Mensile, 6,50 euro, Poste Italiane SpA - Spedizione in abbonamento postale - D.L. 353/2003 (convertito in Legge il 27-02-2004, numero 46), articolo 1, comma 1 - DCB Milano
ANNO XIX - NUMERO 183 - LUGLIO 2012
Gianni Berengo Gardin CON LEICA M MONOCHROM
Fotoricordo IL TEMPO DELLA SCUOLA
Non è venduta in edicola. Per averla hai una sola possibilità: sottoscrivere l’abbonamento annuale. 12 numeri 65,00 euro
Abbonamento 2012 (nuovo o rinnovo) in omaggio 1839-2009
Dalla Relazione di Macedonio Melloni alla svolta di Akio Morita M A U R I Z I O
R E B U Z Z I N I
1839-2009 Dalla Relazione di Macedonio Melloni alla svolta di Akio Morita
Come dire, dal dagherrotipo all’acquisizione digitale di immagini. E consecuzioni
INTRODUZIONE
DI
GIULIANA SCIMÉ
F O T O G R A P H I A L I B R I
prima di cominciare REPLICA IMMEDIATA. In merito all’articolo apparso sul numero di maggio di FOTOgraphia, Et voilà, Impossible, nel quale si cita la mostra Polaroid: Easy Art?, ospitata al Museo Nazionale della Scienza e della Tecnologia, dal 27 gennaio al 26 febbraio 2012, vorremmo precisare che questo progetto, partito nel 2010 e giunto al Museo per la sua terza edizione, ha fin dall’inizio raccolto l’appoggio di Impossible (che già nel 2010 aveva fornito i file per la stampa di alcuni artisti da loro suggeriti, materiale promozionale e un video sullo stabilimento Impossible). L’esposizione ha sempre dichiarato in modo trasparente (fin dal sottotitolo) che vengono esposte “stampe fine art di immagini polaroid”. La priorità dell’iniziativa è infatti quella di evidenziare la flessibilità espressiva che questa tecnica fotografica permette. Esporre gli originali non avrebbe garantito la pluralità di contributi (ottantanove artisti e fotografi da dodici paesi), che la mostra offre, dato lo stato di conservazione di alcuni originali o la distanza geografica dei loro proprietari. Scopo del progetto è avvicinare al fascino di questa tecnica un pubblico non esperto. In questa direzione, andavano anche i workshop proposti ai visitatori, nei quali -peraltro- venivano utilizzate pellicole fornite da Impossible. Per maggiori informazioni e per vedere i video della mostra di Milano e le precedenti edizioni: http://www.polaroid-easy-art.com. Mirko Albini (Curatore del progetto Polaroid: Easy Art?) Deborah Chiodoni (Direttore Ufficio stampa Museo Nazionale della Scienza e della Tecnologia)
- Andare via? Ma se non potete muovervi neanche di un millimetro! Siete fotografate, siete. Come tante statuine inchiodate una vicina all’altra, in fila... Dino Buzzati; su questo numero, a pagina 59 La macchina fotografica non è una macchina intelligente che aiuta le persone stupide a diventare artisti. Anzi, è una macchina stupida che funziona solo nelle mani di persone intelligenti a diventare testimoni autentici della propria epoca. Pino Bertelli; su questo numero, a pagina 65 La fotografia racconta tanto, spesso anche questo. Angelo Galantini; su questo numero, a pagina 59
Copertina L’odierna copertina della rivista evoca -a proprio modola figura di Marilyn Monroe, richiamando altresì il film Some Like it Hot (in italiano A qualcuno piace caldo). Questa illustrazione, ripresa e riproposta dagli esercizi del Corso di illuminazione che il grossista Unionfotomarket ha organizzato e svolto all’inizio degli anni Novanta, fu già usata dalla rivista FotoPRO, nell’agosto 1992, nel trentesimo anniversario. Considerata la propria immutata validità, dieci anni dopo, cioè dieci anni fa, ripetemmo la stessa copertina, per il numero di settembre 2002 di FOTOgraphia. Altri dieci anni, e terza riproposizione odierna, che conserva inalterato il proprio smalto originario. Poi, basta
3 Altri tempi (fotografici) Da un annuncio pubblicitario Ilford dei primi anni Sessanta, pubblicato su settimanali a larga diffusione: la pellicola “scelta” dai fotografi professionisti
7 Editoriale Per quanto, quando si cercano paralleli, la fotografia venga spesso riferita alla pittura, e all’arte in generale, a nostro modo di intendere, ha più debiti di riconoscenza con il teatro: ovverosia con la creazione di illusioni
8 Ciao, Federico A fine maggio, è mancato Federico Garolla, straordinario fotogiornalista che ha agito dalla fine degli anni Quaranta
16 Notizie Attrezzature, vicende e altre segnalazioni
18 Quei fantastici ponti Nel film I ponti di Madison County, dal romanzo omonimo, si profila l’archetipo del fotogiornalista. Non lo stereotipo Ricerca iconografica di Filippo Rebuzzini
LUGLIO 2012
R , RIFLESSIONI IFLESSIONI, OSSERVAZIONI E COMMENTI OSSERVAZIONI E COMMENTI SULLA FOTOGRAFIA SULLA FOTOGRAFIA
24 La racconta Zannier Nuova edizione della Storia della fotografia italiana. Dalle origini agli anni ’50, di Italo Zannier. Irrinunciabile
26 È fotografia! Selezione dalle Shortlist della fotografia non professionale (Open) dei Sony World Photography Awards 2012, integrata con un paio di vincitori di categoria. Fotografie che raccontano il mondo, la vita, l’esistenza di Angelo Galantini
33 Bianconero Gianni Berengo Gardin, il più noto fotografo flâneur italiano, ha accolto la proposta di Leica di sperimentare sul campo la nuova Leica M Monochrom. Ha fotografato con uno dei prototipi operativi che la casa madre ha messo a disposizione di considerevoli fotografi internazionali. Le sue impressioni e altre considerazioni di Maurizio Rebuzzini
38 Kodak/2: il ritorno! Un accordo commerciale stabilisce nuovi termini della distribuzione in Italia dei prodotti Kodak: a cura del Gruppo Fowa-Nital, uno dei più attivi e concreti del mercato italiano, uno dei più convincenti di Antonio Bordoni
44 Cinquantenario Marilyn Celebrazione dei cinquanta anni dalla scomparsa di Marilyn Monroe: 5 agosto 1962-2012. Oltre qualcosa di nostro -poco per il vero-, riprendiamo e riproponiamo avvincenti annotazioni di Santi A. Urso
54 Il tempo della scuola C’è stato un tempo nel quale la fotografia di gruppo, in posa, ha segnato la cadenza del percorso scolastico di molti di noi. Datiamo questa epopea a stampe bianconero, su cartoncino consistente, sul cui retro ciascuno raccoglieva le firme dei compagni di classe, oppure -al minimo- vi riportava i nomi. Ci domandiamo il senso di questo ricordo. Con una consistente appendice -autentica protagonista- da e con Dino Buzzati
61 Dia Sotto le Stelle
Anno XIX - numero 183 - 6,50 euro DIRETTORE
RESPONSABILE
Maurizio Rebuzzini
IMPAGINAZIONE Maria Marasciuolo
REDAZIONE Angelo Galantini
FOTOGRAFIE Rouge
SEGRETERIA Maddalena Fasoli
HANNO
COLLABORATO
Gianni Berengo Gardin Pino Bertelli Antonio Bordoni Chiara Lualdi Andrea Pacella Franco Sergio Rebosio Ciro Rebuzzini Filippo Rebuzzini Santi A. Urso Redazione, Amministrazione, Abbonamenti: Graphia srl, via Zuretti 2a, 20125 Milano; 02-66713604 www.FOTOgraphiaONLINE.it; graphia@tin.it. ● FOTOgraphia è venduta in abbonamento. ● FOTOgraphia è una pubblicazione mensile di Graphia srl, via Zuretti 2a, 20125 Milano. Registrazione del Tribunale di Milano numero 174 del Primo aprile 1994. Poste Italiane SpA - Spedizione in abbonamento postale - D.L. 353/2003 (convertito in Legge il 27-02-2004, numero 46), articolo 1, comma 1 - DCB Milano. ● A garanzia degli abbonati, nel caso la pubblicazione sia pervenuta in spedizione gratuita o a pagamento, l’Editore garantisce la massima riservatezza dei dati forniti dagli abbonati e in suo possesso, fatto diritto, in ogni caso, per l’interessato di richiederne gratuitamente la rettifica o la cancellazione ai sensi della legge 675/96. ● FOTOgraphia Abbonamento 12 numeri 65,00 euro. Abbonamento annuale per l’estero, via ordinaria 130,00 euro; via aerea: Europa 150,00 euro, America, Asia, Africa 200,00 euro, gli altri paesi 230,00 euro. Versamenti: assegno bancario non trasferibile intestato a Graphia srl Milano; vaglia postale a Graphia srl - PT Milano Isola; su Ccp n. 28219202 intestato a Graphia srl, via Zuretti 2a, 20125 Milano; addebiti su carte di credito CartaSì, Visa, MasterCard. ● Nessuna maggiorazione è applicata per i numeri arretrati. ● È consentita la riproduzione di testi e fotografie, magari citando la fonte (ma non è indispensabile, né obbligatorio farlo). ● Manoscritti e fotografie non richiesti non saranno restituiti; l’Editore non è responsabile di eventuali danneggiamenti o smarrimenti. Fotocomposizione DTP e selezioni litografiche: Rouge, Milano Stampa: Arti Grafiche Salea, Milano
Rivista associata a TIPA
Organizzata e svolta da Andreella Photo, ventunesima edizione di un fantastico festival della fotografia: a MalpensaFiere, il quattordici e quindici settembre
64 Mario Dondero Sguardo su un interprete della fotografia comunarda di Pino Bertelli
www.tipa.com
editoriale T
anto per essere chiari, sottolineiamo e evidenziamo che la Fotografia è un linguaggio autonomo da ogni altra forma di espressione: è definito e caratterizzato da una propria sintassi indipendente e si edifica su stilemi accertati e riconosciuti. Allo stesso tempo e momento, come ogni espressione, nel proprio percorso e nella propria manifestazione, a volte, può attingere ad altro, per plasmare richiami visivi espliciti e noti. Non è certo per caso che alcune delle fotografie contemporanee, soprattutto di fotogiornalismo, abbiano richiamato opere d’arte della Storia (magari, a partire dalla deposizione di Tomoko, icona del reportage di W. Eugene Smith, e dalla World Press Photo of the Year 2012, di Samuel Aranda, entrambe riferite spesso alla Pietà, di Michelangelo). Essenzialmente, quando si debbono rintracciare precedenti espressivi, non ci si allontana troppo dall’arte (pittura, soprattutto, e scultura, in subordine), come se contasse soltanto la consecuzione temporale a tutti evidente: la fotografia è arrivata dopo la pittura, e per un certo tempo ha addirittura pietito una propria presunta “artisticità” imitandola (per esempio, con lo stucchevole Pittorialismo del secondo Ottocento). A questo punto, una notazione è d’obbligo: se si debbono individuare parentele, sono più propenso a cercarle altrove, nonostante la vistosità del parallelo con la pittura. Personalmente, penso che la fotografia abbia maggiori debiti di riconoscenza con il teatro. E qui mi spiego. Teatro, nel senso che la Fotografia, tutta la Fotografia, è più una messa in scena di una illusione che una raffigurazione del vero (anche quando è composta e preparata scenograficamente). Illusione, non inganno, che è tutt’altra vicenda, che scorre da sé. Illusione, nel senso che nella propria rappresentazione evoca situazioni e consistenze che si manifestano in sintonia di intenti con l’osservatore: coprotagonista dell’intero evento. Ricordiamo i giochi dell’infanzia? Nel giocare, creavamo sempre un’illusione a noi confortevole. Consapevoli di non agire nel reale, ma di simularlo, in un appartamento nel quale la vita vera scorreva per se stessa, declinavamo il gioco all’imperfetto: “io ero... tu eri... lui/lei era...”. Ecco qui un esplicito richiamo della teatralità della comunicazione visiva propria e caratteristica della Fotografia: così fantastica da confezionare e proporre avvincenti illusioni (lo fanno anche il fotogiornalismo e tutta la fotografia del vero e dal vero). Ora: se accogliamo e assumiamo questa ipotesi, se accettiamo l’idea di illusione (non inganno), sottolineiamo come e quanto la fotografia sia effettivamente un linguaggio espressivo autonomo, che nel momento nel quale acquisisce parametri altrui li ridisegna in una forma propria e indipendente, oltre che nuova e innovativa. Prendendo in prestito da Pino Bertelli, che conclude sempre la fogliazione della rivista, buona fotografia a tutti. Maurizio Rebuzzini
Il bagno di Tomoko Uemura, di W. Eugene Smith (Minamata, Giappone; 1972), e la World Press Photo of the Year 2012 (sul 2011), dello spagnolo Samuel Aranda (Corbis Images), realizzata il quindici ottobre, durante un assignment per The New York Times, che mostra una donna velata con un parente ferito tra le braccia [ FOTOgraphia, marzo 2012], sono state allineate alla Pietà, di Michelangelo. Accettato il parallelo -inevitabile?-, sottolineiamo quanto la Fotografia abbia più debiti di riconoscenza con il teatro che con l’arte.
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Ricordo di Maurizio Rebuzzini
L
CIAO, FEDERICO
Lo confesso. Quando ho conosciuto Federico Garolla, nell’estate 2006, sapevo poco di lui, e quel poco era altresì frammentario. Poi, complice una simpatia spontanea tra noi, presto sfociata in amicizia, ho approfondito la conoscenza del suo fantastico percorso fotografico. Soprattutto grazie alle mostre curate da Uliano Lucas, inflessibile e determinato osservatore del fotogiornalismo italiano (e non soltanto italiano, ma soprattutto), che l’ha sempre incluso in ogni sua recente rievocazione e ricostruzione storica, non solo per me, Federico Garolla è diventato autore di spicco del secondo Novecento. Come merita, come ha meritato. In breve, tre sono i periodi fondanti della avvincente parabola fotografica di Federico Garolla: il fotogiornalismo degli anni Cinquanta e Sessanta (avviato alla fine dei Quaranta), accompagnato da fantastiche escursioni nella moda (soprattutto realizzata per strada, in tempi antecedenti a quelli che la Storia registra per e con Richard Avedon, e con altrettanta maestria, come riferiamo più avanti); la trasformazione in editore di guide turistiche e museali, per le quali realizzò anche i contenuti fotografici, tra geografia, luoghi, usi e costumi (con contorno di fotografia di food); e la più recente gestione e valorizzazione dell’archivio, abilmente coordinato dalla figlia Isabella. Federico Garolla è mancato la notte tra il trenta e trentuno maggio, a ottantasette anni. Per mille motivi indipendenti dalle rispettive volontà, negli ultimi tempi ci siamo frequentati poco, o nulla del tutto, a dispetto dell’intensità di incontri, parole, chiacchiere e divagazioni che hanno scandito gli anni precedenti. Non per questo, che è dipeso soltanto dai modi alterati di certi miei momenti, ho smesso di stimarlo, sia come fotografo (che è poi la ragione che ci ha fatti incontrare), sia come straordinaria persona: uomo del Sud, nell’autentica accezione dell’idea, Federico Garolla è stato uno dei pochi ad aver inteso -così come anche io la
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considero- la fotografia come s-punto privilegiato di osservazione e non come arido punto di arrivo. Ora, nella commozione del momento, affiorano tanti ricordi, tutti piacevoli. Sono miei, e li tengo per me, custoditi nel cuore, pronti ad affiorare come e per quanto il ritmo quotidiano dell’esistenza arriva/arriverà a richiedere. Invece, quelli che possono e devono essere condivisi sono il senso e modo del suo essere stato fotografo. Per farlo, riprendo la traccia dei termini con i quali lo presentammo sulla rivista, nell’ottobre 2006, e l’ho inserito nel programma del mio corso di Storia della Fotografia, alla Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università Cattolica del Sacro Cuore (sede di Brescia). Colta scrittura fotografica, titolammo, con richiamo dalla copertina [a sinistra]. E oggi, e qui, si impongono conferma e replica: con le proprie fantastiche immagini, Federico Garolla ha affermato a chiare lettere e voce tonante il proprio straordinario valore.
Ricordo Federico Garolla (1925-2102): Milano, 1954.
Nell’ottobre 2006, presentammo la fotografia di Federico Garolla, con lancio dalla copertina (l’attrice Silvana Mangano, nella piscina vuota della sua casa; Roma, 1958). Inevitabile: colta scrittura fotografica.
Dal reportage Infanzia abbandonata, di Federico Garolla, preparazione alla passeggiata domenicale dei ragazzi dell’Istituto Don Bosco; Napoli, 1959.
