali e non cronologiche dei nove capitoli esistenziali di Belle o impossibili, Due obiettivi, Re-

Con l’occasione, ricordiamo che nel 2009, Todd Gustavson ha pubblicato un’altra avvincente storia: Camera. A History of Photography from Daguerreotype to Digital (360 pagine 25x30cm; 45,00 dollari), nella quale l’evoluzione cronologica degli apparecchi, dal 1839, è accompagnata se non già scandita dalle immagini che hanno consentito di realizzare. E su questo rapporto tecnica-creatività ci sarebbe tanto da dire e approfondire, ma non è tempo, né spazio, per farlo, qui e ora.

ALTRE STRADE La scomposizione-ricomposizione di 500 Cameras è buona e legittima come ogni altra. In effetti, non è facile, né semplice, tracciare linee evolutive assolute e inviolabilmente consequenziali. Cioè, la storia degli apparecchi fotografici non dipende da

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Attraverso la Storia

portage statunitense, Tre dimensioni, Italia, Popolari, Interpretazioni reflex, Fenomenale Holga e A contorno riuniscono generose quantità di apparecchi fotografici, accostati per sostanziosa omogeneità. Nello stesso ambito museale è proiettato un video che attraversa con affascinante disinvoltura i decenni. In trenta minuti abbondanti, C’era una volta... Storia della fotografia dal 1839 ad oggi, sempre a cura di Maurizio Rebuzzini, percorre la sostanza delle tappe, soprattutto tecniche, ma non soltanto tecniche, che hanno scandito il ritmo del tempo fotografico, dalle origini fino ai nostri giorni: anche qui, le tematiche e tempistiche sono assolutamente personali (dell’autore) e si rincorrono e intrecciano senza alcuna soluzione di continuità.

Century of Progress e Mickey Mouse Brownie; Eastman Kodak Company, Rochester; 1933 e 1946 circa.

INCONTRI PIACEVOLI

Fotron; Traid Corporation, Encino, California; 1960 circa.

Scomposizione storica a parte, che definisce il punto di vista del curatore, 500 Cameras, di Todd Gustavson, è un libro di pregevole fattura: è un titolo che consigliamo vivamen-

(a destra, in alto) Kalart Flash Synchronizer; Kalart, New York; 1935.

(a destra, in basso) Omega 120; Simmon Brothers Inc, Long Island City, New York; 1954 circa.

Falcon Press Flash; Utility Manufacturing Company, New York; 1940 circa.

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te a coloro i quali interessa la storia evolutiva degli strumenti della fotografia. È migliore di tanti altri del passato: è ben illustrato ed è scandito per schede esplicite, che identificano con chiarezza i singoli apparecchi fotografici presentati e incasellati nel tragitto proposto (testo in inglese). Come già riferito, si tratta di apparecchi custoditi nella autorevole raccolta della George Eastman House, di Rochester, che è uno dei templi consacrati della storiografia fotografica (apparecchi, immagini e biblioteca... almeno). Ragion per cui, il punto di vista è adeguatamente e inviolabilmente americanocentrico. Oltre tante conferme previste e prevedibili -di apparecchi fotografici incontestabilmente protagonisti della storia evolutiva della tecnica e tecnologia applicata (a partire dalla pri-

ma dotazione Giroux per dagherrotipia, in vendita a Parigi, dal dieci agosto del 1839, dieci giorni prima la presentazione ufficiale del successivo diciannove)-, proprio lo sguardo americanocentrico dà quindi vita a incontri quantomeno curiosi, insoliti e singolari. Magari anche solo questo valore aggiunto può giustificare l’intera opera, soprattutto agli occhi di coloro i quali non hanno avuto modo di conoscere proprio queste eccellenze, altrove e altrimenti ignorate da altre ricostruzioni storiche. Qualche segnalazione, tanto per stare ancora un poco insieme, avvicinandoci alla conclusione. Prodotta nel 1884 (circa), da E. & H. T. Anthony & Company, di New York, la Anthony’s Patent Novelette View Camera è una 4x5 pollici in legno, ovviamente, di straordinaria modernità [a pagina 20]. Sia per l’efficacia e semplicità dei movimenti di decentramento del piano dell’obiettivo, sia per la attinente com-

binazione di materiali, incastri e chiusure potrebbe benissimo essere attribuibile... a un secolo in avanti. Snappa, del 1902 circa, è una consistente folding per esposizioni 3¼x4¼ di pollice (circa 6x8cm) su pellicola a rullo, con scorrimento orizzontale destra-sinistra. Elegante come richiesto ai tempi, vanta un rivestimento in cuoio russo e finiture di alluminio [a pagina 21]. È stata prodotta dalla Rochester Optical & Camera Company, di Rochester, una delle aziende ottiche e fotografiche nate a corollario della Eastman Kodak Company. Altrettanto moderna è la grande formato folding 8x10 pollici Eastman Commercial View, del 1937 circa, in magnesio (!): sobrietà eccezionale, progettazione perfettamente finalizzata, linee severe [a pagina 21]. Siamo in presenza di un’autentica


Attraverso la Storia

perfezione del design al servizio della praticità di impiego e dell’estetica dell’oggetto: contenuto e forma in allineamento compiuto. Dal grande capitolo delle macchine fotografiche camuffate, che in 500 Cameras si richiama alle definite detective, isoliamo l’apparato fotografico mascherato in tre finti libri scolastici [a pagina 21]. Prodotta a New York, nel 1892, la Scovill & Adams Company Book Camera simula tre titoli adeguatamente generici, French, Latin e Shadows. In allungo sul fotogiornalismo statunitense degli anni Trenta, inviola-

bilmente definito dall’immancabile Speed Graphic (qui a destra), registriamo una configurazione che ne ha fatto il verso (?), con una dotazione tecnica sicuramente più economica. Dote esplicita, la sincronizzazione flash, espressa nell’identificazione: Kalart Flash Synchronizer, prodotta a New York, nel 1935 [pagina accanto]. La sincronizzazione flash è estesa fino ai tempi di otturazione più rapidi, di 1/500 e 1/1000 di secondo. Se si potesse ipotizzare una storia del

Super Speed Graphic; Graflex Division of General Precision Equipment Corporation, Rochester; 1959. (a sinistra) Périphote; Lumière Fréres, Parigi; 1901 circa.

lampo in attacco Edison [pagina accanto]. Congeniale a una illuminazione flash ottimale, questa configurazione ribadisce e conferma un efficace ordine tra forma e contenuto, tra estetica e sostanza. Due tra le innumerevoli personalizzazioni delle Kodak Brownie dei primi decenni del Novecento [pagina accanto]: Century of Progress, del 1933, in occasione della Chicago World’s Fair, che appunto vantava di

Stereo tail-board camera; 1860.

design applicato alla fotografia, la Falcon Press Flash avrebbe una propria collocazione di assoluto prestigio. Prodotta dalla Utility Manufacturing Company, di New York, dal 1940 circa, è caratterizzata da un riflettore flash di grandi dimensioni, per lampade

Deardorff Precision 8/20 Camera; L.F. Deardorff & Sons, Chicago; 1960 circa. (centropagina) Deckrullo Stereo; Contessa-Nettel AG, Stoccarda; 1921 circa.

rappresentare un secolo di progressi tecnologici, dal 1833 al 1933; Mickey Mouse Brownie, con storia un poco più complessa. Certamente, non è mai stata prodotta; certamente, se ne conoscono quattro prototipi; certamente, lascia perplessi. La Brownie Target Six-20, di base, è del 1946; la grafica di Walt Disney è degli anni Trenta. Che dire? Che pensare? Di certo, i quattro prototipi no-

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Attraverso la Storia Compass; Jaeger LeCoultre & Cie, Svizzera; 1938 circa. Kodak Handle; Eastman Kodak Company, Rochester; 1977 circa. (a sinistra, in basso) Stylophot; Secam Corporation, Parigi; 1955 circa. (in basso) Iso Duplex Super 120; Industria Scientifica Ottica, Milano; 1956. Stereo Realist; David White Company, Milwaukee; 1950 circa.

ti e accreditati hanno un alto valore commerciale: unica certezza. Tanto orrida, da essere addirittura bellissima, la Fotron, del 1960 circa, rivela tutto l’entusiasmo e tutta la confusione di quegli anni [a pagina 22]. Prodotta a Encino, in California, da Traid Corporation, è ben dotata: motore di avanzamento della pellicola, flash incorporato, caricabatterie incorporato... ma per pellicola in formato 828 (28x40mm su base 35mm), che non ha mai avuto grande fortuna. Chiudiamo con la poco conosciuta Omega 120, che probabilmente non ha varcato i confini nazionali: progettata e prodotta dalla Simmon Brothers, di Long Island City, New York, nel 1954 circa, che per lungo tempo ha imposto al mercato internazionale i propri ingranditori Omega, per l’appunto. L’apparecchio fotografico espone fotogrammi 6x6cm su pellicola a rullo 120 e tutto il proprio apparato è finalizzato alla gestione dell’immediato dopo scatto [a pagina 22]. Con un solo movimento a leva, avanzamento della pellicola, avanzamento del contafotogrammi, ricarica dell’otturatore e cambio della lampada flash all’interno della parabola ad azione rapida. 500 Cameras: in centosettant’anni di avvincenti innovazioni tecnologiche. Qualcuna più di altre. ❖

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A fumetti

di Angelo Galantini - Ricerca iconografica di Ciro Rebuzzini

S

MONDO MARVEL

Se anche di questo si tratta, se anche con questo possiamo stabilire linee demarcatrici e strade percorse (dal fumetto), si è soliti distinguere i supereroi almeno in base a due differenze che li caratterizzano, e che dal nostro punto di vista non specializzato semplifichiamo, per farle comprendere meglio. Anzitutto, il supereroe per antonomasia, della scuderia DC Comics, Superman, arriva dallo spazio, dove ha acquisito e conquistato i suoi superpoteri. Ancora, i supereroi DC Comics vivono in un mondo di fantasia disegnato attorno a loro (cresciuto a Smallville, Superman vive e agisce a Metropolis; Batman e Robin stanno a Gotham City; comunque, sia Metropolis sia Gotham City sono interpretazioni plausibili e verosimili di New York City); mentre quelli Marvel Comics, quelli del “Mondo Marvel” vivono in un mondo preso a prestito dalla realtà. Ancora, e poi basta, i supereroi DC Comics sono invincibili; quelli Marvel hanno spesso esistenze travagliate quanto la maggior parte della gente comune, con la quale condividono e spartiscono passioni, errori, incertezze, entusiasmi... arco vitale. Un’altra differenza e diversità tra le due scuole di fumetti che hanno scritto la storia del fantastico, e non soltanto di questo, riguarda un certo atteggiamento dei rispettivi copioni. Mentre i fumetti DC Comics sono sostanzialmente asettici (previo aver poi fatto morire e rinascere i propri eroi, per esigenze commerciali e mercantili), quelli Marvel sono spesso passionali, fino al punto di declinare le proprie vicende come se fossero vere e autentiche. Ovverosia, spesso e volentieri (anche per la gioia dei propri lettori appassionati), i fumetti Marvel si autoraccontano. In particolare, supereroi del calibro dell’Uomo Ragno, dei Fantastici Quattro (Mr. Fantastic / Reed Richards, la Donna Invisibile / Susan “Sue” Storm, la Torcia Umana / Johnny Storm, e la Cosa / Ben Grimm), e di quanti si sono aggiunti successivamente, interagiscono nei fumetti, pro-

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Marvels. L’occhio della fotocamera riunisce in un unico albo la traduzione italiana di sei avventure originarie [a pagina 28], successive all’edizione del compendioso Marvels (del 1994, di Kurt Busiek e Alex Ross; oggi disponibile in edizione deluxe). In richiamo a quella saga dei supereroi, elevati a simbolo di passione e coinvolgimento, questo attuale Occhio della fotocamera ribadisce il punto di vista del fotografo freelance Philip Sheldon, questa volta aggravato pure da vicende personali, che si assommano a quelle pubbliche del suo racconto. Marvels. L’occhio della fotocamera; sceneggiatura di Kurt Busiek, disegni di Jay Anacleto; Panini Comics, 2010; 144 pagine 17x26cm; 13,00 euro.

posti come figure reali. Oppure sia, e il risultato non cambia, i fumetti Marvel trascendono spesso nel trompe l’œil, in una sorta di sceneggiatura che ruota su se stessa, con capo e coda che si alternano di ruolo (narrativo).

