Mensile, 6,50 euro, Poste Italiane SpA - Spedizione in abbonamento postale - D.L. 353/2003 (convertito in Legge il 27-02-2004, numero 46), articolo 1, comma 1 - DCB Milano
ANNO XIX - NUMERO 181 - MAGGIO 2012
Centocinquanta anni fa IRONICO NADAR Tutta italiana STENOPEIKA Dalla Storia IL GIAPPONE
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Abbonamento 2012 (nuovo o rinnovo) in omaggio 1839-2009
Dalla Relazione di Macedonio Melloni alla svolta di Akio Morita M A U R I Z I O
R E B U Z Z I N I
1839-2009 Dalla Relazione di Macedonio Melloni alla svolta di Akio Morita
Come dire, dal dagherrotipo all’acquisizione digitale di immagini. E consecuzioni
INTRODUZIONE
DI
GIULIANA SCIMÉ
F O T O G R A P H I A L I B R I
prima di cominciare CON CREDITO. Nei supermercati alimentari della catena Esselunga è in atto la promozione Starzone, abbinata a una serie di card di cantanti, con relative ulteriori combinazioni, delle quali non ci occupiamo. Invece, e soprattutto, ci preme segnalare un allineamento fotografico che abbiamo accolto con sommo piacere. In una quantità di ritratti senza alcuna indicazione di autore fotografo, soltanto il soggetto Lucio Dalla, il numero sessantatré della serie, è certificato con opportuno e gradito credito: Fotografie di Maurizio Galimberti. A parte le considerazioni che potremmo esprimere sulla personalità d’autore del bravo e apprezzato Maurizio Galimberti, i cui mosaici polaroid sono inconfondibili e identificazione assoluta, si affaccia la valutazione che questo credito è risultato inevitabile (per quanto avrebbe dovuto essere declinato al singolare, “fotografia di”, e non al plurale, “fotografie di”: infatti, il soggetto è unico, seppure interpretato con pose multiple, programmate e adeguatamente accostate). Per l’appunto, e in conferma -inevitabile alla luce di una personalità espressiva che non può essere riferita ad altri-, si è autorevolmente imposta la certificazione del credito. A margine, si dovrebbero ribadire le tante considerazioni che sempre accompagnano il discorso dei crediti fotografici. Non è il caso di declinare l’argomento qui, ma ognuno sia consapevole che si tratta di una circostanza fotografica sempre latente e mai risolta, soprattutto in Italia. Altro discorso. Qui e ora, onore e merito a Maurizio Galimberti e alla sua avvincente espressività creativa.
Solo i nostri sospiri estremi ci salvano dalla pedagogia del Nulla fantasmato come Arte. Pino Bertelli; su questo numero, a pagina 66 Quanto è incantevole e magnifico l’ordine tratteggiato dai consistenti ritocchi alla realtà che trasuda dalle fotografie di alberghi che abbiamo rintracciato e recuperato! Quanto è incantevole l’evocazione che queste immagini, in forma popolare di cartolina, hanno trasmesso! Se tutto questo ha rallegrato qualche cuore e qualche animo... la fotografia ha svolto bene uno dei propri mandati. Ha interpretato al meglio una delle proprie funzioni. Niente d’altro. Angelo Galantini; su questo numero, a pagina 32
Copertina Uno dei sessantasei alberghi italiani dei decenni a cavallo della Seconda guerra mondiale, visualizzati da stampe bianconero fortemente ritoccate e modificate (da pagina 26, ne presentiamo dieci, questo compreso): Hotel Umberto I, di San Remo, in provincia di Imperia. Spunto per considerazioni sui mandati della fotografia, che deve interpretare al meglio le proprie funzioni
3 Altri tempi (fotografici) Da un annuncio pubblicitario Mentor (Goltz u. Breutmann, di Dresda), dei primi anni Trenta del Novecento: apparecchi fotografici distribuiti in Italia e Colonie da Angelo Capitani. Affermazione perentoria: «La tendina Mentor costituisce il famoso campione al quale tutti i costruttori s’ispirano, senza averlo ancora raggiunto»
7 Editoriale Non lasciatevi fuorviare dalla lievità di certi episodi
8 Ironico Nadar Centocinquantesimo anniversario di una celebre illustrazione, che appartiene alla Storia della fotografia: Nadar élevant la Photographie à la hauteur de l’Art (Nadar eleva la Fotografia all’altezza dell’Arte), di Honoré Daumier, pubblicata dal periodico parigino Le Boulevard, il 25 maggio 1862
14 Notizie Attrezzature, vicende e altre segnalazioni
16 Sotto copertura Lucio Dalla, uno dei soggetti della promozione Starzone, realizzata all’interno dei supermercati Esselunga. Ritratto dai connotati inconfondibili, con credito d’autore: Maurizio Galimberti.
Nel film Spy Game, di Tony Scott, del 2011, Brad Pitt interpreta un agente segreto che agisce in medio oriente fingendosi fotogiornalista. Da cui, considerazioni del caso Ricerca iconografica di Filippo Rebuzzini
MAGGIO 2012
R , RIFLESSIONI IFLESSIONI, OSSERVAZIONI E COMMENTI OSSERVAZIONI E COMMENTI SULLA FOTOGRAFIA SULLA FOTOGRAFIA
20 Google ricorda In una serrata sequenza di date, il nove e il quattordici aprile, la pagina iniziale del motore di ricerca Google ha rispettivamente celebrato l’anniversario della nascita di Eadweard Muybridge (1830) e il centenario della nascita di Robert Doisneau (1912)
Anno XIX - numero 181 - 6,50 euro DIRETTORE
RESPONSABILE
Maurizio Rebuzzini
IMPAGINAZIONE
Maria Marasciuolo
REDAZIONE
Angelo Galantini
22 Ici Bla Bla
FOTOGRAFIE
Appunti e attualità della fotografia internazionale a cura di Lello Piazza
SEGRETERIA
Rouge
Maddalena Fasoli
HANNO
26 Ritocchi consistenti Una serie di fotografie di alberghi, realizzate nei decenni dai Trenta ai Cinquanta (deduzione), lascia trasparire massicci interventi di ritocco sulle stampe bianconero originarie. Finzione fotografica perfettamente indirizzata di Angelo Galantini
34 Storia giapponese Tre consistenti monografie colmano il vuoto che per decenni ha confinato la fotografia giapponese nel mistero e nella non conoscenza, quantomeno in occidente: The History of Japanese Photography, Photography in Japan 1853-1912 e Les livres de photographies japonais des années 1960 et 1970 di Maurizio Rebuzzini
43 Stenopeico italiano Efficace produzione di apparecchi a foro stenopeico: gamma StenopeiKa, di Samuele Piccoli, da Pistoia, per pellicola 35mm, a rullo 120 e piana grande formato di Antonio Bordoni
48 Visioni evocate Non è fotografia, lo sappiamo: ma la Packaging Art di Giordano Redaelli sollecita riflessioni. Senza confini
55 Et voilà, Impossible Dietro-le-quinte della rinascita della fotografia a sviluppo immediato, con considerazioni che spaziano in lungo e largo. Ne riferisce Beppe Bolchi Intervista di Caterina De Fusco
COLLABORATO
Pino Bertelli Beppe Bolchi Antonio Bordoni Carlo Cavicchio Caterina De Fusco Chiara Lualdi Lello Piazza Franco Sergio Rebosio Giordano Redaelli Ciro Rebuzzini Filippo Rebuzzini Redazione, Amministrazione, Abbonamenti: Graphia srl, via Zuretti 2a, 20125 Milano; 02-66713604 www.FOTOgraphiaONLINE.it; graphia@tin.it. ● FOTOgraphia è venduta in abbonamento. ● FOTOgraphia è una pubblicazione mensile di Graphia srl, via Zuretti 2a, 20125 Milano. Registrazione del Tribunale di Milano numero 174 del Primo aprile 1994. Poste Italiane SpA - Spedizione in abbonamento postale - D.L. 353/2003 (convertito in Legge il 27-02-2004, numero 46), articolo 1, comma 1 - DCB Milano. ● A garanzia degli abbonati, nel caso la pubblicazione sia pervenuta in spedizione gratuita o a pagamento, l’Editore garantisce la massima riservatezza dei dati forniti dagli abbonati e in suo possesso, fatto diritto, in ogni caso, per l’interessato di richiederne gratuitamente la rettifica o la cancellazione ai sensi della legge 675/96. ● FOTOgraphia Abbonamento 12 numeri 65,00 euro. Abbonamento annuale per l’estero, via ordinaria 130,00 euro; via aerea: Europa 150,00 euro, America, Asia, Africa 200,00 euro, gli altri paesi 230,00 euro. Versamenti: assegno bancario non trasferibile intestato a Graphia srl Milano; vaglia postale a Graphia srl - PT Milano Isola; su Ccp n. 28219202 intestato a Graphia srl, via Zuretti 2a, 20125 Milano; addebiti su carte di credito CartaSì, Visa, MasterCard. ● Nessuna maggiorazione è applicata per i numeri arretrati. ● È consentita la riproduzione di testi e fotografie, magari citando la fonte (ma non è indispensabile, né obbligatorio farlo). ● Manoscritti e fotografie non richiesti non saranno restituiti; l’Editore non è responsabile di eventuali danneggiamenti o smarrimenti. Fotocomposizione DTP e selezioni litografiche: Rouge, Milano Stampa: Arti Grafiche Salea, Milano
Rivista associata a TIPA
62 Luce fotografica Luce proibita è un romanzo che attinge alla Storia della fotografia, addirittura al suo pionierismo
64 Giorgio Lotti Sguardi sulla fotografia del rispetto (e utopia) di Pino Bertelli
www.tipa.com
editoriale L
apidario! Le pagine di FOTOgraphia interpretano la materia con significativi scarti di significato. Quantomeno, così fanno, a differenza delle convenzionalità giornalistiche stabilite da tempo e perseguite coerentemente da molti (noi, no). Anche se sarebbe bene non limitare le considerazioni al proposito, si potrebbe confinare la combinazione alternata degli argomenti che proponiamo mese per mese, mese dopo mese, nell’ampio contenitore delle divagazioni finalizzate (e più avanti andiamo oltre). In questo senso, si è autorevolmente espressa Giuliana Scimé, figura di spicco della fotografia italiana, in introduzione al saggio storico 1839-2009. Dalla Relazione di Macedonio Melloni alla svolta di Akio Morita, compilato con analoghe digressioni, altrettanto volontarie: «Non lasciatevi fuorviare dalla lievità di certi episodi. La lievità, la sottintesa impertinenza sono brillanti mezzi da abile saggista per alleviare la tensione di un argomento fin troppo serio, e trattato con la più assoluta consapevolezza del sapere». E questo è un punto di vista, è parte di un insieme più articolato e complesso. Infatti, in avanti, non si tratta soltanto di alleviare le tensioni -per quanto anche di questo si tratti-, quanto di intendere l’interesse fotografico come fantastico s-punto di partenza e non come arido punto di arrivo: magari, addirittura autoreferenziale. Da cui, e per cui, ecco qui che il nostro girovagare attorno la fotografia ce la fa incontrare nella vita di tutti i giorni e in espressioni che appartengono al contesto sociale (diciamola così, in sostanziosa semplificazione). Va da sé che anche le altre nostre frequentazioni fotografiche, che si manifestano in indirizzi mirati, si esprimono in modo analogo: dato l’argomento proposto, la sua presentazione e il suo svolgimento spaziano oltre la traccia lineare da capo a fine, includendo cambiamenti di direzione, opportuni e adeguatamente integrativi. Ovviamente, nulla è fatto e nulla è detto senza uno scopo, che è poi quello di focalizzare meglio e più convincentemente il motivo principale, il motivo prospettato. Insomma, non è una esibizione di “sapere” (cultura?), ma di voglia di condividere. E, forse, capacità di farlo. Ecco, quindi, che ho accolto con entusiasmo il fascicolo 320 del periodico a fumetti Martin Mystère (già richiamato su queste pagine in relazione a propri accompagnamenti fotografici), con il quale sono state avviate le celebrazioni dei trent’anni di pubblicazione, che partono proprio con una avventura a tema: Anni Trenta, manco a dirlo. Subito detto: la sceneggiatura è infarcita di citazioni e richiami a tutto tondo, dalla letteratura popolare al cinema, al fumetto, al costume, a molto altro ancora. Leggendolo, dopo averne riconosciuti un paio, ho cominciato ad annotarmeli... per poi trovarmi la chiave interpretativa alla fine dell’avventura. Bravi! È anche così che si fa, per il senso e gusto di stare bene assieme... magari a partire da un pretesto condiviso: il fumetto, in questo caso. La fotografia, per quanto ci riguarda più da vicino. Maurizio Rebuzzini
Con il numero 320 di Martin Mystère iniziano le celebrazioni dei trent’anni di pubblicazione del fumetto: un’avventura in puro stile Anni Trenta (peraltro, così intitolata), densa di richiami a tutto tondo. Sulla copertina, una avvincente e convincente citazione di una celebre fotografia, spesso parodiata in mille e mille occasioni. Si tratta della nota raffigurazione di operai edili in pausa pranzo, a New York, su una traversina sospesa nel vuoto, a una altezza consistente. È una fotografia più che conosciuta e riconosciuta, che ha superato i confini degli addetti, per approdare a socialità quotidiane. In questo caso, sulla traversina sono i protagonisti del fumetto, che brindano al loro anniversario. A volte erroneamente attribuita a Lewis W. Hine, figura fondamentale della Storia della fotografia, che documentò l’edificazione dell’Empire State Building, di New York, la fotografia originaria, ufficialmente identificata come Lunch Atop a Skyscraper (pranzo in cima a un grattacielo), oppure Lunch Atop a Girder (pranzo in cima a una trave), è di Charles C. Ebbets, e si riferisce all’edificazione del Rockefeller Center (1932).
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Centocinquanta anni fa di Maurizio Rebuzzini
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IRONICO NADAR
Tanto nota e celebrata da entrare a far parte di numerose Storie della fotografia, la litografia ironica di Honoré Daumier, intitolata Nadar élevant la Photographie à la hauteur de l’Art (Nadar eleva la Fotografia all’altezza dell’Arte), compie centocinquanta anni: fu pubblicata dal periodico parigino Le Boulevard, il 25 maggio 1862. Ancora, tra tanto altro, questa stessa raffigurazione è stata l’incipit del nostro particolare numero dello scorso aprile 2011, nero-su-nero, con il quale abbiamo sollecitato la riflessione attorno la Fotografia (come spesso facciamo, in maiuscola volontaria e consapevole), da parte del nostro mondo: sia di quello rivolto all’immagine sia di quello commerciale, che sull’immagine dovrebbe edificare la propria personalità mercantile. Già... in ripetizione: «In omaggio a Nadar, che ha avuto l’ardire di elevare la fotografia al di sopra delle arti». In precedenza, non sono mancate altre occasioni per scrivere di Nadar, in misura più consistente della dedica appena ricordata. In particolare, nel marzo 2010, abbiamo ricordato il centenario dalla morte; in arte Nadar, Gaspard-Félix Tournachon è nato il Primo aprile 1820 e mancato a novanta anni appena da compiere, il 21 marzo 1910. Nello specifico, quell’occasione è stata opportuna per segnalare una consistente serie di libri sui quali conoscere la sua statura di straordinario ritrattista, forse il più grande della Storia, che a metà dell’Ottocento ha illuminato la strada dell’espressività fotografica. Tra tanti testi eccellenti, uno studio su Nadar approfondito e degno della massima attenzione rimane ancora quello che Einaudi ha pubblicato nel 1973, traducendo e completando un’edizione originaria francese del precedente 1966. Semplicemente intitolato Nadar, il volume propone essenzialmente due testi portanti, più altri a corollario (di analogo spessore: una delizia). Per l’edizione italiana, il saggio originario di Jean Prinet e Antoniette Dilasser è preceduto da uno di Lamberto Vitali. Proprio questo Il fo-
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tografo Nadar, introduttivo dell’opera (quattrocentoventi pagine 20x20,7cm, con cento illustrazioni), è stato recentemente ripreso da Abscondita, che l’ha inserito nel prezioso Félix Nadar. Ritratti, pubblicato nel 2007 nell’autorevole collana Miniature: ottanta pagine 10,5x19,5cm; 11,00 euro. In questa edizione, si trova anche
un testo a tema (ritratto) dello stesso Nadar, estratto dal suo Quando ero fotografo. Nello specifico, in Le clienti e i clienti, il ritrattista parigino riflette sul rapporto con il pubblico, spesso insoddisfatto delle proprie raffigurazioni: e le considerazioni, oltre i suggerimenti, sono ancora oggi di stretta attualità, centocinquanta anni dopo!
Centocinquantenario: Nadar élevant la Photographie à la hauteur de l’Art, di Honoré Daumier (25 maggio 1862). E Nadar sul pallone aerostatico, sulla nostra copertina del marzo 2010.
Centocinquanta anni fa In aggiunta, e approfondimento, rimandiamo ancora allo Sguardo su Nadar, di Pino Bertelli, in FOTOgraphia del febbraio 2004.
Autoritratto di Nadar; 1855 circa.
OLTRE IL RITRATTO Nell’eterogeneo universo dei tanti grandi autori della fotografia, il francese Nadar rappresenta una personalità insolita e autonoma. Oltre la prepotente identità di raffinato ritrattista, a tutti nota, e alla quale ci si riferisce sempre, per esplorare le possibili applicazioni espressive e documentative della fotografia, Nadar accompagnò la propria attività in sala di posa con la continua sperimentazione tecnica. Sue furono le fotografie che per la prima volta illustrarono un testo divulgativo di medicina ( Album de Photographies pathologiques complémentaire du Livre intitulé De l’Electrisation localisée; Parigi, 1862). E sua fu l’idea di una intervista accompagnata da una sequenza di fotografie. Sotto la sua direzione, nel 1886, il figlio Paul eseguì una serie di ventisette pose destinate a illustrare l’intervista (dello stesso Nadar) al fisico Michel-Eugène Chevreul, incontrato
35, BOULEVARD DES CAPUCINES
Leggiamo dal romanzo Jules Verne e il mistero della camera oscura [per la quale si intende la camera obscura, da cui il titolo originario Le Mystère de la Chambre obscure, ovvero lo strumento fotografico delle origini, da non confondere con il locale nel quale si stampano le copie fotografiche, appunto camera oscura], di Guillaume Prévost, pubblicato in Italia da Sellerio Editore. Ricercatore e professore di storia nella regione di Parigi, l’autore Guillaume Prévost trasforma la realtà in fantasia narrativa. La descrizione dello studio Pelladan, fotografo coinvolto nella vicenda a sfondo poliziesco districata dal giovane Jules Verne: «Per essere una bella facciata, era una bella facciata. Lo studio Pelladan occupava tutto il numero 35 di boulevard des Capucines, tre piani di pietra coronati da un fregio di metallo e vetro, sormontato a sua volta da un enorme sole di maiolica, i cui raggi dorati, muniti di torciere, brillavano anche di notte. Una grossa scritta Pelladan in caratteri inglesi attraversava il palazzo al secondo piano e una folla di amatori si accalcava davanti alle vetrine del piano terra. Ci si meravigliava dei ritratti delle attrici a grandezza naturale nei loro ruoli più importanti -Eugénie Doche nella Signora delle Camelie, Rachel in Fedra, Rose Chéri in Rebecca-, ma anche delle ballerine in tutù, dei cantanti lirici nel Macbeth o nel Barbiere di Siviglia e persino di alcuni uomini politici - proprio come erano nella realtà, quelli: pance benestanti, espressioni soddisfatte, sguardi fiduciosi e decisamente rivolti al futuro». Questa descrizione calza a pennello allo studio di Nadar, appunto al 35 del parigino boulevard des Capucines [qui, a sinistra] -successivo all’originario, al 113 di rue Saint-Lazare, dal 1855 al 1860 (il suo periodo migliore)-, e anche alla sua attività di ritrattista. Dalla realtà alla fantasia.
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in occasione del centesimo compleanno. Tredici di queste immagini, tutte riprese con pellicola Eastman Kodak che consentiva tempi di otturazione brevi, fino a 1/200 di secondo, furono pubblicate il 5 settembre 1886 dal Journal illustré: dodici inquadrature in sequenza di Chevreul e Nadar seduti attorno a un tavolo furono impaginate assieme a un ritratto del celeberrimo fisico. Nadar fu anche tra i primi a intuire le possibilità dell’illuminazione artificiale, in un’epoca nella quale la fotografia dipendeva soltanto dalla luce naturale del sole. In sala di posa, usò lampade continue e il lampo al magnesio. Con certezza, un ritratto del 1860 è attribuibile a una illuminazione con luce elettrica, sulle cui possibilità Nadar relazionò nella seduta del 21 dicembre 1860 della Société Français de Photographie. E poi illuminò artificialmente anche le catacombe di Parigi e le sue fogne, dove eseguì rispettive serie fotografiche nel corso del 1861. Le sue lastre 18,5x22,5cm furono esposte con grande perizia e con un pizzico di invenzione scenografica: uomini
Centocinquanta anni fa in rigorosa immobilità e manichini ben disposti stavano a recitare e simulare situazioni dinamiche “fissate” dallo scatto fotografico (per forza di cose, assolutamente prolungato). Convinto assertore delle grandi possibilità di applicazione del volo dei mezzi più leggeri dell’aria, Nadar fece seguire i fatti alle parole, e compì numerose escursioni con il pallone aerostatico. Questa sua idea era talmente fissa da spingerlo ad autoritrarsi a bordo del cesto caratteristico della mongolfiera (per l’occasione saldamente fissato in sala di posa, davanti a un fondo di cielo nuvoloso dipinto [a pagina 8]), e da ispirare la celebre caricatura di Honoré Daumier: l’ironica Nadar eleva la fotografia all’altezza dell’Arte, della quale oggi ricordiamo il centocinquantesimo anniversario (25 maggio 1862-2012), raffigura il fotografo che a bordo di un aerostato vola su una città pullulante di studi fotografici [a pagina 9]. Come già l’illuminazione artificiale di luoghi originariamente bui, anche il volo aerostatico si accompagnò con una esperienza fotografica. Di questi due mondi estremi, il sottosuolo di Parigi e il suo sorvolo, Na-
dar ha lasciato preziose testimonianze scritte nella sua raccolta di memorie Quand j’étais photographe (Flammarion; Parigi, 1980), pubblicata in Italia dagli Editori Riuniti (Quando ero fotografo; a cura di Michele Rago, traduzione di Stefano Santuari; Roma, 1982) e ripubblicata da Abscondita, nel 2004.
