FOTOgraphia 180 aprile 2012

Page 1

Mensile, 6,50 euro, Poste Italiane SpA - Spedizione in abbonamento postale - D.L. 353/2003 (convertito in Legge il 27-02-2004, numero 46), articolo 1, comma 1 - DCB Milano

Faccia a Faccia CANON Eos D5 Mark III NIKON D800

Cinema e fumetto PHILIPPE HALSMAN CHE GUEVARA

Personalità tecniche HOLGA FINTE E FALSE


Non è venduta in edicola. Per averla hai una sola possibilità: sottoscrivere l’abbonamento annuale. 12 numeri 65,00 euro

Abbonamento 2012 (nuovo o rinnovo) in omaggio 1839-2009

Dalla Relazione di Macedonio Melloni alla svolta di Akio Morita M A U R I Z I O

R E B U Z Z I N I

1839-2009 Dalla Relazione di Macedonio Melloni alla svolta di Akio Morita

Come dire, dal dagherrotipo all’acquisizione digitale di immagini. E consecuzioni

INTRODUZIONE

DI

GIULIANA SCIMÉ

F O T O G R A P H I A L I B R I



prima di cominciare NEL QUOTIDIANO, O QUASI. Su questo numero della rivista, da pagina trentotto, presentiamo l’avvincente e convincente monografia Paris. Ritratto di una città, pubblicata (con testi in italiano) dall’assiduo editore tedesco Taschen Verlag, i cui meriti fotografici sono sostanziosi e consistenti. L’argomento è altresì subito annunciato dalla nostra copertina, sulla quale abbiamo visualizzato una delle fotografie storiche che scandiscono il tempo delle cinquecento illustrazioni della fantastica raccolta. Anche presente nell’articolo di presentazione, questa fotografia è nota e conosciuta sia nell’ambito degli addetti, che si richiamano alla sua identità (1895: spettacolare incidente alla stazione ferroviaria di Montparnasse), sia al pubblico generico, che riceve la fotografia così come riceve altre tante sollecitazioni.

Se possiamo rubare un momento dall’aria, possiamo anche crearne uno tutto nostro. Maurizio Rebuzzini; su questo numero, a pagina 8 Non è magia. È la natura; anzi, la Natura. Lello Piazza; su questo numero, a pagina 23 A Parigi si è recitata la fotografia flânerie, dei vagabondi del secondo Novecento: sopra tutti, Henri Cartier-Bresson (1908-2004), Robert Doisneau (1912-1994) e Willy Ronis (1910-2009). Angelo Galantini; su questo numero, a pagina 41 Ogni vita umana, se dura abbastanza a lungo, alla fine ha un senso. Gli avvenimenti che riempiono un articolo, una conversazione... le faccende di scarsa importanza che fanno trascorrere il tempo, un istante dietro il precedente... alla fine hanno un senso. Maurizio Rebuzzini; su questo numero, a pagina 8

Copertina Dalla avvincente e convincente monografia Paris. Ritratto di una città, pubblicata dal meritevole Taschen Verlag, che presentiamo e commentiamo da pagina 38, con un percorso narrativo che sottolinea le particolarità e proprietà fotografiche della capitale francese, proponiamo una fantastica immagine del 1895. Spettacolare incidente alla stazione ferroviaria di Montparnasse: un treno proveniente da Granvillage non è riuscito a fermarsi; ha superato la piattaforma e sfondato la facciata della stazione, precipitando nella sottostante place de Rennes

3 Altri tempi (fotografici) A dimostrazione della sua notorietà generalizzata, che si basa appunto sull’eccezionalità dell’evento documentato, indipendentemente da ogni effettiva identificazione, questa fotografia è spesso proposta in trasformazioni e interpretazioni pratiche e comode della vita quotidiana: per esempio, in poster e sulle copertine di quaderni e diari. Quindi, è uno dei tanti soggetti della linea di raccoglitori per documenti Kaos, che scompone immagini fotografiche e pittoriche sulla costa, in accostamento programmato (in genere su tre raccoglitori in box: come visualizziamo). Da cui e per cui: la fotografia -anche d’autore, anche storica- nella vita di tutti i giorni, attorno a noi, indipendentemente da applicazioni e considerazioni specifiche, mirate e frequentate volontariamente e consapevolmente. Evviva!

Dal Catalogo di Materiale Foto-Cinematografico, di A.G. Dell’Acqua, di Genova, del 1931, la Platten Camera, disponibile in due formati fotografici: 6,5x9 e 9x12cm. Testuale: «Apparecchi di lusso ridottissimi in materiale leggero, per l’uso di lastre, filmpacks e pellicole in rotoli»

7 Editoriale Falsità e finzioni che osserviamo con grande stima e ammirazione: da pagina 28, considerazioni e rievocazioni di momenti recenti della tecnologia fotografica che si è ispirata al modello Leica, via via interpretato e proposto in attualità tecnica

8 Cari amici In ricordo (personale) di Gianni Rogliatti e Ando Gilardi

10 Notizie Attrezzature, vicende e altre segnalazioni


APRILE 2012

R , RIFLESSIONI IFLESSIONI, OSSERVAZIONI E COMMENTI OSSERVAZIONI E COMMENTI SULLA FOTOGRAFIA SULLA FOTOGRAFIA

13 Il re dei salti Il recente film Jump!, di Joshua Sinclair, rievoca che nel 1928 il giovane Philipp Halsmann, che in seguito sarebbe diventato il fotografo Philippe Halsman, fu accusato di parricidio. Processo dalle tinte fosche Ricerca iconografica di Filippo Rebuzzini

18 Ici Bla Bla Appunti e attualità della fotografia internazionale a cura di Lello Piazza

Anno XIX - numero 180 - 6,50 euro DIRETTORE

RESPONSABILE

Maurizio Rebuzzini

IMPAGINAZIONE Maria Marasciuolo

REDAZIONE Angelo Galantini

FOTOGRAFIE Rouge

SEGRETERIA Maddalena Fasoli

24 Sempre meravigliosa Sì, oggi il fenomeno Holga si manifesta in maniera diversa rispetto la propria origine (negli anni Novanta). Sì, oggi si manifesta in ordine con i tempi attuali. Dunque, non chiediamo nulla di diverso della sana arbitrarietà creativa. Sempre e comunque! Esclamativo

28 Personalità derivate Paradossalmente, per incontrare una macchina fotografica autenticamente innovativa e appassionante... bisogna fare qualche passo indietro. Sull’onda lunga della affascinante Fujifilm X-Pro1, retrovisione delle configurazioni fotografiche recenti, che si sono ispirate al fantastico design Leica di Maurizio Rebuzzini

38 Aria di Parigi Paris. Ritratto di una città è una avvincente e convincente monografia indirizzata a coloro i quali sanno individuare le tracce della fantastica storia dell’Uomo di Angelo Galantini

47 Faccia a faccia In riferimento dichiarato a Canon Eos 5D Mark III e Nikon D800, le attuali configurazioni reflex stanno offrendo prestazioni basilari che abbattono confini fino a ieri consolidati. Con inevitabile accompagnamento di obiettivi opportunamente decentrabili e basculabili di Antonio Bordoni

52 Que viva el Che! In un fumetto, la rievocazione di una celebre icona

HANNO

COLLABORATO

Pino Bertelli Antonio Bordoni Chiara Lualdi Lello Piazza Franco Sergio Rebosio Ciro Rebuzzini Filippo Rebuzzini Redazione, Amministrazione, Abbonamenti: Graphia srl, via Zuretti 2a, 20125 Milano; 02-66713604 www.FOTOgraphiaONLINE.it; graphia@tin.it. ● FOTOgraphia è venduta in abbonamento. ● FOTOgraphia è una pubblicazione mensile di Graphia srl, via Zuretti 2a, 20125 Milano. Registrazione del Tribunale di Milano numero 174 del Primo aprile 1994. Poste Italiane SpA - Spedizione in abbonamento postale - D.L. 353/2003 (convertito in Legge il 27-02-2004, numero 46), articolo 1, comma 1 - DCB Milano. ● A garanzia degli abbonati, nel caso la pubblicazione sia pervenuta in spedizione gratuita o a pagamento, l’Editore garantisce la massima riservatezza dei dati forniti dagli abbonati e in suo possesso, fatto diritto, in ogni caso, per l’interessato di richiederne gratuitamente la rettifica o la cancellazione ai sensi della legge 675/96. ● FOTOgraphia Abbonamento 12 numeri 65,00 euro. Abbonamento annuale per l’estero, via ordinaria 130,00 euro; via aerea: Europa 150,00 euro, America, Asia, Africa 200,00 euro, gli altri paesi 230,00 euro. Versamenti: assegno bancario non trasferibile intestato a Graphia srl Milano; vaglia postale a Graphia srl - PT Milano Isola; su Ccp n. 28219202 intestato a Graphia srl, via Zuretti 2a, 20125 Milano; addebiti su carte di credito CartaSì, Visa, MasterCard. ● Nessuna maggiorazione è applicata per i numeri arretrati. ● È consentita la riproduzione di testi e fotografie, magari citando la fonte (ma non è indispensabile, né obbligatorio farlo). ● Manoscritti e fotografie non richiesti non saranno restituiti; l’Editore non è responsabile di eventuali danneggiamenti o smarrimenti. Fotocomposizione DTP e selezioni litografiche: Rouge, Milano Stampa: Arti Grafiche Salea, Milano

Rivista associata a TIPA

60 Museo immaginario The Art Museum: ammirevole percorso d’arte

64 Nobuyoshi Araki Sguardi sulla stucchevole e inutile fotografia da boudoir di Pino Bertelli

www.tipa.com


a cura di Filippo Rebuzzini e Maurizio Rebuzzini; trentadue visioni piÚ una, con accompagnamento di centonovantotto altre pose che rivelano lo splendore dell’epopea di Betty Page; Graphia, 2011; 88 pagine 16,5x23cm; 18,00 euro.


editoriale F

inzioni. Commentiamo su questo stesso numero, da pagina ventotto, in allungo sulla nuova configurazione Fujifilm X-Pro1 (presentata sul numero scorso, di marzo), che richiama connotati esteriori che appartengono alla lunga storia evolutiva della tecnologia fotografica. Con caratteristiche e prestazioni correnti e futuristiche, che si basano su una avvincente interpretazione dell’attualità mirrorless, questa novità di mercato, rivolta a un pubblico di profilo medio-alto, riprende e riattualizza la struttura e morfologia che da decenni definiscono il design Leica. Anche se siamo adeguatamente distanti dalle manualità tipiche della fotografia a telemetro per pellicola 35mm, non possiamo ignorare l’ispirazione palese e la vocazione convinta, quantomeno dal punto di vista del design. In aggiunta, ribadiamolo anche qui: erede dell’originaria Fujifilm X100 con medio grandangolare 35mm fisso, la Fujifilm X-Pro1, a obiettivi intercambiabili, si è presentata sul mercato con una dotazione di obiettivi a focale fissa, che a propria volta richiamano precedenti stagioni della fotografia con apparecchi non reflex. La nostra consecuzione è esplicita e dichiarata: senza alcun giudizio di demerito, ma con grande stima e ammirazione, percorriamo i tratti di identificate falsificazioni e finzioni, temporalmente recenti. Le classifichiamo entrambe al positivo, pur distinguendo tra le costruzioni fotografiche che definiamo false (deliberatamente tali, a volte realizzate con l’intenzione di ingannare, per quanto riescano a farlo) e quelle che componiamo come finte (ispirate e derivate, che attraverso la configurazione influenzata offrono comunque una sostanziosa impressione di sé, spesso altresì rinvigorita da energiche consistenze tecniche). Senza giudizi di demerito, va ribadito, ma con stima e approvazione (lode), ripercorriamo una stagione, che dalla fine degli anni Novanta ha recuperato e riproposto forme classiche, che hanno nobilitato -rivitalizzandolo- un identificato tragitto progettuale della fotografia del Novecento: Voigtländer/Cosina, Zeiss Ikon, Konica Hexar RF, Epson R-D1... E poi, a completamento, qui integriamo con una falsità truffaldina, appunto deliberatamente tale, effettivamente realizzata con l’intenzione di ingannare, per quanto sia riuscita a farlo. Torniamo a stagioni del passato prossimo, antecedenti l’affermazione dell’acquisizione digitale di immagini. Di truffe si è proprio trattato, sia nelle presentazioni in programmi di televendita menzogneri, sia nel proprio commercio quotidiano, estraneo al consueto circuito dei fotonegozianti autorizzati. È stata una stagione di false reflex, proposte con forme accattivanti, ma assoluta assenza di contenuti. In illustrazione, certifichiamo di una fraudolenta Canomatic (dalla sontuosa confezione di vendita), e a voce segnaliamo anche altre definizioni derivate dal vero: per esempio, Nokina e Olympia, rispettivamente con logotipi derivati da Nikon e Olympus, tanto quanto questo visualizzato è proveniente dall’originario Canon. Maurizio Rebuzzini

Canomanic (al pari di Nokina e Olympia): falsa reflex promossa una dozzina di anni fa in televendite truffaldine e altri canali di vendita altrettanto fraudolenti (estranei al tradizionale circuito dei fotonegozianti autorizzati).

77


In ricordo di Maurizio Rebuzzini

C

Cari amici, vi scrivo, perché le reciproche esistenze -le vostre assieme alla mia- hanno finito per tenerci lontani, quantomeno fisicamente. In una sequenza serrata di date, gli scorsi due e cinque marzo sono mancati -rispettivamente- Gianni Rogliatti (ottantatré anni), che il nostro mondo fotografico conteggia come storico della Leica, e Ando Gilardi (novantuno anni), i cui valori fotografici hanno attraversato stagioni e riferimenti molteplici. In momenti separati e per motivi diversi, li ho conosciuti e frequentati entrambi, ricevendo da loro più di quanto possa aver offerto. Anche così va la vita. Cari amici, vi scrivo, per ricordare assieme i nostri attraversamenti fotografici, in tempi che appartengono al nostro passato e alle nostre reciproche esperienze. Voi ed io abbiamo avuto opinioni diverse su ciò che è degno di memoria, ma tutti e tre abbiamo capito che se possiamo rubare un momento dall’aria (magari con una fotografia), possiamo anche crearne uno tutto nostro. E così, ciascuno per sé, ciascuno per quanto ha potuto/voluto, lo ha fatto.

GIANNI ROGLIATTI Gianni Rogliatti: spero tu abbia sempre ricordato le prime timide consapevolezze di collezionismo di apparecchi fotografici con lo stesso affetto con il quale le rammento io, addirittura in questo momento, inviato a farlo dalla notizia della tua scomparsa. Nella primavera 1974, in tempi non sospetti e soprattutto straordinariamente anticipatori di quanto si sarebbe manifestato in seguito, dall’alto del tuo carisma meritato sul campo, tu, prima di tutti, io -giovane neofitae un selezionato gruppo di leicisti (leichisti?, il nodo non è mai stato sciolto), fummo reclutati dal vulcanico Ghester Sartorius,

8

CARI AMICI

mancato nel settembre 1999, per gettare le basi italiane di un collezionismo Leica dai confini accertati. Hai continuato a ricordarle, Gianni, le riunioni del sabato pomeriggio, all’Hotel Bristol, di Milano, nei pressi della Stazione Centrale, convocate durante i soggiorni di Ghester, che allungava oltre i propri impegni professionali? Allora, tu eri l’unico capace e competente. Eri l’unico che forniva date e riferimenti certi e inequivocabili, che stabiliva princìpi e scandiva tempi tecnici e commerciali. Pur nella esiguità della materia (riconosciamolo)... che delizia! Per me, era un piacere ascoltarti, un onore potermi arricchire di tanta sapienza: le tue parole stanno alla radice di quanto ho successivamente cementato negli anni a seguire, andando a comporre i tratti di una mia consapevolezza e -spero- capacità (ben più modesta della tua, ne sono certo). Per quanto non abbia ripercorso i tuoi passi (come avrei potuto farlo?), scanditi dalla caparbia frequentazione degli archivi Leitz/Leica, alla sistematica ricerca di cifre, sequenze, motivazioni e altro ancora, che hai abilmente e fedelmente riportato nelle tue apprezzate storie, scritte con tanto amore e fervida passione, ogni mia considerazione storica sulla fotografia ha avuto origine con i nostri incontri. Ripeto, ribadendolo: tu ed io abbiamo avuto opinioni diverse su ciò che è degno di memoria. Il tuo è stato un tragitto a dir poco rigoroso e determinato; il mio si è rivelato un vagabondare senza meta prefissata. Tu hai inseguito e individuato fatti perentori e categorici; io ho finito per lasciarmi avvicinare e raggiungere da arnesi, oggetti, nozioni, storielle e aneddoti vaganti nell’aria, che ho soltanto raccolto e ordinato. Forse.

ANDO GILARDI

Ando Gilardi (mantengo il rispettoso “lei”, che non abbiamo mai rimosso tra noi): prima di conoscerla e frequentarla personalmente, fino a condividere gli spazi del lavoro, per tre anni, alla fine dei Settanta, l’ho incontrata -da lettore- sulle pagine di Photo 13, in edizione quindicinale, nel 1972, qualche anno dopo l’inizio delle sue pubblicazioni. Per un curioso gioco del destino, dopo una precedente esperienza editoriale, nell’autunno 1973, sono approdato alla redazione, e lei è stato il mio direttore per un anno, fino alla chiusura di quella indimenticabile esperienza (in condirezione con Roberta Clerici). Quelle furono stagioni strane e controverse, addirittura contraddittorie, e ognuno di noi ha contribuito a tanta confusione (alla quale oggi qualcuno guarda con ammirazione e nostalgia, rievocando sia Photo 13 sia le successive edizioni di Phototeca, che hanno vitalizzato la seconda metà degli anni Settanta: secoli fa). Gilardi, non sempre ho condiviso le sue concezioni e interpretazioni; soprattutto, siamo rimasti autonomi nelle rispettive visioni: le sue, assolute e intransigenti; le mie -causa mille e mille motivi individuali-, flessibili e adattabili alle situazioni, soprattutto nell’attenzione e deferenza per le opinioni altrui, in qualsiasi modo queste si esprimono (con debiti confini oltre i quali anch’io non arrivo). Ripeto ancora, ribadendolo una terza volta: lei ed io abbiamo avuto opinioni diverse su ciò che è degno di memoria. Comunque sia, per quanto l’abbia incontrata in anni aspri e combattivi, magari anche un poco troppo tignosi, non posso non considerare che quelli sono stati i momenti del mio ingresso nel mondo della foto-

grafia, entro il quale ho finito per restare... ingabbiato. Di quel tempo, conservo un ricordo sereno e gradito; soprattutto, non posso che ringraziarla per avermi indirizzato a una osservazione a tutto tondo, non indirizzata, non prevenuta: l’ha fatto, nonostante sia convinto che le sue intenzioni di allora fossero addirittura diametralmente opposte. Ma così è stato.

ANCORA, CARI AMICI Cari amici, ci sono situazioni nelle quali le parole non servono a nulla, non dicono niente, non aiutano a capire. Questa è esattamente una di quelle. Un paio di schegge hanno fatto capolino dal cuore, ma sono proprio soltanto tali. Schegge. Per ricordarvi come ognuno di voi merita, qui e ora richiamo un mio pensiero, una mia opinione, una mia convinzione. È un concetto che ho fatto mio, certamente mutuandolo dalle letture; del resto, rispondendo a una natura formata in parti uguali di cultura (?) e istinto, il vero luogo natio è quello dove per la prima volta si è posato lo sguardo consapevole su se stessi: la mia prima (e unica) patria sono stati i libri. Ancora, la parola scritta mi ha insegnato ad ascoltare le voci. La vita mi ha chiarito i libri: osservare, piuttosto che giudicare, fino al linguaggio fotografico, straordinaria combinazione di regole logiche e usi arbitrari. Dunque: ogni vita umana, se dura abbastanza a lungo, alla fine ha un senso. Gli avvenimenti che riempiono un articolo, una conversazione... le faccende di scarsa importanza che fanno trascorrere il tempo, un istante dietro il precedente... alla fine hanno un senso. Vite fotografiche come le vostre possono non avere senso per la gente comune. Per noi, invece, sì. Grazie di tutto. ❖



Notizie a cura di Antonio Bordoni

DI CORSA, SU TRE GAMBE. A tre anni dalla presentazione della propria efficace gamma di treppiedi di interpretazione avvincente e impiego efficace (e confortevole), Benro propone

10

oggi una naturale evoluzione. È disponibile la nuova linea di treppiedi Benro Angel II, fortemente innovativa e pratica. Come lascia intendere l’identificazione esplicita, si tratta di treppiedi dedicati e indirizzati a coloro che praticano fotografia “on location” e che -oltre la dotazione propriamente fotografica (sopra tutto, apparecchi e obiettivi)hanno necessità di trasportare anche un supporto stabile per la ripresa: fotografia naturalistica, caccia fotografica, fotografia di architettura, paesaggi. La novità operativa e di impiego introdotta con i Benro Travel Angel originari è la particolare struttura della crocera centrale, che consente di ribaltare le tre gambe verso l’alto, di 180 gradi (in chiusura), conglobando al centro la colonna e la testa. Questo sistema consente di ottenere dimensioni “tutto chiuso” estremamente contenute: meno di quaranta centimetri! Da cui, la gamma di treppiedi Benro Travel Angel si è tecnicamente collocata al vertice del variegato panorama dei supporti per fotografia. In ripetizione, d’obbligo: a tre anni dalla presentazione dei primi Benro Travel Angel, arriva ora la seconda serie. La struttura è confermata; in più, i nuovi Travel Angel II offrono e propongono la possibilità di realizzare un validissimo monopiede, sfruttando una delle tre gambe e la colonna centrale. Basta un attimo! Il tempo di svitare dalla crocera una delle tre gambe, di sfilare dalla propria sede la colonna centrale e unire insieme i due elementi [a destra, in alto]. I nuovi Benro Travel Angel II sono disponibili sia nella versione Alluminio più Magnesio, sia in quella Carbonio più Magnesio, definita da un peso ancora più ridotto, che esalta le doti di portabilità del treppiedi. In tutte le versioni, è altresì previsto un kit con una testa a sfera professionale, dotata di doppio comando, per la frizione e il panning. La gamma Benro Travel Angel II è composta da due treppiedi in

Alluminio e Magnesio: A-1692TBO (con testa Benro B0) e A-2692TB1 (con testa Benro B1): rispettivamente per carichi massimi di otto e dieci chilogrammi e altezze massime di 158cm e 164cm. La stessa configurazione è disponibile nella versione identica e coincidente in Carbonio e Magnesio: C-1692TB0 e C-2692TB1. (Rinowa, via di Vacciano 6f, 50012 Bagno a Ripoli FI; www.rinowa.it).