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Ricordo Il suo professionismo e la sua professionalità fotogiornalistica appartengono a pieno diritto (e dovere) alla straordinaria stagione dei settimanali che hanno accompagnato la vita e la storia italiana nei decenni successivi alla Seconda guerra mondiale. In quale contesto si collocano la sua personalità di fotogiornalista (a volte prestata alla moda: un’alta moda ambientata in avvolgenti esterni delle città d’arte italiane) e la sua capacità di racconto (che si è manifestata in notevoli e non comuni servizi pubblicati da testate autorevoli e prestigiose)? Soprattutto, occorre rilevarlo, in una interpretazione fotografica costruita su una solida cultura individuale: non nozionismo di date, persone e luoghi (che pure c’è stato), ma fondata e solida materia attraverso la quale ha espresso inquadrature dirette, composizioni di immediata decifrazione, resoconti in forma fotografica che, assieme a una identificata schiera di altri autori parigrado, hanno alimentato una irripetibile stagione del fotogiornalismo italiano, in capace equilibrio tra la cronaca del giorno e la testimonianza in profondità. A questo punto va rilevato come non sia certo per caso che Federico Garolla sia stato significativamente e consistentemente presente nelle più accreditate retrospettive fotogiornalistiche, che da qualche tempo attraversano il nostro paese, dando peso, valore e sostanza a una fotografia italiana che dalle relative cronache si è proiettata a testimonianza viva e palpitante di una concreta storia nazionale. Come appena annotato, la fotografia di Federico Garolla è appartenuta a un tempo e un ambiente giornalistico entro il quale si sono mossi fotografi di «solida cultura individuale», che si è tradotta in una attenta visione della società, rappresentata in immagini capaci di agire su un doppio binario coesistente: verso la mente e il cuore dell’osservatore (diciamo del pubblico dei giornali dai quali i servizi fotografici sono stati originariamente commissionati, e sui quali sono stati pubblicati). È, non soltanto è stata, una fotografia di concreta visione e documentazione, come anche una fotografia -simultaneamente- di emozio-
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Federico Garolla ha sempre parlato di questa fotografia, intitolata Aspettando la pioggia, realizzata a Motta Montecorvino, in provincia di Foggia, nel 1958, come di una delle sue preferite, tra le tante realizzate negli anni, nello scorrere dei decenni, dalla fine dei Quaranta. A memoria, addirittura, della sua preferita in assoluto. Nulla da aggiungere, oltre la condivisione: non in termini assoluti, quanto relativi, soprattutto alla luce di una vastità e qualità di fotografia fuori dal comune, che ha fatto del racconto fotogiornalistico valore, impegno e credo.
Ricordo
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Ricordo ne: soprattutto nel caso e in presenza di personaggi pubblici, dalla letteratura e cultura (ai tempi, osservate con avida attenzione) al cinema (in un divismo d’altra epoca e consistenza). In momenti nei quali tutto, non solo tanto, andava inventato, fotogiornalisti del calibro di Federico Garolla hanno addirittura creato un linguaggio: quello di una fotografia italiana che meriterebbe sollecita e diligente considerazione internazionale (ma è un problema di poteri economici e culturali, ancora latitanti nel nostro paese). Tra l’altro, sebbene in molti ambiti Federico Garolla sia stato individuato e indicato anche come fotografo di moda, oltre che raffinato fotogiornalista, bisogna rilevare un sottile distinguo. Certo, le sue fotografie di moda sono incantevoli: sia quanto lo sono gli abiti dell’alta moda che ha sapientemente raffigurato, sia in relazione alla sua capacità di fare necessità virtù. «Quando tutto andava inventato», Federico Garolla ha portato le modelle per strada, dove ha applicato i canoni del fotogiornalismo per costruire e realizzare situazioni in pertinente equilibrio tra la vita reale e il sogno evocato. A livello internazionale, Richard Avedon è celebrato per questa fotografia di moda degli anni Cinquanta: e l’attribuzione, come appena rilevato, dipende dall’assenza della fotografia italiana dal palcoscenico internazionale. Date alla mano, Federico Garolla ha realizzato fotografie di alta moda in esterni in sostanzioso anticipo temporale. Ma non è di questo che occorre parlare, quanto, rientrando prontamente nel percorso, evidenziare il distinguo annunciato. Oltre che nella generica fotografia di moda, Federico Garolla ha acquisito particolari ed esclusivi meriti in quella che potremmo definire “fotografia di atelier”. È all’interno di questi autentici laboratori di creatività applicata che, nell’intensità degli anni Cinquanta, ha realizzato mirabili racconti, trasferendo al pubblico atmosfere e visioni inedite, che mai prima di allora avevano varcato la porta di ingresso (e relativa uscita). Gli atelier di Valentino, di Salvatore Ferragamo, delle sorelle Fontana, di Jole Veneziani, di Emilio Schuberth, di An-
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L’indossatrice Sophie Malga all’Arc de Triomphe; Parigi, novembre 1952.
Collezione primavera-estate di Emilio Schuberth, indossata dalla modella Harriette Jones; Milano, 1955. [Ai tempi, la fotografia fu rifiutata dalla rivista Bellezza, perché il cavallo sullo sfondo risultava mosso (?!)].
Collezione primavera-estate di Vito; Isola dei Pescatori, Lago Maggiore, 1954.
Ricordo
Il regista e attore Vittorio De Sica nella Galleria del Chiatamone; Napoli, 1961.
Il regista del neorealismo italiano Pietro Germi all’osteria; Roma, aprile 1956.
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tonelli, di Angelo Litrico sono stati fotografati tra il lavoro, la presentazione dei modelli, le visite del jet-set e momenti di rilassata intimità. In quegli anni, Federico Garolla ha confezionato e messo insieme una serie fotografica che non ha eguali al mondo, e che da sola basterebbe a incoronarne la personalità d’autore. Però, non sarebbe legittimo farlo, perché risulterebbe riduttivo limitarsi a un solo aspetto di una poliedrica capacità espressiva. Diciamolo con franchezza, con la franchezza che tanta onestà fotografica merita (senza peraltro esigerla): senza costringerci e comprimerci in etichette e definizioni prestabilite, Federico Garolla è
stato un fotografo a tutto campo. Con maestria e capacità fuori del comune, è passato attraverso molteplici generi applicati. Ma, in definitiva, è sempre stato un autentico fotogiornalista: la vocazione non mente mai. Lo è stato, come ci siamo dilungati, anche quando ha affrontato l’alta moda. Lo è stato, anche quando ha disegnato incantevoli ritratti di personaggi del cinema, della cultura e della società. Lo è stato, anche quando è passato alle più cadenzate sessioni di cucina e documentazione d’arte. Lo è stato, perché è. Purtroppo... è stato. Ciao, Federico. ❖
Notizie a cura di Antonio Bordoni
forzante, che lo rende molto resistente all’usura. (M.Trading, via Cesare Pavese 31, 20090 Opera Zerbo MI; www.m-trading.it).
AGGIORNAMENTO LEICA X2. È stato rilasciato il primo ag-
IN FORMA COMPATTA. Riservato alle reflex ad acquisizione digitale di immagini, il nuovo zoom Sigma 18-250mm f/3,5-6,3 DC Macro OS HSM offre una consistente escursione focale, con aggiunta di messa a fuoco minima da distanza convenientemente ravvicinata: 35cm. Oltre lo schema ottico finalizzato, si segnala una costruzione meccanica con materiali innovativi, che hanno contribuito alla sua compattezza. Per la costruzione del barilotto, è stato usato il nuovo TSC (Thermally Stable Composit), che non risente delle variazioni di temperatura e mantiene inalterate le dimensioni e la struttura in ogni condizione ambientale. Questa prerogativa è particolarmente utile e proficua ai fotografi di viaggio e natura, che possono fare affidamento su uno zoom leggero e compatto, in grado di far fronte a qualsiasi situazione climatica. Nelle stesse condizioni, come in ogni altra applicazione fotografica, è adeguatamente efficace la consistente escursione focale, che passa rapidamente dall’ampia visione grandangolare 18mm al consistente avvicinamento tele 250mm: dall’angolo di campo di 76,5 gradi all’angolo di campo di 6,5 gradi. Da cui, lo zoom afferma la sua potenzialità come obiettivo onnicomprensivo, quando si deve ridurre l’attrezzatura al minimo, senza peraltro precludersi capacità
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operative e applicative della fotografia di ogni genere. La messa a fuoco minima da 35cm, a tutte le focali, equivale a un rapporto di ingrandimento limite di 1:2,9 (1:2, con sensori in dimensioni APS-C). Quindi, l’accomodamento ravvicinato si combina con la rotazione della ghiera zoom, in modo da poter variare micrometricamente e secondo necessità le dimensioni del soggetto inquadrato. Il disegno ottico di sedici lenti divise in tredici gruppi include lenti asferiche doppie ed elementi SLD (Special Low Dispersion, a basso indice di dispersione), grazie ai quali la finalizzazione alle esigenze fotografiche del sensore (raggi immagine che lo raggiungono perpendicolarmente) corregge in misura sostanziosa ogni aberrazione ottica. La stabilizzazione ottica OS, tecnologia proprietaria, offre una compensazione di circa quattro stop, che permette di minimizzare i movimenti accidentali della reflex, anche nella fotografia a distanza ravvicinata realizzata a mano libera (il sistema OS non è presente nelle configurazioni Sony e Pentax, per le quali è disponibile la versione Sigma 18-250mm f/3,56,3 DC Macro HSM). Lo zoom Sigma 18-250mm f/3,5-6,3 DC Macro OS HSM adotta un innesto a baionetta in ottone, che offre solidità e precisione nel proprio innesto al corpo della reflex. La sua superficie è lavorata con un trattamento rin-
giornamento firmware Versione 1.1, per la compatta Leica X2. I miglioramenti riguardano prima di tutto il rumore, evidente a 1600 Iso equivalenti, e le funzioni automatiche di bilanciamento del bianco. L’aggiornamento perfeziona anche le prestazioni generali della compatta. L’aggiornamento è scaricabile gratuitamente. Il firmware e le istruzioni per l’installazione si trovano nel sito Leica, alla voce “Aggiornamenti”, nella sezione “Prodotti / Fotocamere Compatte / Leica X2”: http://it.leicacamera.com/photography/com pact_cameras/x2/.
La Leica X2 dispone di un sensore immagine Cmos APS-C, ad alta risoluzione di 16,5 Megapixel. In combinazione con il superbo obiettivo grandangolare Leica Elmarit 24mm f/2,8 Asph, il sensore garantisce massima qualità d’immagine e brillantezza superiore. Il corredo operativo della compatta è completato da numerose impostazioni (dal controllo manuale totale alle funzioni automatiche) e da un concetto di utilizzo estremamente intuitivo. Tutto questo, unito al suo elegante design, rende la Leica X2 la compatta high-class per i fotografi ambiziosi, che desiderano concentrarsi completamente sul proprio soggetto e che prediligono immagini creative e realistiche. È disponibile anche un’ampia gamma di accessori, che permettono di adattare la Leica X2 allo stile particolare di ogni singolo fotografo: per esempio, il mirino elettronico Viso-Flex ad alta risoluzione, con 1,4 Mega-
pixel di risoluzione, ruotabile fino a novanta gradi, oppure il luminoso mirino ottico esterno e una ulteriore impugnatura, per una portabilità migliore e più sicura. (Leica Camera Italia, Foro Buonaparte 59, 20121 Milano; www.it.leica-camera.com).
PROGRAMMA DEDICATO. Il nuovo progetto tecnico-commerciale Fujifilm Professional Dealer (FPD) è dedicato ai negozianti che si indirizzano alla fotografia professionale (per l’appunto). Si concretizza in una rete di punti vendita formata da esperti e competenti del settore, al fine di creare un network solido e porre le basi per una collaborazione proficua e sinergica. Il canale formato dai punti vendita fotografici è considerato un perno fondamentale per la crescita del brand e la promozione del prodotto: attività e servizi che hanno come scopo primario quello della soddisfazione dell’utente finale. Fujifilm Italia sta vivendo un significativo momento di crescita, sollecitato dal lancio di prodotti innovativi (soprattutto, l’avvincente Fujifilm X-Pro 1, ma non soltanto questa; FOTOgraphia, marzo e aprile 2012) e dalle diverse attività di comunicazione che stanno approcciando nuovi segmenti e hanno permesso a Fujifilm di confermarsi come un riferimento leader nel mercato della fotografia. Le recenti novità lanciate sul mercato hanno reso urgente la
Notizie necessità di rivedere le strategie commerciali, per creare un rapporto più stretto con il canale che agisce a contatto con gli utenti finali, sia fotografi non professionisti sia professionisti. Il fotonegozio specializzato è un riferimento determinante durante tutte le fasi di scelta, acquisto e post vendita. Per questo motivo, è necessario che l’azienda che promuove i propri prodotti diventi anche un partner alleato e affidabile. Per i rivenditori che fanno parte del nuovo network, l’adesione al progetto FPD dischiude vantaggi sia strettamente commerciali sia di marketing, quali l’anteprima delle novità di prodotto e la fruizione di un aggiornamento continuo sulle tecnologie, attraverso i corsi Fujifilm Academy, gestiti direttamente dagli specialisti di prodotto Fujifilm Italia. (Fujifilm Italia, Strada
Statale 11 - Padana Superiore 2b, 20063 Cernusco sul Naviglio MI; www.fujifilm.it).
UN GIGANTE! È stato annunciato un consistente supertele del sistema ottico Nikkor, che si aggiunge alla linea di obiettivi in formato FX (pieno formato 24x36mm): AF-S Nikkor 800mm f/5,6, dotato di stabilizzazione ottica (VR). Di fatto, si tratta del più lungo teleobiet-
tivo del sistema ottico, indirizzato soprattutto alla soddisfazione delle esigenze e necessità dei professionisti dello sport, del giornalismo e della natura. Il prototipo operativo sarà anticipato ai fotogiornalisti accreditati al prestigioso torneo Open Golf Championship, del Royal Lytham & St. Annes Golf Club,
del Lancashire, in Inghilterra, dal diciannove al ventidue luglio, del quale Nikon è sponsor dal 1993. La presentazione ufficiale è prevista alla Photokina 2012, a Colonia, in Germania, dal diciotto al ventitré settembre. Con l’occasione, Nikon afferma di aver raggiunto la quota di settanta milioni di obiettivi Nikkor e trenta milioni di AF-S Nikkor dotati di motore SWM (Silent Wave Motor). (Nital, via Tabacchi 33, 10132 Torino; www.nital.it). ❖
Cinema
di Maurizio Rebuzzini - Ricerca iconografica di Filippo Rebuzzini
QUEI FANTASTICI PONTI
C
Considerando la trasposizione cinematografica dei Ponti di Madison County, film sceneggiato dall’omonimo romanzo best seller di Robert James Waller (dal 1993, pubblicato in una consistente quantità di ristampe successive, dall’italiano Frassinelli), la domanda che ci si deve porre è soprattutto una. Dal nostro punto di vista mirato, oltre che viziato, ci chiediamo se Robert Kincaid, il fotografo protagonista della vicenda, del quale si ipotizza un assegnato da parte di National Geographic Magazine, sia uno stereoti-
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A nostro modo di vedere, il fotografo visualizzato nel film I ponti di Madison County (interpretato da Clint Eastwood, anche regista) compone i tratti di un archetipo: è consapevolmente se stesso.
po, oppure un archetipo. La differenza è essenziale e sostanziosa. Da una lettura plausibile, che vede lo stereotipo come prodotto della sottocultura e l’archetipo come effetto della cultura, nasce un divario che non ha modo di essere colmato: le due attribuzioni possibili stanno ciascuna sulla propria sponda, senza potersi avvicinare o -tanto meno- confondere l’una con l’altra. Se ci serve un esempio chiarificatore, eccoci qui: stereotipi dei nostri giorni sono i giovani manager d’assalto, che vestono con completi scu-
ri di almeno una taglia inferiore alla propria, hanno uno zaino nero sulla spalla (per lo più, destra) e sono compulsivamente sempre collegati con la Rete (soprattutto tramite iPad, anche in treno, sui mezzi pubblici cittadini, a tavola, per la strada). Sono stereotipi, perché disposti a modificare e rivedere ogni condotta e la propria postura su indicazioni modaiole altrui: fino a comportamenti successivi contrari e opposti ai precedenti. A differenza, gli archetipi, inviolabilmente rappresentativi di una collettività e/o socialità, agiscono in-
Cinema
dipendentemente da sollecitazioni momentanee dall’esterno: sono sempre consapevolmente se stessi.