CHE OCCHIO! In questo senso, è stata emblematica la miniserie Marvels, del 1994, successivamente raccolta in volume (e attualmente disponibile anche in una preziosa edizione deluxe), nella quale sono stati raccontati e sceneggiati

i presunti eventi fondanti del Mondo Marvel, dagli anni Quaranta ai Settanta. I supereroi sono stati raccontati come protagonisti delle proprie vicende, delle proprie esistenze, in una proiezione vitale che non ne mette in discussione le doti, ma qualche volta ne contesta le azioni. La vicenda di Marvels è stata osservata dal punto di vista del fotografo indipendente Philip Sheldon, per l’occasione sempre indicato come fotografo freelance (è più avvincente), i cui reportage sottolineano e documen-


A fumetti tano sia l’attività degli eroi fantastici sia i dubbi e le perplessità della gente comune di fronte a tali e tante ingerenze, seppure immancabilmente rivolte al bene di tutti. Ovviamente, autocelebrativa e perfino autoreferenziale, la narrazione di Marvels (sceneggiata da Kurt Busiek e disegnata da Alex Ross) è epica. Racconta la saga dei supereroi elevandoli a simbolo di passione e coinvolgimento... fino al sacrificio estremo. Di fatto, ipotizza un mondo immaginario e utopistico che, per quanto inesistente, sta nei cuori e nelle speranze di ognuno di noi. È saldo nel versante fiabesco con il quale affrontiamo la vita di tutti i giorni. A distanza di quindici anni abbondanti, alla fine dello scorso 2010, l’editore Marvel Italia (divisione di Panini, di Modena) ha riunito in un fascicolo unico le sei avventure che compongono il seguito, e forse persino

la conclusione, dell’originario Marvels. Anche nel caso dell’attuale sequel Marvels. L’occhio della fotocamera, soprattutto nel caso di questo attuale sequel, la vicenda è osservata dal punto di vista del fotografo freelance Philip Sheldon: visione narrante certificata e attestata nel titolo esplicito: ancora sceneggiatura di Kurt Busiek, disegni di Jay Anacleto; Panini Comics, 2010; 144 pagine 17x26cm; 13,00 euro. Ovviamente, lasciamo al mondo dei fumetti i commenti e gli appro-

fondimenti di materia. Qui, ora e in assoluto, non ci interessano i dettagli, i particolari e le minuzie che definiscono, fino a qualificarla, la storia raccontata con lo stilema del disegno e affini. Soltanto, una volta ancora, ci preme considerare che la riflessione in profondità e sottotraccia è svolta in chiave fotografica: in un modo e tempo nei quali la fotografia è elevata a chiave interpretativa privilegiata. Del resto, e in sovramercato, non è certo casuale che uno dei supereroi Marvel sia fotografo, prima di trasformarsi in eroe senza macchia (l’Uomo Ragno / Peter Parker), e sia stato creato dal padre di tutti i supereroi: Ken Parker, figura culto del fumetto di ogni tempo.

DAL FOTOGIORNALISMO Da cui e per cui, le nuove riflessioni attorno le gesta dei supereroi, non più

luminose e brillanti, come in origine, impongono al fotogiornalista Philip Sheldon un atteggiamento diverso da quello di partenza, che in Marvels ha esaltato le personalità degli eroi raccontati. Ancora, Marvels. L’occhio della fotocamera, raccolta di sei fascicoli nativi, è definito da un aspetto privato della vita del fotografo. Minato da un male incurabile, deve combattere su un fronte doppio: quello della documentazione oggettiva (per quanto possibile) dei fatti e quello della propria sopravvivenza. E non è certo po-

Sequel dell’originario Marvels, del 1994, anche l’attuale albo a fumetti Marvels. L’occhio della fotocamera è scandito dal punto di vista del fotografo freelance Philip Sheldon: voce narrante certificata e attestata nel titolo esplicito.

co: né il dovere, né l’altra condizione esistenziale penalizzante. Ribadiamo: ai cultori del fumetto, le considerazioni sullo svolgimento e la compitazione di questa storia. A noi appartiene soltanto la chiave fotografica della visione e osservazione. Da cui, le introduzioni ai sei capitoli originari e nativi, riuniti nel racconto unico di Marvels. L’occhio della fotocamera. Capitolo Uno: Solo una piccola cosa. «Mi chiamo Philip Aaron Sheldon. Faccio il fotografo. Freelance. Non ritratti. Giornalismo. Le foto[grafie] che vedete nei giornali e nelle riviste. E me la sono cavata molto bene nel corso degli anni. Ho sempre lavorato. Mi pagavano bene. Ho viaggiato molto, sono stato testimone di eventi straordinari in tutto il mondo. E sono sempre stato in grado di mantenere la mia famiglia. Cibo in tavola e vestiti per la scuola. Una bella casetta a Long Island, una berlina ultimo modello, insomma tutto quello che ci si aspetta. Ma una volta... non so, mi sembra che una volta ci fosse qualcosa di più». Capitolo Due: Dare un senso al mondo. «Mi chiamo Philip Sheldon. Faccio il fotogiornalista e me la sono cavata molto bene nel corso degli anni. Ho viaggiato in tutto il mondo e sono sempre stato in grado di mantenere la mia famiglia. E ho visto cose... straordinarie. Miracoli. Meraviglie [marvels]. Dalla Torcia Umana, ai tempi della Seconda guerra mondiale, ai Fantastici Quattro e ai Vendicatori dei giorni nostri. Ho visto tutto. E ci ho pure fatto un libro [Marvels]. Forse l’avete visto. Ho pensato che poteva essere il momento di rallentare. Godermi le mie figlie, trasferirmi in Florida. Un altro libro o due, ma niente più del solito tran tran. Ma qualcun altro ha deciso che non stavo rallentando abbastanza». Capitolo Tre: Ombre interne. «Mi chiamo Phil Sheldon. Faccio il fotografo e ormai pensavo di aver visto tutto. Guerre, eroi, i punti più alti e più bassi che questo mondo è capace di offrire. Sono conosciuto perché fotografo le Meraviglie [marvels]... i superumani attorno a noi, dai Vendicatori all’Uomo Ragno, fino all’esercito di Atlantide e l’Incredibile Hulk. Ho visto gente celebrare le Meraviglie [marvels], averne paura, non con-

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A fumetti Marvels. L’occhio della fotocamera [a pagina 26] riunisce le sei avventure che compongono il seguito di Marvels, del 1994: sceneggiatura di Kurt Busiek, disegni di Jay Anacleto.

Marvels: Eye of the Camera 1 Just One Little Thing (febbraio 2009). Marvels: Eye of the Camera 2 Making Sense of the World (febbraio 2009).

Marvels: Eye of the Camera 3 Shadows Within (marzo 2009). Marvels: Eye of the Camera 4 Deep Wounds (aprile 2009).

Marvels: Eye of the Camera 5 A Whole Lot of Paper (giugno 2009). Marvels: Eye of the Camera 6 Closing the Book (aprile 2010).

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siderarle niente di speciale o pensare invece che rappresentassero la fine del mondo. Ma ora... è come se le cose fossero andate a rotoli, come se non fossimo più in grado di distinguere i buoni dai cattivi». Capitolo Quattro: Ferite profonde. «Mi chiamo Phil Sheldon e presto sarò morto. Tumore ai polmoni. Carcinoma spinocellulare. Non sembra un qualcosa uscito da un libro di H.P. Lovecraft? Una volta ero un fotografo. Penso di essere stato bravo a mostrare il mondo alla gente. A mostrare loro la verità o almeno quella che io pensavo lo fosse. Credevo che quello che facevo fosse importante. Che valesse qualcosa. Ma sembra che molto di quello che pensavo -del mondo, di come dovessero funzionare le cose- forse fosse, be’, sbagliato. Ero un sognatore, un ingenuo, che faceva finta che tutto fosse bello, luminoso e solare. Che faceva finta che ci fosse qualcosa che importasse». Capitolo Cinque: Un sacco di carta. «Mi chiamo Phil Sheldon. Faccio il fotografo. O almeno lo facevo. In questi ultimi tempi scrivo libri. Basati sulle mie vecchie foto[grafie], sulle Meraviglie [marvels] che vivono in mezzo a noi. Gli eroi, le maschere, i superumani, come preferite chiamarli. Pensavo di poterlo fare per un po’ più di tempo. Pensavo di aver sconfitto il cancro ai polmoni. Pensavo che avrei avuto davanti ancora anni di lavoro. Da passare con mia moglie e con le mie figlie, che sembra stiano crescendo sempre più in fretta, proprio sotto i miei occhi. Pensavo di averlo sconfitto. Mi sbagliavo». Capitolo Sei: Un libro da finire. «Mi chiamo Phil Sheldon. E sto morendo di cancro. Ero un fotoreporter. Ho anche scritto delle cose. Sono sempre stato alla ricerca di qualcosa di nuovo. Di una nuova foto[grafia], di una nuova grande storia. Andavo sempre così di fretta che con la mia famiglia non ho passato tutto il tempo che avrei dovuto. Ora mi guardo indietro. Guardo a quello che ho fatto, e a quello che non ho fatto. Chiedendomi se sia stato abbastanza, se sia stata la cosa giusta da fare... Il mio passato è tutto intorno a me in questi giorni. Sia le cose buone sia quelle cattive. Forse perché il presente... si sta allontanando, lasciandomi indietro...». ❖



A parlare di

di Angelo Galantini - Ricerca iconografica e reperimento testi di Filippo Rebuzzini

ANNIE LEIBOVITZ IN TV

S

Sicuramente, David Michael Letterman è il più celebre conduttore televisivo al mondo, seguìto e imitato (nelle intenzioni, non sempre conseguite) da tutti i talk show dell’emisfero occidentale. Quando una sceneggiatura cinematografica statunitense sottolinea la fama di un personaggio pubblico, lo fa appunto apparire nel suo show serale, che richiama davanti allo schermo milioni di telespettatori. La progressione dei suoi appuntamenti parte nel 1980, con l’originario The David Letterman Show, trasformatosi in The Night with David Letterman, dal 1982 al 1993, per approdare all’attuale identificazione Late Show with David Letterman, in onda sulla rete Cbs dal 1993. All’oscuro di questa cronologia, in Italia semplifichiamo nell’identificazione generalizzata Da-

Andato in onda negli Stati Uniti, il 9 maggio 1999, il ventiduesimo episodio della decima stagione della celebrata serie a cartoni dei Simpson, creata alla fine degli anni Ottanta dal fumettista statunitense Matt Groening, per la Fox, è stato trasmesso in Italia il sette ottobre successivo. Per l’Italia, il titolo originario They Saved Lisa's Brain è diventato Springfield utopia delle utopie. Nella vicenda, un ruolo fondante è attribuito a Annie Leibovitz, che interpreta se stessa fotografa. Se ancora servisse, una ulteriore conferma di popolarità senza confini, approdata alla più seguìta e celebre delle sitcom animate.