DAL PALLONE Proprio dalla raccolta Quando ero fotografo, riprendiamo una testimonianza sulla combinazione della fotografia con il pallone aerostatico. Testuale, da Il primo tentativo di fotografia aerostatica.
Pierrot fotografo: uno dei soggetti della serie realizzata da Nadar nel 1854-1855. Curiosamente, ma neppure poi tanto, questa immagine ha illustrato il francobollo dedicato a Nadar dalle Poste francesi: serie di sei valori Les œuvres des grands photographes français, emessa il 10 luglio 1999 [ FOTOgraphia, giugno 2003].
Io avevo intravisto due interessantissime utilizzazioni. A livello strategico, è noto quale fortuna sia per un generale in guerra, trovare il campanile di un villaggio, sul quale un ufficiale di stato maggiore possa fare le sue osservazioni. Io navigavo sul mio “campanile”, e il mio obiettivo poteva scattare, una dopo l’altra, all’infinito, delle immagini su lastre, trasmettendole direttamente dalla mia navicella al quartier generale mediante una semplicissima forma di consegna: una scatolina fatta scendere al suolo con una cordicella, la quale mi riportava, se
necessario, delle istruzioni. Quelle immagini, subito ingrandite e proiettate, sotto gli occhi del generale supremo, gli avrebbero potuto presentare l’insieme del suo scacchiere, rivelando man mano i piccoli dettagli dell’azione e assicurandogli l’assoluta superiorità nel condurre la partita. [E la seconda applicazione indicata da Nadar riguarda quindi la possibilità di effettuare con facilità rilievi catastali esatti]. [...] Febbrilmente, ho predisposto l’allestimento del laboratorio da sistemare nella navicella, giacché non siamo ancora nei tempi felici dei
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Centocinquanta
Nei panni di Topet, Topolino guarda fuori da una finestra del Commissariato di Parigi, dalla quale si intravede la Tour Eiffel. Inconfondibile. Si domanda: «Felix Danar? Questo nome mi ricorda qualcosa!». «Era mio zio, commissario! Il fotografo più famoso di Parigi!», gli risponde prontamente un subordinato. Così inizia l’avventura Il caso di Villa Danar, inchiesta di Topet il commissario, pubblicata in Topolino, numero 2485, del 15 luglio 2003: ennesima presenza della fotografia nei fumetti, alla quale riserviamo attenzioni mirate e particolari. Le citazioni della sua sceneggiatura sono adeguate e ammalianti, soprattutto per coloro i quali, noi tra questi, gradiscono questo tipo di richiami e rimbalzi. Tra tanto altro, tra sfumature e dettagli di buona cucina, una tavola del fumetto richiama addirittura la celebre illustrazione ironica di Honoré Daumier [a pagina 9], della quale ricorre oggi il centocinquantesimo anniversario: Nadar élevant la Photographie à la hauteur de l’Art (25 maggio 1862).
nostri nipoti, che disporranno di laboratori tascabili. [...] Fa caldo là sotto, sia per l’operatore, sia per l’operazione. Ma il collodio e gli altri prodotti, immersi nel loro bagno di ghiaccio, non possono rendersene conto. L’obiettivo fissato verticalmente è un Dallmeyer, è detto tutto, e lo scatto della ghigliottina orizzontale, che ho ideato (ancora un brevetto!) per aprirlo e chiuderlo di scatto, funziona impeccabilmente. [...] Infine c’è tutto. Tutto è pronto! Salgo... - Prima ascensione; risultato: zero! - Seconda ascensione: niente!!... - Terza ascensione: nulla!!!... Dapprima, sono sorpreso, poi inquieto, ed eccomi terrorizzato... Che succede?... E salgo, risalgo, torno a salire: sempre un fallimento. A ogni nuovo insuccesso, ho un bel cercare, guardare e riguarda-
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Ritratti realizzati da Nadar; dall’alto e sinistra: l’attrice di teatro Sarah Bernhardt (Rosine Bernardt, 1864 circa); Musette (1854-1855); lo scrittore Charles Baudelaire (1855); il pittore Gustave Doré (1856-1858).
re: non è stato dimenticato né trascurato nulla, nessun difetto. Dieci volte, venti volte, i bagni sono stati filtrati, rifiltrati, sostituiti, tutti i prodotti cambiati. [...] Non ammetterò mai che l’obiettivo non mi renda ciò che vede. Evidentemente, non ci può essere altro, non c’è che un incidente di laboratorio, finora inspiegabile. [...] La navicella viene svuotata dalle pietre. Mentre viene trattenuta senza difficoltà, la libero del laboratorio così diligentemente sistemato, dalla tenda, da tutto, perfino dalla famosa ghigliottina orizzontale, che sostituirò con la mia mano! Con me porterò solo la macchina fotografica e la lastra preparata nel telaio. [...] Ho immediatamente aperto e chiuso l’obiettivo, grido impaziente: - Discesa! Mi tirano a terra. D’un balzo corro fino all’albergo, dove -trepidante- sviluppo l’immagine...
Sono felice! C’è qualcosa! Insisto e riprovo: l’immagine a poco a poco appare, indecisa, pallida, ma netta, sicura... [...] Ma come e perché ho potuto ottenere solo in quella disperata occasione ciò che fino allora mi era stato implacabilmente negato? D’improvviso, l’illuminazione, e finalmente arrivo alla spiegazione. L’ultima volta, non avendo gas da perdere, salii con la valvola chiusa. Ora, ad ogni mia salita, quell’appendice rovesciava regolarmente sui miei bagni di sviluppo idrogeno solforato: ioduro d’argento con solfuro d’idrogeno, pessima coppia irrimediabilmente condannata a non far figli. Testimonianza diretta di Nadar, che completa l’attuale centocinquantesimo anniversario della litografia ironica di Honoré Daumier, che sottolinea il tema dell’ascensione con pallone aerostatico. ❖
Notizie a cura di Antonio Bordoni
FILTRI RODENSTOCK. In fotografia, di qualsivoglia dipendenza tecnologica, i filtri sono aiuti preziosi, perché risolvono una consistente quantità e qualità di problematiche. A seconda del tipo e delle esigenze, adattano la luce di ripresa alle caratteristiche delle pellicole usate e/o dei sensori di acquisizione digitale, accentuano i contrasti, attenuano l’intensità luminosa e contribuiscono a rendere visibili situazioni che l’occhio fisiologico non percepisce. Ancora, come complementi ottici per interpretazioni particolari e mirate, oltre che controllate, promuovono la creatività e permettono di realizzare immagini di grande suggestione, altrimenti impensabili. In tutti i casi, i filtri non debbono mai danneggiare la qualità dell’obiettivo di ripresa, ma si devono allineare alle sue alte prestazioni ottiche, senza introdurre sfocature fastidiose e indesiderate, piuttosto che aloni e immagini fantasma. Distribuiti in Italia da Silvestri Fotocamere, i filtri coated Rodenstock sono realizzati in vetro ottico di alta qualità: assicurano che definizione, contrasto e fedeltà dei colori siano preservati anche con i migliori obiettivi fotografici. I filtri Rodenstock, storica produzione fotografica che si è espressa in modo particolare nel grande formato e nell’ingrandimento in camera oscura, sono disponibili in due gamme finalizzate. Una è dedicata alle esigenze e necessità dell’acquisizione digitale di immagini: polarizzatore circolare per obiettivi HR Digital (e altri obiettivi), filtro UV per obiettivi HR Digital (e altri obiettivi) e filtro UV/IR. L’altra
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è adeguata sia alla fotografia digitale sia a quella analogica (con pellicola fotosensibile):polarizzatori lineari e circolari, filtri UV, filtri ND a densità neutra calibrata, filtro Skylight, filtri colorati per fotografia bianconero. (Silvestri Fotocamere, via della Gora 13/5, 50025 Montespertoli FI; www.silvestricamera.it).
STELLA, STELLINA. Anticipazione rapida, in attesa di approfondire. La nuova Canon Eos 60Da è una reflex finalizzata specificamente all’astrofotografia. Realizzata sulla base delle specifiche della Eos 60D, di base, e in sostituzione della precedente Eos 20Da, è stata progettata per acquisire i colori ricchi di rossi prodotti dalle nebulose, evidenziati da un filtro passa-basso modificato, che la rende più sensibile alle lunghezze d’onda idrogeno-alfa (Hα). Ragion per cui, la Canon Eos 60Da è ideale per la ripresa di fenomeni astronomici, come le nebulose diffuse, uno dei soggetti favoriti tra gli astrofotografi per la decisa colorazione rossa provocata dalla ionizzazione dell’idrogeno. In una reflex convenzionale, per evitare artefatti di colore indesiderati nell’immagine finale, il filtro a infrarossi (IR) limita la quantità di radiazioni luminose nella banda Hα che raggiunge il sensore di acquisizione. La Eos 60Da adotta un nuovo filtro modificato che offre tre volte più trasparenza nei confronti della gamma Hα rispetto alla Eos 60D, dalla quale deriva. In combinazione con un sensore Cmos da diciotto Megapixel, il processore Digic 4 e una elevata gamma di sensibilità (fino a 6400 Iso equivalenti, espandibile fino a 12.800 Iso equivalenti), è in grado di acquisire immagini chiare e nitide delle nebulose a emissione di colore rosso. Utilizzando la conveniente ergonomia della Eos 60D, anche la dedicata Canon Eos 60Da è comoda da maneggiare e altamente personalizzabile. Le forme curve offrono una funzionale disposizione dei pulsanti, con i controlli più frequenti raggrup-
pati e a portata di comando, per un facile accesso. I pulsanti possono essere facilmente impostati e riassegnati, per soddisfare eventuali esigenze individuali di ciascun utente, mentre il monitor LCD superiore (con retroilluminazione) offre una maggiore flessibilità, per controllare e regolare i parametri delle immagini durante le riprese. Il pulsante dedicato Quick Control fornisce anche un comodo e immediato accesso all’intera gamma delle impostazioni della reflex. L’ampio monitor LCD da tre pollici (7,7cm), ad angolazione variabile, e la funzione Live View sono ideali per ottenere pertinenti inquadrature, utilizzando un treppiedi. Il monitor ad angolazione variabile offre più flessibilità, mentre la modalità Live View fornisce un controllo di precisione, consentendo di regolare la composizione e le impostazioni della ripresa senza dover tenere l’occhio incollato al mirino. Con una risoluzione di 1.040.000 pixel, il display LCD offre anche un eccezionale livello di dettaglio durante e dopo lo scatto, consentendo agli astrofotografi di comporre e rivedere le proprie immagini con assoluta fedeltà. (Canon Italia, via Milano 8, 20097 San Donato Milanese MI; www.canon.it).
ZAINO IN SPALLA. Il design compatto e leggero degli zaini Lowepro Flipside 300 e Flipside 400 consente di trasportare senza preoccupazioni consistenti dotazioni fotografiche, offrendo ampio spazio per il corpo macchina reflex, una serie di obiettivi intercambiabili e accessori di uso. La linea di zaini Flipside si distingue e caratterizza per un’unica apertura posteriore, che garantisce e permette un facile accesso alla reflex e -al tempo stesso- offre una maggiore sicurezza quando si è in movimento. Inoltre, ruotandoli intorno al corpo, gli zaini Lowepro Flipside consentono di accedere allo spazio interno, senza doverli necessariamente togliere, né appoggiare per terra, e di cambiare comodamente gli obiettivi sul corpo macchina, sfruttando un confortevole piano di appoggio. Ancora, una serie di tasche esterne semplifica la distribuzione ragionata e operativa di oggetti personali e accessori fotografici: sempre a comoda portata di mano. (Nital, via Tabacchi 33, 10132 Torino; www.nital.it). ❖
Cinema
di Maurizio Rebuzzini - Ricerca iconografica di Filippo Rebuzzini
SOTTO COPERTURA
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Film statunitense del 2001, Spy Game, di Tony Scott, si avvale di una sceneggiatura brillante (di Michael Frost Beckner), che tiene alta l’attenzione per tutto il suo svolgimento, fino alla conclusione, neppure tanto prevista, né prevedibile. Come rivela il titolo, rimasto inalterato nella distribuzione internazionale, Italia compresa, è una storia di spionaggio, che fa capo all’immancabile compartimento Cia dai mille segreti e risvolti. Al solito, la vicenda cinematografica in sé ci interessa marginalmente, e l’affrontiamo in relazione e dipendenza alla consueta componente fotografica, che -in un certo momento- l’attraversa. Reclutato da Nathan D. Muir (l’attore Robert Redford), che è il protagonista principale dell’intricata questione, raccontata soprattutto con
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I due protagonisti del film Spy Game, di Tony Scott, del 2001, sono gli agenti segreti Nathan D. Muir (l’attore Robert Redford), a capo di un dipartimento della Cia, e Tom Bishop (interpretato da Brad Pitt), infiltrato in Libano come fotogiornalista.
In aggiunta alla vicenda generale del film statunitense Spy Game (di Tony Scott, del 2001), che per quanto ci interessa si riduce alla componente fotografica sottolineata e commentata nel corpo centrale dell’odierno intervento redazionale, annotiamo un gradito passaggio della scenografia, che include la visione di un palazzo di Beirut, in Libano, sovrastato da una clamorosa insegna Fujifilm. In un certo senso e modo, anche questo fa parte della presenza della fotografia nel cinema, in questo caso in forma scenografica e visiva. E poi, in sovramercato, è anche una avvincente testimonianza di marchio: Fujifilm, uno dei giganti della fotografia senza tempo, con consistente personalità attuale, in epoca di acquisizione digitale di immagini, nella quale manifesta straordinarie interpretazioni senza soluzione di continuità, dalla fotoricordo alla fotografia professionale, fino all’esaltante Fujifilm X-Pro1 [ FOTOgraphia, marzo 2012].
Cinema
flashback che rievocano quanto ha portato alla situazione di blocco, che la Cia (l’agenzia statunitense di spionaggio) deve dirimere, Tom Bishop (interpretato da Brad Pitt) è un agente segreto che si mette nei guai nella Repubblica popolare cinese. Il suo stato di servizio viene esaminato e analizzato nei minimi dettagli, per individuare dove e quando si è aperta una incrinatura nella sua capacità di affrontare e risolvere intrighi internazionali. Così, veniamo a sapere che Tom Bishop ha agito sul controverso palcoscenico mediorientale, nei giorni caldi delle contraddizioni libanesi, coprendo la propria effettiva missione di agente segreto in controllo di territorio (e qualcosa di più), fingendosi fotoreporter inviato. E questo è il nocciolo della questione che ci interessa direttamente, che sollecita le nostre osservazioni e riflessioni. E, poi, anche le nostre considerazioni.
DELAZIONE Due sono le questioni al proposito. La prima non riguarda la sceneggiatura di Spy Game, la cui narrazione scorre altrimenti, peraltro senza soffermarsi troppo sulla combinazione fotografica, che a noi interessa di più: pensiamo all’individuazione di persone attraverso la loro raffigurazione fotografica. In situazioni di conflitto è accaduto più volte: spesso, si è trattato di “denuncie” involontarie; altre volte, di segnalazioni ricercate e volute. Ricordiamo i tempi dei movimenti studenteschi e giovanili, in Italia, a cavallo dei
ti di guerriglia e/o protesta civile (in paesi che non la contemplano). Del resto, tra le mille e mille leggende della fotografia contemporanea, c’è anche quella che vorrebbe che molti fotografi di National Geographic sarebbero stati al soldo della Cia, per informare dai paesi che andavano visitando per conto del prestigioso mensile. Verità, fantasia? Chi può dirlo? Anche se sono ormai note le complicità di alcuni fotogiornalisti statunitensi con l’Fbi, negli anni Sessanta e Settanta, non è il caso di approfondire ulteriormente: solo e troppo dolore.
Fedele a uno stilema della fotografia nel cinema, il racconto di Spy Game scandisce bene i tempi dell’azione fotogiornalistica nella guerriglia di Beirut, in Libano: atto e gesto del fotoreporter che inquadra con Leica M6 cromata motorizzata; inquadratura nel mirino (e accettiamo questa visualizzazione di fantasia, comunque sia riconoscibile); immagine in bianconero.
Settanta. Ricordiamo casi più recenti. Per esempio, dodici anni fa, Ahmad Batebi, ventuno anni, fotografato tra migliaia di studenti che stavano manifestando contro il governo iraniano, apparve sulla copertina del 17 luglio 1999 dell’Economist, prestigioso settimanale inglese. Grazie a questa fotografia, la polizia iraniana lo identificò e arrestò. Al momento dell’arresto, gli fu detto che quell’immagine aveva scritto la sua condanna a morte. Ma non fu giustiziato. A seguito di proteste internazionali, la condanna a morte fu tramutata in quindici anni di carcere, dove fu torturato perché rivelasse i nomi di altri studenti coinvolti nella protesta. Ahmad Batebi resistette e non tradì nessuno. Poi, un giorno, durante un ricovero momentaneo in ospedale, riuscì a fug-
Alloggiate altrove le vicende relative all’etica del fotogiornalismo, che altro non è che etica della vita nel proprio complesso, rientriamo nell’ambito del-
Le due Leica M6 di Tom Bishop, nel cinematografico Spy Game: una con motore; l’altra con mirino grandangolare esterno (21mm?, più probabilmente 24mm).
gire. Raggiunse il confine con l’Iraq, e in seguito emigrò negli Stati Uniti, dove arrivò il 24 giugno 2008. Si spera, dunque, che la persona che nell’estate 2009 è apparsa sulla copertina dell’Economist di fine giugno, sempre dall’Iran, dieci anni dopo Ahmad Batebi, non sia stata riconosciuta da nessuno, e non lo sia stata neppure la ragazza pubblicata sulla copertina di Time, ancora dall’Iran, negli stessi giorni. La seconda questione è subordinata alla prima, e riguarda la fiducia che i fotogiornalisti debbono ottenere nei luoghi caldi, là dove devono dimostrare di essere autenticamente tali -fotogiornalisti dotati di etica e morale (deontologia)-, non intrusi a scopo di tradimento e deferimento: questo è uno dei nodi del reportage (anche di penna) dai fron-
le più leggere notazioni riguardo la presenza della fotografia nel film statunitense Spy Game, di Tony Scott, del 2001. Come già fatto in altre occasioni, a questa precedenti (soprattutto in FOTOgraphia, del settembre 2011 e dello scorso febbraio), una nota si antepone a tutte quelle possibili: l’assoluta credibilità del gesto interpretativo dell’attore Brad Pitt, nei panni del fotogiornalista (finto!) Tom Bishop. Due sono le macchine fotografiche usate: reflex Nikon FM e/o FE e Leica M6, cromata e nera, a volte motorizzata. In entrambi i casi, la postura è sempre pertinente e ben rappresentativa della realtà dell’azione fotogiornalistica. Da una parte, va sottolineata l’accuratezza recitativa del cinema statunitense; dall’altra, non si deve sottovalutare il fatto che nella vita privata Brad Pitt è un con-
(a destra) Nel film Spy Game, per il proprio fotogiornalismo, l’agente segreto infiltrato Tom Bishop (Brad Pitt) alterna reflex Nikon FE o FM alla Leica M6, spesso dotata di grandangolare e mirino esterno di inquadratura.
NEL FILM
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Cinema Ancora Leica M6 motorizzata, usata in una concitata azione di guerra, da dietro un riparo. E relativa immagine scattata.