SIGMA MIRRORLESS. Il comparto delle mirrorless, che in talune geografie ha già conquistato consistenti quote di mercato, si presenta come sostanziosa novità tecnica, capace di richiamare pubblico nuovo: almeno queste sono le intenzioni, tutte da verificare all’atto pratico. In ogni caso, non possiamo non sottolineare l’impegno dell’industria produttrice, che sta indirizzando consistenti energie in questa direzione. Oltre gli apparecchi fotografici, qui e ora, registriamo l’approdo della giapponese Sigma al settore fotografico mirrorless, nel quale arriva con un suo primo obiettivo universale (altri ne seguiranno? pensiamo e speriamo, proprio di sì: tanto più che un indizio è presto individuato nell’estensione “DN” della definizione). Il Sigma 30mm f/2,8 EX DN è uno standard in montatura a baionetta per tutte le mirrorless a obiettivi intercambiabili. Sulle dimensioni ridotte del sensore (rispetto il riferimento generalizzato alla fotografia 24x36mm), la focale equivalente è 60mm (39,6 gradi di angolo di campo), nel caso dei sensori Micro Quattro Terzi, e 45mm (50,7 gradi di angolo di campo), con i sistemi in

baionetta E: in ogni caso, una focale standard allungata. Nell’efficace disegno ottico di sette elementi in cinque gruppi, due lenti asferiche in vetro ottico e una lente asferica doppia concorrono a una perfetta correzione di ogni tipo di aberrazione. Il sistema di messa a fuoco interna mantiene costante la qualità dell’immagine su tutto il campo inquadrato, a qualsiasi distanza di accomodamento. Il trattamento antiriflessi Sigma Super Multi Strato (preziosa tecnologia proprietaria) riduce il flare e le immagini fantasma, in modo da assicurare immagini definite e ad alto contrasto, anche alle massime aperture di diaframma (scala dei diaframmi fino a f/22). La costruzione ottica telecentrica, con proiezione perpendicolare sul sensore di acquisizione, migliora la qualità su tutta la superficie dell’immagine digitale realizzata. La stessa costruzione ottica finalizzata rende l’obiettivo compatto e leggero.

Il Sigma 30mm f/2,8 EX DN impiega un nuovo motore AF lineare, che non ha bisogno di ghiere o altra meccanica per accomodare le lenti in relazione alle distanze di messa a fuoco, da 30cm (ingrandimento massimo 1:8,1). Questa soluzione garantisce un autofocus silenzioso e accurato e rende l’obiettivo adatto sia alle riprese video, sia a quelle fotografiche. Ancora, il diaframma a sette lamelle crea un piacevole effetto di sfocatura nelle aree fuori fuoco dell’immagine. (M.Trading, via Cesare Pavese 31, 20090 Opera Zerbo MI; www.m-trading.it). ❖




Cinema

di Maurizio Rebuzzini - Ricerca iconografica di Filippo Rebuzzini

F

IL RE DEI SALTI

Film realizzato con ottime intenzioni, alla resa dei conti, Jump!, del 2008, di Joshua Sinclair, anche sceneggiatore, insieme a Ryan James, non è certo accattivante e perde per strada tutti i suoi proponimenti, che finiscono per accavallarsi gli uni agli altri, senza lasciare traccia permanente. L’intento principale, primario ed esplicito è quello di sottolineare il clima antisemita che si è affacciato nell’Austria del 1928, sull’onda lunga e malevola del nazismo tedesco, che si sarebbe imposto di lì a cinque anni, con l’avvento al potere di Adolf Hitler (1933), che comunque aveva già espresso le sue famigerate idee e opinioni riguardo le proprie intenzioni politiche: con conseguente inclusione della stessa Austria nella “Grande Ger-

mania”, con l’Anschluss, del 1938. A pretesto, si racconta del processo per parricidio del diciottenne lettone Philipp Halsmann, nato a Riga, nel 1906, che sarebbe poi diventato il fotografo Philippe Halsman, dopo il suo trasferimento negli Stati Uniti. La vicenda è nota, e la sceneggiatura del film si basa sul romanzo-saggio di Martin Pollack Anklage Vatermord. Der Fall Philipp Halsmann, pubblicato dal viennese Paul Zsolnay Verlag, nel 2002 (ovverosia Accusa di parricidio, tradotto in Assassino del padre -affermazione conclusiva, diversa dai riscontri del caso giudiziario-, nell’edizione italiana di Bollati Boringhieri, del 2009). Così che il film si perde tra le pieghe di tanti intrecci, fino a non metterne in risalto alcuno. Dal nostro punto di vista dichiarato, ci occupiamo della componente “fotografica” dell’aggrovigliata vicenda, senza peraltro perdere di vista l’indiscutibile retrogusto antisemita, che ai tempi -nell’autunno 1928 (ma il film ha preferito raccontare in primavera)- ha indirizzato e guidato l’azione giudiziaria.

ASSASSINO? Come annotato, il film Jump! è la ricostruzione e resoconto del caso giudiziario che ha coinvolto il giovane Philipp Halsmann dall’autunno 1928, in Tirolo. Lunedì dieci settembre, suo padre Morduch Halsmann muore, precipitando durante una gita in montagna in compagnia di Philipp, unico presente al fatto, presto accusato di parricidio. Nella realtà -semplificata nel film per ovvi e legittimi motivi di racconto-, Philipp Halsmann fu condannato in prima istanza a dieci anni di carcere duro, aggravato da una giornata di digiuno ogni anno; in appello, si scese a quattro anni di carcere duro, per reato di omicidio con dolo, alleggerito da circostanze attenuanti. Una via di mezzo compromissoria, che accontentò tutti e nessuno: pena mite, se Philipp Halsmann è un parricida; troppi, se è innocente. In ogni caso, fu graziato ed espulso dall’Austria.

L’evocazione Jump!, del film di Joshua Sinclair, del 2008, richiama una delle personalità riconosciute e note di Philippe Halsman: appunto, la serie dei salti, che ha fatto eseguire a una consistente quantità/qualità di personaggi della politica e dello spettacolo. Il film inizia, e poi si conclude, con il salto di Marilyn Monroe, per esigenze di sceneggiatura retrodatato alla primavera 1954, mentre in realtà è stato fotografato nell’estate 1959 [a pagina 16].

Dopo aver certificato che si tratta di una storia vera, al proprio inizio, sui titoli di testa, il film Jump! precisa che la sequenza dei fatti è stata modificata per esigenze di sceneggiatura. Tutto prende avvio nello studio fotografico di Philippe Halsman, al Chrysler Building, di New York.

13


Cinema Ora: l’autore del racconto, basato sulla sistematica raccolta e decifrazione di documenti dell’epoca, non si esprime mai esplicitamente, non prende posizione. Di certo, c’è solo che le circostanze della morte di Morduch Halsmann, dentista a Riga, in Lettonia, sono quantomeno equivoche, che il figlio Philipp non fa nulla per screditarsi, che la sua posizione è inquietante e che, comunque, il clima politico e sociale dell’epoca e del luogo sono ostili a un accusato di religione ebraica. Si può pensare a un caso Dreyfus austriaco; sono incom-

(a destra) Fantasia scenografica e di sceneggiatura: la sera, nella locanda dove alloggia con il padre, Philipp Halsmann (non ancora Philippe Halsman) prova inquadrature con la sua Zeiss Ikon Box Tengor, caricata con immancabile rullo 120, per otto pose 6x9cm. Durante la gita in Tirolo, che si concluderà in maniera tragica, con la morte del padre Morduch, Philipp Halsmann riprende una serie di spensierate fotoricordo: con una riconoscibile Zeiss Ikon Box Tengor.

benti i fantasmi del nascente nazismo. In ripetizione, d’obbligo: a differenza delle incognite del testo, il titolo italiano non lascerebbe dubbi: Assassino del padre, rispetto l’originario tedesco Accusa di parricidio. Ma non è così semplice, né semplificabile. In una atmosfera avvelenata, come è stata la fine degli anni Venti in Tirolo, regione lontana mille miglia dalla capitale Vienna, ammesso che fosse possibile identificarla, la verità si è nascosta tra le pieghe di molteplici equilibri e insormontabili controversie, delle quali il giovane Philipp Halsmann ha pagato il conto, magari appesantito da sostanziosi interessi. In ogni caso, Assassino del padre è uno di quei libri che si possono ancora leggere; e lo dovrebbero fare coloro i quali si occupano di fotografia, che su queste pagine vengono a contatto diretto con una vicenda che riguarda uno dei protagonisti dell’espressività fotografica del secondo Novecento, autore di centouno copertine di Life.

IL FILM Con moderate modifiche rispetto al libro originario, e alla sua certosina ricostruzione storica, il film Jump! si svolge principalmente nel 1928 dei fatti, richiamati in flashback. Contenitore della sceneggiatura, che dà avvio al racconto, e che poi lo con-

PHILIPP HALSMANN, IN ARTE PHILIPPE HALSMAN

A margine del commento al film Infatti, anche la dizione sulla biottica che racconta la vicenda giudiziaria 4x5 pollici autocostruita, con aiuto del diciottenne Philipp Halsmann, della Fairchild Camera and Instrument, contestiamo l’identificazione che appare in copertina, riporta “Halsman”, “Philipp Halsmann”, con la quale pochi centimetri sotto l’“Halsmann” Bollati Boringhieri accompagna tipografico del sottotitolo. l’edizione italiana di Assassino del padre, Si sbaglia ancora, quando nel risvolto sul cui titolo obiettiamo, di copertina si precisa che «Le fotografie essendo un’affermazione che contrasta di Philipp Halsmann sono esposte in tutte con le rilevazioni e conclusioni del testo le gallerie del mondo». No! del libro originario (e del film). Ma, tant’è. Nessuna fotografia di Philipp Halsmann Per quanto sia vero che la vicenda ha avuto tale onore e privilegio, narrata riguarda un giovane né è significativa nella Storia. Lo sono, Philipp Halsmann, così all’anagrafe, invece, le fotografie di Philippe Halsman. Assassino del padre (Il caso del fotografo Philipp Halsmann), è altrettanto vero che non è legittimo Così come, per concludere, neppure di Martin Pollack; Bollati Boringhieri, 2009; 248 pagine 13,5x22cm; il credito alla copertina ci sembra legittimo. identificare, come è stato fatto anche 22,00 euro [dall’originario Anklage Vatermord. nel sottotitolo, riportato in copertina, Il bravo Yale Joel, dello staff di Life, Der Fall Philipp Halsmann (Paul Zsolnay Verlag, 2002)]. “Il caso del fotografo Philipp Halsmann”. non ha realizzato alcun ritratto Delle due, una soltanto: o è “il caso di Philipp Halsmann” di Philipp Halsmann. Sappiamo per certo che nel 1952 oppure è quello del “fotografo Philippe Halsman”, identità adottata ha fotografato a New York Philippe Halsman, dopo l’espulsione dall’Austria, a seguito della controversa vicenda. con una delle tante biottica grande formato della sua lunga epopea.

14


Cinema Il giovane e introverso Philipp Halsmann elabora la morte violenta del padre, precipitato da un dirupo, fotografandone l’agonia e il cadavere.

clude, è una sessione fotografica in sala di posa, durante la quale Philippe Halsman, a New York, fotografa Marilyn Monroe. La rievocazione è realistica, anche se retrodata alla primavera 1954, ciò che è avvenuto nella tarda estate 1959, con Marilyn che salta su se stessa (per la fantastica serie dei salti, appunto jump, che hanno reso famoso Philippe Halsman, che li ha fatti eseguire a una consistente quantità e qualità di personaggi pubblici): copertina di Life del 9 novembre 1959 [FOTOgraphia, febbraio 2012, e a pagina 16]. Dunque, il film inizia e si conclude con questo set, sul quale si presenta una giornalista del New York Times, alla quale la sorella del fotografo racconta del padre ucciso e dell’accusa a Philipp, ormai Philippe. Tema dell’intervista sono proprio i salti, da presentare al pubblico del quotidiano: per far conoscere l’«immigrato che è passato dalla povertà a un attico del Chrysler Building», uno dei simboli di Manhattan; il fotografo che «ha realizzato venti copertine di Vogue, dodici di Marie Claire e settantacinque di Life [che diventeranno centouno]», il fotografo «che ha fatto sal-

YALE JOEL / LIFE (2)

(a destra) Dopo la narrazione in flashback delle vicende giudiziarie seguite alla morte del padre, con terribile accusa di parricidio, il film Jump! riprende le fila del proprio inizio: ancora i salti di Marilyn Monroe, per la copertina di Life, del 9 novembre 1959 [a pagina 16], anche se il film si svolge cinque anni prima.

Dopo aver rilevato che il film Jump!, del 2008, di Joshua Sinclair, perde per strada tutti i suoi proponimenti, che si accavallano gli uni agli altri, sottolineiamo anche un certo pressapochismo scenografico, assai lontano dalle attenzioni consuete del cinema statunitense. Nel film, in sala di posa, Philippe Halsman fotografa con una improbabile biottica Mamiya C33 (sul mercato, dal 1965), ma nella realtà ha sempre usato la biottica Rolleiflex (a destra, nell’atto di fotografare Salvador Dalí, nel 1954), oppure apparecchi grande formato 4x5 pollici, sempre biottica (a sinistra, nel 1952).

15


Cinema tare il vicepresidente Nixon e il duca di Windsor». Perché i salti?: «Perché la liberazione del salto, libera i nostri istinti [...]; sono come uno strizzacervelli della Kodak. Un estroverso apre le braccia, un introverso salta con attenzione... quando cadi, sei solo... sei Imprecisione del film Jump!, che rievoca l’accusa di parricidio a Philipp Halsmann. Appunto: “Halsmann” e non “Halsman” (come avrebbe cambiato il proprio cognome in seguito), sul fantoccio bruciato dai nazisti davanti al tribunale. Con interpretazione a propria misura di anni e date, il film Jump! si avvia a conclusione con un richiamo esplicito alla nascente rivista Life (che avrebbe visto la luce anni dopo i fatti narrati), che richiede Philipp Halsmann come fotografo per il proprio staff.

Come ampiamente annotato, il film Jump! data il salto di Marilyn Monroe alla primavera 1954 (ed è lecito che le sceneggiature si concedano scarti di tempo e data, secondo proprie necessità, urgenze e impellenze). In ogni caso, datazione storica certa: il salto di Marilyn Monroe è stato fotografato nell’estate 1959, per la copertina di Life del nove novembre. In quella occasione, come anche in altre, Philippe Halsman si è fatto fotografare assieme al proprio soggetto (Marilyn), da sua moglie Yvonne. Da cui, l’illustrazione di copertina di Jump Book, nella sua riedizione 1986, successiva l’originaria del 1959 (temporalmente antecedente al Mito di Marilyn, dunque con altra messa in pagina).

16

un acrobata che vola senza rete». Da cui, la retrovisione, che attribuisce alla morte del padre, precipitato da un dirupo, l’ipotesi dei jump di Philippe Halsman: teoria ardita. Attenzione: se il libro originario di Martin Pollack ricostruisce i fatti senza commentarli (per quanto lasci trasparire l’assoluta innocenza di Philipp Halsmann, incriminato e giudicato in quanto ebreo nel Tirolo della fine degli anni Venti), il film sposa la tesi dell’innocenza. Tanto che, con l’abilità che caratterizza ogni regia e sceneggiatura, accompagna l’osservatore in questa direzione: per esempio, presentando il padre Morduch come persona odiosa, prepotente e tirannica. Jump! si avvia alla conclusione con l’avvocato di Philipp Halsmann (l’attore Patrick Swayze) che lo sollecita ad accettare la grazia offertagli. E qui si affaccia ancora la fotografia. A un ostile e refrattario Philipp Halsmann (interpretato da un evanescente Ben Silverstone), chiuso nell’orgoglio di un diciottenne introverso, l’avvocato fa notare la sua particolare capacità fotografica, rivelata dalle fotoricordo della fatidica gita in montagna, con il padre, tra le quali ci sono anche immagini scattate allo stesso padre in agonia: «Guardale bene, Philipp -gli dice, mostrando una serie di stampe bianconero-. L’inquadratura... il soggetto... la composizione... Queste fotografie catturano la tua gioia, la tua paura, l’orrore. Nel tuo momento di più grande dolore, tu sei ricorso alla fotografia. Hai un dono naturale. Dio ti ha concesso questo regalo. Perciò, hai una responsabilità verso te stesso e verso le persone che credono in te. Così, ho spedito il tuo lavoro a Henry Luce, l’editore del Time Magazine. Ha saputo della tua grazia, e vuole incontrarti presto a New York, perché stanno lanciando una nuova rivista che si chiamerà Life, e vuole te come fotografo». Bontà delle sceneggiature; la realtà è un poco diversa. Philipp Halsmann venne rilasciato nel 1931, Life sarebbe partita con il suo primo numero il 23 novembre 1936 (copertina di Margaret Bourke-White). Cambiato il nome in Philippe Halsman, visse e lavorò a Parigi fino al 1940; da qui, all’indomani dell’invasione tedesca (nazista!), riuscì a emigrare negli Stati Uniti. ❖



Ici Bla Bla a cura di Lello Piazza

Questa rubrica riporta notizie che sono appartenute alla cronaca. Però, nel loro richiamo e riferimento molti motivi ci impediscono di essere tempestivi quanto la cronaca richiederebbe. Ciononostante riteniamo giusto proporle, perché siamo convinti che non abbiano perso la propria attualità, e continuino a offrire spunti di riflessione.

LE PAROLE VALGONO DI PIÙ DI MILLE FOTOGRAFIE. Ho espresso questo concetto lo scorso marzo. Ma ho dimenticato una citazione: «C’è più cinema nelle parole, che negli stessi film». Me ne ero scordato. È di Tonino Guerra, il grande sceneggiatore italiano. Mi è tornata in mente, lo scorso ventuno marzo, quando Tonino ci ha lasciati [in basso, al centro]. Maestro elementare, deportato in un campo di concentramento in Germania durante la Seconda guerra mondiale, laureato in pedagogia a Urbino, nel 1946, Tonino Guerra inizia la sua carriera di sceneggiatore a Roma, dove si trasferisce nel 1953. Premio Oscar nel 1967 per la co-sceneggiatura di Blow up, di Michelangelo Antonioni, un film intriso di fotografia [numerose, le nostre rievocazioni, e copertina di FOTOgraphia, del dicembre 2006]. Quindi, le collaborazioni con registi importanti, da Andrej Tarkovskij a Federico Fellini, da Luchino Visconti a Francesco Rosi, a Theo Angelopoulos, ai fratelli Paolo e Vittorio Taviani, per citarne solo alcuni. La lista dei film che ha sceneggiato e co-sceneggiato è lunghissima; eccone una versione parziale: oltre al già menzionato Blow up, ricordiamo L’avventura (1960), La notte (1961), Deserto rosso (1964) e Zabriskie Point (1970), di Michelangelo Antonioni; Matrimonio all’italiana (1964), di Vittorio De Sica; Casanova ’70 (1965), di Mario Monicelli; Amarcord (1973), E la nave va (1983) e Ginger e Fred (1986), di Federico Fellini; Nostalghia (1983), di Andrej Tarkovskij; Il volo (1986), Il passo sospeso della cicogna (1991), La sorgente del fiume (Trilogia I, 2004) e La polvere del tempo (Trilogia II, 2008), di Theodoros Angelopoulos; Kaos (1984), di Paolo e Vittorio Taviani. Anche di lui, come della poetessa Wislawa Szymborksa, mi piace ricordare il brano con cui l’ho scoperto, che mi sono ritagliato, più di un quarto di secolo fa, da una pagina di Sette, settimanale illustrato del Corriere della Sera (nella gloriosa versione diretta dal suo inventore, Paolo Pietro-

18

Il fotogiornalista francese Rémi Ochlik (ventotto anni) è morto in Siria, lo scorso ventidue febbraio.

Il grande sceneggiatore italiano Tonino Guerra è mancato lo scorso ventuno marzo: «C’è più cinema nelle parole, che negli stessi film».

ni): «Da quarant’anni, cerco delle risposte, voglio sbarcare da qualche parte, per vivere in modo diverso. Ho pensato a Tbilisi e anche a New York. E invece, proprio in questi giorni, ho attraversato un ponticello sul Presale, che è un affluente del Marecchia, e sono arrivato a calpestare le foglie di un orto disordinato e accogliente. Magari era destino che finissi proprio lì. Mi sono trovato con gli occhi tra i cardi e le mele ammalate, che il vecchio Eliseo posava sui mucchi di foglie secche, per vedere se la parte verde riusciva a maturare o sarebbe stata invasa dal marcio. A molti farebbe bene arrivare in un orto di campagna. Mescolare i pensieri tra le foglie dell’insalata e l’aria pulita sventolata dalle foglie dei cavoli. Gli anni Novanta ormai li abbiamo sulla punta della lingua. Credo che saranno gli anni in cui noi, vuoti di ideologie, avremo gli occhi sulla natura. Probabilmente, l’acqua dei mari e dei fiumi sarà più limpida e l’aria più respirabile. Spero siano gli anni dell’odio per le divise e le urla da guerra, per le colline dei rifiuti, che cominciano a diventare il nostro paesaggio. Dobbiamo riallacciare i fili di seta col prossimo, altrimenti il ghiaccio della solitudine ci chiuderà nella tristezza della sua morte. Impareremo a tagliarci le unghie, per non graffiare? Potrebbero essere anche gli anni della spiritualità e della poesia; una poesia non solo di parole, ma soprattutto di gesti. Per esempio: se ci capiterà di incontrare un albero fiorito, ormai sarebbe ora di salutarlo, incantati, togliendoci il cappello». Purtroppo, le speranze di Tonino Guerra non sembra si siano avverate. [A proposito delle leggendarie “mille parole”, integro con un estratto dal testo dello scrittore spagnolo Ignacio Paco Taibo II (in Messico, dal 1958), che riportiamo, su questo stesso numero, da pagina 56: «Dire che ci sono foto che valgono più di mille parole è una frase facile, ma io credo, piuttosto, che vi siano foto che meritano mille buone parole»].

VITE FALCIATE. Chiunque ha figli sa che rappresentano ciò che di più prezioso abbiamo, principale fonte delle nostre ansie, delle nostre paure, gioie e dolori. Quando penso al fotogiornalista Rémi Ochlik, ventotto anni, che il ventidue febbraio scorso perde la sua vita per testimoniare la Storia [FOTO graphia, marzo 2012], non la Storia in generale, ma la Storia dove si esprime con la maggior ferocia, la Storia che cerca di uccidere quelli che la guardano e la vogliono raccontare, la Storia del Male, quando penso a lui e ai suoi genitori che gli sopravvivono, provo un senso di ribellione. Si può morire a ventotto anni per raccontare una Storia che esiste, perché la stragrande maggioranza del pianeta se ne frega? Morire sul lavoro, senza che i grandi giornali ti aiutino a far circolare le cattive novelle che, a rischio della tua vita, raccogli, perché il mondo sappia?

Rémi Ochlik [qui sopra] muore per testimoniare che in Siria si sta verificando uno dei grandi massacri dei nostri tempi. Parte della comunità internazionale chiede l’intervento delle truppe dell’Onu, parte aspetta invece che il presidente siriano Bashar Hafiz alAsad accetti di concedere più democrazia al suo paese, rispondendo positivamente alle richieste degli insorti, risvegliati alla ribellione dal vento della Primavera Araba. Rémi Ochlik muore sotto l’ennesimo bombardamento che le truppe lealiste scatenano sulla città di Homs. Insieme a lui, muore una mitica firma del reportage di guerra, la giornalista americana Marie Colvin, del settimanale Sunday Times. Quando Paris Match, per il quale Rémi Ochlik è on assignement, gli chiede di rientrare, lui risponde di non essere soddisfatto delle immagini, di voler lavorare ancora per realizzare altre fotografie, che testimonino nella maniera più realistica la tragedia che il popolo siriano sta vivendo. Un altro fotogiornalista, Gregory Boissy, che ha lavorato con lui all’agenzia Ip3 Press, ha dichiarato: «Ré-


Ici Bla Bla

mi era prudente, sapeva quando osare e quando trattenersi. Se sentiva che stava succedendo qualcosa di importante si esponeva, ma non era un kamikaze». Rémi Ochlik inizia la sua professione nel 2004. In quell’anno, Jean-François Leroy, direttore di Visa pour l’Image, così commenta il suo primo reportage, sulla caduta di Jean-Bertrand Aristide, presidente di Haiti: «Sono rimasto stupito da quel lavoro che non sembra affatto un primo lavoro, ma l’opera di una fotografo professionalmente maturo. Per me, è stato la rivelazione dell’anno e la risposta più potente per coloro che sostengono che il fotogiornalismo è morto». Tra i reportage di Rémi Ochlik, ricordiamo quelli realizzati nel 2008 sulla guerra nel Congo e nel 2010 sui devastanti effetti del colera a Haiti. Nel 2011, fu uno dei primi a coprire lo sbocciare della Primavera Araba, in Tunisia, e -in seguito- si è trovato in prima linea nella guerra libica e nelle rivolte del Cairo. Il suo lavoro veniva pubblicato soprattutto in Francia. Pochi giorni dopo aver vinto il primo premio nella categoria General News Stories del World Press Photo 2012 (sul 2011; FOTOgraphia, marzo 2012), con un reportage dalla Libia [in alto], precedendo il nostro Paolo Pellegrin, aveva dichiarato: «Non so se questo premio mi aiuterà a entrare nelle stanze dei photo editor dei grandi media internazionali. Ma per ora va bene così».