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vid Letterman Show, e così lo conosciamo dallo scorso ventitré agosto, quando Rai 5 ha cominciato a trasmettere in diretta differita le puntate dello show: da martedì a sabato, alle 23,00 (e repliche il giorno dopo). Con provvidenziali sottotitoli, abbiamo potuto comprendere lo spirito di una conduzione televisiva molto particolare, assolutamente diversa da quelle alle quali siamo abituati (e chi cerca di imitare David Letterman, spesso sconfina nel solo linguaggio triviale, privo di alcun barlume di intelligenza, ingegno e sensatezza: doti elargite in originale). Brillante comico, David Letterman è un autentico conduttore, che sa scandire tempi e modi del programma, con sapienti alternanze di ritmo tra la sua presenza e la partecipazione e il legittimo protagonismo degli ospiti che si alternano nel suo scintillante salotto: ribadiamo, sinonimo di successo, fama e popolarità dell’ospite stesso. I critici statunitensi padroneggiano anche riferimenti e richiami a noi sconosciuti. Per cui, prendiamo per plausibili talune loro considerazioni: accettiamo che l’umorismo, spesso surreale e assurdo, di David Letterman, tipicamente East Coast, sia stato influenzato -come i critici hanno annotato- da Steve Allen, comico televisivo, considerato l’inventore del talk show, Ernie Kovacs, brillante interprete al quale si riconosce uno straordinario ascendente sulla commedia televisiva statunitense, e, ancora, Johnny Carson (mancato nel 2005), equivalente di David Letterman alla rete concorrente Nbc, per trent’anni conduttore del Tonight Show. Lo scorso otto novembre, il Late Show with David Letterman ha ospitato la fotografa Annie Leibovitz: con relativa diretta differita in Italia, su Rai 5. Testuale, il dialogo.

Siete pronti? Bene. Sono pronto! Il prossimo ospite è la fotografa vivente più acclamata al mondo. È stata nominata “Leggenda vivente” dalla Biblioteca del Congresso... A me non danno neanche la tessera della biblioteca. Lo capisco. È l’autrice di questo libro, intitolato Pilgrimage [monografia non certo facile, che ha bisogno di sostanziosa presentazione: rimandiamo al prossimo numero di febbraio]. Diamo il benvenuto a Annie Leibovitz. Prego, Annie. È un piacere rivederti. Come stai? È passato molto tempo. Non ci vedevamo dagli anni Ottanta. Dovevamo trovare la nostra strada professionale. Tu ne hai fatta tanta. Qualche sera fa, ho guardato la tua video biografia. È un film bellissimo, entusiasmante. Grazie. Quando è stato girato? Molti anni fa. È un programma della Pbs, American Masters. Faceva parte di una sezione sulla vita dei fotografi. È stato molto interessante.

Ci conosciamo da molto, ma ho scoperto tante cose su di te. Parliamo del libro. La gente saprà che i ritratti sono il tuo genere preferito. Ora, sembra che ti sia concentrata sui panorami. È così? Sì, ho voluto esplorare una nuova strada. Ho passato momenti personali duri e difficili. Ho sperimentato. Sulla copertina ci sono le Cascate del Niagara. Sono state l’ispirazione per questo lavoro. Ero in gita con i miei figli, alle Cascate. Non c’erano mai stati? No. Sono piccoli. Non ero di ottimo umore. Loro correvano in giro e io li seguivo con lo sguardo. Sono rimasti ipnotizzati dalle Cascate, le fissavano. Li ho raggiunti, mi sono fermata alle loro spalle e ho scattato quella fotografia... Sono stati loro a suggerirmi quella fotografia. In quel momento, ho iniziato a pensare a questo progetto; e a concentrarmi sui luoghi e sulle persone... Sui luoghi e sulle persone a cui tengo. Così ho compilato una lunga lista. Ecco la differenza tra te e me. Se portassi i miei figli alle Ca-


A parlare di scate e mi trovassi dietro di loro, io... [gesto esplicito]. Stavo solo scherzando! Scherzavo! In effetti... una certa tentazione l’ho avuta. Dimmi una cosa, questa è una fotografia su pellicola chimica o in digitale? Sono tutte fotografie in digitale. Il digitale è fantastico. Ero nella casa di Emily Dickinson ad Amherst, che è anche la casa di suo fratello. Non c’era elettricità e io volevo fotografare dei particolari. La cosa straordinaria del digitale è che anche senza luce ti permette di cogliere i particolari. Per quel poco che ne so, la fotografia univa arte e scienza. Infatti, alcune fotografie venivano lavorate nella camera oscura. È possibile farlo anche con il digitale? Ora esiste un nuovo tipo di camera oscura. Dopo aver scattato una fotografia, si può ag-

giustare il colore; è come essere in una camera oscura, anche se è meno sexy. A respirare tutte quelle sostanze chimiche... Quindi, preferisci il digitale? Lo adoro. Un paio di guanti... Sono i guanti di Lincoln. In verità, cercavo la sua casa di legno. Intrapresi un lungo viaggio, partii dal Kentucky, arrivai in Indiana, poi a Springfield, in Illinois, dove c’è la biblioteca del Presidente. Rimasi molto colpita da questi guanti, che Lincoln aveva in tasca la notte in cui fu ucciso. E dove li hai trovati? Non ho trovato la casa. In realtà, credo che non esista

affatto. Mi è capitato spesso di cercare luoghi che non esistevano. Ma ho trovato cose inaspettate lungo la strada... Erano tra gli oggetti smarriti del Ford Theater. Lincoln passava il tempo a stringere mani! Chiedi a Doris Kearns, ok? Lo farò, ve lo garantisco. Questa è la collezione di pastelli artigianali della pittrice Georgia O’Keeffe. Non sapevo che si potessero fare i pastelli in casa, ho sempre creduto che fossero solo prodotti industriali. Sapevo che me lo avresti chiesto. Non so esattamente come lei li facesse, ma hanno i colori della terra. Dove li hai trovati? Nel New Mexico. Al Georgia O’Keeffe Museum hanno un archivio immenso. È aperto a tutti, potete visitarlo. Questa è una fotografia veramente straordinaria. Rap-

presenta l’essenza della fotografia americana. Sei nella Yosemite Valley, in California. È la riproduzione della fotografia originale di Ansel Adams? In questo diario di viaggio ho avuto l’idea di fotografare i paesaggi che Ansel aveva amato. Ho voluto rendergli omaggio. Sono tornata due o tre volte in questo luogo. Nella mia fotografia il cielo è senza nuvole, se guardate bene. In realtà, ero già stata su questi monti negli anni Ottanta, e avevo fatto le mie riflessioni su questo paesaggio. L’impressione è che tutti possano ritrarlo, ma non è affatto così. Ho dovuto tornarci due o tre

volte, per realizzare la fotografia che intendevo. Volevo che il cielo fosse sereno. Lui era famoso per passare molto tempo in camera oscura, a sistemare le luci e le ombre. Era considerato un maestro in questo. Era un tecnico straordinario, adorava la camera oscura, viveva nella camera oscura. Nel libro c’è una fotografia che la ritrae. Si trova a Carmel... Ma sono sicura che Ansel Adams avrebbe adorato il digitale. Ho notato che spesso, quando visitiamo l’Ovest e ci troviamo davanti a terre e orizzonti infiniti, ci viene voglia di fotografarli. Però è difficile riprodur-

re quello che abbiamo davanti agli occhi. Sei d’accordo? Sono d’accordo solo in parte. Sono convinta che la fotografia cosiddetta “paesaggistica” sia a un punto di svolta interessante. Il digitale ti permette di fermare l’immagine... Hai letto recentemente il National Geographic? Ha immagini stupende. Le fotografie? Oggi si possono fare cose straordinarie. Parlando di cose straordinarie... Qui ho capito che stavo meglio [fotografia di un televisore]. Quando i televisori non avevano il telecomando! Ho scattato questa fotografia... Ho fatto diversi viaggi a Graceland, per cercare di capire

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A parlare di

quel luogo. Elvis non buttava mai via niente. Questo televisore era nella sua casa di Palm Springs. Come sapete aveva anche una collezione di pistole... La leggenda racconta che fosse stufo di Robert Goulet [cantante, attore e showman], e che quando lo vide sul video, gli sparò. È così. Io sapevo una storia simile. Dio... Santo cielo, guardate questa! La cosa che sapevo ma che ho ricordato grazie al libro, e vale per la mia come per altre generazioni, è che hai fotografato eventi e uomini fondamentali per la storia del mondo. Parlaci di questa. In questa fotografia si vede Nixon che lascia la Casa Bian-

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ca. L’ho scattata per la rivista Rolling Stone. Hunter Thompson aveva ricevuto l’incarico di scrivere un articolo sulla fine drammatica della carriera politica di Nixon, ma non riuscì a farlo, si bloccò. Quindi, la rivista pubblicò sedici pagine di mie fotografie, compresa questa. Dopo il discorso d’addio, arrotolano il tappeto e lui se ne va. Questa fotografia mi piace moltissimo. La lascio per ultima. Guardate questa, è bellissima [l’attrice Whoopi Goldberg]. Lei era... È solo latte! Era molto giovane, ancora sconosciuta... Aveva uno spettacolo a Broadway.

Sì, era all’inizio. È stata lei a voler fare la fotografia così? No, l’idea è stata mia, ma lei mi aveva ispirato. Nel suo spettacolo, interpretava una ragazzina che cercava di strapparsi la pelle. Suggerii che il latte sarebbe stato perfetto per dare l’idea del bianco, molto più della vernice. Così abbiamo riempito la vasca di latte caldo. Era il bagno di un vicino, abbiamo riempito la vasca di latte, lei è entrata e l’immagine che risulta è morbida e dolce. Il resto è... Lo faresti per me un giorno? D’accordo. [Languidamente] Riempi la vasca di latte caldo... Certo... Puoi anche non fotografarmi. Adoro questa fotografia, è bellissima. Cosa hai fatto a quest’uomo [Jack Nicholson]? Niente, io ero in un’altra stanza a sistemare le luci. Lo cer-

Calma. Non esistono più uomini come lui al giorno d’oggi, non trovi? Chi potresti seguire oggi che abbia il suo stesso carisma? Oppure credi sia un problema di età, di generazioni? Non so, credo che gli anni contino. I Rolling Stones rappresentano la nostra generazione. Ma ricordo anche di aver desiderato di seguire un tour di Bob Dylan. Pazienza! Ora che è uscita questa collezione di momenti e paesaggi, di attimi preziosi della cultura del nostro paese [appunto, la monografia Pilgrimage], tornerai a scattare ritratti delle celebrità, o è una svolta definitiva? Non ho mai smesso di scattare altre fotografie... Datemi la macchina fotografica... Mio Dio! [Con una reflex Nikon tra le mani] No, voglio scattarti una fotografia, posso?

cavo per fotografarlo e non riuscivo a trovarlo. Alla fine, l’ho trovato in questa veranda, mentre giocava a golf. Così gli ho detto di stare fermo e ho scattato questa fotografia. Era arrabbiato? No, questa è la sua espressione naturale. E ora, l’uomo più affascinante del mondo [Mick Jagger]. Qui stavamo salendo in ascensore in un grattacielo. Era la metà degli anni Settanta, e io seguivo il tour dei Rolling Stones. Qui eravamo in ascensore dopo un concerto... Stavamo salendo, Dave. Capisco. Siamo saliti, non scesi.

È la rubrica dedicata agli addestratori di animali, vero? È questo il momento del programma... Fai un sorriso. Odio farmi fare fotografie! Facciamone un’altra. Fatto, perfetto, Annie Leibovitz. Che Dio ti benedica. E questo è il suo libro! Pilgrimage. Soltanto una annotazione, che sottolinea lo spessore (e competenza) di un incontro, una intervista, che si è comunque realizzato/realizzata e manifestato/manifestata con apprezzabile e apprezzata lievità, pur andando a collocare al posto giusto tutte le tessere del delicato mosaico. Diciamolo: una lezione di giornalismo televisivo. ❖



VIAGGIO


IN INDIA

testo e fotografie di Mauro Vallinotto

Cronaca di viaggio attraverso alcuni peccati capitali: superbia (desiderio irrefrenabile di essere superiori agli altri, fino al disprezzo degli ordini e delle leggi); accidia (torpore malinconico e inerzia nel vivere e compiere opere di bene); avarizia (desiderio irrefrenabile di beni temporali); gola (abbandono ed esagerazione nei piaceri della tavola e temporali). Questa è una confessione laica. Dove i peccati, come in un dipinto di Hieronymus Bosch, sono capitali andando dalla superbia all’accidia, all’avarizia. E dove il peccatore dimostra un sincero pentimento teso a purificare la propria coscienza, se mai ancora ne avesse una, rivelando al mondo i suoi più reconditi e cattivi pensieri. Dove l’assoluzione e il perdono, che non si negano neppure al più incallito dei delinquenti, come al più cinico dei politici, alla fine non tarderanno a giungere, perché tutto possa finire in gloria. Con la nuova Nikon 1 V1


Jodpur, panorama sulla “città blu” (zoom 30-110mm, alla focale corrispondente 297mm; 1/1600 di secondo a f/5,6; 100 Iso).