NEL FILM, ARCHETIPO A nostro modo di vedere, il fotografo Robert Kincaid dei Ponti di Madison County, intrigantemente portato sullo schermo da Clint Eastwood, anche regista del film, è un archetipo. Per quanto molti dei suoi atteggiamenti siano in qualche modo e misura “di maniera” (in rispetto al romanzo, è alto, atletico, affascinante; guida un pickup Chevrolet, suona la chitarra, è vegetariano e fuma Camel), incarna una raffigurazione del fotoreporter che non si lascia condizionare da pressioni passeggere e transitorie. La trasposizione cinematografica è accurata, almeno tanto quanto lo sono i passaggi fotografici del romanzo, nel quale si fa esplicito riferimento alle Nikon F (senza esposimetro Photomic), utilizzate su treppiedi Gitzo e inviolabilmente caricate con diapositiva Kodachrome. Nonostante questo, o forse proprio per questo, confondendo archetipo con stereotipo, nell’agosto 1995, in simultanea all’uscita del film nelle sale americane (due giugno; in Italia, dal successivo ventisette ottobre), l’autorevole National Geographic Magazine si è sentito in dovere di prendere le distanze dall’evocazione sceneggiata di un suo ipotizzato fotografo: ne riferiamo a parte, con un resoconto di Andrea Pacella, pubblicato in un apposito riquadro, a pagina 20.
Inviato in Indiana, alla ricerca dei ponti di legno ancora presenti sui fiumi della contea di Madison, il fotografo Robert Kincaid (Clint Eastwood) incontra Francesca Johnson (Meryl Streep), che gli fa da guida nella regione.
(in alto, a destra) La sostanza fotografica del film I ponti di Madison County è presto riassunta: Nikon F su treppiedi Gitzo, caricata con pellicola Kodachrome. Se proprio vogliamo slittare nel feticismo, fosse anche solo visivo, segnaliamo la sequenza di scatti consecutivi con relativa ricarica a leva dell’otturatore e avanzamento della pellicola.
Intanto, occupiamoci del film. Come già annotato, in I ponti di Madison County, dall’omonimo romanzo di Robert James Waller, Clint Eastwood è Robert Kincaid, un ipotizzato fotografo del National Geographic Magazine che incontra una donna sposata (Francesca Johnson Meryl Streep), durante un reportage alla ricerca dei ponti di legno ancora presenti sui fiumi dell’Indiana. Si amano intensamente, ma poi non hanno la forza di restare assieme. Ognuno torna alla propria vita, che non sarà più quella di prima, con nel cuore la sequenza di quattro giorni che hanno indelebilmente segnato le rispettive esistenze. Così schematizzata, la trama può risultare scontata, ma invece ci sono le premesse per qualcosa di vigoroso e originale. Diretto dallo stesso Clint Eastwood, uno dei più convincenti registi statunitensi dei nostri tempi, il film finalizza la fotografia a pretesto, per giustificare l’incontro tra due esistenze. Il soggetto della vicenda è l’amore, con tutte le sue controverse implicazioni. Quello che è stato definito il fenomeno della letteratura statunitense contemporanea è un grande romanzo di sentimenti, ai quali l’ipotesi fotografica (Nikon F, Gitzo, Kodachrome e dintorni) fa da semplice corollario, o quantomeno da commovente e appassionante collante. Consuete (e malaugurate) inesattezze di traduzione a parte -per esempio, “il flessibile dello scatto” invece dello “scatto flessibile”-, il romanzo originario è comunque fotograficamente adeguato. Lo stesso si può dire del film: le sessioni di ripresa sfruttano la luce dell’alba e del tramonto, Robert Kincaid è uno scrupoloso professionista che ogni sera ripulisce la propria attrezzatura, e poi si parla anche di quel bagliore di luce che immediatamente dopo il tramonto, e prima del buio, illumina il cielo con una incantevole brillantezza. Il resto è romanzo e cinema, magari è anche melodramma; e non potrebbe, né dovrebbe, essere altrimenti.
IN ASSIGNMENT Nella fantasia letterario-cinematografica, Robert Kincaid viene chiamato a lavorare per il National Geographic grazie a una fotografia pubblicata su un calendario. Niente di più lontano
dalla realtà. Al proposito, sono illuminanti le parole di Kent J. Kobersteen, direttore associato della fotografia del prestigioso mensile statunitense: «Per quanto bella possa essere -dice-, una sola fotografia non rappresenta nulla. Noi abbiamo bisogno di valutare un portfolio ampio. La competizione per gli spazi sulla rivista e per ottenere nostri incarichi è durissima. Ogni anno, riceviamo centinaia di proposte e progetti, e ogni anno non ne pubblichiamo più di settanta. Anche se si può contare su un portfolio assolutamente valido, la strada per entrare a far parte del nostro staff di fotografi è lastricata di difficoltà e ostacoli». E qui, prendiamo le nostre debite distanze: è cinema, ci viene da dire, e tu non puoi farci niente. Che il cinema alteri a propria convenienza la realtà è un dato di fatto. E lo è altrettanto che questa presunta convenienza scenica si sia evoluta in linguaggio, in sintassi. Come dire: da una parte la vita, dall’altra la sua finzione cinematografica (nella quale si trova facilmente parcheggio, il tempo scorre in modo conveniente, gli abiti cacciati alla bell’e meglio in valigia sono lindi e impeccabili all’arrivo a destinazione...). Quindi, le approssimazioni di passo vanno accettate in misura del racconto complessivo. Niente d’altro. Da cui, ci sta anche un incarico ottenuto in dipendenza di una sola fotografia. Ammesso e concesso che questo sia utile alla sceneggiatura: in questo caso, di una memorabile storia d’amore.
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Cinema NATIONAL GEOGRAPHIC HA DISSENTITO
Confuso per stereotipo, l’archetipo del fotografo idealizzato nei Ponti di Madison County ha sollecitato una serie di precisazioni da parte del celeberrimo National Geographic Magazine, alla cui realtà si riferisce il film (dal romanzo). Sul numero di agosto 1995 del prestigioso mensile statunitense [a sinistra], la giornalista Cathy Newman ha scandito le differenze tra la realtà (la loro realtà) e la fantasia cinematografica (e romanzata). Per passi cadenzati, ha raccontato frammenti di vita dei fotografi dello staff, presentandola attraverso loro stesse testimonianze dirette. Riprendiamo e proponiamo l’essenza dell’articolo, scomponendo le considerazioni per capitoli. 1. Preventivamente. Prima della partenza di un fotografo di National Geographic in assignment si attiva una interminabile serie di preparativi: ricerche, contatti da prendere, permessi da richiedere, visti da ottenere, preventivi, prenotazioni, itinerari da pianificare, condizioni meteorologiche da valutare, vaccinazioni, biglietti, pellicole da testare [nel 1995], attrezzatura da controllare e imballare. Liste da fare e rifare. Per un reportage sul cotone, apparso nel 1994, Cary Wolinsky ha letto più di sessantacinque libri e contattato oltre centosessanta persone. Il progetto è stato svolto in undici paesi diversi, dal Messico all’India. 2. Le pellicole. [nel 1995] Fino a qualche anno fa, rigorosamente Kodachrome, in quantità sconvolgenti. Nel 1993, i fotografi di National Geographic hanno esposto quarantaseimila settecentosessantanove (46.769) rulli 35mm, per un totale di un milione seicentottantatremila seicentottantaquattro (1.683.684) diapositive 24x36mm scattate. In quello stesso anno, le fotografie pubblicate sulla rivista (circa centoquaranta pagine al mese) furono millequattrocentootto (1408): una scoraggiante (?) media dello 0,08 percento. 3. Le macchine fotografiche. [sempre, nel 1995] Le macchine fotografiche si combinano con un equipaggiamento estremamente vario ed eterogeneo. Nel 1993, per un reportage sui dinosauri, Louie Psihoyos ha viaggiato per quattrocentomila chilometri da un capo all’altro della Terra, portandosi appresso quarantadue valige di materiale, contenenti -tra l’altro- nove reflex con quindici obiettivi, venticinquemila watt di illuminazione artificiale e un drappo di velluto nero grande come un campo di football, da montare come sfondo per fotografare gli scheletri esposti in musei di storia naturale. Per contro, Dave Harvey, che si dedica a reportage antropologici in luoghi come il Messico, la Spagna e il Vietnam, viaggia leggero; usa soltanto due Leica a telemetro e tre obiettivi, che trovano posto in un piccolo zaino, assai più agile delle immancabili valige Zero Halliburton di metallo adoperate dai colleghi. L’autentico campione del mondo dell’attrezzatura è comunque il fotografo subacqueo Emory Kristof, che nel 1992, per un lavoro
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sul lago Baikal, ha portato in Siberia quindici tonnellate di materiale, per il valore di oltre un miliardo e mezzo di lire [settecentocinquantamila euro attuali]. La spedizione è stata stivata in centosettantuno casse, e comprendeva anche una stazione satellitare, un laboratorio a colori completo, un gommone, due veicoli telecomandati per fotografare i camini vulcanici sul fondo del lago e un generatore a gasolio. Furono pubblicate sei fotografie. 4. L’abbigliamento. Nel film I ponti di Madison County, Robert Kincaid (interpretato da Clint Eastwood) indossa l’immancabile giubbotto/gilet senza maniche, il classico gilet dalle cento tasche. I fotografi di National Geographic no. «L’ultima cosa che desideri -sostiene Annie Griffiths Belt- è che la gente ti apostrofi subito con un “Ehi, ecco un fotografo!”. Al contrario, il segreto sta invece nel mescolarsi agli altri, alla vita che si svolge tutt’attorno». Per questo, Steve McCurry porta sempre scarpe da ginnastica, pantaloncini corti kaki e una maglietta a righe «Mi fa sembrare un turista -afferma-, ed è esattamente ciò che voglio». C’è però un accessorio senza il quale nessun fotografo partirebbe per un reportage: il Duct Tape, l’efficace nastro adesivo telato extra-resistente di colore grigio, originariamente usato dagli idraulici. Nel corso di un reportage, può servire per gli scopi più impensabili: tappare un foro in una canoa o in un gommone, fare da sutura a una ferita, o ingessare alla bell’e meglio un braccio rotto. A Panama, per un servizio sulla foresta pluviale, Mark Moffett lo ha usato per assicurare i piedi al pavimento di una torre di osservazione, per potersi sporgere e riprendere l’entomologo Edward O. Wilson al lavoro: «Il nastro mi aiutava a tenermi in equilibrio, anche se penso che -se fossi caduto- il nastro non sarebbe riuscito a reggere il peso. Se non altro, le mie scarpe sarebbero rimaste attaccate al pavimento». 5. Il pericolo. I rischi del mestiere possono essere visibili e non. Steve McCurry è precipitato con un aeroplano in un lago alpino jugoslavo, rimanendo sommerso a testa in giù nell’acqua gelata. È riuscito a uscire dall’abitacolo, ma ha subìto un distacco della retina. Gli incidenti possono anche essere di natura diversa: nel Nilo, Joe Scherschel si è dovuto difendere a colpi di pagaia da un branco di ippopotami; Loren McIntyre è stata incarcerata in Venezuela; Eric Valli si è arrampicato su uno strapiombo di mille metri, ed è rimasto appeso a una corda per fotografare i raccoglitori di miele in Nepal; Jodi Cobb è stata praticamente rapita in Giordania da un capo Beduino (il suo collega Tom Abercrombie è poi riuscito a riscattarla, sborsando una certa quantità di dinari). Gli animali sono uno dei maggiori pericoli, e non sempre sono quelli più grossi a procurare i problemi maggiori. Per quanto in Ruanda, Michael “Nick” Nichols sia stato spintonato da un gorilla giù da una collina, George Mobley è stato morso da un amabile pinguino; in Africa Centrale, George Steinmetz ha quasi perso la vista per una infezione provocatagli dal verme loa loa, mentre Frans Lanting ha rischiato di morire di malaria. Ma il pericolo più grande è rappresentato dalla depressione, e su questo tutti i fotografi sono d’accordo: la mancanza di fiducia, quei momenti nei quali il sudore si gela addosso. In cui anche un veterano come Bill Allard dice a se stesso: «Questa può essere una storia eccezionale, Bill, se non mandi tutto all’aria». 6. Amori trovati e persi. Le storie d’amore? A volte capitano. Bill Allard, Sam Abell, Steve Raymer e Chris Jones hanno conosciuto le loro attuali mogli sul lavoro, mentre svolgevano un incarico assegnato dalla rivista. Ma la realtà più comune è che i lunghi
Cinema periodi passati lontano da casa (facilmente un servizio dura fino a quattro mesi) possono rovinare un matrimonio e sconvolgere la famiglia. «Quando nel 1964 sono arrivato al National Geographic, su dodici fotografi dello staff otto erano divorziati», ricorda Bruce Dale. Gli aneddoti non mancano. «Sono lontano da casa così spesso -racconta Joel Sartore-, che quando torno il mio cane mi abbaia contro». «La tua vita è sul campo», sostiene Jodi Cobb: «Quando torni a casa, ti senti un estraneo. Ti ritrovi senza uno scopo. Ti rimangono solo i lavori di casa e le bollette da pagare». Sempre sulla strada. È eccitante, certo, ma non affascinante. «Quando i fotografi sono in missione -spiega Tom Kennedy, direttore della fotografia-, vivono nel presente. Si lasciano dietro ogni problema della vita privata. È qualcosa che ti dà un senso di liberazione. Ma è molto pericoloso». 7. Tecnica. Non è solo una questione di tempi di otturazione e diaframmi, ben coordinati tra loro. La ricchezza e l’efficacia di una fotografia dipende soprattutto dalla capacità di vedere del fotografo, dalla sua abilità nel dominare la luce, nell’anticipare di qualche istante il momento cruciale che può svanire d’improvviso. Per Dave Harvey, la fotografia è «Una sorta di coreografia. Il ritmo della strada è simile a un balletto. Devi saperti trovare al centro di ogni piroetta». Per Jim Stanfield, invece, la fotografia è un’ossessione, la ricerca della perfezione assoluta. Per un servizio sul Vaticano, ha fotografato i pellegrini davanti alla statua di San Pietro in quarantaquattro momenti diversi. Durante un reportage su Istanbul, dovendo scattare una fotografia dall’alto, ha salito i duecento gradini di un minareto quindici volte, in cerca e attesa della luce giusta. Alla fine, i custodi gli hanno dato le chiavi. Gli aspetti tecnici rappresentano il problema minore. «Il difficile non è trovare il soggetto -afferma Flip Nicklin-, ma capirlo, e riuscire ad avvicinarlo». Frans Lanting ha una visione personale: «Quando la gente mi chiede quale tempo di otturazione ho usato per una certa fotografia, rispondo sempre che “l’esposizione è di quarantatré anni e un trentesimo di secondo”». 8. Perché? Squallide stanze d’albergo, giornate piovose che si consumano nella totale impossibilità di fotografare, piccoli e miseri burocrati che provano un piacere sadico nel metterti i bastoni tra le ruote. Quali sono le motivazioni che spingono questi fotografi, uomini e donne, verso una vita non sempre facile? L’opinione di Nick Nichols è categorica: «Spingere la gente a interessarsi della foresta amazzonica che scompare o dei gorilla in via di estinzione. Sento che la mia è una missione». Cary Wolinsky afferma invece che «È la curiosità a spingermi; non c’è limite alle meraviglie del mondo». «È l’esperienza e il senso della professione», sostiene Robert Madden. «Poter dire che c’eri. Al funerale di Churchill. Al ritrovamento di una tomba Maya. Alla caduta di Pinochet, in Cile. All’ascesa al potere di Eltsin in Russia. Eri lì. Eri un testimone». Karen Kasmauski racconta: «Voglio dimostrare che la gente ha gli stessi bisogni. Che la gioia, il dolore, la speranza, la paura sono sentimenti comuni a ogni popolo. Più viaggio, più mi accorgo che siamo tutti uguali, indipendentemente dal fatto di vivere a Boston o a Bombay». «Spesso scopro che mentre fotografo sorrido, senza volerlo», osserva Annie Griffiths Belt. Ma a volte si piange anche: «Ci sono cose che non puoi fotografare», racconta Robert Caputo, ricordando un bambino somalo che moriva di fame tra le braccia impotenti della madre, che lo osservava con occhi assenti. «Ho messo via la macchina fotografica, e quel giorno non ho più fotografato». Un richiamo irresistibile, uno stile di vita, una passione. «In fondo, il nostro vero amore -confessa Bill Allard- è il lavoro». Andrea Pacella
Complice la fotografia, il fotogiornalista Robert Kincaid e Francesca Johnson (rispettivamente, gli attori Clint Eastwood e Meryl Streep) finiscono per amarsi. Questa è la sostanza del film I ponti di Madison County, dal romanzo omonimo di Robert James Waller: i protagonisti si amano intensamente, ma poi non hanno la forza di restare insieme. Ognuno torna alla propria vita, che non sarà più quella di prima, con nel cuore la sequenza di quattro giorni che hanno indelebilmente segnato le rispettive esistenze.