VITE FALCIATE / 2. Premio Pulitzer nel 2004 e nel 2010, per gli articoli pubblicati sul Washington Post, che hanno rivelato al mondo gli orrori della guerra in Iraq, Anthony Shadid [al centro], inviato del New York Times, è morto quarantatré anni, il sedici febbraio, in Siria, per un attacco di asma, mentre intorno a lui fischiano le pallottole ed esplodono le bombe spa-

Reportage di Rémi Ochlik dalla Libia: primo premio nella categoria General News Stories del WPP 2012.

rate dall’artiglieria lealista. Segnalo questa notizia, sia per le sue eccelse qualità di giornalista e scrittore, sia per il destino baro che uccide un eroe di guerra con un attacco d’asma causato da un’allergia ai cavalli. Anthony Shadid era entrato in Siria per il suo ultimo reportage con il fotogiornalista Tyler Hycks, tagliando il filo spinato che segna il confine con la Turchia. Sembra incredibile, ma Anthony Shadid e Tyler Hycks, in Siria, si muovono a cavallo, attraversando aree desertiche e montagnose, per raggiungere i luoghi caldi della rivolta e della repressione. Probabilmente, è proprio l’impiego di questo mezzo di trasporto a causare la morte del giornalista, appunto a causa di un’allergia. La morte aveva comunque già cercato di portarselo via con le armi della guerra altre tre volte: colpito a Ramallah, ferito al Cairo, rapito in Libia. Il suo ultimo libro House of Stone: A Memoir of Home, Family, and a Lost Middle East (336 pagine; Houghton Mifflin, febbraio 2012; in inglese; 16,95 dollari, su Amazon), racconto dei mesi passati nel villaggio libanese di Marjayoun, da dove i genitori partirono mezzo secolo fa per emigrare in Oklahoma (Usa), è stato pubblicato postumo.

sporca, sguardo classicamente lombrosiano, ma dovrebbe invece assomigliare, per esempio, a uno degli sbarbati, bellocci, eleganti protagonisti di Wall Street [qui sotto], un film del 1987 di Oliver Stone, con Michael Douglas come interprete principale (nei panni dell’amorale e cinico Gordon Gekko), che per la sua performance fu premiato con l’Oscar come migliore attore protagonista, nel 1988.

Il giornalista Anthony Shadid, premio Pulitzer nel 2004 e nel 2010, è morto in Siria, il sedici febbraio, per un attacco di asma.

PARASSITA LOMBROSIANO. Per (a destra, in alto e al centro) Bruttura discutibile da un videoclip del Ministero dell’Economia e delle Finanze Agenzia delle Entrate, che denuncia chi non paga le tasse. Più probabilmente, gli evasori fiscali assomigliano agli eleganti protagonisti del film Wall Street, del 1987, di Oliver Stone.

molti, brutto è ancora sinonimo di cattivo. Faccia non sbarbata, sinonimo di delinquente. Vestiti dimessi, sinonimo di ladro. Questi sinonimi devono essere i postulati visivi di chi ha realizzato un breve videoclip per denunciare quelli che non pagano le tasse, che va in onda da un po’ di tempo sulla televisione italiana, prodotto su incarico del Ministero dell’Economia e delle Finanze - Agenzia delle Entrate [a destra, in alto]. Ritengo che il personaggio che non paga le tasse non dovrebbe essere quello scelto, appunto con barba incolta, camicia molto probabilmente

LA CARTA STAMPATA È FINITA: I GIORNALI GODONO DI BUONA SALUTE. Questo ossimoro è commentato in un bell’articolo a firma del direttore Christian Rocca, apparso sul numero di marzo del mensile IL, allegato del Sole 24ore. Già geniale è la copertina del numero, che propone una famosa boutade di Mark Twain (1835-1910): «La notizia della mia morte è fortemente esagerata» [a pagina 20]. Mark Twain (Samuel Langhorne Clemens) scrisse le sue opere nascondendosi dietro uno pseudonimo derivante da un avvertimento gridato, in uso nella marina statunitense per segnalare una

19


Ici Bla Bla raccolta pubblicitaria sono incredibilmente positivi. La crescita in Brasile è a doppia cifra. In India, dove si vendono più giornali che negli Stati Uniti, da qui al 2014, è previsto un ulteriore aumento delle vendite del diciotto percento. Secondo la World Association of Newspapers and News Publishers, nel 2010 la diffusione dei giornali di carta nell’area Asia e Pacifico è aumentata del sette percento, rispetto al 2009, e del sedici percento negli ultimi cinque anni. In America Latina, le vendite sono cresciute del due percento, nel 2010, e del quattro e mezzo percento negli ultimi cinque anni». profondità di sicurezza: by the mark, twain (ovvero: dal segno, due). Mark Twain è l’autore di due romanzi che tutti abbiamo letto da piccoli: Le avventure di Tom Sawyer (1876) e Le avventure di Huckleberry Finn (1884). Torniamo all’articolo di Christian Rocca, nel quale si segnala che, a fronte di problemi importanti per i giornali europei e nordamericani, c’è un aumento del numero delle testate pubblicate nel mondo: nel 2010, erano quattordicimila ottocentocinquantatré (14.853), duecento in più rispetto l’anno precedente. Poi, il dato più clamoroso: ogni giorno i giornali di carta raggiungono due miliardi e trecento milioni di persone, il venti percento in più rispetto al numero degli utenti totali della Rete (1,9 miliardi). «Un sito vagamente macabro -scrive Christian Rocca- tiene la contabilità dei giornali americani che hanno fermato le rotative (Newspaper Death Watch). Un blog (Newspaperlayoffs.com) pubblica la mappa, città per città, dei posti di lavoro giornalistici perduti negli Stati Uniti (sono stati quasi ventiduemila, dal 2009 a oggi). L’Annenberg School, dell’Università della Southern California, ha pubblicato uno studio secondo il quale, tra cinque anni, sopravviveranno su carta soltanto quattro quotidiani nazionali: Wall Street Journal, USA Today, New York Times e Washington Post. Oggi, le testate di carta sono circa millequattrocento». «Ci sono però forti segnali in controtendenza -continua Christian Rocca-. L’informazione su carta va fortissimo in un’economia in crescita, come il Brasile, e in un paese popoloso e con molte lingue, come l’India. In entrambi i paesi, i dati di diffusione e

20

Il mensile IL, di marzo, allegato del Sole 24ore, pubblica un interessante articolo del direttore Christian Rocca sullo stato dell’editoria su carta. (a destra) Dinosauro disegnato dagli alunni della Terza B, Scuola Primaria Borgo Rodari, di San Remo.

LA BUFALA REGNA IN STRANE CATENE DI “SANTANTONIO”. Ogni tanto, qualcuno riesce a raccogliere un buon numero di indirizzi email, per inviare notizie raccapriccianti, chiedendo aiuto ai destinatari per farle circolare. Quasi sempre, le notizie sono false e servono soprattutto ad alimentare l’ennesima catena di santantonio (o, se volete, Sant’Antonio), in versione online. In questo caso, una email, che ho ricevuto lo scorso sei marzo, dal titolo Io non fermo questa email, ha affermato: «Questa settimana, il Regno Unito ha rimosso l’Olocausto dai piani di studio scolastici poiché offendeva la popolazione musulmana, che afferma che l’Olocausto non è mai esistito». L’email era accompagnata da un file Pdf di quattro pagine, con immagini inquietanti dei lager, nei quali i Nazisti, negli anni Quaranta del Novecento, hanno tentato di cancellare dalla Terra il popolo ebraico [qui a destra]. Mi sono chiesto: ma sarà vero? Ovviamente, no. Nel Regno Unito, l’insegnamento dell’Olocausto viene regolarmente svolto, ed è presente in tutti i piani di studio. E sarebbe strano il contrario. Questa catena, o meglio, il Pdf allegato, non è così nuovo e circola da almeno sette anni. Secondo Hoax-Slayer.com (http://www. hoax-slayer.com/uk-holocaust-remo val.shtml), la circolazione sul web di questa notizia del tutto fuorviante, nel 2007, costrinse il governo britannico a una secca smentita. La smentita è riportata su questa pagina della BBC: http://news.bbc.co.uk/2/hi/uk_news/e ducation/6563429.stm. La cosa migliore che si può fare, ricevendo email di questo tipo, è di

attivare un minimo controllo su Internet e, se è il caso, fermare immediatamente la catena.

DALLA BUFALA AL DINOSAURO. Questa notizia invece è vera. Il dipartimento dell’Istruzione dello Stato di New York ha pubblicato un elenco di termini da non utilizzare nei test scolastici, per non offendere i sentimenti di alunni di religione o credenze particolari. Per esempio, è bandita la parola dinosauro [qui sotto], in quanto, rimandando all’idea di evoluzione, offende i creazionisti. Vietate anche compleanno, perché i testimoni di Geova non lo festeggiano, e divorzio, perché potrebbe far rivivere uno shock familiare agli studenti figli di coppie separate. Vietate anche dancing (troppo sexy), videogame e televisione (diseducativi), povertà (può offendere i figli dei disoccupati, cioè del nove percento degli americani di oggi), schiavitù (turba i piccoli afroamericani) e extraterrestre (può creare incubi notturni ai più sensibili).

A PROPOSITO DI PRIME PAGINE.

Pdf di quattro pagine che accompagna false notizie sulla rimozione della memoria dell’Olocausto.

La copertina delle edizioni europea e asiatica di Time del venti febbraio propone un ritratto di Mario Monti, eseguito da Paolo Pellegrin, uno dei più noti fotogiornalisti italiani, membro dell’agenzia Magnum Photos. Lo strillo recita: Can this man save Europe? (Quest’uomo può salvare l’Europa?) [pagina accanto]. Prego confrontare questa copertina con quella, sempre di Time, del precedente ventuno novembre. In quell’occasione, lo strillo recitò: The man behind the world’s most dangerous economy (L’uomo che sta dietro l’economia più pericolosa del mondo) [ancora, pagina accanto]. Sempre a proposito di copertine, ci limitiamo a osservare un fatto singolare. La copertina dell’edizione americana di Time del venti febbraio (contemporanea a quella di Monti, di altre edizioni, appena evocata), è dedi-


Ici Bla Bla cata al cane, con una straordinaria somiglianza a quella dell’edizione americana di National Geographic, sempre di febbraio, a propria volta dedicata ai cani. Che sia l’inizio della fine? Mi viene in mente l’incipit di Anni senza fine, di Clifford Simak (Urania / 18, Arnoldo Mondadori Editore, 1953): «Queste sono le storie che i Cani raccontano quando le fiamme bruciano alte e il vento soffia dal nord. Allora ogni famiglia si riunisce intorno al focolare, e i cuccioli siedono muti ad ascoltare, e quando la storia è finita fanno molte domande: Cos’è un Uomo?, chiedono. Oppure: Cos’è una città? O anche: Cos’è la guerra? Non esiste una risposta precisa a nessuna di queste domande. Ci sono delle supposizioni e ci sono delle teorie e ci sono numerose ipotesi dotte, ma non esiste, in realtà, una vera risposta».

Edizioni europea e asiatica di Time del venti febbraio: Mario Monti, in un ritratto di Paolo Pellegrin (Magnum Photos).

Edizioni europea e asiatica di Time del 21 novembre 2011: Silvio Berlusconi.

DALLE STELLE ALLE STALLE. Segnalando, con ammirazione, la copertina del settimanale Time, abbiamo confrontato con la copertina precedentemente dedicata a Silvio Berlusconi. Un percorso che potremmo definire “dalle stalle alle stelle”. Ora ci avviamo a percorrere lo stesso cammino, ma nella direzione opposta. Che ci fa

Cani sulle copertine delle edizioni statunitensi contemporanee di Time, del venti febbraio, e National Geographic, di febbraio.

la moglie dell’attuale primo ministro sulla copertina di un settimanale di gossip italiano, sotto lo strillo «Vi racconto il Premier. Anzi... il mio Mario», di un settimanale che si è prestato -nel recente passato- ad avallare le più fantasiose storie che facevano comodo al former prime minister, tipo celebrare la sua quasi reale famiglia, accreditare la bufala di Noemi, intervistandola con il finto fidanzato, e quella di Ruby Rubacuori, la nota nipote del presidente egiziano Mubarak? Che tristezza, trovare sul numero di Chi, del ventisette marzo scorso, la signora Elsa Monti che dichiara ad Alfonso Signorini, direttore del settimanale, «Le cravatte a mio marito le scelgo io» [a sinistra, in basso]. È questa la sobrietà montiana? Anche se, nella sua intervista, la signora Monti dice cose molto sensate, non è questo un segno che il nuovo potere dei tecnici asseconda un modello di ricerca di consenso e di popolarità di tipo consumistico, qualunquistico, sondaggistico, spettacolare, che non dovrebbe essere da tecnici? Inquieta, quello che ricorda Bruno Marino sul sito www.polisblog.it: «Marshall McLuhan, il sociologo canadese padre della scienza delle comunicazioni di massa sosteneva che il medium è il messaggio». Se “nonno” McLuhan aveva ragione, questa copertina non è un bel messaggio.

COSTI DI INGRESSO ALLE MOSTRE. Attorno la metà dello scorso (a destra, in alto) Con un ingresso dal prezzo esorbitante, la mostra Regina Margherita, alla Villa Reale, di Monza, offre testi di accompagnamento di profilo orrendamente basso.

Che tristezza! Elsa Monti, moglie dell’attuale primo ministro, sulla copertina di Chi, del ventisette marzo.

agosto, è scoppiata una polemica sui costi che il cittadino deve sostenere per visitare le mostre. Lo spunto venne dai prezzi annunciati per la mostra a Palazzo Ducale, di Venezia, dal titolo Venezia e l’Egitto: sedici euro, il biglietto più caro d’Italia. Ecco alcuni confronti: l’ingresso agli Uffizi, di Firenze, costa 6,50 euro; 18,40 euro per vedere Leonardo alla National Gallery, di Londra; 16,10 euro per Miró, alla Tate Gallery, sempre a Londra; 18,15 euro per entrare alla Casa Batllò, di Barcellona. Per i Musei Vaticani e la Cappella Sistina, si pagano quindici euro; otto euro per il Cenacolo Vinciano; dieci euro per il Louvre e otto euro al Museo d’Orsay; sette euro per il Prado e sei euro per Guernica, al Reina Sofia, di Madrid; 12,50 euro al Van Gogh Museum, di Amsterdam, e all’Hermitage, di San

Pietroburgo; otto euro al Pergamon, di Berlino; 17,37 euro per il Metropolitan, di New York; 13,90 euro per il MoMA, sempre a New York; 12,51 euro per il Guggenheim, ancora a New York. Il biglietto di museo più caro al mondo si paga a Barcellona: ventidue euro per una visita al Camp Nou (che però è un campo di calcio) e al Museo Blaugrana (sempre calcio), che sta al suo interno. Questo detto, voglio parlare della mostra Regina Margherita, inaugurata il venti settembre, e -mentre scrivo- è ancora aperta e visitabile presso la Villa Reale, di Monza. L’adulto paga quindici euro per la visita. Quindi, rispetto ai prezzi citati sopra, e considerato il poco che si può ammirare (per quanto interessante e non visto), il prezzo di ingresso è decisamente alto. Ma la cosa scandalosa non è il prezzo. Sono i testi dei pannelli che accompagnano la mostra (che non so a cura di chi siano stati redatti). Cito un passaggio che mi spinge a non leggere altro: «Il contributo che Margherita dà alla cultura, sotto diversi aspetti, è impareggiabile. L’instancabile mecenatismo, l’interazione con il mondo intellettuale attraverso il suo “Circolo” e i famigerati “incontri del giovedì”, [...]». Capito? I famigerati, cioè i malfamati, i tristemente famosi. Il poveretto forse voleva dire i “famosi”, ma ha voluto aggiungere un pizzico di esotico, e dall’alto della sua cultura, ha buttato lì, sicuramente orgoglioso di se stesso, “famigerati”. Avevamo già parlato del decadimento della qualità dei curatori [FOTOgraphia, novembre 2008), a proposito di un clamoroso errore nella poesia dell’imperatore Adriano, al British Museum, di Londra.

21


© COURTESY NASA / JPL

Ici Bla Bla

FOTOGRAFIA O QUASI FOTOGRAFIA. Ecco2 (Estimating the Circulation and Climate of the Ocean, Phase 2) è un modello di analisi per tenere sotto controllo le correnti marine. Messo a punto dalla Nasa, l’ente spaziale statunitense, e dal Jpl (Jet Propulsion Laboratory), questo modello permette di realizzare immagini delle correnti, utilizzando dati satellitari. Il risultato finale -ovviamente in falso colore- mette in risalto con linee bianche su un fondo blu i disegni che sarebbero visibili dal satellite se i movimenti delle correnti potessero lasciare la propria traccia sulla superficie del mare. L’immagine che pubblichiamo [qui sopra] mostra l’andamento delle correnti nella parte dell’Atlantico che bagna la costa orientale degli Stati Uniti e del Golfo del Messico. Queste mappe sono molto importanti nello studio dell’evoluzione dei cambiamenti climatici del pianeta.

DOPO IL CASO CINDY SHERMAN. Lo scorso giugno, quando ab-

IN DIFESA DELL’ORSO BIANCO. Nel numero 35 dell’edizione italiana di Vanity Fair, dello scorso sette settembre, a pagina 52, all’interno della sezione del settimanale dedicata alle news, una fotografia pubblicata a mezza pagina è accompagnata da una didascalia che recita «L’orso con il caldo intorno - Che cosa ci fa un orso bianco su un albero? Non cerca riparo dal caldo torrido che ha funestato anche l’Italia (venticinque vittime in due settimane, di cui dieci a Milano, in un giorno), ma cibo. Da quando è diminuito il numero dei salmoni, infatti, gli orsi bianchi in Alaska hanno cambiato dieta: ora si nutrono anche di bacche, radici e frutta» [al centro].

22

to al di sopra del circolo polare artico. L’orso bianco è il più grande carnivoro del mondo (se si escludono i mammiferi di mare, come le orche e i pesci, come lo squalo bianco) e la sua dieta non prevede assolutamente bacche. Tre: la fotografia che il settimanale italiano ha pubblicato era già stata presentata a pagina 44-45 del numero di agosto 2011 dell’edizione americana del National Geographic (e anche da quella italiana), che ha riservato a questa specie di orso un articolo di venti pagine, con fotografie a firma del famoso fotografo naturalista americano Paul Nicklen. Leggere le didascalie, no? Avrei un’ultima considerazione: se nella propria rubrica di vertice Vanity Spy, Vanity Fair avesse pubblicato una fotografia di -che so?- Johnny Depp [a sinistra, in basso], attribuendogli l’identità di Tom Hanks, cosa sarebbe successo? Siluramento del redattore? Evidentemente Vanity Fair non è un giornale per orsi.

Un rosario di corbellerie. Uno: l’orso ritratto (Ursus americanus kermodei, identificazione comune inglese spirit bear) è una sottospecie dell’orso nero americano (Ursus americanus). Due: è noto che gli orsi bianchi (Ursus maritimus) non vivono in zone vegetate; il loro habitat è confina-

biamo parlato dei tre milioni e quasi novecentomila dollari (3.890.500 dollari) spuntati da Untitled #96, di Cindy Sherman, in un’asta di Christie’s, pensavo che difficilmente si sarebbe superato questo enorme importo pagato per una fotografia. E invece no. Sempre da Christie’s, il fotografo tedesco Andreas Gursky si è aggiudicato quattro milioni e trecentomila dollari (partendo da una base d’asta compresa tra due e mezzo e tre e mezzo), per la sua fotografia dal titolo Rhein II [qui sopra]. Adesso, è questa la fotografia più pagata della storia. No comment. Lascio a voi ogni sentimento a proposito. Correva l’anno 2011. Era l’undici novembre.

Correnti marine nella parte dell’Atlantico che bagna la costa orientale degli Stati Uniti e del Golfo del Messico, in simulazione Ecco2.

Da Vanity Fair, dello scorso sette settembre: non è un orso bianco, come recita la didascalia, che si allunga in considerazioni adeguatamente inappropriate. Pertinenti (speriamo?), gli assist che Vanity Fair offe allo star system: per i cui personaggi non vengono commessi errori grossolani.

Rhein II, di Andreas Gursky, è la fotografia più pagata della storia: quattro milioni e trecentomila dollari a un’asta di Christie’s, dello scorso undici novembre.


Ici Bla Bla Il poster Hope, di Shepard Fairey, esposto alla National Portrait Gallery, della Smithsonian Institution, di Washington DC.

accreditati entrano nelle stanze dove si tengono gli incontri importanti e realizzano qualche fotografia.

STATO DELL’ARTE. Ricordate questa vicenda, di qualche anno fa? Ne abbiamo parlato anche noi (FOTOgraphia, marzo 2009). L’Associated Press denunciò Shepard Fairey, un artista di strada, per aver realizzato un manifesto utilizzando, senza permesso, un ritratto di Barack Obama realizzato da Mannie Garcia. Il manifesto, dal titolo Hope (speranza), fu poi usato dallo stesso Barack Obama nella sua campagna elettorale, che lo ha portato alla presidenza degli Stati Uniti. La causa tra AP e Fairey si è conclusa il 12 gennaio 2011: «AP e il signor Fairey hanno raggiunto il seguente accordo. Il signor Fairey promette di non usare più immagini della AP senza chiedere preventivamente il permesso. AP e Fairey hanno concordato di promuovere l’immagine Hope e dividere il ricavato delle vendite del poster realizzato con quell’immagine. AP ha anche concordato con Fairey l’elaborazione di altre immagini dell’agenzia, da trasformare artisticamente per realizzare altri poster da mettere in vendita». Oggi, però, Shepard Fairey è stato accusato dal tribunale di New York di qualcosa di peggio rispetto a un copyright infringement. L’accusa è di aver distrutto e falsificato, al fine di aver ragione, documenti relativi alla causa che lo ha visto contrapposto ad AP, proprio durante lo svolgersi della causa stessa. La sentenza per queste nuove accuse è attesa per il prossimo sedici luglio: l’accusato rischia sei mesi di carcere e cinquemila dollari di multa. L’immagine che pubblichiamo presenta il poster di Shepard Fairey, esposto alla National Portrait Gallery, della Smithsonian Institution, di Washington DC [in alto].

