Mensile, 6,50 euro, Poste Italiane SpA - Spedizione in abbonamento postale - D.L. 353/2003 (convertito in Legge il 27-02-2004, numero 46), articolo 1, comma 1 - DCB Milano
ANNO XIX - NUMERO 179 - MARZO 2012
World Press Photo 2012 ALL’APICE DEL FOTOGIORNALISMO
Irving Penn SMALL TRADES
Non è venduta in edicola. Per averla hai una sola possibilità: sottoscrivere l’abbonamento annuale. 12 numeri 65,00 euro
Abbonamento 2012 (nuovo o rinnovo) in omaggio 1839-2009
Dalla Relazione di Macedonio Melloni alla svolta di Akio Morita M A U R I Z I O
R E B U Z Z I N I
1839-2009 Dalla Relazione di Macedonio Melloni alla svolta di Akio Morita
Come dire, dal dagherrotipo all’acquisizione digitale di immagini. E consecuzioni
INTRODUZIONE
DI
GIULIANA SCIMÉ
F O T O G R A P H I A L I B R I
prima di cominciare ANCORA, MORIRE PER RACCONTARE LA STORIA. Altre due vittime tra i giornalisti inviati di guerra: Marie Colvin, cinquantacinquenne, americana, corrispondente del Sunday Times, e il ventottenne fotografo francese Rémi Ochlik, dell’agenzia Ip3 Press, recente primo premio General News Stories al World Press Photo 2012 con una reportage sulla rivoluzione libica [su questo numero, da pagina 24], sono morti il ventidue febbraio sotto una bomba, a Homs, in Siria, città simbolo della ribellione contro il dittatore Al Assad; altri quattro reporter sono rimasti feriti. L’ordigno è caduto sul centro stampa allestito dai ribelli nel quartiere di Bab Amr. Dal racconto dei testimoni, sembra che i due reporter siano stati uccisi da una bomba delle forze governative fedeli al regime. Un video diffuso dagli attivisti su Internet mostra l’edificio quasi interamente distrutto. Tra le macerie, si intravedono due cadaveri, ma è impossibile capire le identità e anche il sesso. Entrambi i giornalisti morti hanno seguìto numerosi conflitti dei nostri giorni. Rémi Ochlik ha svolto assignment per diverse testate, tra le quali Le Monde, Paris Match, Time Magazine e The Wall Street Journal; dal 2005, con la propria agenzia fotografica Ip3 Press. Da tempo, la statunitense Marie Colvin risiedeva in Gran Bretagna. Negli ultimi venti anni, ha coperto come inviata molte guerre e rivolte, compresi i conflitti in Iraq, in Cecenia, l’Intifada palestinese e le violenze in Sri Lanka, dove -nel 2001- rimase ferita gravemente da una scheggia di granata e perse un occhio. In quell’anno, fu insignita del premio come miglior inviato estero della stampa britannica.
A che serve realizzare fotografie, se si tengono gli occhi chiusi e le mani in tasca sulle brutture, le vessazioni, le guerre che una casta di squilibrati della politica orchestra sull’indifferenza dei popoli assogettati o violati? Pino Bertelli; su questo numero, a pagina 64 L’esperienza di guardare lo schermo della camera obscura, sul quale si raccoglie la proiezione dell’immagine, evoca sensazioni di solennità e timore reverenziale. Questa commozione non è alla portata di tutti, ma appartiene soltanto a coloro i quali sanno apprezzare le sottigliezze. E sono questi animi eletti che sanno rendere raggiungibili le loro proprie emozioni, concedendo alle persone amate un posto nella memoria, dove il ricordo sia sereno e non faccia male. Angelo Galantini; su questo numero, a pagina 46
Copertina Richiamo esplicito, oltre che volontario e consapevole, ai programmi di fotografia stenopeica (senza obiettivo), che stanno per svolgersi a Tolmezzo, in provincia di Udine, dal trentuno marzo al ventinove aprile (con chiusura coincidente alla dodicesima edizione Worldwide Pinhole Photography Day), e a Senigallia, in provincia di Ancona, dal diciannove maggio al quattro giugno. Fotografia stenopeica ripresa con reflex Nikon D5000; in dettaglio: l’inquadratura completa a pagina 34, da dove partono le riflessioni odierne sulla fotografia con foro stenopeico
3 Altri tempi (fotografici) Dal Catalogo Generale Lamperti e Garbagnati, uno dei più nobili riferimenti del commercio fotografico italiano del passato remoto, del 1905-1906. Dalla pagina di avvio del comparto ottico (testuale, IV Riparto - Ottica), la composizione ottica del Voigtländer Dynar, obiettivo anastigmatico allora disponibile in tre focali, con apertura f/6: 12, 15 e 18cm
7 Editoriale In ripetizione a quanto annotato lo scorso maggio, in cronaca sulla morte dei fotogiornalisti Tim Hetherington e Chris Hondros, uccisi in Libia. Morale ed etica: quelle di sempre. Il reporter deve stare discosto, o mettersi in gioco? Mettere in gioco la sua stessa vita? Appunto: Morire per raccontare e fotografare la storia. Onore e merito (?) a Marie Colvin e Rémi Ochlik, amaramente le due più recenti vittime di una storia di fotogiornalisti e giornalisti morti in guerra che è troppo lunga, di un elenco che è eccessivamente penalizzante.
Senza tanti giri di parole: la fotografia di reportage necessita sempre di identificazioni, quantomeno di luogo e data. Per quanto le condizioni mercantili la stiano proiettando in un’ipotesi di arte vendibile, rimane comunque testimonianza della storia dell’Uomo
8 Enzo Sellerio In ricordo del fotografo siciliano, dal 1969 anche straordinario editore, mancato il ventidue febbraio
12 Notizie Attrezzature, vicende e altre segnalazioni
MARZO 2012
R , RIFLESSIONI IFLESSIONI, OSSERVAZIONI E COMMENTI OSSERVAZIONI E COMMENTI SULLA FOTOGRAFIA SULLA FOTOGRAFIA
15 Città di Dio La fotografia è il collante narrativo dell’ottimo film brasiliano Cidade de Deus, in distribuzione internazionale come City of God. Quantitativamente, è presente in misura marginale; ma la convincente sostanza della sua visione, raffigurazione e interpretazione dà senso e composizione all’intera sceneggiatura Ricerca iconografica di Filippo Rebuzzini
Anno XIX - numero 179 - 6,50 euro DIRETTORE
RESPONSABILE
Maurizio Rebuzzini
IMPAGINAZIONE
Maria Marasciuolo
REDAZIONE
Angelo Galantini
FOTOGRAFIE Rouge
19 Ici Bla Bla
SEGRETERIA
Appunti e attualità della fotografia internazionale a cura di Lello Piazza
HANNO
22 Fotofocus! Concorso, community, blog. Sony celebra la passione per la fotografia con una iniziativa lunga un anno. Almeno
24 All’apice del fotogiornalismo Anno dopo anno, il fotogiornalismo vive e racconta il mondo. Prestigioso riconoscimento, il World Press Photo ha il merito di focalizzare l’attenzione sugli avvenimenti della cronaca, che non necessariamente si proietta sulla storia: riflessioni dall’edizione 2012 di Lello Piazza e Maurizio Rebuzzini
34 Fino a quando, senza obiettivo? Registriamo due iniziative correlate, organizzate e svolte alla luce della fotografia stenopeica: a Tolmezzo, in provincia di Udine (dal trentuno marzo al ventinove aprile), e a Senigallia, in provincia di Ancona (dal diciannove maggio al quattro giugno). Avanti tutto, il cuore, grazie al quale possiamo distinguere di Angelo Galantini
49 Ennesimo ritorno al futuro La nuova Fujifilm X-Pro1 declina al presente-futuribile intuizioni e costruzioni di stampo assolutamente classico di Antonio Bordoni
54 Mestieri in posa Gli Small Trades, di Irving Penn, configurano una lezione fotografica a dir poco straordinaria. Lievità senza tempo di Maurizio Rebuzzini
Maddalena Fasoli COLLABORATO
Pino Bertelli Beppe Bolchi Antonio Bordoni Marco Faganel Andrej Furlan Robi Jakomin Viljam Laurenč ič Chiara Lualdi Lello Piazza Franco Sergio Rebosio Ciro Rebuzzini Filippo Rebuzzini Marko Vogrič Redazione, Amministrazione, Abbonamenti: Graphia srl, via Zuretti 2a, 20125 Milano; 02-66713604 www.FOTOgraphiaONLINE.it; graphia@tin.it. ● FOTOgraphia è venduta in abbonamento. ● FOTOgraphia è una pubblicazione mensile di Graphia srl, via Zuretti 2a, 20125 Milano. Registrazione del Tribunale di Milano numero 174 del Primo aprile 1994. Poste Italiane SpA - Spedizione in abbonamento postale - D.L. 353/2003 (convertito in Legge il 27-02-2004, numero 46), articolo 1, comma 1 - DCB Milano. ● A garanzia degli abbonati, nel caso la pubblicazione sia pervenuta in spedizione gratuita o a pagamento, l’Editore garantisce la massima riservatezza dei dati forniti dagli abbonati e in suo possesso, fatto diritto, in ogni caso, per l’interessato di richiederne gratuitamente la rettifica o la cancellazione ai sensi della legge 675/96. ● FOTOgraphia Abbonamento 12 numeri 65,00 euro. Abbonamento annuale per l’estero, via ordinaria 130,00 euro; via aerea: Europa 150,00 euro, America, Asia, Africa 200,00 euro, gli altri paesi 230,00 euro. Versamenti: assegno bancario non trasferibile intestato a Graphia srl Milano; vaglia postale a Graphia srl - PT Milano Isola; su Ccp n. 28219202 intestato a Graphia srl, via Zuretti 2a, 20125 Milano; addebiti su carte di credito CartaSì, Visa, MasterCard. ● Nessuna maggiorazione è applicata per i numeri arretrati. ● È consentita la riproduzione di testi e fotografie, magari citando la fonte (ma non è indispensabile, né obbligatorio farlo). ● Manoscritti e fotografie non richiesti non saranno restituiti; l’Editore non è responsabile di eventuali danneggiamenti o smarrimenti. Fotocomposizione DTP e selezioni litografiche: Rouge, Milano Stampa: Arti Grafiche Salea, Milano
Rivista associata a TIPA
62 L’intimità finale Da riflettere: La Petite Mort, di Will Santillo
64 Annie Leibovitz Sguardi sulla fotografia dell’arroganza. E dintorni di Pino Bertelli
www.tipa.com
editoriale D
etto chiaramente: sono fermamente convinto che le fotografie di giornalismo abbiano sempre bisogno (e necessità) di didascalie esplicative, non fosse altro che di tempo e luogo, ma anche situazione e contesto. Altrimenti, certo fotogiornalismo rischia di essere non comprensibile e decontestualizzato. In questo senso, sono lontano da un certo orientamento recente, che propone il fotogiornalismo nel mondo e mercato dell’arte, con quotazioni coincidenti e corrispondenti, facendo leva unicamente sull’apparenza dell’inquadratura e composizione: ne abbiamo già riferito, e non serve alcuna replica al proposito. Immancabilmente, la didascalia esplicativa (in gergo “dida”) è necessaria per decifrare fotografie che potrebbero risultare altrimenti rispetto le intenzioni originarie e i riferimenti di provenienza. Da cui, non possiamo riferire al fotogiornalismo una considerazione di Henri Cartier-Bresson, la cui fotografia è altro, secondo il quale le fotografie debbano «Parlare agli occhi e al cuore». Più ragionevolmente, Walter Benjamin ha scritto che «La macchina fotografica diventa sempre più piccola e sempre più capace di afferrare immagini fuggevoli e segrete, il cui effetto di shock blocca nell’osservatore il meccanismo dell’associazione. A questo punto deve intervenire la didascalia, che include la fotografia nell’ambito della letterarizzazione di tutti i rapporti di vita, e senza la quale ogni costruzione fotografica è destinata a rimanere approssimativa». Da cui, e a questo proposito, nel luglio 2008, abbiamo commentato una fotografia di Stanley Greene, dell’Agenzia Noor Images, secondo premio nella categoria General News Singles del World Press Photo di quell’anno, nella quale è inquadrato un particolare di un terreno coperto da segni e un paio di impronte di suola di scarpa. Le tracce evocano il modo in cui è stato assalito il villaggio di Furawiya, nel Darfur (Sudan occidentale), avvenuto nel 2003. Alla fine di gennaio 2007, il diagramma è stato disegnato da un sopravvissuto a quell’attacco, che Stanley Greene ha incontrato in un campo profughi sul confine con il Chad. Il villaggio fu raso al suolo e furono commesse le solite atrocità nei confronti degli abitanti. Però, senza contestualizzazione, la fotografia non raffigura altro che “banali” segni sul terreno. Altrettanto, in stretta attualità, richiamiamo il secondo premio Spot News Stories del WPP 2012 (su questo numero, da pagina 24), assegnato allo svedese Niclas Hammarström, in fotocronaca per il quotidiano Aftonbladet. Priva di indicazioni, la fotografia che sintetizza l’intero servizio sarebbe sostanzialmente banale e persino inutile. Ma si tratta di una raffinata rappresentazione e interpretazione per sottrazione: il ventidue luglio, il terrorista Anders Behring Breivik ha ucciso sessantanove persone sulla piccola isola di Utøya, fuori Oslo, in Norvegia; per evitare le pallottole del killer, molte persone si sono gettate nell’acqua gelata del Mare del Nord. Da cui, dato il quadro, una fotografia autenticamente eloquente ed efficace. Maurizio Rebuzzini
Secondo premio Spot News Stories al World Press Photo 2012 (sul 2011): Niclas Hammarström, Svezia, per Aftonbladet. Il ventidue luglio, il terrorista Anders Behring Breivik ha ucciso sessantanove persone sulla piccola isola di Utøya, fuori Oslo, in Norvegia; per evitare le pallottole del killer, molte persone si sono gettate nell’acqua gelata del Mare del Nord.
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In ricordo di Maurizio Rebuzzini
C
ENZO SELLERIO
Chi non ha in casa un libro pubblicato da Sellerio Editore Palermo? Sono convinto, nessuno. Infatti, dal 1969, anno di fondazione, quando Enzo Sellerio e la moglie Elvira Giorgianni (mancata il 10 agosto 2010) crearono la straordinaria casa editrice, sono stati pubblicati titoli e autori di grande valore, tra i quali spiccano le personalità di Andrea Camilleri e Gesualdo Bufalino. Titoli e autori che non possono mancare in alcuna libreria personale. Tra gli addetti della fotografia, noi tra questi, il successo della casa editrice, che si è affermata come una delle più attente del panorama italiano, in grado di competere, per qualità di proposte, con i giganti del settore, è stato motivo di orgoglio. Infatti, prima di questa, Enzo Sellerio è stato un bravo e attento fotografo, che a cavallo degli anni Sessanta ha raccontato in maniera esemplare e ammirevole la realtà siciliana, a lui ben nota e conosciuta. Enzo Sellerio è mancato lo scorso ventidue febbraio, a ottantotto anni (era nato nel 1924). Tra le mani e nel cuore rimangono consistenti raccolte monografiche, che hanno lodevolmente ordinato e presentato la sua fotografia del vero e dal vero, che compone i tratti di una individualità d’autore fuori dal comune. Qui, accanto a me, ne ho qualcuna, sicuramente non tutte. E adesso le sfoglio: una volta ancora, rimango ammirato in questa contemplazione di visioni e interpretazioni degne di rimanere impresse nella Storia, non soltanto della fotografia. Da Inventario siciliano, pubblicato come Sellerio Editore Palermo, nel 1977, a Enzo Sellerio. Fotografo in Sicilia, di Art&, del 1996, da Fermo immagine, che dal 2007 accompagna una consistente mostra personale, servendone da volume-catalogo (Alinari), a Per volontà o per caso, realizzato in occasione di una intensa mostra alla galleria Bel Vedere, di Milano, nel 2004, alla selezione nella collana dei Grandi fotografi, che il Gruppo Editoriale Fabbri rea-
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lizzò all’inizio degli anni Ottanta (prima edizione 1983), al saggio Enzo Sellerio fotografo. Tre studi siciliani, di Paolo Morello, pubblicato da Leonardo Arte, nel 1998 (parole, più che fotografie)... da-a: la convincente e appassionante fotografia di Enzo Sellerio che può essere recuperata in qualsiasi momento dagli scaffali delle librerie che hanno tenuto conto dell’espressività visiva che si è alternata e avvicendata nei decenni, dalle origini stesse, è una delle più alte tra quante definiscono tratti espliciti del secondo Novecento.
Palermo, quartiere della Kalsa, 2 novembre 1960. Bambini giocano alla fucilazione con le armi ricevute in dono nel giorno dei Morti.
Di fronte alla scomparsa di una personalità, qualsiasi questa sia, si esprimono spesso parole di circostanza, soprattutto in forma retorica: la morte fa belli tutti, appiana le contraddizioni e i contrasti, libera i buoni sentimenti. Personalmente, non ci accodiamo, non ci siamo mai accodati. Tanto più che i buoni sentimenti, se di questo debba anche trattarsi, appartengono alla nostra esistenza, in assoluto e senza deroghe. Così, rimandiamo ad altre voci le celebrazioni in esaltazione (e banalità di rito), che il momento parrebbe ri-
In ricordo chiedere (ma non è proprio vero). Qui e ora, per ricordare Enzo Sellerio richiamo almeno un ricordo personale, che risale al 1996 di realizzazione e presentazione della monografia Enzo Sellerio. Fotografo in Sicilia, di Art&, già evocata nella bibliografia appena compilata. Enzo Sellerio la definì «Non una summa delle cose di Sicilia, ma una raccolta di esperienze personali». E in questa breve affermazione, nella propria sostanza lapidaria, sta la chiave di interpretazione di una fotografia, quella di Enzo Sellerio, che appartiene al consistente capitolo delle fotografie del vero e dal vero riprese senza temi apparenti, scattate per volontà individuale, estranee a committenze e incarichi. Insomma, una fotografia di strada, che accompagna il cam-
Montelepre, 1958.
Cefalù, 1958.
minare senza meta (apparente), ma con la sola concentrata voglia di vedere, oltre il semplice guardare: e raccontare, per condividere. Alla fine, questo tipo di fotografia viene iscritto nel solido contenitore del reportage, al cui interno le dissonanze visive sono assai superiori alle armonie e coincidenze. Per quanto il soggetto esplicito e dichiarato delle interpretazioni di Enzo Sellerio sia stato sempre e soltanto la Sicilia, a una fotografia ne è seguita un’altra, «per accumulazione spontanea» (asserzione che ricordo bene di avergli sentito pronunciare): fino a comporre un corpus di immagini cresciuto biologicamente seguendo un disegno preordinato. Così, gesti, sguardi, scorci di vita, luoghi, paesaggi, momenti del lavoro
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In ricordo Bagheria, 1953. Palermo, 1960.
(a sinistra, in basso) Uscita dallo stadio; Palermo, 1961. (pagina accanto) Linguaglossa, 1962.
Alimena, 1973.
e della tradizione, istanti quotidiani del tempo siciliano si sono composti e sedimentati in un racconto visivo che incatena ciascuna fotografia alle precedenti e successive: indipendentemente dalla forma fisica di presentazione (mostra, monografia o altro), si tratta sempre e comunque di un libro vero. Un libro nel quale le fotografie di Enzo Sellerio si offrono come pensieri, che -affiorando- incontrano di
volta in volta porzioni di realtà nelle quali prendere forma. Una volta di più, questa fotografia di strada (figlia di una flânerie senza tempo) offre e propone “oggetti trovati”, incontri avvenuti durante il vagabondare, della persona o della memoria, in una terra densa di storia e figure. La Sicilia, che Enzo Sellerio ha raccontato magnificamente. ❖ Grazie.