(doppia pagina precedente) Kuri, botteghe artigiane (zoom 10-30mm, alla focale corrispondente 29mm; 1/4 di secondo a f/3,5; 400 Iso).

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P

rologo. Una vacanza di un paio di settimane nell’India del nord-ovest, da Bombay (ora Mumbai) a Delhi attraverso un classico itinerario nel Rajastan. Considerato che ritorno in India dopo dieci anni di assenza, che da altrettanto tempo non ho più scattato fotografie di reportage per sopravvenuti cambiamenti professionali, che perduranti dolori a schiena e spalle consigliano un’attrezzatura light, preparo uno zainetto con una Nikon D80, due zoom, il 12-24mm e il 18-105mm, e un paio di batterie di scorta. Niente di più. Nel frattempo, parte una martellante campagna pubblicitaria sulla Nikon 1, manco fosse una rivoluzione (peraltro evocata dai termini promozionali), come l’iPhone. Banner sui siti web, pagine di quotidiani, passaggi televisivi... me la ritrovo dappertutto. E allora? mi dico, che c’azzecco io

con questo giocattolo? E poi, non ho forse già una compatta, che prende polvere in un cassetto a causa del rumore eccessivo che si manifesta non appena si imposta una sensibilità superiore ai 400 Iso (convenientemente equivalenti)? Un amico, che ha un negozio di attrezzature fotografiche, ne ha appena ricevuto un esemplare con mirino (che ai vecchi fotografi come me è indispensabile): è la Nikon 1 V1. Vuole farmela provare, mi tenta, mi lusinga. Scatto qualche fotografia nel negozio, inquadrando vetrinette zeppe di cornici e memory card. Non mi piace. Non mi va. Il mirino elettronico è troppo vivido per i miei gusti, e poi, a ogni fotografia, l’immagine acquisita/registrata resta nel mirino fino allo scatto successivo, oppure finché non si sfiora nuovamente il pulsante di scatto. Rimpiango il vecchio pentaprisma, che non fa-


ceva perdere neppure per un istante quanto accadeva davanti ai miei occhi. E poi, lo stratagemma dello scatto meccanico simulato dal computer della macchina... E questa pretesa di scegliere lei la fotografia giusta tra cinquanta? Trent’anni da fotografo e dieci da photoeditor cancellati, perché arriva questa a spiegarmi la filosofia dell’attimo fuggente da fissare in un fotogramma? L’amico negoziante insiste; ha pronto per me il kit con i due zoom 10-30mm e 30110mm e di suo aggiunge una card da otto Giga a quella già in dotazione (“non si sa mai”, suggerisce preveggente). La mia superbia e la mia accidia vengono messe duramente alla prova. Poiché la partenza è fissata il giorno successivo, alla fine cedo: tanto, il tutto mi porta via lo spazio di un paio di pacchetti di sigarette (non fumo) e il peso di un Oscar

Mondadori (non porto libri in viaggio, da quando ho l’iPad). Male non farà, visto che negli ultimi anni di professione passati a scegliere le fotografie degli altri ho assistito, con crescente sgomento, a quelle scene dove si vedono decine di fotogiornalisti ammucchiarsi con macchine fotografiche pesanti e ingombranti, munite di obiettivi, anche i grandangolari più spinti, grandi come padelle da fritto misto, e puntati sotto i volti delle persone ritratte peggio che se fossero dei bazooka. È il progresso, bellezza, mi dicevo per consolarmi e consolare le mie stanche ed esauste articolazioni. Nel viaggio, mi fermo un paio di giorni a Dubai. La Nikon 1 V1 se ne resta in un cassetto dell’albergo, gli ottocentotrenta metri d’altezza della Burj Khalifa Tower, come le arcate fantascientifiche degli shopping center, sono improponibili per uno zoom che alla focale minima raggiunge

Jaipur, la bottega del barbiere (zoom 10-30mm, alla focale corrispondente 27mm; 1/30 di secondo a f/3,5; 720 Iso). Udaipur, la banda musicale (zoom 10-30mm, alla focale corrispondente 27mm; 1/15 di secondo a f/3,5; 1600 Iso).

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Jaipur, il guardiano di un tempio gianista (zoom 10-30mm, alla focale corrispondente 27mm; 1/15 di secondo a f/3,5; 1600 Iso). Delhi, una strada della città vecchia (zoom 10-30mm, alla focale corrispondente 27mm; 1/15 di secondo a f/3,5; 900 Iso).

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l’equivalente dell’inquadratura 27mm. Mentre il 110mm estremo, che sarebbe poi un 330mm, poco potrebbe contro la velatura atmosferica prodotta dai trentatré gradi che si raggiungono nel primo pomeriggio. La mia coscienza è a posto, la mia schiena un po’ meno. A Mumbai, al caldo si aggiunge un’afa opprimente, come se il monsone, invece d’essere andato via da qualche settimana, dovesse improvvisamente ritornare sui propri passi. Mi faccio violenza, e giro per strada solo con quella spocchiosetta della V1 e con l’altro obiettivo nella tasca dei pantaloni. Litigo con la tracolla, troppo lunga e progettata per una giraffa, faccio a cazzotti col selettore fotografia-film, troppo vicino al mirino e senza blocco di sicurezza, per cui mi trovo a filmare mentre vorrei scattare fotografie singole o viceversa. La batteria, forse un caso isolato, si surriscal-

da, magari perché stressata da qualche raffica di troppo di scatti in sequenza. E poi, la focale minima è solo l’equivalente di un 28mm, peraltro grandangolare (originariamente spinto, successivamente moderato) col quale ho lavorato per anni, prima di sentire l’esigenza di acquistare un 21mm. Pazienza, e adotto allora un approccio da turista medio, quello che oltr’Alpe una volta si definiva “crétin à Kodak”: selettore sulla “P” di Program, scatti solo in Raw, sensibilità impostata in automatico, da 100 a 1600 Iso equivalenti. Senza flash, ovviamente, e bilanciamento completamente automatico e autonomo. Autofocus come da default. Vado per mercati e musei, mi infilo tra i lavandai di Dhobi Ghat, ripasso tra le migliaia di pendolari della Victoria Station, faccio flanella al tramonto sulla spiaggia di Marine Drive, giro tra i ristorantini notturni di Colaba.


E comincio a temere d’essere diventato invisibile: memore dei miei precedenti viaggi in India, dove l’assalto di vecchi e bambini era la norma per lo straniero che si presentava armato di attrezzature fotografiche; ora, nessuno mi fila, nessuno nota la mia macchina che li inquadra. Certo, la Nikon 1 V1 è estremamente compatta, e quasi sparisce nel palmo della mano. Ma l’esperienza è unica, e mi riporta indietro negli anni, nei decenni: a quelli della fotografia su pellicola, quando certe immagini “rubate” erano possibili solo con apparecchi come la Leica M6 o la mai abbastanza rimpianta Contax G2 con il 21mm. Le fotografie scaricate sul mio iPad non sembrano malaccio, neppure quelle scattate a 1600 Iso equivalenti. Prime sottili crepe nel mio scetticismo, ma, si sa, l’iPad non può valere Photoshop CS5 e un monitor professionale; quindi, rumore,

accuratezza di messa a fuoco, impostazioni in automatico del Program dovranno subire severe verifiche e ridimensionamenti. Sarà! Intanto, la D80 rimane tristemente abbandonata nello zaino, dal quale non riemergerà che a viaggio concluso. Giorno dopo giorno, nelle campagne desolate come nelle città, nei bazar rigurgitanti di tessuti come a dorso di cammello nel deserto del Thar, la V1 si dimostra molto versatile, con una incredibile affidabilità nella messa a fuoco, certo favorita dalla corta focale del 10-30mm. Giorgio Lotti, fotografo di punta del settimanale Epoca, e autore della fotografia più riprodotta nella storia (non soltanto della fotografia), il ritratto del leader cinese Zhou Enlai scattato nel suo studio di Pechino, a 1/8 di secondo, su pellicola Ektachrome 200 Asa, mi dice sempre che oggi lo stesso scatto, in termini di qualità e profondità delle om-

Jodpur, venditori di stoffe (zoom 10-30mm, alla focale corrispondente 27mm; 1/400 di secondo a f/5; 100 Iso).

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Ranakpur, Chaumukha Temple (zoom 10-30mm, alla focale corrispondente 27mm; 1/160 di secondo a f/3,5; 360 Iso).

Jaisalmer, una coppia di sadu (zoom 10-30mm, alla focale corrispondente 27mm; 1/160 di secondo a f/3,5; 100 Iso).

bre, sarebbe difficilmente riproponibile, anche lavorando a 1600 Iso. Questo, a causa di quella specie di maledizione che colpisce buona parte delle macchine fotografiche digitali, professionali comprese: il micromosso. Quella minima, impercettibile vibrazione che impone anche a professionisti di provata esperienza di lavorare con tempi di otturazione quasi mai superiori a 1/60 di secondo. Così, più per superbia che per sfida, mi impongo di non andare, nelle buie notti indiane, oltre gli 800 Iso, scattando di conseguenza tra un ottavo di secondo e mezzo secondo. Botteghe di barbiere illuminate solo da una malinconica e desolata luce al neon, forni dove si cuociono nan e chapatti, i pani della tradizione indiana, palazzi dei maharaja dalle sale buie impenetrabili alla luce del giorno, tutto è buono per testare la Nikon 1 V1 nelle condizioni più estreme.

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Molti degli scatti, singoli o in sequenza a tre fotogrammi al secondo, sono assolutamente nitidi, e danno libero sfogo alla fantasia e alla libertà di scatto non disgiunte da compromessi tecnici (file da 57Mb in Tiff sono sufficienti anche per un murale), mentre il rumore nelle ombre è quasi impercettibile. Il finale della storia è abbastanza scontato: Nikon 1 V1 sempre in tasca, ovunque e comunque, e stampe 70x100cm di altissima qualità, anche ai bordi. Pentimento del peccatore e assoluzione scontata. Però: perché Nikon non pensa a progettare anche un grandangolare più spinto, chessò un sei millimetri (inferiore ai 21mm di equivalenza)? Così la mia fame di possesso si trasformerebbe in avarizia e gola, permettendomi di peccare ancora e poi ancora. Finché non si scarica la batteria. ❖




DI SÉ MEDESIMA

PITTRICE di Maurizio Rebuzzini

MINUTI

GIUNCHIGLIE; CARTA AGFA RECORD RAPID 3; 105

NARCISO; CARTA ILFORD FB MATT; 105

MINUTI

O

vunque la si presenti e commenti, l’origine della fotografia viene sempre ricondotta e relazionata ad almeno due debiti formali di riconoscenza. Prima ancora di questi, ai quali stiamo per approdare, si individuano e riconoscono altrettanti due solchi ispiratori, che ne hanno influenzato i princìpi ideologici: la cultura occidentale, che dal Rinascimento codifica e teorizza la resa prospettica di ogni raffigurazione visiva (a partire dalla pittura), e l’ampio spettro di energie che all’inizio dell’Ottocento si muovevano nella medesima direzione in campo filosofico, artistico, scientifico ed economico. Ciò a dire, che la fotografia è anche il prodotto finale e inevitabile di una combinazione magistrale di realismo, positivismo e materialismo: almeno tre movimenti che designano tendenze epocali allora nell’aria. A valle di queste sostanziose spinte ideologiche, formalmente, i due sostanziosi debiti di riconoscenza della fotografia affondano le proprie radici indietro nei secoli e, addirittura, millenni. Si basano su nozioni chimiche e fisiche note da tempo immemorabile: la luce agisce sulle sostanze/superfici che colpisce, alterandole; la luce che passa attraverso un piccolo foro (stenopeico, in gergo), forma e proietta un’immagine. Da cui, possiamo semplificare in questa doppia direzione gli studi degli sperimentatori, ideologicamente indirizzati dallo spirito e cultura del proprio tempo (soprattutto, realismo, positivismo e materialismo). Anzitutto, gli sperimentatori cercarono e trovarono sostanze che resero adeguatamente sensibili i supporti esposti all’azione della luce, in modo da renderne sistematicamente più rapida la stessa azione; quindi, dopo esperimenti originari “a contatto”, collocarono questi supporti emulsionati sul piano focale di camere obscure dotate di foro stenopeico oppure obiettivo a lenti, in modo da registrare l’immagine della realtà.