Fotografia scattata da un sindacalista, pubblicata su Twitter il venti marzo; da cui, la protesta dei fotogiornalisti accreditati.: reflex a terra!

Due anatre ( Anas platyrhynchos, o germano reale) sottolineano che in questi tempi orribili solo la natura, gli alberi, le foglie, le nubi, gli animali sembrano gli unici a mantenere la propria dignità.

cato del lavoro», il venti marzo, è stata pubblicata su Twitter l’immagine che presentiamo qui, in alto, scattata con un telefonino da uno dei sindacalisti partecipanti alla riunione. L’immagine, per altro sostanzialmente insignificante, nella quale si intravedono Mario Monti e Corrado Passera, ha scatenato le proteste dei fotogiornalisti parlamentari che stazionano davanti ai palazzi della politica, in attesa di qualche scatto da pubblicare sui quotidiani. La protesta, inscenata simbolicamente appoggiando a terra tutte le macchine fotografiche [qui sopra], è stata provocata non solo da questa pubblicazione su Twitter, ma anche dal fatto che, in concomitanza con la riunione, era stato annullato il consueto giro di tavolo, durante il quale i fotogiornalisti

LE ANATRE SAPIENTI. Il rapporto tra il volume del cranio di un’anatra (Anas platyrhynchos, o germano reale) e quello di un essere umano (Homo sapiens sapiens) è di circa un settantesimo: cioè, ci vogliono circa settanta crani di anatra per fare il volume di un cervello umano. Ciononostante, nella testolina di un’anatra c’è tanta di quella conoscenza... So che c’entra poco o niente con la fotografia (anche se tutto si tiene, come insegna magistralmente Maurizio Rebuzzini, che -unico- narra la fotografia, anzi la Fotografia, con le stesse parole e la stessa sintassi con le quali si racconta la Vita). Ma voglio chiudere raccontandovi che quest’anno, come da molti anni ormai (i germani vivono mediamente quindici-venti anni), una coppia di germani è arrivata a fine marzo a far tappa nella piscina del condominio adiacente al nostro giardino. Come il solito, i due germani, maschio e femmina, si fermeranno a riposare per una decina di giorni. Poi, ripartiranno per la loro destinazione estiva. Non è magia. È la natura; anzi, la Natura. Come dice bene Aldo Moro, nel buon film di Marco Tullio Giordana sulla strage di piazza Fontana, del 12 dicembre 1969 (Romanzo di una strage): «In questi tempi orribili solo la natura, gli alberi, le foglie, le nubi, gli animali sembrano gli unici a mantenere la propria dignità». Strano anche il fatto che arrivino due individui: in genere i germani migrano in grandi stormi. ❖

LA CGIL IN COMPETIZIONE CON I REPORTER POLITICI. Con la didascalia «Dalla Sala Verde di Palazzo Chigi, per la riunione sulla riforma del mer-

23


di Maurizio Rebuzzini olendolo fare, ma non ci interessa farlo, potremmo vantare una sorta di primogenitura giornalistica e fotografica. A tutti gli effetti, in Italia, siamo stati i primi a prendere atto del “fenomeno Holga”, scrivendone addirittura nel febbraio 1998 (!) [a pagina 26], con accompagnamento di uno straordinario portfolio di Visioni siciliane, di un autore che negli anni immediatamente a seguire si sarebbe affermato come il più attento e motivato: Claudio Amadei, tornato sulle nostre pagine, sempre con Holga, nel giugno 2001 (È corsa / Mille le Miglia), marzo 2002 (Holga mon amour ) e settembre 2005 (Industria con stile). Volendolo ancora fare, ma non ci interessa ancora farlo, potremmo vantare di aver sempre saputo distinguere l’apparenza della fotografia Holga, spesso declinata con cattive maniere fotografiche, dalla sostanza dell’applicazione creativa, che non appartiene necessariamente a tutti coloro i quali usano questo apparecchio, ma soltanto a coloro i quali ne finalizzano sapientemente le intrinseche e sostanziali possibilità espressive. Dunque, non la sola forma a tutti apparente (e spesso abusata o applicata a sproposito), ma la sostanza progettuale e di realizzazione. Ancora, e in sovramercato, per quanto possiamo condividere l’opinione di chi annota un certo “imborghesimento” del fenomeno Holga, che da clandestino come è nato è ormai ufficialmente annotato nella fotografia contemporanea, ne prendiamo comunque le distanze: l’attualità Holga è assolutamente in linea con i nostri tempi. Non è più alla sola portata di un’avanguardia di autori, ma è alla portata di tutti, soprattutto dei giovani, che ne possono trarre utilità per le proprie avventure fotografiche. Punto e basta. La Holga in mano ai giovani di oggi, magari diversi da quelli di ieri (e spesso migliori, nell’animo), non è tanto e solo “imborghesimento”, come apparirebbe e potrebbe essere superficialmente concluso, ma è anche e ancora straordinaria fonte di pensiero e azione, di creatività e invenzione. Insomma, di Vita! Certo, sono finiti i tempi clandestini, che hanno definito le origini del fenomeno e composto i suoi primi passi. Oggi, il sistema è differenziato e moltiplicato, con interpretazioni a tutto campo, persino con livree dai colori sgargianti, persino stereo, persino a foro stenopeico, persino a inquadratura panorama, persino biottica, persino con flash incorporato variamente gestibile. Certo, oggi c’è una distribuzione sicura e ufficiale (Aproma, via Cimabue 9, 20032 Cormano MI; www.aproma.it), con relativa reperibilità estesa a una identificata qualità e quantità di fotonegozianti, particolarmente attenti e attivi sul mercato. E questo può fare invidia e gelosia soltanto a coloro i quali vorrebbero impedirne la diffusione potenzialmente capillare. Se poi, a fronte di una maggiore propagazio-

V

24


SEMPRE

MERAVIGLIOSA Per quanto si possa pensare anche a un certo “imborghesimento”, successivo alla spontaneità originaria (della seconda metà degli anni Novanta!), non bisogna assolutamente penalizzare l’attualità del fenomeno Holga. Sì, oggi si manifesta in maniera diversa rispetto la propria origine. Sì, oggi si manifesta in ordine con i tempi attuali. Non chiediamo nulla di diverso della sana arbitrarietà creativa. Sempre e comunque! Esclamativo ne, si affacciano anche fotografi stolti e incapaci, che pensano alla Holga come baluardo intoccabile per coprire proprie incapacità espressive, è un prezzo legittimo da pagare, per avere più autori competenti e avvincenti, per amplificarne l’espressività potenziale. Al pari di qualsiasi massificazione, anche quella Holga è certamente pericolosa, ma lo è di più il suo contrario: la chiusura in congregazioni oscurantiste.

PASSO DOPO PASSO Tutto è cominciato a metà degli anni Novanta, a New York, là dove sono iniziati molti dei fenomeni culturali e fotografici degli ultimi decenni. Intenzionalmente indirizzata e destinata a un pubblico di poche pretese, l’originaria Holga 120S, che da tempo ha ceduto il passo alla sua confi-

gurazione 120N, di attualità tecnico-commerciale, è finita tra le mani di fotografi creativi, che ne hanno completamente stravolto i valori e i termini tecnici di partenza (peraltro assai contenuti, se non già addirittura limitati... in apparenza). Del resto, in pieni anni Novanta, quali prospettive commerciali avrebbe potuto avere un apparecchio fotografico da pochi soldi, che usa pellicola a rullo 120 per esporre fotogrammi 4,5x6 e 6x6cm -soprattutto 6x6cm- di dubbia qualità formale? La Holga è prodotta nella Repubblica popolare cinese, dove la fotografia 6x6cm ha avuto stagioni di consistente popolarità e diffusione (per copie a contatto, per composizioni quadrate e per mille altri motivi), prima di essere scalzata dall’arrivo dei minilab e della grande ondata degli apparecchi 35mm, più comodi e pratici, e dall’affermazione

L’attuale Holga 120N, erede della genìa avviata con la 120S, degli anni Novanta, è la base di una offerta fotografica differenziata: in tutti i casi, per espressività creativa e arbitraria. La stessa Holga 120N è disponibile in livree dai colori sgargianti.

(in alto, a destra) Holga 135BC TLR: biottica per pellicola 35mm in puro “stile Holga”.

25


26


della tecnologia digitale. È stata pensata in quanto alternativa economica alle (allora) più preziose Seagull e Pearl River, per lo più biottica, allo stesso modo in cui, nell’Italia fine anni Cinquanta, la Eura Ferrania fece la propria corsa sugli apparecchi più costosi, a partire dalla nobile Rolleiflex. Però, da tempo e tempo, il pubblico della fotografia 6x6cm economica non esiste più, neppure in Cina, figuriamoci nel resto del mondo. È stato spazzato via dalle più recenti proposte tecnologiche ad acquisizione digitale di immagini, che non lasciano spazio a negativi imprevedibili, con avanzamento manuale, casuale e improvvisato tra un fotogramma e il successivo. Così che, tutto quanto non serve più alla tranquilla fotoricordo, campo di applicazione principale -o forse unico- del vasto pubblico, è presto diventato territorio di ricerca espressiva. Più e diversamente di altri apparecchi semplici, la Holga ha trasmigrato, arrivando tra le mani di professionisti americani e fotografi creativi di tutto il mondo, che danno più peso al senso dell’immagine che non ai suoi connotati esteriori (fatta salva una grande cura nella stampa bianconero e in quella a colori, ambedue realizzate con impeccabile maestria). Visivamente, la “fotografia Holga” si riconosce dalla scarsa qualità formale delle immagini, evanescenti soprattutto verso i bordi del campo inquadrato, solitamente soffici e inconsistenti (l’obiettivo di ripresa non copre adeguatamente il pieno formato 6x6cm). Concettualmente, la si identifica per l’estremo disincanto delle composizioni e delle inquadrature, completamente libere e liberate da qualsiasi convenzionalità propria della comune ripresa fotografica.

TESTIMONIANZE Per quanto in molte occasioni, su e da queste pagine, abbiamo accennato allo stretto legame che intercorre tra tecnica e creatività, là dove il mezzo suggestiona il linguaggio, nel caso Holga è necessario un aggiornamento. Da una parte, bisogna considerare l’ipotesi dei professionisti che al di fuori del rapporto con le committenze rigide hanno individuato un campo di sperimentazione tecnicamente svincolato. Dall’altra, non si può ignorare che pur nella leggerezza e libertà, si tratta sempre di applicare i canoni di un linguaggio -quello fotografico- ormai codificato ed endemico nella società... forse. Nella sequenza del rapporto tra il linguaggio fotografico e i propri mezzi, bisogna aggiungere la deviazione della fotografia arbitraria (espressiva?), che rifiuta i connotati tipici della fotografia: la sua idea di nitidezza, minuziosa leggibilità e concentrata qualità formale. La fotografia Holga è esattamente il contrario di questo, nella coscienza di essere tale: appunto il contrario. Tutte le sue deficienze tecniche si assommano all’idea di puntare e scattare, senza altra preoccupazione se non quella -pure secondaria- dell’accomodamento su una delle quattro distanze possibili:

Holga 120 3D. È esplicito: i connotati della espressività arbitraria e creativa della Holga sono declinati in riprese stereo con obiettivi accostati, e doppio flash sincronizzato.

Doppia arbitrarietà: Holga (e ci mancherebbe altro) e foro stenopeico: per l’appunto, Holga Pinhole Camera.

rispettivamente marcate con i riferimenti visivi della montagna (infinito), del gruppo numeroso (a otto-dieci metri), del gruppo limitato (a tre-quattro metri) e del ritratto (a uno-due metri). Claudio Amadei, autore che non fa mistero del proprio disincanto riguardo la forma della fotografia, sempre in subordine al proprio contenuto, pensa a un continuo rapporto con gli strumenti -qualsiasi questi siano- e alla voglia di vivere con gioia. Riferendosi alle sue fotografie Holga, che sono soltanto una delle sue mediazioni espressive, afferma che lo strumento è giusto tale, un mezzo: «non fa di me qualcosa di diverso, ma forse sì». Commentando un proprio reportage professionale con Holga, la fotografa anglo-indiana Annu Matthew annota di essersi avvicinata al suo paese quasi come un’estranea, «sebbene io sia un’estranea che prova nostalgia per le immagini, gli odori e i suoni che sono stati le impressioni della mia infanzia, in questi luoghi. Io amplifico queste memorie nella mia fotografia, usando semplicemente la macchina in plastica Holga, che restituisce immagini in bianconero con una qualità sognante, nostalgica. Le fotografie sono una distorsione del tempo e mi riportano indietro, così che possono essere rivissute ancora e ancora». Chiudiamo con una osservazione di David Featherstone: «Quando non si può più fare affidamento alla tecnologia d’avanguardia, la visione personale è lasciata scoperta; eppure, allo stesso tempo, queste macchine fotografiche giocattolo rimangono tecnologiche e contribuiscono con la loro stessa estetica alla fotografia che producono. È questa dicotomia che ha determinato la loro popolarità». Appunto: creatività individuale. ❖

Lo registriamo e puntualizziamo soltanto per fini statistici e di costume fotografico: nessuna autoreferenzialità! FOTOgraphia è stata la prima rivista italiana a osservare e raccontare il fenomeno Holga, e per lungo tempo è stata anche l’unica ad averlo fatto. In tempi non sospetti, in tempi originari, abbiamo cominciato a riferirne nel febbraio 1998.

27


PERSONALITÀ

DERIVATE Alla fine degli anni Novanta, il ritorno sul mercato fotografico del marchio Voigtländer ha segnato anche l’avvio di una genìa di configurazioni ispirate al modello Leica, con tanto di coerente innesto degli obiettivi intercambiabili. Per il nostro modo di vedere e considerare: fantastiche e avvincenti finzioni fotografiche ispirate e derivate, che offrono una sostanziosa impressione di sé, spesso altresì rinvigorita da energiche consistenze tecniche. Avviato con la Bessa-L, priva di mirino e telemetro, il sistema Voigtländer Bessa si è presto arricchito di altre interpretazioni ottiche, oltre che di corpi macchina 35mm via via più sofisticati.

28

di Maurizio Rebuzzini

P

arliamone. L’arrivo sul mercato fotografico di una configurazione tecnica quale è la nuova Fujifilm X-Pro1 [FOTOgraphia, marzo 2012], ad alto tasso esecutivo, in linea e ordine con i tempi attuali e con le possibilità offerte dalla tecnologia dei nostri giorni, impone una riflessione, forse più di una -in termini quantitativi-, ma proprio una e una sola per capi di esplorazione e considerazione. Non si tratta tanto di valutarne i valori operativi, che possono essere rintracciati altrove, laddove vengono ben sintetizzati e armoniosamente classificati, ma di proseguire oltre, magari in relazione e dipendenza del nostro punto di vista promesso: dalla enunciazione/spiegazione della testata -nel colophon della rivista-, riflessioni, osservazioni e commenti sulla Fotografia (valutata anche per la propria personalità tecnica). Come già sottolineato, la Fujifilm X-Pro1, che prosegue il luminoso cammino della propria genìa, avviato con l’originaria X100 (TIPA Award di categoria; FOTOgraphia, giugno 2011), offre e propone una

MAURIZIO REBUZZINI (2)

Paradossalmente, per incontrare una macchina fotografica autenticamente innovativa e appassionante (che così viene commentata e presentata)... bisogna fare qualche passo indietro. Si devono recuperare valori formali e applicazioni del passato, per certi versi addirittura remoto, per quanto in declinazione assolutamente odierna. Da cui, una riflessione sulle personalità fotografiche del falso e della finzione, in una declinazione che le intende entrambe in senso positivo e appassionante. Un digressione in consecuzione cronologica, che rievoca l’attualità della configurazione fotografica a telemetro. E dintorni



differenza, conteggiamo finta la costruzione fotografica ispirata e derivata, che attraverso la configurazione influenzata offre comunque una sostanziosa impressione di sé, spesso altresì rinvigorita da energiche consistenze tecniche.

FALSE LEICA

ARCHIVIO FOTOGRAPHIA

Ovviamente, il richiamo storico al marchio Voigtländer, in ottica dal 1756, ha accompagnato e accompagna il sistema fotografico 35mm riproposto dalla fine degli anni Novanta.

Tornando sul mercato, alla fine degli anni Novanta, il marchio Voigtländer ha ripreso e recuperato definizioni e identificazioni che appartengono a una lunga e nobile Storia. A partire dal richiamo Bessa, che qui certifichiamo da un dépliant degli anni Trenta, a nomi quali Heliar, Apo-Lanthar, Color-Skopar si tratta di identificazioni che hanno contribuito a scrivere importanti capitoli della vicenda fotografica: in medio e grande formato, e oggi (ieri) anche in piccolo formato 24x36mm e consecuzioni ad acquisizione digitale di immagini.

30

costruzione direttamente ed esplicitamente derivata dal design Leica di ogni tempo, soprattutto dal design consequenziale alla M3 di partenza, del 1954: la prima con innesto a baionetta degli obiettivi intercambiabili (valore tecnico per tutti discriminante) e con mirino comprensivo dell’allineamento telemetrico (Messsucher, appunto telemetro, da cui “M”). Ciò detto, si impone (?) una riflessione che distingua tra loro i falsi dai finti, con entrambe le definizioni declinate con garbato scarto di significato e intese con incondizionata ammirazione. Ovvero, falsi e finti che sono proliferati, gli uni e gli altri, a margine della avvincente parabola Leica. E di nessun altro apparecchio fotografico. Al solito, con ordine, non prima di aver delineato le singole descrizioni. Nel nostro casellario, intendiamo come falsa la costruzione fotografica non involontaria, ovverosia deliberata, a volte realizzata con l’intenzione di ingannare (per quanto riesca a farlo). A

Così che, le false Leica sono quelle che ne riprendono i termini in modo banale e ordinario, oltre che esagerato. Diciamo che si tratta di autentiche copie difformi (ossimoro?). Le simil-Leica reperibili nei mercatini d’antiquariato fotografico sono imitazioni grossolane, quanto gradevoli, peraltro sono vendute come tali e non in vece degli originali che raffigurano. Dunque, queste falsificazioni (che si offrono come tali) rappresentano un autentico attestato di valore. Niente truffa, ma solo il piacere di giocare con dei gustosi soprammobili [a pagina 34]. L’ipotesi ideologica di queste falsificazioni (altrove autenticamente truffaldine) affonda le proprie radici nella Storia. Dal punto di vista bibliografico, vanno citati titoli di libri che sono ormai considerati dei classici della materia. Pubblicato da Arnoldo Mondadori Arte (Milano, 1991), Veramente falso è il volume-catalogo della mostra allestita a cura della Fondation Cartier pour l’art contemporain, che ha affrontato la fenomenologia nel proprio insieme, stilandone un casellario effettivamente consistente (aggiornato al-


MAURIZIO REBUZZINI (4)

l’anno di allestimento scenico: vent’anni fa, con abbondanza). Invece, il catalogo della mostra Fake? The Art of Deception (Falso? L’arte della contraffazione; Londra, 1990), esposta al British Museum, di Londra, si è limitato al solo mondo dell’arte, che successivamente è stato sconvolto dalle tesi espresse dalla giornalista Alice Beckett nel suo studio Fakes: forgeries and the art World (Falsi: contraffazioni e il

mondo dell’arte; Londra, 1995). Alice Beckett espone una teoria sconcertante; afferma che oltre il quaranta percento delle opere esposte in musei e gallerie o vendute all’asta sarebbero false. Parecchi galleristi lo saprebbero, ma fanno finta di niente, oppure loro stessi fanno parte del gioco. Invece, la falsificazione della Storia, attraverso cronache truffaldine e losche manipolazioni di fotografie, è stata messa in ordine da Alain Jaubert, il cui Commissariato degli archivi (con titolo chiaramente ispirato alla figura del protagonista di 1984, di George Orwell, appunto incaricato di falsificare la storia) è stato pubblicato in Italia dalla casa editrice Corbaccio (Milano, 1994). Editorialmente più recente è poi lo straordinario e imperdibile Un’autentica bugia. La fotografia, il vero, il falso, di Michele Smargiassi, pubblicato da Contrasto, nel 2009: il titolo dice tutto e il testo è a dir poco avvincente... alla maniera di un fantastico romanzo. Rientrando in tema, dal nostro osservatorio, pur biasimando le operazioni truffaldine e disoneste, ribadiamo ancora una volta come la serena falsificazione Leica si configuri come attestato di valore: si falsifica ciò che vale ed è mitico. Dunque, ipotizziamo una lettura in chiave di certificazione di grandezza. Nel caso Leica, quando l’operazione non è condotta nel senso dell’inganno, le tante copie che si possono acquistare nei mercatini fotografici vanno prese per ciò che realmente sono: omaggio alla leggenda. Si tratta di falsi tanto grossolani da essere appunto certificati come effettivamente tali: falsi, e non altro. All’atto pratico, non vale neppure la pena approfondire se si tratta di apparecchi Leica modificati, oppure di contraf-

In un tempo e momento nei quali il sistema Leica M non si era ancora avvicinato ad automatismi di funzione, la Konica Hexar RF si propose come sostanziosa alternativa: dichiarata ed esplicita. Peraltro, arricchita da una confezione di vendita a dir poco raffinata.

(pagina accanto) Nell’ambito delle finzioni Voigtländer dei nostri tempi (e decliniamo “finzione” con rispetto e ammirazione), si segnalano anche autonomie fotografiche di piglio e sostanza: magari, avanti tutto, il fantastico ipergrandangolare Ultra Wide-Heliar 12mm f/5,6 Aspherical, dal 2001.

31


MAURIZIO REBUZZINI (2)

Due falsificazioni fotografiche effettivamente tali, dalla Photokina 2010 (come dalle precedenti edizioni). Intenzioni non involontarie, ovverosia deliberate, realizzate con l’intenzione di ingannare (per quanto riescano a farlo), nell’imitazione grafica di due marchi e logotipi noti e riconoscibili: rispettivamente, Canon e Nikon.

fazioni complete, con tanto di imitazione di marchi, nomi e incisioni in grande quantità e profusione, oltre che a richiesta: Luftwaffen-Eigentum, eserciti vari e personalizzazioni eterogenee [a pagina 34]. Del resto, le simil-Leica interpretano bene lo spirito di questi nostri tempi, tanto uguali al paese delle meraviglie nel quale si perde l’Alice di Lewis Carroll: apparenza e realtà si fondono in uno. Niente è ciò che sembra.

TU CHIAMALE, SE VUOI, FINZIONI

Zeiss Ikon ZI, dal 2004: fantastica ispirazione al modello Leica.

32

Sempre in materia Leica, mito assoluto della tecnologia fotografica, che ha attraversato indenne i decenni, leggenda senza ombra di dubbio, l’origine delle copie conformi (le precedenti sono “difformi”) risale ai primi anni del secondo dopoguerra, allorché l’industria fotografica planetaria ha iniziato ad affrontare il ritorno alla normalità (qualcuno è partito prima, alla fine degli anni Trenta). Senza soluzione di continuità, tutti i produttori di apparecchi fotografici si sono ispirati al modello Leica, allora ai vertici assoluti delle fasce alte di mercato (moderatamente infastidita dalla Contax di Zeiss, sulle cui basi costruttive è nata soltanto la Nikon a telemetro, antesignana del sistema reflex ancora oggi imperante).