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Notizie a cura di Antonio Bordoni
TRE VOLTE CANON. Il sistema ottico Canon EF, di obiettivi a indirizzo professionale, si amplia con l’introduzione dello zoom EF 24-70mm f/2,8L II USM (aggiornamento del noto EF 24-70mm f/2,8L USM) e dei grandangolari EF 24mm f/2,8 IS USM e EF 28mm f/2,8 IS USM, i primi a essere dotati di stabilizzatore ottico di immagine (IS). Tutti e tre offrono i massimi livelli di prestazione, combinando qualità d’immagine in un corpo robusto e compatto.
La nuova versione EF 2470mm f/2,8L II USM è stata completamente riprogettata, per offrire una nitidezza ineccepibile, una maggiore qualità delle immagini e robustezza. Il design compatto lo rende ideale per il trasporto, mentre una serie di perfezionamenti ottici assicura prestazioni d’avanguardia, con l’acquisizione di maggiori dettagli su tutta l’inquadratura, e distorsioni ulteriormente ridotte sull’intera escursione zoom, in particolare alla massima focale 70mm. I nuovi EF 24mm f/2,8 IS USM e EF 28mm f/2,8 IS USM sono i primi obiettivi grandangolari caratterizzati dalla tecnologia di stabilizzazione ottica dell’immagine (IS). Offrendo una straordinaria flessibilità, entrambi permettono di fotografare una gam-
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ma ancora più ampia di scene e soggetti, mentre la combinazione di ampie aperture con la stabilizzazione ottica fino a quattro stop consente di ottenere risultati nitidi fotografando a mano libera anche in condizione di scarsa luce ambientale. Ambedue dispongono di generosa apertura relativa f/2,8, che consente di esplorare gli effetti di ristrette profondità di campo o di scattare in condizioni di luce scarsa. L’ampia apertura e la tecnologia IS rendono entrambi gli obiettivi ideali per le riprese di soggetti in rapido movimento, mentre l’avanzata tecnologia Canon IS è in grado di rilevare movimenti di panning intenzionali, passando automaticamente dalla modalità Normal IS a Panning IS, per cogliere il movimento con maggiore accuratezza. (Canon Italia, via Milano 8, 20097 San Donato Milanese MI; www.canon.it).
ZOOM GRANDANGOLARE. L’efficace e versatile zoom Tokina AT-X Pro 17-35mm f/4 FX propone e offre una consistente escursione grandangolare, con copertura completa del pieno formato 24x36mm dei
sensori ad acquisizione digitale di immagine (e della pellicola 35mm): in baionetta Canon e Nikon. Nella gamma, è il secondo disegno grandangolare Tokina dedicato alle reflex “full frame”, dopo il primo AT-X Pro 16-28mm f/2,8 FX, sul mercato dalla scorsa stagione. In conferma, il nuovo disegno è definito dalla medesima alta qualità di immagine, ampiamente riconosciuta e attribuita allo zoom che l’ha temporalmente preceduto: con una variazione focale più consistente, che approda a 35mm, e con la medesima proprietà dell’apertura relativa (f/4) costante su tutta l’escursione. Con un peso di soli seicento grammi e un ingombro di appena 95x89mm, si ha a disposizione un conveniente obiettivo grandangolare in grado di affrontare e risolvere egregiamente ogni tipo di ripresa fotografica: dal paesaggio alla fotografia di interni. La distanza minima di messa a fuoco è di soli 28cm, e questo estende ulteriormente il suo campo di utilizzo. L’impiego di due elementi asferici e del sistema di messa a fuoco interna (IF) garantisce allo zoom Tokina AT-X Pro 17-35mm f/4 FX una invidiabile uniformità di resa a tutte le focali e una distorsione contenuta, che alla focale minima 17mm è estremamente limitata, fino ad essere praticamente assente alla focale massima 35mm. Ancora, la presenza degli elementi asferici ha consentito anche un eccellente controllo della caduta di luce ai bordi dell’immagine, fenomeno che affligge tutti gli obiettivi grandangolari (soprattutto alle focali più spinte, ovverosia corte). Lo zoom è dotato di ghiera di messa a fuoco “one touch”, che consente il passaggio istantaneo dalla messa a fuoco automatica al controllo manuale, senza aver necessità di intervenire sui comandi della reflex. Grazie al motore interno, la messa a fuoco è automatica anche con le reflex sprovviste di motore AF (Nikon). Quindi, il sistema di rego-
lazione del diaframma a nove lamelle garantisce una resa del fuori fuoco (bokeh) estremamente gradevole e uniforme. Durante la messa a fuoco, la ghiera porta filtri non ruota, in modo da facilitare l’impiego di filtri polarizzatori. In dotazione, il paraluce dedicato BH-821 di corredo. (Rinowa, via di Vacciano 6f, 50012 Bagno a Ripoli FI; www.rinowa.it).
TELE AL MASSIMO. Il potente teleobiettivo Sony 500mm f/4 G, in sigla SAL500F40G, per reflex Alpha, è stato progettato e realizzato per soddisfare esigenze di ripresa fotografica professionale (focale equivalente 750mm, con sensori di acquisizione in dimensioni APS-C). È il tele estremo del differenziato sistema ottico, la cui generosa apertura relativa (f/4) si abbina al trattamento anti riflesso Nano sulle superfici delle lenti, per riprese fotografiche e video HD e Full-HD di alta qualità. Compatibile con lo stabilizzatore SteadyShot Inside, presente su tutte le reflex Sony Alpha, include un rinnovato circuito di azionamento del motore SSM, per una messa a fuoco manuale rapida e precisa. Ovviamente, la potente focale tele 500mm (o 750mm, in equivalenza) si orienta alla fotografia di sport e natura, e si presta mirabilmente alle applicazioni di imaging più complesse, che richiedono un ingrandimento estremo senza sacrificare le prestazioni ottiche. L’apertura relativa f/4 assicura una eccellente capacità di raccolta della lu-
Notizie ce, che si traduce in tempi di otturazione (abbinati) più rapidi e molteplici opportunità di regolazioni dell’esposizione; con impostazioni fino a f/32. Caratterizzato da una costruzione estremamente solida, il Sony 500mm f/4 G (SAL500F40G) affronta agevolmente le sfide fotografiche più ardue. L’anello di messa a fuoco e le giunzioni anteriori e posteriori sono protetti da una combinazione di guarnizioni che respingono polvere e umidità, anche quando si fotografa all’aperto sotto la pioggia battente o in ambienti particolarmente avversi. In un certo senso, questo design resistente alle intemperie si propone come complemento adeguato e perfetto della reflex con tecnologia Translucent Sony Alpha 77 (α77), in grado di fornire prestazioni professionali adeguatamente consistenti e raffinate. Quindi, la sua compatibilità
con il sistema di stabilizzazione di immagine SteadyShot Inside, prerogativa delle reflex Sony Alpha Translucent, consente di compensare l’effetto mosso provocato dalle vibrazioni della stessa reflex, guadagnando circa 4,5 stop sul tempo di otturazione. Ancora, il disegno ottico di undici lenti divise in dieci gruppi comprende tre elementi in vetro ED a basso indice di dispersione, per una messa a fuoco da quattro metri. La nuova tec-
nologia proprietaria del rivestimento anti riflesso con trattamento Nano elimina efficacemente i riflessi interni, consentendo di realizzare fotografie consistentemente chiare e nitide, con sostanziosa diminuzione di bagliori e sdoppiamenti. Un ulteriore fattore di riduzione dei riflessi è dato dal paraluce in fibra di carbonio, percorso da fibre di velluto nero che assorbono la luce incidente. Il motore a coppia elevata SSM
(Super Sonic wave Motor) si avvale di un nuovo circuito di azionamento, che assicura un autofocus veloce e altamente reattivo, con un rapido inseguimento del soggetto fino a quattro volte più veloce rispetto gli obiettivi Sony convenzionali. Per la più agevole ergonomia, i quattro pulsanti di blocco della messa a fuoco sono distribuiti attorno la montatura dell’obiettivo, per agevolarne l’utilizzo in qualunque posizione e situazione. Sommati al pulsante della doppia modalità DMF (messa a fuoco diretta manuale) e all’interruttore di limitazione volontaria dell’escursione focale, garantiscono operazioni semplici anche in sequenze di scatto rapido. Sono compatibili i moltiplicatori di focale 1,4x, in modalità AF e MF, e 2x, in modalità MF. (Sony Italia, via Galileo Galilei 40, 20092 Cinisello Balsamo MI; www.sony.it). ❖
Cinema
di Maurizio Rebuzzini - Ricerca iconografica di Filippo Rebuzzini
CITTÀ DI DIO Straordinario film brasiliano diretto da Fernando Meirelles, City of God (in distribuzione internazionale; Cidade de Deus, in originale) narra le vicende criminali di una favela ai margini della sontuosa Rio de Janeiro, per l’appunto la Città di Dio. Personaggio chiave, che illustra e rievoca le consecuzioni dagli anni Sessanta, è il giovane Buscapé, la cui predisposizione fotografica -collante della sceneggiaturaè avviata dalla visione di un fotocronista che -lui bambinofotografa la scena di un delitto.
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Arrivato nelle sale cinematografiche italiane con il titolo internazionale, City of God, nel maggio 2003, e originariamente poco considerato dal pubblico (ma anche da certa critica), il film brasiliano Cidade de Deus, di Fernando Meirelles, si è successivamente imposto all’attenzione generale. Tanto che una delle innumerevoli classifiche, stilate sulla base di indicazioni di addetti al lavoro, piuttosto che di spettatori (e questa che citiamo è appunto compilata in base al gradimento del pubblico), lo segnala tra i venti film più significativi della storia complessiva del cinema. E lo fa a ragione, perché City of God -manteniamo l’identificazione della distribuzione statunitense, accettata in Italia- è un film autenticamente rilevante e sostanzioso: degno di occupare posizioni di vertice in qualsivoglia classifica globale. La storia raccontata è veramente forte; e altrettanto lo è la sua narrazione cinematografica, a partire dalla sceneggiatura di Bráulio Mantovani. Si tratta di una vicenda che vi-
sualizza quanto abbiamo letto in cronaca giornalistica nei decenni scorsi, senza soffermarci troppo, senza lasciarci prendere eccessivamente, convinti come vogliamo essere e rimanere dell’immagine da cartolina del Brasile del Carnevale, del Samba e delle spiagge di Rio de Janeiro (e magari del turismo sessuale che accompagna tutto questo). Con un abile gioco filmico in retrovisione, si racconta della vita di una favela brasiliana, appunto la Città di Dio, baraccopoli ai margini della sfavillante Rio. Dagli anni Sessanta e dal famigerato Trio Tender, che dopo piccoli furtarelli casuali fa il salto di qualità con una sanguinosa irruzione in un motel, dove lascia cadaveri in quantità, è ricostruita la progressione malavitosa di cinici e sprezzanti banditi che governano su luoghi e persone. Ovviamente, il contorno è rappresentato dall’escalation dello spaccio di droga, dai primi timidi spinelli alla cocaina, e, altrettanto ovviamente, il tutto è condito dal coinvolgimento di bambini di età scolare, che diventano “uomini” troppo presto, e non invecchiano, perché muoiono in giovane età. Tutti, o quasi.
Buscapé che, armato di Nikon F Photomic e tele 135mm f/3,5, cammina per le strade della favela nominata Città di Dio. È accompagnato da un amico coetaneo e il dialogo è subito indirizzato: «Se la foto[grafia] è buona, vedrai se non mi danno un lavoro al giornale», annota Buscapé. «Sei sicuro? Te l’hanno detto loro?», è la legittima osservazione dell’amico; «Devo comunque rischiare, no?» / «Ehi, stai anche rischiando di farti ammazzare per una foto[grafia]! Tu sei pazzo, te lo dico io». Riflessione di Buscapé, con voce fuori campo: «Una foto[grafia] avrebbe potuto cambiarmi la vita; ma nella Città di Dio, se scappi, sei fatto; e se resti, sei fatto lo stesso. È sempre stato così, da quando ero bambino». Da qui, partono i ricordi che avvolgono le vite dei personaggi chiave della fa-
CHIAVE FOTOGRAFICA
La prima macchina fotografica di Buscapé è una Kodak Instamatic, che raggiunge a sedici anni, dopo essere cresciuto con l’idea che un giorno avrebbe avuto anche lui una macchina fotografica. Immancabilmente, fotografa la vita che gli scorre attorno, soprattutto gli incontri con gli amici.
Già, quasi tutti. Tra i pochi che resistono al prepotente fascino di una vita apparentemente facile, da banditi, c’è Buscapé - Rocket, protagonista assoluto del film, interpretato dal giovane e bravo Alexandre Rodrigues, che svolge altresì l’onere di voce e figura narrante. Di fatto, l’essenza del film è concentrata in tre giorni, scanditi da altrettanti tempi fotografici (ed è questo il motivo principale del nostro intervento, che -per forza di cose- non prende in esame il film in quanto tale). Nello svolgimento, questi tre giorni innescano una retrovisione che dagli anni Sessanta approda alla fine dei Settanta, almeno, con i tempi e modi appena considerati: morti ammazzati in abbondanza e sperpero, spietate vendette, cruente battaglie. In semplificazione, il film inizia con
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Cinema vela, inevitabilmente banditi che interpretano lo spaccio di droga e il controllo del territorio senza alcuna concessione e nessuna misericordia. Buscapé ne sta distante, non si fa coinvolgere, anche se suo fratello fa parte di quel Trio Tender che sta all’origine di tutta l’escalation della criminalità locale. Da quando -bambinoassiste ai rilievi della polizia attorno al cadavere di un morto ammazzato in una rappresaglia di territorio, con tanto di fotocronista che fotografa la scena (con una Kodak Retina Reflex), ha una convinzione: «Sono cresciuto con l’idea che un giorno avrei avuto anch’io una macchina fotografica». La prima, la compera a sedici anni, con i soldi guadagnati onestamente con un lavoro presso un supermercato: una Kodak Instamatic, con la quale fotografa costantemente la vita che gli scorre attorno: soprattutto, gli incontri con gli amici, le giornate sulla spiaggia (con relativo corteggiamento a suon di ritratti alla bella ragazza del gruppo).
Offeso dall’attenzione giornalistica per l’avversario Dadinho, Zé Pequeno chiama Buscapé nel proprio covo, per fotografare la sua banda (di delinquenti) con la Kodak Retina Reflex, che possiede per un caso fortuito: pose e posture con insolente esposizione di forza delle proprie armi.
CRONACA FOTOGRAFICA I personaggi crescono, diventano sempre più criminali, con una progressione a dir poco esponenziale: i morti ammazzati si contano a dozzine e l’antagonismo tra due bande principali accende una sequenza infinita di rappresaglie e vendette. Se ne occupa anche la stampa nazionale, che dà soprattutto visibilità alla gang di Dadinho, provocando ulteriori risentimenti al capobanda avversario, il terribile e spietato Zé Pequeno. È a questo punto che la vicenda, dopo il lungo racconto dei decenni trascorsi, torna in cronaca. Ci si ricorda che nella Città di Dio vive Buscapé, appassionato di fotografia, che nel frattempo ha trovato lavoro nella distribuzione notturna del quotidiano locale. Solo lui, pensano i criminali, può far funzionare la macchina fotografica che per un caso fortuito sta nel loro covo. Lo chiamano e lo invitano a fotografarli in pose esplicite, armi in mano (in realtà, gli impongono di farlo). Buscapé conosce i meccanismi della Kodak Retina Reflex (ancora) ed esaurisce un intero rullino, cambiando sistematicamente le pose e posture: comunque sia, tutte equiparate dall’insolente esposizione di forza dei mitragliatori e fucili impugnati
Fatte sviluppare e stampare nel laboratorio fotografico del quotidiano presso il quale lavora come fattorino in consegna alle edicole, le fotografie che Buscapé ha scattato alla banda di Zé Pequeno vengono notate da una redattrice dello stesso quotidiano, che le pubblica in prima pagina.
con prepotenza e orgoglio. Al giornale, Buscapé può contare sull’amicizia di un ragazzo altrettanto proveniente dalla Città di Dio, che lavora nel laboratorio di sviluppo e stampa. Così, ottiene di farsi stampare le copie dei suoi ritratti alla banda di Zé Pequeno. Le stampe vengono poggiate su un tavolo, dove le nota una redattrice che, senza consultarsi con nessuno, né domandarsi da dove arrivino le fotografie, le pubblica in prima pagina del quotidiano. A questo punto, Buscapé è convinto di essere spacciato, di non poter più tornare nella Città di Dio, di doversi nascondere. Invece, è vero l’esatto contrario, perché Zé Pequeno interpreta la pubblicazione della fotografia della sua banda come certificazione di valore, non in quanto delazione. Ma Buscapé non lo sa, ed è impaurito. In tale situazione, considerate queste sue “entrature”, la redazione riesce però a convincerlo a tornare nella favela, per realizzare un autentico servizio fotografico. Gli si fornisce una Nikon F Photomic con teleobiettivo 135mm f/3,5 e lo si spedisce allo sbaraglio: da cui, a giro tondo, l’avvio del film, con Buscapé che cammina per i vicoli della Città di Dio, riflettendo come abbiamo già annotato.
Cinema Dopo la pubblicazione delle fotografie di ostentazione di forza della banda di Zé Pequeno, Buscapé viene fornito di Nikon F Photomic con tele 135mm f/3,5: deve tornare nella favela per realizzare un autentico servizio fotografico.
Ancora per una concatenazione di eventi, davanti allo sbalordito Buscapé, si sprigiona una autentica battaglia tra le strade della favela, con tre fronti contrapposti a incrocio: polizia e le due bande nemiche di Zé Pequeno e Dadinho. Da una protezione di fortuna, Buscapé fotografa tutto e poi insegue l’auto della polizia che ha arrestato i capibanda. Corre tra i vicoli, prevedendo la destinazione: fotografa la complicità della polizia con Zé Pequeno, che viene rilasciato previo pagamento di una forte somma; fotografa Zé Pequeno che, ormai privo di com-
plici, viene spietatamente ucciso da un gruppo di bambini, che si avviano a diventare padroni della situazione. Questo è (stato) il Brasile delle favela. Ottimamente, la fotografia ricopre il ruolo di collante narrativo. Quantitativamente, è presente in misura marginale; ma la sostanza della sua visione, raffigurazione e interpretazione dà senso e composizione all’intera sceneggiatura. Un ottimo esempio di come e quanto la fotografia contorni la vita quotidiana. Una volta di più, una volta anco❖ ra, mai una di troppo.
A questo punto, il finale di City of God si riallaccia al suo esordio. Dopo i flashback, l’epilogo della vicenda, con la sconfitta di Zé Pequeno e la sua spietata uccisione. La fotografia scandisce i tempi.
Ici Bla Bla a cura di Lello Piazza
Questa rubrica riporta notizie che sono appartenute alla cronaca. Però, nel loro richiamo e riferimento molti motivi ci impediscono di essere tempestivi quanto la cronaca richiederebbe. Ciononostante riteniamo giusto proporle, perché siamo convinti che non abbiano perso la propria attualità, e continuino a offrire spunti di riflessione.