Ovviamente, Tom Bishop (Brad Pitt) non può esimersi dall’essere al servizio della Cia. Per cui, la fotografia è anche un mezzo di controllo e spionaggio di personaggi mediorientali: sotto la solerte direzione del capo di dipartimento Nathan D. Muir (Robert Redford). Comunque sia e a parte la propria missione da agente segreto, Tom Bishop (Brad Pitt) interpreta con convinzione e partecipazione la propria personalità fotogiornalistica: come in questa sequenza, in un ospedale da campo, di Beirut, in Libano.
vinto fotografo, che allunga la schiera degli attori e registi e uomini di cinema individualmente vicini anche alla fotografia (per citarne alcuni: Charlotte Rampling, Yul Brynner, Jeff Bridges, Peter Sellers, Stanley Kubrick, Diane Keaton, Harold Lloyd, Dennis Hopper, Matthew Modine). Anche le scene di reportage di guerra e combattimento sono adeguatamente ammissibili e accettabili, quantomeno con le doverose superficialità formali che si devono consentire al cinema: che non è affatto realtà, ma sua raffigurazione plausibile. Non è guerra vera e propria, ma guerriglia urbana che impegna fazioni libanesi contrapposte, come le cronache degli anni Settanta e Ottanta (e oltre) hanno raccontato. Da notare, infine, che l’agente della Cia Tom Bishop (Brad Pitt), che in Libano si nasconde dietro la fac-
ciata di fotoreporter inviato, non trascura, né sminuisce, la propria copertura, e definisce il proprio ruolo fotografico con concentrata professionalità: come un fotogiornalista autentico. Questa sfumatura non significa nulla, ma vale la pena considerarla: quantomeno, dal fronte e per il fronte di quella cinematografia statunitense sostanzialmente buonista nei propri intendimenti. Infatti, anche attraverso questa sua etica “fotografica”, Tom Bishop si delinea come eroe perbene, come personaggio positivo, guidato da una morale irrinunciabile. Però, diamine, è un agente segreto, una spia della Cia: stentiamo a condividere questa raffigurazione, alla quale non aderiamo, alla quale non partecipiamo. Non abbiamo mai bisogno di eroi fittizi, ma di comportamenti quotidiani. Il resto, è cinema. ❖
Ricorrenze di Angelo Galantini
GOOGLE RICORDA
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Personalmente, potremmo anche chiamarci fuori, considerato che sul nostro sito www.FOTOgraphiaONLINE.it abbiamo preordinato e confezioniamo coerentemente ricorrenze di date, soprattutto fotografiche. In particolare, sono due le rubriche preposte: una giornaliera, dove segnaliamo date di nascita e morte di fotografi e personaggi legati al mondo della fotografia (e poi, anche una selezionata quantità e qualità di fatti e circostanze); l’altra mensile, dove approfondiamo un accadimento storico in coincidenza di date. Ma questa nostra distinzione, che comunque compone i tratti di una certa differenza e personalità giornalistica, non cambia lo stato di tante cose italiane, tra le quali la poca memoria per i propri personaggi mancati, l’indifferenza per il ricordo, la trascuratezza del passato e della propria Storia. In generale, come nello specifico del piccolo mondo fotografico. Ciò detto, e come abbiamo già avuto modo di appuntare, osserviamo con soddisfazione e piacere la pagina iniziale del motore di ricerca Google, che spesso celebra ricorrenze, personalizzando a conseguenza la propria testata, via via declinata in onore delle personalità (e a volte dei fatti) celebrati in date di riferimento e richiamo. Per esempio, lo scorso dicembre, abbiamo annotato che la pagina iniziale di Google del precedente diciotto novembre aveva onorato la nascita di Louis Jacques Mandé Daguerre (1787), a tutti gli effetti -volente o nolente- il padre ufficiale della fotografia: annuncio del 7 gennaio 1839 e presentazione pubblica il successivo diciannove agosto. Torniamo ora sull’argomento, con due segnalazioni coincidenti: il nove aprile, Google ha ricordato l’anniversario della nascita di Eadweard Muybridge (1830); il successivo quattordici aprile, il centenario della nascita di Robert Doisneau (1912). Per entrambi i personaggi, logotipi dedicati, in reinterpretazioni d’occasione. A parte altri meriti fotografici, acquisiti soprattutto nella fotografia di
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Il nove aprile, la pagina iniziale del motore di ricerca Google ha ricordato l’anniversario della nascita di Eadweard Muybridge (1830), con un filmato in animazione della sua sequenza della corsa del cavallo.
natura e paesaggio, spesso realizzata con visioni stereo tridimensionali (altra storia), Eadweard Muybridge (1830-1904) è considerato il capostipite, se non già addirittura il padre, della fotografia di movimento, che in un certo senso ha preceduto l’animazione del cinema (diciamola così, in consapevole semplificazione). Utilizzando ventiquattro macchine fo-
tografiche collocate parallelamente lungo il tracciato, e attivate dal passaggio consequenziale del soggetto, nel 1878, ha fotografato la corsa di un cavallo, scomponendola in istanti conseguenti e congruenti. Con questa sequenza serrata, dimostra che per un istante tutte le quattro zampe restano sollevate da terra. La leggenda vuole che l’abbia fatto a seguito di una scommessa (sarà!). A seguire, l’attività fotografica di Eadweard Muybridge è stata tutta concentrata sulla scomposizione preordinata e coerente dei movimenti, divisi in due grandi famiglie, che hanno altresì composto la base delle sue pubblicazioni, approdate fino a noi in edizioni via via moderne: soprattutto, The Human Figure in Motion (centosessanta azioni diverse) e Animals in Motion (trentaquattro animali, in centotrentadue azioni diverse). Come accennato, altri hanno prolungato ricerche fotografiche analoghe, con mezzi tecnici via via perfezionati e dedicati: citazioni d’obbligo per ÉtienneJules Marey (1830-1904), che costruì un fotofucile per riprendere gli animali, dotato di lastra circolare con dodici fotogrammi, e Thomas Cowperthwait Eakins (1844-1916), pittore, fotografo, scultore ed educatore artistico statunitense, oggi quotato nel mondo dell’arte e del collezionismo. Con un balzo temporale in avanti, oltre l’Ottocento, non si può non citare anche Harold Eugene “Doc” Edgerton (1903-1990): professore di ingegneria elettrica/elettronica al prestigioso Massachusetts Institute of Technology (Mit), di Cambridge, Massachusetts (Usa), alle porte di Boston. È l’inventore del flash stroboscopico (tanti lampi in una frazione di secondo; brevissima emissione di luce potente) ed ha congelato istanti invisibili all’occhio umano: la pallottola che attraversa una carta da gioco e una mela, la goccia di latte con la propria corona attorno, il piede del calciatore di football che deforma il pallone ovale. Tornando alla celebrazione di Eadweard Muybridge dalla pagina iniziale di Google, dello scorso nove
Ricorrenze Ancora dalla pagina iniziale di Google, nel centenario della nascita di Robert Doisneau: 14 aprile 1912-2012. Il fantastico fotografo parigino è stato evocato attraverso la visualizzazione di sue quattro celebri fotografie, tra le quali non manca il leggendario bacio davanti all’Hotel de Ville, a Parigi, del 1950.
aprile, anniversario della nascita, sottolineiamo che la personalizzazione del logotipo ha attivato un filmato in animazione delle fotografie originarie della corsa del cavallo, del 1878 [pagina accanto]. Invece, nel caso del centenario della nascita di Robert Doisneau, che
Google ha ricordato il quattordici aprile, il logotipo ha sormontato quattro celebri fotografie del noto autore parigino, uno dei massimi esponenti della fotografia che noi amiamo identificare in flânerie: non tanto ricerca di soggetti e situazioni, ma capacità di cogliere quelli e quelle che si incon-
trano nel vagabondare senza meta (apparente). Tra le quattro fotografie di Robert Doisneau [a sinistra], sovrasta quella del leggendario bacio davanti all’Hotel de Ville, a Parigi, del 1950, originariamente scattata per un servizio di Life (Speaking of Pictures... / Parlando di fotografie...), che proiettò il fotografo parigino sul palcoscenico internazionale. Tra l’altro, questo bacio è una delle cinquanta icone della fotografia ben raccontate e abbondantemente commentate nella fantastica raccolta di Hans-Michael Koetzle, recentemente pubblicata da Taschen Verlag in edizione con testi in italiano: appunto, 50 icone della fotografia, che abbiamo presentato lo scorso settembre 2011. Chiusura d’obbligo: onore e merito a Google, che affronta il proprio impegno anche con garbo e distensione, andando oltre i propri compiti strettamente istituzionali. È così che si deve/dovrebbe vivere. Poter vivere. ❖
Ici Bla Bla a cura di Lello Piazza
LA CRISI... MA COS’È QUESTA CRISI? (DELLA FOTOGRAFIA, OVVIAMENTE). Negli Anni Trenta, Rodolfo De Angelis (1893-1965, attore, cantautore, poeta, pianista, compositore, recita la voce che Wikipedia gli dedica) cantava per i teatri Ma cos’è questa Crisi?, scritta per la Depressione americana, ma ancora oggi attuale. L’incipit del motivo è uno dei jingle che il bravissimo Sebastiano Barisoni manda in onda su Radio 24, durante la sua trasmissione Focus Economia. Mi è venuta in mente, leggendo la seguente notizia del dieci aprile scorso. Instagram, la nota applicazione per smartphone e tablet, annuncia di aver raggiunto, in soli due anni (il social network è nato il 6 ottobre 2010), il miliardo di fotografie caricate in Rete, da oltre venticinque milioni di utenti, che postano circa cinque milioni di immagini al giorno. Una notizia del genere ci dovrebbe costringere a profonde riflessioni sull’affermazione, soprattutto sulla bocca degli addetti del settore, che lamenta una crisi della fotografia. Non mi pongo la domanda retorica: quale fotografia? Non me la pongo, perché non può non essere sotto gli occhi di tutti che la fotografia non è mai stata così bene. Non può che essere così, se il nove aprile, Facebook, il gigante inventato da Mark Zuckerberg, annuncia l’acquisizione di Instagram, per un miliardo di dollari. Ricordiamo che l’applicazione offre la possibilità di elaborare immagini: nella versione iPhone, ci sono effetti di sfocatura e filtri vintage, che si possono applicare anche prima di scattare e che ricordano lo stile fotografico degli anni Settanta e Ottanta della fotografia a sviluppo immediato Polaroid e Kodak Instamatic. Ma, sicuramente, la chiave del successo consiste nella possibilità di condividere immediatamente on line il proprio scatto, postandolo su Facebook e/o Twitter o di inviarlo per email. Applicazioni simili a Instagram sono, per esempio, Pinterest, che l’anno scorso ha vinto il premio di Best New Startup dell’anno ai Chrunchies Awards (http://crunchies2011.tech crunch.com/). Pinterest permette di costruire una serie di bacheche in Rete, dalle quali si condividono, discutono, commentano le proprie fo-
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Questa rubrica riporta notizie che sono appartenute alla cronaca. Però, nel loro richiamo e riferimento molti motivi ci impediscono di essere tempestivi quanto la cronaca richiederebbe. Ciononostante riteniamo giusto proporle, perché siamo convinti che non abbiano perso la propria attualità, e continuino a offrire spunti di riflessione. tografie e le fotografie altrui. Un successo di più di undici milioni di utenti. Molto simile è l’applicazione Tumblr, una piattaforma che consente di creare tumblelog, blog più stringati dei normali blog, ma che offrono qualche cosa in più in chiave multimediale. Altro prodotto simile è Pinspire, mentre Chill permette di condividere video. Un’applicazione avvincente per iPhone è Hipstamatic, che permette di simulare gli effetti di varie pellicole e macchine fotografiche. Guardate l’immagine di Benjamin Lowy, premiata ai 28th Annual Icp Infinity Awards, citata nella prossima nota [in basso].
28TH ANNUAL ICP INFINITY AWARDS. Un problema che si presenta con i molti prestigiosi premi che ogni anno, negli Stati Uniti, vengono assegnati all’informazione scritta e visiva riguarda il fatto di darne notizia. Se si volesse essere esaurienti, si dovrebbero dedicare pagine e pagine a ogni premio. Fortunatamente, oggi, esiste il web al quale rimandare coloro i quali vogliono informarsi in modo completo. È questo anche il caso della ventottesima Ai 28th Icp Infinity Awards, Benjamin Lowy (Getty Images) ha vinto il premio per il fotogiornalismo, per il suo reportage realizzato in Libia nel marzo 2011, dove ha scattato con un iPhone, settato sulla applicazione Hipstamatic.
edizione degli International Center of Photography’s Infinity Awards, sui quali si può sapere tutto andando al sito dedicato www.icp.org/sup port-icp/infinity-awards. Noi ci limitiamo a qualche nota di cronaca. Innanzitutto, l’assegnazione del Cornell Capa Award, intitolato al fondatore dell’Icp, fratello di Robert, al fotografo Ai Weiwei, nato a Pechino nel 1957, noto per le sue sculture e per le immagini scattate negli anni Ottanta, a New York. Il premio ha un significato eminentemente politico, perché è stato assegnato a Ai Weiwei dopo che il governo cinese, nell’aprile 2011, lo ha incarcerato per ottantuno giorni e ne ha oscurato il blog. Uno spirito molto diverso da quello che aveva contraddistinto l’assegnazione del precedente Cornell Capa 2011, alla scrittrice e fotogiornalista Ruth Gruber, che in diciannove libri ha descritto con precisione e sentimento la problematica dei rifugiati e delle varie crisi umanitarie. Ruth Gruber ha oggi cento anni. Segnaliamo anche il trentaduenne Benjamin Lowy (Getty Images), vincitore del premio per il fotogiornalismo, per il suo reportage realizzato in Libia nel marzo 2011, durante la rivolta che ha portato alla caduta del dittatore Mu’ammar Gheddafi. La fotografia che presentiamo, tratta dal reportage, è stata scatta con un iPhone, settato sulla applicazione Hipstamatic [qui sotto].
Ici Bla Bla È LA FOTOGRAFIA CHE LI INCASTRA / 1. Siamo alle solite. Relitti umani (disumani), che si sentono potenti perché hanno i fucili a pompa, le bombe a mano, gli elicotteri e i missili che guardano loro le spalle. Relitti umani mandati (sbagliando? non sbagliando?) da un grande paese, gli Stati Uniti, a riportare un briciolo di democrazia in un paese travagliato, l’Afghanistan. Relitti umani che si fanno gioco dei morti. E usano la fotografia per conservare testimonianza di questo gioco. Forse, non avrebbero mai osato farlo con le tradizionali macchine fotografiche analogiche, a pellicola. Quale laboratorio avrebbe potuto mai sviluppare e stampare immagini come quelle di Abu Ghraib, che abbiamo commentato in cronaca, in FOTOgraphia, del giugno 2004? O come quelle di cui parliamo in questa notizia, finite sulla prima pagina del prestigioso Los Angeles Times, del-
(a destra, in basso) Diciassette aprile: rimpatrio di un clandestino tunisino su un volo Alitalia, da Roma. L’indignato passeggero Federico Sperandeo documenta che il clandestino ha i polsi legati con due fascette di plastica e la bocca sigillata con nastro adesivo.
Rivelate dal Los Angeles Times, del diciotto aprile, fotoricordo di soldati statunitensi che profanano cadaveri.
lo scorso diciotto aprile, che narrano di un macabro rito compiuto da alcuni militari statunitensi [a sinistra]. Nel febbraio 2010, in un presidio della polizia afghana, nella provincia di Zabol, vengono portati i resti di un bomber suicida, con lo scopo di rilevare le sue iridi e quel che resta delle sue impronte digitali, per un eventuale riconoscimento. Dopo aver ispezionato i resti, inizia il macabro rito. I militari americani si fanno fotografare accanto a un poliziotto locale, che regge le gambe staccate del suicida come un trofeo di caccia. Qualche mese più tardi, altri militari sono inviati a ispezionare i corpi di altri tre bomber suicidi. Due soldati si fanno fotografare mentre alzano una mano del morto, sulla quale hanno sarcasticamente alzato due dita a V, in segno churchilliano di vittoria. Un altro viene ritratto mentre stringe la mano al morto. Qualcuno fa posare un altro militare dietro un cadavere, reggendo un cartello che dice Zombie Hunter (cacciatore di zombie). Naturalmente, dopo la pubblicazione delle immagini (solo due e non le più scabrose, evidentemente per carità di patria), l’Esercito Usa cosa fa? Apre un’azione legale contro il Los Angeles Times (avete mai visto il Potere che premia chi svela gli scandali?). Non è il primo delitto contro l’Umanità (vi spiace se definisco così questo barbarico comportamento?) che i militari americani commettono in Afghanistan. Solo recentemente, ci sono stati marine che hanno urinato su cadaveri di guerriglieri islamisti (se n’è avuta notizia il diciassette gennaio e la rivelazione ha provocato un’offensiva talebana durata venti ore, con quarantasette morti), copie del corano bruciate (ventuno febbraio, dodici morti qualche giorno dopo), omicidi gratuiti, stupri. D’altra parte, come potrebbero insegnare veramente la nostra democrazia, senza commettere crimini di questo tipo?
ti nei forzieri della Lega, che sono sulle prime pagine di tutti i giornali, tranne La Padania?). Il clandestino ha i polsi legati con due fascette di plastica. E la bocca sigillata con nastro adesivo marrone. Federico Sperandeo, un passeggero che si trova su quel volo, scatta la fotografia che denuncia il fatto [in basso]. Ecco cosa ha dichiarato Federico Sperandeo ai giornali: «Questa è la civiltà e la democrazia europea. Ma più grave è stato che tutto è accaduto nella totale indifferenza dei passeggeri; e alla mia accesa richiesta di trattare in modo umano il prigioniero, mi è stato intimato in modo arrogante di tornare al mio posto, perché si trattava di una normale operazione di polizia... Normale? Comunque, sono riuscito a rubare una fotografia! Fate girare e denunciate!». La Procura di Civitavecchia ha aperto un’indagine: stiamo a vedere come finirà.
È LA FOTOGRAFIA CHE LI INCASTRA / 2. Martedì diciassette aprile, volo Alitalia delle 9,20, che va da Roma a Tunisi. Si rimpatria un nordafricano clandestino, in base alla legge Bossi-Fini (che dire dell’autorevolezza del primo dei due firmatari di questa legge, dopo le lauree del dottor Trota, i lingotti e i diaman-
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Ici Bla Bla PULITZER 2012. Nell’ultima edizione del Pulitzer non sono stati assegnati il premio per la Fiction (narrativa, è l’undicesima volta che accade) e per gli Editorial Writing (articoli editoriali, è la nona volta che accade). Dall’anno in cui è stato assegnato la prima volta, dal 1942, il premio per Photography, non è stato assegnato una sola volta, nel 1946. Tra i premiati di quest’anno, mi limito a segnalarne due, rimandando chi è interessato a saperne di più al sito del premio: www.pulitzer.org/awards/2012. Per la Breaking News Photography è stato premiato l’afghano Massoud Hossaini (Agence France-Presse), per un’immagine che rivela la scena di un attentato suicida a Kabul [qui sotto]. Craig F. Walker, del The Denver Post, ha vinto il premio nella Feature Photography, per il suo lungo reportage sulla situazione dei militari statunitensi rientrati dall’Iraq che presentano menomazioni di vario genere, soprattutto di natura psicologica [in basso]. Craig F. Walker si era già aggiudicato il Pulitzer nel 2010, sempre per la Feature Photography, per un magistrale ritratto di un teenager che si arruola nell’esercito e chiede di andare a combattere in Iraq, alla ricerca di se stesso. Sempre quest’anno, Craig F. Walker si è aggiudicato un altro importante premio. Ne parliamo nella prossima nota.
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LA FOTOGRAFIA DEI SORRISI. La Romania si impossessa di un record, la cui omologazione da parte della World Record Academy è stata annunciata a Bucarest, il venticinque aprile. Si tratta della fotografia con la presenza del più alto numero di bambini che sorridono (oltre cinquecentottanta) [qui sopra]. È stata realizzata lo scorso ottobre, per festeggiare il decennio della creazione del Telefono Azzurro.
POYI’S 2011. Craig F. Walker, premio Pulitzer 2012 per la Feature Photography, è stato anche nominato Photographer of the Year - Newspaper dell’edizione 2011 del Pictures of the Year International, assegnato all’inizio dell’anno. Il lavoro per il quale è stato premiato è lo stesso che gli ha guadagnato il Pulitzer. Anche in questo caso, invito gli interessati agli altri vincitori a visitare il sito: www.poyi.org. Cito anche il vincitore del Photographer of the Year - Freelance / Agency: il fotogiornalista Yuri Kozyrev (Noor Images) è stato premiato per il suo reportage sui ribelli di Ras Lanuf, nella loro battaglia contro le truppe lealiste di Gheddafi (già primo premio Spot News Singles, al World Press Photo 2012; FOTOgraphia, marzo 2012) [qui sopra]. Infine, segnalo ancora il primo premio nella categoria Science / Natural History Picture Story, andato al sudafricano Brent Stirton (Getty Images), per il suo reportage Rhino War, relativo al bracconaggio di rinoceronti, che vengono uccisi per impossessarsi del corno, al quale molti attribuiscono proprietà afrodisiache [in alto]. La colpa non è però soltanto dei bracconieri, ma anche di coloro che credono in queste idiozie.
Yuri Kozyrev (Noor Images): Photographer of the Year Freelance / Agency al PoYi’s 2011, dove Brent Stirton (Getty Images) è stato primo premio Science / Natural History Picture Story (in alto). (in alto, a destra) Oltre cinquecentottanta bambini sorridono in una sola fotografia. (a sinistra) Pulitzer 2012: Massoud Hossaini (Afp), per la Breaking News Photography; Craig F. Walker ( The Denver Post), per la Feature Photography. La Repubblica, del ventuno aprile: nell’inquadratura di Silvio Berlusconi sono inclusi due iPhone che fotografano.
A PROPOSITO DI IPHONE. Se la fotografia non è assolutamente finita, il successo di cui le reflex e le mirrorless a obiettivi intercambiabili professionali godono in questo periodo (si prevede che, entro l’anno, questo comparto supererà quello delle macchine fotografiche a obiettivo fisso) fanno pensare a un futuro roseo anche nel settore merceologico relativo. Ciononostante, la diffusione tra i giornalisti degli smartphone da almeno cinque Megapixel rappresenta un dato di fatto. La loro eccellente qualità fotografica li ha trasformati in ottimi succedanei delle reflex. A sostegno di questa affermazione, proponiamo una fotografia, apparsa sulla prima di Repubblica, del ventuno aprile [al centro, in basso]. Nell’inquadratura sono rimasti intrappolati due iPhone che stanno fotografando l’ex presidente del Consiglio davanti al Tribunale di Milano, ripreso mentre definisce gare di burlesque le cene “eleganti” di Arcore (a proposito del cosiddetto processo Ruby, che vede coinvolto Silvio Berlusconi). Abbiamo già avuto modo di dire che molti fotografi che lavorano sui campi di guerra usano questo strumento, meno ingombrante e appariscente della reflex, per realizzare i propri reportage. Segno dei tempi. ❖
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Partecipa al concorso fotografico TIPA 2012 sul tema di One World - our planet is a single (Un mondo - il nostro pianeta è unico), che si estende a tutti i paesi, tutte le culture e tutti gli esseri umani, che possono essere facilmente in contatto, sia fisicamente (con i mezzi di trasporto) sia via Internet. Fotografi non professionisti e professionisti sono invitati a competere, per premi di 4000,00 e 6000,00 euro, con fotografie che mostrano il nostro pianeta come un bene comune, nel quale ognuno agisce in modo solidale. Tutti i dettagli e le informazioni su come caricare le fotografie partecipanti sono disponibili al sito www.tipa.com.