Tanto che almeno due registrazioni hanno catalogato quella fantastica stagione, che dalla metà degli anni Quaranta (salvo poche eccezioni, databili a una mezza dozzina di anni prima) si è allungata in avanti, sfiorando addirittura i Sessanta: 300 Leica copies, di Patrice-Hervé Pont e Jean-Loup Princelle (FotoSaga, Francia; 1990) e Leica Copies, di HPR (Classic Collection Publications, Inghilterra; 1994). Entrambe le redazioni sono accurate, a fronte di ricerche certosine, che hanno consentito una classificazione a dir poco esemplare, scomposta per nazioni di provenienza e produttore. Tanti i marchi presenti, che in molti casi hanno animato quelle antiche stagioni fotografiche, prima di esaurirsi senza lasciare traccia. Tra tanto, va distinta Canon, nata Kwanon X, nel 1934 (altre fonti, 1933), come copia della Leica II (sul mercato fotografico dal Primo febbraio 1932, dalla matricola 71.200), che ha sistematicamente perfezionato il proprio sistema a telemetro, fino alla definitiva Canon 7S, del 1965. Il sistema reflex nacque nel 1959, con la Canonflex originaria. Per quanto entrambe queste ricerche definiscano “copie Leica” tutte le configurazioni 35mm a telemetro, molte delle quali adeguatamente distanti dal modello Leica -va detto e riconosciuto-, l’idea di finzione è un poco più selettiva, quantomeno lo è la nostra idea di finzione. Non bastano connotati formali e di contenuto vicini e prossimi alla traccia di richiamo, ma occorre proprio che la costruzione fotografica sia autenticamente ispirata e derivata, fino a replicare l’aspetto esteriore dell’apparecchio di riferimento. Per cui, una eventuale nostra classificazione sorvolerebbe su alcune delle indicazioni dei valenti storici della fenomenologia. Per esempio, rimanendo in confini nazionali, riconosciamo ben altra personalità propria alla Ducati Sogno (qui datata 1938), alle Iso (Industria Scientifica Ottica, di Milano) e alla Recta, di Telemaco Corsi, anticipatrice della fantastica Rectaflex. Ma que-


ste, come tante altre considerazioni analoghe, sono autentiche minuzie e piccolezze di poco conto.

TEMPI RECENTI (CIRCA) Ciò considerato, continuando nel territorio delle finzioni, che quello delle falsità si è risolto presto e in fretta, approdiamo a tempi recenti, anticipatori di quanto è accaduto nei nostri giorni attuali. La nostra visione si basa sulla successione di momenti cadenzati e scanditi. La recente rivitalizzazione e riattualizzazione del modello Leica -che di suo continua la propria strada tecnologica, con configurazioni compatte e con la M9 digitale, erede del lungo cammino avviato nel 1925!- è stata temporalmente anticipata da sostanziose configurazioni per pellicola e da una digitale antesignana. Sempre, con ordine. Possiamo far cominciare tutto con la Voigtländer Bessa-L, prodotta da Cosina e commercializzata con il nobile marchio storico tedesco, che nell’autunno 1999 si presentò senza mirino né telemetro e con due avvincenti grandangolari Super Wide-Heliar 15mm f/4,5 Aspherical e Snapshot Skopar 25mm f/4, in innesto a vite 39x1, appunto Leica L in codice [FOTOgraphia, settembre 1999]. Subito a seguire, il sistema ottico venne adeguatamente ampliato, mantenendo l’innesto a vite utilizzabile anche con corpi macchina Leica, appunto a vite, e Leica M, previo impiego di apposito anello adattatore vite-baionetta. Tra questi obiettivi, non va sottovalutato l’esuberante Voigtländer Ultra WideHeliar 12mm f/5,6 Aspherical, ai propri tempi -dal 2001- il più corto tra gli obiettivi per fotografia 35mm presenti sul mercato. La sua costruzione ottica di dieci lenti divise in otto gruppi esprime un angolo di campo di ben 121 gradi sulla diagonale del fotogramma 24x36mm. Quindi, il sistema Voigtländer Bessa approdò a configurazioni dotate di mirino e telemetro accoppiato e si spostò sull’innesto a baionetta M degli obiettivi intercambiabili. In ogni caso, sempre e comunque corpi macchina ispirati al design e al modello Leica: Voigtländer Bessa T e R... fino alle attuali R2A, R2M, R3A, R3M, R4A e R4M, inviolabilmente 24x36mm con esposimetro TTL (distribuzione MetroImport New; www.voigtlander.it). Nella primavera 2000, arrivò la Konica Hexar RF: affascinante ed efficace apparecchio 35mm a te-

lemetro con adeguati automatismi di uso (gli stessi che Leica non aveva mai frequentato), innesto Leica M degli obiettivi intercambiabili, che la casa giapponese definì ufficialmente Konica KM, e motore incorporato per l’avanzamento della pellicola dopo lo scatto e la ricarica simultanea dell’otturatore. Riproponendo la definizione di una delle più apprezzate compatte di lusso dei tempi (Konica Hexar con obiettivo 35mm f/2), la Hexar RF è stata un apparecchio a telemetro che ha interpretato in modo moderno e agile le condizioni tecniche da tempo codificate dal sistema fotografico Leica M. La Konica Hexar RF manifestò una serie di soluzioni fotografiche assolutamente proprie e indipendenti; in sintesi: automatismo di esposizione a priorità dei diaframmi, che richiamò alla memoria l’analoga dotazione della Minolta CLE, che si fece molto apprezzare nel corso degli anni Ottanta; tempi di otturazione fino a 1/4000 di secondo; winder incorporato, fino a 2,5 fotogrammi al secondo, con riavvolgimento delle trentasei pose in tredici secondi. Il ritorno al telemetro, avviato da Voigtländer/Cosina, è stato seguìto anche dalla “rivale” Leica di sempre. Dopo che per decenni la tedesca

Carl Zeiss era stata presente nel mercato fotografico soltanto con forniture conto terzi (obiettivi per i sistemi medio formato Hasselblad e Rollei, per le reflex 35mm Contax e Yashica, per il sistema medio formato Contax 645 e per altro ancora), dall’autunno 2004, tornò in prima persona sul mercato fotografico, presentando una configurazione più che classica, appunto a telemetro (stile Leica).

Falsificazioni fotografiche: Commissariato degli archivi, di Alain Jaubert (Corbaccio, 1994); Un’autentica bugia. La fotografia, il vero, il falso, di Michele Smargiassi (Contrasto, 2009).

Epson R-D1: nel 2004, configurazione digitale in un corpo macchina ampiamente classico, derivato dalla precedente Voigtländer Bessa-R.

33


300 Leica copies, di Patrice-HervĂŠ Pont e Jean-Loup Princelle; FotoSaga, Francia, 1990; 352 pagine 17x25cm, cartonato con sovraccoperta. Leica Copies, di HPR; Classic Collection Publications, Inghilterra, 1994; 416 pagine 17x25cm, cartonato con sovraccoperta.

34


MAURIZIO REBUZZINI

La Zeiss Ikon ZI è un apparecchio a telemetro per fotografia 24x36mm con innesto Leica M degli obiettivi intercambiabili. Può così accedere all’ampio parco obiettivi Leica M e Voigtländer, oltre che alla moltitudine di obiettivi in innesto a vite 39x1 (Leica L), utilizzabili tramite apposito anello adattatore (centinaia di obiettivi dei decenni fino ai Sessanta, reperibili sul mercato dell’antiquariato e collezionismo, e interpretazioni più recenti). Ovviamente, la Zeiss Ikon ZI non si riferisce soltanto al proprio esterno, ma è stata dotata di un efficace sistema ottico autonomo, a propria volta utilizzabile da tutti gli altri apparecchi a telemetro in innesto Leica M del presente. E lo stesso è per la Zeiss Ikon SW, senza mirino, finalizzata all’impiego di obiettivi grandangolari, utilizzabili senza l’accoppiamento al telemetro di messa a fuoco. In leggero anticipo temporale, nell’estate dello stesso 2004, arrivò sul mercato un apparecchio digitale non consueto. La Epson R-D1 è stata una configurazione fotografica di straordinaria personalità e coraggio. Infatti, la dotazione digitale, nel proprio insieme al passo con i propri tempi tecnologici, fu confezionata nel corpo macchina ampiamente classico della Voigtländer Bessa-R. Combinazione sorprendente, la Epson R-D1 è stata una digitale meccanica, con messa a fuoco a telemetro, otturatore a tendina e obiettivi intercambiabili, in innesto a baionetta Leica M, accordabile con obiettivi in innesto a vite 39x1 (mediante l’apposito e previsto anello adattatore vite-baionetta, ovverosia L-M). La Epson R-D1 andò controcorrente rispetto le consuete configurazioni digitali elettroniche, completamente automatiche: digitale che nell’uso riprendeva e riproponeva i termini tecnici di una convenzionale macchina fotografica analogica, con mirino di inquadratura e messa a fuoco a telemetro. Espressamente destinata a un pubblico (quantomeno) particolare, si è rivolta a chi apprezza la soddisfazione che si ricava nel regolare l’apparecchio in modo tradizionale. Da FOTOgraphia, del maggio 2004: «L’attuale Epson R-D1 è la prima telemetro digitale al mondo, e

L’affascinante replica della Leica 0 Prototyp 2 è stata realizzata nel 2004, per il centoventicinquesimo anniversario della nascita di Oskar Barnack (1879-2004), che progettò l’apparecchio originario, dal quale è partita la genìa Leica. Perfettamente utilizzabile, fu dotata di interpretazioni attuali (al 2004) delle caratteristiche del 1923, tra le quali un disegno moderno dell’obiettivo rientrante Leitz Anastigmat 50mm f/3,5. Sul dorso, è riportata una piastra in Nickel con inciso il ritratto di Oskar Barnack e la sua firma.

Parata di Leica false, dichiaratamente tali, dalla collezione di Massimo Ricchio, di Cervignano, in provincia di Lodi. Lontane dall’ipotesi di inganno, compongono i tratti di una vicenda assolutamente straordinaria e affascinante.

35


Fujifilm X-Pro1, dal cui disegno classico siamo partiti per le nostre considerazioni odierne. La presentazione tecnica e di contenuti di questa straordinaria dotazione digitale è stata pubblicata sullo scorso numero di marzo 2012 di FOTOgraphia.

non siamo lontani dal vero quando pensiamo che manterrà questa esclusività per lungo tempo. Però, potrebbe non restare l’unica, ma essere soltanto la prima della categoria»... presto rinvigorita dalla Leica M8 e dalla sua evoluzione Leica M9.

OGGIGIORNO: FUJIFILM X-PRO1 Certo, sono trascorsi otto anni. Certo, è dovuta intervenire la tecnologia applicata mirrorless. Ma è

MAURIZIO REBUZZINI

FALSA LEICA FESSURATA

Oppure, quello che è; tardi anni Novanta. Questa falsa Leica fessurata, addirittura color militare, richiama la tipologia Leica del passato remoto; con tranquillità, possiamo datare un periodo vicino agli anni Trenta. L’oggetto si inserisce nella fenomenologia delle false Leica portate in Italia da mercanti polacchi e russi, all’immediato indomani del crollo dei paesi dell’Est. In genere, come commentiamo nel corpo centrale di questo stesso intervento redazionale, si tratta sempre di falsificazioni grossolane, buone per un collezionismo parallelo e adatte alla glorificazione di uno dei più grandi miti della storia della fotografia. A volte, le falsificazioni raggiungono sofisticazioni estetiche di eccezionale fascino, come è per questa particolare elaborazione. Quindi, si tratta comunque della celebrazione di un Mito. Infatti, si falsifica soltanto ciò che merita e, per tanti versi, la falsificazione va intesa come attestato di valore. Della Leica.

36

accaduto che una costruzione tecnologicamente attuale, a mirino esterno (non telemetro, ma autofocus) approda oggi al mercato fotografico proponendo anche una livrea classica, appunto idealmente allineata alla lunga tradizione Leica: l’abbiamo già annotato, e qui confermiamo. Tanto che, paradossalmente, per incontrare una macchina fotografica autenticamente innovativa e appassionante (che così viene commentata e presentata)... bisogna fare qualche passo indietro. Si devono recuperare valori formali e applicazioni del passato, per certi versi addirittura remoto, per quanto in declinazione assolutamente odierna. È quasi contraddittorio ammetterlo, nella nostra epoca di tecnologie proiettate al futuro-futuribile, ma -per quanto indirizzata a un pubblico mirato e di profilo alto, non certo all’entry level e dintorni- la Fujifilm X-Pro1 è una macchina fotografica capace di risvegliare ardori fotografici da tempo sopiti, affrettati e rivitalizzati da una configurazione quantomeno antica [FOTOgraphia, marzo 2012]. In una chiave assolutamente e inderogabilmente nobile, al pari della Fujifilm X100 di origine (con grandangolare 35mm equivalente fisso), la X-Pro1 alimenta la genìa delle finzioni che oggi abbiamo richiamato, in abbinamento alle falsità. Da cui, la ripetizione è d’obbligo, non prima di aver sottolineato una volta ancora come e quanto consideriamo positive e avvincenti entrambe le condizioni. Nel nostro casellario, abbiamo inteso come falsa la costruzione fotografica non involontaria, ovverosia deliberata, a volte realizzata con l’intenzione di ingannare (per quanto riesca a farlo; ma in fotografia non succede). Quindi, abbiamo conteggiato finta la costruzione fotografica ispirata e derivata, che attraverso la configurazione influenzata offre comunque una sostanziosa impressione di sé, spesso altresì rinvigorita da energiche consistenze tecniche. Questo è tutto. Forse. ❖



ARIA DI

PARIGI Pubblicata da Taschen Verlag, immancabilmente uno degli editori più attenti alla fotografia rivolta al più ampio pubblico (oltre la nicchia dei cultori della materia), Paris. Ritratto di una città è una monografia indirizzata a coloro i quali amano la fotografia del vero e dal vero. A coloro i quali sanno individuare le tracce della fantastica storia dell’Uomo. Coinvolgente poesia, che fluisce dalle pietre dagli abitanti di una città in continuo cambiamento, che nel corso dei secoli ha ispirato un numero imprecisato di scrittori e artisti. E di fotografi

di Angelo Galantini

S Frank Horvat, per Stern: scarpa e Tour Eiffel; 1974.

38

toricamente, Parigi è la prima città del mondo ad essere stata fotografata. È stato inevitabile, visto che nella capitale francese hanno agito due dei pionieri, indipendentemente uno dall’altro, entrambi alla ricerca della natura che si fa di sé medesima pittrice : Louis Jacques Mandé Daguerre (1787-1851), al quale è attribuita la nascita della fotografia, in forma di dagherrotipo (annuncio del 7 gennaio 1839 e presentazione del successivo diciannove agosto), e Hippolyte Bayard (1801-1887), messo da parte dal potere politico che incoronò Daguerre, autore del primo autoritratto fotografico della Storia (del 1840; peraltro, autoritratto impossibile, in quanto in posa di an-


negato). Dunque, inevitabilmente, gli esperimenti primigeni e le prime “fotografie” hanno avuto come soggetto Parigi, dove si registra anche la posa che conteggia la prima presenza umana, con quanto esprimiamo oggi [a pagina 44]. Dopo di che, Parigi si è imposta come autentica Capitale della fotografia (in Maiuscola volontaria e consapevole), sia in allungo all’orgoglio dell’invenzione, sia per l’indiscussa personalità dei suoi protagonisti. Così che, datiamo a/da Parigi il primo mandato pubblico assegnato alla fotografia: la Mission héliographique, voluta e organizzata nel 1851 dalla Commission des monuments historiques, ente governativo francese dipendente dalla Administration des Beaux-Arts, prima campagna di documentazione fotografica del paesaggio (del territorio, come diciamo da qualche decade), affidata a Édouard Baldus, Hippolyte Bayard, Gustave Le Gray, Henri Le Secq e Auguste Mestral, tutti conteggiati e considerati nelle storie evolutive del linguaggio fotografico. Ancora a Parigi hanno agito i più significativi ritrattisti dell’Ottocento, a partire da Nadar (GaspardFélix Tournachon; 1820-1910; con studio in rue

Saint-Lazare, dal 1853 al 1860 -il periodo migliore-, e al civico 35 del boulevard des Capucines, dove, tra l’altro, si è tenuta la prima mostra degli Impressionisti, il 15 aprile 1874 [FOTOgraphia, marzo 2010]) e Étienne Carjat (1828-1906). Dai quali è giocoforza allungarsi a André Adolphe Eugène Disdéri (1819-1889), che nel 1854 brevettò il suo sistema per ritratti multipli, dal quale è partita la straordinaria stagione della carte-de-visite.

NEL NOVECENTO La vena fotografica e la fotogenia di Parigi non si sono certo esaurite nell’Ottocento, ma si sono addirittura rinvigorite nel Novecento, quando la città tutta è diventata teatro di fantastici percorsi fotografici, tra i quali non possiamo non ricordare quelli di Eugène Atget (1857-1927) e Brassaï (Gyula Halász; 1899-1984) [rispettivi Sguardi su, di Pino Bertelli, in FOTOgraphia del dicembre 2003 e ottobre 2004]. Un commento d’obbligo per Eugène Atget, autore fotografo scoperto da Man Ray e fatto conoscere da Berenice Abbott (assistente di Man Ray, negli anni Venti, a Parigi, che ne ha diffuse le ope-

Paris. Ritratto di una città, a cura di Jean Claude Gautrand; Taschen Verlag, 2012 (distribuzione: Inter Logos, strada Curtatona 5/2, Località Fossalta, 41100 Modena; 059-412648; www.books.it); in italiano (spagnolo e portoghese); 544 pagine 25x34cm, cartonato con sovraccoperta; 49,99 euro.

39


Jean Claude Gautrand: Montmartre visto dal tetto delle Galeries Lafayette; 1981.

Jean Claude Gautrand: demolizione delle Halles; 1971.

re). Eugène Atget è uno dei pochi fotografi evocati da Walter Benjamin nella sua Piccola storia della fotografia, uno dei cinque saggi che compongono L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, in edizione Einaudi, recentemente proposto da Skira in edizione autonoma [FOTOgraphia, ottobre 2011]: «[Atget] aveva raggiunto il polo di un magistero estremo; ma nell’aspra grandezza di un maestro che vive nel-

40

l’ombra, ha omesso di piantarvi la sua bandiera. [...] Le fotografie parigine di Atget precorrono la fotografia surrealista; avanguardia di quell’unica colonna veramente cospicua che il Surrealismo è riuscito a mettere in marcia. Atget è stato il primo a disinfettare l’atmosfera stantia che la ritrattistica del periodo della decadenza aveva diffuso. Egli ripulisce questa atmosfera, anzi la disinfetta: introduce quella liberazione dell’oggetto


© ANTONIN NEURDEIN / ROGER-VIOLLET

dalla sua aura che costituisce il merito indiscutibile della più recente scuola fotografica». Quindi, avanti ancora, a Parigi si è recitata la fotografia flânerie, dei vagabondi del secondo Novecento: sopra tutti, Henri Cartier-Bresson (19082004), Robert Doisneau (1912-1994) e Willy Ronis (1910-2009). In metafora, declinata con volontario e consapevole scarto di significato e verità, a nessuno di loro si possono iscrivere proget-

ti consequenziali, ma a tutti va riconosciuta l’arte di vedere, oltre il guardare, la capacità di cogliere le immagini che -nel vagabondare- si presentano e materializzano davanti all’obiettivo.

ECCOCI QUI Ora, su questa base, l’immancabile e assiduo editore tedesco Taschen Verlag, i cui meriti fotografici sono ampiamente noti e riconosciuti, pub-

Spettacolare incidente alla stazione ferroviaria di Montparnasse: un treno proveniente da Granvillage non è riuscito a fermarsi; ha superato la piattaforma e sfondato la facciata della stazione, precipitando nella sottostante place de Rennes; 1895.

41


FRANCE NATIONALE DE

© BIBLIOTHÈQUE © HENRI MARTINIE / ROGER-VIOLLET

Henri de Touluse-Lautrec mostra un suo quadro in un bordello che frequentava, in rue des Moulins; 1894.

La troupe della rivista teatrale A.B.C.; 1937.

blica una monografia fantastica: Paris. Ritratto di una città, a cura di Jean Claude Gautrand (cinquecentoquarantaquattro pagine 25x34cm). Attenzione: per quanto la copertina presenti una coinvolgente fotografia di Helmut Newton (di richiamo per il pubblico nel proprio insieme), la consecuzione delle oltre cinquecento fotografie, di centocinquanta autori, è soprattutto in bianconero, con fantastico excursus storico.

42

Estranea a qualsiasi logica geografica e turistica, Paris. Ritratto di una città scandisce tempi e modi di una storia viva della capitale mondiale dell’amore... e della fotografia. Una città costruita su due millenni di storia, entro i quali si concretizzano centosettanta anni abbondanti di fotografia (ancora oggi palpitante: basti pensare ai programmi autunnali di Paris Photo, dei quali abbiamo riferito più volte). Daguerre e Bayard hanno fatto nasce-


re la fotografia sulle rive della Senna, dove la fotografia ha continuato a perseguire i propri termini, definendo un linguaggio distintivo e diventando strumento essenziale di conoscenza. Questo ritratto di Parigi conduce attraverso una fantastica e fascinosa città che Johann Wolfgang von Goethe ha descritto come un «luogo universale, dove ogni passo su di un ponte o una piazza ricorda un grande passato, in cui un frammen-

to di storia è srotolato all’angolo di ogni strada». La storia di Parigi è raccontata in fotografie che vanno dai primi esperimenti di Daguerre alle immagini più recenti: un casellario esaustivo di cinquecento fotografie (abbondanti), che si estende in oltre un secolo e mezzo di trasformazioni. La monografia collega il passato al presente, allinea il monumentale al quotidiano, raffigura luoghi e persone. Dagli autori noti a fotografi sco-

Izis Bidermanas: coppia sulla Senna; 1949.

43


QUEL FIGURANTE!

Oltre l’ufficialità del processo dagherrotipico, dal quale si conteggia la nascita della fotografia (1839), Louis Jacques Mandé Daguerre vanta un altro primato, oggettivamente di minor peso, ma comunque significativo: quello di aver realizzato la fotografia (il dagherrotipo) con la prima presenza umana. Nel 1838, fotografa il boulevard du Temple, a Parigi (a destra, in alto), e nell’inquadratura è compreso un gentiluomo fermo dal lustrascarpe (in dettaglio, a destra, al centro). Più di questa paternità, peraltro oggettiva, preferiamo riconoscergli la capacità di aver saputo interpretare e decodificare una condizione tecnica inviolabile. Siamo in presenza del primo esempio di fotografia costruita (a fini rappresentativi)? Dall’esperienza (di Daguerre) alla interpretazione fotografica della realtà: un uomo fermo per tanti minuti, quanti ne occorrono all’esposizione di un dagherrotipo? Oppure, un complice di Daguerre, un figurante, opportunamente istruito? Diremmo che è più probabile la seconda interpretazione, con esclamativo più che convinto! La fotografia / il dagherrotipo del boulevard du Temple è stata / stato ripreso dall’alto, dall’abitazione di Daguerre, al 5 di rue des Marais: infatti, gli sperimentatori temevano di esporsi al pubblico e ai curiosi. Si sa che Daguerre eseguì tre scatti dalla finestra del suo appartamento, solo due dei quali si sono conservati, sebbene in pessime condizioni.