NO! NON CE LA FARÀ MAI. «Una fotografia vale più di mille parole». Quante volte abbiamo udito o pronunciato questa sentenza, e ci abbiamo creduto. L’ultimo maestro della fotografia che ne ha difeso il significato (almeno a quanto mi risulta, e almeno in Italia) è Mario Dondero, nell’intervista andata in onda su Rai Radio 3, il trenta marzo dello scorso anno. Anch’io ci ho creduto. Ma il Primo febbraio è mancata una poetessa stellare, la polacca Wislawa Szymborska, premio Nobel per la Letteratura, nel 1996 [in basso]. Ripenso al momento in cui l’ho scoperta, leggendo La moglie di Lot. Mentre rifletto sulla straordinaria potenza delle sue evocazioni, la radio, per una misteriosa coincidenza [che rivela che la vita ha senso, possa avere senso], trasmette questo soliloquio di Riccardo III dell’omonima tragedia di Shakespeare: «Oggi l’inverno del nostro scontento / diventa gloria nel sole di York. / Le nubi che oscuravano la Casa / stanno, morte, nel seno dell’oceano. / Ecco alle tempie i segni del trionfo, / e le armi trasformate in ornamenti, / e i nostri allarmi tetri in dolci incontri, / le brutte marce in danze di piacere». No, la Fotografia (e qui il maiuscolo è d’obbligo) non ce la farà mai a raccontare più della parola. Nell’Olimpo delle Arti, certamente la fotografia è uno degli dei, un dio importante, magari Atena, magari Afrodite, ma la Parola è Zeus. Propongo qui una delle poesie di Wislawa Szymborska. Parla di negativo e -in un certo senso- apre la strada alla riflessione successiva.
Nel 1888, l’esploratore norvegese Fridtjof Nansen ha compiuto la prima attraversata della Groenlandia. Per le fotografie, la sua spedizione ha utilizzato il portarulli per pellicola di carta brevettato da William Walker e George Eastman.
La poetessa polacca Wislawa Szymborska, premio Nobel per la Letteratura, nel 1996, è mancata il Primo febbraio. Le sue sono state parole irraggiungibili (anche dalla fotografia).
Negativo In un cielo bigio una nuvoletta ancora più bigia, contornata di nero dal sole. A sinistra, ossia a destra, un ramo bianco di ciliegio con i fiori neri. Sul tuo viso scuro ombre chiare. Ti sei seduto accanto al tavolino e vi hai posato sopra le mani ingrigite. Sembri uno spirito che cerca di evocare i vivi. (Poiché ancora mi annovero tra loro, dovrei apparirgli e battere: buonanotte, ossia buongiorno, addio, ossia benvenuto, e non risparmiargli domande ad alcuna risposta, se riguardano la vita, ossia la tempesta prima della quiete).
SE NON È DIGITALE, NON È FOTOGRAFIA. Mi vergogno un po’ a ritornare su questo tema. Ma tutti hanno detto la loro e io voglio dire la mia. Il titolino non coincide con il mio pensiero, ma l’ho declinato perché forse almeno un lettore (penso al caro e grande Gianni Berengo Gardin) leggerà questa nota. La prendo larga. Nel 2011, è stato celebrato il centocinquantesimo anniversario della nascita dell’esploratore norvegese Fridtjof Nansen, premio Nobel per la Pace, nel 1922. Tra le sue varie imprese, c’è la prima attraversata della Groenlandia, nell’estate del 1888, che avviene dopo tre fallimenti di altri esploratori statunitensi, svedesi e danesi [qui sopra]. Era abitudine di tutte le missioni di esplorazione quella di portarsi appresso un disegnatore per documentare visivamente i luoghi della scoperta e i momenti della spedizione. Dall’invenzione della fotografia in poi, gli esploratori hanno preferito avere
con sé una macchina fotografica. Fridtjof Nansen non è stato da meno e, nella preparazione della sua spedizione, ha affrontato il problema della scelta (ha drammatici problemi di peso, visto che si muoverà a piedi e sugli sci sopra una calotta di ghiaccio spessa tre chilometri). A quei tempi, le macchine fotografiche sono di legno, e il supporto fotosensibile è generalmente costituito da pesanti e fragili lastre di vetro. Fino al 1885 circa, l’attrezzatura fotografica standard pesa dai venti ai trenta chilogrammi e non permette di scattare più di due-tre fotografie l’ora. È dunque una fortuna, per Fridtjof Nansen, che nel 1885 appaia sul mercato un portarulli per pellicola di carta, brevettato da William Walker e George Eastman (che nel successivo 1888 fonderà la Eastman Kodak Company), che permette di realizzare venticinque scatti, senza cambiare ogni volta supporto e pesa infinitamente meno di venticinque lastre di vetro. Il portarulli è adattabile a quasi ogni modello di apparecchio fotografico esistente. Con questo portarulli, si ottengono negativi di carta 6,5x8,5 pollici (circa 16x21cm), che vengono poi trasferiti su lastre di vetro, per realizzare molteplici stampe. Immaginiamo, ora, che un grande fotografo dell’epoca, per esempio Auguste Rosalie Bisson (che realizza, all’inizio degli Anni Sessanta dell’Ottocento, le prime immagini di una ascensione al Monte Bianco, scattando su lastre di vetro trattate al collodio umido), vedendo le fotografie di Fridtjof Nansen avesse proclamato: «Se non è collodio umido, non è fotografia!». Non commento l’assurdità di questo proclama, che mai nessuno si è sognato di pronunciare. Tornando alle attuali dotazioni fotografiche ad acquisizione digitale di immagini, almeno alle professionali: vedono come i miei occhi, come rinunciare? Certi scatti, tra il lusco e il brusco, e anche al quasi buio, erano impensabili con la diapositiva colore. Oggi, si fotografa tranquillamente a 1200 Iso equivalenti. Nella camera oscura digitale, le mascherature -che nella stampa del bianconero eseguivamo nella camera oscura analogica- si possono realizzare anche con le immagini a colori (cosa impossibile nella camera oscura analogica, nella
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Ici Bla Bla quale -per mascherare- bisognava avere la luce rossa accesa). Quindi, con il digitale è tutto più facile. Che nell’anima di chi afferma che «se non è analogica, non è fotografia» ci sia dunque la devastante convinzione che ciò che non è difficile non è di valore?
FOTOGRAFIE ALL’OSPEDALE. Nel 2011, il cuore un po’ matto di un grande fotografo veneto, Cesare Gerolimetto, lo ha portato a consultare l’unità cardiologica dell’ospedale di Treviso. «Per farmi ben volere -ammette-, ho regalato un ingrandimento di dimensioni generose (una fotografia di Angkor Vat, Cambogia) al cardiologo, che l’ha appesa in reparto con notevoli riscontri tra addetti ai lavori e pazienti. Vista la sorprendente accoglienza, ne abbiamo appese altre sei, che ora formano una piccola permanente d’ospedale, con soddisfazione di tutti». Questa esperienza di mostra fotografica in un ospedale è stata ripetuta poi a Bassano del Grappa. Sentiamo ancora Cesare Gerolimetto: «Un anno fa, un’associazione che aiuta i malati terminali di cancro mi ha chiesto cosa si sarebbe potuto fare per sensibilizzare la gente verso questo problema, ogni giorno più grande. Considerata l’esperienza di Treviso (e Bassano), propongo una mostra fotografica dal titolo Veneto, un paesaggio da salvare. Allestita nell’entrata principale dell’Ospedale Civile San Bassiano [qui sotto], la mostra è al centro di una notevole quantità di passaggi (dal laureato all’operaio), e tutti -chi un po’ più velocemente, chi in maniera approfondita- si fermano a guardare un Veneto che mai hanno visto». Ancora più curioso, l’elevato numero di richieste per acquistare le fotografie, che -a fine mostra- sono state vendute a scopo benefico, al costo di stampa.
IL NAUFRAGIO DELLA NAVE. Co-
Il monte Grappa, di Cesare Gerolimetto, è stato esposto alla Biennale di Venezia, nella sezione fotografica curata da Italo Zannier, per conto di Vittorio Sgarbi, responsabile del Padiglione Italia.
Da La Repubblica, del quindici gennaio, il naufragio della Costa Concordia, al largo dell’Isola del Giglio.
Veneto, un paesaggio da salvare, di Cesare Gerolimetto, è stata allestita nell’entrata principale dell’Ospedale Civile San Bassiano, di Basssano del Grappa.
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DA GEROLIMETTO A SGARBI. La cinquantaquattresima Biennale d’Arte di Venezia ha aperto i battenti il quattro giugno, per chiudersi il ventisette novembre. L’edizione è stata caratterizzata da una serie di polemiche che hanno visto Vittorio Sgarbi, curatore del Padiglione Italia, difendere la propria idea di avere un certo numero di persone di varia cultura, e non volutamente critici d’arte, deputate a scegliere gli oltre duecento artisti da esporre. Davanti a una platea internazionale, il suo discorso inaugurale è stato questo: «Chi di voi conosce Federico Bonaldi? Pochi? Ecco, appunto. Ebbene, è il più grande ceramista italiano vivente». È una delle poche volte che condivido un’idea di Vittorio Sgarbi, non a livello di critica artistica, campo nel quale è maestro, ma a livello di scelte professionali, di ambienti frequentati, di becere polemiche televisive. Tra gli uomini di cultura scelti da Vittorio Sgarbi c’è stato Italo Zannier, uno storico della fotografia, che oltre a Olivo Barbieri, Antonio Biasucci, Luca Campigotto e Gianluigi Colin, ha proposto quattro immagini di Cesare Gerolimetto, esposte poi nelle sale di Villa Contarini, a Piazzola sul Brenta. «Si chiedeva di inviare fotografie relativamente recenti -precisa Cesare Gerolimetto-, realizzate negli ultimi dieci anni. Io ho inviato una ventina di fotografie a tema vario, fotografie di viaggio, paesaggi astratti, una decina di immagini del monte Grappa. E proprio quattro scatti del Grappa sono stati scelti per l’esposizione [in alto]. Ne sono orgoglioso, perché è il paesaggio di casa, non si porta dietro l’esotismo del luogo famoso; e il nostro monte sacro -reso quasi astratto- diventa leggibile come montagna di tutti. Il Grappa cerco di fotografarlo in ogni occasione. Le levatacce alla ricerca dei nostri paesaggi veneti non si contano; sono continuamente in giro, ma non mi stanca; l’importante è andare sempre alla ricerca della luce giusta».
me è ben noto, la notte tra il tredici e il quattordici gennaio, la nave Concordia, della Costa Crociere, è finita contro uno scoglio, quasi davanti al porto dell’Isola del Giglio, e ha iniziato lentamente ad affondare, adagiandosi poi, semisommersa, su un basso fondale. A più di un mese di distanza, si contano quindici vittime accertate e quindici dispersi: una grande tragedia. In quella sua posizione assurda, l’enorme scafo è stato fonte di ispirazione fotografica per molti e sconosciuti reporter, che hanno realizzato inquadrature suggestive (?) [qui sotto]. A questo proposito, riporto qualche riga di un articolo di Michele Serra, apparso su Repubblica, il quindici gennaio: «La mole immane della Costa Concordia coricata a ridosso del Giglio, quasi appoggiata all’isola in un estremo tentativo di sostenersi, è una delle immagini più impressionanti de-
gli ultimi tempi. È come se solamente il naufragio, e l’adagiarsi in mare, restituisse a quel palazzo galleggiante la sua natura di nave. [...] Le megastrutture che solcano i sette mari dando ai loro abitanti l’impressione (fallace) di annullare il moto ondoso e il clima, e a qualunque latitudine e longitudine replicano l’orgogliosa sicurezza dell’uomo che ha domato per sempre gli elementi, sono esposte anch’esse -come tutto, come tutti- alla potenza della natura, all’arbitrio del caso e soprattutto agli errori dell’uomo. [...] L’orgoglio umano è legittimo, se si pensa che da Icaro si è passati al volo supersonico e dalle piroghe alle odierne navi da crociera. Ma capita che l’orgoglio accechi, e qualora lo avessimo dimenticato basta uno scoglio a ricordarcelo».
CHI HA SCATTATO QUELLA FOTOGRAFIA? Non perdo mai occasione di far notare quando i quotidiani italiani (ma, a volte, anche quelli stranieri) affrontano la fotografia in modo insufficiente, spesso addirittura colpe-
Ici Bla Bla vole. La prima pagina del quotidiano La Repubblica, di mercoledì dieci agosto (2011), ha legittimamente pubblicato una fotografia straordinaria, di una figura femminile che salta da una finestra, su uno sfondo di fiamme [qui sotto]. L’immagine è talmente bella, che viene ripubblicata grande il giorno dopo dallo stesso giornale. Naturalmente, nessun credito. La stessa fotografia si è potuta vedere anche sul sito web di Repubblica. Qui, un credito c’è stato: agenzia KikaPress. Nel nostro piccolo, poniamo rimedio a queste mancanze. L’autrice dell’immagine è la londinese Amy Weston. Dopo che l’ha postata su Twitter, è stata immediatamente ripresa dai più importanti quotidiani britannici di martedì nove agosto. «Allontanandomi dal luogo dove avevo scattato la fotografia -ha dichiarato l’autrice-, non sono riuscita a raggiungere la mia automobile, a causa degli scontri molto duri tra dimostranti e polizia. Me ne sono quindi fuggita via, nascondendo la mia macchina fotografica sotto i vestiti, per paura che me la rubassero». Questa immagine non è neppure stata segnalata dalla giuria del World Press Photo 2012 (sul 2011), che si è concluso recentemente [su questo stesso numero, da pagina 24].
duecentoventidue proposte inviate da cinquantasei partecipanti [qui sopra]. Il progetto è pubblicato in http://vio lentology.com/blog/?page_id=2.
CONCORSO DI FOTOGRAFIA ASTRONOMICA. Riservato agli astronomi non professionisti, l’Astronomy Photographer of the Year 2011 (terza edizione), che si tiene presso il Royal Observatory Greenwich, di Londra, è stato vinto dall’inglese Damian Peach, che si è aggiudicato le mille-
cinquecento sterline del primo premio con una visione di Giove con due delle sue sessantaquattro lune, Io e Ganimede [qui sopra]. Il dottor Marek Kukula, presidente della giuria, ha affermato: «Le immagini bellissime erano numerose, ma quel-
PRIMO PREMIO TIM HETHERINGTON. Organizzato da World Press Photo e Human Rights Watch, il Tim Hetherington Grant è stato istituito in memoria del fotogiornalista inglese morto l’anno scorso in Libia, durante le rivolte che hanno portato all’uccisione del dittatore Mu’ammar Gheddafi [FOTOgraphia, maggio 2011]. I ventimila euro del premio sono andati all’americano Stephen Ferry, per il suo progetto Violentology: A Manual of the Colombian Conflict, scelto tra
Violentology: A Manual of the Colombian Conflict, di Stephen Ferry, reportage vincitore del primo Tim Hetherington Grant.
la che abbiamo premiato mi ha particolarmente colpito perché sembra addirittura un’immagine ripresa dal telescopio Hubble [FOTOgraphia, novembre 2008]. È incredibile per una fotografia astronomica scattata da Terra». Tra gli altri, l’italiano Marco Lorenzi è risultato primo nella categoria Spazio profondo, per una fotografia spettacolare che mostra ciò che rimane dell’esplosione di una supernova [al centro, in basso]. Per le iscrizioni al concorso 2012: www.nmm.ac.uk/astrophoto.
Damian Peach, Astronomy Photographer of the Year 2011: Giove con le lune Io e Ganimede.
(a destra) Rino Pucci: premio di fotogiornalismo multimediale con cinque storie di londinesi in bicicletta. Marco Lorenzi, premio di categoria all’ Astronomy Photographer of the Year 2011: esplosione di una supernova. (a sinistra) Fotografia di Amy Weston, pubblicata La Repubblica senza alcun credito.
PRIMO PREMIO DI FOTOGIORNALISMO MULTIMEDIALE. Lo scorso diciotto novembre è stato annunciato il vincitore di un nuovo concorso di fotografia che premia il sapiente utilizzo di tutti gli strumenti del linguaggio multimediale: fotografia, audio, montaggio, grafica, postazione sul web. Organizzato da Mei (Meeting degli indipendenti, www.meiweb.it), in collaborazione con Fotografia & Informazione (www.fotoinfo.net), il concorso ha premiato il lavoro di Rino Pucci, One day on two wheels (Five stories of Londoners): cinque storie di londinesi e del loro rapporto di odio/amore con la bicicletta [qui sopra]. Ogni storia si svolge nell’arco di una giornata lavorativa. L’intero lavoro è pubblicato in http://vimeo.com/31333569. ❖
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Iniziativa di Angelo Galantini
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FOTOFOCUS!
Fotofocus è un concorso, una community, un blog. Sony celebra la passione per la fotografia, che già esprime con i fantastici Sony World Photography Awards internazionali, che si svolgono annualmente, dal 2008 [le più recenti segnalazioni in FOTO graphia, da giugno a dicembre 2011]. È nato Fotofocus: un’avventura dedicata a tutti gli amanti della fotografia, un concorso fotografico, un blog redatto da esperti del settore con news, curiosità, consigli e storie dal mondo fotografico. Per un anno intero, Fotofocus terrà compagnia a chi fa della fotografia una passione e premierà le capacità fotografiche degli utenti... e non solo. Dodici temi mensili andranno a toccare gli stili tipici della fotografia, come Black&white, Landscape, Portraits. L’intento di Sony è quello di creare una community fotografica, nella quale gli utenti possano mettere in mostra le proprie capacità, diventando protagonisti del mondo dell’immagine, scoprire segreti e curiosità
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sulla fotografia, confrontarsi, commentare e votare le fotografie preferite e -come in ogni concorso che si rispetti- vincere numerosi premi. Forte di una gamma completa di prodotti dedicati alla fotografia, per l’utente appassionato e per il fotografo professionista, e sulla scia dei già ricordati Sony World Photography Awards, che ogni anno richiamano autori da tutto il mondo, Sony celebra la passione per la fotografia anche in Italia, creando un palcoscenico per i “fotolovers”. Media Partner dell’iniziativa sono Il Sole 24Ore.com, per l’intera durata del progetto, e Panorama, per i primi sei mesi. Trimestralmente, le due testate premieranno i lettori che si saranno iscritti tramite i loro siti. Ogni mese, per un intero anno, Fotofocus suggerisce un tema. Le fotografie degli utenti caricate sul sito www.fotofocus.it, attinenti al tema mensile, sono sottoposte al voto di tutta la community. Le dieci fotografie che ottengono più voti nell’arco di ognuna delle quattro setti-
Fotofocus è una iniziativa fotografica promossa da Sony Italia: concorso, community e blog (www.fotofocus.it).