Se non che, ahinoi, Robert James Waller si è successivamente lasciato sedurre dal successo ottenuto e abbagliare dalla prevedibile redditività economica. I ponti di Madison County ha avuto un romanzo sequel, un seguito a dir poco stucchevole e stomachevole. Per quanto -come già rilevato e sottolineato- la fotografia abbia fatto incontrare Francesca Johnson e Robert Kincaid, che nella trasposizione cinematografica sono rispettivamente interpretati da Meryl Streep e Clint Eastwood (anche regista), sarebbe stato legittimo che tutto si fosse fermato lì. Ripetiamo, i due protagonisti si amano intensamente, ma poi non hanno la forza di restare assieme. Ognuno torna alla propria vita, che non sarà più quella di prima, con nel cuore la sequenza di quattro giorni che hanno indelebilmente segnato le rispettive esistenze. Punto e a capo. Punto e basta! Per questo, consideriamo nauseante il tentativo dello scrittore Robert James Waller di rinverdire la vicenda, con un romanzo successivo: La strada dei ricordi, che sottotitola Un ritorno a Madison County (Frassinelli, 2003). Niente da spartire con la trama originale e non ci interessano le esistenze successive dei due protagonisti. I sequel lasciano spesso il tempo che trovano. ❖
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Laura Frasca (Borboletazul) Fotografa Lensbaby dal 13 giugno 2012
Storia di Angelo Galantini
LA RACCONTA ZANNIER
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Titolo consistente della bibliografia specifica, per lungo tempo, Storia della fotografia italiana, di Italo Zannier (personalità al di sopra di ogni sospetto), che specifica in sottotitolo Dalle origini agli anni ’50, è stato uno dei volumi introvabili. Originariamente pubblicato da Laterza, di Bari, nel 1989, è andato presto esaurito. Coloro i quali -successivamente e in tempi sempre più prossimi- si sono avvicinati al testo, hanno dovuto farlo con mezzi di fortuna, per lo più avvalendosi di fotocopie ad uso informativo e di studio (non lucrative, va detto), passate di mano in mano. Ora, in occasione dell’ottantesimo compleanno del celebrato storico della fotografia, l’Editrice Quinlan ha ristampato questa Storia della fotografia italiana - Dalle origini agli anni ’50 (in edizione riveduta e corretta), proponendola in una veste tipografica di forte sapore didattico: alla maniera dei quaderni scolastici del passato remoto (che qualcuno di noi ha vissuto in diretta e sulla propria pelle), una copertina rigorosamente ed elegantemente nera accompagna una finitura rossa dei bordo pagina. Così, forse anche così, non ci sono dubbi in proposito: si tratta di un testo fortemente accademico, indispensabile a coloro i quali vogliono conoscere i passaggi fondanti del percorso della fotografia italiana, della quale viviamo oggi una controversa contemporaneità (e non andiamo oltre). Ancora, e in sovramercato, questa attuale edizione della preziosa e certificata Storia della fotografia italiana - Dalle origini agli anni ’50, di Italo Zannier, è arricchita con una prefazione di Michele Smargiassi, a tutti gli effetti il più attento e competente osservatore della fotografia, l’unico capace di aggiornare i grandi temi allo spettacolo quotidiano dell’esistenza: una volta in più, una volta ancora, mai una di troppo, come e quanto la fotografia influisce sulle nostre vite. Hai detto poco! Correlata di cinquantotto illustrazioni a tema e in tema, la Storia della fotografia italiana - Dalle origini agli
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Storia della fotografia italiana - Dalle origini agli anni ’50, di Italo Zannier (edizione attuale -riveduta e correttadell’originaria Laterza, del 1989); prefazione di Michele Smargiassi; Editrice Quinlan, 2012 (via Saliceto 38; 40013 Castel Maggiore BO; www.editricequinlan.com); 58 illustrazioni; 336 pagine 14,5x21cm; 23,00 euro.
anni ’50, di Italo Zannier, ha molti meriti. Nell’impossibilità di individuarli tutti, cerchiamo quantomeno di indicarne alcuni. Anzitutto, questo è uno dei pochi testi, e molto probabilmente è addirittura l’unico, che affronta l’argomento affondando nelle radici dei primi anni, dalle notizie provenienti dalla Francia, dove tutto ha avuto ufficialmente origine, alle esperienze di inizio, spesso timide, al cammino che si è allungato sui decenni. Addirittura, al proposito, e forte della propria profonda esperienza e conoscenza, Italo Zannier esprime opinioni che sottolineano l’audacia e singolarità di talune esperienze italiane, a volte antecedenti e precedenti a quelle che si sono affermate internazionalmente. Quindi, il testo è organizzato e svolto con una eccellente cadenza cronologica, con pertinente collocazione storica delle espressioni tipiche e caratteristiche della fotografia, che dal secondo Ottocento si è allunga-
ta sui primi decenni del Novecento. Dagli atelier per il ritratto alle prime esperienze di fotogiornalismo, alla successiva fotografia formale (estetica?), che poi avrebbe definito -caratterizzandolo- il secondo Novecento, gli attraversamenti di Italo Zannier sono pertinenti e chiarificatori; ciò a dire: nulla accade mai per caso, nulla è accaduto in modo fortuito, ma tutto si colloca all’interno di un tragitto logico e consapevole. Ancora, la visione dell’autore non è circoscritta ai nomi e casi più noti e conosciuti, ma ha indagato a fondo, fino ad annotare e segnalare personalità in precedenza ignorate, sulle quali proprio l’acuta e intelligente ricerca di Italo Zannier ha acceso le luci della ribalta. Dopo di che, bisogna considerare la particolarità del tempo considerato, durante il quale la fotografia italiana si è espressa agendo su percorsi complementari: da una parte, i richiami alla fotografia nel proprio complesso (e in riferimento internazionale); dall’altra, non poche specificità nazionali, definite dalle prerogative del nostro paese. Infine, ultimo ma non ultimo, lo studio di Italo Zannier si è evoluto lungo un binario almeno doppio. In coincidenza di intenti, i movimenti culturali e il clima sociale decodificano le presenze storiche dei fotografi italiani, mai estranei al mondo circostante, sempre presenti alla vita e al suo svolgimento. In un tempo nel quale si crede alle semplificazioni di ricerca, magari in Rete, magari senza verificare la fonte, magari accettando tutto in modo passivo... In questo nostro tempo, eccoci!, ben vengano opere, quale è questa Storia della fotografia italiana - Dalle origini agli anni ’50, di Italo Zannier, compilate con autorità fuori dal comune, preparazione garantita e perizia d’altri tempi. Una Storia della quale non si può assolutamente fare a meno. Oppure, sì. Dipende sempre e soltanto dal livello di decenza fotografica al quale ciascuno di noi si è iscritto. ❖
È FOTOGRAFIA!
Il volume-catalogo Sony World Photography Awards 2012 sintetizza lo svolgimento del prestigioso concorso fotografico: oltre le fotografie selezionate nelle categorie professionali (per ogni autore, un cospicuo portfolio), è presentata una consistente passerella non professionale ( Open). Proprio la sezione Open è arricchita da una efficace presentazione di fotografie segnalate, riprodotte in piccole dimensioni e alta quantità, che rivelano come e quanto sia fiorente l’esercizio della fotografia. Le dieci categorie Open 2012: Architecture, Arts & Culture, Enhanced, Low Light, Nature & Wildlife, Panoramic, People, Smile, Split Second e Travel.
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di Angelo Galantini
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traordinaria, avvincente e meravigliosa espressione dei nostri tempi, l’immagine che veicola in Rete in milioni di istantanee postate ogni giorno non ha alcun riferimento, né debito di riconoscenza, con la Fotografia, così come la intendiamo e l’abbiamo sempre intesa. È una partecipazione dell’immagine alla vita quotidiana, oppure sia è una partecipazione della vita quotidiana anche attraverso l’immagine: cambiando l’ordine dei fattori, il risultato rimane lo stesso. Ovviamente, questo nostro non è giudizio di merito o demerito, dell’una e/o dell’altra componente (immagine casuale e fotografia convinta e consapevole). Soltanto, si tratta di una semplice considerazione, che colloca ciascuno al proprio posto. Nella stragrande maggioranza, se non già nella propria totalità, i milioni di immagini che transitano oggi in Rete, trasmigrando dai social network più frequentati ai blog di ogni genere, non si riconducono alla Storia della fotografia, e del proprio linguaggio e lessico (e della propria sintassi), ma appartengono ad altro, che ha a che fare con il ritmo compulsivo della vita attuale. Consistenze politiche a parte, che arrivano da paesi nei quali la libertà di espressione è sostanziosamente negata (un esempio clamoroso sono state le immagini della Primavera araba, dello scorso 2011), sono comunicazioni che vola-
PAUL STÖRM (AUSTRALIA): OPEN ARTS & CULTURE / SHORTLIST
DENISE WORDEN (USA): OPEN PANORAMIC / VINCITORE
Ancora dallo svolgimento dei prestigiosi e qualificati Sony World Photography Awards 2012. Andando oltre l’ufficialità della cronaca di dovere, assolta lo scorso giugno, una considerazione sul sorprendente valore della fotografia non professionale, che in questa occasione offre una passerella internazionale vasta per quantità e eccellente per qualità. Fotografie che raccontano il mondo, la vita, l’esistenza. Niente altro da aggiungere
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FRANK MARTIN EISELE (GERMANIA): OPEN ENHANCED / SHORTLIST
no alte, esaurendosi nell’istante stesso della propria condivisione. Diciamola così: queste immagini stanno alla fotografia come i messaggi telefonici stanno alla letteratura. Ovverosia, non ci stanno proprio. Ciò detto e considerato, la riflessione sulla fotografia contemporanea non deve includere queste espressioni, da valutare altrove e altrimenti (al loro posto, alla loro collocazione legittima), e -soprattutto- non deve smarrire lungo la strada il proprio soggetto esplicito e implicito, che riguarda per l’appunto la fotografia convinta e consapevole. Da cui, il ragionamento si biforca in due direzioni, almeno in due: da una parte, ci sta la fotografia professionale, con tutti i propri corollari tipici e caratteristici; dall’altra, quella non professionale, con tutte le proprie componenti specifiche. Della fotografia professionale ci si occupa in momenti adatti e preposti e con considerazioni distinte. A completamento, e con percorso autonomo, la fotografia non professionale richiede attenzioni altrettanto mirate e dedicate... a se stessa e alla propria personalità. La lunga vicenda della fotografia non professionale internazionale, alla quale gli autori italiani partecipano con capacità e applicazioni fuori del comune, è ricca di momenti di straordinaria grandezza. In assoluto, ha sempre contributo a scrivere pagine di grande valore, sia nella storia della fotografia sia in quella del costume sociale. Nello specifico, è sostanziale specchio dei modi e usi della società e del tempo entro i quali si esprime. In questo senso, sono assolutamente significative le dieci sezioni nelle quali la fotografia non professionale viene suddivisa all’interno dei prestigiosi e qualificati Sony World Photography Awards, della cui recente edizione 2012 abbiamo relazionato lo scorso giugno. Adeguatamente identificate come
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NATALIA BELENTSOVA (RUSSIA): OPEN LOW LIGHT / VINCITORE
RUI NUNES (INGHILTERRA): OPEN ARCHITECTURE / SHORTLIST
GREG PARKER (INGHILTERRA): OPEN SPLIT SECOND / SHORTLIST
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PATRICE CARRÉ (FRANCIA): OPEN ARCHITECTURE / SHORTLIST
SAMUEL CHAN (CINA): OPEN SPLIT SECOND / SHORTLIST
ZULKIFLI THALIB (INDONESIA): OPEN PEOPLE / SHORTLIST JOHNNY JOO (USA): OPEN SPLIT SECOND / SHORTLIST
Open, per distinguerle dalla fotografia professionale, che al concorso segue una traccia altrettanto scandita, queste sezioni rivelano strabilianti qualità e consistenze fotografiche. Certo, sono sempre fotografie considerate per se stesse ed estrapolate da qualsivoglia progetto complessivo; ma altrettanto sempre sono punti di vista folgoranti e avvincenti. A questo proposito, richiamiamo ancora e anche qui il vincitore Open della scorsa edizione 2011, Chan Kwok Hung, di Hong Kong, che si è imposto con una fotografia eccezionalmente efficace, ben eseguita e ben risolta. Fantastica sintesi di esistenza, istante emozionante e avvincente: un tiro di buoi isolato e raffigurato in un momento significativo di una intera azione [FOTOgraphia, giugno 2011]. In giro per il mondo, come anche dalla porta di casa, questi autori rivelano capacità di osservazione e sintesi che sono più che convincenti, spesso addirittura ammalianti. Oltre i dieci vincitori di categoria, sulla cui scelta non ci esprimiamo (come annotato lo scorso giugno, le sentenze delle giurie dei concorsi vanno soltanto accettate), le rispettive Shortlist visualizzate sull’ottimo volume-catalogo pubblicato con l’occasione scandiscono i tempi di una fotografia vivace e brillante, che arricchisce il cuore degli osservatori. In una idea (la nostra!) secondo la quale, una volta risolti i propri compiti istituzionali, la fotografia vale sempre per ciò che ciascuno vi trova, e trova dentro di sé, siamo profondamente grati a questi tanti autori che raccontano il mondo con partecipazione e bravura, sapendo sempre cogliere quell’istante significativo che rivela una storia, una vicenda, un luogo, una situazione... la Vita. Niente altro da aggiungere. ❖
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Gianni Berengo Gardin, il più noto fotografo flâneur italiano, ha accolto la proposta di Leica di sperimentare sul campo la nuova Leica M Monochrom. Ha fotografato con uno dei prototipi operativi che la casa madre ha messo a disposizione di considerevoli fotografi internazionali. Le sue impressioni e poi, a seguire, qualche altra considerazione di Maurizio Rebuzzini
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uale migliore testimonianza d’uso poteva sperare di avere la nuova Leica M Monochrom, digitale in sola interpretazione bianconero? Nessuna, è certo! Gianni Berengo Gardin, a tutti gli effetti il più noto e apprezzato fotografo flâneur italiano, è riconosciuto anche per la sua tenace fedeltà sia alla Leica sia alla fotografia bianconero. Da cui, e per cui, la sua prova sul campo sottolinea un doppio valore aggiunto, che affonda le proprie radici indietro nel tempo fotografico, e -allo stesso momento- perfettamente integrato con l’attualità tecnologica dei nostri giorni. In più, la testimonianza d’uso di Gianni Berengo Gardin, identificato anche per una personale
avversione alle alterazioni fotografiche proditorie, oggi alla comoda portata di ognuno, magari senza ritegno né preparazione etica, ristabilisce un connotato essenziale e discriminante: la fotografia digitale non equivale staticamente a modificazione, ma si profila come fantastica opportunità tecnica proiettata verso nuove e innovative espressività (piuttosto che allineata su quelle che da sempre ne qualificano il linguaggio). Energico difensore della fotografia analogica, Gianni Berengo Gardin non si contrappone tanto alla tecnologia digitale, quanto al suo malaugurato retrogusto, che facilita manipolazioni estranee alla logica della fotografia del vero e dal vero. Tanto che, come rilevato nel giugno 2005, in ripresa di un articolo pubblicato dall’autorevole (continua a pagina 36)
(prossima doppia pagina) Fotografia di Gianni Berengo Gardin scattata (acquisita) con Leica M Monochrom, a 3200 Iso equivalenti: «Questa è una fotografia del “momento decisivo”, e non uno scatto costruito», sottolinea l’autore.
La Leica M Monochrom è dedicata alla sola fotografia in bianconero, con sensore di acquisizione full frame (24x36mm), da diciotto Megapixel.
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giornalisti dell’agenzia Magnum Photos, con la quale è stato siglato un accordo di collaborazione finalizzato a un consistente progetto fotografico (per ora segreto), che verrà pubblicato in autunno. Con la Leica M Monochrom tra le mani, Gianni Berengo Gardin ha annotato che «Sembra che l’abbiano realizzata apposta per me... per farmi passare al digitale». Quindi, dopo una serie di prove sul campo, notazioni operative: «Ha una risoluzione impressionante. Ho realizzato fotografie di qualità analoga a quelle ottenute con pellicole grande formato. Anche la gamma dinamica e la latitudine di esposizione sono straordinarie, e i risultati a 3200 Iso [equivalenti] mi hanno veramente impressionato».
MAURIZIO REBUZZINI
LEICA M MONOCHROM
Gianni Berengo Gardin impugna una Leica M6 seduto a un tavolo sul quale sono raccolte e ordinate le macchine fotografiche che ha utilizzato nella sua vita professionale (Milano, 1998).
(continua da pagina 33) mensile francese Réponses Photo, del maggio immediatamente precedente, da tempo, sul retro delle proprie stampe bianconero, riporta l’inflessibile segnalazione di “Vera Fotografia” - Non corretta, modificata o inventata al computer.