44


CULTURE-FRANCE / AAJHL DE LA

© MINISTÈRE

nosciuti, tutti si esprimono secondo due avvincenti e convincenti personalità (almeno): l’amore per la città e per la fotografia. Aria di Parigi, abbiamo titolato: ovverosia, coinvolgente poesia, che fluisce dalle pietre e dagli abitanti di una città in continuo cambiamento, che nel corso dei secoli ha ispirato un numero imprecisato di scrittori e artisti. E di fotografi: emozionante mosaico di immagini del passato

e del presente, Paris. Ritratto di una città è un autentico ritratto della città -così come promette il titolo-, è uno studio fotografico smisurato e unico, è l’album di famiglia nel quale si esprimono luoghi e persone. Paris. Ritratto di una città è una monografia rivolta a coloro i quali amano la fotografia del vero e dal vero. A coloro i quali sanno individuare le tracce della fantastica storia dell’Uomo. ❖

Izis Bidermanas: Île de la Cité, guardando il Pont des Arts; 1948.

(pagina accanto) Jacques-Henri Lartigue: l’attrice La Pradvina, in avenue du Bois de Boulogne; 1911.

45



Le attuali configurazioni reflex stanno offrendo prestazioni basilari che superano le intenzioni standard di utilizzo e abbattono confini fino a ieri consolidati. Riducendo la separazione oggettiva con le prestazioni dei dorsi ad acquisizione digitale delle immagini, utilizzati e utilizzabili da configurazioni fotografiche eredi dei sistemi storici medio formato e a corpi mobili, reflex quali le nuove Canon Eos 5D Mark III e Nikon D800 si offrono e propongono anche per applicazioni statiche e sedentarie, che sono state sempre lontane dalla portata delle precedenti reflex per pellicola 35mm

a

FACCIA FACCIA

Recenti novità tecnico-commerciali, le convincenti reflex Canon Eos 5D Mark III e Nikon D800 confermano la nuova personalità della fotografia professionale, avviata verso l’uso di reflex esteso a tutto il proprio comparto. Questa nuova realtà è altresì confermata da dotazioni ottiche in grado di interpretare la fotografia in sala di posa: obiettivi decentrabili e basculabili.

47


di Antonio Bordoni

A Il sistema ottico Canon TS-E, di obiettivi decentrabili e basculabili, è nato con le focali originarie Canon TS-E 24mm f/3,5L, Canon TS-E 45mm f/2,8 e Canon TS-E 90mm f/2,8. La differenza sostanziale e operativa la fa soprattutto il movimento rotatorio di basculaggio, finalizzato sia al controllo prospettico sia alla gestione della nitidezza del campo inquadrato.

48

llora: in questa riflessione, che esprime considerazioni e ragionamenti in richiamo esplicito di due reflex-novità dei nostri attuali giorni -che le hanno richiamate, le considerazioni, con urgenza e forza-, non riportiamo alcuna caratteristica tecnica ufficiale e solenne. Ovverosia, non commentiamo le nuove Canon Eos 5D Mark III e Nikon D800 per se stesse e in quanto tali, ma indirizziamo argomentazioni che da qui partono, senza peraltro qui esaurirsi. Al caso, e può essere proprio il caso, ognuno per sé se interessato alle due reflex, o a una delle due, fa lo stesso- si rivolga agli indirizzi preposti, là dove scoprire e identificare quanto occorre: in relazione alla distribuzione in Italia, rispettivamente, www.canon.it e www.nital.it. L’allineamento delle due reflex in questione si basa su un paio di considerazioni, almeno. Una, l’abbiamo appena enunciata: si tratta di due reflex sostanzialmente equivalenti, arrivate sul mercato in questi giorni (quasi). L’altra è consequenziale: si tratta di due reflex di profilo alto, diciamo professionali, che confermano la tendenza tecnologica dell’attualità tecnico-commerciale della fotografia, al giorno d’oggi. Vendute a un prezzo di acquisto coincidente (anche se la Canon Eos 5D Mark III costa qualcosa di più, il giudizio non cambia), rappresentano l’attualità proiettata al futuro immediato. Tra tante altre equivalenze, e discordanze ininfluenti sul ragionamento che stiamo per esprimere, entrambe sono dotate dell’ormai immancabile funzione Full-HD, che allinea la ripresa fotografica a quel-

la video, in dipendenza delle attuali esigenze e necessità della fotografia professionale (non soltanto reportage).

REFLEX DI OGGI Le evoluzioni indipendenti della tecnologia ad acquisizione digitale delle immagini hanno creato una forbice che allarga le proprie lame in maniera anche inconsulta. Oppure, quantomeno curiosa. Soprattutto, puntiamo l’indice sulla interpretazione del sensore digitale di acquisizione, che possiamo ben considerare come il cuore pulsante dell’intera vicenda, alla quale conseguono altre prerogative tecniche aggiunte, a propria volta fondamentali e discriminanti: dai processori di elaborazione rapida delle stesse acquisizioni alla capacità di interpretare i file in maniera sempre più convincente. Tra l’altro, e tra parentesi, oltre quanto stiamo per considerare, proprio il richiamo al sensore si riflette sull’intero comparto tecnico-commerciale dell’offerta fotografica dei nostri giorni attuali. Fino a estendersi alle dotazioni delle compatte, a propria volta interessate all’inevitabile (?) passaggio dai precedenti microsensori di dimensioni estremamente contenute, o ridotte, a dotazioni più consistenti, lasciate appunto libere dall’evoluzione dei sensori delle reflex, inesorabilmente proiettati verso il pieno formato 24x36mm di antico riferimento. La forbice appena evocata allarga le proprie lame, e così altera ogni precedente equilibrio tecnico. Nel concreto, e specifico, accade che le attuali configurazioni reflex stiano offrendo prestazioni basilari che superano le intenzioni standard di utilizzo e abbattono confini fino a ieri consolidati. Riducendo la separazione oggettiva con le prestazioni dei dorsi ad acquisizione digitale delle immagini, utilizzati e utilizzabili da configurazioni fotografiche eredi dei sistemi storici medio formato e a corpi mobili (che da tempo non sono più anche grande formato), reflex quali le attuali Canon Eos 5D Mark III e Nikon D800 (oltre le configurazioni di vertice dei rispettivi sistemi, Canon Eos-1D Mark IV / Eos-1D X e Nikon D4) si offrono e propongono anche per applicazioni statiche e sedentarie, che sono state sempre lontane dalla portata delle reflex per pellicola 35mm. Dunque: avvicinamento delle reflex alle prestazioni propriamente da studio, dove vanno a scalfire le leadership tecniche e commerciali delle configurazioni con dorso digitale. Questa rilevazione è legittima e motivata soprattutto in una realtà -come troppo spesso è la nostra attuale- nella quale si sono azzerate le considerazioni autenticamente discriminanti della fotografia in sala di posa, della fotografia pensata, meditata e costruita con ritmo cadenzato. Qui, la differenza non la disegnano tanto i Megapixel, che pure contano, ma le possibilità operative dei sistemi fotografici. Giocoforza pensare ancora, e immancabilmente, a quei corpi mobili che consentono il pertinen-


te controllo della nitidezza sull’intero campo inquadrato e della prospettiva, regolate sulla sapiente combinazione delle posizioni relative del piano dell’obiettivo rispetto quello dell’immagine (un tempo, focale). La lezione è tanto antica, da essere perfino classica: affonda le proprie radici indietro nei decenni e presuppone conoscenze e competenze compositive che sono mille e mille anni separate dalla frenesia fotografica dei nostri giorni, dallo scatto facile, rapido e moltiplicato/moltiplicabile esponenzialmente. In quantità, ché la qualità, anche solo formale, è tutt’altra storia. Quindi, e a conclusione, non si potrebbero proprio confondere i termini tecnici, con le reflex destinate a impieghi diversi e separati dai dorsi, ma! Ma! Ma la realtà tecnico-commerciale è esplicita e palese.

OBIETTIVI DEDICATI Sull’intenzione evidente delle reflex di sovrapporsi all’uso dei dorsi digitali ci sarebbe ancora tanto da riflettere, tenendo sempre e comunque presenti le condizioni fondamentali di certa fotografia professionale, che per comodità di identificazione circoscriviamo nella dimensione e personalità della sala di posa: still life e dintorni, con un occhio anche alla fotografia di architettura (in esterni, è ovvio). Così che non possiamo ignorare che Canon, per prima e da tempo, e Nikon, da momenti sostanzialmente recenti, propongono rispettive famiglie di obiettivi decentrabili e basculabili: Canon TS-E 17mm f/4L [FOTOgraphia, maggio 2010], Canon TS-E 24mm f/3,5L II, Canon TS-E 45mm f/2,8 e Canon TS-E 90mm f/2,8; PC-E Nikkor 24mm f/3,5D ED, PC-E Micro Nikkor 45mm f/2,8D ED e PC-E Micro Nikkor 85mm f/2,8D ED. Ovvero, obiettivi in grado di assolvere e risolvere le condizioni di controllo prospettico e estensione (piuttosto che contrazione volontaria) della nitidezza sui e con i sensori di acquisizione digitale di immagini delle proprie reflex. E il sistema dei decentrabili e basculabili PC-E Nikkor è altresì arricchito dalla dotazione Jumbo MultiBigShoot, che consente di riferire il decentramento al corpo macchina, fino a simulare/ottenere prestazioni digitali analoghe a quelle dei sensori di acquisizione medio formato.

In ogni caso, è necessario un rapido riassunto. Il decentramento è sostanzialmente finalizzato al controllo della prospettiva, utile soprattutto nella fotografia di architettura e paesaggio. Mentre il basculaggio, regolazione propria e caratteristica degli apparecchi a corpi mobili, un tempo generalmente di grande formato (dal 4x5 pollici in su, e qualche volta anche in versione 6x7 e 6x9cm), permette di governare l’estensione ottimale della nitidezza. Soprattutto, le proprietà della rotazione di basculaggio allineano le reflex Canon e Nikon con le capacità operative proprie e caratteristiche della fotografia a corpi mobili, riducendo così il divario con l’applicazione di sistemi appositamente finalizzati, da usare con dorsi digitali conseguenti. Gamma di obiettivi che appartengono alla schiera degli utensili specialistici, finalizzati al più pertinente controllo della ripresa fotografica, gli obiettivi Canon TS-E e PC-E Nikkor e sono dotati di doppio accomodamento ottico/meccanico. In ripetizione, d’obbligo, oltre al decentramento, dispongono anche della rotazione di basculaggio, sulla quale è opportuno concentrare l’attenzione, ripetiamo finalizzata alle considerazioni secondo le quali la fotografia reflex dei nostri giorni si propone per risolvere anche condizioni della fotografia professionale un tempo statutariamente assolte da altre configurazioni di profilo diverso, perché originariamente superiore (nello specifico). Comunque, e a chiusura di questa digressione, gli obiettivi speciali Canon TS-E 17mm f/4L, Canon TS-E 24mm f/3,5L II, Canon TS-E 45mm f/2,8 e Canon TS-E 90mm f/2,8 e poi PC-E Nikkor 24mm f/3,5D ED, PC-E Micro Nikkor 45mm f/2,8D ED e PC-E Micro Nikkor 85mm f/2,8D ED (con Jumbo MultiBigShoot in appoggio), decentrabili e basculabili, rappresentano uno dei più sostanziosi indizi (sintomi, addirittura) della trasmigrazione di certe applicazioni professionali verso le reflex digitali, che scartano a lato antiche lezioni e precedenti condizioni tecniche (magari bellamente ignorate).

In tempi recenti, il sistema ottico Canon TS-E si è arricchito della avvincente focale estremamente grandangolare Canon TS-E 17mm f/4L [ FOTOgraphia, maggio 2010]. Inoltre, si registra il nuovo disegno ottico della seconda versione (attuale) del grandangolare Canon TS-E 24mm f/3,5L II. In tutti i casi, come sottolineato dall’esperienza pratica di Franco Canziani, professionista in provincia di Varese, presentata e commentata lo scorso maggio 2010, la gestione digitale di acquisizioni singole con decentramento preordinato -a partire da una opportunità offerta dagli obiettivi decentrabili e basculabili- dischiude nuovi e innovativi panorami fotografici.

DA CUI E PER CUI Ciò rilevato, la strada della fotografia digitale reflex non è unica, ma va ribadito che le tecnologie applicate hanno delineato un percorso a vie multiple,

49


Successiva ai tempi lontani, durante i quali Nikon ha avuto attenzione per gli obiettivi decentrabili, sempre presenti nel suo differenziato e convincente sistema ottico, la gamma dei decentrabili e basculabili PC-E Nikkor è distinta in tre convenienti focali: i PC-E Micro Nikkor 45mm f/2,8D ED e PC-E Micro Nikkor 85mm f/2,8D ED aggiungono all’insieme delle proprie prestazioni anche la messa a fuoco da distanze ravvicinate. In aggiunta, la dotazione Jumbo MultiBigShoot consente di riferire il decentramento al corpo macchina, fino a simulare/ottenere prestazioni digitali analoghe a quelle dei sensori di acquisizione medio formato.

Nella gamma dei decentrabili e basculabili Nikon anche il conveniente grandangolare PC-E Nikkor 24mm f/3,5D ED.

50

a scalini separati. In questo senso, il mercato delle reflex attuali scandisce tempi e modi cadenzati, almeno su quattro gradini: semplifichiamo in entry level, advanced, expert e professionale. Forse, questa scomposizione in e su quattro passi consecutivi non “fotografa” ancora bene il mercato; però, quantomeno, stabilisce punti fermi e certi; a seguire, le cadenze potrebbero anche richiedere ulteriori categorie nuove e/o sottocategorie di complemento, ma questo è già un punto di partenza legittimo, che stabilisce i connotati del mercato così come lo vogliono sia gli importatori sia i fotonegozianti, che agiscono per riferimenti di prezzo: da quello di esordio, a quello intermedio, a qualcosa di più ancora, alle dotazioni dichiaratamente professionali, appunto tali anche nel prezzo di acquisto/vendita. In tutti i casi, bisogna vendere reflex! Con declinazione conseguente: bisogna acquistare reflex! Questa è (sarebbe) una parola d’ordine irri-

nunciabile per l’intero mercato della fotografia. Infatti, come sappiamo bene tutti, soltanto la fotografia reflex si accompagna con consecuzioni che sono opportune all’intero comparto commerciale, nel momento stesso nel quale è adeguata alla massima soddisfazione e versatilità della ripresa. Dunque, in un colpo solo, la gratificazione del cliente utilizzatore si allinea con il possibile e potenziale incremento dei volumi e delle redditività commerciali. Bene! Da una parte, si registra la qualità della fotografia reflex e la varietà delle sue opportunità di impiego, con obiettivi intercambiabili e accessori dedicati. Dall’altra, sono proprio gli accessori aggiunti e aggiungibili che sollecitano acquisti/vendite assolutamente necessari/necessarie alla lunga filiera commerciale, che dall’importazione si allunga verso la distribuzione, raggiungendo il fotonegoziante che sta a contatto diretto con il pubblico. Nella continua sottolineatura che l’applicazione fotografica, soprattutto nella dimensione e veste di hobby individuale, è assolutamente diversa da ogni altra esperienza ed espressione del tempo libero -diversa, in quanto migliore, perché gratificante: esercizio attivo e non passivo, creativo e non statico-, la fotografia reflex configura la manifestazione alta e massima della fatidica combinazione tra strumenti e relativa finalizzazione. A parte nicchie tecnico-commerciali del calibro di talune sofisticazioni (stile Fujifilm X100 e X-Pro1; su questo stesso numero, da pagina 28), soltanto con apparecchi reflex, adattabili a ogni esigenza e necessità della ripresa fotografica, si possono ottenere risultati superlativi, capaci di sollecitare la creatività individuale e, allo stesso momento, di assolverla, risolvendola. La gamma degli obiettivi intercambiabili è disegnata e scandita proprio per questo: per consentire di affrontare e interpretare al meglio ogni soggetto possibile e potenziale. Dai flash elettronici a ogni altro complemento che amplifica le capacità di utilizzo, oppure semplifica l’impiego dello stesso apparecchio fotografico reflex, gli accessori dedicati sono così indispensabili, e fonte di gratificazione (ripetiamo), da rappresentare uno straordinario prolungamento tecnico. ❖



Fumetto

di Angelo Galantini - Ricerca iconografica di Ciro Rebuzzini

QUE VIVA EL CHE!

D

Da tempo, la casa editrice BeccoGiallo, di Padova, pubblica spinose storie contemporanee (o quasi), a fumetti. I titoli spaziano dalla politica italiana (per esempio, Carlo Giuliani, il ribelle di Genova, Ilaria Alpi, il prezzo della verità e Il sequestro Moro, storie dagli anni di piombo) a quella internazionale (per esempio, Abc Africa, guida pratica per un genocidio - con la gentile complicità della comunità internazionale e Fermate l’America! 99 buoni motivi per diffidare dell’America di Bush), dalla cronaca nera (per esempio, Il massacro del Circeo, Rina Fort e Unabomber) a biografie (per esempio, Ballata per Fabrizio De André, Luigi Tenco, una voce fuori campo, Giovanni Falcone e Philip K. Dick). Proprio nella collana delle biografie, lo scorso autunno, è stato pubblicato Que viva el Che Guevara, del quale ci occupiamo in relazione alla rievocazione della celebre icona, ricavata dal noto ritratto realizzato il 5 marzo 1960 da Alberto Korda (Alberto Díaz Gutiérrez), intitolato El guerrillero heróico [FOTOgraphia, marzo 2000 e luglio 2001]. Subito due precisazioni, in forma di premessa. Indiscutibilmente, non è facile trasporre a fumetti storie contemporanee; altrettanto certamente,

52

bisogna concedere alle sceneggiature (a fumetti e del cinema) margini d’azione rispetto al vero, che consentano -favorendolo e assistendolo- il flusso lineare della narrazione. Ciò detto, una nostra confessata perplessità sul pur ottimo lavoro realizzato da Marco Rizzo e Lelio Bonaccorso per questo Que viva el Che Guevara, in combinazione di sceneggiatura e disegno, non si riferisce all’opera in quanto tale, quanto all’idea di racconto a fumetti nel proprio complesso, che per il suo solito è frutto di fantasia e immaginazione più che vincolato alla ricostruzione storica rigorosa (per quanto interpretata secondo necessità). Ovvero, non ci lascia esitanti questo fumetto nello specifico e in particolare, quanto l’intera collana: alla quale riconosciamo comunque la legittimità, fondatezza e conformità delle proprie buone intenzioni.

ICONA DEL CHE Non tutti, ma molti sanno che l’icona del Che ha avuto una genesi quantomeno curiosa. Fotografia del marzo 1960, come appena annotato, fu presa in considerazione sette anni dopo, alla notizia dell’uccisione di Ernesto Guevara, in Bolivia. L’individuazione nello studio di Alberto Korda si deve all’editore Giangiacomo Feltrinelli (morto in circostanze controverse, dilaniato da una bomba, su un traliccio della corrente elettrica, a Segrate, alle porte di Milano, esattamente quaranta anni fa, il 14 marzo 1972), che la usò per la copertina della prima edizione 1968 del Diario del Che in Bolivia, con prefazione di Fidel Castro, e la editò in forma di poster, dal quale è partito il cammino dell’icona. Come ha annotato Giuliana Scimé [anche per FOTOgraphia, del marzo 2000 e luglio 2001], «Questo ritratto è la fotografia più famosa del mondo. Tutti, in quasi tutti i paesi del mondo, la riconoscono, sanno di averla già vista anche se ignorano chi sia il personaggio e la sua storia, chi sia l’autore, al di là delle ideologie politiche. È il “Che”, Ernesto Guevara, il simbolo di... tante cose diverse: il giovanile en-

In due tavole del fumetto Que viva el Che Guevara, rievocazione del 5 marzo 1960, quando (e come) Alberto Korda realizzò il ritratto di Ernesto Che Guevara, intitolato El guerrillero heróico, conteggiato come una delle più celebri icone del Novecento (e oltre). Que viva el Che Guevara, di Marco Rizzo e Lelio Bonaccorso; BeccoGiallo, 2011; 128 pagine 15x21cm; 15,00 euro.

tusiasmo, la lotta per gli ideali, la noncuranza del pericolo, la bellezza e l’ardore... La sua immagine, questa immagine, è stata riprodotta su tutto ciò che può riportare una fotografia: poster, magliette, posacenere, quaderni, cartoline, gadget, scatole di sigari... ed è l’effigie sui dieci pesos cubani. Manifesti pubblicitari degli oggetti più diversi e delle manifestazioni più disparate, utilizzo da parte di artisti, enormi striscioni dei movimenti studenteschi... hanno riprodotto questo ritratto, scattato per “fortuita” abilità». Nel proprio racconto, il fumetto Que viva el Che Guevara, di Marco Rizzo e Lelio Bonaccorso (BeccoGiallo, 2011), rievoca la vicenda, collocando Giangiacomo Feltrinelli al centro dei concitati giorni dell’inizio dell’ottobre 1967, quando Ernesto Che Guevara fu arrestato in Bolivia, e presto


Fumetto

53


Fumetto Francesco Guccini: Stagioni (2000)

54

Quanto tempo è passato da quel giorno d’autunno di un ottobre avanzato, con il cielo già bruno, fra sessioni di esami, giorni persi in pigrizia, giovanili ciarpami, arrivò la notizia...

Il terzo mondo piange, ognuno adesso sa che “Che” Guevara è morto, mai più ritornerà, ma qualcosa cambiava, finirono i giorni di quelle emozioni e rialzaron la testa i nemici di sempre contro le ribellioni...

Ci prese come un pugno, ci gelò di sconforto, sapere a brutto grugno che Guevara era morto: in quel giorno d’ottobre, in terra boliviana era tradito e perso Ernesto “Che” Guevara...

“Che” Guevara era morto e ognuno lo capiva che un eroe si perdeva, che qualcosa finiva... “Che” Guevara era morto e ognuno lo capiva che un eroe si perdeva, che qualcosa finiva...

Si offuscarono i libri, si rabbuiò la stanza, perché con lui era morta una nostra speranza: erano gli anni fatati di miti cantati e di contestazioni, erano i giorni passati a discutere e a tessere le belle illusioni...

E qualcosa negli anni terminò per davvero cozzando contro gli inganni del vivere giornaliero: i Compagni di un giorno o partiti o venduti, sembra si giri attorno a pochi sopravvissuti...

“Che” Guevara era morto, ma ognuno lo credeva che con noi il suo pensiero nel mondo rimaneva... “Che” Guevara era morto, ma ognuno lo credeva che con noi il suo pensiero nel mondo rimaneva...

Proprio per questo ora io vorrei ascoltare una voce che ancora incominci a cantare: In un giorno d’ottobre, in terra boliviana, con cento colpi è morto Ernesto “Che” Guevara...

Passarono stagioni, ma continuammo ancora a mangiare illusioni e verità a ogni ora, anni di ogni scoperta, anni senza rimpianti: “Forza Compagni, all’erta, si deve andare avanti!”