mane formano una shortlist mensile di quaranta fotografie. Composta dal fotografo Massimo Bassano, dal giornalista e critico Stefano Biolchini, dal giornalista e docente universitario di Storia della Fotografia Maurizio Rebuzzini (direttore di FOTOgraphia) e da esperti di Sony, tra le quaranta in shortlist, una giuria sceglie le tre fotografie votate come migliori. Ogni mese, in palio tre compatte Cyber-shot. Ma non finisce qui: tra le fotografie degli utenti registrati a Fotofocus tramite i siti dei media partner (www. ilsole24ore.com e www.panorama.it), nelle fasi dedicate, la redazione seleziona le due fotografie migliori (una per ogni testata), i cui autori si aggiudicano weekend per due persone in una capitale europea. Quindi, ai premi dedicati alla fotografia, si aggiunge un premio social, basato sulla logica della gamification e dello sblocco di badge, rivolto a chi è sempre connesso alla Rete e attivo sui social network. Con ogni azione su Fotofocus (come registrarsi, caricare e condividere fotografie con amici sui social network o via mail, o votare fotografie della community), gli utenti accumulano punti e sbloccano badge. Chi, a fine anno, avrà sbloccato i principali badge, parteciperà all’estrazione di tre premi: una Internet TV, un Sony Tablet e una consolle PS3. La logica del concorso fotografico culminerà, infine, con l’assegnazione dei premi fotografici finali. Conclusi i dodici temi, tutte le fotografie caricate su Fotofocus nel corso dell’anno rientreranno in gara per salire sul podio finale. Le tre fotografie vincitrici assolute saranno scelte dalla giuria di qualità. In palio: macchine fotografiche Sony e viaggi per due persone a Tokyo/Kyoto, Sidney e New York. Il regolamento completo è consultabile nella sezione “Cos’è” del sito, al link http://www.fotofocus.it/cose/. Il video dedicato a Fotofocus è online su http://www.youtube.com/watch? feature=player_detailpage&v=smVoQX S9tZM. ❖
World Press Photo, è bello sapere che c’è. Anno dopo anno, il fotogiornalismo vive e racconta il mondo. Prestigioso riconoscimento, il WPP ha il merito di focalizzare l’attenzione sugli avvenimenti della cronaca, che non necessariamente si proietta sulla storia: e su questo riflettiamo. A completamento, una notazione d’orgoglio: sette italiani premiati
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DEL FOTOGI
Sette i fotografi italiani premiati al World Press Photo 2012 (sul 2011); un primo premio, tre secondi premi e altrettanti tre terzi premi di categoria: Eduardo Castaldo (terzo premio Spot New Stories), Simona Ghizzoni / Contrasto (terzo premio Contemporary Issues Singles), Emiliano Larizza / Contrasto (secondo premio Arts and Entertainment Stories), Alex Majoli / Magnum Photos per Newsweek (primo premio General News Singles [a pagina 26]), Pietro Paolini (secondo premio Daily Life Stories), Paolo Pellegrin (secondo premio General News Stories [a pagina 28]) e Francesco Zizola / Noor Images (terzo premio Nature Singles).
di Lello Piazza e Maurizio Rebuzzini
M
etafora. Vi ricordate un leitmotiv dei primi anni Ottanta, “Kodak, è bello sapere che c’è”? Vorremmo ripeterlo qui, non per la povera Kodak, costretta a un Chapter 11 (la procedura americana di concordato preventivo), ma per la più importante competizione internazionale di fotogiornalismo: “World Press Photo, è bello sapere che c’è”. Insomma, è bello che esista un’organizzazione internazionale il cui scopo è «aiutare a capire il mondo attraverso un fotogiornalismo di qualità». Detto questo, è ovvio che i risultati del lavoro delle giurie che si susseguono ogni anno ad Amsterdam possono essere condivisi o criticati, apprezzati o meno. Vediamo qual è stata la mole di lavoro quest’anno: hanno partecipato cinquemiladuecentoquarantasette fotografi (5247), di ventiquattro nazionalità (Afghanistan, Argentina, Australia, Bosnia, Canada, Cina, Danimarca, Francia, Germania, Giappone, Gran Bretagna, India, Iran, Irlanda, Italia, Messico, Olanda, Norvegia, Polonia, Russia, Spagna, Stati Uniti, Svezia e Sudafrica). Le fotografie ricevute sono state centounomila duecentocinquantaquattro (101.254). Esaminarle tutte deve essere stato un lavoro immane, durato due settimane. È dunque impossibile che tutte le scelte della giuria trovino un consenso ecumenico. Perciò, ci sembra istruttivo conoscere le motivazioni di alcuni giurati sulla fotografia vincitrice, di Samuel Aranda [in questa doppia pagina]. Cominciamo dal presidente della giuria, Aidan Sullivan, inglese e vicepresidente dell’unità di Getty Images che commissiona i servizi ai fotografi del-
La World Press Photo of the Year 2012 (sul 2011) è una fotografia realizzata durante un assignment per The New York Times, che mostra una donna velata con un parente ferito tra le braccia. È stata scattata dallo spagnolo Samuel Aranda (Corbis Images), il quindici ottobre, all’interno di una moschea di Sanaa, nello Yemen, utilizzata come ospedale di fortuna durante la rivolta della popolazione contro il presidente Ali Abdullah Saleh, in una delle tante manifestazioni che hanno scosso il mondo arabo e che vanno sotto il nome di Primavera Araba. Che dire? L’immagine è sicuramente molto bella. Ma concordiamo con il giudizio che ne ha dato -a caldoPaul Melcher, uno dei maestri Internet della fotografia. Nell’immagine mancano le quattro fondamentali “w” del giornalismo: who, where, when e why (chi, dove, quando e perché). Secondo Paul Melcher, è un’immagine fuori da ogni contesto di cronaca e noi siamo abbastanza d’accordo. Inutile dire che -sui mediasi sono sprecati paragoni con Tomoko Uemura in her bath, di W. Eugene Smith, la straordinaria immagine che il fotografo statunitense ha realizzato a Minimata (Giappone), nel 1972, all’interno di un reportage sugli effetti devastanti dell’inquinamento da mercurio.
ALL’APICE
ORNALISMO
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Primo premio General News Singles: Alex Majoli, Italia, Magnum Photos per Newsweek. Tahrir Square, Cairo, dopo le dimissioni del presidente egiziano Hosni Mubarak; 10 febbraio.
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l’agenzia: «La fotografia vincitrice coglie un attimo intenso e commovente, che si svolge all’interno di un evento enorme, che non è ancora terminato, la rivoluzione araba. Potremmo anche non sapere chi è quella donna che cura amorevolmente un parente ferito, ma lui e lei diventano il simbolo vivente del coraggio della gente comune che sta creando un importante capitolo della storia del Medio Oriente». Koyo Kouoh, Camerun, fondatrice e direttore artistico della Raw Material Company, società che si occupa di arte e cultura, ha dichiarato: «È una fotografia che parla per un’intera regione, Yemen, Egitto, Tunisia, Libia e Siria, per tutto ciò che rappresenta la Primavera Araba. Ma mostra anche una visione privata, intima di quello che sta succedendo. E mostra soprattutto il ruolo che le donne hanno in tutto questo, come persone attive all’interno del movimento».
Nina Berman, statunitense, fotografa dell’agenzia Noor: «Nei media occidentali, capita raramente di vedere donne velate ritratte in momenti intimi come questo. È come se questo fosse il risultato di tutti i momenti della Primavera Araba». Manoocher Deghati, fotogiornalista franco-iraniano, responsabile dell’Associated Press per il Medio Oriente: «La fotografia è il risultato di un momento molto umano, che ricorda il ruolo cruciale che le donne hanno avuto in questa rivoluzione. Questa immagine mostra la tenerezza che esiste in una realtà parallela a quella di tutte le aggressioni. Nell’immagine, la violenza delle aggressioni è ancora evidente, ma è come se fosse osservata da un altro punto di vista». La giuria ha anche segnalato un’altra importante immagine (che, per regolamento, non è stato possibile premiare, perché non scattata da un fotogior-
nalista professionista, cosa che troviamo un po’ da protezione della casta, una immagine è forte se è forte, non importa chi l’ha scattata). Ecco un commento dell’unico italiano in giuria a questa fotografia di autore sconosciuto/anonimo [a pagina 28]. Renata Ferri, photo editor di Io Donna - Corriere della Sera: «Questa immagine rappresenta un importante documento per i posteri. Un documento che permette di capire le dinamiche che hanno portato Gheddafi alla sua fine». Gli altri membri della giuria sono stati: Monica Allende, Spagna, photo editor del Sunday Times Magazine; Patrick Baz, Libano/Francia, photo manager della agenzia AFP per il Medio Oriente; Nicole Becker, Germania, senior photo editor del settore sport dell’agenzia DPA; Al Bello, Stati Uniti, capo dei fotografi di sport di Getty Images per il Nord America; Daniel Beltrá, Spagna, fotografo che opera nel cam-
po della protezione dell’ambiente; Pablo Corral Vega, Equador, direttore del sito www.nuestramirada.org, dedicato alla fotografia; William Hunt, Stati Uniti, collezionista, docente alla School of Visual Art, di New York; Koji Aoki, Giappone, capo dei fotografi dell’agenzia Aflo Sport; Dana Lixenberg, Olanda, fotografa; Andrei Polikanov, Russia, direttore della fotografia del Russian Reporter; Steve Pyke, Inghilterra, artista e fotografo; Joel Sartore, Stati Uniti, fotografo free lance che lavora per National Geographic; Sophie Stafford, Inghilterra, direttrice del BBC Wildlife Magazine; Ami Vitale, Stati Uniti, fotografo e film maker per l’agenzia Panos Pictures.
Primo premio Spot News Singles: Yuri Kozyrev, Russia, Noor Images per Time. Rivolta libica contro il dittatore Mu’ammar Gheddafi; Ras Lanuf, 11 marzo. (in alto) Secondo premio People in the News Singles: Tomasz Lazar, Polonia. Arresto di una dimostrante a Harlem; New York City, Stati Uniti, 25 ottobre.
WORLD PRESS PHOTO A parte la World Press Photo of the Year 2012 (sul 2011), dello spagnolo Samuel Aranda [a pagina 24], e a parte i vincitori di categoria e i piazzamenti imme-
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Secondo Premio General News Stories: Paolo Pellegrin, Italia, Magnum Photos per Zeit Magazin. Dopo lo tsunami in Giappone; 14 aprile.
Primo premio Daily Life Singles: Damir Sagolj, Bosnia Erzegovina, Reuters. Ritratto del premier Kim Il Sung nella capitale Pyongyang, Corea del Nord; 5 ottobre.
Solo menzione al WPP 2012 (sul 2011), perché, per regolamento, non si possono premiare fotografie realizzate da fotogiornalisti non professionisti. Autore anonimo, una delle tante immagini veicolate in Rete che raccontano gli ultimi istanti del dittatore libico Mu’ammar Gheddafi.
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diatamente successivi, cosa rappresenta -nel proprio insieme- il World Press Photo, a tutti gli effetti il più significativo premio del fotogiornalismo internazionale? Anno dopo anno, il fotogiornalismo vive e racconta il mondo. Prestigioso riconoscimento, il World Press Photo ha il merito di focalizzare l’attenzione sugli avvenimenti della cronaca, che non necessariamente si proietta sulla Storia: e su questo riflettiamo. Pur confermando la matrice della fotografia del dolore, che ormai caratterizza e definisce il nostro tempo, la selezione delle fotografie premiate e segnalate all’edizione 2012 dell’ambìto Premio, per fotoreportage realizzati nel precedente 2011, stabilisce i lineamenti del nostro tempo, annotando anche visioni di profilo. Da cui, riflessione d’obbligo: quali connotati deve possedere una fotografia, per elevarsi a icona del proprio tempo? Per quanto non sia questo lo scopo, né l’intenzione prima e originaria, dell’immagine -soprattutto nel momento in cui viene realizzata-, la domanda è in qualche misura lecita se e per quanto consideriamo la cronaca che si proietta nella Storia. Ricca di indelebili icone, che appartengono alla cultura visiva universale, da tempo la vita contemporanea non si attarda più molto sulla propria raffigurazione, tanto che l’idea stessa di icona, alla quale stiamo dando peso e valore, pare essere questione antica, superata e messa in disparte dai ritmi rapidi dell’informazione dei nostri giorni. Così che, a integrazione di quanto tanto già scritto negli scorsi anni, sempre in occasione del tradizionale appuntamento con il World Press Photo, scartiamo a lato altre considerazioni già espresse, analizzate e approfondite, per introdurre oggi una nuova ipotesi, appunto quella del fotogiornalismo che non ha più modo e tempo di proiettare in avanti la propria influenza e valore visivo, ma si deve concentrare soprattutto sulla propria palpitante attualità. Da cinquantacinque anni abbondanti, il World Press Photo è sia uno dei più significativi riconoscimenti nell’ambito del fotogiornalismo internazionale sia una coerente e convincente testimonianza visiva delle vicende dell’anno appena trascorso. Divise in categorie tematiche, a propria volta scomposte nella duplice indicazione di immagine singola (appunto, Singles ) e reportage completo (Stories), a tutti gli effetti le fotografie vincitrici sono le più forti e significative di un intero anno, pubblicate sui giornali di tutto il mondo. Sono inserite nel cadenzato volume-catalogo, ospitate sul sito www.worldpressphoto.org, che allestisce una galleria di immagini dei premiati, estendendosi alle selezioni complete delle Stories, e riunite in una mostra itinerante, in occasione della quale ogni anno riflettiamo sulla proiezione del fotogiornalismo nella storia evolutiva del linguaggio fotografico e nelle vicende quotidiane della società contemporanea.
IL DOLORE (DEGLI ALTRI) Come abbiamo avuto modo di sottolineare in tante occasioni, a questa odierna precedenti, da tempo l’insieme del World Press Photo è testimonianza di dolore e tragedia della vita: a partire dalla World
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Secondo premio Arts and Entertainment Singles: Vincent Boisot, Francia, Riva Press per Le Figaro Magazine. Indossando un capo di Yolande Mancini, una modella posa per un sarto locale, durante la nona edizione della Dakar Fashion Week; Dakar, Senegal, 9 luglio. (in alto) Secondo premio Sports Singles: Ray McManus, Irlanda, Sportsfile. Azione di gioco durante la partita di rugby Old Belvedere contro Blackrock; Dublino, Irlanda, 5 febbraio.
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Press Photo of the Year, ovverosia la fotografia dell’anno, che si eleva sopra tutte, fino alle indicazioni delle categorie proprie del fotoreportage sulla e della vita. Tanto che, riprendendo l’ipotesi originaria, alcune delle fotografie affermatesi in passato non si sono esaurite nelle rispettive cronache, ma si sono allungate avanti negli anni. La qualifica di icona, eccoci, dipende in eguale misura, anche se su due livelli concettuali diversi, dallo spessore visivo dell’immagine stessa e/o dalla vicenda documentata, testimoniata e raccontata (e decliniamo “icona” con rispetto e considerazione). Per cui, possiamo considerare “icone” in assoluto la fotografia del generale della polizia Nguyen Loan che uccide un sospetto Vietcong sparandogli alla tempia, in mezzo alla strada (di Eddie Adams, World Press Photo of the Year 1968 ), e la fotografia del dimostrante che blocca i carri arma-
ti dell’esercito cinese durante le proteste di piazza Tiananmen per le riforme civili (di Charlie Cole, World Press Photo of the Year 1989 ). Nel primo caso, l’immagine è devastante per se stessa; nel secondo, la sua assimilazione visiva si conteggia anche sulla ripetizione a mezzo stampa, determinata da un certo orrore provocato dalla cruda repressione militare di un movimento universalmente considerato pacifico.
LA VITA, IN DIRETTA Così che, di fronte alle fotografie premiate e segnalate dalla giuria dell’attuale World Press Photo 2012, che ha preso in esame e considerazione fotografie scattate lo scorso 2011, non abbiamo strumenti incontestabili per stabilire quali e quante hanno valore visivo oltre i riferimenti temporali delle rispettive cronache. Però, un’idea l’abbiamo, e la esterniamo.
Non certo per mancanza di spessore o valore documentativo, osiamo pensare che nessuna delle fotografie attuali possiede le stigmate dell’icona, ma potremmo essere smentiti da futuri svolgimenti, che riteniamo comunque ampiamente improbabili. Perché pensiamo che nessuna di queste fotografie possa estendere il proprio destino? Perché, ci piaccia o meno, la tragedia della vita, il suo dramma e la sua commedia (che il World Press Photo segnala nelle proprie sezioni più “leggere”) non sono più eccezioni esistenziali, ma componenti quotidiane con le quali facciamo i conti ogni sera, sintonizzando i nostri televisori domestici su qualsivoglia telegiornale. E poi, pensiamo anche alle news che ci raggiungono individualmente (che possono raggiungerci individualmente, se lo vogliamo) sui display degli smartphone, che abbiamo in tasca e sullo schermo dei tablet, che ab-
biamo sempre con noi (nel mondo occidentale). In consecuzione, ogni giorno spazza via quanto successo ventiquattro ore prima, ogni settimana, ogni mese e ogni anno si susseguono con ritmo sempre più vorticoso, senza concedere più tempo alla riflessione e approfondimento: questo è il prezzo da pagare, ci piaccia o meno, all’incalzare dell’informazione, alla esasperata successione di fotografie che raccontano la vita, in diretta e senza soluzione di continuità. Oltre il senso trionfale che quantifica il successo della manifestazione, un certo successo della manifestazione, le cifre del World Press Photo esprimono anche questo, se in tale direzione accettiamo di interpretarle e leggerle. Cifre da brivido, già richiamate. Ovviamente, questi valori non richiedono giudizi, né si accompagnano con considerazioni conse-
Primo premio Nature Singles: Jenny E. Ross, Stati Uniti. Un orso polare procede in modo precario sul pendio di una montagna di fronte all’oceano; Novaya Zemlya, Russia, 30 giugno.
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Secondo premio Sports Stories: Adam Pretty, Australia, Getty Images. Tuffatori in allenamento per la quattordicesima Fina World Championships; Oriental Sports Center, Shanghai, Cina, 17 luglio.
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quenziali. Soltanto, conteggiano come sia sempre più improbabile arrivare a una sintesi visiva dell’esistenza che sia effettivamente rappresentativa della vita, individuata in un proprio momento isolato e significativo: la parte per il tutto. Ovvero, l’abbondanza va a scapito dell’effettiva possibilità di concentrazione individuale. (Rilevando questo, sappiamo benissimo di essere in torto e malafede. Infatti, non è assolutamente un problema di quantità, che pure potrebbe presentarsi in altre condizioni e situazioni, ma di colpevole assenza dei giornali di tutto il mondo, che pubblicano sempre meno servizi fotografici di impatto, preferendo a questi una informazione generica, oltre che asservita).
Con ciò, la nostra ardita teoria di conteggi soltanto matematici (centounomila duecentocinquantaquattro / 101.254 fotografie di cinquemiladuecentoquarantasette fotografi / 5247 fotografi) è comunque provocatoria: parliamone. ❖ World Press Photo: Fotografia e giornalismo (le immagini premiate nel 2012). Catalogo pubblicato da Contrasto (www.contrasto.it). ❯ Museo di Roma in Trastevere, piazza Sant’Egidio 1b, 00153 Roma; www.museodiromaintrastevere.it. Dal 28 aprile al 20 maggio; martedì-domenica 10,00-20,00. A cura dell’Agenzia Contrasto. ❯ Galleria Carla Sozzani, corso Como 10, 20154 Milano; www.galleriacarlasozzani.org, info@galleriacarlasozzani.com. Dal 6 maggio al 3 giugno; lunedì 15,30-19,30, martedì-domenica 10,30-19,30, mercoledì e giovedì fino alle 21,00.
FINO A Q
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SENZA OB
QUANDO
MARCO FAGANEL
MAURIZIO REBUZZINI
Con sostanzioso anticipo sulle rispettive date di svolgimento, registriamo due iniziative correlate e connesse, organizzate e svolte alla luce della fotografia stenopeica, ovverosia senza obiettivo. In ripetizione -doverosa-, personalmente siamo combattuti: da una parte, seguiamo con passione questa espressione fotografica, che affonda le proprie radici indietro nei secoli, addirittura in tempi antecedenti la nascita della fotografia; da una altra parte, e in coincidenza di visione, siamo convinti che molte frequentazioni stenopeiche dei nostri giorni, non tutte, per fortuna, rappresentino anche una malaugurata scorciatoia (per gli imbecilli che non hanno modo di esprimersi con capacità autentica). Come distinguere l’una intenzione e dimensione dall’altra? Con il cuore, prima che con altri criteri possibili Combinazione visiva volontaria e consapevole: la creatività fotografica, anche quella arbitraria e trasgressiva (diciamola così), non dipende mai dagli strumenti, ma dalle intenzioni e interpretazioni degli autori: non come, ma perché. Dunque, una fotografia stenopeica ripresa con reflex Nikon D5000 si allinea ideologicamente a una fotografia stenopeica tradizionale, che visualizza un apparecchio medio formato 6x6cm con pellicola rullo 120/220.
BIETTIVO?