Quando ci riferiamo ai pionieri della fotografia, ovvero agli sperimentatori che alla fotografia sono poi approdati (e anche a quelli che non ce l’hanno fatta, rimanendo anonimi e sconosciuti), siamo soliti evocare un’idea, una ipotesi, un sogno, una visione, che poi si sarebbero manifestati in forma -per l’appunto- fotografica: la natura che si fa di sé medesima pittrice. In anticipo su altre definizioni certe, è a questo che hanno ambìto i pionieri e gli sperimentatori, agendo ciascuno per conto proprio, ognuno all’oscuro delle ricerche degli altri. Ora, a distanza di circa due secoli, con materiali attuali (?), interpretati e declinati al passato, Danilo Pedruzzi ripete gesti originari: replica, ribadisce e conferma lo spirito della natura che si fa di sé medesima pittrice 43


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MINUTI

EDERA; CARTA AGFA RECORD RAPID 3; 75 DI

FOGLIA DI LAMPONE; CARTA AGFA RECORD RAPID 3; 105

MINUTI

FOGLIE MINUTI

GLADIOLO; CARTA AGFA PORTRIGA; 90

Ovviamente, in introduzione all’azione attuale di Danilo Pedruzzi, che riprende passi e cadenze di quel passato remoto, addirittura anticipatori di quella che avremmo poi inteso come “fotografia”, non ci allunghiamo qui sulla componente ideologica successiva della stessa fotografia, che ha la fantastica capacità di annidarsi nella mente e nel cuore, quasi a creare frammenti di memoria individuale, che compone i tratti di uno stupefacente surrogato visivo della vita. Altrettanto, non affrontiamo la controversia sullo status (o presunto status) della fotografia quale genere artistico autonomo, che si liquida da sé in altri spazi preposti. Soltanto, sottolineiamo come e quanto il gesto odierno di Danilo Pedruzzi sia “artistico” e denso di significati, tanti da convincerci che continuando a invecchiare, continuando a tornare su se stessa e ribadendo persino le proprie origini (qui e ora, con Danilo Pedruzzi), paradossalmente, la fotografia è più attuale che mai: indipendentemente dalle proprie infrastrutture e personalità tecnologiche attraverso le quali esprime le proprie sistematiche contemporaneità. L’azione fotografica di Danilo Pedruzzi è squisitamente chimica: carta fotosensibile e iposolfito di sodio (o giù di lì). L’azione fotografica di Danilo Pedruzzi riprende le prime sperimentazioni dei pionieri della pre-fotografia, rivolti alla natura che si fa di sé medesima pittrice, che prima di osservare la realtà attraverso la camera obscura, provvidenzialmente provvista di emulsione sensibile alla luce, agirono tutti per esposizione diretta di soggetti appoggiati alla superficie resa sensibile all’azione del Sole, agirono tutti “a contatto”. Ne abbiamo già accennato, in relazione alla conclusione dell’Anno Accademico 2010-2011 del corso di Storia della Fotografia, alla Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università Cattolica del Sacro Cuore, sede di Brescia [FOTOgraphia, luglio 2011], e qui approfondiamo. Danilo Pedruzzi utilizza carta fotosensibile tradizionale -quella per la stampa all’ingranditore, con proiezione programmata e controllata del negativo originario bianconero-, interpretandone la proprietà fondamentale di alterarsi in base alla quantità di luce che la colpisce. Il princìpio è semplice e presto riferito; il valore compositivo delle immagini di Danilo Pedruzzi è tutt’altra questione, e richiama l’intervento dell’autore quale premessa indispensabile alla qualità e virtù della sua opera. Il princìpio è noto: se la carta fotosensibile viene portata alla luce del Sole o, comunque sia, all’esterno della camera oscura entro la quale può essere maneggiata con le luci di sicurezza di circostanza (le consuete del processo di sviluppo del positivo bianconero), è “bruciata”. La tanta/troppa luce che riceve consuma/esaurisce la sua fotosensibilità; se sviluppata, diventa completamente nera, senza alcun dettaglio, né sfumatura tonale. Comunque, lasciata alla luce del Sole (alla maniera dei pionieri e sperimentatori delle origini e pre-origini), la carta fotosensibile annerisce sistematicamente, scurendosi in relazione e rapporto con la quantità di luce che si è via via assommata. Se non la si sviluppa, ma si fissa soltanto, con l’apposito bagno a base di iposolfito di sodio (che scioglie i sali d’argento non colpiti dalla luce: scoperta fondamentale di sir John Frederick William Herschel, del 1819, che offrì l’impulso definitivo ai pionieri), la carta mantiene il tono ambrato/dorato raggiunto in relazione al tempo di esposizione alla luce diretta del Sole. Ciò detto, si è riferito tutto, senza rivelare niente. In metafora, è come aver commentato le opere che hanno definito la storia evolutiva del linguaggio fotografico, specificando soltanto l’azione di premere sul pulsante di scatto! Sì, il gesto di Danilo Pedruzzi è esattamente questo (esposizione prolungata della carta fotosensibile alla luce, e suo successivo/immediato fissaggio chimico), ma non soltanto questo. Ovviamente,



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MINUTI

CONVOLVOLO; CARTA AGFA RECORD RAPID 3; 180

MINUTI

OLEANDRO; CARTA AGFA PORTRIGA; 100 MINUTI

LEONE (TARASSACO); CARTA AGFA RECORD RAPID 3; 105 DI

DENTE

MINUTI

TULIPANO; CARTA AGFA BROVIRA RC3; 90

le sue immagini di fiori (fior da fiore) si basano su una sapienza e autorevolezza d’autore. Tecnicamente, dipendono dall’utilizzo di carte bianconero fotosensibili di caratteristiche proprie e diverse, individuate tra quante sono ancora presenti sul mercato e quante (di più) possono essere disponibili nella propria camera oscura (se e per quanto attiva, come lo è -va rilevato- quella di Danilo Pedruzzi). Espressivamente, si basano sul gesto del fiore sapientemente valutato e selezionato, prima che abilmente adagiato e posato sulla carta. Il tempo di esposizione alla luce del Sole brillante e diretto dipende poi da valutazioni soggettive. Siccome tutto avviene in osservazione diretta, l’autore stabilisce con se stesso e per se stesso quando e per quanto il processo è da considerarsi completato. Ripetere pedissequamente e pedestremente l’azione creativa, espressiva e arbitraria di Danilo Pedruzzi è estremamente facile e semplice allo stesso tempo. Basta procurarsi carta fotosensibile bianconero (meglio baritata, che politenata; meglio standard, che ad alta velocità di trattamento), avere a disposizione dei fiori... e tutto è fatto. Oppure, come sempre in fotografia, indipendentemente dall’apparenza a tutti evidente, l’azione di fissare (creandole) immagini che compaiono da se stesse, senza altra componente, senza altro ausilio (né di una camera obscura, né di un apparato fotografico autenticamente tale), ma per sola azione del Sole, ovverosia della luce, contiene già i riconoscimenti dell’arte e dell’espressività individuale, che Danilo Pedruzzi possiede. E altri, no! Altri, io tra questi, possono ripetere la sequenza, perfino possono perfezionarla. Ma l’anima di Danilo Pedruzzi sta altrove e si esprime altrimenti. Là dove non si tratta soltanto di applicare gesti, ma introdurre sentimenti. Da cui, almeno due secoli dopo gli sperimentatori della pre-fotografia, una volta ancora, una di più, mai una di troppo, Danilo Pedruzzi dà risalto, rilievo e significato alla natura che si fa di sé medesima pittrice. Le sue sono immagini, autenticamente tali, di qualcosa che esiste e si manifesta soltanto attraverso se stesse (immagini): non c’erano prima, ci sono soltanto dopo. ❖

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Canon EF 8-15mm f/4L Fisheye USM Zoom fisheye, con scelta tra immagine full-frame (fotogramma completo) o circolare. Il Canon EF 8-15mm f/4L Fisheye USM fa parte della prestigiosa Serie L a prestazioni elevate. Garantisce una fantastica qualità di immagine.

Canon EF 100mm f/2,8L Macro IS USM Il Macro EF 100mm f/2,8L IS USM, della prestigiosa Serie L di Canon, è il primo obiettivo dotato di stabilizzatore di immagine con rilevamento dell'angolo e degli spostamenti, particolarmente efficace a distanze ravvicinate di messa a fuoco.

Una storia diversa, Canon EF 300mm f/2,8L IS II USM Super teleobiettivo Serie L ad alte prestazioni, con stabilizzatore di immagine a quattro stop e tre modalità, ideale per la fotografia d'azione. Leggero e robusto, l’EF 300mm f/2,8L IS II USM offre una straordinaria qualità di immagine.

Canon EF-S 10-22mm f/3,5-4,5 USM Zoom ultragrandangolare con capacità espressiva dinamica, pensato per tutte le reflex EOS che utilizzano obiettivi EF-S: eccezionalmente piccolo e leggero, garantisce la massima portabilità.

Canon EF 400mm f/2,8L IS II USM Super teleobiettivo Serie L ad alte prestazioni con stabilizzatore di immagine a quattro stop e tre modalità. Con un design robusto ed efficace, l’EF 400mm f/2,8L IS II USM è ideale per la fotografia di sport e naturalistica.


Canon EF-S 17-55mm f/2,8 IS USM Con un’apertura costante di f/2,8 sull’intera escursione focale e uno stabilizzatore di immagine da tre stop, il dinamico zoom EF-S 17-55mm f/2,8 IS USM garantisce e assicura prestazioni fotografiche sorprendenti e la massima versatilità di inquadratura, anche in condizioni di scarsa luminosità.

Canon EF-S 55-250mm f/4-5,6 IS II Compatto e agile, lo zoom EF-S 55-250 mm f/4-5,6 IS II garantisce prestazioni di alto livello fotografico. In condizioni di scarsa luminosità, lo stabilizzatore di immagine fino a quattro stop con rilevazione automatica e immediata del “panning”, del quale è dotato, elimina efficacemente le sfocature.

con ogni obiettivo.

Che sia un macro, un supertele o un grandagolare, cambiare obiettivo offre prospettive completamente nuove in ogni scenario. Con oltre sessanta focali, tra le quali scegliere, il sistema ottico Canon propone ciò che serve per raccontare storie fotografiche sempre diverse e personali.