VARENNA (LECCO): ROYAL VICTORIA HOTEL
SAN REMO (IMPERIA): HOTEL UMBERTO I
Per quanto la nostra odierna riproduzione litografica appiattisca molto in una omogeneità di sostanza, una serie di fotografie di alberghi, realizzate nei decenni dai Trenta ai Cinquanta (deduzione) e finalizzate a una produzione di cartoline illustrate (ancora, deduzione), lascia trasparire massicci interventi di ritocco sulle stampe bianconero originarie. Sì, ingerenze e intromissioni fotografiche che hanno modificato la realtà. Ma, allo stesso momento e per intenzione esplicita, l’hanno interpretata in una logica di finzione fondamentalmente concordata con gli osservatori, con i fruitori. Così può anche non essere, ma così vorremmo che fosse. E crediamo che sia
RITOCCHI
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CONSISTENTI
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di Angelo Galantini
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COMO: ALBERGO FIRENZE
COMO: ALBERGO RISTORANTE BARCHETTA
A
ncora un ritrovamento del Caso. E subito si impongono almeno due considerazioni... almeno due. Una, fondamentale: per quanto il Caso sia autenticamente tale -caso-, in qualche modo e misura è condizionato e indirizzato da azioni originarie. Ovverosia, se si hanno rapporti intimi e sessuali forsennati e incontrollati -diciamola così-, per Caso si possono contrarre malattie infettive e dilaganti; se si entra in una libreria antiquaria, per Caso si possono rintracciare testi e volumi preziosi per la propria esistenza; se si frequentano mercatini dell’usato, per Caso si possono rintracciare oggetti e manufatti di straordinaria stravaganza e singolarità. Due, non certo secondaria: vagando senza meta prestabilita e preordinata, non si cerca nulla in particolare, ma sono gli stessi oggetti che ci vengono incontro, che ci raggiungono (anche nel cuore), che arrivano al fatidico appuntamento. E questo, sia chiaro, vale anche per quella fantastica fotografia flânerie, che ha tracciato solchi indelebili nel linguaggio visivo del secondo Novecento: da Henri Cartier-Bresson a Willy Ronis, da Robert Doisneau all’italiano Gianni Berengo Gardin, a tanti altri autori, sconsideratamente e semplicisticamente ricondotti al fotogiornalismo, senza tenere adeguatamente conto che la fotografia del vero e dal vero ha ben più profonde radici espressive e che -riducendolo così ai minimi termini- il massificato fotogiornalismo finisce per contenere più dissonanze che armonie. Altro discorso, ma gran bel discorso. Rientrando in argomento... ancora un ritrovamento del Caso. In un mercatino antiquario e di modernariato, di quelli che ormai proliferano su tutto il territorio nazionale, spesso spacciando per appetibili orrori del recente passato (anche questo, altro discorso), abbiamo rintracciato e recuperato una preziosa quantità di sessantasei stampe fotografiche bianconero 18x24cm (circa), montate su cartoncino nero di supporto e protette da una carta velina, spesso con cornice bianca di finitura, probabilmente per presentazione accurata, elegante e confortante al proprio cliente (del tempo). Sul retro, l’indicazione di provenienza: un fotolitista o zincografista lombardo del passato remoto, databile nei decenni dai Trenta ai Cinquanta. Le stampe sono abbondantemente e consistentemente ritoccate, fino a una minuziosa cura dei dettagli, spesso benevolmente interpretati, altrettanto frequentemente inventati di sana pianta (soprattutto nelle visioni d’esterno, ricche di cieli fascinosamente nuvolosi). A parte la nostra attuale riproduzione litografica -purtroppo omogeneizzata dal processo standardizzato di stampa della rivista e dalla sua carta-, sarebbe proprio il caso di osservare e valutare gli originali fotografici, che rivelano l’entità e spessore degli interventi di ritocco, disegno e ricostruzione: non potendolo fare, ci si fidi delle nostre considerazioni e osservazioni. Tanto più che, a ben considerare, per quanto estranea alla raffinatezza delle stampe originarie, la nostra riproduzione litografica non nasconde di certo l’essenza degli interventi manuali, assolutamente individuabili, pienamente identificabili. Per quanto deduttivo, l’accertamento di cosa si tratti è presto scoperto e rivelato; di sicuro, si tratta di originali fotografici dai quali sono state ricavate cartoline promozionali dei soggetti illustrati: tutti alberghi di rilievo e prestigio del lungo periodo che si prolunga nei decenni a cavallo della Seconda guerra mondiale. Tenuto conto della collocazione certa della Lombardia, se ne ricava anche l’indicazione di luoghi di vacanza e svago dell’alta borghesia milanese del periodo (anche media, in certi casi): a Nord, verso i Laghi; a sud, sulla riviera ligure.
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BAVENO (VERBANIA): GRAND HOTEL BELLEVUE NERVI (GENOVA): GRANDE ALBERGO VITTORIA
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ACQUI TERME (ALESSANDRIA): ALBERGO VITTORIA
Finalizzato alla finzione (menzogna), il ritocco fotografico mette ordine nel disordine, appiana incoerenze, elimina sconnessioni. Un lungo passo indietro, fin quasi alle origini: il celebre ritrattista parigino Nadar (1820-1910), uno dei più grandi in assoluto della Storia [tra l’altro, in FOTOgraphia, del marzo 2010, nel centenario dalla scomparsa, e su questo stesso numero, da pagina otto], ha sostenuto che il ritocco «a un tempo eccellente e detestabile, apre una nuova era per la fotografia». Appunto: «nuova era per la fotografia»; ancora appunto: «a un tempo eccellente e detestabile». Ovvero, non esistono considerazioni assolute e inderogabili, ma si impongono valutazioni attente e relative. Da cui, giocoforza richiamare l’inutile dibattito che ancora investe l’essenza della fotografia nell’epoca della propria personalità ad acquisizione (e gestione) digitale di immagini. Si è trattato di una rivoluzione di sostanza, con straordinarie implicazioni: molte utilitaristiche, altrettante espressive. Riprendiamo dall’esplicativo saggio 1839-2009. Dalla Relazione di Macedonio Melloni alla svolta di Akio Morita, del nostro direttore Maurizio Rebuzzini. Parliamone al presente. Cosa rappresenta l’acquisizione digitale di immagini? È un fantastico modo di realizzare l’immagine e declinarla, che ha un solo difetto assoluto e di fondo: quello di essere arrivata in un’epoca, per quanto legittima, nella quale pur giustificate esigenze industriali inducono a una massificazione senza solu-
RAPALLO (GENOVA): PENSIONE JOLANDA
RAPALLO (GENOVA): ALBERGO ITALIA
L’esuberante ritocco, spesso sovrabbondante, sempre minuzioso, ha dato vita e visibilità a improbabili cieli nuvolosi, ha ripulito facciate, ha liberato strade e ha impreziosito sale interne. Nulla è reale, per quanto tutto intenda essere realistico. E qui interviene il linguaggio della fotografia quotidiana. Non quella che compone i tratti della propria Storia evolutiva, sintetizzata e raccontata in maniera mirabile da molti, che ne hanno ripercorso gli straordinari passi e tempi, ma quella che definisce qualcosa d’altro, forse di più considerevole e sostanzioso: come e quanto la fotografia interviene nella nostra vita, come spesso sottolineiamo con e da queste nostre note giornalistiche. Nella propria edizione in cartolina, che abbiamo dedotto, queste fotografie di alberghi mentono: non raccontano la realtà effettiva, ma la interpretano e declinano così come il pubblico intende percepirla e fruirne. In coniugazione attuale, si tratta di una finzione che ancora oggi -come sempre- accompagna, fino a definirne i tratti, la fotografia pubblicitaria e promozionale. Ancora, si tratta di una finzione amorevole e teorica, che riscontriamo persino nelle sceneggiature e scenografie delle serie televisive che oggigiorno attraversano tutte le emittenti: non realtà, nuda e cruda, ma dottori premurosi e preoccupati dei propri pazienti, servizi di polizia efficaci e dotati di strumentazioni d’alta tecnologia (a proposito, dopo un Csi qualsiasi, provatevi a frequentare un commissariato italiano di polizia), svolgimenti accomodanti e tanto altro ancora.
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munque da interpretazioni e volontà individuali dell’autore: che stabilisce cosa e quanto includere nella propria inquadratura, cosa e quanto escludere dalla composizione, da che punto osservare e con che prospettiva raffigurare il proprio soggetto. Dunque, in un certo senso, il dibattito sulle possibilità attuali di facile manipolazione è sostanzialmente mal posto. Sollecitati alla considerazione dal ritrovamento di questi fantastici ritocchi di alberghi dei decenni trascorsi, facciamo prezioso tesoro di vivere con una Fotografia definita anche dalla propria falsificazione tecnica... finalizzata al sogno e alla gratificazione di chi ne fruisce. Allora. Non ci scandalizzano questi ritocchi dai quali siamo partiti oggi. Non ci impressionano le manipolazioni possibili e applicabili in atteggiamento digitale. La fotografia è anche fantasia e visione onirica. Laddove non introduce inganni truffaldini, sia condivisa con la serenità con la quale vorremmo convivere giorno per giorno, ora per ora. Quanto è incantevole e magnifico l’ordine tratteggiato dai consistenti ritocchi alla realtà che trasuda dalle fotografie di alberghi che abbiamo rintracciato e recuperato! Quanto è incantevole l’evocazione che queste immagini, in forma popolare di cartolina, hanno trasmesso! Se tutto questo ha rallegrato qualche cuore e qualche animo... la fotografia ha svolto bene uno dei propri mandati. Ha interpretato al meglio una delle proprie funzioni. Niente d’altro. ❖
MILANO: HOTEL NORD
zione di continuità. Alla quale fa immediato seguito una consistente quantità di contraddizioni nei termini. Si abusa delle manipolazioni e interventi sull’immagine? Per certi versi, non tutti, non ce frega niente. Si mente con la Fotografia? Bene! Così facendo, le si restituisce la dignità che le è stata depredata dall’orrenda qualifica di oggettività realistica. Si mente a parole, perché non si dovrebbe farlo, poterlo fare, anche con le immagini? Ovviamente, da questo escludiamo l’inganno giornalistico. Se una fotografia di cronaca dovesse essere manipolata, il pubblico deve esserne informato, messo sull’avviso; deve essere avvertito che si tratta di una “illustrazione”, alla maniera, per intenderci, delle tavole di Walter Molino sulle copertine delle Domenica del Corriere di buona memoria. Siccome personalmente non ci schieriamo mai con nessuno, figuratevi se ci associamo ai puristi assoluti, che considerano l’immagine sacra e inviolabile (a proposito, W. Eugene Smith, valutato uno dei padri del fotoreportage di impegno, anche sociale, non ha mai disdegnato di modificare in camera oscura alcune proprie inquadrature). Del resto, ancora prima di pensare a interventi modificatori, oggi in comoda e semplice postproduzione digitale, ieri l’altro in subordine a capacità individuali in camera oscura e dintorni (come sottolineano, evidenziandolo, le fotografie di alberghi qui presentate), bisogna annotare che la fotografia dipende co-
STORIA GIA Tre consistenti monografie colmano il vuoto che per decenni ha confinato la fotografia giapponese nel mistero e nella non conoscenza, quantomeno in occidente: The History of Japanese Photography, Photography in Japan 1853-1912 e Les livres de photographies japonais des années 1960 et 1970. Ognuna per sé, le tre monografie riportano e rivelano la straordinarietà di una esperienza fotografica che si è espressa indipendentemente da altri svolgimenti (occidentali). Ognuna per sé, le tre monografie affrontano il proprio racconto con punti di vista autonomi
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APPONESE di Maurizio Rebuzzini
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gni volta che se ne presenta l’occasione -in incontri pubblici, in lezioni accademiche-, sottolineo una condizione assoluta e sovrastante della Storia della fotografia, che ovviamente si è manifestata come tale, ma -per certi versi- non è stata effettivamente scritta. Per esempio, e soprattutto, dal suo racconto mancano sempre l’Est europeo, il Sudamerica e l’Oriente (anche se da qualche tempo si parla di Cina, in relazione alla creatività contemporanea). In assoluto, il resoconto della storia della fotografia è penalizzato da orientamenti geografici, politici e ideologici, oltre che da gusti individuali. In sovramercato, non si può ignorare che la Storia nel proprio insieme è comunque Storia dell’emisfero Nord e del mondo occidentale, che ancora condiziona visioni e concezioni assolute. Per quanto possiamo essere consapevoli che in fotografia ciò che non è stato raccontato non ha ragionevolmente influito sui grandi equilibri (perlomeno nella propria codificazione comunemente adottata e accettata: per lo più, americanocentrica), è pur sempre degno di attenzione e considerazione: oggi, più che mai. Bisogna assolutamente distinguere tra quelli che sono stati i fatti reali e il modo nel quale alcuni storici possono averli tramandati.
The History of Japanese Photography; a cura di Anne Wilkes Tucker, Dana Friis-Hansen, Kaneko Ryuichi e Takeba Joe, con saggi introduttivi di Iizawa Kotaro e Kinoshita Naoyuki; Yale University Press, 2003; 432 pagine 24x30,5cm, cartonato con sovraccoperta. Photography in Japan 1853-1912; a cura di Terry Bennett; Tuttle Publishing, 2006; 320 pagine 22,8x30,5cm; cartonato con sovraccoperta. Les livres de photographies japonais des années 1960 et 1970; a cura di Ryûichi Kaneko e Ivan Vartanian; Seuil, 2009; 240 pagine 22,8x30,5cm; cartonato.
(centro pagina) Kusakabe Kimbei: 16. Girl in Heavy Storm; 1880 circa; stampa all’albumina colorata a mano (da Photography in Japan 1853-1912).
FOTOGRAFIA GIAPPONESE Curiosamente pubblicate a tre anni di distanza l’una dall’altra, dal 2003 al 2006 e 2009, tre consistenti e robuste monografie (anche in senso fisico editoriale) hanno colmato il vuoto che per decenni ha confinato la fotografia giapponese nel mistero e nella non conoscenza, quantomeno in occidente. Ognuna per sé, le tre monografie riportano e rivelano la straordinarietà di una esperienza fotogra-
(pagina accanto) Yokoyama Matsusaburō: Portrait of Watanabe Kōhei; 1882 circa; stampa intelaiata all’albumina, dipinta a olio sul retro (da The History of Japanese Photography).
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fica che si è espressa soprattutto indipendentemente da altri svolgimenti (occidentali). Ognuna per sé, le tre monografie affrontano il proprio racconto con punti di vista autonomi. Ognuna per sé, le tre monografie compensano colpevoli lacune nel resoconto complessivo della Storia della fotografia. Ancora, e in straordinaria comunità di intenti, sebbene non sia stato fatto intenzionalmente, le tre monografie scandiscono tempi che si aggiungono e assommano gli uni agli altri, sottolineano e rimarcano esperienze autonome, che alla fine confluiscono in un’unica narrazione omogenea e ben scandita. In associazione con il Museum of Fine Arts, di Houston, nel 2003, la statunitense Yale University Press ha pubblicato una compendiosa The History of Japanese Photography (quattrocentotrentadue pagine 24x30,5cm, cartonato con sovraccoperta; cinquanta illustrazioni in bianconero e trecentocinquantasei a colori). A cura di Anne Wilkes Tucker, Dana Friis-Hansen, Kaneko Ryuichi e Takeba Joe, con saggi introduttivi di Iizawa Kotaro e Kinoshita Naoyuki, questa History of Japanese Photography percorre e scandisce i tempi fotografici dalle origini, all’indomani della scoperta, fino ai nostri giorni. Quindi, sono esemplari i ben confezionati casellari conclusivi, scomposti sia per data, sia per autori, sia per individuati movimenti espressivi e culturali. In una idea: opera totale e omnicomprensiva del tragitto della fotografia giapponese, con illustrazioni ben allestite e ottimamente presentate (anche dal punto di vista raffinatamente formale). Tre anni dopo, nel 2006, l’inglese Tuttle Publishing ha editato un’altrettanto efficace Photography in Japan 1853-1912 (trecentoventi pagiNadar: Members of the 1864 Ikeda Mission to France; 1864; stampa all’albumina (da Photography in Japan 1853-1912).
Ueno Hikoma: European teacher and students; 1869; stampa all’albumina (da The History of Japanese Photography).
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ne 22,8x30,5cm; cartonato con sovraccoperta). A cura di Terry Bennett, e limitatamente al periodo specificato nel titolo, che si conclude nel primo decennio del Novecento, si tratta di un’opera che allarga le proprie visioni alla presenza di fotografi occidentali in territorio nipponico. Tra questi, non mancano le segnalazioni di Felice Beato (per l’occasione e opportunamente Felix Beato) e del vicentino Adolfo Farsari, spesso ignorato, ma recentemente celebrato nella e dalla consistente mostra East Zone. Antonio Beato, Felice Beato e Adolfo Farsari: fotografi veneti attraverso l’Oriente dell’Ottocento, esposta fino allo scorso Primo aprile a Villa Contarini, di Piazzola sul Brenta, in provincia di Padova [FOTOgraphia, febbraio 2012]. Quindi, nel 2009, il parigino Seuil ha pubblicato un casellario fondante: Les livres de photographies japonais des années 1960 et 1970 (duecentoquaranta pagine 22,8x30,5cm; cartonato). A cura di Ryûichi Kaneko e Ivan Vartanian, sono censite le monografie di autori giapponesi moderni, realizzate in due decenni edificanti e costruenti della fotografia contemporanea, durante i quali molti fotografi giapponesi hanno frantumato l’isolamento culturale del proprio paese, per proiettare la propria espressività e creatività sull’intero panorama globale della fotografia internazionale, arrivando anche a influenzarne gli orientamenti e le posizioni culturali. Tra i tanti, citazioni d’obbligo per Yasuhiro Ishimoto, Eikō Hosoe, Shōmei Tōmatsu, Kishin Shinoyama, Nobuyoshi Araki, Daidō Moriyama e Issei Ishiuchi.
RESOCONTI COMPLEMENTARI Le tre monografie dalle quali ricavare e ottenere una visione adeguatamente esaustiva ed esauYamamoto Kansuke: senza titolo (variante di Bird Cage of the Temple); 1940; stampa bianconero virata (da The History of Japanese Photography).
Suzuki Shinichi I: Sword Sharpener; inizio anni Settanta dell’Ottocento; stampa all’albumina colorata a mano (da Photography in Japan 1853-1912).
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riente della fotografia giapponese nel proprio insieme e complesso, comprensiva delle tappe del percorso storico, passo a passo, sono mirabilmente diverse tra loro, tanto non sovrapporsi affatto (se non per qualche tratto comune tra The History of Japanese Photography e Photography in Japan 1853-1912: meno di quanto potrebbe apparire dall’identità delle vicende originarie). In particolare, proprio Photography in Japan 1853-1912 ha il consistente merito di osservare non soltanto le tematiche interne, ma di valutare la proiezione all’esterno delle fotografie del Giappone dell’Ottocento, realizzate sia da autori nazionali sia (e soprattutto) da studi professionali condotti e gestiti da stranieri. Per quanto raramente (e immotivatamente) escluse da molti racconti storici della fotografia, queste immagini sono anche lo specchio di una condizione sociale per noi irrinunciabile e sistematicamente perseguita con le nostre note giornalistiche: come e quanto la fotografia ha influenzato la vita nel proprio insieme e complesso. Da cui, all’alba del proprio cammino, dalla metà dell’Ottocento, la Fotografia (maiuscola volontaria e consapevole) ha subito rivelato una capacità della propria rappresentazione visiva: quella di superare spazi geografici (alla quale si aggiunge quella di superare il Tempo, congelandolo). La fotografia ha rivelato e mostrato mondi e luoghi lontani, visti e osservati attraverso le sue avvincenti raffigurazioni. Sicuramente, le fotografie ottocentesche del lontano e misterioso paese, arrivate in Occidente, contribuirono e contribuiscono ancora a plasmare l’immaginario collettivo contemporaneo riguardo il Giappone medievale. Per quanto apparentemente sovrapposto, quanAutore anonimo: Francis Guillemard and Party at Kamakura; luglio 1882; stampa all’albumina (da Photography in Japan 1853-1912).
Yamamoto Studio: Women Spinning; anni Settanta dell’Ottocento; stampa all’albumina colorata a mano (da Photography in Japan 1853-1912).