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di Angelo Galantini
P In queste pagine presentiamo sei autori che espongono nelle rassegne di fotografia stenopeica a Tolmezzo, in provincia di Udine, dal trentuno marzo al ventinove aprile (Worldwide Pinhole Photography Day), e a Senigallia, in provincia di Ancona, dal diciannove maggio al quattro giugno: in ordine, Marco Faganel (in questa doppia pagina), Andrej Furlan (doppia pagina 38-39), Marko Vogrič (doppia pagina 40-41), Robi Jakomin (doppia pagina 42-43), Beppe Bolchi (doppia pagina 44-45) e Viljam Laurenči č (doppia pagina 46-47).
ersonalmente, elogiamo ed esaltiamo le possibilità tecnologiche che la fotografia sta offrendo nella propria attuale epoca dell’acquisizione e gestione digitale di immagini. Tante sono le opportunità proposte, e altrettante le strade percorribili. Ancora personalmente, amiamo intensamente la fotografia che non fa vessillo delle modernità oggi possibili e a comoda portata di ciascuno, ma continua lungo il percorso fotochimico tracciato in decenni di espressività applicata. Ancora personalmente, e in sovramercato, osserviamo con piacere e incanto ogni possibile e potenziale manifestazione della fotografia, senza soluzione di continuità da quelle più consone e tradizionali a quelle volontariamente e consapevolmente arbitrarie (da cui: in apertura, sulla precedente doppia pagina, una interpretazione stenopeica realizzata con reflex ad acquisizione digitale di immagini). Ciò a dire, una volta di più, una volta ancora, mai una volta di troppo, che non siamo minimamente condizionati dai parametri con i quali la Fotografia si manifesta (maiuscola intenzionale e deliberata), quanto dalle intenzioni per le quali rivela, svela e palesa il proprio linguaggio, la propria visione, le proprie intenzioni. Insomma, diciamocelo con franchezza doverosa: il come è in qualche misura necessario, il perché è sempre indispensabile. Il tutto, senza alcuna contrapposizione di tecnologie, l’una contro l’altra armate. Da cui e per cui, se torniamo a occuparci di fotografia realizzata con il foro stenopeico, ovverosia senza obiettivo ottico (che ospitiamo spesso su queste nostre pagine), non è per alimentare questa particolare metodologia espressiva, quanto per registrare efficaci intenzioni fotografiche, in una
DUE INIZIATIVE, PIÙ UN’ALTRA
Doverosa sintesi delle iniziative stenopeiche che stanno per svolgersi nei prossimi mesi. In cronologia. ❯ Palazzo Frisacco, via Renato Del Din 7, 33028 Tolmezzo UD: dal 31 marzo al 29 aprile, esposizione di fotografie stenopeiche di Beppe Bolchi e del gruppo Camera Oscura Slovenica (Marco Faganel, Andrej Furlan, Robi Jakomin, Viljam Laurenčič e Marko Vogrič, che l’anno scorso hanno esposto a Kranj, in Slovenia, nella casa natale del pioniere della fotografia Janez Puhar). Ancora, didattica della fotografia stenopeica con lavori di alunni della scuola dell’obbligo, presentati da Marco Palmioli e Dino Zanier. ❯ Domenica 29 aprile: dodicesimo Worldwide Pinhole Photography Day, con iniziative diversificate, che si svolgono in tutto il mondo (www.pinholeday.org). ❯ Palazzo del Duca, via Mastai 14, 60019 Senigallia AN: dal 19 maggio al 4 giugno, esposizione di fotografie stenopeiche di Beppe Bolchi e del gruppo Camera Oscura Slovenica (Marco Faganel, Andrej Furlan, Robi Jakomin, Viljam Laurenčič e Marko Vogrič). 19 maggio, dalle 10,00, nella Sala del Trono dello stesso Palazzo del Duca (con straordinario soffitto costituito da una struttura lignea a cassettoni): convegno Lo specifico stenopeico. Filosofia e pratica della fotografia stetoscopica, con la partecipazione di Beppe Bolchi, Carlo Emanuele Bugatti, Luigi Cipparrone, Guido Frizzoni, Vincenzo Marzocchini, Nino Migliori, Maurizio Rebuzzini, Michele Smargiassi, Franco Vaccari e Dino Zanier; presentazione della monografia Camera Obscura. La lentezza dell’istantanea, di Vincenzo Marzocchini e Marco Mandrici, pubblicata dalle edizioni Lanterna Magica.
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certa misura (quella che conta) indipendenti dalle metodologie di realizzazione. In traduzione: non eleviamo di tono e valore l’azione, quanto rimaniamo fedelmente legati alle interpretazioni.
ARBITRARIETÀ... PROGRAMMATA In questo senso -pur aderendo alle intenzioni degli organizzatori, dando un nostro contributo e amplificando l’annuncio con questa nota redazionale-, prendiamo in qualche modo e misura le di-
Fotografie stenopeiche di Marco Faganel. Visioni di luoghi, evocazioni di situazioni nelle quali e per le quali la fotografia senza obiettivo -che affonda le proprie radici indietro nei secoli, addirittura in tempi antecedenti la stessa invenzione della fotografia (data ufficiale, 1839)esprime libertà di osservazione e raffigurazione. Non tanto trasgressione visiva, che pure è, non solo interpretazione arbitraria, che pure è, ma soprattutto indipendenza raffigurativa. Con la quale sintonizzarsi.
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ESPERIENZE STENOPEICHE
La bibliografia sulla fotografia stenopeica, in inglese pinhole, è più che consistente, oltre che facilmente individuabile e reperibile, soprattutto in Rete. Tra tanto, e in allineamento con le consistenti prossime iniziative di Tomezzo, in provincia di Udine (dal trentuno marzo al ventinove aprile), e Senigallia, in provincia di Ancona (dal diciannove maggio al quattro giugno), sono doverose tre segnalazioni recenti. A cura di Paola Gribaudo, e commentata con testi di Dario Voltolini, Torino silenziosa è una raccolta di fotografie stenopeiche di Guido Frizzoni (SilvanaEditoriale, 2011). Qui non conta il come, quanto il perché: l’interpretazione stenopeica è finalizzata a una rappresentazione particolare e personale del capoluogo piemontese. Come sempre, la fotografia non è realtà, ma sua parafrasi: tra il vero e la sua raffigurazione, che è autentica rappresentazione, ci sta l’autore, con le proprie intenzioni e intromissioni. In questo caso, declinate con i termini e le non-convenzionalità del foro stenopeico. Altrettanto si può attribuire alla raccolta Camera Obscura. La lentezza dell’istantanea, con fotografie stenopeiche di Vincenzo Marzocchini e Marco Mendrici e testi introduttivi dello stesso Vincenzo Marzocchini (Lanterna Magica, 2011), che viene presentata nell’ambito delle manifestazioni a tema di Senigallia, in provincia di Ancona, sabato diciannove maggio. Qui, due modi diversi di intendere l’espressività fotografica, uniti dal filo comune del mezzo, della mediazione, ma separati dalle rispettive interpretazioni: magia e fascino della trasgressione fotografica, volontaria e consapevole. Infine, La scatola dei racconti (Circolo Culturale Fotografico Carnico, 2008) riunisce e classifica le esperienze svolte da Dino Zanier con gli scolari della Scuola Media Statale Gian Francesco da Tolmezzo, di Tolmezzo, in provincia di Udine. Siamo lontani e distanti da qualsivoglia intenzione espressiva, ma vicini a quello che è il fantastico avvicinamento all’immagine fotografica, in età scolare. Nessuna sovrastruttura, nessuna implicazione, ma solo e soltanto il desiderio di vedere, oltre il solo guardare. E la differenza, se lo vogliamo sottolineare, non è certo esigua. Anzi, è vero l’esatto contrario.
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stanze. Ovverosia, con l’onestà intellettuale sulla quale si fonda e basa il nostro credo fotografico e giornalistico, non possiamo non rivelare una sorta di malessere nei confronti dell’arbitrarietà... programmata, che -a nostro modo di vedere- spoglia la stessa soggettività (e illegalità?) della fotografia stenopeica di un proprio valore distintivo: per l’appunto, quello della spontaneità e, perché no?, individualità volontaria (e forse obbligatoria). In ogni momento della vita, in ogni istante dell’esistenza, la trasgressione è sempre incantevole e seducente: va incalzata, sollecitata e richiesta. Sempre. Però, a nostro modo di vedere, nel momento stesso nel quale la fotografia stenopeica si manifesta in quanto tale -fotografia stenopeica (cioè come, e non perché )- perde quell’indice rivoluzionario e non autorizzato che ne definisce il valore e la forza, che compone i tratti della fantastica trasgressione. In assoluto, contano sempre e soltanto l’immagine, la comunicazione e l’espressione visiva, non il modo nel quale le si ottiene. Ciò premesso, registriamo la sincerità e correttezza con le quali il Musinf di Senigallia, in provincia di Ancona (Museo Comunale d’Arte Moderna dell’Informazione della Fotografia), organizza una serie di manifestazioni dedicate e riservate ai cultori della fotografia stenopeica. L’appuntamento della seconda metà di maggio non è casuale, almeno per due motivi. Anzitutto, si inserisce nell’ambito delle iniziative del costituito Osservatorio e Archivio della fotografia stenopeica, da tempo allestito all’interno dello stesso Museo; quindi, si svolge in concomitanza con la Notte de Musei, di sabato diciannove maggio, ovverosia si aggiunge e allinea a una diversificata serie e quantità/qualità di proposte allineate e correlate tra loro. In particolare, il diciannove maggio inaugurano le mostre allestite a Palazzo del Duca, di Senigallia, in cartellone fino al quattro giugno. Espongono autori selezionati dall’Osservatorio, che arrivano nelle Marche dopo una loro analoga vetrina a Palazzo Frisacco, di Tolmezzo, in provincia di Udine, dal trentuno marzo al ventinove aprile (ecco qui la seconda delle due rassegne coincidenti qui e ora richiamate): Beppe Bolchi e il gruppo Camera Oscura Slovenica (Marco Faganel, Andrej Furlan, Robi Jakomin, Viljam Laurenčič e Marko Vogrič, che l’anno scorso hanno esposto a Kranj, in Slovenia, nella casa natale del pioniere della fotografia Janez Puhar). Al medesimo tempo, dalla mattina dello stesso diciannove maggio, altre due iniziative mirate, nella Sala del Trono, del Palazzo del Duca, presso il quale sono allestite le mostre a tema: convegno Lo specifico stenopeico. Filosofia e pratica della fotografia stetoscopica, con la partecipazione di Beppe Bolchi (artista-fotografo), Carlo Emanuele Bugatti (direttore del Musinf di Senigallia), Luigi Cipparrone (editore e docente di fotografia), Guido Frizzoni (fotografo, autore della monografia Torino silenziosa; qui accanto), Vincenzo Marzocchini (fotografo stenopeico e pubblicista), Nino Migliori (artista-fotografo), Maurizio Rebuzzini (direttore di FO-
Fotografie stenopeiche di Andrej Furlan. Alla maniera di tante indicazioni che provengono dalla storia evolutiva del linguaggio fotografico, avvincenti osservazioni... in passeggio. Non c’è l’investigazione di soggetti cercati e inseguiti, ma si manifesta la curiosità per quanto si incontra quotidianamente, nel solo e semplice svolgersi della propria giornata. L’occhio scorre libero, l’animo non è orientato, e la lentezza obbligata (e obbligatoria) della fotografia senza obiettivo scandisce il tempo dell’esistenza individuale.
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Fotografie stenopeiche di Marko Vogrič. Azione forte, azione decisa, azione determinata. La delicatezza dei fiori è composta in combinazioni di lavoro manuale energico, sottolineato dalla presenza di utensili vigorosi. La declinazione è progettata sulla contrapposizione di opposti: morbidezza e solidità si allineano alla registrazione propria della fotografia senza obiettivo, che molto rivela, ma altrettanto lascia intendere. Ancora, dal centro verso i bordi, la luce sfuma e si disperde, in modo che si crei una sorta di sfondo sul quale i soggetti si esprimano separati dal proprio contesto originario.
UN ANNO, ADDIRITTURA
Il Primo gennaio 2011, il canadese Michael Chrisman, di Toronto, ha collocato una propria camera stenopeica autocostruita nel porto della sua città. L’ha recuperata il trentuno dicembre, dopo un anno, trecentosessantacinque giorni (e notti) di esposizione: probabilmente il più lungo tempo di posa di tutta la storia della fotografia, che nella propria preistoria conteggia le otto ore con le quali, nel 1826 (o 1827), Joseph Nicéphore Niépce ottenne la sua eliografia Veduta dalla finestra di Gras, classificata come prima “fotografia” in assoluto. Calcolo aritmetico, dalle 00,00 del Primo gennaio alle 24,00 del trentuno dicembre: ottomilasettecentosessanta ore (8760 ore), ovvero cinquecentoventicinquemila seicento minuti (525.600 minuti), ovvero trentuno milioni e cinquecentotrentaseimila secondi (31.536.000 secondi). In ogni caso, un tempo di otturazione irraggiungibile con qualsivoglia altro sistema fotografico. La fotografia raffigura il profilo della città, con la CN Tower perfettamente identificabile, e la scia luminosa del Sole, che, gradatamente, cambia posizione con il passare dei giorni e delle stagioni.
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TOgraphia e docente di Storia della Fotografia), Michele Smargiassi (giornalista, acuto osservatore del panorama fotografico), Franco Vaccari (artista-fotografo) e Dino Zanier (docente che si interessa di fotografia didattica; a pagina 38); e presentazione della monografia Camera Obscura. La lentezza dell’istantanea (parole e immagini), di Vincenzo Marzocchini e Marco Mandrici, pubblicata dalle edizioni Lanterna Magica (ancora, a pagina 38).
GIORNATA A TEMA E ALTRO Domenica ventinove aprile, giornata conclusiva del programma stenopeico di Tolmezzo, in provincia di Udine, avviato il precedente trentuno marzo, è anche la giornata internazionalmente dedicata alla fotografia senza obiettivo: dodicesima edizione del Worldwide Pinhole Photography Day, con iniziative diversificate, che si svolgono in tutto il mondo. Nei diversi fusi orari della Terra, è una Giornata Mondiale che celebra la fantasia, la creatività, l’arte, il divertimento e l’esperienza della fotografia senza obiettivo. In forma autonoma, oltre che spontanea, gli autori e gli appassionati sono invitati a una partecipazione attiva, oltre le specifiche iniziative a tema che vengono organizzate e svolte da associazioni e organizzazioni. Si chiede di realizzare fotografie con un qualsiasi sistema a foro stenopeico (ufficiale o autocostruito), per contribuire alla salute e conseguente continua diffusione di un procedimento fotografico storico, che prevede l’esposizione senza obiettivo di materiale sensibile e la sollecitazio-
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Fotografie stenopeiche di Robi Jakomin. Luoghi, punto e basta: che non rappresentano soltanto se stessi -come pure fanno-, ma che si propongono come figurativi di tutti i luoghi. In un certo senso, è a questo che la fotografia senza obiettivo induce a pensare. Piano, piano. A rilento.
ne, sempre senza obiettivo, di sensori digitali. Quindi, è prevista la combinazione con il sito dedicato www.pinholeday.org, sul quale verrà pubblicata una fotografia di ogni autore, che entrerà a far parte della galleria internazionale web. FOTOgraphia si è occupata di foro stenopeico in diverse occasioni, sia analizzandone il linguaggio, sia commentando apparecchi fotografici e sistemi finalizzati, sia riferendo esperienze pratiche. A questo punto, con l’occasione dell’imminente Wppd 2012, domenica ventinove aprile, e sull’onda lunga delle iniziative coincidenti di Tolmezzo, in pro-
STENOPEICO DELLE ORIGINI
Per quanto, in una confusione di idee e buona volontà, Leonardo da Vinci (1452-1519) sia indicato e avvalorato da molti come l’inventore della camera obscura, non è assolutamente vero. Infatti, le descrizioni dello strumento vanno inequivocabilmente indietro di secoli: almeno, al 1027 di Alhazen (Ab Al al-Hasan ibn al-Hasan ibn al-Haytham; 965-1038; uno dei più importanti e geniali scienziati del mondo islamico, e in genere del principio del Secondo millennio, considerato l’iniziatore dell’ottica moderna). Per non parlare, poi, della conoscenza dell’azione della luce e formazione delle immagini: nel IV secolo aC, Aristotele osserva che i raggi del sole che passano per una piccola apertura producono un’immagine circolare; un secolo prima (V secolo aC), anche il cinese Mo Ti aveva annotato lo stesso fenomeno. Del resto, Leonardo da Vinci dedica alla camera obscura qualche centinaia di schemi, soprattutto riferiti alla dimostrazione di un certo numero di fenomeni ottici di base, quali l’inversione e la non interferenza delle immagini, oppure la loro proprietà di essere «tutte in tutto e tutto in ogni parte». Poiché la camera obscura simula le funzioni di base del processo visivo, per Leonardo, il suo confronto con l’occhio fisiologico assume un significato fondamentale, consistente in una serie di affermazioni basate su studi empirici. Soprattutto, per Leonardo, l’apertura della camera obscura è analoga all’apertura della pupilla. Ancora: per Leonardo, gli esperimenti di astronomia con la camera obscura sono di poco interesse (mentre sono fondamentali per altri scienziati); invece, si indirizza verso quelli che individuano analogie tra la visione dell’occhio fisiologico e il funzionamento dello strumento. La camera obscura gli serve per dimostrare una lunga e differenziata serie di caratteristiche della visione. La prima è che la pupilla, come il foro stenopeico, capovolge e inverte da destra a sinistra le immagini del campo visivo (ed è poi il cervello che le raddrizza). Le prime considerazioni al proposito risalgono al 1483-1485, e il princìpio dell’inversione viene successivamente descritto in altri fogli, fino al 1487 circa. In numerosi schemi, compaiono sia l’occhio sia la camera obscura, per evidenziarne le affinità di funzionamento (per approfondimenti individuali: L’ottica di Leonardo tra Alhazen e Keplero, di Linda Luperini). A seguire, in molte storie si afferma che il (ventitreenne) filosofo, alchimista e commediografo italiano Giovanni Battista della Porta (1535-1615) avrebbe riportato una descrizione della camera obscura nel suo Magiae Naturalis, del 1558, nel quale viene espressa una concezione magico-spiritualistica del mondo simile a quella di Paracelso/Paracelsus (Philippus Aureolus Theophrastus Bombastus von Hohenheim; 1493-1541). In particolare, molti (tutti) affermano che avrebbe descritto il princìpio della camera obscura con foro stenopeico come ausilio al disegno. No! Non è proprio così. In realtà, nel libro IV, capitolo II, con Quomodo in tenebris ea conspicias, quæ foris à Sole illustrantur, & cum suis coloribus (tradotto in Inche modo si possa uedere le cose con il proprio colore, benche il Sole gli percuota sopra, nelle edizioni in volgare, dal 1560,
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vincia di Udine, e Senigallia, in provincia di Ancona, si impone una considerazione a monte, che non possiamo evitare. Spesso svilito a solo giochino fine a se stesso, altrettanto frequentemente adottato da fotografi privi di talento e capacità, alla spasmodica ricerca di una personalità creativa mai meritata, applicato alla ripresa (ed espressività), il foro stenopeico è una costante che ha attraversato indenne i decenni e le tecnologie, tanto da essere anche abbinabile (e abbinato) agli attuali e futuribili sensori ad acquisizione digitale di immagini.
che in sommario/indice iniziale semplificano in A ueder le cose nel proprio calore benche sieno percosse dal sole), Giovanni Battista della Porta descrive una stanza oscurata, con foro stenopeico verso l’esterno per l’osservazione agevolata di paesaggi assolati (producendo una proiezione simile a quelle fotografate in interno da Abelardo Morell; FOTOgraphia, luglio 2006). In assoluto, ogni storia che si avventuri in questo propone come prima visualizzazione di una camera obscura con foro stenopeico quella che il fisico, matematico, cartografo, filosofo e costruttore di strumenti tecnici olandese Rainer Gemma Frisius (1508-1555) pubblicò nel 1545 nel suo De radio astronomico & geometrico liber, relativa alla contemplazione dell’eclissi di sole dell’anno precedente. Sì, ma non si va mai oltre questa semplice e sola illustrazione (anche nella storia 1839-2009. Dalla Relazione di Macedonio Melloni alla svolta di Akio Morita, del 2009, di Maurizio Rebuzzini). Presso la biblioteca dell’Università Complutense, di Madrid, sono rintracciabili due edizioni del testo: l’originaria del 1545 e una successiva, del 1558. Nella prima, l’illustrazione è effettivamente quella ampiamente usata e abusata [qui sotto, a sinistra]; nell’altra è stata cambiata, sostituita da una visualizzazione aggiornata e diversa [qui sotto, a destra]. Per quanto serva... ecco qui. Un’altra menzione ripetuta “a pappagallo” è quella che riguarda il gesuita, filosofo e storico tedesco Athanasius Kircher (1602-1680), che nel suo trattato Ars Magna Lucis et Umbrae, del 1646, visualizza una grande camera obscura portatile. Ancora, è utile una biblioteca universitaria, nello specifico di quella di Losanna, in Svizzera. Tra l’altro, a seguire, lo stesso libro riporta numerose applicazioni astronomiche del foro stenopeico (che così diventa foro gnomonico) e un intenso capitolo su strumenti che compongono la preistoria delle lanterne magiche: altri discorsi.