Il terzo mondo piange, ognuno adesso sa che “Che” Guevara è morto, forse non tornerà, ma voi reazionari tremate, non sono finite le rivoluzioni e voi, a decine, che usate parole diverse, le stesse prigioni,

E avanti andammo sempre con le nostre bandiere e intonandole tutte quelle nostre chimere... In un giorno d’ottobre, in terra boliviana, con cento colpi è morto Ernesto “Che” Guevara...

da qualche parte un giorno, dove non si saprà, dove non l’aspettate, il “Che” ritornerà, da qualche parte un giorno, dove non si saprà, dove non l’aspettate, il “Che” ritornerà!

giustiziato. Rientrato a Cuba, l’editore italiano si reca nello studio fotografico di Alberto Korda [a pagina 56]: “Toc, toc, toc” / «Sì?» / «Alberto Díaz Gutiérrez?» / «Sono io» / «Mi chiamo Feltrinelli, vengo dall’Italia. Le porto notizie del comandante Guevara» / «Sì! Feltrinelli... Fidel mi ha parlato di te. Accomodati...». I due si siedono a un tavolo, viene versato rhum, e si chiacchiera; Giangiacomo Feltrinelli va al dunque: «Ho pensato di stampare delle foto[grafie]... o dei poster, in Italia, forse anche in Francia. Vorrei sensibilizzare l’opinione pubblica sulla prigionia del Che...» / «Credo... credo di avere la fotografia giusta. Ricordo be-


Fumetto ne la circostanza in cui la scattai». E da qui parte la ricostruzione del 5 marzo 1960, del discorso di Fidel Castro in commemorazione della strage avvenuta il giorno prima nel porto di La Habana, a Cuba, dove una bomba uccise ottanta persone, ferendone oltre duecento. Attribuito ai servizi segreti statunitensi, l’attentato al cargo francese La Coubre, che stava scaricando armi acquistate in Belgio dal governo cubano, è stato uno dei più cruenti contro il regime di Fidel Castro. Nel fumetto, Alberto Korda si muove prima tra i cadaveri sistemati in ottanta bare, per poi spostarsi verso il

palco dal quale Fidel Castro stava commemorando le vittime [a pagina 52]: «Confesso che non prestavo molto ascolto al discorso di Fidel» / «Mi interessava solo arrivare sotto il palco e scattare altre foto[grafie]» / «Volevo, anzi direi che dovevo, fotografare gli uomini del partito presenti... E senz’altro anche i nostri ospiti dell’epoca, come Simone de Beauvoir... e Jean-Paul Sartre» / «Poi notai il Che» / «Quando lo vidi inquadrato nell’obiettivo [nel mirino, trattandosi di una Leica M2, con 90mm], con quell’espressione, così encabronado y dolente... [corrucciato e triste, circa]» / «... Mi fece quasi sobbalzare dall’impatto» / «Istintiva-

L’icona di Che Guevara è ricavata dalla porzione centrale di un fotogramma con inquadratura orizzontale, scattato da Alberto Korda il 5 marzo 1960, durante la cerimonia funebre per le ottanta vittime dell’attentato al cargo La Coubre, del giorno prima. Al discorso di Fidel Castro (“Patria o Muerte”) sono presenti anche Jean-Paul Sartre e Simone de Beauvoir.

mente, premetti l’otturatore» / «Una volta, Alberto Granado [amico intimo del Che, i cui ricordi sono alla base del film I diari della motocicletta, di Walter Salles, del 2004] mi disse che quel giorno se Ernesto avesse visto uno yankee se lo sarebbe mangiato vivo». Concessione al disegno del fumetto Que viva el Che Guevara, di Marco Rizzo e Lelio Bonaccorso: Alberto Korda rovescia la sua Leica M2 per una inquadratura verticale, appunto quella della icona, che invece sappiamo essere ricavata da una inquadratura orizzontale [qui sotto]. Più avanti nel racconto, Alberto Korda recupera una stampa del ritratto

55


Fumetto del Che, e la consegna a Giangiacomo Feltrinelli [qui sotto, a destra]: «Il Che è stato il più completo essere umano del nostro tempo». Altra concessione della sceneggiatura, che tolleriamo: con tutto il rispetto, declinazione eccessiva, considerate altre grandezze dei nostri tempi. In finale, il ritratto sormonta il sangue versato dal Che, giustiziato a La Higuera, in Bolivia, il 9 ottobre 1967 [pagina accanto].

UN’ALTRA EVOCAZIONE Domanda epocale! Senza questo ritratto, il mito di Che Guevara si sarebbe imposto ugualmente? Si sarebbe allungato sui decenni? Qual è il valore dell’icona (che per altri personaggi non ha un corrispondente fotografico unico e inviolabile, come questo: diciamo, Marilyn Monroe, James Dean, Elvis Presley, The Beatles, Jim Morrison, Jimi Hendrix, Janis Joplin, Humphrey Bogart...)? Non ci sono risposte certe, perché, allo stesso momento, il campo dei “se” apre e chiude ogni disputa possibile. In tutti i casi, la figura di Che Guevara è leggendaria, e la sua icona -usata e abusata- è una delle immagini più celebri del nostro tempo, catapultata nel Duemila senza alcuna soluzione di con-

56

(pagina accanto) Il fumetto Que viva el Che Guevara, di Marco Rizzo e Lelio Bonaccorso (BeccoGiallo, 2011), si conclude con la morte di Ernesto Che Guevara, ucciso da un sottufficiale dell’esercito boliviano per ordine dei suoi superiori e della Cia, i servizi segreti statunitensi (La Higuera, 9 ottobre 1967). Opportunamente, il ritratto-icona sormonta il sangue versato.

Sceneggiatura dell’incontro tra l’editore italiano Giangiacomo Feltrinelli e Alberto Korda, che gli regala il ritratto di Ernesto Che Guevara dal quale Feltrinelli ha avviato il mito, la leggenda, l’icona.

tinuità. Anche se è vero che è diventata un’immagine spesso svincolata dalla propria origine e dal proprio soggetto, e usata in quanto tale per mille e mille evocazioni e richiami, è altrettanto vero che «questo ritratto è la fotografia più famosa del mondo; tutti, in quasi tutti i paesi del mondo, la riconoscono» (Giuliana Scimé). Dunque, indipendentemente dai nostri distinguo su una certa declinazione del fumetto, onore e merito all’edizione di Que viva el Che Guevara, di Marco Rizzo e Lelio Bonaccorso, che ha l’indiscutibile merito di avvicinare un pubblico potenzialmente ampio e giovane, al quale viene raccontata una parabola esistenziale autenticamente unica e avvincente. Probabilmente, più e meglio di come potrebbe fare un libro di tante/troppe parole, la chiave del fumetto è adeguatamente abbordabile, perché subito decifrabile. Bene! In approfondimento, richiamiamo un testo dello scrittore spagnolo Ignacio Paco Taibo II (in Messico, dal 1958), che per l’appunto evoca il ritratto di Ernesto Che Guevara, realizzato da Alberto Korda, nella sua conferma di icona, sulla base del quale è stato anche sceneggiato il fumetto del quale ci stiamo occupando.

Ho, con alcune fotografie, un rapporto d’amore molto particolare. Mi piace narrarle, raccontarle. C’è una mezza dozzina di foto che racconto a più riprese nel corso degli anni, e ogni tanto qualcuno scopre la foto che gli ho raccontato e mi guarda con un misto di rimprovero e di sospetto. Dire che ci sono foto che valgono più di mille parole è una frase facile, ma io credo, piuttosto, che vi siano foto che meritano mille buone parole. Alcune in particolare, a forza di raccontarle, sono rimaste nella mia memoria in versioni diverse. Sono fotografie che adoro, senza le quali non potrei amare il secolo Ventesimo come lo amo, senza le quali la fiducia negli esseri umani che mi sostiene giorno per giorno si dissolverebbe negli acidi al vetriolo della quotidianità. Sono una foto di Henri CartierBresson, a Parigi, un paio di foto di Robert Capa, a Barcellona, una foto del mio amico Javier Bauluz, in Ruanda, cinquant’anni dopo, e una foto di L’Avana, nel 1959. Quest’ultima mostra un guajiro, un contadino cubano, con un cappello di paglia sfilacciato, che ha come coccarda una bandiera cubana, ar-


Fumetto rampicato in cima a un enorme, enorme, gigantesco lampione. Sotto di lui si raccoglie una folla, ma il fotografo lo guarda di fronte, anche se da lontano. Credo di ricordare che quell’uomo ha i baffi, la camicia aperta, che lascia intravedere la canottiera, e sta fumando. Nella memoria, è un vecchio. E nessuno potrà mai spiegarmi razionalmente come è salito e si è seduto in cima a quel palo. La foto riguarda la rivoluzione in fermento e l’uomo che, serenamente, fumando in cima al lampione, la fa sua. Dentro e fuori. Quando la Alliance Française organizzò in Messico una mostra fotografica del cubano Alberto Korda, scomparso l’altro ieri [25 maggio 2001], mi chiesero di presentarlo in pubblico. Pensando che quella foto che ricordavo dell’uomo sul fanale fosse sua, accettai. Quella foto: la foto. Volevo inoltre contribuire a sciogliere un malinteso. Perché Korda era molto di più della foto del Che riprodotta milioni di volte in tutto il mondo. Autore della fotografia che è stata probabilmente riprodotta più volte nella storia dell’umanità, Alberto Diaz, Korda (pseudonimo adottato in gioventù in onore ai cineasti ungheresi), è ad essa legato indissolubilmente, nel bene e nel male. Quest’altra storia è stata raccontata molte volte e Korda stesso l’ha ripetuta in numerose interviste: 1960, quattro marzo, mentre Ernesto Guevara si dirige verso il Banco Nacional de Cuba, che casualmente presidia, avviene l’esplosione del La Coubre, una nave francese con un carico di settanta tonnellate di armi belghe. Il Che, nell’udire la terribile detonazione, devia verso il molo dell’Arsenale. È una tremenda sciagura, ci sono settantacinque morti [ufficialmente, ottanta] e circa duecento feriti. Collabora nelle opere di soccorso. Il dubbio pervade tutti, incidente o sabotaggio? Il fotografo Gilberto Ante, di Verde Olivo, lo trova mentre salva i feriti, ma il Che, infuriato, gli proibisce di fare fotografie. Gli sembra un’impudicizia essere oggetto di curiosità in un incidente. Il giorno dopo, si celebra il funerale delle vittime. A un isolato di distanza dal cimitero di Colòn, nella strada Ventitré, si innalza una tribu-

57


Fumetto na coperta con una bandiera cubana listata a lutto. Gli animi sono esaltati. Da quella tribuna, Fidel pronuncerà per la prima volta la consegna “Patria o Muerte”. Il fotografo Alberto Korda, del giornale Revoluciòn, va scorrendo con l’obiettivo da novanta millimetri della sua Leica i personaggi della tribuna e si trova al secondo passaggio il Che che avanza su uno dei lati. Il gesto dell’argentino lo sorprende e scatta due volte. «Trovarmelo nell’inquadratura della macchina fotografica, con quell’espressione, mi fa quasi fare un sobbalzo. Intuitivamente, schiaccio l’otturatore». Alberto Granado avrebbe detto a Korda, poco dopo, che quel giorno il Che aveva una faccia che se vedeva uno yankee se lo mangiava vivo; ma non è questo ciò che si mostra nella foto. Nel negativo appare un uomo non identificato, sul lato sinistro della foto, e le foglie di una palma a destra; abilmente, Korda sopprime gli elementi che distraggono e si concentra sul volto, un’immagine molto particolare, il volto teso, il sopracciglio sinistro lievemente alzato, il basco con la stella, il giaccone di capretto stretto al collo, il vento che gli agita i capelli. Korda sa di avere una grande fotografia. Stranamente, il redattore fotografico di Revoluciòn non sceglierà quella foto ma altre e la fotografia del Che non sarà pubblicata sui giornali. Anni dopo, l’editore italiano Giangiacomo Feltrinelli vedrà la foto appesa a una parete della casa di Korda e gliene chiederà una copia. Korda gliela regala. Alla morte del Che, Feltrinelli decide di farne un poster. Decine di migliaia di copie e poi milioni di esemplari si diffondono in tutto il mondo. È l’immagine più conosciuta del Che, quella simbolica, che inonderà muri, copertine di libri, riviste, coperte, cartelloni, T-Shirt. Quella che affronterà la foto distribuita dai militari boliviani del Che morto sul tavolo dell’ospedale di Malta in un duello simbolico e non per questo meno potente. Ma Alberto Diaz è molto di più di quella foto. A trent’anni, è un grande fotografo di moda che ha intrapreso questa carriera perché voleva fotografare la sua fidanzata Yolanda, con una macchinetta Kodak

58

Il fumetto Que viva el Che Guevara approda alla fotografia di Alberto Korda (icona del Novecento) raccontando anche gli inevitabili antefatti. Tra tanto, il nostro punto di vista, orientato all’attenzione fotografica, sottolinea la tavola nella quale gli autori Marco Rizzo e Lelio Bonaccorso evocano le opere di soccorso alle vittime dell’attentato al cargo La Coubre, fatto saltare nel porto di La Habana, a Cuba, il 4 marzo 1960. Qui, il Che, infuriato, proibisce al fotogiornalista Gilberto Ante, di Verde Olivo, di fotografare: «Gli sembra un’impudicizia essere oggetto di curiosità in un incidente» (Ignacio Paco Taibo II).

quasi d’antiquariato. È brillante, espressivo, potente quanto Avedon e improvvisamente si trova davanti una rivoluzione e si trasforma in fotoreporter. Paradossalmente, è nella velocità della fotografia giornalistica, nelle condizioni professionalmente difficili di una rivoluzione, sotto la pressione di un’informazione immediata, che una generazione di brillanti fotografi matura, e stranamente lo fa intorno al quotidiano Revoluciòn, organo del 26 Luglio, diretto a quell’epoca da Carlos Franqui. Sono molto lontani dai rigidi modelli di stampa della burocrazia socialista, molto lontani dal funzionalismo delle agenzie statunitensi, molto vicini da un punto di vista politico ed estetico all’esperimento della Magnum, nel ventennio precedente. Stranamente, alcuni anni dopo, avrebbero fatto l’immagine e la storia della fase più duramente romantica della rivoluzione cubana. E quando un giornalista chiederà se erano consapevoli che in qualche modo stavano creando l’iconografia, i simboli mondiali del riconoscimento emotivo della rivoluzione, Korda e i suoi colleghi risponderanno di

no, che non è così, che non è vero niente, che stavano semplicemente raccontando una storia. Inevitabilmente, la rivoluzione si mostra anche come festa e Korda registra il Cristo rumbero, Camilo Cienfuegos, che entra con i suoi cavalieri armati a L’Avana, in mezzo al giubilo e alla baldoria. Il realismo rumbero e festaiolo come contrapposto alle simulazioni dell’iperrealismo o allo scenario fraudolento e facilone del realismo socialista, compresi i ritocchi. Le foto di Korda che colgono quello spirito sono molte: la rivoluzione nel baseball e il Che senza canottiera. Dobbiamo in gran parte a questa generazione di fotografi la desacralizzazione dell’idea della rivoluzione. Ad essi e al Che. Torno alla mia foto preferita, all’uomo su quell’enorme lampione. È vero, è di Korda, l’ha intitolata Il don Chisciotte del lampione, quel guajiro in mezzo alla folla, molti metri al di sopra di essa, seduto in alto. È più giovane di quel che dicevo. Il cappello di paglia non è sfilacciato. Come è arrivato lassù? Come lo scoprì Korda? Da dove lo ritrasse? In America Latina, la rivoluzione ha una componente kafkiana, il realismo kafkiano abita con noi. Senza di essa, moriremmo di noia e di serietà. E nella foto questo si concentra. Spiega tutto: la rivoluzione come il duplice spazio del noi e dell’io. Dove vado? Che c’entro con tutto questo? È mia e me la gioco. Quando Korda, barbuto, molto cubano, ascoltò, in un salone dell’Alliance Française, la mia versione dei fatti, mi prese per mano e mi tirò per andare insieme verso la mostra. Davanti alla foto del don Chisciotte del lampione ci vennero le lacrime agli occhi, ci abbracciammo. - Cazzo, come la raccontano bene gli scrittori. - La raccontano meglio i fotografi. In sintonia con il fumetto-biografia di Marco Rizzo e Lelio Bonaccorso, Que viva el Che Guevara, la cui leggenda si basa sul suo fantastico ritratto, eccola qui la nostra ferma convinzione; da e con Giuliana Scimé: «È il “Che”, Ernesto Guevara, il simbolo di... tante cose diverse: il giovanile entusiasmo, la lotta per gli ideali, la noncuranza del pericolo, la bellezza e l’ardore...». ❖



Funzione della fotografia di Angelo Galantini

MUSEO IMMAGINARIO

OPERA COLOSSALE La realizzazione di The Art Museum ha impegnato dieci anni di lavoro e un centinaio di esperti internazionali. Riunita in mille pagine, ribadiamo, la sua osservazione si sofferma su una

60

Rinascimento. Giulio Romano: Gli dei sul Monte Olimpo e la caduta dei giganti; 1532–1534; Palazzo Te, Mantova; affresco, altezza sette metri.

impressionante quantità/qualità di opere d’arte iconiche, comprese molte custodite in collezioni private (ufficialmente inaccessibili) e alcune conservate in luoghi remoti del pianeta. Ancora, la sua visione abbraccia oltre tre millenni e raccoglie opere di seicentocinquanta istituzioni mondiali. La presentazione è cronologica: comincia con i più antichi dipinti rupestri conosciuti e procede, passo a passo, fino all’espressività artistica dei nostri giorni attuali. La messa in pagina di The Art Museum rispecchia quella di un museo reale (per quanto virtuale e ipotetico): pertanto, si esplorano venticinque autentiche “gallerie”, ciascuna

con la propria serie di stanze, seguendo un ordine cronologico o immergendosi nell’una o nell’altra a proprio piacimento. Ogni stanza raccoglie pannelli esplicativi, che illustrano in modo chiaro il movimento, il tema o la cultura in presentazione, oltre le necessarie e opportune didascalie descrittive di ogni singola opera. La grandiosa collezione include dipinti, sculture, affreschi, fotografie, installazioni, land art, video, xilografie, gioielli, ceramiche, vetrate, arazzi, mosaici e manoscritti miniati; mentre alcune gallerie sono dedicate a particolari “mostre”, che osservano più da vicino un tema specifico o un periodo storico-culturale.

© AKG-IMAGES / PIETRO BAGUZZI

S

Soprattutto oggi, in un’epoca nella quale l’eccesso di informazioni potenziali causa e produce anche un certo disorientamento e smarrimento (a partire dalle caotiche informazioni dalla Rete: ottimali... ma!), sono necessari progetti che sistemino ordine tra il tanto (troppo) possibile. Da cui, l’imponente monografia The Art Museum, che l’editore inglese Phaidon distribuisce dallo scorso novembre, si offre e propone come opera più che degna, addirittura meritoria e encomiabile. Di cosa si tratta è presto detto: il titolo è esplicito e chiaro. Con considerazione ad ampio giro, ricche di tremila illustrazioni (sì, proprio tremila!), le consistenti mille pagine del volume -in realtà novecentonovantadue, ma lo scarto è risibile- attraversano la storia dell’arte: pittorica, scultorea, architettonica e altro tanto ancora. Purtroppo, va rilevato, il testo è ovviamente in inglese, e dunque la sua consultazione è in qualche modo e misura selettiva. Peccato! Progetto più che temerario, ma ben svolto e ottimamente realizzato, per merito di una struttura editoriale innovativa e grazie all’ampiezza della materia trattata, «The Art Museum rivela una ammirevole erudizione, che lo rende libro assolutamente unico nel panorama dell’editoria d’arte e offre sapere e piacere nella lettura negli anni a venire» (Richard Schlagman, proprietario e presidente della casa editrice Phaidon Press). In definitiva, la quantità motiva la qualità: tremila dei più importanti capolavori d’arte della Storia dell’Uomo sono raccolti in uno spazio unico, attraverso il quale si procede in una visita che ha del prodigioso: addirittura, una visita guidata privata, tenuta dai più illustri e autorevoli direttori di musei, studiosi d’arte e archeologi.


Funzione della fotografia to al 1474 circa, conservato nella National Gallery of Art, di Washington): due splendidi ritratti di Leonardo da Vinci, il cui impatto emozionale è qui accentuato dalla riproduzione litografica in grandi dimensioni. Anche Picasso ha una serie di sale a lui dedicate: nella mostra Picasso’s Women è raccolta una selezione di ritratti delle sue compagne; i primi sono tutti realizzati all’inizio della relazione con l’artista, mentre i successivi appaino via via molto differenti. In queste pagine, si percorre la metamorfosi di Fernande, Olga, Marie-Therese e Dora: da donne splendide e seduttive a figure contorte e anguste. Opportunamente, non mancano gallerie dedicate all’arte non occidentale (oggettivamente imperante nel racconto storico solito): giapponese, australiana, cinese, coreana, africana e asiatica. La galleria dedi-

cata alla Cina raccoglie dipinti della dinastia Ming, elaborati kimono, raffinati vasi in ceramica e una mostra dedicata all’armata di terracotta. Nella galleria del Sud-est asiatico si ammirano dipinti su smalto e foglie di palma; mentre nelle stanze di arte islamica si incontrano mirabolanti mosaici, ceramiche e bronzi. Vagliate e selezionate per la propria importanza nella storia mondiale dell’arte, la loro eredità culturale e la loro assoluta bellezza e preziosità, le opere esposte nella superba monografia The Art Museum offrono un’introduzione unica all’ampio spettro della creatività umana. In nessun museo reale è possibile trovare una ricca collezione di opere tanto eterogenee, quanto culturalmente complementari. A diretta conseguenza, la sapiente raccolta prevede di diventare un imprescindibile libro d’arte negli anni a venire, altresì completato da mappe dettagliate, un ricco glossario e un indice esaustivo, che lo rendono di facile accessibilità, istruttivo e di grande ispirazione per ognuno.

Barocco e Rococò. Johannes Vermeer: Donna con bilancia; 1664 circa; olio su tela, 40,3x35,6cm.

LA FOTOGRAFIA, ORA

© AKG-IMAGES / ANDRÉ HELD

Di dimensioni generose (32x42cm), le pagine della avvincente monografia sono concepite per presentare e sottolineare il maggior numero di dettagli possibili. Per esempio, nella galleria del Rinascimento, una doppia pagina è riservata alla Gioconda (o Monna Lisa: olio su tavola di pioppo, 77x53cm, datato tra il 1503 e il 1514, conservato nel Musée du Louvre, di Parigi), contornata da una serie di disegni a matita di Leonardo da Vinci, che dimostrano la grande attenzione per la qualità di luce e spazio nel lavoro dell’artista. Le riproduzioni a piena pagina di questa sezione sono riservate, quindi, alla Dama con l’ermellino (la donna ritratta è identificata in Cecilia Gallerani; olio su tavola, 40,3x34,4cm, datato tra il 1488 e il 1490, conservato nel Czartoryski Muzeum, di Cracovia) e Ginevra de’ Benci (tempera e olio su tavola, 38,8x36,7cm, data-

Attenzione: come è ovvio che sia, nessuna opera d’arte è presentata in originale (ci mancherebbe), ma è riprodotta in raffigurazione fotografica. Quindi, oltre le opere propriamente fotografiche incluse in questo avvincente casellario, due parole ancora su L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica: una volta ancora, con e dal filosofo tedesco Walter Benjamin. Nel suo saggio, appena evocato, L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica (Das Kunstwerk im Zeitalter seiner technischen Reproduzierbarkeit), pubblicato nel 1936, circa cento anni dopo l’invenzione della fotografia (1839), Walter Benjamin ha affrontato e analizzato la questione e vicenda, rilevandone anche le possibili contraddizioni, delle quali oggi siamo (dovremmo essere) ben coscienti: un conto sono gli originali, un conto è la vita e la realtà, un altro le rispettive raffigurazioni fotografiche. [Annotazione parallela: l’edizione italiana di L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, pubblicata da Einaudi nella collana Piccola Biblioteca Einaudi, dal 1966, edizione più recente 2000, ri-

61


unisce cinque saggi appartenenti agli ultimi anni della vita e attività di Walter Benjamin, legato all’attualità e alle prese con i problemi dell’arte di massa: oltre il saggio che dà titolo, si trovano anche Piccola storia della fotografia (recentemente proposto da Skira in edizione autonoma; FOTOgraphia, ottobre 2011), Eduard Fuchs, il collezionista e lo storico, Che cos’è il teatro epico? e Commenti ad alcune liriche di Brecht]. In L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, che torna di prepotente attualità alla luce delle considerazioni su The Art Museum, di Phaidon, dopo aver già accompagnato la presentazione di Google Art Project (in FOTOgraphia dello scorso maggio 2011), Walter Benjamin sostiene che l’introduzione, all’inizio del Ventesimo secolo, di nuove tecniche per produrre, riprodurre e diffondere opere d’arte a livello di massa ha radicalmente trasformato l’atteggiamento verso l’arte stessa, sia degli artisti sia del pubblico. Secondo Benjamin, tecniche quali la fotografia, il cinema e il fonografo invalidano la concezione tradizionale di “autenticità” dell’opera d’arte. Infatti, queste nuove tecniche permettono un tipo di fruizione nella quale perde di senso il distinguere tra fruizione dell’originale e fruizione di una copia. Per esempio, mentre per un quadro di epoca rinascimentale non è lo stesso valutarne l’originale o guardarne una copia realizzata da un altro artista, per un film questa distinzione non esiste, in quanto la fruizione dello stesso avviene mediante migliaia di copie che vengono proiettate contemporaneamente in luoghi diversi; e nes-

62

© AKG-IMAGES

© FOTOGRAFIA DEL 1981, DIRK BAKKER

Funzione della fotografia

Barocco e Rococò. Diego Velázquez: Ritratto di papa Innocenzo X; 1650–51; olio su tela, 140x119cm.