«Questo progetto è dedicato alla memoria del mio amico John Szarkowski»

JOHN SZARKOWSKI, NORTH DAKOTA; 2001

Lee Friedlander

La fotografia è un’espressione visiva sofistica, elegante e intrigante: capace di dare l’aspetto della verità alle proprie illusioni. È soprattutto questo il senso della lunga ed entusiasmante successione di visioni di America by Car, di Lee Friedlander: tutte composizioni bianconero, rigorosamente quadrate (Hasselblad Super Wide), riprese dall’interno dell’automobile a noleggio con la quale sta viaggiando. Osservato attraverso cruscotti di plastica, volanti di guida e accessori di conforto, e spesso miniaturizzato negli specchietti laterali, il paesaggio statunitense è inviolabilmente definito da un concentrato di illusione che sprigiona una sorta di nuovo e inatteso mistero (della visione) 50


di Maurizio Rebuzzini

S

NEBRASKA; 1999

olitamente, quando si debbono segnalare esperienze certe della fotografia, influenti sul suo linguaggio espressivo, si fa sempre riferimento agli anni Cinquanta, illuminati da tre diversi modi di raffigurare la realtà, che si sono allungati in avanti nei decenni. Tre raccolte fotografiche stabilirono i princìpi inviolabili della fotografia del vero degli anni a seguire: Images à la sauvette, di Henri Cartier-Bresson, del 1952 (con relativa edizione statunitense The Decisive Moment ); Les Américains, di Robert Frank, del 1958 (con convincente edizione attuale Gli americani, pubblicata nel 2008 da Contrasto; FOTOgraphia, giugno 2008); e Life is good and good for you in New York, semplicemente storicizzato come New York, di William Klein, del 1956. Dopo di che, soprattutto in Italia, si individuano altre certezze espressive nei movimenti fotografici europei, in generale, e nelle correnti tedesche, in particolare. Tanto che la fotografia artistica contemporanea è definita da richiami e riferimenti spesso limitati alla definita “Scuola di Düsseldorf”, nata dai coniugi Bernd e Hilla Becher, che ha tratteggiato i termini di una oggettività di visione che è presto trasmigrata in molteplici direzioni e ha influenzato un poco tutta la fotografia espressiva dagli anni Settanta [FOTOgraphia, maggio 2010]. Così facendo, non si prende in considerazione una straordi-

LONE PINE, CALIFORNIA; 2009

naria stagione fotografica statunitense, che si è manifestata e rivelata a partire dagli anni Sessanta (senza nulla da spartire con il Sessantotto europeo e neppure con i movimenti pacifisti americani coevi). Soprattutto, non si dà legittimo merito a una delle figure fondamentali del secondo Novecento fotografico, una delle personalità più influenti della cultura fotografica contemporanea: John Szarkowski, dal 1962 al 1991 direttore del dipartimento fotografico del Museum of Modern Art, di New York. In particolare, tra tanti meriti, sempre e soprattutto si dovrebbe sottolineare il peso, valore e spessore della rassegna The New Documents, con la quale John Szarkowski accese i riflettori su tre fantastiche personalità d’autore (allora, non ancora conosciute): Garry Winogrand, Diane Arbus e Lee Friedlander, presentati in collettiva, al MoMA, dal ventotto febbraio al sette maggio del 1967. Una autentica folgorazione! Un passo nuovo della fotografia contemporanea che osserva il reale, in delicato equilibrio tra oggettività di pretesto e soggettività di visione e rappresentazione. Quelle interpretazioni originarie e l’evoluzione espressiva che ciascuno dei tre autori ha poi avviato e attivato nel proprio percorso individuale (che nel caso di Diane Arbus si è tragicamente interrotto nel luglio 1971, quando la fotografa ha posto volontariamente fine ai propri giorni, all’età di quarantotto anni) hanno fatto scuola, suggestionando e influenzando i tempi fotografici successivi.

FANTASTICA

ILLUSIONE

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ZION NATIONAL PARK, UTAH; 2007 ALABAMA; 2008

LEE FRIEDLANDER Nel frattempo, anche Garry Winogrand è mancato: nel 1984, a cinquantasei anni. Così, dei tre autori per i quali l’autorevole John Szarkowski coniò l’ipotesi espressiva di New Documents rimane soltanto Lee Friedlander, che lo scorso quattordici giugno ha compiuto settantasette anni. Tra tanti meriti fotografici, misurati sulle immagini realizzate nel corso degli anni, dei decenni, Lee Friedlander ne ha conquistati an-

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che con considerazioni, diciamo così, a margine dell’atto fotografico in sé. In questo senso, per diritto di anagrafe, qualcuno di noi, qui in Italia, lo ha conosciuto di riflesso a un fantastico approfondimento fotografico di Ugo Mulas dell’inizio degli anni Settanta. La Verifica 2, di Ugo Mulas, intitolata L’operazione fotografica, si presenta anche con il sottotitolo-dedica di Autoritratto per Lee Friedlander. Così facendo, Ugo Mulas sottolineò una delle considerazioni di Lee Friedlander, che per l’appunto ha notato come la figura più presente emotivamente al momento dello scatto -il fotografo stesso- sia assente dall’immagine. Da cui, nelle sue fotografie di quegli anni, spesso Lee Friedlander è presente nell’inquadratura e composizione come ombra o riflesso. Comunque, la Verifica 2 - L’operazione fotografica (Autoritratto per Lee Friedlander ; Ugo Mulas in gesto fotografico esplicito, riflesso in uno specchio appeso alla parete, attorno al quale si proietta anche la sua ombra), nella presentazione dello stesso Ugo Mulas: «Qualche tempo dopo l’Omaggio a Niépce [Verifica 1 ], ho voluto verificare un altro aspetto della realtà della fotografia: la macchina [fotografica]. Contro la finestra c’è uno specchio, il sole batte sulla finestra, ne proietta l’ombra di un montante contro la pa-


NEW YORK CITY; 2002 TEXAS; 1997

AMERICA BY CAR Lee Friedlander è ancora in attività. È ancora in movimento (è il caso). È ancora brillante come sempre. Un anno fa, nell’autunno 2010, dal quattro settembre al ventotto novembre, il Whitney Museum of American Art, di New

MONTANA; 2008

rete e insieme proietta la mia ombra. Da quest’ombra si vede che sto fotografando, e la mia azione appare anche nello specchio. In ambedue due i casi c’è un elemento comune: la macchina cancella il viso del fotografo, perché è all’altezza dell’occhio e nasconde i tratti del volto. La verifica è dedicata a quello che io credo sia il fotografo che più ha sentito questo problema, e ha tentato di superare la barriera che è costituita dalla macchina, cioè il mezzo stesso del suo lavoro e del suo modo di conoscere e di fare. Forse, qui come nel successivo Autoritratto con Nini [Verifica 13 ], c’è l’ossessione di essere presente, di vedermi mentre vedo, di partecipare, coinvolgendomi. O, meglio, è una consapevolezza che la macchina non mi appartiene, è un mezzo aggiunto di cui non si può sopravvalutare né sottovalutare la portata, ma proprio per questo un mezzo che mi esclude mentre più sono presente».

York, ha presentato una avvincente e appassionante mostra di fotografie recenti di Lee Friedlander, scattate in un arco di tempo di quindici anni, dal 1992, ma soprattutto dopo il 2005. Scandito al ritmo di centonovantadue soggetti, riuniti anche nella monografia omonima, che sopravvive all’esposizione degli originali (duecento pagine 23x24cm), il progetto America by Car compone i tratti di una fantastica illusione, all’interno della quale realtà e finzione si inseguono e rincorrono continuamente.

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MONTANA; 2008 NEW MEXICO; 2008

In semplificazione, si tratta di fotografie a composizione quadrata, allestite in mostra in dimensioni generose (38,1x38,1cm), di paesaggi statunitensi visti, osservati e illustrati attraverso il parabrezza dell’automobile o dal suo finestrino. E qui sta l’essenza stessa dell’evocazione attraverso la fotografia (che sia dal e del vero o costruita non importa): quella di indirizzare la mente e il cuore dell’osservatore verso l’illusione. Attenzione: illusione, non inganno; ovverosia, verso il piacere,

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non il fastidio. E qui, se soltanto volessimo farlo, dovremmo scomodare lezioni filosofiche antiche, lezioni antecedenti la fotografia, che curiosamente ne anticiparono alcuni princìpi fondanti. Già nel 1777, il filosofo tedesco Immanuel Kant, uno dei più importanti esponenti dell’illuminismo, approfondì il campo dell’illusione: “dialettica” che assume significato di logica della parvenza. Ovvero, arte sofistica in grado di dare alle proprie illusioni l’aspetto della verità, a prescindere dal sapere fondato. Da cui, il teatro (e non a caso, nel suo La camera chiara, Roland Barthes collega la fotografia al teatro, più che alla pittura). Da cui, più in banalità, il gioco dei bambini, consapevoli di applicare/esercitare un’illusione con aspetto di verità: e relativa declinazione del gioco all’imperfetto (io ero, tu eri, lui era...). I fotografi espressivi e creativi statunitensi degli anni Cinquanta-Sessanta hanno attraversato il paese con una macchina fotografica tra le mani, a bordo di una automobile altrettanto indispensabile (e qualcuno lo ha fatto con in tasca una borsa di studio Guggenheim). Ma cosa succede se durante il viaggio il fotografo non lascia l’abitacolo della sua automobile? È stato questo il pensiero (perverso?) che ha ispirato la lunga successione


CALIFORNIA; 2008 LAS VEGAS, NEVADA; 2002

IL TEMPO DELL’ILLUSIONE Per dare senso e spirito alla propria fantastica illusione, Lee Friedlander non ha composto uno stile narrativo coerente, geografico e/o temporale, ma ha scandito tempi alterni, che si ritrovano nella sequenza delle pagine del libro (sul quale le foto-

VICKSBURG, MISSISSIPPI; 2008

di visioni di America by Car, di Lee Friedlander: tutte composizioni bianconero, quadrate, riprese dall’interno dell’automobile a noleggio con la quale sta viaggiando («raffinato senso della composizione e spirito visivo eccezionale», per The Wall Street Journal ). Osservato attraverso cruscotti di plastica, volanti di guida e accessori di conforto, e spesso miniaturizzato negli specchietti laterali, il paesaggio statunitense è inviolabilmente definito da un concentrato di illusione che sprigiona una sorta di nuovo e inatteso mistero (della visione), assai diverso dal mistero originario della fotografia al quale ognuno è ormai assuefatto e abituato. Si impone un nuovo ritmo fotografico, che probabilmente ha qualche modesto debito di riconoscenza con le ombre e i riflessi attraverso le quali e i quali lo stesso Lee Friedlander è stato partecipe nelle sue fotografie dei decenni scorsi.

grafie sono stampate in modo impeccabile, in doppio tono di grigio), e che hanno definito l’allestimento scenico al quinto piano del Whitney Museum of American Art, di New York, nell’autunno 2010 (a cura di Elisabeth Sussman, responsabile del dipartimento fotografico del Museo). La combinazione e sequenza sono dettate più dall’omogeneità dei soggetti che da altro. «Attraverso i luoghi, raccolta di brillanti osservazioni sulla popolazione americana, le sue idiosincrasie, eccentricità e ossessioni;

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LAS VEGAS, NEVADA; 2007 LAS VEGAS, NEVADA; 1997

e il suo amore per tutto e tutti», ha commentato l’autorevole The New Yorker. «Ritratto dell’America vista e raffigurata come un paesaggio splendido, grintoso, diversificato e di gusto opinabile», ha rilevato il Los Angeles Times. Quale delle due espressioni è più vicina al vero? Entrambe sono equidistanti dall’illusione della fotografia, che invece è chiara all’autore. In metafora (qui a tema): “Gli oggetti nello specchio sono più vicini di quanto sembra”. Con convinzione e consapevolezza, Lee Friedlander ha foto-