CONSIDERAZIONI Come ogni precedente Leica a telemetro, sia per pellicola sia ad acquisizione digitale di immagini, la Leica M Monochrom non è certo un apparecchio fotografico indirizzato al vasto pubblico. Sia la sua estraneità a molti degli automatismi di uso che caratterizzano la fotografia di massa, definendola addirittura, sia il costo di vendita/acquisto, presumiamo tutt’altro che “popolare”, confermeranno la storia Leica di sempre: tra le mani di fotografi consapevoli e attenti all’immagine (da cui, etica e morale). Dunque, l’attuale Leica M Monochrom si muoverà in un ambito profondamente convinto e non corre di certo il rischio di incappare in fotografi sprovveduti e intriganti. In acquisizione digitale bianconero, ripropone e riproporrà gli stilemi noti e acquisiti della fotografia flâneur, che nel corso dei decenni ha composto tratti significativi del proprio contenitore fotogiornalistico di riferimento. Sicuramente, Gianni Berengo Gardin rimarrà fedele alla pellicola fotosensibile, con la quale ha scritto importanti pagine della Storia della fotografia (oltre che della sua storia personale). Nel frattempo, ha accolto la proposta di Leica di sperimentare sul campo la nuova M Monochrom. Ha fotografato con uno dei prototipi operativi che la casa madre ha messo a disposizione di considerevoli fotografi internazionali, tra i quali molti foto-
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La nuova Leica M Monochrom è la prima configurazione digitale esclusivamente dedicata alla fotografia in bianconero, con sensore di acquisizione full frame (24x36mm). In realtà, ci sarebbero stati dei precedenti (Kodak), all’alba dell’era digitale: ma si trattò di altro, realizzato in un’epoca di confusioni iniziali e originarie. Dunque, da conteggiare in altro modo e considerare altrimenti. In allungo su una Storia della fotografia spesso scritta da immagini in bianconero, e altrettanto frequentemente realizzate con apparecchi a telemetro Leica (con innesto a vite degli obiettivi intercambiabili, fino alla metà degli anni Cinquanta, e con successivo innesto a baionetta, dal 1954), l’attuale M Monochrom è equipaggiata con un sensore da diciotto Megapixel, progettato espressamente allo scopo, che si offre e propone come innovativo riferimento della raffigurazione in bianconero: appunto. Siccome il sensore non “vede” i colori, ciascun pixel registra effettivi valori di luminanza. Questo significa che il sensore fornisce direttamente “autentiche” immagini in bianconero, nettamente più nitide di interpretazioni paragonabili, ottenute in derivazione del e dal colore. Da qui, dall’ufficialità dei termini tecnici promessi (che ciascuno verificherà in proprio), esordiscono altre considerazioni, che si allungano verso valutazioni di contenuto. Da una parte, sottolineiamo come e quanto, con questa mossa, Leica ribadisca la propria personalità all’interno del lungo percorso espressivo del linguaggio fotografico, andando a certificare solennemente l’idioma visivo del bianconero: irrinunciabile valore aggiunto di uno stilema che ha attraversato indenne i decenni. Da altro punto di osservazione, non possiamo non ricordare come e quanto il bianconero sia una sostanziosa esclusività fotografica, a volte trasmigrata verso il cinema d’autore (Woody Allen e Peter Bogdanovich, sopra tutti). A parte i tempi di assenza di colore, e dunque di indirizzi obbligati, a seguire, il bianconero fotografico (e cinematografico) ha spesso distinto e qualificato proprio la creatività visiva individuale. Lo testimonia l’intera Storia. Lo confermano straordinarie fotografie. ❖
di Antonio Bordoni
A Minilab ad alta produttività, con tecnologia “a secco” Kodak Apex (Adaptive Picture Exchange), in configurazione 110 Module F.
ll’inizio dell’anno sono circolate notizie e affermazioni relative a identificati disagi commerciali della Eastman Kodak Company, casa madre di un impero fotografico che si è allungato sui decenni, dal 1888 di origine. Tutto è nato da note giornalistiche dell’autorevole Wall Street Journal, che ha fatto esplicito richiamo al “Chapter 11”: legge fallimentare statunitense, che permette alle imprese che lo utilizzano una ristrutturazione a seguito di un grave dissesto finanziario. Mal ripresa da molto giornalismo internazionale, italiano incluso, più interessato allo scalpore delle parole che alla loro autenticità, la nota del prestigioso quotidiano economico statunitense rilevò come i più recenti anni fiscali siano stati inquietanti per la Eastman Kodak Company, che ha chiuso il
periodo luglio-settembre 2011 in perdita di duecentoventidue milioni di dollari: il suo nono calo trimestrale in tre anni. Pertinente l’analisi del quotidiano, che sottolineò come il declino di Kodak sia cominciato alla fine degli anni Novanta, quando il gruppo perse il novantacinque percento di capitalizzazione di mercato, affondato dalla concorrenza straniera e dalla rivoluzione digitale. Da cui, è partita una sostanziosa ristrutturazione aziendale, che prima di tutto ha eliminato i comparti dai quali Kodak non avrebbe potuto ricevere consistenti rendite (per esempio, niente più compatte), per concentrarsi, quindi, sui settori fotografici adeguatamente attivi e promettenti. Allo stesso tempo e momento, sono state prese in considerazione anche formule distributive diverse dalle precedenti, e -soprattutto- più congeniali all’attualità tecnico-commerciale del mercato fotografico dei nostri tempi.
KODAK/2:
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IN ITALIA: FOWA E NITAL
Per quanto riguarda l’Italia, il sodalizio distributivo con il Gruppo Fowa-Nital, presente sul mercato fotografico con marchi guida e capofila (Nikon, Pentax, Lowepro, Vanguard, per citare i più noti e conosciuti), si propone di soddisfare al meglio le esigenze degli utenti (dei consumatori) e aumentare le opportunità di impresa del punto vendita: quel fotonegoziante specializzato dai cui locali transita il commercio consapevole e convinto della fotografia di tutti i giorni. Abbandonate altre merceologie, Kodak concentra la propria attenzione sulla leadership nel mercato drylab e nelle soluzioni per il fotonegozio, alle quali si aggiungono i prodotti Kodak Consumer, a partire dalle pellicole (in gamma concentrata, rispetto le dettagliate frammentazioni del passato, oggi non più necessarie). In vigore dal due luglio, l’accordo commerciale
include la gamma di attrezzature Kodak Picture Kiosk, Drylab Kodak Apex e consumabili relativi, settori contraddistinti da una forte dinamica di commercio, unitamente ai più tradizionali comparti di pellicole, carta e chimica fotografica nelle proprie varie declinazioni e alla gamma di batterie per utilizzi specialistici e non. In questo senso, Kodak conferma la propria attenzione alla linea di prodotti RSS (Retail System Solutions), per sottolineare ancora una volta il proprio impegno verso le applicazioni imaging rivolte sia al mercato Business to Business sia agli utilizzatori: una gamma di soluzioni per fornire un’ampia varietà di prodotti personalizzati e consolidare i profitti del punto vendita fotografico.
PRESTO, SI STAMPI La parola d’ordine che avvolge la nuova personalità distributiva dei prodotti specifici di Kodak, a cu-
La gamma di pellicole a colori Kodak Professional Portra 160 è stata premiata ai TIPA Awards 2011 [ FOTOgraphia, giugno 2011]. Probabilmente, con questo negativo colore, ancora in vendita, è finita l’epopea della pellicola fotosensibile, che ha definito i primi centosessant’anni di fotografia (almeno).
IL RITORNO! Un accordo commerciale attivo dall’inizio di luglio stabilisce nuovi termini della distribuzione in Italia dei prodotti Kodak, che si concentrano sulla stampa fotografica, soprattutto conto terzi, soprattutto centralizzata al fotonegozio. La distribuzione e vendita è ora curata dal Gruppo Fowa-Nital, uno dei più attivi e concreti del mercato italiano, uno dei più convincenti dell’intero panorama nazionale. Curiosamente, la nuova personalità tecnico-commerciale dello storico marchio, con il quale ha preso avvio il mercato fotografico così come lo abbiamo inteso per decenni e decenni, dalla fine dell’Ottocento, addirittura (!), riprende in un certo modo e in una qualche misura i termini stessi delle proprie origini, quando la sollecitazione Voi schiacciate il bottone, noi facciamo il resto tracciò una indelebile linea demarcatrice, sulla quale si è edificato un mondo intero. Quello della fotografia
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Kodak Kiosk G4XE della gamma Picture Maker.
(prossima pagina) Unità Kodak Apex 30 Module RA.
ra del Gruppo Fowa-Nital, è chiara ed esplicita: promuovere il ritorno alla stampa. In questo senso, le cifre latenti (ma anche latitanti, ne stiamo per riferire) sono confortevoli. È stato conteggiato che, in tutto il mondo, ogni anno vengono scattate più di cinquecento miliardi di fotografie; tre miliardi di fotografie vengono caricate mensilmente su Facebook, al ritmo di cento milioni al giorno. Ancora, si valutano cinque milioni di immagini postate giornalmente su Instagram. In queste misurazioni, sono sempre indiscusse protagoniste le fotografie quotidiane (diremmo, addirittura casuali) riprese con terminali mobili (smartphone e dintorni), che, nelle recenti stagioni, stanno crescendo del dieci percento all’anno, a fronte di una stabilità delle fotografie scattate con macchine fotografiche autenticamente tali. A conseguenza diretta, altre considerazioni specifiche definiscono l’attualità dei social network, espressione odierna dell’esistenza (nel mondo occidentale, con sconfinamenti politici che qui espri-
KODAK APEX 70 MODULE RA
IL MINILAB DEL PRESENTE-FUTURO
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Il consistente successo commerciale del minilab Kodak Adaptive Picture Exchange, meglio identificato con l’acronimo Apex, è secondo soltanto alla sua straordinaria efficacia tecnica. Si tratta di un minilab ad alta produttività, con tecnologia “a secco”; innovativo e modulare, risolve al meglio ogni esigenza di stampa. Il sistema combina nuove interpretazioni e soluzioni tecnologiche, per fornire ai propri utenti -fotonegozianti a contatto con il pubblico finale- una più ampia gamma di servizi, maggiore facilità di uso e grande flessibilità, in modo da consentire loro di offrire ai consumatori prodotti fotografici di grande qualità. Dunque, Kodak Apex (Adaptive Picture Exchange) è il potente minilab modulare di ultima generazione, con tecnologia “a secco”, che combina diverse interpretazioni operative all’interno di un’unica dotazione integrata, in grado di assumere un ruolo guida nelle soluzioni di stampa dedicate ai fotonegozianti. Kodak Apex (TIPA Award 2008) presenta e propone molteplici innovazioni, tutte realizzabili con efficiente semplicità di uso e grande flessibilità. Grazie all’impiego di componenti che possono essere integrati alla configurazione base, completamente espandibile e aggiornabile in ogni momento, minimizzando costi e difficoltà operative, è un minilab che offre una redditizia produttività fotografica di alta qualità. Il nuovo sistema è la più avanzata soluzione di laboratorio mai lanciata nel mondo del commercio fotografico, con caratteristiche uniche, tra le quali adattabilità, redditività, semplicità ed efficienza. Di grande rilevanza, inoltre, i contenuti ecologici, con assenza di scarti di produzione inquinanti, e un design autenticamente accattivante. Kodak Apex è a completo servizio dei propri utilizzatori. Così che i fotonegozianti possano offrire ai propri clienti (consumatori potenziali) un’ampia selezione di prodotti emozionanti e redditizi, riducendo sostanzialmente i costi. Grazie a una grande flessibilità e una efficace semplicità operativa, il nuovo sistema riduce i tempi di impostazione e apprendimento, incrementando consistentemente la propria produttività nella gestione quotidiana del flusso di lavoro. Inoltre, per i fotonegozianti, l’efficienza e le opportunità di profitto sono favorite dalla combinazione di un interfaccia semplice da usare, dalle dimensioni ridotte e dai costi contenuti dell’attrezzatura.
mono il proprio desiderio di libertà e vita: altro discorso, estraneo a queste considerazioni ordinariamente tecnico-commerciali). Da una rilevazione IDC Infotrends - Futuresource - Kodak Business Research risulta che il venticinque-quaranta percento degli utilizzatori di social network occidentali e il trentotto percento di possessori di telefoni cellulari vorrebbero stampare le proprie fotografie. Per cui, Kodak prevede di raggiungere questi utenti potenziali, per portarli alla stampa su carta attraverso i propri sistemi dislocati presso i fotonegozianti. La distribuzione capillare che il Gruppo Fowa-Nital può assicurare e garantire si propone giusto questo: avvicinare sempre più i clienti potenziali ai chioschi e fare in modo che l’esperienza di acquisto in shop di servizi specializzati si riaffermi come valore aggiunto del commercio fotografico. In particolare, secondo Kodak (da comunicazioni ufficiali), può risultare vincente la possibilità -offerta dai punti vendita- di toccare con mano i formati possibili di stampa su carta e le interpretazioni aggiuntive, prima di procedere alla stampa delle copie. Prodotti come i fotolibri possono essere di richiamo maggiore, dunque attrarre il consumo, se toccati con mano, rispetto alla semplice visione teorica che si può ottenere online. Inoltre, grazie alle nuove tecnologie, un fotolibro può essere stam-
ALLE ORIGINI DEL MERCATO FOTOGRAFICO
Curiosamente, quando oggi Kodak sottolinea un attuale impegno tecnico-commerciale nell’ambito del servizio di stampa fotografica... ripercorre e ripropone la propria storia, che ha influito sull’intera vicenda fotografica nel proprio insieme: da 1839-2009. Dalla Relazione di Macedonio Melloni alla svolta di Akio Morita, del nostro direttore Maurizio Rebuzzini (storiografia fotografica imperdibile: lo affermiamo senza alcuna piaggeria): una delle svolte senza ritorno, la prima in assoluto, che hanno determinato il passo della fotografia tecnica in proiezione sul suo stesso linguaggio e sulla società nel proprio complesso. Dal 1888, la Box Kodak di George Eastman ha reso la pratica fotografica accessibile a tutti. Con l’occasione, ricordiamo che “Kodak”, termine che nacque appunto con questo apparecchio originario, significa nulla, ma è solo un’espressione facile da ricordare. Come altre definizioni, nasce prima di tutto dal gioco di anagrammi che George Eastman faceva con la madre Maria Kilbourn,
La Box Kodak era dotata di un obiettivo di 57mm di lunghezza focale, con apertura relativa f/9. Era precaricata con pellicola flessibile di 70mm (in origine, carta), per cento esposizioni tonde di 64mm di diametro. Una volta esaurite le pose, la Box Kodak doveva essere spedita a Rochester, dove si provvedeva a trattare il materiale fotografico e stampare le copie.
Dalla propria commercializzazione, con relativo manuale di impiego, la facilità di uso della Box Kodak, fece la differenza, consentendo la nascita del fenomeno della fotografia di massa così come ancora oggi lo conosciamo: cominciò allora l’autentico hobby fotografico e prese avvio la fotoricordo. Una volta sviluppata la pellicola flessibile caricata nella Box Kodak, le copie su carta venivano esposte per contatto, alla luce del sole, in appositi laboratori creati a Rochester: antesignani dell’attuale servizio conto terzi di sviluppo e stampa.
e poi è costruito attorno la presunta forza visiva e fonetica della lettera “K” (peraltro, l’iniziale del cognome della madre, alla quale George Eastman rimase sempre profondamente legato). Dopo aver depositato il marchio in Inghilterra (4 settembre 1888), George Eastman diede la propria spiegazione ufficiale del nome Kodak: «È corto; non rischia di essere malpronunciato; non assomiglia a nulla di esistente e non può essere associato ad altro che all’apparecchio Kodak». La realizzazione della Box Kodak, con la quale nasce il marchio di fabbrica (Kodak, appunto), stabilisce molteplici linee spartiacque: con questa idea, nasce il mercato fotografico come ancora oggi l’intendiamo; attorno all’apparecchio, viene creata una azienda, Eastman Kodak, che introduce l’epoca industriale della fotografia; la fotografia smette di essere autoreferenziale, per osservare la vita nel proprio svolgersi; nasce la fotoricordo... e ancora altro (ribadiamo, approfondito in 1839-2009. Dalla Relazione di Macedonio Melloni alla svolta di Akio Morita, di Maurizio Rebuzzini, nel quale la Box Kodak si configura come la prima delle individuate quattro svolte senza ritorno, che si sono proiettate sul linguaggio fotografico e -simultaneamente- sulla società). La commercializzazione della Box Kodak fu promossa con il richiamo che sarebbe diventato più che celebre (e che oggi pare poter essere rivitalizzato alla luce di condizioni attuali): «Voi schiacciate il bottone, noi facciamo il resto». In una epoca nella quale i procedimenti fotografici erano assai complessi, con “il resto” si intendevano tutte le lavorazioni di trattamento della pellicola e stampa delle copie. Venduto a venticinque dollari (cifra comunque sostanziosa, per i propri tempi), l’apparecchio era caricato con pellicola flessibile (invenzione fondamentale) sufficiente per cento esposizioni (in origine, carta sensibile, presto sostituita dal supporto di cellulosa). Esauriti gli scatti, l’intero apparecchio andava spedito alla Eastman Kodak, di Rochester: dieci dollari per il trattamento del negativo, la stampa delle copie (tonde, di 64mm di diametro) e il ricaricamento con pellicola vergine.