Rainer Gemma Frisius: illustrazione di camera obscura con foro stenopeico, relativa alla contemplazione dell’eclissi di sole dell’anno precedente, in De radio astronomico & geometrico liber, del 1545, e altra illustrazione nelle edizioni successive (questa, del 1558).
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Fotografie stenopeiche di Beppe Bolchi. In ripetizione di una precedente presentazione (nell’aprile 2007), la città rappresentata con il foro stenopeico restituisce la valenza di case, edifici, arredi, quasi fini a se stessi, pur se disegnati e realizzati in funzione dell’uomo. Una rivincita: con i propri tempi di posa lunghi (allungati), con le proprie visioni pensate e non rubate, l’antica tecnica del foro stenopeico fa in modo che sia la città stessa a entrare nell’immagine, a specchiarsi, ad aprirsi e rappresentarsi nella propria realtà, semplice o complessa, con prospettive naturali.
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Ciò detto, rimane solo lo sconforto, un certo sconforto, per le frequentazioni di quei fotografi che approdano all’uso del foro stenopeico come ultima spiaggia di controversi e contraddittori percorsi individuali, totalmente privi della minima coscienza e coerenza espressiva. Così che, in molti casi, si finisce per confondere i termini del discorso creativo: la nobiltà del foro stenopeico diventa alibi dietro il quale celare l’assoluta assenza di valori, intenzioni e capacità. Per fortuna, in contraltare, ancora ai nostri giorni, soprattutto ai nostri giorni (pare incredibile, ma è così), la fotografia a foro stenopeico impegna di nuovo eccellenti autori, che declinano con intelligenza la profondità culturale dell’esposizione senza obiettivo. In questo senso, non è il caso di richiamare esperienze intenzionalmente artistiche (a partire dall’italiano Paolo Gioli, la cui creatività è al di sopra di ogni sospetto). Però, è doveroso sottolineare il valore di coloro i quali agiscono con il foro stenopeico per realizzare immagini fotografiche con alto senso visivo: immagini che si affermano e im-
QUEI FANTASTICI SEGRETI
Romanzo avvincente, soprattutto per coloro i quali (noi, tra questi) possono comprendere e decifrare la sostanza delle considerazioni, I segreti della camera oscura, di David Knowles, soffre delle inevitabili approssimazioni e superficialità italiane. Infatti, il titolo originario è The Secrets of Camera Obscura: e tra “camera oscura” e “camera obscura” la differenza è più profonda di quanto possa palesare l’omissione/trascrizione di una consonante in meno (la “b” di “obscura”). Con franchezza: con camera oscura si intende il locale nel quale si stampano, si sono stampati, i negativi bianconero (e anche quelli a colori), ovvero si comprende il locale-laboratorio adibito allo sviluppo e stampa di materiali chimici fotosensibili; invece, e mille e mille miglia disgiunte, con camera obscura si interpretano le configurazioni originarie e native di formazione delle immagini, per lo più dotate di foro stenopeico, e successivamente corredate di autentico obiettivo. David Knowles racconta per l’appunto di una camera obscura, all’interno della quale un foro stenopeico strategicamente disposto proietta immagini dell’esterno, creando visioni mirabili, che sono alla base del suo resoconto in forma romanzata, con annessi e connessi che invitiamo a scoprire, ciascuno per sé, ciascuno nell’intimità della propria lettura. Con il pretesto di una vicenda romanzata, con protagonisti che si alternano sul palcoscenico del racconto, I segreti della camera oscura (che avrebbe dovuto titolare I segreti della camera obscura) indaga e rivela anche notazioni storiche, a partire dalle fantastiche personalità dei cinesi Mo Ti e Chuang Chuo, che cinque secoli prima della nascita di Gesù, alla quale riferiamo i tempi della vita, visualizzarono che la luce che passa attraverso un piccolo foro (che oggi definiamo stenopeico) forma un’immagine. La vicenda si svolge ai margini di una camera obscura gigante, nella quale si proietta il mondo esterno nell’istante preciso dell’osservazione (dall’interno). Spettacolo senza tempo, non è descrivibile: lo si deve provare, così come lo visualizzano i fotografi stenopeici attivi ancora ai nostri giorni (grazie a loro!). Infatti, la camera obscura ritrae effettivamente il mondo in una luce molto più affascinante di quella che l’occhio fisiologico riesce a percepire. Al posto della pellicola fotosensibile (o del sensore ad acquisizione digitale) c’è la persona che osserva, ci siamo noi! L’esperienza di guardare lo schermo della camera obscura, sul quale si raccoglie la proiezione dell’immagine, evoca sensazioni di solennità e timore reverenziale. Questa commozione non è alla portata di tutti, lo sottolineiamo subito a gran voce, ma appartiene soltanto a coloro i quali sanno apprezzare le sottigliezze. E sono questi animi eletti che sanno rendere raggiungibili le loro proprie emozioni, concedendo alle persone amate un posto nella memoria, dove il ricordo sia sereno e non faccia male.
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Fotografie stenopeiche di Viljam Laurenči č. Spazi abbandonati, che ancora palpitano delle presenze che nel tempo, e fino a qualche tempo fa (quanto?), li hanno vissuti e animati. Spazi figurativamente vuoti e svuotati, sui quali l’ingiuria dell’età impone le proprie indelebili tracce. Spazi che attendono qualcosa e qualcuno. Non è arrivata la mano risanatrice, la mano che li può riportare allo splendore esistenziale che loro ricordano, e al quale ancora aspirano. Ma -in punta di piedisi è avvicinato un fotografo, armato di un marchingegno inconsueto, privo di obiettivo, ma dall’animo disponibile. Nessuna nostalgia, ma la pietas, che l’autore invita ad avviare, per armonizzarsi con queste tracce di vita.
pongono per la propria indiscussa espressività, che scarta a lato la forma (per quanto indispensabile e qui applicata con ricercata volontarietà), per portare in primo piano i contenuti. Ed è il caso, tra i tanti, dei bravi autori esposti in Friuli e nelle Marche. Allo stesso momento, la magia del foro stenopeico, che forma immagini proiettate di straordinario fascino, conferma ancora indiscutibili doti didattiche. Perfino ai nostri odierni tempi tecnologici, caratterizzati e definiti da esuberanti compagnie della vita quotidiana, l’azione primitiva del foro stenopeico coinvolge e seduce in quegli incontri sull’educazione all’immagine, magari finalizzati alla sua consapevolezza, che si rivolgono ad ascoltatori in età scolare (esperienza che coinvolge l’attento Dino Zanier, relatore al convegno Lo specifico stenopeico. Filosofia e pratica della fotografia stetoscopica, di Senigallia, il diciannove maggio; a pagina 38). Per un attimo, che si fissa indelebilmente nel cuore e animo di ciascuno, dove rimarrà custodito per sempre, pronto a tornare in superficie per evocare vibranti emozioni, la proiezione del foro stenopeico, così come la creazione di una immagine fotografica (chimica o digitale, poco conta), surclassa tutto. Non ci sono più telefonini portatili, lettori di musica, effetti speciali e programmi televisivi senza soluzione di continuità: c’è solo “la natura che si fa di sé medesima pittrice” (espressione presa a prestito da evocazioni antiche, dell’epoca nella quale alcuni pionieri sperimentavano le strade chimiche della formazione automatica di immagini: che poi avremmo definito “fotografia”). Tanto ci basta. ❖
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a cura di Filippo Rebuzzini e Maurizio Rebuzzini; trentadue visioni piÚ una, con accompagnamento di centonovantotto altre pose che rivelano lo splendore dell’epopea di Betty Page; Graphia, 2011; 88 pagine 16,5x23cm; 18,00 euro.
ENNESIMO
RITORNO AL FUTURO di Antonio Bordoni
S
orprendentemente, la scorsa stagione, Fujifilm ha progettato e realizzato una compatta digitale di alto profilo, configurata in un abito di sapore più che classico. Dotata di obiettivo grandangolare fisso 23mm f/2 (otto elementi in sei gruppi, con una lente asferica), la X100 -originariamente considerata nella gamma FinePix, attualmente scorporata, per stabilire passi autonomi tecnico-commerciali all’interno dell’offerta complessiva Fujifilm- ha rivestito le proprie consistenti prestazioni in un design senza tempo, che ha affondato le proprie radici indietro nei decenni, fino ai più luminosi anni della fotografia (Leica!). Un anno fa, la lungimirante giuria dei TIPA Awards (della quale fanno parte le testate italiane Fotografia Reflex e FOTOgraphia), che ogni anno, anno dopo anno, indica i prodotti migliori dell’intero comparto fotografico, l’ha segnalata e premiata come Best Premium Camera, ovverosia miglior apparecchio fotografico di prestigio: identificazione che ne ha altresì certificata l’appartenenza, oltre i connotati standardizzati del mercato [FOTOgraphia, giugno 2011]. Esplicita e dichiarata, la motivazione: «Grazie al sensore Cmos formato APS-C e all’obiettivo Fujinon 23mm f/2, la Fujifilm [FinePix] X100 offre una qualità di immagine davvero unica per una compatta. Il mirino ibrido combina la classica “cornicetta luminosa” delle macchine fotografiche analogiche a telemetro al mirino elettronico delle compatte digitali con obiettivo fisso o intercambiabile, per offrire all’utente “il meglio di entrambe le modalità”. È dotata del nuovo processore EXR, che racchiude tutte le più recenti tecnologie Fujifilm di elaborazione dell’immagine».
In un certo senso, che non ha motivo di esprimersi, la nuova Fujifilm X-Pro1 è una mirrorless: compatta a obiettivi intercambiabili, con sensore di dimensioni generose e prestazioni accattivanti (sedici Megapixel di risoluzione). Nel concreto, è una straordinaria configurazione fotografica che riprende e ripropone consistenze classiche (stile telemetro e dintorni), in una interpretazione attuale, proiettata al futuro e futuribile. C’è di che rimanerne stupiti, ammirati e, perché no?, coinvolti
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MAURIZIO REBUZZINI
Come annotato nel corpo centrale di questo intervento redazionale, al pari e sull’onda lunga dell’originaria X100, l’attuale Fujifilm X-Pro1 rievoca design e configurazioni fotografiche che appartengono alla storia evolutiva degli apparecchi a telemetro. Tra tanto altro, sottolineiamo l’impugnatura che consente una presa rafforzata della fantastica nuova compatta a obiettivi intercambiabili. Accessorio opzionale, l’impugnatura si fissa saldamente al fondello. Annotiamo che questa impugnatura riprende e attualizza uno dei complementi del sistema Leica M, al quale è inevitabile riferirsi descrivendo l’attuale Fujifilm X-Pro1. Ecco qui una testimonianza di rilievo (competenza e conoscenza): le impugnature che hanno accompagnato la Leica a telemetro. Oltre quella ufficiale (al centro, verso il basso, su Leica M6), le impugnature universali M-Grip, dello statunitense Larry Marcus (a sinistra, su Leica M2) e dell’italiano Enzo Del Toro (a destra, su Leica IIIg).
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A seguire, la Fujifilm X100 è stata accompagnata dalla configurazione consequenziale X10, di analogo design, dotata di zoom 28-112mm (equivalente), rivolta e indirizzata a una utenza oggettivamente più ampia. Tra tanto altro, il suo stabilizzatore ottico OIS di nuova concezione assicura che tutte le aberrazioni dell’obiettivo siano ridotte al minimo e previene la riduzione della luce negli angoli e lungo i bordi dell’inquadratura, finalizzando la risoluzione dell’interna immagine. Quindi, lo zoom ottico 4x è dotato anche della nuova tecnologia Fujifilm “Intelligent Digital 2x Telephoto”, che raddoppia la lunghezza focale, portando a oltre 8x la capacità di escursione. Inoltre, l’obiettivo è in grado di scattare fotografie in super-macro, fino a un centimetro soltanto dal soggetto.
ED ORA, X-PRO1 Il luminoso e avvincente tragitto della gamma di configurazioni di alto profilo Fujifilm X prosegue ora con la fantastica interpretazione fotografica X-Pro1, a obiettivi intercambiabili. La forma, l’aspetto, prima delle consistenze tecniche e di prestazioni fotografiche. La Fujifilm X-Pro1 scarta a lato tutta l’evoluzione delle reflex, che hanno condizionato il progresso della tecnologia fotografica applicata, fino a comprometterne sostanziose possibilità operative. Di fatto, ennesimo ritorno al futuro, per offrire qualcosa di autenticamente nuovo... va ad attingere al passato remoto, alla costruzione con mirino esterno (e telemetro di messa a fuoco del soggetto inquadrato). Così, in una logica di praticità, portabilità e leggerezza, la costruzione della Fujifilm X-Pro1 met-
te consistentemente a frutto quella ipotesi antica, che dunque si offre e propone senza tempo (addirittura!), che per decenni, nei decenni scorsi e trapassati, ha composto i tratti di una efficienza insuperata (Leica, per intenderci!). Ovviamente, la declinazione è moderna e attuale: è corrente, addirittura proiettata in avanti, in un futuro tecnologico imminente, quanto allungabile avanti nel tempo. Al pari della X100, dalla quale tutto è partito, tutto ha avuto inizio, l’odierna-futuribile Fujifilm X-Pro1 a obiettivi intercambiabili interpreta questa individuata configurazione fotografica, verso la quale indirizza il proprio cammino, facendosi forza dell’esclusivo e versatile mirino Hybrid Viewfinder di ultima generazione. Il primo mirino Hybrid Viewfinder al mondo, realizzato per l’originaria X100 e ora rielaborato per l’attuale X-Pro1, è stato progettato per conciliare una esperienza fotografica essenziale, che parte dall’osservazione diretta del soggetto inquadrato e composto. È la perfetta combinazione di un mirino ottico con un mirino elettronico. Integrando un prisma e un pannello di visualizzazione LCD da 1.440.000 pixel, è in grado di mostrare sia la cornice di scatto, sia i dati relativi alle regolazioni di ripresa. Naturalmente, può anche essere utilizzato come mirino elettronico di alta qualità, per comporre raffinate inquadrature. Grazie alla possibilità di passare istantaneamente da mirino ottico a mirino elettronico, con un semplice comando “one-touch”, il nuovo Hybrid Viewfinder offre maggiore libertà nella realizzazione e nel piacere della fotografia, in un’ampia varietà di condizioni di scatto, perfino estreme. Il mirino galileiano ottico con ingrandimento va-
riabile (0,37x per l’obiettivo 18mm e 0,60x per il 35mm e il 60mm) è costituito da elementi in vetro ottico con un indice rifrattivo elevato, che definisce aberrazioni cromatiche basse e corregge ogni distorsione ottica residua. Così come, in modalità mirino ottico (OVF), la luminosità della cornice e dei dati di scatto si adatta automaticamente alle condizioni di luce, assicurando che le informazioni siano sempre chiare e visibili. Inoltre, i dati di regolazione sono costantemente aggiornati rispetto al cambiamento dei valori di otturazione, dell’esposizione, della sensibilità e degli altri parametri operativi, in modo che l’attenzione non debba mai staccarsi dal mirino stesso, dal soggetto inquadrato. In modalità mirino elettronico (EVF), si può visualizzare un’anteprima dello scatto o rivedere quelli appena eseguiti, con la riproduzione “attraverso il sensore” e una risoluzione di 1.440.000 di pixel. Con un movimento della leva “one-touch”, si può selezionare EVF o “anteprima” e confermare le impostazioni di esposizione, profondità di campo e bilanciamento del bianco. Una funzionalità autenticamente utile, specialmente quando si fotografa in macro o in situazioni nelle quali il solo mirino ottico sarebbe inadeguato.
CARATTERISTICHE RAFFINATE In conferma, la dotazione Fujifilm X-Pro1 nasce con obiettivi a focale fissa, nella cadenza più classica della fotografia a telemetro (street photography e contorni): Fujinon XF 18mm f/2 R, XF 35mm f/1,4 R e XF 60mm f/2,4 R Macro, rispettivamente equivalenti alle focali 27, 53 e 91mm della fotografia 24x36mm, inevitabile riferimen-
FOCALI FISSE
La Fujifilm X-Pro1, a obiettivi intercambiabili, che sarebbe riduttivo iscrivere nel contenitore delle mirrorless, al cui comparto risponde, ma dal quale prende autorevolmente le distanze, è dotata di innesto a baionetta X-Mount, dalle prerogative di alto profilo. Il suo sistema ottico nasce con una dotazione originaria di tre obiettivi a focale fissa, orientati alla massima qualità fotografica. In focali adeguatamente classiche, i Fujinon XF ribadiscono il riferimento tecnico-commerciale di richiamo e attinenza (storia Leica e contorni, con tutto quanto ha definito nella Storia della fotografia del Novecento). In attesa di altre focali, già anticipate, il sistema esordisce con i Fujinon XF 18mm f/2 R (equivalente alla focale 27mm della fotografia 24x36mm), Fujinon XF 35mm f/1,4 R (53mm equivalente) e Fujinon XF 60mm f/2,4 R Macro (91mm equivalente). Compatti e di generosa apertura relativa, questi obiettivi presentano tutti disegni comprensivi di elementi asferici di massima correzione ottica. In combinazione -va detto-, previo impiego di anelli adattatori (che verranno, sicuramente, sia con produzione Fujifilm, sia universali), il tiraggio limitato di soli 17,7mm consente/consentirà l’utilizzo di obiettivi 35mm di altre produzioni.