Culture americane native; lavorazione del metallo, in Centro America e Colombia. Shaman Figure Bell Pendant; 700–1550; lega d’oro, altezza 8,7cm.

suno degli spettatori del film ne fruisce in modo “privilegiato” rispetto qualsiasi altro spettatore (da aggiornare alla televisione e agli attuali Dvd). In forza di ciò, si realizza il fenomeno che Walter Benjamin definisce la “perdita dell’aura” dell’opera d’arte. L’aura, secondo Benjamin, era una sorta di sensazione, di carattere mistico o religioso in senso lato, suscitata nello spettatore dalla presenza materiale dell’esemplare originale di un’opera d’arte. Secondo Benjamin, l’arte nacque storicamente in connessione con la religione (a tale proposito, Benjamin richiama l’esempio delle pitture rupestri di epoca preistorica), e proprio il fenomeno dell’aura costituì per lungo tempo una traccia di questa

sua origine. Il concetto di “arte per l’arte”, tipico dell’estetismo decadente, rappresenta -secondo Benjamin- l’ultimo correlativo, in sede di teoria estetica, del fenomeno dell’aura. Ma contemporaneamente al decadentismo, nacque la cultura di massa: per Benjamin, fu proprio questa che iniziò per la prima volta a rimuovere l’aura dalle opere artistiche. Le due forme sotto le quali si presenta l’arte del Ventesimo secolo (da una parte la cultura di massa, dall’altra l’avanguardia artistica) sono, sempre secondo Benjamin, accomunate entrambe dalla perdita dell’aura: come il cinema abolisce la contemplazione attraverso il rapido succedersi delle immagini, così il dadaismo dissacra letteralmente l’ar-


Funzione della fotografia

The Art Museum; Phaidon Press, 2011; in inglese; 992 pagine 32x42cm, cartonato con sovraccoperta; 3000 illustrazioni a colori e 10 schizzi; 175,00 euro.

Dalla Relazione intorno al dagherrotipo, di Macedonio Melloni, del 12 novembre 1839, riprendendo concetti espressi da François Jean Dominique Arago nella presentazione del diciannove agosto, successiva all’annuncio del sette gennaio [in 1839-2009. Dalla Relazione di Macedonio Melloni alla svolta di Akio Morita, di Maurizio Rebuzzini; Graphia, 2009]: «Tante perfezioni, riunite alla somma facilità e prontezza del metodo, hanno destato un entusiasmo universale. Dappertutto si ripetono le sperienze del Dagherrotipo, ognuno vorrebbe avere tra le mani questo prezioso strumento, ognuno bramerebbe impiegarlo, il più presto possibile, a ritrarre, non solo stampe, disegni, statue, monumenti, ma i quadri ad olio de’ nostri più celebri artisti, i più bei mazzi di fiori, e le vario-pinte farfalle. Invano si disse dell’Arago, dal Gay-Lussac che il Dagherrotipo non poteva servire a copiare gli oggetti colorati; moltissimi sperano tuttavia ottenere sulle lamine dagherriane, se non i vivi e svariati colori che ci presentano la natura ed il genio delle arti, almeno le loro traduzioni esatte in chiaroscuro. Anzi abbiam udito non pochi pittori proporsi di studiare queste copie con gran frutto rispetto alle intensità relative delle tinte, ed ai punti ove devon figurarsi nelle loro composizioni ad olio la massima e la minima illuminazione».

te, utilizzando materiali degradati in funzione provocatoria. Avendo perso con l’aura il proprio carattere di sacralità (ovverosia, per usare la definizione coniata da Walter Benjamin, il suo aspetto “cultuale”), l’arte del Novecento si propone di cambiare direttamente la vita quotidiana delle persone, influenzando il loro comportamento: cioè, l’arte assume un ruolo in senso politico lato. Sempre secondo Benjamin, tale influenza politica può esercitarsi sia in direzione progressista, sia in direzione reazionaria. Per Benjamin, un tipico esempio di uso reazionario dell’arte applicata alla politica è costituito dal fascismo. Il fascismo ha adoperato le nuove tecniche di produzione e diffusione del

fatto artistico allo scopo di assoggettare le masse, ipnotizzandole mediante la riproposizione mistificante di una sorta di falsa aura, prodotta artificialmente attorno alla figura del Capo: «Il fascismo tende [...] a un’estetizzazione della vita politica. Alla violenza esercitata sulle masse, che vengono schiacciate nel culto di un duce, corrisponde la violenza da parte di un’apparecchiatura, di cui esso si serve per la produzione di valori cultuali». Se per Benjamin il fascismo ha estetizzato la politica, il comunismo (che per Benjamin è rappresentato essenzialmente dall’avanguardia marxista degli anni Venti e dei primi anni Trenta del Ventesimo secolo) gli risponde politicizzando l’arte. Nel cinema di Eizenstein e nel teatro di Bertolt Brecht si realizzano, secondo Benjamin, tendenze positive alla democratizzazione dell’arte e alla cessazione della distinzione tra artista e pubblico. Ma, soprattutto, testuale dalla Piccola storia della fotografia, uno dei cinque saggi di L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, nel cui contesto Walter Benjamin sottolinea che «In ultima analisi, i metodi di riproduzione meccanica [e per estensione The Art Museum, in straordinaria edizione libraria] costituiscono una tecnica della riduzione e sono d’aiuto all’uomo nel suo tentativo di dominare opere di cui, senza di essa, non sarebbe possibile fruire». Immediatamente a seguire: «Se c’è qualcosa di utile per caratterizzare le attuali relazioni tra l’arte e la fotografia [ancora oggi, in epoca digitale], questo qualcosa è la tensione, non ancora scaricata, che si è stabilita tra esse attraverso la fotografia delle opere d’arte». Magistrale, profetico, sempre attuale, ancora attuale! Dunque, in aggiornamento, e per doverosa conclusione, l’era fotografica, sia analogica sia digitale, non dipende tanto dai propri modi operativi, che possono trasformarsi nel tempo e secondo il tempo, ma -insistiamo- sempre e comunque per i rapporti relativi e conseguenti: l’Uomo con la Fotografia e la Fotografia nella società (in rispettivi tragitti di andata-e-ritorno, senza alcuna soluzione di continuità). Una volta ancora, mai una di troppo: come la Fotografia influenza e cambia la nostra vita. ❖

63


Sguardi su

di Pino Bertelli (Piombino, dal vicolo dei gatti in amore, 16 volte giugno 2011)

NOBUYOSHI ARAKI

M

Mai il mondo è stato così fotografato, mai la Fotografia è stata così morta! La fotografia del cattivo edonismo è il trionfo dell’imbecillità. Fotografi, ancora uno sforzo se volete davvero conquistare il consenso e il successo nel gazebo edulcorato della società dello spettacolo. La storiografia fotografica è magnanima con i falsi profeti e i cultori dell’arte smerciata nell’odore nauseabondo del mercimonio fine a se stesso. Elogio dell’ignoranza vuol dire mantenere i popoli nell’obbedienza; ciascuno è responsabile della propria stupidità o della propria bellezza insorta. L’uso pubblico della fotografia non deve limitare la propria ragione e libero uso della sua poetica eversiva. Il pensiero di un’epoca tradisce le immagini dell’inedito e seppellisce i poeti dimenticati nella storiografia dominante. Non si scrive liberamente di fotografia senza farsi franchi tiratori della sua teocrazia. L’educabilità degli uomini e delle donne si profila su orizzonti filosofici della genuflessione, e in ogni forma d’arte, la realtà, la verità, l’indignazione contro i poteri costituiti restano sulla soglia delle loro possibilità di rovesciamento di prospettiva del sistema di cose accettate. Tutti affermano la necessità dell’arte, come un tempo si idolatrava lo spettacolo dei supplizi; pochi, o nessuno, avverte che la sola arte della fotografia si esprime nelle insurrezioni dei popoli che vogliono farla finita con tirannie secolari (e democrazie autoritarie): c’è più arte nelle immagini delle popolazioni in rivolta che fotografano (con telefonini, videocamere, macchinette usa-e-getta e che disperdono poi nelle Rete) il proprio sangue versato per la libertà... che in tutte le icone celebrate nelle camicie di forza dei musei o gal-

64

«Fu così che un Maggio fantastico scoppiò una primavera di bellezza come non se ne erano mai viste da anni... ritornarono le lucciole nei campi di grano e il profumo del biancospino mutò il corso delle costellazioni... in quell’anno formidabile anche i vini e le marmellate vennero più buoni... dalle periferie invisibili del paese dei nidi di ragno uscirono gli uomini della foresta (con uno straccetto rosso al collo, Pasolini diceva) e si armarono con tutti i mezzi necessari per riconquistare la felicità e la gioia di tutti gli uomini e tutte le donne... assaltarono i palazzi del potere e impiccarono i gerarchi della politica ai cancelli dei giardini pubblici»

Spartaco (da un libello che circola in Internet: Elogio dell’imbecille che si fece primo ministro)

lerie dove si fa commercio infame dell’arte. Si tratta di rompere il cerchio del potere e ricostruire la comunità della gioia.

SULLA FOTOGRAFIA DEL CATTIVO EDONISMO La fotografia autentica emerge dal suo divenire storia di Uomini e Donne che imprecano contro la cattività dei dominatori. La fotografia che conta non fugge al dolore del proprio tempo... sgranata, sfocata, mossa... in qualunque modo riesca a raccontare l’implosione sociale della propria storia è un segno sociale. L’abate Jean Meslier (16641729) si augurava che «Tutti i grandi della Terra e tutti i nobili fossero impiccati e strangolati con le budella dei preti», per raggiungere il bene comune: e non si vede perché non dovremmo essere felici nell’accoppare tiranni, banchieri, militari, politici dell’orrore e dell’iniquità... e tutti gli sfruttatori dei popoli della Terra che sono cagione dell’ingiustizia sociale. A ragione, il filosofo ateologico Michel Onfray scrive che questo curato di campagna aveva inventato «la lotta di classe, il comunismo, l’anarchismo, la rivoluzione internazionale, la disobbedienza collettiva, il bene pubblico. I dottrinari della Rivoluzione francese non avranno che da chinarsi a raccogliere i fiori rossi e neri del [suo] Testamento», per mostrare a Luigi XVI che la presa della Bastiglia non era una rivolta ma una rivoluzione (se ne accorse solo quando gli tagliarono la testa). Tutto vero. L’ateismo, l’agnosticismo, l’anarchia testamentaria lasciati dall’abbè Meslier ancora circolano nei sogni di molti uomini e donne che al di là dei loro credi religiosi si vogliono sbarazzare della miseria dei miserabili che li governano. La fotografia del cattivo edonismo di Nobuyoshi Araki ci fa


Sguardi su sorridere. L’erotismo che sparge nelle sue immagini denuncia una visione superficiale (o ignorata) della filosofia libertina e libertaria che trapassa culture, dogmi, parassiti di ogni forma di autoritarismo... e basta una sola puttana di E.J. Bellocq, un cazzo in erezione di Robert Mapplethorpe o un pube nudo di Oliviero Toscani per spazzare via l’intera immondizia estetizzante del giapponese. Dietro ogni immagine di Nobuyoshi Araki si cela o emerge l’improntitudine del piccolo pubblicitario di provincia che vuole scandalizzare il mondo per farne parte. Araki pare non sapere che non si diventa “artisti” impunemente: vi è dell’imbecille in chiunque trionfi in qualsiasi campo dell’arte, della politica, della fede. Possono ritenersi “artisti” compiuti solo coloro che hanno fatto dell’arte, della politica e della fede il concimaio di tutte le mistiche del successo, o si sono fatti eresiarchi di opere visitate dalla grazia e mostrato che -a parte cinque minuti d’insurrezione di popoli indignati- possono cambiare il mondo.

SULLA FOTOGRAFIA DEL BOUDOIR Sbarazzarsi frettolosamente della fotografia di Araki è privarsi del piacere di riderne. Ricordo la storiella del cretino che si mascherò da genio e tutti gli cedettero; però, un giorno, qualcuno si accorse che da nessuna parte è il vero, se non nella bellezza degli eresiarchi di ogni tempo. Friedrich Wilhelm Nietzsche, Antonin Artaud e Eugène Atget (tanto per parlare di fotografia) hanno mostrato verità irrespirabili, e di smarrimento in smarrimento hanno opposto il veridico all’insignificante. Le loro opere figurano il lavoro di un’impresa di demolizione dell’ordine costituito e non risparmiano nessuno, né padroni, né servi, né dèi: tutta gente con la propensione alla macelleria, che in cambio di un po’ di potere e una manciata di denari infilerebbero la propria madre nella stufa (viva, s’intende). Occorre un’immensa

umiltà per morire poveri e liberi. Sbrighiamo le pulizie primaverili... così i giullari della fotografia mercantile possono sognare -a giusto diritto- che per ogni stupido c’è un centro commerciale dove confondere l’arte con le minestre in scatola (l’allusione alla puttana più spettacolare del mercato mondiale dell’arte, Andy Warhol, non è casuale). Nulla eguaglia l’impostura dell’artista senza talento e la tristezza dell’impotenza che si porta addosso. Ci si può immaginare un artista che non abbia un’anima da assassino, ma quella del pubblicitario? È sempre quello che incensiamo o che radiamo al suolo a qualificarci adoratori del nulla o padroni di noi stessi. Nulla ci dà il senso di vomito o d’imbarazzo, quanto trovarci in una mostra d’arte, in un dibattito tra politici in televisione o nei bagni di folla di un papa beatificato. Alla frequentazione interessata dei buffoni grigi dell’arte, della politica e della fede, preferiamo di gran lunga la compagnia allegra di ritardati mentali, poeti che cercano le lucciole nei campi denuclearizzati di Maggio (o erano barricate?) e bambini che, con le fionde, tirano sassi ai carri armati. Che ci possiamo fare... crediamo che solo ciò che invita al crollo della società consumerista, guerrafondaia, idolatrica, merita di essere ascoltato! Nobuyoshi Araki nasce a Tokyo, il 25 maggio 1940... dicono. Studia fotografia, lavora in un’agenzia pubblicitaria di Dentsu, si sposa con Yoko e poco dopo pubblica una raccolta di fotografie del suo viaggio di nozze (Sentimental Journey, 1971). Dà subito scandalo di sé. Negli anni Ottanta, fotografa nei quartieri a luci rosse di Tokyo e nell’industria del sesso del suo paese... Playboy, Deja Vu International, Erotic Housewive pagano bene le sue immagini. Quando la moglie muore di cancro (1990), pubblica un libro con le fotografie degli ultimi giorni di vita (Winter Journey). Il piccolo giapponese con gli oc-

chialetti neri (che celano occhi furbi) e i baffetti da gatto Silvestro (qualche volta si autofotografa con le cornetta da diavolo, ma bastano le sue immagini per ridere di lui) è arrestato più volte per oscenità artistica: una farsa mercantile ben orchestrata. Non fa mai un giorno di galera, anche se la meriterebbe: non per oscenità artistica ma per sciatteria affabulativa. Il documentario di Travis Klose, Arakimentari (2004) cerca di celebrarlo, ma è un infortunio involontario: ciò che ne esce è la modestia del personaggio e la banalità ordinaria del suo fare-fotografia. La scrittura fotografica di Araki è convenzionale, abituale al linguaggio pubblicitario, senza un’oncia di stile, che non sia quello forzato, “scandalistico”, che è tipico di un prodotto commerciale (lasciamo perdere il significato, che non c’è, della lucertola che mette sul culo, sulle tette o sulle gambe delle modelle). Si vende il logotipo, mai la merce... funziona così anche con le bombe, i fucili e le croci. Ciò che conta è credere in qualcosa, per non morire d’inedia o nell’immensa stupidità della civiltà dello spettacolo. I nudi di ninfette, i corpi legati con funi e attaccati al soffitto, i cazzi che entrano dentro la vagina, i culi donati allo spettatore... tutta una catenaria simbolicamente erotica sembra sconvolgere critici e lettori dell’opera tutta di questo venditore d’illusioni. Non importa sfogliare i suoi trecentocinquanta libri pubblicati, per comprendere bene la fotografia erotizzata di Araki. Basta andare a vedere tre o quattro dei suoi volumi, per capire che la fotografia non abita più qui, se ci ha mai abitato. Queste giapponesine legate, incartare nella plastica, violate in modo ridicolo non hanno nulla di veramente erotico... non c’è né sofferenza, né piacere in quelle immagini. Araki si lascia trasportare dalla fotoscrittura maschilista (quella che tira di più nel mercato) e non riesce nemmeno a

comprendere che quando l’artista parla solo a se stesso -con la pretesa di rivelare l’immaginario del mondo-, è sempre sospetto di tradimento. Vagando nei giardini del Luxembourg (come Balzac, Sartre e Lenin, innamorato della signora che affittava le sedie), Emil M. Cioran rifletteva sul fatto che per giungere a una società liberata alla radice, occorreva cominciare «col sopprimere tutti quelli che possono respirare soltanto su un podio»... il resto sarebbe venuto da sé. Tutto vero. Né ostie né bandiere... ma la bellezza dell’Uomo per l’Uomo, come visitazione della grazia e del rispetto di tutti gli uomini e di tutte le donne... questa è l’arte alla quale aderiamo... il resto è spazzatura. Tanto più la fotografia si avvicina al potere (e lo celebra), tanto più si allontana dall’autenticità (denudata) della fotografia in forma di poesia. La fotografia del boudoir di Araki è una pallida copia della visione libertina espressa da filosofi dell’edonismo etico, come Jean Meslier, Pierre Charron, François de La Mothe Le Vayer, Charles de Saint-Évremond, Pierre Gassendi, Cyrano de Bergerac, Baruch Spinoza, Marie de Gournay e Michel de Montaigne (sotto un certo taglio, vanno bene anche le sfrontatezze criminali di Donatien-Alphonse-François de Sade): nello splendore delle loro differenze epiche, hanno mostrato la bellezza del pensiero dionisiaco e disseminato ovunque l’ebbrezza e l’ardore di forze misteriose che hanno portato Fratelli e Sorelle del libero spirito a fare del godimento di sé il principio di tutte le rivolte del costume. Libertini eruditi, rivendicavano la soggettività in ogni campo del sapere e dell’amore, e al di là del bene e del male insorgevano nella possibilità di vivere senza dio e senza padrone. La loro cattiva reputazione si è fondata sulla realizzazione dei desideri, anche i più estremi: ciò che contava per loro era amare... non importava se qualcu-

65


Sguardi su no era del medesimo sesso... la gioia di esistere non vuole dogmi, né recinti moralistici... il piacere prima di tutto, lo spirito di credere in ciò che si vuole... in amore non c’è peccato... l’inferno è stato creato per il popolo. Molti libertini andranno in esilio, finiranno sul rogo o saranno cancellati dalla morale dominante, tuttavia sono loro che hanno ripreso la voluttà epicurea del piacere e fatto della propria vita un’opera d’arte. Al fondo delle fotografie di Lewis Carroll, Diane Arbus e Tina Modotti c’è questo senso libertino del “peccato” violato e l’infrazione del divieto di libertà di coscienza. Le loro scritture fotografiche contengono l’elogio del godimento e inducono l’essere sottomesso, passivo, schiavo dei potenti a scoprire il meraviglioso che volge le spalle alla storia. È una sorta di resisten-

za legittima, che si oppone all’isteria del potere come distruzione del desiderio; e le loro imprecazioni poetiche denunciano la messa all’indice, la persecuzione, gli strumenti dell’inquisizione della ragione unica! Il bene supremo è nella voluttà, diceva... e vivere liberamente consiste prendersi gioco di ogni sorta di convenzione e rompere alla radice gli specchi illusori dell’impero dello spettacolo e della simulazione. La fattografia fotografica di Araki contiene quel senso dell’eccesso rivestito di glamour, di fascino infausto che alberga nelle implorazioni mercanteggiate della cultura insegnata o mercificata (in origine). L’iconografia di Araki è un santuario a se stesso e c’è un’aria vanesia che pervade tutto il suo fotografare. Alla prolissità della fotografia da campionario, preferiamo gli in-

successi della fotografia dello stupore. Nessuna forzatura estetica attira il nostro interesse corsaro, per questo il poeta folle di ogni arte, lo scemo del villaggio o un bambino bruciato delle guerre è parte della scrittura fotografica che più ci commuove e nella quale crediamo fino alla gogna del silenzio. Non si può dare adito alla fotografia dell’impostura senza cadere nel ridicolo. Nel suo splendore ereticale, la fotografia è segno di vita autentica, e sbarazzarsi della vita in cambio di un posto in società è privarsi del piacere di ridere del sensazionalismo. Il gusto del malsano sembra essere quanto più circola nelle vetrine tristi dell’impotenza e «l’appellativo di deicida [a tutto quanto è idolatria] è l’insulto più lusinghiero che si possa rivolgere a un individuo o a un popolo» (Emil M. Cioran).

Abbiamo conosciuto fotografi ottusi e persino stupidi, che nemmeno facevano scudo della loro limitatezza espressiva; e nel tanfo dello stile disponevano in bella fila i propri successi. Per contro, abbiamo frequentato fotografi (anche anonimi), che disseminano la propria intelligenza belligerante nelle strade del mondo e conoscono la parte contro la quale stare. L’effetto dell’ammirazione o dell’esagerazione è loro estraneo, il loro sdegno contro i profanatori di bellezza e di giustizia emerge in ogni immagine piena dell’innegabile piacere del sapere e del mistero d’amore e rispetto che si porta addosso. Come i grandi avvenimenti, le grandi fotografie sono possibili nelle epoche nelle quali l’irresoluzione di un mondo in declino diventa storia degli uomini e delle donne alla ricerca autentica della felicità. ❖




Turn static files into dynamic content formats.

Create a flipbook
Issuu converts static files into: digital portfolios, online yearbooks, online catalogs, digital photo albums and more. Sign up and create your flipbook.