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pato nel giro di pochi minuti, senza le attese che in passato (anche prossimo) hanno spezzato e demotivato l’esperienza di acquisto. Ancora, attraverso questi servizi aggiuntivi, Kodak si ripropone di sfruttare il potenziale della connettività e l’alta qualità dei propri sistemi di stampa, per garantire ai fotonegozianti un’offerta più ampia e una adeguata finalizzazione di spazi e tempi di lavoro; nel contempo, le soluzioni tecnologiche semplificate e rese veloci mettono a disposizione dei clienti (consumatori) molteplici interpretazioni fotografiche di personalizzazione dei contenuti, per creare photobook, calendari, poster e biglietti augurali.
A CONTI FATTI
KODAK KIOSK G4XE 17
FANTASTICA OPPORTUNITÀ
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Dotati di ampio schermo touchscreen, i chioschi Kodak Picture Maker sono completamente autonomi e facili da usare: ogni cliente può organizzare da sé le proprie copie fotografiche, e riceverle in pochi istanti (anche se è sempre inevitabile la presenza di un operatore che guidi i passaggi). Un efficace software organizza e gestisce tutte le operazioni di ordine delle stampe, dalla loro selezione e preparazione fino alla stampa di ricevute incorporata. Lettore per tutte le schede di memoria attualmente presenti sul mercato (e altre non ce ne saranno): Secure Digital (SD), CompactFlash (CF), Smart Media, Memory Stick, di ogni capacità. Quindi, lettore di CD e ingresso USB e collegamento Bluetooth per altre fonti di file da stampare. Collegati a stampanti, i chioschi Kodak Picture Maker consentono di preordinare copie fotografiche 10x15cm, 13x19cm e 15x20cm, oltre che fototessere. Stampe con o senza bordo e personalizzazioni, come biglietti augurali, collage e calendari.
Oltre le ipotesi, i proponimenti e le speranze, che sempre accompagnano qualsivoglia disegno tecnico-commerciale, non soltanto in fotografia, ma questo è il mercato entro il quale agiamo, bisogna fare anche i conti con la realtà. Soprattutto, bisogna fare questi conti. Ciò detto, non entriamo nel merito delle nuove socialità, che frequentano l’immagine (non la Fotografia) con valori numerici da capogiro. Soltanto, consideriamo che l’esercizio volontario e consapevole della e con la fotografia esula da queste brillanti valutazioni. Sia la fotografia non professionale frequentata con coscienza (altrove definita “fotoamatorismo”, termine che non ci è affatto gradito), sia la fotoricordo, straordinario capitolo di una storia che si allunga sui decenni, sono informate della trasformazione in stampa dei propri elaborati, delle proprie riprese fotografiche. È questo lo zoccolo duro e intramontabile (inesauribile?) di una lunga e lontana vicenda, che in passato ha sostenuto l’intera filiera commerciale della fotografia italiana (in altri paesi, i fotonegozianti non hanno mai ottenuto altrettante redditività di impresa dal servizio di sviluppo delle pellicole e stampa delle copie). Le fantasmagoriche cifre milionarie non possono trasformarsi staticamente in altrettante stampe fotografiche (magari potesse essere così!), perché si riferiscono a consuetudini estranee alla fotografia consapevole (fotoamatorismo e fotoricordo). Casomai, su quelle si può agire con iniziative radicate, finalizzate al passaggio dalla semplice immagine del quotidiano al valore implicito della Fotografia: processo dinamico, non statico. Soprattutto, intenzione che presuppone interpretazioni commerciali che -fatte salve le singole e legittime redditività- non si esauriscano in questo soltanto. Da cui e per cui, le potenzialità Kodak del presente possono raggiungere i risultati sperati soltanto grazie alla nuova distribuzione. Infatti, sul mercato fotografico italiano, il Gruppo Fowa-Nital -che assomma due esperienze solide, una di oltre cinquant’anni, l’altra di intensi ultimi venti anni- si distingue proprio anche per questo: per un atteggiamento commerciale non circoscritto, ma proiettato sull’intero comparto della fotografia. E sappiamo bene di cosa si sta effettivamente parlando. ❖
a cura di Filippo Rebuzzini e Maurizio Rebuzzini; trentadue visioni piÚ una, con accompagnamento di centonovantotto altre pose che rivelano lo splendore dell’epopea di Betty Page; Graphia, 2011; 88 pagine 16,5x23cm; 18,00 euro.
Inevitabile celebrazione dei cinquanta anni dalla prematura e controversa scomparsa di Marilyn Monroe: 5 agosto 1962-2012. Oltre qualcosa di nostro -poco per il vero-, riprendiamo e riproponiamo annotazioni di Santi A. Urso, coinvolgente osservatore del costume (e di tanto altro ancora), che non risentono dei vent’anni già trascorsi dalla loro compilazione: allora, in occasione del trentennale. Il tempo scorre. Tutto cambia. Tutto resta sempre uguale di Maurizio Rebuzzini
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MAURIZIO REBUZZINI
ARCHIVIO FOTOGRAPHIA
L’illustrazione utilizzata per avviare la doverosa celebrazione del cinquantenario della morte di Marilyn Monroe (5 agosto 1962-2012), proposta anche in copertina, fa parte degli esercizi del Corso di illuminazione organizzato e svolto dal grossista Unionfotomarket, all’inizio degli anni Novanta. Nello specifico, se anche qui vale la spesa rimanere: luci dirette radenti, scomposte da bicchieri ottagonali riempiti d’acqua, per formare striature luminose.
robabilmente (?), ognuno di noi ha il suo film di Marilyn Monroe: Mito oltre, ben oltre, il suo limitato curriculum cinematografico (in parallelo, lo stesso, anche di più, possiamo affermare per James Dean, altro mito per se stesso, più che per le sue interpretazioni cinematografiche, limitate a due film e mezzo in tutto: La valle dell’Eden, di Elia Kazan, del 1955, Gioventù bruciata, di Nicholas Ray, dello stesso 1955, e Il gigante, di George Stevens, del 1956, non completato, perché l’attore è morto in un incidente stradale, il 30 settembre 1955, a ventiquattro anni). Il mio film di Marilyn Monroe -meglio, con Marilyn Monroe- è A qualcuno piace caldo, di Billy Wilder, del 1959 (Some Like it Hot ; a pagina 46). Nei panni di Sugar Kane Kowalczyk (in italiano, Zucchero Kandinsky), Marilyn Monroe è dolce e coinvolgente, e non mi interessano le memorie del regista, che ha lamentato quanto sia stato difficile farla recitare... decentemente.
CINQUANTENARIO
MARILYN
A CHI PIACE CALDO!
Il mio film di Marilyn Monroe: A qualcuno piace caldo, di Billy Wilder, del 1959. Some Like it Hot può essere considerato l’apoteosi cinematografica di Marilyn Monroe, che qui raggiunge l’apice del proprio fascino. La sceneggiatura di Billy Wilder, anche regista, e I.A.L. Diamond è allo stesso tempo semplice e avvincente: ricca di tutti gli elementi della commedia americana, sofisticata quanto serve, brillante quanto basta. Non manca nulla: il travestimento di Jack Lemmon e Tony Curtis, i jazzisti spiantati che si trasformano in Josephine e Daphne; il gioco degli equivoci e delle seduzioni; le situazioni di contorno; la partecipazione di eccezionali caratteristi; un dialogo spumeggiante. Il richiamo storico è realistico, quanto ironico. La vicenda dipende in larga misura dalla strage di san Valentino, del 14 febbraio 1929 (che Billy Wilder e Jack Lemmon citeranno anche in Prima pagina, del 1974), ma i giorni e le notti di Miami sono pura invenzione. Fanno da contorno e danno plausibilità alla conseguenza della storia. Da Chicago, Tony Curtis e Jack Lemmon fuggono a Miami per scappare dai gangster che li vogliono eliminare, in quanto testimoni oculari del massacro (tra bande rivali; nella realtà, ordinato da Al Capone). I jazzisti spiantati Joe e Jerry diventano Josephine e Daphne e si uniscono a un’orchestra femminile. Cantante solista delle Dame del ritmo di Susy è -eccoci- Marilyn Monroe: perfetta e indimenticabile nel ruolo di Zucchero Kandinsky (nell’edizione italiana), che accompagna le proprie performance con un curioso ukulele. Tutto questo, e tanto altro, è il succo di una gustosa monografia realizzata dall’editore tedesco Taschen Verlag. Dedicata alla figura del regista Billy Wilder, di fatto, la raccolta Billy Wilder’s Some Like it Hot celebra Marilyn Monroe. Il volume illustrato prende avvio dal copione del film appartenuto alla stessa Marilyn Monroe, venduto in asta da Christie’s New York, a fine ottobre 1999, dove le proprietà private dell’attrice hanno totalizzato oltre venticinque miliardi di (vecchie) lire [pagina accanto]. La struttura del libro merita di essere commentata. La prima parte riproduce le pagine del copione del film, attorno alle quali scorrono corrispondenti fotografie di scena. Tutte in bianconero, come il film, sono perlopiù di piccole dimensioni, ma non mancano gli ingrandimenti a formato pieno (40x25cm) di qualche passaggio particolarmente significativo: per esempio, il bacio finale tra Zucchero e Joe e qualche altra scena topica. A seguire, la seconda parte del libro ripercorre la vicenda cinematografica, proponendo altre fotografie di scena, molte delle quali a colori, e innumerevoli “fuori scena” di grande fascino.
Billy Wilder’s Some Like it Hot; a cura di Alison Castle; testi in inglese, tedesco e francese; Taschen, 2001 (distribuzione Inter Logos, strada Curtatona 5/2, Località Fossalta, 41100 Modena; 059-412648; www.books.it); 384 pagine 40x25cm, cartonato.
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Tra tanto altro, in una commedia degli equivoci, Marilyn Monroe / Sugar (Zucchero) può annoverare tante battute fulminanti, frutto di una brillante sceneggiatura, compilata dallo stesso regista Billy Wilder in coppia con I.A.L. Diamond. Sopra tutte, una in assoluto: «Sto per compiere venticinque anni; è un quarto di secolo, ti dà da pensare». Ma anche: «Io suono l’ukulele, e canto anche. Beh, non ho una gran voce, ma questa non è una grande orchestra»; «Ci sono uomini che cercherebbero di approfittare di una situazione come questa» (e “Shell” - Tony Curtis risponde: «Oh, lei vuole adularmi. Il fatto di essere solo con una donna non mi fa il minimo effetto»); «Adesso, hai capito? Non sono furba» (e Joe/Josephine - Tony Curtis risponde: «La furbizia non è tutto»). Ora! Ora, accompagniamo le tante edizioni librarie pubblicate in questa stagione, a ridosso del cinquantenario della prematura e controversa scomparsa di Marilyn Monroe, tragicamente mancata la notte del 5 agosto 1962, con una nostra nota ulteriore e successiva a quella con la quale, lo scorso febbraio (con copertina ancora riservata al Mito), abbiamo anticipato la prima delle consistenti monografie celebrative: Norman Mailer/Bert Stern: Marilyn Monroe, pubblicata da Taschen Verlag (278 pagine 36,5x44cm), in confezione di plexiglas a guscio, in Collector’s Edition (tiratura numerata e firmata dal fotografo Bert Stern; 1712 copie, da 251 a 1962; 750,00 euro) e Art Edition (ancora tiratura numerata e firmata; 250 copie, da 1 a 125 e da 126 a 250; ogni copia comprende una stampa fotografica di Bert Stern, incorniciata in plexiglas; 1750,00 euro). Subito, una considerazione sovrastante. Come appena accennato, la prematura morte di Marilyn Monroe, quel cinque agosto di cinquanta anni fa, è stata a dir poco controversa. Pochi hanno accettato la tesi del suicidio. Il giornalismo rosa internazionale ha sempre cavalcato ipotesi di complotto e omicidio (commissionato dai Kennedy, contro i Kennedy o dalla mafia), riprendendo sistematicamente rivelazioni nuove e sempre esclusive (?). In ogni caso, una morte mai chiarita, oppure arditamente alimentata da abusi giornalistici che si sono distesi sui decenni. In ogni caso, in tutti i casi, oggi, nel cinquantenario, non ci si può sottrarre alla rievocazione, per la quale evitiamo il casellario delle monografie su Marilyn Monroe che sono state pubblicate in questi ultimi cinquanta anni e che si sono editorialmente intensificate negli ultimi mesi: volendola compiere, a ciascuno la propria ricerca al proposito. È facile e proficua. Comunque, cinquanta anni: cifra tonda, con la quale è inevitabile incontrarsi. Qui e ora, nell’obbligo delle date, mi interessa poco, o nulla, l’ultima sessione fotografica con Bert Stern, storicizzata come The Last Sitting (tre giorni al Bel-Air Hotel, di Los Angeles, per il mensile Vogue, sei settimane prima del fatidico cinque agosto). Neppure rievoco ancora Una notte con Marilyn, di
Alla fine dell’ottobre 1999, nell’anno nel quale gli Yankees hanno vinto le proprie venticinquesime World Series di baseball, giocando tutto l’anno con un piccolo numero “5” sul braccio delle divise, in onore a Joe Di Maggio, mancato l’otto marzo, Christie’s New York ha messo in vendita una consistente quantità e qualità di proprietà private di Marilyn Monroe. Già il catalogo The Personal Property of Marilyn Monroe è stato opera monumentale [a destra]: 416 pagine 21,5x27cm, cartonato con sovraccoperta; ottantacinque dollari (ventottomila copie di tiratura esaurite in un batter d’occhio: con un incasso totale di 2.380.000 dollari, ai tempi, quasi quattro miliardi e mezzo di lire; oggi, sarebbero due milioni e duecentomila euro). Quindi, la sessione d’asta è stata superlativa: ha realizzato oltre venticinque miliardi di (vecchie) lire, equivalenti a circa tredici milioni di attuali euro. L’aggiudicazione più alta è stata raggiunta dall’abito firmato Jean Louis in garza di seta color carne, adornato con seimila paillette, con il quale, il 19 maggio 1962, tre mesi prima della sua scomparsa, Marilyn Monroe intonò al Madison Square Garden, di New York, un indimenticabile e appassionato Happy Birthday, Mister President, per i quarantacinque anni di John Fitzgerald Kennedy, il presidente degli Stati Uniti che sarebbe stato ucciso il 22 novembre 1963: 1.267.500 dollari (due miliardi e mezzo di lire, o un milione e trecentomila euro) [qui sotto, a sinistra]. Un altro abito, quello con il quale Marilyn ha cantato per i soldati americani impegnati nella guerra in Corea, nel 1954, è stato pagato 112.500 dollari (duecentocinque milioni di lire, centomila euro abbondanti) [in basso]. Quindi, le istantanee a colori scattate da Marilyn al suo cagnolino, il maltese Maf(ia), sono state acquistate per 222.500 dollari (quattrocentodieci milioni di lire; duecentomila euro abbondanti) [qui sotto, a destra].
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ENNESIMA RIEVOCAZIONE
Pochi mesi prima della sua morte, Marilyn Monroe ha dato a un giovane fotografo la sua grande occasione (e non soltanto a lui: ricordiamo l’ultima sessione con Bert Stern e la notte di Douglas Kirkland). Comunque, questo è il racconto di Lawrence Schiller, allora venticinquenne: «Tu sei già famosa, ora aiuta la mia carriera», le avrebbe detto, per convincerla a farsi fotografare. «Non essere così arrogante», gli rispose Marilyn; «i fotografi possono essere sostituiti facilmente». In quell’estate 1962, Lawrence Schiller aveva ricevuto un assegnato dal settimanale Paris Match. Conosceva già Marilyn, per averla incontrata sul set di Let’s Make Love (in Italia, Facciamo l’amore), film di George Cukor, del 1960. Ma niente lo avrebbe potuto preparare per il giorno nel quale gli apparse nuda sul set di Something’s Got to Give, sempre di George Cukor. L’attuale raccolta Marilyn & Me è la storia intima di una leggenda, alla vigilia della sua caduta, e un giovane fotografo, all’inizio della propria carriera. I testi e le fotografie di Lawrence Schiller sono sostanzialmente inediti, e riportano a un momento nel quale -per una connessione sorprendente- Marilyn ha creato un legame con un ragazzo di Brooklyn, ricco di ambizione, ma povero di esperienza. Nel cinquantenario della scomparsa di Marilyn Monroe, questa monografia in tiratura numerata e limitata a 1962 copie (l’anno dell’incontro e della prematura scomparsa di Marilyn) rivela con delicatezza, umorismo e partecipazione un ritratto reale e inaspettato del Mito, che fissa la sua stella nel bel mezzo della sua lotta finale.