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EVOCAZIONE DI CLASSE
La recente campagna pubblicitaria Fracomina (moda), che si esprime sia in affissione stradale sia in filmati trasmessi nelle sale cinematografiche e disponibili in Rete, si basa sulla sottolineatura di Donne forti. Per costituzione. Tra i quattro soggetti di partenza (altri ne seguiranno?), diamo risalto a Gabiella De Martino fotografa, raffigurata con una Fuji 6x7 Professional tra le mani e in uso (oppuresia 6x9 Professional, altrettanto a telemetro: le due medio formato per pellicola a rullo 120 o 220 sono tra loro esteriormente indistinguibili). In un certo senso, questo richiamo pubblicitario si colloca al centro della storia evolutiva degli apparecchi fotografici Fuji/Fujifilm a telemetro, che affondano le proprie radici addirittura fino alla G690, del 1967, originaria 6x9cm che riprese le prerogative operative Leica, declinandole in medio formato. E oggi, tutto ritorna con l’attuale e fantastica Fujifilm X-Pro1 ad acquisizione digitale di immagini, altrettanto a obiettivi intercambiabili, altrettanto riferita alle originalità Leica (e dintorni). Comunque, Fracomina / Gabriella De Martino: «Il rapporto che Gabriella ha con la sua macchina fotografica è di interdipendenza, come emerge benissimo dal video: lei ha bisogno delle sue immagini per esprimersi e le sue immagini hanno bisogno del suo modo di vedere il mondo per esistere, per avere un significato profondo, intenso. Ex modella, Gabriella è nata a Secondigliano, e ora vive a Londra. Le difficoltà vissute nella sua città di origine sono state molte e facilmente deducibili. Prima di poter davvero realizzare il suo sogno, Gabriella non è stata solo modella, ma anche cameriera, assistente di volo, segretaria. Conosce il sacrificio, la vita dura, e -come lei stessa afferma nel suo video- “se non conosci la realtà, non puoi davvero raccontarla con l’arte”. Qui la vediamo nello studio che divide con il marito e mentre cammina per strada, cogliendo coi suoi scatti tutto ciò che la stupisce e emoziona. Londra le ha offerto la possibilità di esprimersi pienamente, perché lì conta chi sei e quanto vali, e non la tua appartenenza politica o sociale. Gabriella è soprattutto una mamma, e questa è la fonte principale della sua gioia e della sua fame di colori».
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to d’obbligo. In anticipo, precisiamo che sono già stati annunciati altri obiettivi, con visione più grandangolare e avvicinamento tele più consistente, sempre in focale fissa. Così che, eccoci!, la Fujifilm X-Pro1 si iscrive in una categoria commerciale adeguatamente alta, sostanzialmente lontana dal mercato quotidiano delle compatte FinePix di casa e da tanto altro della fotografia dei nostri giorni. Se già l’affascinante X100 originaria, con grandangolare fisso 23mm f/2, si è volontariamente e volutamente allontanata dal mercato di massa, questa odierna interpretazione X-Pro1 a obiettivi intercambiabili prosegue lungo lo stesso tragitto, per rivolgersi a una fascia di utenza coerentemente alta, che interpreta la fotografia come esercizio consapevole (quel fotoamatorismo che tanto ha dato alla cultura della fotografia). E poi, non evitiamo di ammetterlo: la Fujifilm X-Pro1, che lo sottolinea nella propria sigla identificativa, è una raffinata macchina fotografica intenzionalmente professionale, che andrà sicuramente tra le mani di quei fotogiornalisti e quegli autori che fanno linguaggio dell’osservazione della vita nel proprio svolgersi. Da qui, dalle motivazioni e intenzioni sovrastanti, che esprimono anche i princìpi commerciali di Fujifilm, sul mercato con una gamma di proposte senza soluzione di continuità, dall’entry level all’impegno professionale, si passa alle raffinate prestazioni della fascinosa X-Pro1. Al top delle sue caratteristiche tecniche, che si allungano alla ripresa video Full-HD (1080p), due elementi di tecnologia proprietaria: l’esclusivo sensore X-Trans Cmos APS-C, da sedici Megapixel, e il mirino Hybrid Viewfinder, del quale abbiamo appena riferito. Il sensore X-Trans Cmos da sedici Megapixel di risoluzione si offre e propone per fornire una risposta fotografica analoga a quella dei sensori “full frame”. La nuova matrice CFA (Color Filter Array) apre la strada a un sensore ideale, che non necessita di un filtro ottico passa-basso (al quale conseguono imprecisioni qualitative che vanno corrette in postproduzione), ma si ispira alla raffinata disposizione della grana nella pellicola; per cui sono state risolte le problematiche avverse del moiré e dei falsi colori. Nella matrice, i pixel RGB sono disposti in gruppi di pixel 6x6 con alta aperiodicità (casualità). Aumentare il grado di casualità elimina la causa fondamentale del moiré e dei falsi colori, un problema che si verifica nelle matrici convenzionali durante le riprese di elementi a righe e altri pattern ripetuti. La presenza di un pixel Red, Green e Blue in ogni serie di pixel orizzontali e verticali riduce al minimo la generazione di falsi colori e garantisce la elegante riproduzione dei colori stessi. Ancora, l’utilizzo mirato di una matrice ispirata alla pellicola si combina con un processore potenziato, per elaborare efficacemente i dati dell’immagine: EXR Processor Pro, a velocità elevata e alta precisione di gestione. ❖
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FOTOGRAFO AMBULANTE; NEW YORK, 1951
MESTIERI IN POSA O di Maurizio Rebuzzini
LO
STUDIO DI IRVING
PENN, A PARIGI; 12
SETTEMBRE
1950
dio e amore. Odio e amore sono i due soli sentimenti, diametralmente opposti, ma ugualmente intensi, che da tempo accompagnano la visione e percezione degli Stati Uniti: a volte, in posizioni discordanti; altrettanto frequentemente, in coincidenza di intenti. In questa seconda percezione, e paradossalmente, fatte salve le terrificanti vicende politiche dei più recenti decenni, odio e amore si accompagnano spesso e si
tengono per mano quando ci si riferisce agli stessi Stati Uniti: odio per la prepotenza politica e ingerenza esercitate a tutto tondo; amore per mille e mille manifestazioni della sua cultura e socialità. Per estensione, odio che non consente di osservare oltre l’apparenza a ognuno evidente; amore che -alla stessa maniera, ma con segno algebrico opposto- non consente altrettanto di osservare oltre l’apparenza a ognuno evidente. Tutti abbiamo odiato e amato gli Stati Uniti con uguale vigore ed energia, tutti odiamo e amiamo gli Stati Uniti con uguale vigore ed energia. Io amo e odio gli Stati Uniti, con una foga per la quale provo spesso turbamento. Quando ci occupiamo di fotografia, come queste pagine impongono di trattare (e come personalmente svolgiamo con uno scarto consapevole), saremmo portati a odiare gli Stati Uniti per la loro invadenza senza soluzione di continuità, per la visione americanocentrica con la quale ne condizionano persino la Storia, per l’eccesso della loro partecipazione a tutto tondo. Allo stesso tempo, un residuo di onestà intellettuale -alla quale non si deve mai venire meno- impone amore per la rigorosità con la quale la fotografia appartiene agli Stati Uniti, la dedizione con la quale viene interpretata, l’abnegazione con la quale si esprime. Punto, a capo.
OLTRE LA PROFESSIONE Una delle qualità che vanno riconosciute agli autori statunitensi, di ogni ordine e grado, riguarda la loro volontà di non limitarsi al solo svolgimento di incarichi professionali, che perfezionano sempre con ricerche personali e individuali, le cui competenze acquisite vengono poi ri-versate proprio nella professione. Per esempio, prima di approdare al soggetto dichiarato di queste riflessioni, che riguardano un intenso progetto di Irving Penn, un caso esplicativo è quello noto di Richard Avedon, che dal 1979 al 1984 ha realizzato i ritratti successivamente raccolti nella mo-
Fotografati da Irving Penn all’inizio degli anni Cinquanta, a contorno della propria professione (con la moda), nello scorrere dei decenni, fino a noi, gli Small Trades hanno incrementato sostanzialmente il proprio valore fotografico: visivo ed espressivo. Piccoli mestieri, per lo più esauritisi, che si propongono come archetipi di un tempo e uno spazio senza tempo e spazio. Straordinaria lezione fotografica; l’autore è interamente assente (?): la scena è occupata solo e soltanto dai soggetti, che dominano l’inquadratura, che sovrastano la composizione con una dignità e fermezza che è stata donata loro giusto dalla lievità con la quale Irving Penn si è allontanato, in punta di piedi, dal set 55
AI TEMPI DELL’ALTA MODA
Forse è opportuno sottolineare che gli Small Trades sono stati fotografati all’inizio degli anni Cinquanta nelle serate di giorni durante i quali Irving Penn fotografava l’alta moda, per pubblicità o redazionali. Ovverosia, si è ritagliato tempi e spazi per proprie ricerche fotografiche, realizzate con piccoli mestieri complementari ai ritratti etnici, e a loro integrativi, avviati alla fine degli anni Quaranta. Da cui, non per paradosso, non per eccentricità, ma per completare le considerazioni sullo spessore visivo ed espressivo degli Small Trades, è opportuno visualizzare alcune delle fotografie di alta moda scattate negli stessi giorni, negli stessi momenti, nella stessa maturazione individuale dell’autore. Attenzione: alta moda, così distante dall’attualità del prêt-à-porter, senza alcun giudizio di merito o demerito (ma non è proprio vero: pur prendendo distanze individuali, non possiamo ignorare, né sottovalutare, le differenze sostanziali, anche in termini squisitamente fotografici). Ecco qui, alcuni campioni -diciamola così-, immancabilmente con Lisa Fonssagrives (nata Lisa Brigitta Bernstone), la modella svedese, la prima supermodella della storia del costume (oggi, top model), sposata da Irving Penn, nel 1950.
Per Balenciaga; Vogue, settembre 1950. (a sinistra, in alto) Vogue; aprile 1950. Per Christian Dior; 1950. Lisa Fonssagrives; 1950.
nografia In the American West, uno dei capitoli fondanti della sua espressività fotografica (per il quale menzioniamo anche la raccolta Avedon at Work in the American West, con testimonianze e backstage fotografici di Laura Wilson, che seguì tutto il progetto). Dal fronte italiano, accostamento d’obbligo, l’unica parallelismo riguarda i progetti etnici -diciamola così- di Gian Paolo Barbieri (FOTOgraphia, settembre 2007 e aprile 2011), aggiuntivi alla sua fantastica fotografia di moda: in volume, Silent Portraits (1984), Tahiti Tattoos (1989 e 1998), Madagascar (1997), Equador (1999), Exotic Nudes (2003) e Body Haiku (2007).
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ECCO QUI, IRVING PENN
Tutto questo lungo preambolo, per approdare a una stupefacente serie fotografica di Irving Penn, straordinaria personalità del secondo Novecento, capace di spaziare tra moda, ritratto e still life, sempre interpretati con costante e immutata padronanza, venuto a mancare nel 2009, a novantadue anni. Oltre i ritratti etnici realizzati nel corso della propria parabola espressiva, avviati nel Centro e Sud America alla fine degli anni Quaranta, nei primi anni Cinquanta, in clima e tempi fotografici di alta moda, a contorno della propria professione, Irving Penn ha
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UOMO
DELL’ORGANETTO;
LONDRA, 1950
RITRATTI ETNICI
Centro e Sud America, Nuova Guinea, Nord d’Africa: qui Irving Penn ha allestito set in situazioni improvvisate, piuttosto che utilizzando una struttura allestita attorno il proprio fuoristrada. Treppiedi e Rolleiflex 6x6cm sono stati i suoi strumenti del lavoro, per i quali ha messo a frutto la luce naturale, dominata e guidata con maestria fuori dal comune. In un certo senso, plausibile e frequentabile, questi ritratti etnici si aggiungono all’attuale progetto degli Small Trades, dei piccoli mestieri, in sala di posa. Insieme, compongono i tratti di una ricerca visiva ed espressiva che si è allungata e protratta nei decenni, arricchendo di fantastiche interpretazioni la Storia della fotografia e la Storia nel proprio insieme.
concepito, pianificato e prodotto un progetto che ancora oggi lascia sbalorditi e meravigliati. A Parigi, Londra e New York, dove di giorno ha svolto raffinati incarichi professionali, realizzando altresì raffigurazioni dell’alta moda che appartengono alla Storia, non soltanto della fotografia (soprattutto con la modella svedese Lisa Fonssagrives, nata Lisa Brigitta Bernstone, che sposò nel 1950; riquadro a pagina 56), di sera, Irving Penn ha creato magistrali rappresentazioni di artigiani e lavoratori, vestiti in abiti da lavoro e accompagnati dagli utensili delle rispettive occupazioni. Un fondale neutro e luce naturale hanno composto i tratti di un palcoscenico sul quale i suoi soggetti hanno posato con dignità e orgoglio. Dall’inizio degli anni Cinquanta, dove e quando sono datati gli scatti, per decenni, Irving Penn ha sistematicamente rivisitato la sua serie di Small Trades -così è definita e identificata oggi-, producendo stampe bianconero sempre più esigenti, sempre più raffinate, tra le quali una consistente quantità in platino/palladio (dalla seconda metà degli anni Sessanta). Nel 2008, The J. Paul Getty Museum, di Los Angeles, ha acquisito il corpo più completo di queste stampe, attentamente selezionate dall’autore: centocinquantacinque ingrandimenti in gelatina d’argento e novantasette al platino/palladio. Per la prima volta, la serie così completa di Small Trades, che compone quello che si può ormai storicizzare come il progetto integrale e ultimato, è stata esposta nella sede californiana del Museo, dal nove settembre del 2009 al dieci gennaio. All’esposizione degli originali sopravvive una affascinante edizione libraria, a cura di Virginia Heckert (del Department of Photographs dello stesso J. Paul Getty Museum) e Anne Lacoste (apprezzata curatrice di mostre fotografiche, che alla fine del 2010 ha allestito l’imponente rassegna Felice Beato: A Photographer on the Eastern Road ): duecentosettantadue pagine 23,5x30,5cm.
SMALL TRADES
Irving Penn nella sala di posa allestita per i suoi ritratti etnici in Nuova Guinea; 1970 (per appagare un sano feticismo tecnico, che non guasta: Rolleiflex biottica con mirino Hasselblad verticale, su treppiedi Tiltall). Guedras in the Wind; Marocco, 1971.
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Alla resa dei conti, e alla luce di questa recente ufficializzazione (mostra degli originali e monografia collegata), gli Small Trades, di Irving Penn, i piccoli mestieri (circa), disegnano, descrivono e raccontano in almeno due modi. Di fatto, documentano consistenze sociali che si sono manifestate a metà del Novecento, affondando le proprie radici indietro nei decenni, e che -in seguito- si sono sostanzialmente dissolte (la maggior parte). Quindi, in allineamento, richiamando soprattutto la loro registrazione fotografica, che ne ha indelebilmente fissato l’immagine, consegnandola al Tempo e alla Storia, dobbiamo riflettere proprio sulla risolutezza e determinazione fotografica con le quali Irving Penn ha declinato il proprio linguaggio visivo (espressivo?). Soprattutto, osserviamo la capacità dell’autore di farsi quasi da parte, mettersi discosto, pur essendo doverosamente ben presente nella scena. Lo sappiamo bene, tra la realtà e la sua rappresentazione fotografica (non soltanto raffigurazione, dunque interpretazione) la differenza è enorme e sostanziale: in mezzo ci sta proprio un autore-fotografo, indirizzato dalle proprie esperienze, visioni e -persino- dai propri inevitabili pre-concetti. Dunque, questi di Irving Penn non sono “piccoli mestieri”, ma “fotografie di piccoli mestieri”. Però, diamine, l’autore è interamente assente (?): la scena è occupata solo e soltanto dai soggetti, che dominano l’inquadratura, che sovrastano la composizione con una dignità e fermezza che è stata donata loro giusto dalla lievità con la quale Irving Penn si è allontanato, in punta di piedi, dal set. Eccola qui, una delle magie della Fotografia (in maiuscola volontaria e consapevole): la capacità di certi autori, ahinoi non tutti, di cedere il passo ai propri soggetti, per con-
CARPENTIERE; NEW YORK, 1951
LONDRA, 1950 PULIZIE;
NEW YORK, 1951
DONNA DELLE
VENDITORE
DI CALDARROSTE;
PORTABAGAGLI; NEW YORK, 1951
sentire loro di esprimere tutta la propria personalità. Sia nei ritratti di Small Trades, sia in quelli etnici, sia in quelli professionali di moda, Irving Penn sottolinea l’importanza e significato dello sfondo, del quale fa uso esplicito in ogni sua inquadratura e composizione. Lo sfondo è appunto la scena sulla quale lascia agire i propri personaggi, i propri soggetti, sempre separati dal proprio contesto sociale originario. Così che, isolati, attirano maggiormente l’attenzione sulle loro caratteristiche individuali, che esprimono anche l’archetipo di appartenenza e riconoscimento. Da un lato, lo sfondo immancabilmente uguale
(o quasi) dà risalto all’individuo, lo fa emergere dall’anonimato; dall’altro, dà rilievo all’abbigliamento. E questo riguarda anche l’assolvimento di incarichi professionali nell’alta moda, che per estensione (ideologica?) si allunga sulle ricerche visive personali (tra le quali gli Small Trades oggi considerati): non appena si presenta sul suo set, qualsiasi abito diventa moda. Negli Small Trades, dei piccoli mestieri fotografati a Parigi, Londra e New York, Irving Penn separa le uniformi e le tenute da lavoro dai loro scopi pratici originari e le presenta come fenomeno di moda. E questo stilema si ripete, imperterrito, nei
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STRILLONE; LONDRA, 1950
SHOWGIRL; NEW YORK, 1951
LONDRA, 1950
NEW YORK, 1951
DELLE PULIZIE;
DI FIORAIO;
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UOMINI
FATTORINO
ritratti etnici in Centro e Sud America, in Nuova Guinea, al Nord dell’Africa: tutte interpretazioni (!) nelle quali l’autore ha colto i soggetti nella propria individualità manifesta. Se un parallelo deve essere registrato e annotato, siamo in profondo imbarazzo. A cosa dobbiamo riferire Small Trades, di Irving Penn? Alla clinica documentazione di un mondo in esaurimento e scomparsa, come -su livelli diversi, sia chiaro- i Nativi Americani di Edward S. Curtis, le tenue prostitute di E.J. Bellocq, il popolo ebraico di Roman Vishniac? Alla composizione di un album di archetipi, come gli Uomini del XX secolo di Au-
gust Sander? Alla fantastica galleria di ritratti di metà Ottocento di Nadar? Probabilmente a tutto questo e a nulla di questo: ciascuna di queste esperienze a lui temporalmente precedenti coabita in Irving Penn, così come il suo percorso è stato autonomo e indipendente. Addirittura, innovativo e illuminante. E questa valutazione conclusiva la dice lunga sull’incantesimo della Fotografia: meravigliosa illusione, indirizzata dal cuore di autori capaci, che realizzano visioni da sogno. Qui e oggi, ci accompagnano, ci hanno accompagnato, gli Small Trades di Irving Penn. ❖
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FOTOGRAFO AMBULANTE; NEW YORK, 1951
Monografia di Angelo Galantini
P
L’INTIMITÀ FINALE
Per legittimi motivi presentata come monografia fotografica, La Petite Mort, di Will Santillo, è qualcosa di più. Nel senso che il suo consistente apparato fotografico, realizzato con grande cura e apprezzato garbo (ne stiamo per riferire), non basta a se stesso, ma accompagna una massiccia quantità/qualità di testi assolutamente indispensabili (e si accompagna a questi). Ciò anticipato, l’ordine dei fattori: si tratta di fotografie con parole o di parole con fotografie? La differenza non è banale, per cui si impone una nostra opinione. Dal nostro punto di vista particolare, e mirato, potremmo considerare le fotografie di Will Santillo sovrastanti i testi di Dian Hanson, che comprendono anche testimonianze dirette dei soggetti. Però, con inviolabile onestà intellettuale, non possiamo sottovalutare che questa La Petite Mort sia un’edizione che non si limita alle immagini, ma le integra con espressioni che le contestualizzano. Se fossero state pubblicate a sé e per se stesse, le fotografie avrebbero potuto rivelare lo spessore del progetto fotografico realizzato: e come tali avrebbero dovuto essere osservate e valutate. Invece, dobbiamo prendere atto di essere in presenza di un volume che declina altrimenti la propria personalità, trasferendola e rimandandola a un contenitore, diciamola così, sociologico (non soltanto, di costume). Eccoci qui: La Petite Mort è una ricerca -appunto sociologica (?), appunto rigorosa- sulla masturbazione femminile, esplicitamente precisata dal sottotitolo, che recita Female Masturbation, Fantasies & Orgasm (non serve la traduzione). Le fotografie di Will Santillo sono introdotte da un saggio di Dian Hanson, che ostenta un curriculum specifico di tutto rispetto (ha curato numerose monografie a sfondo erotico, tra le quali spiccano avvincenti edizioni Taschen, a partire dalla collana dei Big Book of; FOTOgraphia, maggio 2009), e condotte da una serie di testimonianze dei soggetti raffigurati (lo abbiamo già annotato). Le fotografie di Will Santillo sono
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spinosamente esplicite e dirette: per questo, non ne riproduciamo nessuna, per evitare lo slittamento a lato delle considerazioni, ovverosia per non esaurire nel solo gesto esplicito quelli che sono i valori fotografici in profondità di intenti. Cioè, per non dare visibilità a una apparenza che qui potrebbe scartare a lato l’intero valore della monografia. L’intimità finale evocata, seguìta e perseguita è quella annunciata. Da cui, una riflessione, una considerazione è inevitabile, approfondita e spiegata nel
La Petite Mort, fotografie di Will Santillo; testi di Dian Hanson; Taschen Verlag, 2011 (distribuzione: Inter Logos, strada Curtatona 5/2, 41100 Modena; www.books.it); 208 pagine 20,4x28,9cm, cartonato con sovraccoperta; 29,99 euro.
testo di introduzione: se l’orgasmo è la piccola morte (evocata dal titolo), la masturbazione, l’autoerotismo è una forma di suicidio? La “piccola morte” del titolo esprime e manifesta un eufemismo: quello dell’orgasmo. Ma le donne che si sono masturbate per dare vita a questo stupefacente progetto fotografico, che lo hanno fatto in presenza consapevole del fotografo Will Santillo, rappresentano solo se stesse, oppure danno vita a un archetipo (non stereotipo) di rara consistenza visiva?