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tomeno fino al primo decennio del Novecento, il racconto di The History of Japanese Photography è completamente diverso. In modo autonomo, il cammino non si pone mete di carattere sociale e globale, affrontate invece da Photography in Japan 1853-1912 (magari anche non intenzionalmente, ma così alla fin fine risulta). In maniera se possibile più “fotografica”, esclusivamente “fotografica”, The History of Japanese Photography è autenticamente e effettivamente questo: storia della fotografia giapponese. Dunque, si tratta di un resoconto in un certo senso autoreferenziale (diciamola così), che dà risalto esattamente all’itinerario proposto, andando a rimarcare ed evidenziare i tratti che hanno definito le tappe espressive e linguistiche della fotografia giapponese. Scandito da immagini cadenzate per anni in costante consecuzione temporale, il ritmo di questa relazione temporale sottolinea in maniera efficace l’evoluzione creativa, annotandone al contempo l’assorbimento di influenze esterne, tutte prontamente declinate (rideclinate?) in base alla millenaria cultura visiva giapponese, così tanto autonoma rispetto quella occidentale. Fino al punto che, se così volessimo intenderla (e probabilmente lo vogliamo proprio), alla luce di questa cadenza, potremmo considerare la storia della fotografia giapponese integrativa a quella complessiva che conosciamo (o dovremmo conoscere, quantomeno). Sì, è vero: la fotografia giapponese storica non ha influito percettibilmente su quella occidentale, ma si è espressa in una autonomia di intenti e raffigurazioni che delineano i tratti indiscutibili di un’altra fantastica Storia. Anche questa da conoscere. Hirai Terushichi: Life; 1938; stampa bianconero colorata a mano (da The History of Japanese Photography).
T. Enami Photographic Studio; 1910 circa; cartolina illustrata da stampa bianconero colorata a mano (da Photography in Japan 1853-1912).
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GLI ANNI SESSANTA E SETTANTA
Con tutte le proprie contraddizioni, non soltanto personalità, gli anni Sessanta e Settanta del Novecento hanno rappresentato una indiscutibile tappa sociale dell’intero nostro mondo. Tra tanto, e dal limitato punto di vista soltanto fotografico, oggi puntato a Oriente, sono stati gli anni nei quali la fotografia giapponese si è prepotentemente affacciata sul panorama internazionale. Complici mille fattori sovrastanti (tra i quali anche i Giochi Olimpici di Tokyo, del 1964?), le monografie di autori giapponesi, convenientemente censite nell’ottimo casellario Les livres de photographies japonais des années 1960 et 1970, sono state folgoranti e hanno rivelato la dinamicità e vivacità di un mondo fotografico precedentemente poco conosciuto. La confezione di questa monografia riprende uno stilema che da tempo attraversa la cronistoria della fotografia. Non immagini in quanto tali, scollegate da qualsivoglia contesto editoriale (e/o giornalistico), ma edizioni librarie convenientemente presentate. Questa narrazione del 2009 riprende i connotati di altre che l’hanno preceduta temporalmente, stabilendo un autentico stile redazionale. Così che, ricordiamo ancora e anche qui quelli che possiamo conteggiare come fatti e antefatti in forma di casellario fotografico. Per quanto l’ottimo Fotografi A-Z, a cura di Hans-Michael Koetzle, in edizione italiana di Taschen Verlag, sia temporalmente successivo (2011; in FOTOgraphia del maggio 2011), altri titoli sono precedenti al 2009 di Les livres de photographies japonais des années 1960 et 1970, del quale stiamo riferendo. Quindi, in un certo senso, le edizioni di raccolte di fotografie presentate nel-
Hamaya Hiroshi: Woman planting rice, Toyama; 1955; stampa bianconero (da The History of Japanese Photography).
Horino Masao: May 1, 1932; stampa bianconero (da The History of Japanese Photography).
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la propria pubblicazione originaria raggiungono il proprio culmine alla fine del 2005, con la significativa selezione Things as They Are - Photojournalism in Context Since 1955, grandioso volume pubblicato in occasione del cinquantesimo anniversario del World Press Photo (a cura di Mary Panzer; Chris Boot, 2005; trecentottantaquattro pagine 23x30cm [FOTOgraphia, aprile 2006]). Altri titoli analoghi sono presto segnalati: The Book of 101 Books, a cura di Andrew Roth (Seminal Photographic Books of the Twentieth Century, ovvero catalogazione dei libri fotografici del Ventesimo secolo; PPP Editions, 2001; trecentoventi pagine 24x29cm); Kiosk (Eine Geschichte der Fotoreportage 1839-1973, catalogo dell’omonima mostra al Museum Ludwig, di Colonia; Steidl, 2001; trecentoventi pagine 25x28cm); Fotografía pública (Museo Nacional Centro de Arte Reina Sofia, 2000; duecentosettantaquattro pagine 25x28cm); The Photobook: A History (due volumi curati da Martin Parr e Gerry Badger; Phaidon Press, 2004 e 2006; ciascuno trecentoventi pagine 25x29cm). Moderatamente e marginalmente presenti in altri ordinamenti, gli autori giapponesi moderni, che hanno pubblicato negli anni Sessanta e Settanta, sono protagonisti assoluti Les livres de photographies japonais des années 1960 et 1970. Quindi, in conclusione (d’obbligo): tre monografie rivelano il prezioso dietro-le-quinte della fotografia giapponese. Volumi indispensabili, non soltanto necessari, per colmare un vuoto storico immotivato: The History of Japanese Photography, Photography in Japan 1853-1912 e Les livres de photographies japonais des années 1960 et 1970. Tre osservazioni avvincenti, complementari ciascuna alle altre. ❖
Ichirō Kojima: Tsugaru; 1963 (da Les livres de photographies japonais des années 1960 et 1970).
Yasuhiro Yoshioka: Yasuhiro Yoshioka; 1963 (da Les livres de photographies japonais des années 1960 et 1970).
Daidō Moriyama: Théâtre japonais; 1968 (da Les livres de photographies japonais des années 1960 et 1970).
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a cura di Filippo Rebuzzini e Maurizio Rebuzzini; trentadue visioni piÚ una, con accompagnamento di centonovantotto altre pose che rivelano lo splendore dell’epopea di Betty Page; Graphia, 2011; 88 pagine 16,5x23cm; 18,00 euro.
STENOPEICO
ITALIANO di Antonio Bordoni
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ell’ambito delle tante produzioni artigianali di apparati per fotografia con foro stenopeico, ché definirli “apparecchi” è fuori luogo e fuorviante, quella del toscano Samuele Piccoli, di Pistoia, è a dir poco esemplare. Là dove altri indirizzi internazionali hanno puntato a distinzioni di ordine formale ed estetico, la gamma StenopeiKa va subito e prontamente al punto: raggiunge una coinvolgente e utile efficacia, senza perdersi per strada, senza inutili ornamenti superflui. Insomma, se fotografia stenopeica deve essere, l’assenza di obiettivo di ripresa esige un’analoga assenza di vanità. Evviva: nulla, oltre le strette necessità basilari. Ben presentata sul sito www.stenopeika.com, comprensivo di efficaci sezioni di orientamento (e acquisto!), la gamma StenopeiKa è sintetizzabile in quattro linee conduttrici: per pellicola 35mm, per pellicola a rullo 120, per pellicole piane grande formato e Professional. Tutte le costruzioni sono in legno e dispongono di foro stenopeico calibrato, congeniale alla costruzione (tiraggio al piano focale, che corrisponde alla focale equivalente), con oscuramento e liberazione semplificati. In generale, la pellicola 135 e il rullo 120 si inseriscono previa separazione del dorso, assicurato alla struttura da una robusta e considerevole combinazione vite a farfalla di pratica gestione; innesto per treppiedi, passo standardizzato 1/4 di pollice. Al solito, con ordine. Arrivata alla sua seconda edizione produttiva, la StenopeiKa 135, per fotogrammi 24x36mm, dispone di un foro stenopeico di 0,20mm, che sul tiraggio/focale 25mm corrisponde al diaframma f/125: 95x130x55mm, 350g; 90,00 euro. L’altrettanto seconda edizione della StenopeiKa 135 Multiformato conferma e replica la sostanza dei termini tecnici appena riferiti (foro da 0,20mm, focale equivalente 25mm, diaframma f/125), in una costruzione che prevede la possibilità di selezionare due formati di esposizione: anche inquadratura panorama 24x64mm, oltre il fotogramma standard 24x36mm [a pagina 44]. Le dimensioni di ingombro sono proporzionalmente incrementate: 95x190x55mm, 400g; 95,00 euro.
A Pistoia, Samuele Piccoli ha attivato una efficace produzione di apparecchi a foro stenopeico. La gamma StenopeiKa si estende da configurazioni per pellicola 35mm -persino stereo- a dotazioni per pellicola a rullo 120 e approda a ogni grande formato, dal 4x5 pollici all’8x10 pollici. Tanti i modelli, altrettante le opportunità di interpretazione fotografica, immancabilmente senza obiettivo
Come rivela l’identificazione esplicita, chiara e diretta, la StenopeiKa 135 Stereo è configurata per esporre simultaneamente due fotogrammi 24x36mm accostati, in (successiva) restituzione 3D stereo, su una porzione di pellicola 35mm 24x95mm [a pagina 46]. Ancora, foro stenopeico di 0,20mm, tiraggio/focale 25mm e diaframma corrispondente f/125: 200x85x55mm, 500g; 95,00 euro. Sei, le configurazioni per pellicola a rullo 120, a partire dalle seconde edizioni delle dotazioni per rispettive sedici esposizioni 4,5x6cm e dodici pose 6x6cm. Ancora si replica la sostanza delle dotazioni per pellicola 35mm, con tiraggio/focale 25mm e diaframma corrispondente f/125: ma con copertura di un fotogramma di dimensioni ge-
StenopeiKa 6x9 Multiformato Professional: foro stenopeico di 0,30mm, focale 45mm, diaframma f/150, per otto pose 6x9cm, dodici pose 6x6cm o sedici pose 4,5x6cm; con otturatore meccanico a molla.
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nerosamente superiori; dunque, con i medio formati 4,5x6cm e 6x6cm, il grandangolare spinto sul formato 24x36mm diventa un sostanzioso grandangolare estremo (ipergrandangolare). Da cui, StenopeiKa 6x4,5 (135x110x65mm, 450g; 90,00 euro) e StenopeiKa 6x6 (155x110x65mm, 450g; 90,00 euro). Accostiamo assieme anche le seconde edizioni delle StenopeiKa 6x9 Multiformato e 6x12 Multiformato, che offrono entrambe la possibilità di selezionare il medio formato di esposizione sulla pellicola a rullo 120, fino alle rispettive massime dimensioni: otto pose 6x9cm, dodici pose 6x6cm e sedici po-
ARBITRARIETÀ STENOPEICA
Spesso ospitata su queste pagine (troppo spesso?), quella stenopeica è una delle più affascinanti applicazioni della fotografia: oltre le necessità della vita quotidiana, ci deve essere qualcosa di più! Quella del foro stenopeico è una storia antica, dai confini sfumati, che abbiamo rievocato in tempi recenti, sul nostro numero dello scorso marzo (con copertina di richiamo), a margine della presentazione di due manifestazioni immediatamente consecutive, a Tolmezzo, in provincia di Udine, e a Senigallia, in provincia di Ancona. Il princìpio della visione con foro stenopeico può essere individuato nell’antichità; si perde nella notte dei tempi; addirittura, si hanno testimonianze databili al quinto secolo avanti Cristo. Ma è durante il Sedicesimo secolo che vengono costruite autentiche camere obscure portatili, per lo più usate dai pittori di paesaggio e di architettura per ricostruire la più corretta fuga prospettica. Siccome la visione attraverso il foro stenopeico sta all’origine della formazione delle immagini, usando materiali traslucidi che raccoglievano la sua proiezione elementare, a partire dal Rinascimento (ovverosia dalle prime teorizzazioni di prospettiva), i pittori riuscivano così a tracciare gli scenari inquadrati in modo da formare le basi dei propri dipinti. Non più necessario, non più indispensabile, oggigiorno il foro stenopeico (ri)conquista la ribalta pubblica per due motivi. Anzitutto, in relazione all’analisi del procedimento ottico-chimico elementare. Dopo di che, si può ipotizzare il gusto del passo indietro, della sperimentazione e dell’arbitrarietà fotografica, che ha pure propri riscontri nel campo dell’arte: pensiamo soprattutto all’italiano Paolo Gioli, la cui squisitezza espressiva ha elevato di rango il valore estetico e contenutistico della fotografia a foro stenopeico. A partire dal concetto che un foro stenopeico produce una immagine sempre a fuoco, a qualsiasi distanza, rimane il fatto che esiste comunque un tiraggio ottimale che dipende dal diametro dello stesso foro. Per quanto più piccolo sia il diametro, tanto più alta sia la nitidezza dell’immagine, non si può arrivare a un diametro eccessivamente piccolo, perché -oltre un certo limitesi producono quei fenomeni di diffrazione che disturbano o impediscono la formazione dell’immagine. Diversi sperimentatori hanno studiato in profondità la teoria del foro stenopeico, approdando a proprie formule che stabiliscono il tiraggio ideale per ogni diametro dello stesso foro, oppure -ed è lo stesso- il diametro ideale per ogni tiraggio al piano focale. Le singole valutazioni arrivano a conclusioni mai coincidenti; ma noi non vogliamo entrare nel merito della questione, quantomeno non lo vogliamo fare oggi. In questo momento, ci basta registrare l’esistenza di posizioni divergenti, che allontanano le conclusioni del francese Jules Combe (1899), fatte proprie da Luigi Sassi, autore del prezioso manuale La Fotografia senza Obiettivo (Ulrico Hoepli; Milano, 1905), da quelle del contemporaneo Colson (1891), adottate dall’Enciclopedia Fotografica, di Rodolfo Namias (Il Progresso Fotografico, sesta edizione; Milano, 1919), e da quelle dei moderni Jim Shull (in The Hole Thing; New York, 1974),
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Eric Renner (in Pinhole Photography; Boston, 1995) e Leslie Stroebel (in View Camera Technique, quinta edizione, Boston, 1986: più che nell’approssimativa traduzione L’uso della macchina professionale; Milano, 1973). In tutti i casi, ciascuno annoti che si tratta sempre e comunque di diametri che vanno da 0,2 a 0,7mm; e che si tratta sempre di fori da praticare con estrema precisione. Per quanto il gioco individuale non ponga limite alcuno, e dunque vanno bene tutti i consigli per eseguire fori artigianali su lastre di metallo dolce o su fogli di stagnola, magari usando semplici aghi da cucito, l’eventuale professionalizzazione impone attenzioni diverse. Sperimentalmente, il sistema migliore per produrre fori di piccolo diametro è risultata l’elettroerosione, che preserva lo stesso foro da dannose sbavature. Comunque sia, riprendendo valutazioni già espresse in precedenza, ma la ripetizione si impone, la magia del foro stenopeico, che forma immagini proiettate di straordinario fascino, conferma ancora indiscutibili valori espressivi. Perfino ai nostri odierni tempi tecnologici, caratterizzati e definiti da esuberanti compagnie della vita quotidiana, l’azione primitiva del foro stenopeico coinvolge e seduce. Per un attimo, che si fissa indelebilmente nel cuore e animo di ciascuno, dove rimarrà custodito per sempre, pronto a tornare in superficie per evocare vibranti emozioni, la proiezione del foro stenopeico, così come la creazione di una immagine fotografica (chimica o digitale, poco conta), surclassa tutto. Non ci sono più telefonini portatili, lettori di musica, effetti speciali e programmi televisivi senza soluzione di continuità: c’è solo “la natura che si fa di sé medesima pittrice” (espressione presa a prestito da evocazioni antiche, dell’epoca nella quale alcuni pionieri sperimentavano le strade chimiche della formazione automatica di immagini: che poi avremmo definito “fotografia”).
La nostra più recente riflessione sul foro stenopeico: in FOTOgraphia dello scorso marzo, con l’occasione delle manifestazioni a tema di Tolmezzo e Senigallia.
se 4,5x6cm, nel primo caso; sei pose 6x12cm e otto pose 6x8cm, nel secondo. Entrambe le configurazioni sono dotate di foro stenopeico calibrato di 0,30mm, che sul tiraggio/focale 45mm (sostanziosamente grandangolare, sempre in relazione autonoma ai rispettivi formati di esposizione) equivale all’apertura f/150 di diaframma. Da cui, StenopeiKa 6x9 Multiformato (200x115x85mm, 800g; 130,00 euro [in basso, a destra]) e StenopeiKa 6x12 Multiformato (230x105x80mm, 800g; 140,00 euro). Oltre queste quattro dotazioni sostanzialmente standardizzate, in rispetto della propria gamma, per la pellicola a rullo 120 sono previste e disponibili due configurazioni particolari. Costruttivamente in linea con la produzione, la StenopeiKa 6x18 Anamorfa presenta e offre un angolo di campo non rettilineo, per l’appunto definibile anamorfico [FOTO graphia, luglio 2000]. In dipendenza di un caricamento della pellicola all’interno del corpo macchina inconsueto e volontariamente alterato, si ottiene un piano immagine a tronco di piramide a base circolare, sostanzialmente diverso dalla consueta piramide a base rettangolare con vertice all’obiettivo (o foro stenopeico, come è il caso di questo sistema fotografico): al quale corrisponde, per l’appunto, una raffigurazione anamorfica del soggetto, definita da una combinazione alterata di angoli di campo/visione (semplifichiamola così). Il fotogramma 6x18cm su pellicola a rullo 120 (quattro pose) è esposto con foro stenopeico decentrato di 0,30mm, al quale riferire il diaframma f/150 sul tiraggio base medio 45mm: 100x95x120mm, 650g; 125,00 euro [a pagina 46]. A seguire, la particolarità fotografica della StenopeiKa 6x18 Wide Angle è sottolineata da una co-
struzione vivace, con finiture ad alto contrasto visivo blu-giallo. Finalizzata a quattro esposizioni panorama 6x18cm, la pellicola a rullo 120 non scorre su un piano, ma è collocata curva, in modo da ottenere una distribuzione omogenea della luce proiettata sull’intero ampio fotogramma. Sul tiraggio/focale di soli 40mm, che definiscono una visione fortemente grandangolare destra-sinistra, lungo l’orizzonte, il foro stenopeico calibrato di 0,50mm equivale a un diaframma f/180: 210x105x125mm, 1kg; 150,00 euro. Per la fotografia grande formato, con pellicola piana, sono previste tre versioni per il 4x5 pollici (con estensioni per raggiungere diverse focali equivalenti), una 13x18cm e una 8x10 pollici. Il discorso 4x5
Tre configurazioni StenopeiKa 4x5 pollici: tiraggio/focale 40mm, 65mm e 90mm. (pagina accanto) StenopeiKa 135 Multiformato: foro stenopeico di 0,20mm, focale 25mm, diaframma f/125, per fotogrammi 24x36mm e 24x64mm. StenopeiKa 6x9 Multiformato: foro stenopeico di 0,30mm, focale 45mm, diaframma f/150, per otto pose 6x9cm, dodici pose 6x6cm o sedici pose 4,5x6cm.
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StenopeiKa 135 Stereo: foro stenopeico doppio di 0,20mm, focale 25mm, diaframma f/125, per due fotogrammi 24x36mm stereo accostati.
StenopeiKa 6x18 Anamorfa: foro stenopeico decentrato di 0,30mm, focale media 45mm, diaframma f/150, per quattro pose 6x18cm anamorfiche.
Edizione speciale StenopeiKa 135 Fantasy, con livrea personalizzata.
pollici (10,2x12,7cm) è composito: oltre a prevedere l’impiego di châssis in formato e magazzini portapellicola Polaroid, rispettivamente per pellicola piana o filmpack a sviluppo immediato (ammesso che siano ancora reperibili sul mercato), tutte alla propria terza versione, le tre configurazioni si integrano tra loro [a pagina 45]. Si esordisce con la StenopeiKa 4x5 / 40: sul cui tiraggio specificato, appunto 40mm (visione grandangolare equivalente al 12mm sul formato 24x36mm!), il foro stenopeico di 0,15mm definisce il diaframma f/266: 162x155x65mm, 450g; 90,00 euro. Da qui, si passa alla StenopeiKa 4x5 / 65, con foro stenopeico di 0,20mm e visione grandangolare equivalente alla focale 21mm sul formato 24x36mm (diaframma f/325): 162x155x90mm, 650g; 120,00 euro. E poi si approda alla StenopeiKa 4x5 / 90, con foro stenopeico di 0,30mm (diaframma f/300): 162x155x115mm, 850g; 145 euro. Attenzione: fatto salvo di dover cambiare di volta in volta il foro stenopeico in relazione al tiraggio/focale (è consigliato, ma non obbligatorio), moduli di estensione permettono di assemblare ognuna dotazione prevista. La StenopeiKa 4x5 / 40 si trasforma in 4x5 / 65 e 4x5 / 90, così come la StenopeiKa 4x5 / 65
contiene la 4x5 / 40 e può diventare 4x5 / 90 e la StenopeiKa 4x5 / 90 contiene le 4x5 / 65 e 4x5 / 40. Entrambe alla seconda edizione, le ulteriori StenopeiKa 5x7 (13x18cm / 5x7 pollici - 12,7x17,8cm) e StenopeiKa 8x10 utilizzano a propria volta châssis portapellicola in formato. Per il 5x7 pollici / 13x18cm, si ha un foro stenopeico calibrato di 0,30mm, che sul tiraggio generosamente grandangolare di 90mm (equivalente al 18mm sul fotogramma 24x36mm) produce un diaframma f/300: 190x210x105mm, 1,1kg; 125,00 euro. Quindi, è prevista una estensione 140mm, per un tiraggio/focale complessivo di 230mm. Per il massimo 18x24cm / 8x10 pollici (20,4x25,4cm), si ha un foro stenopeico calibrato di 0,40mm, che sul tiraggio 150mm (equivalente alla focale 24mm del piccolo formato 24x36mm) produce un diaframma f/370: 270x290x200mm, 1,85kg; 170,00 euro.