Lawrence Schiller. Marilyn & Me: A Memoir in Words & Photographs; Taschen Verlag, 2012 (distribuzione Inter Logos, strada Curtatona 5/2, 41100 Modena; www.books.it); stampa su carta di archiviazione; quattro foldout (pagine che si aprono su se stesse), uno dei quali di 110cm di base; 210 pagine 29x39,5cm, in confezione di plexiglas a guscio (coperta in una seta duchesse, personalizzata da uno dei mulini da seta più illustri del mondo, Taroni, di Como). ❯ Collector’s Edition: tiratura numerata e firmata (dal fotografo); 1712 copie, da 251 a 1962; 750,00 euro. ❯ Art Edition: tiratura numerata e firmata (dal fotografo); 250 copie, da 1 a 125 e da 126 a 250, con una stampa fotografica.
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Douglas Kirkland, in monografia 24ore Cultura, del 2001 [FOTOgraphia, dicembre 2002]. Vado oltre, non prima di rimandare alla presentazione della sostanziosa raccolta Marilyn & Me: A Memoir in Words & Photographs, di Lawrence Schiller, in immancabile edizione di lusso Taschen Verlag (a sinistra). Vado oltre, e arrivo al mio ricordo della morte di Marilyn Monroe, vivido e forte dopo cinquanta anni trascorsi. In quell’agosto, caldo e afoso come da retorica e logica, ero in vacanza con i miei genitori, a Riva Trigoso, in Liguria. Undicenne estraneo a tanto, fui folgorato dai titoli a nove colonne sulla prima pagina dei quotidiani esposti in edicola (per il vero, negozio onnicomprensivo, dagli alimentari alle suppellettili da spiaggia, a tanto/tutto d’altro), che annunciarono la morte di Marilyn Monroe. Per l’appunto, sono passati cinquanta anni, si sono avvicendati tanti avvenimenti personali, ma questo è uno dei ricordi indelebili della memoria individuale, compreso il taglio di sole sul marciapiedi. Chiaramente, allora la mia percezione di Marilyn Monroe era sostanzialmente inesistente, e non penso neppure di aver saputo di chi si trattasse effettivamente: furono i caratteri cubitali dei titoli a comporre i tratti dell’eccezionalità e particolarità... a seguire, il mito di Marilyn Monroe -anzi, il Mito- ha attraversato le mie stagioni, così come è appartenuto ai percorsi personali e professionali di molti. In questo senso, Santi A. Urso, acuto osservatore del costume e dello star system, si è espresso chiaramente, nell’agosto 1992, in occasione del trentennale (in FotoPRO ). Testuale, in estratto: «Diciamo la verità: ci ha tirato un bel bidone. “Ci” vuol dire a noi, a tutti noi, che con computer e macchina fotografica lavoriamo nel campo dell’intrattenimento e dell’informazione. Scomparsa a soli trentasei anni, con qualcosa come sedicimila fotografie alle spalle (tra posati e paparazzate), Marilyn Monroe ne ha fregate almeno altrettante alle pagine dei giornali di tutto il mondo. Certo, fosse ancora viva [?!: avrebbe compiuto ottantasei anni il Primo giugno], magari sarebbe ancora al centro dell’attenzione (!?); nel caso, come una diva iperstagionata e chiacchierata, ma niente di più. Invece, non essendoci più, è un mito, anzi, per un insieme di circostanze, il Mito. [...] «Una consolazione, comunque, ci resta: non esistono fotografie inedite di Marilyn Monroe. Restano, al massimo, in archivi sapientemente custoditi, fotografie non ancora vendute, che vengono buone pian piano, e sempre più col contagocce [e molte, forse tutte, hanno monetizzato il cinquantenario 1962-2012]. Sono, tutte, scarti o diverse versioni di situazioni già note. Quindi, a rigor di termini commerciali, si potranno sempre definire inedite (in editoria l’inedito è semplicemente il visto poco), perché, per esempio, mostreranno Marilyn con l’indice sinistro alzato, laddove nella sequen-
Marilyn Monroe festeggia il suo trentaseiesimo compleanno (il suo ultimo) sul set del film Something's Got to Give; Primo giugno 1962.
Marilyn Monroe; maggio 1962. Sul set del film Something's Got to Give; maggio 1962.
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ARCHIVIO FOTOGRAPHIA (4)
za già pubblicata, aveva quel dito ripiegato e alzava il pollice. Insomma, scatti sconosciuti ce ne saranno ancora, tutto sta a vedere quel che vi chiedono e cosa promettono di essere. L’eccezione a questa regola si trova, con molta probabilità, negli album privati di Joe Di Maggio [mancato nella primavera 1999, a ottantadue anni] o di qualche parente appartato e rimbambito. Tutti gli altri (tutti, meno Joe, l’unico che abbia amato Marilyn) hanno già provveduto a divulgare e quindi a lucrare. «Analogamente: non ci sono film o video inediti. Soprattutto non esiste nessun film porno di Marilyn (lei, le porcellerie, le faceva in privato, live ma senza obiettivi). Nel 1980, circolarono fotogrammi d’un filmino, datato 1948. Se non credete a me, ascoltate Angelo Frontoni, Piero Berengo Gardin, Claudio Masenza e Rossano Brazzi (li riprendo da un aureo libretto: Marilyn, immagini poesie canzoni, a cura di Marco Giovannini e Vincenzo Mollica, Lato Side Editori, del 1982; purtroppo introvabile). «Angelo Frontoni, fotografo delle dive [mancato nel 2002]: “Per me non è Marilyn. Devo riconoscere che tra la Monroe e la ragazza del filmetto c’è una certa rassomiglianza di viso, ma il corpo non è assolutamente lo stesso. È nella fotografia a figura intera che si nota la differenza: le curve, i pesi non sono gli stessi. Marilyn è tutt’una altra cosa”. «Piero Berengo Gardin, storico della fotografia [mancato nel 2009]: “Non mi sembra lei e non c’è bisogno di essere un esperto di fotografia per accorgersene. Intanto, mi insospettisce quell’orecchino troppo volgare all’orecchio destro e poi il sorriso e il movimento della bocca non mi sembrano i suoi: Marilyn è inconfondibile. Anche le fotografie di raffronto mi sembrano diverse. Calco-
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Come annotato, il giornalismo internazionale ha spesso speculato sulla figura di Marilyn Monroe, facendo leva su presunte incoerenze della sua morte: suicidio? errore fatale? omicidio? A diretta conseguenza, nel corso dei cinquant’anni ormai trascorsi da quel tragico cinque agosto (1962), non sono mancate rivelazioni clamorose e fantasiose. Un esempio sopra tutti e per tutti: la prima pagina del settimanale scandalistico statunitense National Examiner, del 7 novembre 1989, ha lanciato la fantasiosa ipotesi che Marilyn fosse incinta di uno dei fratelli Kennedy, il presidente John Fitzgerald o Robert, suo ministro della Giustizia, entrambi suoi amanti accertati. Per il vero, da un po’ di tempo, la figura di Marilyn Monroe è caduta giornalisticamente nell’oblio, periodicamente riesumata soltanto dalle innumerevoli imitatrici, che cercano fama propria in riflesso al Mito. Ma non si tratta solo e soltanto di apparenza esteriore, quanto di qualcosa d’altro, che non è possibile ricreare artificiosamente. Insomma, Marilyn è soltanto lei.
lando che sono del 1948, che lei ancora non era la grande Marilyn e che probabilmente nella edificazione del mito c’è stata l’esigenza di costruire un modello più sofisticato e quindi di modificare in parte i suoi lineamenti, con tutto ciò al novantacinque percento non mi sembra lei”. «Claudio Masenza, fotografo e critico cinematografico: “Che non è Marilyn salta agli occhi, e forse anche a Playboy lo sanno. Basta confrontare queste fotografie con quelle del famoso calendario in cui lei posò completamente nuda, che fu realizzato dal fotografo americano Tom Kelley, a cavallo tra il 1948 e 1949 [FOTOgraphia, febbraio 2012]. Il seno è completamente diverso e così i capezzoli: anche a Playboy lo sanno, tanto è vero che le fotografie di raffronto non sono con quelle in cui lei è nuda, ma sul sorriso. Poi, un’altra cosa: si è sempre saputo che Marilyn aveva fatto un film porno, probabilmente quel filmino è lo stesso inserito in Blue Movie, di Andy Warhol, e in Five Times, di un pittore americano underground, che in Italia non abbiamo mai visto. Anche nelle biografie di Marilyn si è sempre parlato di questo film, ma si è sempre citata una sequenza scabrosa in cui lei gioca con una Coca-Cola, non di queste che sono oscene”. «Rossano Brazzi, attore [mancato nel 1994]: “Ho conosciuto Marilyn nel 1951 a Hollywood. Io lavoravo in America alla Fox, e lei arrivò per seguire un corso di recitazione organizzato dalla Fox. Ricordo che erano duecentocinquanta ragazzi e ragazze, presi a duecento dollari al mese. Divenne subito una grandissima amica di mia moglie e mia. Non crederò mai a lei come attrice di filmini porno. Era una ragazza serissima, una donna molto equilibrata; film porno non li ha mai fatti, ne sono sicurissimo”. [...]
Due ritratti realizzati da Milton H. Greene: Marilyn Monroe in versione country, con una Rolleiflex, la macchina fotografica preferita dal fotografo, e “in posa”, con uno dei costumi di scena di Fermata d’autobus ( Bus Stop, di Joshua Logan, del 1956). Considerate le stampa quadrate delle fotografie scattate da Marilyn al suo cagnolino Maf(ia), si presume e deduce che anche l’attrice usasse la Rolleiflex.
(pagina accanto) Già dal primo anniversario della morte di Marilyn Monroe, nell’estate 1963, il settimanale italiano illustrato Epoca ha dato avvio a speculazioni giornalistiche: nello specifico, promettendo un album di fotografie inedite, distribuite su quattro numeri consecutivi, a partire dall’undici agosto. E poi: diciotto e venticinque agosto e Primo settembre.
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Dal film culto A qualcuno piace caldo, nella scena del vagone letto. Jerry/Daphne (Jack Lemmon): «Buona notte, Zucchero». Zucchero (Marilyn Monroe): «Ah, buona notte, tesoro».
A volte, tornano: dieci e venti anni dopo. Soprattutto, l’odierna copertina della rivista evoca -a proprio modola figura di Marilyn, richiamando altresì il film Some Like it Hot (in italiano A qualcuno piace caldo). Questa illustrazione, ripresa e riproposta da uno degli esercizi del Corso di illuminazione che il grossista Unionfotomarket ha organizzato e svolto all’inizio degli anni Novanta, fu già usata dalla rivista FotoPRO, nell’agosto 1992, nel trentesimo anniversario. Considerata la propria immutata validità e per quel pizzico di nostalgia che ci lega alle esperienze passate (alla direzione di FotoPRO, per esempio), dieci anni dopo, cioè dieci anni fa, ripetemmo la stessa copertina, per il numero di settembre 2002 di FOTOgraphia. Altri dieci anni, e terza riproposizione odierna, che conserva inalterato il proprio smalto originario. Poi, basta.
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«Ma lontano dai riflettori e dagli obiettivi, Marilyn Monroe com’è stata? Parlandone da viva, una rompicoglioni. Pochi la sopportavano, e tra questi c’è stato Joe Di Maggio, che tollerava paziente i suoi modi di fare, che consistevano, nell’intimità, essenzialmente nel non controllare nessun orifizio: in altre parole Marilyn ruttava e scoreggiava in libertà. Si lavava poco (era convinta che gli odori del corpo fossero afrodisiaci, e non aveva torto, solo che esagerava, a sentire i racconti degli amici), ma quando lo faceva, passava ore in bagno. Si ossigenava tutta, per sembrare bionda naturale. A questo bisogna aggiungere un carattere difficile. Forse, a sparire a trentasei anni, non ci ha rimesso. «In più, ha lasciato una contabilità precisa ed elaborabile. Intanto, le date: 1926-1962. Vorrà pur dire qualcosa per la cabala quel numero rovesciato (26-62). Poi, c’è l’oroscopo: non c’è astrologo che non abbia spiegato come il suo destino fosse segnato. L’ha spiegato dopo, naturalmente. Poi ci sono i mariti: tre, Jim Dougherty, Joe Di Maggio, Arthur Miller, che, però, come i moschettieri, sono quattro. Nella lista, s’è infilato Robert Slatzer, un giornalista, che una volta (dice lui) in Messico la sposò e poi bruciò subito dopo il documento dello stato civile. Con questa storia ci campa ormai da anni, da quando pubblicò un libro su Marilyn (edito in Italia da Mondadori). Poi, ci sono gli amanti: numerosi come asteroidi. I più clamorosi sono noti: i fratelli
Kennedy. Qualcuno dice che c’entrino con la sua morte, nel vero senso dell’espressione. «Marilyn Monroe è morta in modo misterioso, probabilmente suicida o comunque non ostacolando la fine (aveva preso barbiturici in quantità industriale). Ma c’è chi ha detto e scritto che l’hanno uccisa (per togliere un fastidio ai Kennedy, visto da destra; per incastrare i Kennedy, visto da sinistra), con un clistere oppure con una supposta. Per metterle la supposta vennero in quattro, la tennero ferma, le misero un cerotto. Poi si sedettero ad aspettare la sua fine. Sarebbero stati assoldati da Sam Giancana, uno dei padrini più forti dell’epoca. [...] «Rimangono certe, le misure vitali, che furono, quasi per tutta la sua vita, 94-56-89. Quando dimagriva, il petto arrivava a ottantanove. Era alta un metro e sessantasei. Tra le sconfitte della sua vita va messa anche la love story con Yves Montand, che ci fece l’amore e tornò dalla moglie (Simone Signoret). Perché Marilyn, che oggi tutti sognano, in vita rimase sempre l’altra, cioè l’estranea. Per questo morì». Insomma, volente o nolente, tutti ci siamo incontrati con Marilyn Monroe (in senso lato e per sensazione, niente di più). Il mio ricordo personale è leggero, ma forte e solido. Tra le tante altre parole possibili, quelle di Santi A. Urso sono abbaglianti e scintillanti. Degne di essere considerate le più intense sul Mito. Marilyn: 5 agosto 1962-2012. ❖
di Angelo Galantini
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vendone già riflettuto in altre occasioni, a questa attuale temporalmente precedenti, non è più necessario sottolineare ancora come il Caso ci faccia spesso incontrare elementi degni di attenzione: ovviamente, confermiamo di un Caso che sia comunque coltivato, indirizzato e aiutato. Nello specifico della fotografia, nostro territorio statutario di visione e condivisione, una certa frequentazione di mercatini antiquari ci fa spesso incrociare fotografie private, diciamo fotografie trovate, che a volte definiscono un insieme omogeneo. In stretto ordine temporale, ricordiamo le stampe bianconero abbondantemente ritoccate di alberghi del nord Italia, presumibilmente destinate a essere riprodotte in cartolina illustrata, che abbiamo presentato e commentato due mesi fa, sul nostro numero dello scorso maggio. Ora, torniamo su un argomento coincidente, fino ad essere ideologicamente analogo, con un altro gruppo di stampe fotografiche bianconero, altrettanto compatte. Non si tratta di un percorso individuale omogeneo e continuativo, fatto salvo per un passaggio dalla terza media dell’anno scolastico 1947-48 a una quarta ginnasio 1948-49 e a una quinta ginnasio 1949-50, nello stesso istituto (Parini, di Milano). A parte questa affinità e continuità, si tratta di gruppi scolastici oggettivamente svincolati tra loro e sostanzialmente miscelati. Da cui, e per cui, quali ricordi possono evocare queste immagini? Personalmente, abbiamo eliminato dalla nostra esistenza individuale ogni reminescenza scolastica, della qua-
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le conserviamo soltanto ricordi -per così dire- didattici e di apprendimento personale (e per questo, non partecipiamo ai ritrovi periodici di ex allievi: va detto); per cui, non siamo in grado di immaginare alcun rientro della memoria sollecitato dalla rituale fotografia di gruppo. Anche se riconosciamo alla fotografia la capacità di congelare il Tempo, abbiamo escluso questa eventualità dal nostro tragitto individuale: personalmente, lasciamo al passato la dignità di essere tale... per l’appunto, passato. Comunque, e in ripetizione, siamo consapevoli della fantastica capacità evocativa della fotoricordo, di qualsivoglia fotoricordo.