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grafato con una Hasselblad Super Wide, il cui Carl Zeiss Biogon 38mm f/4,5 ha accelerato in modo tangibile la prospettiva -soprattutto negli spazi ridotti dell’abitacolo-, dando al primo piano una maggiore immediatezza rispetto al paesaggio sullo sfondo. Subito a seguire, ci sta poi l’accuratezza di composizione e inquadratura: lessico sul quale si basa l’esercizio stesso della fotografia (la sua fantastica illusione), che dalla raffigurazione naturale approda alla rappresentazione consapevole e volontaria. Punti di vista, allineamenti architettonici, piani scanditi e sequenziati, dettagli nascosti e particolari messi in bella vista: ecco gli strumenti del raccontare per immagini fotografiche. La cornice attraverso la quale tutto è osservato, l’abitacolo dell’automobile (volante, portiera, radio), attraversa sempre l’immagine. A volte, mette ordine in un incrocio caotico; altre volte, delimita confortevolmente una scena industriale; altre volte, ancora, ostacola coscientemente una vista pittoresca, quanto stucchevole e stomachevole (una chiesa del New England o un paesaggio stereotipato delle Montagne Rocciose). Molte fotografie sono dirette ed esplicite: la maggior parte dell’intera serie di centonovantadue soggetti. Alcune sono però ver-


ALASKA; 2007 MONTANA; 2008 LEE, NEW CITY, NEW YORK; 2007

tiginosamente complesse: quando l’inquadratura è stata (intenzionalmente) costruita su una incessante sequenza di piani-immagine, che si sovrappongono gli uni ai successivi senza dare modo e tempo di distinguerli adeguatamente tra loro. A volte, si ha la sensazione di osservare un trompe l’œil nel quale retrocede l’idea di illusione e avanza quella di inganno. Ma è un inganno morbido e tenero -come soffice è tutta la fotografia di amore di Lee Friedlander-, che non dà fastidio, ma affretta soltanto l’illusione di partenza. E illusione sia, sempre e soltanto. Indipendentemente dalla cronologia originaria degli scatti, dalla messa in pagina e dall’allestimento scenico in mostra -che non necessariamente rispecchiano quanto stiamo per affermare, in conclusione-, la serie America by Car, di Lee Friedlander, ha un inizio (ideologico) e una fine (esplicita e dichiarata). L’inizio è nel ricordo di John Szarkowski, direttore del dipartimento fotografico del Museum of Modern Art, di New York, che nel 1967 fece conoscere la fotografia di Lee Friedlander (e Garry Winogrand e Diane Arbus), con l’epocale rassegna The New Documents. John Szarkowski è mancato nel luglio 2007; Lee Friedlander lo ha incontrato nel North Dakota, nel 2001, fotografandolo attraverso

il finestrino del passeggero, in posa con la Deardorff 4x5 pollici su treppiedi [a pagina 50]. Questo John Szarkowski è presente all’interno della sequenza delle immagini, ma è anche ricordato prima del viaggio, nelle pagine introduttive della monografia. La fine è un autoritratto di Lee Friedlander, l’unica volta che è uscito dall’abitacolo (in senso fotografico): affacciato al finestrino del guidatore, con il gomito destro appoggiato alla portiera e il braccio sinistro proteso verso il volante [qui sopra]. Fine. ❖

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Guido Bissattini con FOTOgraphia di aprile 2011 ne abbiamo parlato


SWPA

DAL201 1

a cura di Angelo Galantini

OPEN People e Smile

Quinto, e ultimo, di cinque appuntamenti programmati (dallo scorso luglio), dal Sony World Photography Award 2011, del cui svolgimento abbiamo riferito il precedente giugno, andando sottotraccia e approfondendo connessioni e considerazioni opportunamente cadenzate e scandite. Una volta ancora, una di più, mai una di troppo, in ripetizione d’obbligo: oltre tanti altri propri valori espliciti e impliciti -a partire dalla fantastica promozione di se stesso e della fotografia in toto (ben presentata ed esposta in un palcoscenico di richiamo, come è stato quello di Londra)-, il concorso Sony ha il considerevole merito di dare risalto anche a una fotografia non professionale di effettiva espressività e concretezza (in sovramercato, spesso proveniente da paesi estranei al consueto circuito della fotografia occidentale). Da cui, la nostra caparbia segnalazione delle fotografie segnalate nelle sezioni Open (fotografia non professionale) ribadisce e conferma come e quanto la fotografia sia una passione diversa da ogni altra. Diversa, sia chiaro e dichiarato, perché... migliore! Dopo Action e After Dark (luglio), Architecture e Panoramic (settembre), Arts and Culture e Fashion (ottobre) e Nature and Wildlife e Travel (novembre), le ultime due categorie Open del Sony World Photography Award 2011. Sony World Photography Award 2011 Open - People: vincitore di categoria, Raghu Ranjan Sarkar (India). Sony World Photography Award 2011 Open - Smile: vincitore di categoria, Carlos Henrique Reinesch (Brasile).

A luglio, settembre, ottobre e novembre, dalla sezione Open del Sony World Photography Award 2011 (fotografia non professionale): Action e After Dark, Architecture e Panoramic, Arts and Culture e Fashion, Nature and Wildlife e Travel.

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GUNDEGA SUNDEW (LETTONIA): OPEN PEOPLE

DANNY COHEN (AUSTRALIA): OPEN PEOPLE

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SYAZA MOHAMMED SHAKHARULAIN (MALESIA): OPEN SMILE

PASCAL FLECHTER (SVIZZERA): OPEN SMILE

VIKTORIJA VALSVILAITE SKIRUTIENE (LITUANIA): OPEN SMILE JAMES CHONG (SINGAPORE): OPEN SMILE



Sguardi su

di Pino Bertelli (Piombino, dal vicolo dei gatti in amore, 6 volte ottobre 2011)

I

JOEL-PETER WITKIN

I maestri sono fatti per essere cotti e serviti in salsa piccante (Pier Paolo Pasolini diceva). E falsa sia la fotografia che non susciti l’indignazione contro le mediocrità, le menzogne e le ipocrisie della società consumerista. Chi fotografa bene si è già dato mezza risposta (alla buona coscienza) e comprende che laddove l’arte finisce comincia la vita. I grandi talenti non disertano le tempeste sociali e sono capaci di sorprendere se stessi nella fine gioiosa di ogni forma di autoritarismo. Infatti, la grande fotografia ha sempre abbandonato la sua via consumerista, smarrendola... si è fatta ponte e non scopo. Un’epoca nella quale i linguaggi massmediali figurano il buio delle economie-politiche, e la fotocrazia liquida suggerisce a una corte di vassalli un’apparente ricchezza artistica, non ha bisogno di profeti, ma di ribelli! Si tratta di non portare rispetto a nessuna arte, bensì di avere il coraggio di farla. La fotocrazia liquida è parte integrante dei dispositivi comunicazionali della società consumerista, che si avvale di macchine per far vedere e far parlare. Con le macchine da guerra sostiene i mercati globali e i popoli impoveriti sono massacrati sotto ogni cielo della civiltà dello spettacolo o postmoderna. Il potere non è più nel Palazzo d’inverno o nel castello del re, che potevano essere assaltati e dati alle fiamme insieme ai loro illustri padroni. Nella società consumerista, il potere è altrove: nei caveau delle grandi banche, nella finanza internazionale, nella politica connivente con la criminalità che gioca in Borsa. Pochi si arricchiscono sempre più, molti sono costretti alla disperazione, alla paura e alla fame. La globalizzazione «sposta il benessere verso altri luoghi e porta all’interno la povertà, quindi sei

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davvero spaventato da cose reali, dal tuo lavoro, dal tuo futuro, dalle tue prospettive. Tutte paure reali, che però vengono spesso riferite ad ambiti che, pur essendo legati a tali paure, non ne sono in alcun modo responsabili. Quando li definisci come le cause dei tuoi problemi, incominci a combatterli, inizi a comportarti come se vivessi in un luogo davvero pericoloso ed esplosivo» (Zygmunt Bauman) inizi (attraverso i rizomari della disobbedienza urbana, periferica o migrante e la capacità comunicazionale dei social network) a tessere relazioni, germinare speranze, accrescere il rispetto di sé e degli altri, che vanno a scatenare rivoluzioni libertarie, rovesciano l’arte di tutta la dialettica della tolleranza nell’arte di apprezzare e condividere le differenze («non voglio essere tollerato, ma compreso», Pier Paolo Pasolini diceva). I migranti della Terra non arrivano in paesi stranieri per il piacere di fare una vacanza premio di qualche azienda farmaceutica (che produce veleni Ogm per le multinazionali), ma per sopravvivere alle guerre, ai genocidi, ai saccheggi delle potenze occidentali e dei regimi comunisti.

DELLA FOTOCRAZIA CONSUMERISTA La fotocrazia liquida o consumerista si conforta con la propria abilità di smerciare il diverso, il mostro o la teatralità costruita dei freaks come arte. Joel-Peter Witkin -che si è autodefinito un “genio”, e forse uno stupido non è, visto il successo e il consenso che le sue “baracconate fotografiche” suscitano in mercanti, critici e galleristi del mondano d’autore- lavora con la pazienza di un boia sgraziato all’enumerazione dell’anomalia estetizzata. La sua catenaria fotografica poggia sull’enunciazione profetica, provocatoria, esibizionista: ma ciò che emerge da ogni im-

magine non è la differenza, ma la maschera. L’universalità del vero è da un’altra parte. Joel-Peter Witkin è ciò che il grande fotografo ha cessato di essere. La fotografia che vale comprende verità d’enunciazione, verità di luce, verità di soggettivazione (diceva Michel Foucalut, a proposito degli arnesi del comunicare). La verità è l’effettuazione compiuta (ma non necessariamente) delle linee e delle forme che costituiscono un opera d’arte. Per non morire di note biografiche, dimenticate. Joel-Peter Witkin nasce a Brooklyn, nel 1939; il padre è ebreo, la madre cattolica osservante (una beghina). Ha un fratello gemello, Jerome, pittore non troppo noto. Frequenta la scuola di Saint Cecelia, di Brooklyn, e poi la Gover Cleveland High School. Tra il 1961 e il 1964, lavora come reporter di guerra in Vietnam, e nel 1967 diventa il fotografo ufficiale della City Walls Inc; continua gli studi alla Cooper Union, di New York, e si specializza in scultura. La Columbia University gli concede una borsa di studio, e si laurea all’Università del New Mexico, di Albuquerque. Di lì a poco, diventerà un fotografo di successo, considerato dalla stampa specializzata un “maestro della fotografia”. Le turbe di adepti (non solo le pulci amatoriali) sono assetate dell’“arte provocatoria” di Joel-Peter Witkin, e ciascuno scorge nelle sue immagini i riferimenti pittorici ai quali lui stesso dice di ispirarsi (Beato Angelico, Rembrandt, Goya). Vero niente. Sono solo copie di un’infinita menzogna culturale. L’iconografia di Joel-Peter Witkin è un prontuario estetico di “situazioni estremizzate”, che modellano la surrealtà (che non c’è) al teatrino (tableaux vivants) dei simulacri che nella storia dell’arte (non solo) hanno preso il posto della realtà e contribuito

a erigere le forche contro i portatori di verità ereticali. Joel-Peter Witkin afferma di essere un cattolico praticante, e la religione ha influenzato molto il suo lavoro. Non c’importa sapere se è vero; le sue fotoscritture corrispondono a un’elegia del sacro (“profanato in apparenza”), che dissemina nei luoghi deputati al riconoscimento artistico/mercantile e non contiene nessuna liquidazione della beatitudine (dopo il riscatto della colpa), per accedere al regno di Dio. Joel-Peter Witkin si è fatto santo subito, e la sua arte più riuscita è quella della firma sul libretto degli assegni. «Faccio il mio lavoro per me stesso, e non per gli altri. Gli artisti commerciali, quelli dotati di poco talento, lavorano per gli altri. Realizzo i miei scatti per illuminare me stesso e chiunque voglia osservare i miei lavori». È vero, JoelPeter Witkin illumina se stesso e poco altro intorno a lui. Il “surrealismo macabro” che lo ha reso celebre lo proietta in un parco di artisti dell’eccentricità domestica. Quando un artista è davvero un iconoclasta dell’ordine costituito, i giannizzeri del potere lo relegano nelle galere del silenzio (Rimbaud, Atget) o lo suicidano (van Gogh, Artaud). Poi, il mercato recupera anche le cimici dei grandi poeti e le vende imbalsamate all’asta dell’ennesima celebrazione istituzionale. Essere un grande poeta vuol dire essere frainteso!