In versione per esposizioni 6x6cm e 6x9cm Multiformato sulla pellicola a rullo 120, le due StenopeiKa Professional dispongono di un otturatore meccanico a molla, utilizzabile con flessibile, di una slitta porta livella e di molle per la tensione della pellicola sul piano focale. Le note tecniche riprendono valori già noti, ma da ripetere. StenopeiKa 6x6 Professional (seconda edizione): foro stenopeico calibrato di 0,20mm, focale 25mm, diaframma f/125, per dodici pose 6x6cm (155x110x65mm, 500g; 120,00 euro). StenopeiKa 6x9 Multiformato Professional (seconda edizione [a pagina 43]): foro stenopeico calibrato di 0,30mm, focale 45mm, diaframma f/150, per otto pose 6x9cm, dodici pose 6x6cm o sedici pose 4,5x6cm (200x115x85mm, 800g; 165,00 euro). Ancora, e in conclusione, sono previste edizioni speciali con disegni personalizzabili sul frontale di tutti i modelli [qui accanto]. Per ogni ulteriore dettaglio e per la galleria di autori: www.stenopeika.com. ❖
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MAO 2, 2010. COLLAGE
E SMALTO SU TAVOLA,
80X160cm (DUE
ELEMENTI,
80X80cm
CIASCUNO)
VISIONI
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EVOCATE
Non si tratta di fotografia, ne siamo consapevoli, ma di una saggia espressione pittorica che si iscrive nell’ampio (e contraddittorio) contenitore della Packaging Art. Il bravo e convincente Giordano Redaelli sollecita l’apertura intellettiva che ciascun appassionato di fotografia deve (dovrebbe) possedere. I suoi insistenti e tenaci allineamenti tra la figura dominante, in silhouette, e la texture di fondo e supporto scandiscono i tempi e termini di un percorso espressivo che è artistico secondo intenzioni esplicite e apprezzate
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100X100cm E SMALTO SU TELA,
AMERICA 2, 2010. COLLAGE 83X78cm E SMALTO SU TELA,
TWININGS 1, 2009. COLLAGE
di Angelo Galantini
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ackaging Art è una identificazione che rivela tanto quanto nasconde. Per quanto si manifesti e pronunci come contenitore (è il caso!) capace di accogliere una diversificata serie di opere che si indirizzano all’espressività e creatività individuale, riceve e accetta prestazioni che si pronunciano con modalità estremamente diverse tra loro. Approfondendo, potremmo anche considerare che -come molte altre etichet-
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te preconfezionate (è ancora il caso!)- la Packaging Art comprende più dissonanze che omogeneità, più diversità che analogie. Nella fretta delle assegnazioni, si indica tutto l’estro che si basa ed edifica con confezioni e preparazioni industriali: quelle che fanno la disperazione di un certo sperpero della nostra società, finendo presto nella spazzatura (speriamo con raccolta differenziata). L’espressività di Giordano Redaelli, che alterna tra loro le attività di grafico, visual design e pittore, è iscritta nella Packaging Art, identificazione della quale va fiero e orgoglioso,
70,5X70,5cm SMALTO E CARTONE INTAGLIATO SU TAVOLA,
GRAN GOLIA 1, 2004. COLLAGE, 83X78cm E SMALTO SU TELA,
TWININGS 2, 2009. COLLAGE
proprio per la natura originaria delle sue opere, che sono tali -Packaging Art- ben oltre l’aspetto formale a tutti evidente. Infatti, a nostro modo di vedere, non soltanto utilizza una base texture di confezioni industriali, alle quali sovrappone il proprio intervento pittorico, ma ripropone una visione dell’imballaggio (diciamola così) che si rivitalizza in approcci e accostamenti linearmente conseguenti. La sua non è fotografia, lo sappiamo bene, ma trova ospitalità su queste nostre pagine dedicate per due motivi presto rivelati. Uno, sovrastante, riguarda l’apertura intellettiva che
ciascun appassionato di fotografia deve (dovrebbe) possedere. Due, non certo in subordine, per il retrogusto -comunque sia fotografico- che traspare dalle silhouette che compongono l’asse portante e significante dei suoi manufatti. L’azione in se stessa è subito svelata. La si capisce alla prima osservazione delle sue opere. Giordano Redaelli compone una base di confezioni industriali ripetute, in composizione texture, con accostamenti reiterati e confermati, oltre che ribaditi, sulla quale interviene poi con tratti a vernice casualmente (?) distribuiti attorno una figura rappresentativa,
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100X100cm E SMALTO SU TELA,
TANGO - DUREX 2, 2009. COLLAGE, ACRILICO 84X78cm E SMALTO SU TAVOLA,
PHILADELPHIA 1, 2006. COLLAGE
per mille e mille motivi attinente con il fondo-supporto. Da cui, siamo sinceri, una volta considerate le sue opere... ognuno potrebbe essere in grado di ripeterle, per arredamento individuale. Potrebbe esserlo, ma non è poi detto. Potrebbe esserlo, ma! Ma è anche questa una delle fantastiche personalità di molta arte contemporanea: la sua semplicità formale, a fronte di intensità espressiva. Ovvero, soprattutto con i modi tecnologici dei nostri giorni, ciascuno di noi è in grado di ripetere una tela di Piet Mondrian, un progetto fotografico stile Smoke (inquadrature ripetute del-
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lo stesso angolo di strada, fotografato alla stessa ora tutte le mattine, per giorni e giorni di fila; soprattutto, in FOTOgraphia del maggio 2010), una elaborazione di Andy Warhol... un gesto di Marcel Duchamp. Ma nessun rifacimento avrebbe il senso, spessore e significato dei relativi originali! Dunque, riconosciamo a Giordano Redaelli una paternità e originalità che non si esaurisce con l’apparenza delle sue opere, a tutti evidente, ma si allunga sui contenuti e l’accezione dei suoi elaborati. Ammesso, ma non concesso, che l’originalità a tutti i costi sia un valore, in questo caso si
TANGO (STUDIO PREPARATORIO), 2009. ACRILICO E SMALTO SU STAMPA FOTOGRAFICA, 100X100cm 102X92cm E SMALTO SU TAVOLA,
MILKA 1, 2010. COLLAGE
esprime con la continuità di una azione, che ha moltiplicato esponenzialmente i soggetti, tutti afferrati dalla vita quotidiana, nel proprio svolgersi. L’allineamento tra la figura dominante, in silhouette, e la texture di fondo e supporto scandisce i tempi e termini di un percorso espressivo che è artistico secondo intenzioni esplicite e apprezzate. Una volta ancora, mai una di troppo, ci confortano aforismi che calzano a pennello (è sempre, il caso!) con l’apprezzamento per l’opera pittorica di Giordano Redaelli, in configurazione di esplicita Packaging Art. Con Paul Klee: «L’ar-
te non riproduce il visibile; piuttosto, crea il visibile»; con Eugene Ionesco: «Un’opera d’arte è soprattutto un’avventura della mente»; con Lindsay Anderson: «L’arte è esperienza, non la formulazione di un problema»; con Henry Miller: «L’arte non insegna niente, tranne il senso della vita»; con Albert Einstein: «L’arte suprema di un maestro è la gioia che si risveglia nell’espressione creativa e nella conoscenza». E poi, un richiamo anonimo, con il quale concludiamo: «Arte è ciò di cui non si capisce il significato, ma si capisce avere un significato». ❖
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ET VOILÀ IMPOSSIBLE La rinascita della fotografia a sviluppo immediato vista e commentata da chi ci ha sempre creduto e ne ha supportato la causa. Intervistato da Caterina De Fusco, critica d’arte che si è prolungata sulla critica fotografica, Beppe Bolchi affronta e chiarisce l’attualità della fotografia Impossible, che ha raccolto il testimone della fotografia a sviluppo immediato, offrendone una interpretazione attuale e -per tanti versi- di altra personalità rispetto la storia avviata alla fine degli anni Quaranta da Edwin H. Land. Considerazioni a tutto campo, con domande corpose e risposte schiette e non contaminate Intervista di Caterina De Fusco Illustrazioni di Beppe Bolchi
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ritica d’arte, che da tempo frequenta la fotografia contemporanea, Caterina De Fusco è particolarmente attenta all’espressività della fotografia a sviluppo immediato, della quale ha seguìto le recenti evoluzioni tecnologiche, che hanno portato alla gamma di filmpack Impossible, per mille e mille motivi (tutti legittimi) estranei alle esperienze storiche e definiti da una propria personalità... creativa. L’incontro con Beppe Bolchi, che ha accompagnato personalmente le vicende che dalla chiusura repentina dell’epopea Polaroid sono avanzate verso l’attualità Impossible, affronta e considera una consistente
Impossible PX70 (125 Iso). Questa emulsione consente di operare manipolazioni estremamente delicate. I segnacci e le cornicette sono difficoltosi da eseguire (e non ne sentiamo la mancanza). In compenso, si possono effettuare manipolazioni anche a distanza di giorni. Con un apparecchio Image appositamente modificato, si realizzano immagini stenopeiche: la morbidezza dei toni e gli effetti del lungo tempo di posa creano atmosfere oniriche.
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Impossible PZ600. La possibilità di manipolare l’emulsione direttamente sulla materia, senza l’intermediazione del mylar protettivo, offre spunti particolarmente affascinanti e delicati, enfatizzati dalla possibilità di poter anche colorare e decolorare l’immagine finale.
quantità e qualità di argomentazioni: da quelle propriamente formali a quelle effettivamente espressive, con un occhio indirizzato anche alla consistenza delle esperienze italiane. A partire da dense domande, che già da sé indirizzano il discorso, fino alle sostanziose risposte, che rivelano una confortante genuinità di osservazione e giudizio, si compongono i tratti di esplorazioni e considerazioni inviolabilmente avvincenti, che illustrano con chiarezza e determinazione lo stato attuale della fotografia a sviluppo immediato... così diversa dal passato, soprattutto remoto, ma di altrettanta potenzialità creativa. Il lavoro svolto in Polaroid, la conoscenza dell’azienda e della sua politica, ti hanno dato modo di entrare nella consapevolezza dei punti forti e deboli della fotografia a sviluppo immediato. Poi, la chiusura dell’azienda e la rinascita dello sviluppo immediato con le nuove pellicole Impossible. Negli anni, hai compiuto una paziente, concentrata sperimentazione delle potenzialità intrinseche di ciascuna emulsione, come manifestano i dati da te riscontrati e pubblicati. Hai testato la nuova tecnologia con attenzione e cura, come rivela l’assoluta pulizia dei risultati. E non solo: i tuoi applauditi workshop sono divenuti guida per molti utenti. Molte le voci di coloro che ti sono grati per aver trasmesso la tua conoscenza. Dopo tale approfondita sperimentazione delle pellicole Polaroid originarie, qual è l’impatto con le nuove Impossible?
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«Una grande tristezza, prima; e una immensa eccitazione, dopo. «Ho sempre trovato avvincenti modi di esprimermi, declinando le possibilità dei materiali Polaroid, attraverso la ricerca e la sperimentazione, andando oltre quanto già realizzato da altri e ben più autorevoli autori. «L’annuncio delle nuove emulsioni e la possibilità di essere tra i primi a poterne verificare le potenzialità sono stati per me forte stimolo di impegno. Il contatto diretto con Florian Kaps, l’uomo che con la propria passione e tenacia ha reso possibile il miracolo, mi ha convinto che dovevo fare tutto il possibile per ottenere il massimo dei risultati. «Ero preparato e motivato a investigare non soltanto ciò che sapevo di poter già realizzare, ma sono stato soprattutto guidato dallo scoprire cosa potesse riservare questa nuova tecnologia. Non è stato facile superare i primi problemi, principalmente per il fatto che le pellicole Impossible -a differenza delle precedenti soluzioni Polaroid- sono ancora sensibili quando vengono espulse dall’apparecchio fotografico, ma tutto è risolvibile quando si ha passione e esperienza. Ho scoperto potenzialità notevoli e considerevoli, alcune delle quali addirittura inesplorate, sconosciute persino ai progettisti, come quella di poter ricavare un negativo, opaco sì, ma perfettamente riproducibile, che contiene molte più informazioni dell’immagine positiva originale». Conoscendo, la tua grande opera di divulgazione e promozione delle pellicole a sviluppo immediato, quale è stata la percezione che hai avuto relativamente alla accettazione da parte degli altri appassionati? «Dal momento nel quale è stata cessata la produzione Polaroid, fino all’annuncio ufficiale da parte di Impossible, sono stato tempestato da domande sul futuro della fotografia a sviluppo immediato. Tutti volevano sapere quali fossero le reali possibilità per poterne disporre ancora per il futuro, e sollecitavano di promuovere petizioni e iniziative a sostegno. Allora, scrissi direttamente al top management dell’azienda [Polaroid Corporation], per farli riflettere sull’importanza della fotografia a sviluppo immediato. «Quando le nuove Impossible fecero timidamente capolino, e in relazione ai primi risultati -in parte non soddisfacenti-, ho riscontrato una ingenerosa presa di posizione, in particolare da parte di chi, più di altri, avrebbe dovuto essere di supporto. Quindi, nel settembre 2010, pubblicai in Rete una Lettera Aperta agli Scettici, che fortunatamente suscitò il plauso dei veri appassionati e -ovviamente- lo sdegno di chi si era sentito addirittura “preso in giro”, perché i nuovi materiali non rispondevano fotograficamente come le precedenti polaroid. «Pretese solo in parte giustificate, ma assolutamente imperdonabili da parte di chi fonda il proprio essere fotografo, o addirittura artista, proprio sull’utilizzo di questi materiali sensibili così tanto straordinari. Per fortuna, i veri appassionati e cultori, quelli che non pretendono di essere artisti solo perché utilizzano materiali fuori dall’ordinario (in
un certo senso arbitrari e trasgressivi?), hanno avuto pazienza e lungimiranza». Osservando il nuovo estendersi di laboratori sperimentali, cosa pensi del loro modo di porsi di fronte alle potenzialità dei nuovi prodotti? La mia esperienza di docente di Storia dell’Arte mi ha portata a riflettere sull’atteggiamento delle nuove leve di fronte alle difficoltà di apprendimento della Storia, che sola permette di coniugare confronti. Cosa ne pensi, in tal senso, considerata la tua specifica qualità di didatta della fotografia? «Vai sul difficile. Il terreno della sperimentazione è sempre accidentato, molto spesso accade che piuttosto di porsi umilmente di fronte alle caratteristiche e prestazioni di materiali e tecniche, i più cerchino di sfruttare (non solo “mettere a frutto”) le poche nozioni che hanno appreso da altri o incontrato con la loro esperienza diretta, per “vendere” la propria (presunta) abilità. «Addirittura, fingendosi e atteggiandosi ad autori, senza alcuna verifica e confronto con chi ha effettivamente avviato ricerche espressive consistenti, alcuni spacciano per propri risultati che altri hanno già ottenuto in precedenza. In questo senso, i definiti social network, spuntati come funghi, che pubblicano tutto senza alcun controllo, verifica e giudizio, si spacciano come scopritori di tecniche originali, facendosi elogiare dai propri seguaci per puro compiacimento reciproco. «Una recente esperienza, per la quale ho messo a disposizione tutta la mia biblioteca specializzata di fotografia a sviluppo immediato, comprendente manuali tecnici e monografie d’autore, ha prodotto soltanto un approccio distratto, senza una benché minima richiesta di approfondimenti e confronti». Quale la lettura dei tuoi applauditi workshop, guida aperta a molteplici utenti? I tuoi workshop si svolgono come concentrati laboratori attraverso i quali tu trasmetti le tue conoscenze fotografiche con grande disponibilità e dedizione. So della tua volontà di recedere da questa attività, che ha permesso un consistente proliferare di nuovi protagonisti. Quali le tue idee sulla loro personalità fotografica? «È vero, ho deciso di non dedicare più tempo e attenzione a chi intende afferrare solo i primi rudimenti della fotografia a sviluppo immediato (e della fotografia nel proprio complesso), perché l’ho fatto quasi sempre in forma gratuita. Ora, considerati anche i tempi, non è più salutare comportarsi in questo modo, perché i costi di svolgimento sono troppo elevati. Ma non ho certo smesso il mio impegno didattico. «Spesso, chi oggi si propone come esperto, cerca di trarre vantaggio da ciò che ha imparato, non sempre elaborando una propria ricerca; molti di costoro hanno iniziato proprio partecipando a un mio workshop. La maggior parte di questi arrampicatori intende affermarsi e imporsi come “autore”, per dimostrare quanto è bravo; raramente, si incontrano sperimentazioni effettivamente innovative, o una
dedizione tale che abbia come scopo la trasmissione della conoscenza. «Valutate soltanto per la propria esuberante apparenza, le tecniche arbitrarie “possibili” hanno sempre grande presa sui neofiti, e ora sono anche più semplici da applicare rispetto i tempi polaroid: in tal senso più facili da apprendere, replicare pedestremente (senza un effettivo progetto creativo) e dimostrare. A mio avviso, i risultati che vedo in giro non sono assolutamente eclatanti dal punto di vista espressivo; anzi, frequentemente sono una mera, pedestre e passiva ripetizione di una applicazione tecnica nota e conosciuta». Vuoi condividere con noi esperienze della tua attività didattica e di divulgazione? «Anzitutto, non potrei fare a meno di continuarla. Non sono e non voglio essere depositario di chissà quali segreti; anzi, ho sempre offerto tutto me stesso nello spiegare tutti gli accorgimenti e le potenzialità delle pellicole a sviluppo immediato, senza mai negare niente. Soltanto, ho smesso di regalarlo incondizionatamente. «Insegno e svolgo interventi mirati in diverse scuole di fotografia, come l’Istituto Italiano di Fotografia, a Milano, e l’Istituto Europeo di Design, di Torino e Milano. Sono regolarmente invitato all’Università di Genova, dove svolgo Approfondimenti sulla Fotografia di Architettura e Stenopeica; sono Docente della Federazione Italiana Associazioni Fotografiche (Fiaf) e tengo stretti contatti sulla didattica con il Management di Impossible. Mi hanno richiesto un po’ dappertutto, dall’Istituto Superiore per le Industrie Artistiche (Isia), di Urbino, all’Istitu-
Impossible PZ600. Anche se toglie quell’aura di unicità che è appetita da quasi tutti gli appassionati, la stampa di immagini digitali è una ulteriore possibilità di utilizzo delle nuove pellicole Impossible. Ma la resistenza alle possibilità tecnologiche è inutile: il fine è -e deve sempre esserecosa vogliamo effettivamente realizzare e comunicare con le nostre immagini.
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Quadro riepilogativo delle caratteristiche e prestazioni delle pellicole a sviluppo immediato autosviluppanti Impossible (tutte in filmpack) Tutte le pellicole devono essere protette dalla luce durante i primi quattro minuti di sviluppo, dopo l’espulsione dall’apparecchio fotografico I sistemi di protezione possono essere diversi: dal cartoncino da inserire all’esterno dell’apparecchio (commercializzato da Impossible, accessorio opzionale) a quello di protezione delle stesse pellicole (espulso all’inserimento del filmpack nell’apparecchio fotografico). Oppure, si può tagliare e piegare un cartoncino nero sufficientemente rigido, da inserire nella fessura di uscita della pellicola, tenuto saldamente insieme all’apparecchio. Per la esecuzione di tecniche creative arbitrarie, oltre al tipo di intervento manipolatore individuale, i tempi di intervento sulla fotografia a sviluppo immediato Impossible sono variabili: ogni emulsione reagisce in modo proprio Anche all’interno dello stesso tipo di pellicola, ogni rilascio di emulsione richiede la definizione e il rispetto di tempi propri per la esecuzione delle varie tecniche creative arbitrarie, anche in relazione alle rispettive realizzazioni effettuate entro i primi cinque-dieci minuti dallo sviluppo, piuttosto che in periodi successivi (addirittura ventiquattro ore dopo). PELLICOLA
SENSIBILITÀ
TIPOLOGIA
COMPATIBILITÀ
CREATIVITÀ
PX100 UV+ Pioneers Test Film (1) . . . . . . . . . . . . . 150 Iso . . . . . . . . Bianconero . . . . . . Apparecchi che utilizzano pellicole SX-70 PX70 Color Shade Push!. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 100 Iso . . . . . . . . Colore . . . . . . . . . . Apparecchi che utilizzano pellicole SX-70 . . . Manipolazione, Colorazione, Distacco emulsione PX70 Color Shade (1) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 125 Iso . . . . . . . . Colore . . . . . . . . . . Apparecchi che utilizzano pellicole SX-70 . . . Manipolazione, Colorazione, Distacco emulsione PX600 Silver Shade UV+ . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 600 Iso PX600 Silver Shade UV+ Grey Frame . . . . . . . . . . . 600 Iso PX600 Silver Shade UV+ Black Frame . . . . . . . . . . 600 Iso PX600 Silver Shade UV+ Gold Edition . . . . . . . . . . 600 Iso PX600 Silver Shade Version 06 (1) . . . . . . . . . . . . . 600 Iso PX680 Color Shade First Flush . . . . . . . . . . . . . . . . 680 Iso PX680 Color Shade Gold Edition . . . . . . . . . . . . . . 680 Iso PX680 Color Shade First Flush Colette Edition . . . 680 Iso
. . . . . . . . Bianconero . . . . . . Apparecchi della serie 600 - 680 - 690 . . . . . . . . Bianconero . . . . . . Apparecchi della serie 600 - 680 - 690 . . . . . . . . Bianconero . . . . . . Apparecchi della serie 600 - 680 - 690 . . . . . . . . Bianconero . . . . . . Apparecchi della serie 600 - 680 - 690 . . . . . . . . Bianconero . . . . . . Apparecchi della serie 600 - 680 - 690 . . . . . . . . Colore . . . . . . . . . . Apparecchi della serie 600 - 680 - 690 . . . . . . . . Colore . . . . . . . . . . Apparecchi della serie 600 - 680 - 690 . . . . . . . . Colore . . . . . . . . . . Apparecchi della serie 600 - 680 - 690
. . . . . Distacco emulsione, Trasparenze, Colorazione, Negativo . . . . . Distacco emulsione, Trasparenze, Colorazione, Negativo . . . . . Distacco emulsione, Trasparenze, Colorazione, Negativo . . . . . Distacco emulsione, Trasparenze, Colorazione, Negativo
PZ600 Silver Shade. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 600 Iso PZ600 Silver Shade UV+ . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 600 Iso PZ600 Silver Shade UV+ Black Frame . . . . . . . . . . 600 Iso PZ680 Color Shade . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 680 Iso
. . . . . . . . Bianconero . . . . . . Apparecchi della serie Image - Spectra . . . . . . . . Bianconero . . . . . . Apparecchi della serie Image - Spectra . . . . . . . . Bianconero . . . . . . Apparecchi della serie Image - Spectra . . . . . . . . Colore . . . . . . . . . . Apparecchi della serie Image - Spectra
. . . . . Manipolazione dopo la separazione . . . . . Distacco emulsione, Trasparenze, Colorazione, Negativo . . . . . Distacco emulsione, Trasparenze, Colorazione, Negativo . . . . . Manipolazione, Distacco emulsione
. . . . . Manipolazione, Colorazione, Distacco emulsione . . . . . Manipolazione, Colorazione, Distacco emulsione . . . . . Manipolazione, Colorazione, Distacco emulsione
(1) Nuova emulsione, da sottoporre a test.