Monografia Personalmente, pensiamo che sia vera e autentica la seconda delle due ipotesi, che si manifesta in una serie di immagini che l’autore ha concepito e realizzato nel corso di otto anni, fino a comporre una straordinaria e approfondita ripartizione trasversale di donne: giovani e meno giovani; oggettivamente attraenti, oppure lontane dagli stereotipi della bellezza formale; bellezze perfette e figure comuni. L’unica costante è che ciascuna di loro ha indirizzato e diretto la propria masturbazione, fino a raggiungere l’orgasmo, mentre Will Santillo ha colto l’attimo. Oltre la fotografia, che offre la pertinenza e tangibilità del proprio linguaggio espressivo, per tanti versi dichiarato e lampante (ma non è proprio così), ecco qui il senso e spessore della quotazione sociologica dell’intero progetto, che parte da una porta socchiusa, appunto dalla fotografia: per quanto la masturbazione sia un atto molto personale di gioco, un
gesto sessuale che si svolge quasi esclusivamente in privato, la sua rivelazione fotografica esplicita innesca le consecuzioni di parole che accompagnano le immagini (in edizione libraria trilingue: l’italiano si accompagna a spagnolo e portoghese). Will Santillo ha svelato la diversità e creatività con le quali le singole donne-soggetto si avvicinano all’autosoddisfazione, ritraendone la bellezza dell’attimo estremo: una bellezza di gran lunga più ricca di quanto possano esserlo (e non lo sono mai) le raffigurazioni declinate in chiave esplicitamente pornografica (apparenza del gesto, non sostanza del piacere). Will Santillo, che ha studiato fotografia al Massachusetts Institute of Technology, con Minor White (uno degli autori di spicco del secondo Novecento), e lavorato in numerosi campi della fotografia professionale, afferma che ricerca sempre il volto nascosto dei suoi soggetti: e, in effetti, in queste fotografie altrimenti esplicite
sono i volti che meglio mostrano l’intensità della risposta. Se ancora ne avessimo bisogno, eccezionale lezione di scomposizione tra realtà e propria raffigurazione: qui non ci sono donne che si masturbano, ma fotografie di donne che si masturbano. La distinzione è obbligatoria, perché tra la realtà e la sua raffigurazione/rappresentazione introduce l’azione di un autore, con la propria visione, esperienza e volontà. Con la propria interpretazione. Dian Hanson ha intervistato trentasette di queste donne, approfondendo con loro intuizioni spontanee e superamento di qualsivoglia inibizione (non si incontra alcuna forma di esibizionismo), valutando con loro l’azione consapevole di raggiunge l’orgasmo davanti a uno sconosciuto armato di macchina fotografica. In combinazione tra immagini (adeguatamente intonate seppia: forma per il contenuto) e parole, La Petite Mort è un alito di vita. ❖
Sguardi su
di Pino Bertelli (Piombino, dal vicolo dei gatti in amore, 16 volte settembre 2011)
L
ANNIE LEIBOVITZ
Le vie della fotografia (argentica o numerica) sono lastricate di imbecilli dell’autoincensamento, e portano tutte al mercato della fotocrazia. La dozzinale arroganza di una società fondata su Bibbie e cannoni si riflette nella politica, come in ogni forma d’arte, e la forma più diretta della stupidità spettacolarizzata -sulla quale ogni potere poggia il proprio consenso- è la vanità. Nazione, partito, casta o gruppo sono portatori di menzogne spudorate e responsabili principali di un mondo senza qualità. A che serve realizzare fotografie, se si tengono gli occhi chiusi e le mani in tasca sulle brutture, le vessazioni, le guerre che una casta di squilibrati della politica orchestra sull’indifferenza dei popoli assoggettati o violati? La fotografia è l’affermazione della libertà pura, e nell’attimo (scippato alla storia) che l’afferma si trascolora in poesia o atto politico. Un universo di dementi con la macchina fotografica in mano si riversa ai quattro angoli della Terra, senza sapere che realizzare un’idea di fotografia significa già in parte distruggere la stupidità del denaro, delle fedi, delle ideologie, dei genocidi o genufletterla all’impudore malsano delle convenzioni. «Se la stupidità non rassomigliasse perfettamente al progresso, al talento, alla speranza, o al miglioramento nessuno vorrebbe essere stupido» (Robert Musil). C’è sempre stato un intimo legame tra il genio e lo stupido: lo stupido crede nella mediocrità delinquenziale dei valori dominanti; il genio nella propria disperata saggezza e fame di bellezza. A vedere la messe di fotografie che ci affogano ogni giorno -dispensate dall’impero dei media-, si può dire di una qualsiasi immagine di successo/consumo realizzata da un bel foto-
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A Gaetano Bresci, anarchico e fotografo appassionato, venuto da Paterson (New Jersey, ma era nato a Prato, il 10 novembre 1869), che, incidentalmente, giustiziò un re con tre colpi di rivoltella (29 luglio 1900), perché aveva dimenticato la macchina fotografica in una valigia di cartone. Il giovane fotografo venne “suicidato” dallo Stato, il 22 maggio 1901, nel carcere di Santo Stefano (impiccato alle sbarre della cella con un lenzuolo o un asciugamani). Al Museo Criminologico, di Roma, sono depositate la macchina fotografica di Bresci, alcune istantanee e le bottiglie con le soluzioni per lo sviluppo.
grafo che è al tempo stesso autobiografia di un bello stupido. La stupidità costituzionale della società consumerista è in atto; non c’è carnefice che non sia idolatrato, né imbecille che non continui a votare e non fare “tabula rasa” della politica. L’indecenza del falso è nei comportamenti, nelle leggi, nei vocabolari, nell’arte, nelle parole, nelle immagini, nei suoni; dentro un dispositivo di ineguaglianze sociali o all’aspettazione del peggio di ogni autoritarismo accogliamo la disposizione al tumul-
to delle giovani generazioni e l’invito a oltrepassare la linea, per passare dall’altra parte della storia: quella che prende i propri sogni per la realtà e comincia a inceppare i pubblici orologi.
SULLA FOTOCRAZIA DELL’ARROGANZA In ogni panorama artistico ci sono “mostri sacri”, che non si possono “toccare”... chi sa perché?... per quale oscura sacralità? Per gli eretici dell’eresia, le forche non sono mai state destituite: dietro i paraventi della fotografia più slabbrata ci sono
grandi autori, che a vedere in profondità sono ben altro da ciò che la critica e la storiografia fotografica dicono. La fotografa statunitense Annie Leibovitz appartiene a quella schiera di “maestri riconosciuti” anche dall’Ufficio Internazionale del Fatalismo, con sede a Wall Street (nella banca del Vaticano c’è una succursale per i fotografi da beatificare). Il “fatale fotografico” non esiste, bensì solo interpretazioni del reale. Fotografa molto amata da una certa “crema intellettuale” di stampo vintage, Annie Leibovitz nasce il 2 ottobre 1949, a Waterbury, in una famiglia di origini ebraiche. A noi piace soprattutto per l’amore viscerale che ha avuto con Susan Sontag, dagli anni Ottanta fino alla sua scomparsa (2004 [FOTOgraphia, febbraio 2005]). Susan Sontag è stata una delle menti più fulgide (non solo) del pensiero fotografico americano, e ricordiamo ciò che ha scritto in un suo saggio straordinario del 1966, Contro l’interpretazione, una sorta di manifesto sul modo di intendere il lavoro critico e l’impegno sociale: e cioè che l’arte (la politica, la religione, la merce) tende a sottrarsi all’interpretazione del vero, per rifugiarsi nelle nefandezze dell’astrazione. Il critico (o l’artista) dovrebbe «mostrare come mai [l’arte] è quello che è, o anche che è quello che è, e non che cosa significa» (Susan Sontag), quindi dovrebbe approfondire lo studio delle forme e dello stile dei contenuti e dei significati, lasciando emergere il cantico del banale o la crocifissione dell’autentico. Annie Leibovitz diviene presto famosa al seguito della rivista Rolling Stone. Ci passa tredici anni. Fotografa (anche con grazia) i maggiori miti del rock, e turbe di ragazzi confusero questi rivoluzionari da vinile con le loro can-
Sguardi su zoni: la deportazione dell’intelligenza comincia sul sagrato dell’adorazione dei simulacri e lì muore per asfissia di verità. Negli anni Ottanta, la fotografa “arrabbiata” lavora a Vanity Fair, luogo adatto dove depositare le stelle della moda, del cinema, della musica. È così brava che la campagna pubblicitaria dell’American Express non si fa sfuggire i suoi servigi; nel 1990, le riconoscono il premio Infinity Award per la Applied Photography; nel 2009, il caffè Lavazza, famoso perché piace anche a San Pietro (dicono alcuni spot pubblicitari televisivi, abbastanza dementi), l’annovera tra i suoi “creativi più importanti” (come David LaChapelle e Helmut Newton, tutta gente davvero abile sui mercati della fotografia che conta). Intanto, allestisce mostre, confeziona libri, interpreta documentari, la studiano nelle università, pubblica C’eravamo tanto amate (un eccellente libro sulla storia d’amore con Susan Sontag, illustrato con fotografie straordinarie), diventa un’icona della fotografia lesbica: come donna e come lesbica, Annie Leibovitz ci piace, e molto... siamo meno attratti dalle sue fotografie. Ce ne sono di belle davvero nei suoi cataloghi, ma nessuna, o quasi, riesce a inficcarsi nelle pieghe dell’esistenza, eccetto, forse, alcune immagini proprio di Susan Sontag (nuda, a letto, o in punto di morte). Certo, la tecnica non si discute (s’impara in due giorni, sostenevano Orson Welles e Pier Paolo Pasolini); la mancanza di bellezza insolente (la svalutazione di tutti i valori), anche. Abitare la fotografia senza mai imitare niente di nessuno, e ridere di ogni maestro che non avesse riso di se stesso, è ciò che rende un fotografo un poeta maledetto sotto ogni cielo ingabbiato del potere.
SULLA FOTOGRAFIA FATALISTA La scomparsa della fotografia -come le la scomparsa delle lucciole nei campi di grano, che ha denunciato Pier Paolo Pasolini
al tempo delle puttane tristi della politica- è dovuta al sistema fatalista (non solo fotografico) che impera nella società consumerista, giunta allo stadio crepuscolare dell’impostura e della falsità come mai era stato prima. L’uniformità delle parole, lo spostamento della fattografia fotografica da un contesto all’altro e la continua ripetizione dei significati/significanti imposti dagli strumenti del comunicare sono il segno di una malattia degenerativa della vita pubblica che si esprime in linguaggi stereotipati (soprattutto di cattivo gusto) e proprio per questo largamente diffusi e bene accolti dall’ingenuità popolare. La “lingua della fotografia” pensa per noi: influenza le coscienze, denuncia resistenze e spinge alla frequentazione del pensiero unico. Amplificato dai mezzi di comunicazione di massa, il linguaggio impoverito della politica ruota intorno a immagini, parole, invettive che si fanno senso comune e uccidono il bene sociale. «Noi scettici, miscredenti e invidiosi non sappiamo apprezzare e pensiamo che la politica sia il luogo del potere, necessario ma pericoloso. No: è il mezzo per portare soccorso, necessario e benefico, dunque, a condizione che colui che se ne impossessa sia non il politicante, ma il benefattore» (Gustavo Zagrebelsky). A chi ha, sarà dato; a chi non ha, sarà tolto anche quello che ha (si legge nelle “sacre scritture”, forse). Il buon vivente fa a meno di tutte le mitologie sul “buon governo” e si chiede a cosa servono la politica, la religione, la cultura davanti a un bambino morto per fame? Solo chi solleva il velo delle chimere dello Stato comprende la crudeltà dell’evidenza. Il fatalismo è una concezione filosofica/interpretativa ormai accettata nelle democrazie occidentali e nei regimi comunisti, che considera il mondo governato da un destino predeterminato, stabilito, inevitabile. Nella scrittura fotografica, il fatalismo è molto praticato e gioca le sue
carte con l’astuzia della ragione (Hegel diceva). Non c’è fotografo di buon senso che non sfugga a questa regola: il consenso vuole i propri servi, l’indignazione i propri impiccati. O si è dalla parte dei mercanti di schifezze truccate ad arte o si è accanto ai popoli in rivolta (che usano al momento semplificazioni usa-e-getta, telefoni cellulari e videocamere e disseminano nei social network le proprie proteste e i propri morti): la fotografia fornisce un metodo, non una conclusione. La fotografia fatalista di Annie Leibovitz (colore o bianconero è la medesima cosa) mescola abilmente ironia e humour, sarcasmi e buffoneria, maschere e pugnali. La sua fotoscrittura diverte e anche lei si diverte a fabbricarla (è una fotografa che sorride molto, e questo è bene per il cuore e anche per la pubblicità). Basta sfogliare alcune celebri immagini di John Lennon e Yoko Ono, Demi Moore, Whoopi Goldberg, la Regina Elisabetta, Sting, Leonardo Di Caprio, Johnny Deep e la ritrattistica di politici, sarti quotati in borsa, sequenze pittografiche degne della più apprezzata favolistica... e vediamo che la composizione forte, il taglio libertario o l’epica dello sguardo trasversale non le sono propri. Nemmeno ci pensa che con la fotografia non si fanno rivoluzioni, ma si possono aiutare uomini e donne a essere migliori, coscienti della propria importanza all’interno di un’agorà sociale che faccia della fraternità, dell’uguaglianza, dell’accoglienza, il principio di ogni bellezza. Le immagini fataliste di Annie Leibovitz sono plasticamente “belle”... le citazioni sono colte (Jean Renoir, Lewis Carroll, Diane Arbus, Luchino Visconti, Alfred Hitchcock, il cinema americano tutto -da Via col vento a Indiana Jones, e simili)... la cattività apparente di queste fotografie si mostra nuda, concertata (in sala di posa o in esterni) con quanto di più seriale esista nel campo dell’immaginazione
d’arredamento... tuttavia la fotografa statunitense riesce a coagulare il tanfo della moda con una personale visione dell’esistenza. Tutti sono belli, tutti sono strani, tutti sono parte di una società allegorica che continua a sostenere che la libertà appartiene alla finzione. Vero niente. La sua iconografia dei miracoli mostra che «la finzione non serve a progettare l’avvenire, l’immaginazione prepara il domani edonista» (Michel Onfray) carico di verità, cioè il burlesco degli gnostici con il quale si nega ogni dio, ogni padrone, ogni stato. Non si tratta di ridere, né di piangere, ma di comprendere: la fotografia autentica spacca il mondo in due come un colpo d’ascia, libera una luce che illumina l’intero pensiero (non solo) fotografico degno di questo nome; l’utopia (anche in fotografia) non è il luogo di un reale impossibile, ma l’officina della realtà che viene. Sognare la fotografia della realtà equivale alla restaurazione della verità. La fotografia fatalista, non solo quella di Annie Leibovitz, è smaliziata: porta a desiderare il piacere estetizzante e fuggire il dolore degli altri. Ha più interesse ad apparire nel mondo, che a conoscerlo. L’iconografia della lusinga è uno zuccherificio insopportabile e non conosce l’epifania della gioia: è l’artificio che omologa verità e ragione nel disprezzo del vero e fa dell’ignoranza il laboratorio di tutte le vigliaccherie prostituite al trionfo della merce. Infatti, i fotografi del fatalismo non sanno (né interessa loro sapere) che il centro dell’uomo è dappertutto, e la circonferenza da nessuna parte. Il genio collerico della fotografia che vale si fa beffe del bene e del male: è cinico col ricco e ironico col povero. Senza né fede né legge, è aperto a tutte le occasioni che fanno la fotografia protagonista di resistenze sociali e rivolte improvvise: non si sente in debito con alcuno e verso niente che non sia la propria coscienza insorta. Nel suo splendore fatalista, la
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Sguardi su BIANCO E NERO catenaria fotografia di Annie Leibovitz si dispiega nella divinità dell’immagine edulcorata, estremizzata, anche. I corpi sono preceduti da una regia volutamente delirante (non surreale, come in molti hanno scritto), e l’insieme della sua opera è adatta a una conversazione da giardino sul farefotografia. Come non sapesse che vi è più ragione in un volto della strada che nella più blasonata delle sue fotografie, la sua scrittura fotografica è propedeutica al sistema che la foraggia, che lei conferma come formazione ideativa di una quotidianità che non conosce, né vuole conoscere. Riproduce in grande l’illusione, l’ordine, la trasgressione permessa. Solo la fotografia dell’autentico regna (anche solo al margine del bosco), il resto è trucco. La fotografia dell’autentico è un vino forte. Consumato in dosi
massicce, può diventare un veleno potente. L’analfabetismo della fotografia corrente (dispensato in scuole, musei, mostre, storie della fotografia) è una confessione d’impotenza e l’immagine fine a se stessa che si nutre di “istanti sublimi” mai accaduti né realizzati. La fotografia dell’autentico emerge o debutta nella tensione dei conflitti sociali e ciò che non la uccide la fortifica: è il tentativo di fotografare ciò che i corpi esigono; è l’inquietudine del fotografo davanti alle conseguenze della scelta; è l’intuizione della libertà senza steccati -né limitiche disvela il potere dell’economia/politica sul mondo o la tirannia del reale sugli uomini (con o senza la macchina fotografica). La fotografia non serve a nulla se non dice qualcosa su qualcosa e possibilmente contro qualcuno! Sia lode ora a uomini e donne di chiara fama. ❖
laboratorio fotografico fine - art solo bianco & nero
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