SULLA FOTOCRAZIA LIQUIDA DI JOEL-PETER WITKIN La prima fotografia incanta, le seconda uccide: se davvero è una rottura dell’ordine del discorso che impera sull’esistenza addomesticata degli uomini. L’inattuale è l’incrinatura inaccettata o l’alterità estetica/etica che crea dissidi, e sulla soglia di indicibili verità inceppa la pra-


Sguardi su tica discorsiva di ogni forma d’arte commissionata. Le stelle di ogni firmamento artistico stanno a guardare, e intanto i ragazzi con i piedi scalzi nel sole e la pioggia sulla faccia tirano i sassi ai carri armati! L’indignazione è il primo passo verso la rivolta della dignità; il passaggio alla critica radicale e all’abbattimento di ogni sorta di mitologie sul buon governo è quello successivo. Ogni servitù è volontaria e poggia solo sul consenso di coloro sui quali si esercita il potere. «Siate risoluti a non servire, e sarete liberi» (Étienne de la Boétie diceva, nel 1500). La bellezza della libertà (non solo artistica) è sempre al di là del bene e del male. Il surrealismo macabro che deborda dalle fotografie di JoelPeter Witkin mostra lo “scandalo” di una fede annunciata e mai tradita. L’ossessione per i cadaveri (teste tagliate, corpi deformi) è orientata verso un “mostruoso” patinato e il dissacrante da operetta. Non è tanto l’orrido mercificato di Joel-Peter Witkin che ci fa sorridere, quanto la persistenza del suo sguardo in quel “surrealismo d’accatto” che nulla ha a che fare con la rivoluzione profonda dell’arte surrealista nel corpo della società, ed è invece il cantico rovesciato di un’umanità accettata nelle proprie mostruosità conviviali: a tratti, conteniamo il vomito. L’estetica del “brutto”, che è al fondo della fotografia di JoelPeter Witkin, non solo apologizza l’orrendo, ma lo rende martire di fronte a dio e alla merce. I suoi lavori trovano sicuramente un posto di riguardo non solo nei centri commerciali, ma anche nei musei vaticani. Intanto, i galleristi sono proni alle richieste del mercato. La “cattiva reputazione” di un artista o incendia gli usi e i costumi della propria epoca o finisce nel letamaio dell’arte buona per tutte le stagioni del mercimonio. Joel-Peter Witkin sostiene che le sue visioni fotografiche sono dovute a un episodio che aveva visto da bambino, un inci-

dente d’auto avvenuto di fronte alla sua casa, nel quale una bambina era rimasta decapitata: «Successe di domenica, quando mia madre, io e mio fratello gemello stavamo scendendo le scale del palazzo in cui abitavamo. Stavamo andando in chiesa. Mentre camminavamo lungo il corridoio, verso l’ingresso del palazzo, abbiamo sentito uno schianto incredibile, insieme a urla e grida in cerca di aiuto. L’incidente ha coinvolto tre vetture, tutte e tre con famiglie complete dentro. In qualche modo, nella confusione, non stavo più tenendo la mano di mia madre. Nel punto in cui mi trovavo sul marciapiedi, ho potuto vedere qual-

te, puttane regali, storpi, nani, gobbi, teste mozzate. Il bestiario del fotografo statunitense è vario, prolisso, nauseante fino al ridicolo. Lo vende bene, con intelligenza da antico bottegaio, e a ben vedere in tutta la sua opera non c’è una sola goccia di bellezza autentica. Il poeta nobile è colui che solleva il velo dei pregiudizi, scopre l’impostura e la falsificazione e mostra la crudeltà dell’evidenza. La fotografia di Joel-Peter Witkin celebra se stessa e nulla più. L’uso costante del bianconero, graffi sulla pellicola, tagli impervi, accostamenti grossolani, inquadrature d’impianto teatrale... sono l’armamentario della

«Non siamo ancora capaci di sentire il lezzo della divina putrefazione? Anche gli dèi si decompongono! Dio è morto! Dio resta morto! E noi lo abbiamo ucciso! Quanto di più sacro e di più possente il mondo possedeva fino a oggi, si è dissanguato sotto i nostri coltelli» Friedrich Wilhelm Nietzsche cosa che rotolava da una delle auto rovesciate. Si fermò sul marciapiedi dove mi trovavo. Era la testa di una bambina. Mi chinai a toccare il viso, per parlargli, ma, prima che potessi toccare, qualcuno mi ha portato via». Gli ottimisti in eterno hanno la morte nel cuore, ma quando il mistero crolla (l’ordine di ogni compagnia, non solo di Gesù) non restano che i suoi escrementi a iniziare folle di imbecilli a cantare i salmi del potere. Le allegorie fotografiche di Joel-Peter Witkin ripropongono ossessivamente tematiche della morte, dell’amputazione, del nudo violato da cavalli, cani, bambole, false lapidazioni, cristi ridicoli (ma questo non è nemmeno un male), regine sgrazia-

decantata irriverenza che viene attribuita alla sua opera intera. La blasfemia non c’entra, tantomeno l’insubordinazione nei confronti delle convenzioni (come è stato scritto fino alla nausea). L’apparente profanazione del sacro resta in superficie, e nelle sue corpografie sembra non esserci redenzione, né condanna, dell’uomo, della donna di fronte al mistero di Dio e dei suoi servi. C’è, invece, la sagacia di un opportunista furbo, che fornisce materiali visivi sui quali dibattere, dove l’apocalisse è di cartapesta e le deformità dei soggetti fotografati esprimono nel proprio insieme la “santa asinità” dell’ignoranza miracolata. L’arte (non solo) fotografica ha gli araldi che può, la filosofia ere-

ticale/libertaria, i suoi: e raramente sono gli stessi. A leggere con attenzione alcune immagini di Joel-Peter Witkin -nelle quali molti hanno visto “una tensione ideale verso la salvezza”-, ci troviamo nella medesima situazione dell’eretico che, prima di essere impalato e bruciato vivo, disse: «Gli stolti ignorano ciò che separa il potere dall’immaginazione. Là dove non c’è bellezza, non c’è stupore; e quando si è troppo tristi, si è simili a dei cani aggressivi che non hanno imparato a ridere di sé, ma solo a mordere». Solo gli stupidi diventano cattivi. Ogni eresia è un assassinio per entusiasmo dei poteri forti. Non c’è elogio sul buon governo che non uccide. I soli artisti che contano sono quelli che non hanno patria, non aderiscono a nessun partito, né giustificano le proprie ossessioni mercantili con la necessità di mangiare. Ancora. A guardare una celeberrima fotografia di Joel-Peter Witkin, Venus Preferred to Christ, è difficile scorgere nello sfondo giottesco (decentralità della croce sulla quale è appiccicato un feto informe e una donna nuda in primo piano con un frate in polemica adorazione) «l’umanità orfana di redenzione», come qualcuno ha scritto. L’insieme ci appare piuttosto una sorta di “montaggio delle attrazioni”, nemmeno ben fatto, che rimanda a una falsa innocenza e nulla riflette le asperità del genere umano. Ancora, ancora. Invece, Woman Once a Bird è un corpo di donna, seduto, visto di spalle, stretto in un bustino, sulla schiena due segni di ali tagliate (di angelo, pipistrello o pappagallo è la medesima cosa; Man Ray / Violon d’Ingres non c’entra, muore da ridere nel più alto degli inferni), che sembrano indicare una solerte tortura. Alcuni ci hanno visto una critica della violenza o la violazione della libertà. Joel-Peter Witkin non la dice così; lascia al lettore una finestra aperta sull’inconcludenza e la salvezza delle anime belle alla società istitui-

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ta. Giocare con «lo spirito puro rasenta l’indecenza» (E.M. Cioran); il cinismo mal compreso è il sale della miseria. Ancora, ancora, ancora. In Crucified Horse, Joel-Peter Witkin è folgorato dall’ispirazione blasfema (si fa per dire), e sulla croce, al posto del corpo di Cristo, ci mette la carcassa di un cavallo. La simbologia è di quelle divertenti: in fondo, l’effigie di quello che resta di un cavallo, o il volto sofferente di Cristo, appartiene alla medesima impostura. Nietzsche ci avverte: «Chi toglie è un artista; chi aggiunge è un calunniatore». I cavalli, i cani, i feti deformi, le teste esposte in un vassoio, i nudi deturpati di uomini e donne... sono raffigurati da Joel-Peter Witkin alla maniera di un cattivo pittore di provincia: mette troppa roba nell’inquadratura, e il sovraccarico dei segni svuota l’immagine di un qualche significato che non sia apologia dell’estetismo. Le grandi fotografie esprimono talento o temperamento; le fotografie più consumate, idolatrate o copiate malamente non posseggono né l’uno né l’altro. Ancora, ancora, ancora, ancora. L’erezione di un cavallo imbracato (senza testa) sopra una donna nuda, mascherata, che lo masturba, è abbastanza banale. Naturalmente, lo sfondo è agreste; l’impianto generale è quello delle scampagnate domenicali per famiglie dabbene. Ci sono cose che -mostrandole- inducono all’ovvietà funesta. Ogni opera d’arte si definisce per il suo contenuto di novità e creatività, che indica la capacità di incrinare i valori dominanti e trasformarsi in bellezza annunciata della società che viene. Il rizomario figurativo di JoelPeter Witkin -che siano “nature morte”, “annunciazioni mariane”, citazioni di Botticelli, Goya, Picasso, Velazquez, Ernst, Bosch, Gericault, Renoir o reinterpretazioni di personaggi mitologici (Apollo, Dafne, Leda, Cupido, il Centauro, le Grazie)- rimanda a una continua ripetizione dei segni imposti, che si trascolorano

in una sorta di malattia degenerativa dello stereotipo e nulla più. In questo fare-fotografia c’è un lessico della genuflessione e non un lessico dell’ostilità o dell’irriverenza contro i bavagli della politica o i lupanari della fede. Ogni congiura ha i propri teatri, e più si praticano le delizie dell’insurrezione della dignità, tanto meglio ci si affranca all’urgenza di una seminagione dell’anarchia. La grande fotografia in utopia (Diane Arbus, per esempio) coglie il vero nella surrealtà (o interpretazione soggettiva del reale) e progetta l’avvenire o lo disvela. La fotografia autentica non è il luogo di un reale impossibile, ma l’officina della verità del domani. Nulla di ciò che accade nella strada è chimerico e l’immaginazione (quando non gira a vuoto), è il grimaldello passionale dell’inedito. Sognare la fotografia del vero, del bello, del giusto non equivale a restaurare la realtà? Dare una pedata al crocifisso o schiacciare la testa di primo ministro è la medesima cosa: l’uno e l’altro servono a mantenere l’ordine pubblico. L’infelicità degli uomini viene dal fatto che non sono mai stati capaci di dare alle fiamme i centri del potere (con quanto c’era dentro). A cosa serve la libertà davanti al cadavere di un bambino saltato in aria sulle mine antiuomo fabbricate in Italia, Cina, Russia o Stati Uniti (o farsi sodomizzare da un cane in una fotografia di Joel-Peter Witkin)? A niente. Ad accettare solo la sottomissione ai costumi e alle politiche dell’assassinio mascherato dalla benevolenza istituzionale. A voler cambiare la cupidigia degli uomini ci si vota alla solitudine o alla rivolta. Il coraggio della libertà è un pensiero forte: disseminato con la dovuta intelligenza, può diventare un veleno potente. L’epifania della gioia è l’accoglienza, la fraternità, il rispetto del diverso da sé; e sulle barricate della ragione che si emancipa (al prezzo di strazianti rivolte insanguinate) annuncia un’epoca felice: che è la dolcezza di essere e di vivere tra liberi e uguali. ❖




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