Tecniche creative possibili con i diversi tipi di apparecchi CREATIVITÀ
COMPATIBILITÀ
Doppie esposizioni . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Apparecchi della serie Image - Spectra - ProCam - Macro 3 e 5 - PinHole Filtri . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Apparecchi della serie Image - Spectra, tramite apposito kit Filtri . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Apparecchi della serie Impulse, tramite apposito kit Close Up . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Apparecchi della serie SX-70, tramite apposita lente addizionale Close Up . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Apparecchi della serie 680 - 690, tramite apposita lente addizionale Close Up . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Apparecchi della serie Image - Spectra, tramite apposito Close Up Stand Close Up . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Apparecchi della serie Macro 3 e 5 Mosaici . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Tutti gli apparecchi con possibilità di messa a fuoco ravvicinata Riproduzione da diapositive. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . DayLab - Ingranditori Riproduzione da stampe . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Apparecchi della serie Image - Spectra, tramite Close Up Stand Riproduzione da stampe . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Kiron Printer per le pellicole della serie PX Riproduzione da stampe . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Stativo da riproduzione con tutti gli apparecchi con possibilità di messa a fuoco ravvicinata Riproduzione da monitor . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Tutti gli apparecchi con possibilità di messa a fuoco ravvicinata Stampa di immagini digitali . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Color Shot per le pellicole della serie PX Fotografie stenopeiche . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Dorsi portapellicola CB71 - CB72 - Apparecchi appositamente modificati Grande formato 50x60cm. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Giant Camera, gestita da Impossible Works (Parigi) Tatuaggi Impossible . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Tutte le pellicole che consentono il Distacco dell’emulsione Fumetti . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Tutte le pellicole Colorazione cornicetta. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Tutte le pellicole Off-Camera (in camera oscura) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Tutte le pellicole posizionate sotto un ingranditore, oppure collocando oggetti direttamente sulla pellicola Sovrapposizione scritte e logotipi. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Tutte le pellicole con apposito filtro da inserire sul caricatore
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to Superiore di Fotografia e Arti Visive (Isfav), di Padova; e sono stato perfino alla Rangsit University, di Bangkok, così come diverse volte ad Arles, Parigi, Glasgow, Vienna e Belgrado. «Ho ridotto gli interventi lì dove si vuole solo un nome che attiri il pubblico, piuttosto di svolgere effettiva cultura fotografica (della quale c’è sempre immenso bisogno). Inoltre, c’è sempre la possibilità di venire nel mio studio, o invitarmi -con armi e bagagli-, per vedere e sperimentare tutto il possibile con l’ausilio di tutte le apparecchiature, con la possibilità di allestire set fotografici e utilizzare tutte le emulsioni, sia le nuove Impossible sia le precedenti polaroid (queste ancora per poco, essendo ormai scadute da anni, per quanto ancora in grado di fornire risultati soddisfacenti)». Mi è capitato di confrontarmi con alcuni tuoi allievi e la percezione -forte- è stata quella che nella didattica ti manifesti con tutta l’umiltà e l’amore del caso. Cosa pensi dell’amore nella trasmissione del tuo sapere? Quanto credi che “donarsi” conti per un valido apprendimento? E quale il tuo pensiero, la tua riflessione sul modo di operare nella trasmissione della fotografia ai giovani? «Come appena affermato, in qualsiasi azione didattica, l’aspetto più importante è proprio quello di “donarsi”, di offrire la propria passione ed esperienza, cercando di farla percepire ai partecipanti, arrivare a chi ascolta. «Non basta la conoscenza tecnica, né le capacità affabulatorie: deve emergere quello che si ha dentro. I giovani, in generale, non hanno molta voglia di applicarsi, lo fanno quando scoprono che ci sono motivazioni forti insieme all’importanza del tema che si sta affrontando. Purtroppo, ho constatato che -spesso- alcuni docenti vogliono semplicemente dimostrare quanto sono “bravi”, e con questo pretendono che chi ascolta debba attingere a questa presunta maestria. La mia filosofia non è di far vedere quanto io sia capace o creativo -che pure rappresentano i biglietti da visita e la necessaria gerarchia dei ruoli-, ma quella di far scoprire a chi mi ascolta quanto lui stesso / lei stessa può essere capace e creativo / creativa». Che rapporti hai e hai avuto con i vari gruppi che si occupano di fotografia a sviluppo immediato? «Stai toccando un tasto delicato. Da sempre, sono in contatto con diversi gruppi e ho partecipato attivamente alle loro iniziative e attività. Però, la risposta è stata molto interlocutoria. «Nel caso del Polaser, storico Gruppo, nato e cresciuto nel mito di Maurizio Galimberti (autore al di sopra di ogni sospetto), ho scoperto che più che la voglia di indagare e realizzare progetti -alcuni dei quali autenticamente appassionanti e stimolanti-, è subentrato il desiderio di sentirsi “artisti”, come ho appena annotato. In supplemento, il loro approccio risentito nei confronti delle nuove emulsioni Impos-
sible, espresso con uno scetticismo pilotato, mentre mi sarei aspettato un entusiasmo che superasse le difficoltà iniziali, ampiamente comprensibili e giustificabili, mi ha indotto lasciarlo. Mi è rimasto l’amaro in bocca, anche se ho conosciuto persone e amici ai quali sono ancora molto legato. «A seguire, sono nati i social network, ai quali ho dato credito, quantomeno per la possibilità di allargare la conoscenza di questo modo di realizzare fotografie. Le prospettive iniziali parevano intriganti, e sono rimaste tali per chi ha voluto e vuole imparare, crescere, approfondire. «Grande delusione sono stati i Polaroiders, ai quali ho concesso parecchio, partecipando a eventi e convegni, invitandoli e dando loro visibilità al PhotoShow 2011, di Milano, scrivendo testi critici e offrendo la mia piena collaborazione, per poi scoprire che l’intento primario (esclusivo?) è solo quello di affermarsi come “autori”, anzi -a loro detta- come “artisti”, a prescindere perfino da conoscenze e capacità basilari indispensabili per essere fotografi. Il tutto condito da una assoluta mancanza di rispetto, sia nei miei confronti sia verso ospiti illustri, invitati alle loro iniziative e poi trascurati, probabilmente serviti solo a nobilitare il programma dell’evento. «Recentemente, ho visto germogliare anche al-
Impossible PX680. Colori vivi e brillanti: sembrava “impossibile”, invece ci siamo. La qualità delle pellicole migliora ad ogni nuova emulsione e lascia ben sperare in un futuro di grandi soddisfazioni per chi ha imparato ad utilizzarle correttamente.
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tre iniziative singolari, ma che -purtroppo- mancano della necessaria umiltà e esperienza. A questo proposito, mi ha fatto male vedere una mostra di polaroid, come quella allestita al Museo Nazionale della Scienza e della Tecnologia, di Milano, nella quale non è stato esposto un solo originale, ma solo e tutte riproduzioni. È stato come essere invitato a una mostra di pittura, realizzata con riproduzioni fotografiche. Un peccato originale, perché molte immagini della mostra presuntamente polaroid avrebbero potuto essere effettivamente appassionanti. «Altro aspetto comune a tutti è la quasi totale mancanza di selezione e critica, come ben sai e hai sperimentato sulla tua pelle. Tutte le immagini sono commentate “belle”, il che non è umanamente, né statisticamente, possibile. In questo modo, senza autentico spirito critico, si finisce per appiattire i risultati e non valorizzare chi effettivamente merita. «La mia disponibilità di collaborazione è comunque aperta e piena verso chi desidera effettivamente imparare». Hai citato Maurizio Galimberti; quali sono i vostri rapporti? «Ti ringrazio, perché mi permetti di chiarire. Molti considerano che ci sia dualismo, addirittura competizione tra noi due. Niente di più falso; quando ero in Polaroid (azienda), gli ho dato tutto il mio supporto, soprattutto ai suoi inizi. In seguito, ho sempre ammirato la forza e la capacità di utilizzare le tessere polaroid come docile materia per le sue interpretazioni. Non oso minimamente mettermi in confronto con lui, che d’altronde è un artista, come si è sempre definito e come gli è stato riconosciuto. Io, a malapena, mi considero fotografo, o -meglio ancora- uno che si occupa di Fotografia. «Maurizio Galimberti realizza opere su commissione (soprattutto), io sono impegnato nella ricerca e sperimentazione. Comunque, con sincerità, gli rimprovero lo scetticismo cha ha palesato con forza verso le pellicole Impossible, e che ancora non ha risolto, nonostante siano ormai la sua unica materia prima». Il tuo percorso fotografico passa dal foro stenopeico alle pellicole chimiche e polaroid. Attraverso quest’ultima, quali parti di te stesso sono emerse? «Il mio interesse per la Fotografia è a trecentosessanta gradi: attualmente, opero e lavoro in acquisizione digitale con lo stesso entusiasmo e dedizione con cui ho sempre affrontato la sua espressività. «I tempi analogici fanno parte delle prime bellissime esperienze; mentre la predilezione per forme espressive arbitrarie (e trasgressive?), quali il foro stenopeico e lo sviluppo immediato, hanno aperto e aprono orizzonti ancora da esplorare: tutto questo eccita e sollecita il mio desiderio di sperimentazione. «Queste due metodologie interagiscono bene con il mio modo di intendere, vedere e rappresentare la realtà. Non sono capace di “costruire” una scena, una scenografia. Preferisco esercitare la mia capacità di “vedere”, cercando il bello e la poesia attorno al mio quotidiano. Siamo già tanto bombardati da milioni di immagini cruente, di dolore e
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violenza, che sento il bisogno di offrirmi per creare una pausa di riflessione. Cerco di rappresentare principalmente la serenità, che è da sempre l’obiettivo primario della mia vita. Certamente tu, con la tua sensibilità, riscontrabile nelle tue qualità di indagare un’immagine, sarai in grado di scoprire anche altri aspetti del mio essere. Sicuramente, perché c’è un’antica memoria poetica che compare -seppur di traversonelle tue immagini. Tra le tue immagini, bisogna muoversi con lentezza, circospezione e cogliere nei colori, nei tagli, nelle luci un arcano senso, talvolta sconosciuto al tuo stesso essere artista. Alcuni fiori da te fotografati appaiono come dipinti, grazie alla dolcezza dei toni trasferiti su carta d’acquerello; e poi sguardi, forti, che interrogano, non tanto lo spettatore, ma te stesso. Maschere-Fiori... esiste un legame? Discorrendo con te, compiendo con te il ”tuo” viaggio attraverso fotografie a scatto/sviluppo “immediato” percepisco che questi due simboli hanno sì punto di contatto. Maschera-Donna. È la donna che indossa la maschera, sul volto. Ti interroghi attraverso lo sguardo di donna, attraverso “la” donna. E poi, fiori, tuo antico, grande amore. Quale il motivo di questo amore per tale “esile” filo di Natura? Credo che con e in Madre Natura tu scorga te stesso. Nel volto, di donna, ti è più difficile; da ciò, il tuo mascherarlo. A una più attenta lettura, sei tu a mascherarti, anche se la tua immagine coglie una donna “in maschera”. Tu rechi su te quella maschera; è il sociale a volerlo e anche tu sembri cadere in questa trappola. Maschera può incapsulare vita, ma tu possiedi la via d’uscita, la Natura. Quando sei in difficoltà, a Lei ti rivolgi, inquadrandola, fotografandola per riprenderti l’Essenza. Inoltre, leggo un’immagine di donna chiusa in se stessa, con pelle di “tulip”, fiore dell’amore in Oriente. Nella fotografia, sembri puntare l’obiettivo su quella archetipica forza della chioma, scultorea, tanto concreta. Il corpo è totalmente chiuso, ma è la chioma e la pelle, tappeto monocromo di tulipani, a fornire a te -inconsapevolmente- una via d’uscita. Tu chiedi la forza dell’amore, per slegarti da quella maschera alla quale il sociale ti condanna. Quella donna, non è donna, o è uomo e donna allo stesso tempo; non ha volto ma solo forza, vitalità nella lunga chioma scarmigliata. È a quella forza che come autore vuoi invitare i tuoi osservatori. «Grazie. La tua sensibilità, le tue percezioni, i tuoi commenti sono sempre preziosi, e mi sembra che anche tu stai donandoti a chi si offre al tuo giudizio». Proprio in questa chiave, negli ultimi tempi hai preferito essere letto da un punto di vista espressivo più che tecnico. In tale senso, quale nuovo impulso ti hanno dato le pellicole Impossible?
Impossible PZ600. Fotografia a sviluppo immediato scattata ai primordi (settembre 2010), che ha mantenuto la sua qualità nel tempo e che dimostra l’ottima resa dei dettagli, pur nella resa tonale calda, tipica dell’emulsione in quel momento. Le nuove emulsioni sono più equilibrate, bei neri neutri, ma questo risultato si può ottenere solo con l’emulsione originaria. Rimpianti?
«Nuovi materiali, nuove possibilità, sia tecniche sia espressive. Con Polaroid avevo provato di tutto, avrei potuto solo ripetermi. Impossible ha impresso una nuova spinta alle mie ricerche. Pensa solo alla possibilità di poter realizzare immagini trasparenti, e quindi di poterle sovrapporre e comporre insieme. Sto realizzando progetti su presenza/assenza, di combinazione colore/bianconero, di mosaici retroilluminati. E questo, sfruttando solo una delle potenzialità offerte dalle nuove pellicole Impossible. Altre idee e progetti sono solo abbozzati, ne parleremo più avanti». Che rapporto pensi ci sia tra Fotografia e Arte, e specificatamente tra Fotografia Immediata e Arte? «Uhm, domanda spigolosa. Certo, Fotografia può essere Arte: e penso che in particolare modo la Fotografia a sviluppo immediato lo possa essere, anche grazie alla propria unicità e -in molti casi- irripetibilità. A differenza della fotografia tradizionale, analogica o digitale che sia, che fa della riproducibilità il proprio cavallo di battaglia rispetto alle arti grafiche o pittoriche, quella a sviluppo immediato offre opportunità più elevate di essere assimilata all’arte, anche in ordine alle potenzialità creative e di intervento individuale che sono consentite. «Molto spesso, in passato, mi sono sentito dire, anche da fotografi e critici di fama, che le mie po-
laroid non erano Fotografia, solo perché diverse e particolari rispetto ai materiali tradizionali. Però, da qui a definire tutte le polaroid e ora le Impossible delle opere d’arte, ci passa non solo un fiume o un lago, ma un intero oceano. Intanto, non credo che possa essere l’autore stesso a definirle tali, poi non è mai il supporto, la tecnica o i materiali utilizzati a stabilirne la collocazione. Una immagine, comunque sia realizzata, deve contenere un messaggio, una propria forza espressiva, deve colpire, deve farsi osservare, farsi apprezzare. Se non c’è una idea, se non c’è un progetto, se non trasmette emozioni, a malapena possiamo definirla una fotografia, figurarsi considerarla arte». Quali sono i tuoi progetti futuri? «Tanti, come sempre, e diversi tra loro. «Per rimanere solo alle pellicole Impossible, il mio obiettivo primario è quello di continuare la verifica e sperimentazione delle nuove emulsioni. Ho in fase di realizzazione opere complesse, realizzate combinando assieme tecniche diverse, anche di commistione tra analogico e digitale, di rivisitazione di correnti artistiche, come il Fotodinamismo Futurista e l’Astrattismo. Non posso entrare nei dettagli, ovviamente. «Chi vuole seguirmi, essere aggiornato sulle mie iniziative, non soltanto a sviluppo immediato, si può riferire al mio sito www.farefotografie.it». ❖
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A proposito di Maurizio Rebuzzini
LUCE FOTOGRAFICA
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Non so cosa pensare, ma so cosa dire. Non è una contraddizione in termini, ma una confortante verità. Apprezzato da una certa critica letteraria internazionale (come tradizione riportata sul retro di copertina dell’edizione italiana del romanzo, e nessuno può verificarne l’autenticità), Luce proibita, di David Rocklin, è un racconto che ruota attorno gli esperimenti primitivi della fotografia. Non è un saggio, né uno studio approfondito sulla materia, ma soltanto una narrazione di pura fantasia, estranea a qualsivoglia obbligo storico e/o temporale. A conti fatti, la fotografia nascente non è soltanto il collante di una vicenda di altro profilo (nella quale sovrasta l’idea di impero britannico alla conquista di Ceylon, alla vigilia della metà dell’Ottocento), ma è proprio il motivo conduttore, al quale tutto il resto fa soprattutto riferimento. Con fantasia, l’autore retrodata di qualche decennio la personalità fotografica di Julia Margaret Cameron (1815-1879), che vi si dedicò dal 1863, riferendola alla protagonista Catherine Colebrook e al 1836 e poco oltre, assegnandole altresì un ruolo sperimentale e pionieristico di pura fantasia. Subito rilevato che le affinità tra Julia Margaret Cameron e la protagonista del romanzo Catherine Colebrook non si esauriscono nella sola visione fotografica, seppure reinventata (come stiamo per vedere), ma si estendono su tutto il racconto: anche Catherine Colebrook è moglie di un funzionario britannico, agisce a Ceylon (dove Julia Margaret Cameron è mancata, il 26 gennaio 1879) e si trasferisce all’Isola di Wight (dove la famiglia Cameron visse dal 1860). Anche Dimbola, la residenza di Ceylon di Catherine Colebrook, è derivata/ispirata a Dimbola Lodge, la residenza dei Cameron sull’Isola di Wight, che oggi ospita un museo ed esposizioni permanenti di Julia Margaret Cameron. A differenza della realtà, Luce proibita, di David Rocklin, racconta degli esperimenti primigeni di Catherine Colebrook, considerata e riferita come uno dei pionieri alla ricerca della na-
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Luce proibita, di David Rocklin; Neri Pozza Editore, 2011; 336 pagine 14x21,5cm; 17,00 euro. In copertina: Tristezza (ritratto dell’attrice Ellen Terry), di Julia Margaret Cameron; 1864.
tura che di fa di sé medesima pittrice, che già lei intende come “fotografia”. Ma non sono questi salti temporali e alterazioni/modifiche che ci lasciano perplessi: infatti, non si tratta di un resoconto storico, ma di una narrazione di pura fantasia. Probabilmente, di straordinaria fantasia. Quello che non ci convince sono proprio le vaghe aderenze alla realtà, che confondono i termini del discorso e non consentono di apprezzare nella propria presunta pienezza i voli pindarici che stanno alla base di tanta immaginazione. Perlomeno, non lo consentono a noi, che non possiamo mettere da parte ciò che sappiamo della Storia della fotografia e dei suoi esperimenti primitivi, così distanti dal clima nel quale David Rocklin accompagna il lettore.
Allora, sia chiaro: per quanto lontano dall’incanto evocato dalle recensioni sintetizzate in retro di copertina (ma saranno vere?), Luce proibita è un romanzo appetibile e gradevole, che si legge con piacere e si segue con attenzione. Lasciando perdere le nostre competenze specifiche, che riguardano le alterazioni fotografiche (che si estendono a improbabili condizioni di ripresa, soprattutto alla vigilia del fatidico 1839 di nascita), il resto scorre via bene: con il colonialismo inglese a fare da padrone. Come rivela il titolo, adeguata interpretazione dell’originario The Luminist, la visione trasversale del racconto riguarda soprattutto la capacità del giovane tamil Eligius -servo/aiutante di Catherine- di dominare e guidare la luce, sapientemente finalizzata alle esigenze della fotografia. A seguire, si rincorrono osservazioni e valutazioni sulla nuova arte, che qui viene dibattuta decenni prima della sua effettiva disputa, in ovvia contrapposizione all’arte pittorica. A questo proposito, tante e (anche) sostanziose le rilevazioni che si potrebbero estrarre. Una, sopra tutte; una, per tutte: «Credo che non sia facile capire in che modo vogliamo mostrarci», osserva Julia, figlia di Catherine, divisa tra le tele del promesso sposo George Wynfield, altezzoso figlio del governatore di Ceylon, e gli esperimenti della madre. Catherine Colebrook è determinata e risoluta. È interamente presa dalla propria opera e convinta del suo agire; sottolinea il proprio punto di vista, in risposta a obiezioni, che non disconosce: «Non intendo denigrare gli apprezzati talenti [dei pittori]. Tuttavia, ogni istante contiene qualcosa in grado di sorprendere l’occhio e il cuore. Non può essere altrimenti. Un dipinto cerca di creare una sintesi di diversi momenti. Io, invece, mi sforzo di cogliere l’istante. Punto la fotocamera [sic] e aspetto, fiduciosa di riuscire a vedere. Cercherò di migliorare il processo. Quando riuscirò a perfezionarlo, posso farvi un ritratto?». Già... magia della fotografia. Luce, e poco d’altro. ❖
1839-2009
la finestra di Gras Dalla Relazione di Macedonio Melloni 2009.unaRicordando pagina, una illustrazione alla svolta di Akio Morita
Come dire, dal dagherrotipo all’acquisizione digitale di immagini. E consecuzioni
1839. Dal sette gennaio al dodici novembre sedici pagine, tre illustrazioni
Tappe fondamentali, che si sono proiettate sul linguaggio e l’espressività, con quanto ne è conseguito e ancora consegue Relazione attorno al dagherrotipo diciotto pagine, tre illustrazioni
1839. Fotogenico disegno dieci pagine, quattro illustrazioni
1888. Box Kodak, la prima diciotto pagine, quarantacinque illustrazioni
1913-1925. L’esposimetro di Oskar Barnack ventiquattro pagine, cinquantotto illustrazioni
1947 (1948). Ed è fotografia, subito ventiquattro pagine, sessantadue illustrazioni
1981. La svolta di Akio Morita dodici pagine, ventisei illustrazioni
• centosessanta pagine • nove capitoli in consecuzione più quattro, tre prima e uno dopo • duecentosessantatré illustrazioni 1839-2009 Dalla Relazione di Macedonio Melloni alla svolta di Akio Morita di Maurizio Rebuzzini Prefazione di Giuliana Scimé 160 pagine 15x21cm 24,00 euro
F O T O G R A P H I A L I B R I Graphia srl • via Zuretti 2a - 20125 Milano 02-66713604 • graphia@tin.it
2009. Io sorrido, lui neanche un cenno dieci pagine, ventisette illustrazioni
Le paternità sono ormai certe otto pagine, tredici illustrazioni
2009. Alla fin fine cinque pagine, quindici illustrazioni
Sguardi su
di Pino Bertelli (Piombino, dal vicolo dei gatti in amore, 9 volte novembre 2011)
O
GIORGIO LOTTI
Ogni fotografo senza talento è un assassino o un Giuda Iscariota per eccesso di entusiasmo. Nella fotografia consumerista (non importa che sia argentica o numerica), gli esaltati e i cinici (senza ironia) sono degli esteti smarriti in cerca di un tempio nel quale vendere la merce, senza sapere mai che la fotografia (come ogni arte) muore per mancanza di eloquenza, d’intensità e di livore. I mercati dell’immagine fotografica ri-producono l’illusione dell’onnipotenza economica/politica e chiunque si appresti -in buona fede- a entrare nei lavatoi pubblici della cultura fotografica del consenso o dell’emulazione è un profittatore o un idiota. L’insegnamento etico/ereticale dei maestri (non solo in fotografia) si è sempre insediato al limitare dell’ordine costituito e non ha mai tollerato i dilettanti (anche volenterosi o di successo) di ogni forma di comunicazione che non abbiano disvelato il reale in favore della verità e della bellezza. L’esagerazione o la mediocrità estetizzata è al fondo di ogni discepolo che cerca un posto di rilievo nel consenso mercantile o in parlamento, che è sempre la stessa olezzante spazzatura. «Le cattive cause esigono talento o temperamento. Il discepolo, per definizione, non possiede né l’uno né l’altro» (Emil M. Cioran). Profittatori del nulla, i fotografi dell’edulcorazione o del sanguinolento si irrigidiscono sul calcolo egoista e, per mancanza di lucidità o idolatria del mondano, calunniano i seminatori di utopie che mirano alla caduta dell’organizzazione della stupidità generalizzata. Quanto più un fotografo sarà segnato dalle stigmate dello spettacolare integrato (da camuffare la propria miseria creativa in musei, gallerie, celebrazioni televisive dell’arte), tanto più avrà la possibilità di trionfare sul sagrato del mercimonio, igno-
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rando per sempre che ci sono momenti della storia (culturali, ideologici, dottrinari) che si distruggono, mostrandoli.
SULLA FOTOGRAFIA IN UTOPIA La fotografia in utopia è il grimaldello emozionale, passionale, eversivo con il quale decomporre la civiltà sacerdotale della fotocrazia. L’ingresso nella realtà profonda della fotografia si attua non con l’apoteosi dell’ovvio e dell’ottuso (Roland Barthes diceva), bensì con l’epifania dello stupore e della meraviglia che schiudono la gioia o la rabbia con-
ber). La bellezza, l’amore, il rispetto per la vita sono il viatico di ogni poeta che fa di ogni “confessione estatica” un canto di libertà dentro e fuori la Storia. Gli uomini di potere hanno inventato la sofferenza, il male, la violenza, la genuflessione, la confessione, la falsità, l’impostura... senza mai capire che sulla Terra nessuno è insignificante, e la morte di un uomo o la contaminazione della natura è sempre un avvenimento degno di commozione, di accoglienza, di fraternità: basta salvare un’anima buona e salveremo il mondo (Teilhard
«Lei [l’utopia] è all’orizzonte [...]. Mi avvicino di due passi, lei si allontana di due passi. Cammino per dieci passi, e l’orizzonte si sposta di dieci passi più in là. Per quanto io cammini, non la raggiungerò mai. A cosa serve l’utopia? Serve proprio a questo: a camminare» Eduardo Galeano tro il divenire imposto dei poteri forti. Cogli l’attimo (Carpe Diem), prendi la fotografia quando è il momento, rendi straordinaria la tua esistenza di uomo e di fotografo. Solo nei sogni, gli uomini sono davvero liberi, e quando la libertà sarà il pane di tutti non ci saranno più né dèi, né padroni. Comprendere la fotografia significa conoscere se stessi e il diverso da sé. Le parole, le immagini, i suoni, le idee davvero importanti possano cambiare il mondo. «Dove c’è amore, male e bene scompaiono» (Martin Bu-
de Chardin sosteneva, non proprio così). La verità è la libertà del cuore. L’ultimo rifugio delle canaglie è la certezza su un “buon governo” o la gogna della croce. Si direbbe che -un tempo- gli uomini si facevano ammazzare per la libertà, adesso si fanno uccidere nell’indifferenza. Tuttavia, ai quattro angoli della Terra, le fiamme della disobbedienza si alzano alte contro i Palazzi d’inverno (o i pozzi di petrolio o i templi della tirannia finanziaria) e i despoti (qualche volta) fanno la fine che devono fare: sporcano di sangue
i fiori di campo! La libertà che non si usa, marcisce. Il Carpe Diem della fotografia (e in ogni forma d’arte) è vita, è liberazione, è il gusto e il rischio dell’esistenza degli uomini del no!, degli utopisti che fanno del desiderio di vivere tra liberi e uguali la liberazione dell’immaginario. Sono “cacciatori di sogni” e compiono nella disobbedienza civile il primo passo verso quell’identità egualitaria della comunità che viene; rivendicano la dignità negata, e le loro fotografie sono sale, lievito, chicco di grano che si oppongono con la verità del diritto al diritto infame della forza. Mettono la gioia della vita piena al servizio del bene comune e dove c’è amore dell’uomo per l’uomo, lì c’è la libertà dell’intera umanità.
SULLA FOTOGRAFIA DEL RISPETTO Giorgio Lotti, uno dei (pochi) grandi fotografi italiani, è un interprete, un testimone, un poeta della fotografia del rispetto e le sue immagini riescono a scomunicare o demitizzare (il fotoreportage, specialmente) la monopolizzazione dell’informazione che ha la menzogna come strumento principale di seduzione. Come vedremo, le fotoscritture di Giorgio Lotti abitano la cultura del proprio tempo e quando si accostano agli ultimi della civiltà dello spettacolo, agli esclusi dal banchetto dei mercati globali (ma ne sono le prime vittime) mostrano con autorevolezza (e coinvolgimento) l’impegno dell’uomo contro tutte le ingiustizie e chiedono il rispetto delle diversità e delle alterità: lasciano spazio e danno voce e volti a molteplici forme di democrazia autentica, partecipata o consiliare e si affrancano all’autodeterminazione dei popoli. Lo sguardo fotografico di Giorgio Lotti è quello di un utopista, certo... ma l’utopia è un vento di libertà inarrestabile che si realiz-
Sguardi su za strada facendo. L’utopia non è forse quel sentiero stellato che ci porta a «sciogliere le catene inique, togliere i legami del giogo, rimandare liberi gli oppressi e spezzare ogni giogo?. Non consiste forse nel dividere il pane con l’affamato, nell’introdurre in casa i miseri, i senzatetto, nel vestire chi è nudo, senza distogliere gli occhi dalla sua gente?», si chiede un altro utopista (angelicamente anarchico), don Andrea Gallo. Il rispetto per l’uomo, anche il più povero, lo svantaggiato, il migrante, l’umiliato, l’offeso, fuoriesce dalle immagini di Giorgio Lotti con venata amorevolezza. Nel suo fare-fotografia, si vede una pietà laica, un senso libertario dell’esistenza... si avverte il declino di una società multicentrica, “liquida” (esasperata, incerta, instabile); e la sola speranza per la fine della mixofobia generalizzata (ci sembra dire) è nella “coscienza individuale”, nel rispetto di sé e degli altri. Il rizomario estetico di Giorgio Lotti si dispiega tra le pieghe di una realtà agganciata a una comunità transnazionale in formazione: «Uguali e diversi all’interno di una società complessa, composta non più da masse omologate, né individui isolati, ma formata da una rete di moltitudini in grado di dialogare e crescere» (Zygmunt Bauman). Quella che Giorgio Lotti si porta dietro da tutta una vita, e ha condensato nella sua partitura fotografica, è una filosofia dell’apertura all’altro che incarna le semplici verità di un’esistenza autentica. La fotografia in utopia di Giorgio Lotti (presa nel proprio insieme, specie la parte più esplicitamente sociale) racconta che ogni essere umano è irripetibile e l’unica uguaglianza per la quale lottare è quella dei diritti umani; e alla base dei diritti umani c’è il diritto alla diversità, il diritto alla libertà, il diritto di essere se stessi di fronte al mondo. Chi sussume la “fotografia insegnata” non la capisce, e chi la dispensa in un modo o nell’altro ne è vittima o complice. Il disinganno della fotografia non conosce l’imparzialità dei
servi o l’ostia e la frusta dei giudizi interessati, e preferisce le “cattive compagnie” dell’insorgenza contro ogni forma di autoritarismo, senza cadere nella compiacenza o nel ridicolo. Il fatto è che in fotografia (e dappertutto) ci si realizza solo sul proprio coraggio e sulla rovina dei funesti demiurghi del potere. Il dissidio (anche fotografico) contiene in germe infinite possibilità di rottura dei valori e delle morali dominanti (le immagini delle rivolte arabe, riprese e seminate nella Rete dagli stessi protagonisti delle insurrezioni, sono solo un esempio di circolazione liberata dei dispositivi comunicazionali) e fuori da semplici approssimazioni di destra e sinistra, delle quali possiamo fare a meno, la fotografia in utopia incrina lo spettacolo vergognoso di una civiltà senza domani. La fotografia del rispetto ha radici profonde, risponde a necessità esistenziali; e ci sono fotografi che sotto un certo taglio poetico/politico hanno evitato l’eloquio dell’ignoranza e denigrato l’elogio dell’obbedienza. Hanno coltivato l’uso pubblico della ragione fotografica e invitato a fare libero uso della poesia come testimonianza di verità invisa all’edonismo selettivo e al buio della ragione collettiva. Giorgio Lotti è uno di questi “viandanti dell’utopia”, che si sono chiamati fuori dalla cartolina della fotografia imperante. All’educabilità dei produttori di illusioni, ha preferito la radicalità del pensiero (non solo) fotografico e scavato il vero e il bello alla radice delle cose. Su questi crinali espressivi, ha prodotto un archivio imponente (oltre un milione di immagini) e scritto una parte importante della storiografia fotografica italiana. Per i curiosi o i più sensibili alle lacrime di coccodrillo, sbrighiamo le noterelle che riguardano la sua longeva fotovita (che riprendiamo senza modifiche dal suo sito): «Giorgio Lotti nasce a Milano nel 1937. Inizia a lavorare nel 1957, collaborando come freelance per alcuni quotidiani e settimanali, quali Milano Sera, La Notte, Il Mondo, Settimo giorno, Pa-
ris Match. Nel 1964, entra nello staff di Epoca, sotto la direzione di Nando Sampietro, dove rimane fino al 1997, anno di chiusura del settimanale. Ha lavorato fino al 2002 a Panorama. Nel 1973, viene insignito del premio The World Understanding Award, dalla University of Photojournalism, Columbia (Usa), per un reportage svolto in Cina. Inoltre, ha partecipato a numerose edizioni della Sezione culturale del Sicof [Salone Internazionale Cine Foto Ottica e Audiovisivi], a cura di Lanfranco Colombo. Nel 1995, nel corso della sedicesima edizione, viene premiato con l’Horus Sicof, per il ruolo svolto nel campo della fotografia italiana. È stato premiato dalla città di Venezia, per i suoi reportage sulla Serenissima. Nel 1994, a Modena, riceve il prestigioso premio letterario Città di Modena. Alcune immagini sono conservate in musei americani, di Tokyo, Pechino, al Royal Victoria Albert Museum, di Londra, al Cabinet des Estampes, di Parigi, al Centro Studi dell’Università di Parma, alla Galleria Civica di Modena. Negli ultimi anni, si è dedicato alla ricerca fotografica nel campo del colore e dell’arte». L’archivio fotografico di Giorgio Lotti è complesso: fotoreportage, monografie industriali, paesaggi, pubblicità, ritrattistica, spettacolo, ricerca sul colore... tutta una catenaria visuale figurata con grazia, leggerezza, rispetto per il diverso da sé... un florilegio di situazioni colte nella propria essenza storica, che vanno a costruire la manifestazione autentica del fotografare. L’uso -a volte insolente- del colore, l’inquadratura forte, l’intervento di montaggio sono sperimentati con intenzioni sovente sorprendenti: fuori dagli stereotipi e perfino troppo affascinanti, icone che restano negli occhi nei toni, nei ritmi, nell’inquadratura ardita, anche. I grandi lavori sul Teatro alla Scala, di Milano, le architetture di Venezia, la ritrattistica degli artisti, dei politici, della gente semplice... le luci, le ombre, le ferite ecologiche che annunciano le tragedie indicibili del pianeta... esprimono l’eccel-
lenza di una sacralità della bellezza, che ogni volta incanta e rimanda a un’infanzia mai perduta. Tuttavia, ciò che a noi interessa di più è studiare l’afflato sociale che emerge con forza dal fotoreportage. Qui, Giorgio Lotti entra nell’anima dei soggetti, e fuori da un lessico della carità rivendica la dignità, la libertà e la speranza di un’umanità alla deriva dei propri dolori, delle proprie paure e di antiche ricchezze comunitarie, identitarie, culturali deposte ai limiti della sopravvivenza. A entrare con delicatezza nei fotoreportage di Giorgio Lotti... gli sbarchi degli albanesi in Italia, il terremoto in Friuli, l’alluvione di Firenze, l’iconologia sull’inquinamento dei fiumi, del mare, i viaggi in India, Iran, Sri Lanka, Cina... si raccolgono i veleni della discriminazione, le vessazioni sulle disuguaglianze, l’infelicità degli ultimi per mano del corifeo criminale della partitocrazia, che annienta i diritti dell’uomo e la bellezza del suo passaggio nel mondo. Le sue fotografie (di un bianconero stupendo, forte, deciso) sono un’accusa diretta dell’ideologia rapace liberista che favorisce la ferocia dei potenti. L’utopia libertaria che è al fondo del fare-fotografia di Giorgio Lotti raggela l’essenza dell’ispirazione nell’immagine compiuta ed è l’utensile necessario che permette di fissare l’intuizione fotografica nel corpo della storia, per non dimenticarla. Giorgio Lotti si accosta ai profughi albanesi, alle bare dei terremotati friulani portate a spalla, alla disperazione della popolazione fiorentina sommersa dalle acque dell’Arno... con un’eccezionale carica di verità, rispetto, accoglienza. Nelle sue immagini si leggono i tremiti del cuore e le lacrime di stelle, senza cadere mai nell’abuso del sentimentalismo o dell’estetismo del dolore. Il fotogiornalismo di Giorgio Lotti è discreto, mai gridato, sempre spostato dalla parte degli esclusi... lascia trasparire una giustizia violata, che è là, in quei corpi martoriati, abusati, traditi: fuoriesce, indignata, là dove non ci si aspetta e la si aspetta sempre là dove
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Sguardi su non c’è mai, se c’è mai stata. Certo è che il nostro pensiero randagio, estremo, radicale sull’uso eversivo del linguaggio fotografico è estraneo ad altre cose fotografiche di Giorgio Lotti, anche di grande livello estetico (paesaggi, pubblicità e ricerca sul colore, dove sono evidenti l’insegnamento e i riferimenti strutturali ai suoi maestri, Nino Migliori e Luigi Veronesi). E neanche diverse immagini di artisti ci è vicina; proprio, non ci interessano interventi di nessun genere sulla tessitura fotografica... crediamo piuttosto che la fotografia possa essere una forma d’arte o di comunicazione che si disfa dei propri rimorsi e dei propri rancori per vomitare sul sagrato della storia una visione altra dell’esistenza tra gli uomini. Il fotografo è uno squilibrato, un sabotatore, un poeta che si serve della realtà per situare nel disonore dei potenti cariche di verità non prostituite al tanfo del mercato o è un esegeta dell’enfasi per il quale non c’è altra verità che non sia dell’arte da vintage. Solo i nostri sospiri estremi ci salvano dalla pedagogia del Nulla fantasmato come Arte. La ritrattistica di Giorgio Lotti è spesso di una bellezza fulminante. Il ritratto di Zhou Enlai (il più stampato nel mondo, insieme a
quello del “Che” Guevara, di Alberto Korda, ormai mercificato fino alla nausea) è straordinario; e anche se il capo di stato assume una posa da dio in Terra, che guarda il futuro della Cina, omettendo o celando il comunismo come mattatoio dei diritti umani, resta un’icona di notevole compiutezza formale. Le sequenze di Rita Levi Montalcini, Indro Montanelli, Gianni Agnelli, Silvio Berlusconi e le sovraesposizioni (o i montaggi) di Giorgio Armani, Arafat e Yoko Ono sono di una finezza estetica singolare. Giorgio Lotti travalica il personaggio e pone il linguaggio fotografico oltre la portata del tempo. L’immagine malinconica di Fabrizio De Andrè, colto nella sua solitudine o intimità “nobiliare”, lo sguardo epico di Enrico Berlinguer, gettato nel futuro di un partito che muore... confermano che la fotografia parla alle stelle, e al di là del bene e del male contiene lo spaesamento o il frammento di un secolo. La fotografia del rispetto di Giorgio Lotti pone la poetica del discorso fotografico oltre la portata dell’attuale. «La poesia può parlare di immortalità, perché si abbandona al linguaggio, persuasa che esso abbracci ogni esperienza, passata, presente e futura» (John Berger), e in un caleidoscopio di emozioni fa dell’istante
fotografico lo specchio o la giostra dove l’amore dell’uomo per l’uomo trionfa su ogni cosa. L’arte di gioire non è di tutti, e la volontà del godimento di sé e per l’altro è il solo princìpio etico/estetico che si apre alla vita. La figurazione della grazia è un piacere liberatorio, e scaldarsi intorno al fuoco di Caravaggio o alla malinconia di Pier Paolo Pasolini o alla narrazione documentaria dei magnifici randagi della fotografia sociale (Matthew Brady, Eugène Atget, Jacob A. Riis, Lewis W. Hine, August Sander, Dorothea Lange, Tina Modotti, W. Eugene Smith, Robert Capa, Diane Arbus, Sebastião Salgado o alle istantanee di Gaetano Bresci, forse...) significa liberare le passioni come contro-morale dell’esistente e fare del princìpio di realtà un primo passo verso la bellezza dell’uomo della strada. La fotografia della gioia è l’espansione dei desideri e dei loro soddisfacimenti. In materia di fotografia, tutte le utopie sono autorizzate, permesse: meglio, si dà loro la possibilità di essere parte del sogno collettivo che si prende cura di tutti quelli che sono emarginati dalla cupidigia di ogni potere. «Prima viene il frutto della zucca», disse, «e poi vengono fiori» (parole di Ramakrishna -1836-1886-, annotate dal
suo discepolo Vivekananda). La fotografia del limite rivelato è traccia e memoria di molteplici sofferenze, e riporta l’urgenza dolorosa a necessità testimoniate nel firmamento icolonologico della conoscenza. La fotografia che vale non è che una funzione della comunità, e d’altro non può parlare se non di comunanze. È la fattografia poetica/visionaria dell’indicibile. Gli uomini in utopia lavorano per una società riconciliata con se stessa, e nella dismisura del loro piacere liberatorio superano ogni barriera sociale, non rispettano alcun freno e ridestano le anime più sensibili contro la tirannia della necessità. La sola libertà possibile (non solo) in fotografia è nella voluttà dei sentimenti struccati e cogliere nel presente l’avvenire che si fa carne, corpo, anima in una costellazione amorosa che rifiuta ogni autoritarismo in materia di arte o vita vissuta. La pazienza dell’asino (che non vuole il bastone, ma acqua, pane e un po’ di rispetto) o il volo immaginifico del calabrone (per la scienza, sarebbe impossibilitato a volare) sono al fondo di ogni felicità terrena che nella trasvalutazione di tutti i valori (Friedrich Nietzsche diceva) ritrova il cammino che porta alla liberazione dell’umanità. ❖