C’è stato un tempo nel quale la fotografia di gruppo, in posa, ha segnato la cadenza del percorso scolastico di molti di noi. Datiamo questa epopea a stampe bianconero, su cartoncino consistente, sul cui retro ciascuno raccoglieva le firme dei compagni di classe, oppure -al minimo- vi riportava i nomi. Poi, tante trascuratezze e semplificazioni hanno modificato tutto; spesso, gli insegnanti (le insegnanti) si sono sostituiti (sostituite) al fotografo professionista... e le pose hanno perso tutto il proprio fascino originario, andando a esaurirsi in accozzaglie di studenti mal messi, disordinati, scompigliati e tanto altro ancora. Torniamo indietro nei decenni, con un ennesimo ritrovamento (casuale?) in un mercatino antiquario. Ma, soprattutto, ci domandiamo il senso di questo ricordo. Con una consistente appendice -che è poi autentica protagonista- da e con Dino Buzzati
IL TEMPO DELLA SCUOLA
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Abbandonate a se stesse, vendute a un mercatino antiquario per pochi centesimi, ormai estranee ai percorsi esistenziali di ciascun soggetto (sia chiaro), queste fotografie rivelano speranze e attese che non sappiamo se si sono concretizzate. Soltanto, speriamo di sì. Personalmente, siamo sempre propensi al pensiero positivo e ben riposto... ma sappiamo bene come la vita, il suo svolgimento, vada altrimenti. Sappiamo bene che ciascuno di noi riserva agli altri i propri sentimenti, e su questa base declina l’osservazione della Vita. Anche quando e per quanto questa (osservazione) viene/venga sollecitata da una evocazione temporale in forma fotografica. Con amarezza (considerato lo svolgimento), ma anche senso del reale (considerato lo svolgimento), a questo punto, riprendiamo un racconto breve di Dino Buzzati, giornalista e scrittore che ha segnato una traccia forte e profonda nella nostra vita (altro discorso, altre considerazioni, superflue in questo contesto attuale). Trascriviamo dalla raccolta Egregio signore, siamo spiacenti di..., originariamente pubblicata in edizione con illustrazioni del francese Siné (Elmo, Milano, 1960) e successivamente riproposta da Mondadori in numerose edizioni successive, dal 1975, con il titolo di Siamo spiacenti di. Il racconto si intitola Gruppo fotografico, e richiama una anziana signora che osserva, per l’appunto, una fotografia scolastica del proprio antico passato. Testuale. Rappresenta le allieve della seconda classe al Collegio Cesarini riunite nel cortile. La vecchia l’ha trovato per caso in fondo ad un cassetto. E si diverte a esaminarlo. C’è anche lei, naturalmente, in prima fila, con le trecce. Le sue compagne! Credeva di averle perdute per sempre e invece eccole là tra le sue mani, disposte in tre file, scalarmente, e non possono fuggire.
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- Sentiamo tu, lassù a destra, la prima, in piedi sulla sedia. Ah, sei tu, Ada, sì tu, dimmi: perché sorridi? - Non saprei, signora. Perché sorrido? Ma tutte sorridiamo, tutti sorridono quando ci si fa la fotografia. - Come fai a sapere delle altre? Tu non le vedi. Ti voltano le spalle. Potrebbe darsi che nessuna sorrida ma soltanto tu, per quello che ne sai. Ho paura piuttosto che tu sia una sciocchina, Ada... Scommetto che la tua compagna al fianco mi darà una risposta più sensata... Sì, tu Rosetta. Mi vuoi spiegare, perché adesso sorridi? - Io?... Oh, è così buffo farsi fotografare... Mi viene da ridere perché... perché siamo qui tutte in posa... tutte vestite in ordine... sembriamo tante signorine... chissà che effetto nella fotografia... - E tu Robertina, perché sorridi? Anche a te pare così buffo?
- Non so... ma sempre nelle fotografie bisogna sorridere, l’ho sentito dire... Forse è per dare più buona impressione... Gli altri, vedendo, penseranno che si è felici e contente. Insomma se si hanno dei dispiaceri è meglio tenerseli per sé... - I dispiaceri, i dispiaceri, che parola grossa. E tu, Lucietta, mi sapresti rispondere: perché sorridi? - Se vuol proprio saperlo, signora, mi è venuto da ridere pensando alle orecchie della Paola, quella che è in terza... Sa? Noi ci abbiamo fatto l’abitudine, ma chissà come verranno fuori in fotografia quelle due ventole... - Sorridete tutte per poco, a quanto pare. E tu, bella Cristina, mi vuoi dire perché sorridi? - O Signora, qui c’è la Franca che mi scherza... - Ti scherza come?
- Mi dà di gomito, cerca di farmi fare le smorfie, mi dà dei colpi col gomito... - Tu sei, tu mi dai dei colpi... Signora, non le creda, è la Cristina che ha cominciato a farmi le boccacce! - Basta, basta... Tu, piuttosto, ti chiami Palometta, se non sbaglio? Sì, mi vuoi dire perché sorridi? - Scusi, signora, e me perché mi ha saltato? Perché a me non mi domanda niente? - A te no perché di no. Non sono mica obbligata a interrogare tutte. E poi tu, Luisa, non mi sembra mica che tu sorrida troppo... - Sì che sorrido anch’io... - Be’, insomma adesso voglio che mi risponda Palometta... Perché dunque sorridi, Palometta? - Sorrido perché è festa, e poi è finita la scuola e si va in vacanza, e poi fa caldo e io non ho più i geloni, io soffro tanto di geloni... - E tu Sofia? - Io non sorrido, signora. Ho la bocca fatta così, ho la pelle delle labbra tirata così che faccio vedere i denti... la mamma mi dice che non importa e che sono carina lo stesso..., ma queste qui, le mie compagne, mi chiamano... mi chiamano... - Coraggio, com’è che ti chiamano? - Mi chiamano cadaverin, teschietto, faccia de mort, ecco come mi chiamano. - E tu, Maddalena, contessina, se non sbaglio, sorridi o non sorridi? - Eh, mi guardi, signora, deve giudicare lei se sorrido... - Non vedo, c’è una macchiolina che ti nasconde proprio la bocca...
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- La cancelli, signora. Così vedrà se sorrido o no. - Non si può cancellare, avrà almeno cinquant’anni questa macchiolina... quasi vecchia come me... perché io sono vecchia... E allora, coraggio bambine..., non mi avete ancora riconosciuta? - La nuova direttrice? - Macché direttrice! Una di voi sono. La Luisa sono! Non le assomiglio proprio niente?... Sono la Luisa, ecco, e mi ricordo di tutte voi... Sorridete? Ah, sorridete?... Ma lo sapete o no quante di voi sono ancora vive oggi?... C’è qualcuna che lo vuol sapere?... Tacete? Avete dunque paura di saperlo?... Ve lo dirò allora: in quattro siamo rimaste di trentotto che eravamo. - Luisa, senti. Io ti ho regalato una borsettina di cuoio, ti ricordi? Dimmelo almeno a me, Luisa. Dimmi: io, sono ancora viva? - Sicuro che mi ricordo, cara Maddalena... La borsettina! Ma poi a diciotto anni hai anche cercato di soffiarmi il fidanzato, vero?... Proprio per questo voglio accontentarti: sì, tu sei morta, da un bel pezzo morta e sepolta. - Da un pezzo? Perché da un pezzo? - Sono più di quarant’anni, se lo vuoi sapere, che sono stata ai tuoi funerali. E non erano niente di speciale, te lo giuro... Difterite! - Signora, signora, basta! Ci lasci stare oggi che è festa... Perché è venuta a dirci queste cattiverie? - Ah, non ti manca l’impertinenza eh, Graziella? Hai paura? Però andavi a fare la spia dalla maestra, andavi. Ci avevi gusto a vederci castigate... Senti allora, proprio tu... - No, no, stia zitta, signora. Io non voglio saper niente. Io mi chiuderò le orecchie!
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- E come? Non puoi. Sei fotografata con le braccia in giù, non puoi portare le mani alle orecchie... - No, no, signora Luisa, la prego, stia zitta! - E invece ecco, così impari a fare la spia: a ventisei anni tu sei morta. Cameriera presso una certa famiglia Melloni... mi ascolti?... Eri l’amante di uno dei ragazzi... Morta di tifo all’ospedale, press’a poco come un cane, capisci? Sorridi ancora? - Andiamocene, andiamo via, che questa strega la smetta... Corriamo a chiuderci in camerata! - Andare via? Ma se non potete muovervi neanche di un millimetro! Siete fotografate, siete. Come tante statuine inchiodate una vicina all’altra, in fila... E adesso, una per una, vi istruirò sui fatti vostri che non sapete ancora, sulle vostre sudice cose, sulle disgrazie che vi capiteranno, vi dirò di che cosa siete morte... Ah, mi divertirò un poco. Dite, bambine, non vi ricordate quel mio vestitino rosso come mi stava bene? Non vi ricordate la gita alla Certosa? Che cosa è rimasto di tutte quelle risate? Si rideva, vero? Bastava un niente... Sola, al freddo, in questa soffitta maledetta, senza una creatura che mi badi, col mal di cuore, povera, senza più denti, ignobile a vedersi, ecco la Luisa!... E non ho sonno, e la notte è lunga, e nessuno verrà a trovarmi... Oh lasciate che mi consoli raccontandovi come siete morte! Tragico, non è vero? Ma, sicuramente, plausibile. Infatti, la Vita è anche questa: rancori mai sopiti, riottosità mai risolte, esistenze neppure provate, che abbiamo respirato in questo crudo racconto di Dino Buzzati. La fotografia racconta tanto, spesso anche questo. Ci piaccia o meno. ❖
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Festival di Angelo Galantini
DIA SOTTO LE STELLE
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Valore, onore e merito delle cifre che esprimono quantità di sostanza, che figurano corrispondenti qualità di altrettanta sostanza. Eccellente programma fotografico organizzato e svolto da Andreella Photo, di Busto Arsizio, in provincia di Varese, tra tanto altro storico specialista della multivisione, a fine estate, Dia Sotto le Stelle conteggia la propria ventunesima edizione. Certo, anche solo nello stretto ambito fotografico (di riferimento principale, se non già unico), molto è cambiato dalle origini, quando la fotografia si è espressa altrimenti (soprattutto, in forma analogica, da cui e per cui straordinarie multivisioni a diaproiettori multipli sincronizzati). Ma la sostanza ideologica delle due serate di Dia Sotto le Stelle non è cambiata, e ancora propone spettacolari proiezioni... oggi su base digitale. È ovvio e scontato. Ancora, a contorno e complemento, questo autentico e avvincente Festival Internazionale di Arti Audiovisive, che si svolge venerdì quattordici e sabato quindici settembre, nell’area di MalpensaFiere, in provincia di Varese, nei pressi dell’aeroporto, allestisce situazioni fotografiche integrative e di appoggio. Anzitutto, si segnalano le opportunità di fotografare, in situazioni che prevedono la presenza di modelle e altri richiami sostanziosi. Quindi, non mancano convincenti mostre fotografiche, tra le quali Storie, a cura dell’Agenzia Reuters Italia, Gli ineffabili, di Marco Colombo e Matteo Di Nicola, e la rituale e appassionante passerella di fotografie di natura, a cura della rivista Oasis. Tra gli audiovisivi, si segnala la partecipazione dello statunitense Todd Gipsten, presente con tre progetti, di una proiezione a cura di National Geographic Magazine, di una retrospettiva di Ercole Colombo, il più noto fotografo della Formula Uno, che ha al proprio attivo quaranta anni di fotografia di motori e oltre seicentocinquanta Gran Premi seguìti, e dello speleologo Francesco Lopergolo. Ancora, proiezioni di Walter Tur-
cato, Lorenzo Scoglio, Christophe Sauterau, Gianluca Bufardeci e Giacomo Cicciotti; e un commosso pensiero per il fotografo italiano Boris Gradnik, mancato un anno fa. Con una partecipazione di millecinquecento spettatori a serata (dati 2011), nel corso di due decadi, Dia Sotto le Stelle si è affermato come uno dei più seguìti e prestigiosi festival di arti audiovisive, tanto da aver ottenuto il prestigioso riconoscimento Auspices Fiap, conferito dalla Fé-
Organizzato da Andreella Photo, di Busto Arsizio, in provincia di Varese, Dia Sotto le Stelle 2012 si svolge a MalpensaFiere, nei pressi dell’aeroporto. Soprattutto serate multivisive, ma anche tante altre occasioni fotografiche: quattordici e quindici settembre.
dération Internationale de l’Art Photographique. Come di consueto, l’attuale edizione 2012 si svolge in due giornate (quattordici e quindici settembre). Venerdì sera, quattordici settembre, si possono ammirare mostre e multivisioni realizzate da fotografi italiani e stranieri. Dalle 15,30 di sabato pomeriggio, quindici settembre, i visitatori e i fotografi hanno a disposizione sale di posa attrezzate, nelle quali sono allestiti soggetti fotografici di effer-
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Festival
vescente richiamo; e anche modelle in esterni (tempo climatico permettendo). In questo modo, tutti i fotografi, professionisti e non professionisti, possono esercitare la propria fantasia creativa. La sera vengono proiettati audiovisivi di prestigio internazionale. Come sempre, l’ingresso al Festival è totalmente gratuito (Andreella Photo, piazza XXV aprile 11b, 21052 Busto Arsizio VA; 0331-679350; www.andreella.it, info@andreella.it). A questo punto, risolta la cronaca dell’evento e anticipati alcuni dettagli della manifestazione, le considerazioni si spingono oltre, avanzano. La riflessione che va sottolineata riguarda l’impegno di identificati fotonegozianti, che non esauriscono la propria personalità con la sola vetrina commerciale. Non è il caso di stilare un elenco, né di compitare un casellario di nomi, occasioni e date, ma in senso lato va sottolineato
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Festival
come e quanto ci siano fotonegozianti che allestiscono mostre nei propri spazi commerciali, programmano visite guidate a mostre di autori affermati, svolgono intensi calendari didattici, preordinano giornate conviviali... e tanto altro ancora. Così facendo, così agendo oltre i locali della vendita, costoro pongono l’accento su una componente del mercato fotografico che dovrebbe essere irrinunciabile (oltre che endemica): quella della sollecitazione del processo imitativo, che sta alla base della passione fotografica e che si allunga altresì sulla gratificazione e fidelizzazione del cliente (proprio) e anche della fotografia in assoluto. In effetti, quello della fotografia è un hobby diverso da ogni altro che definisce il vasto contenitore del “tempo libero”: diverso, perché migliore; soprattutto, attivo e non passivo, con quanto ne consegue.
Dalle proiezioni e mostre programmate e allestite a Dia Sotto le Stelle, edizione 2012, venerdì quattordici e sabato quindici settembre: la Formula Uno di Ercole Colombo (pagina accanto, in alto); una biscia dal collare, fauna del Ticino, dalla selezione Gli ineffabili di Marco Colombo e Matteo Di Nicola (pagina accanto, in basso); un ritratto antropologico realizzato dallo statunitense Todd Gipstein (qui sopra).
Non è facile organizzare e svolgere iniziative a supporto e in appoggio del proprio commercio, magari non avendo neppure la certezza di indirizzare soltanto verso se stessi, ma con la convinzione di promuovere comunque la fotografia. Addirittura, spesso è difficile, sempre è oneroso e faticoso: e lo staff che collabora con Andreella Photo per Dia Sotto le Stelle sa bene in che termini si svolga l’intera progettazione e pianificazione (tempo, fatiche, ansie, imprevisti...). Dunque, una domanda si impone: perché farlo? Dal nostro punto di vista (viziato), la risposta è chiara: perché il commercio della fotografia non deve limitarsi alle aride leggi che governano ogni mercato, e che si basano soprattutto -e spesso, soltanto- su richiami fittizi di prezzo di vendita/acquisto. Il commercio della fotografia deve (dovrebbe?) tene-
re conto che il prodotto finale -per l’appunto, la Fotografia, qualsiasi questa sia e qualsivoglia questo significhi- è qualcosa di avvincente e affascinante: senza soluzione di continuità, dall’esercizio volontario e consapevole (quel fotoamatorismo, anche organizzato, frequentato da molti) alla semplice fotoricordo domenicale (capitolo di straordinario valore e fascino). In ripetizione, d’obbligo: la fotografia si esprime come hobby diverso dagli altri. Diverso, perché migliore: sempre e comunque attivo e non passivo. Il valore del Tempo che l’attraversa non è questione da poco. Ecco, dunque, il senso, valore, onore e merito di programmi fotografici rivolti al pubblico, quale è quello di Dia Sotto le Stelle, di Andreella Photo: MalpensaFiere, in provincia di Varese, venerdì quattordici e sabato quindici settembre. ❖
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Sguardi su
di Pino Bertelli (Piombino, dal vicolo dei gatti in amore, 4 volte febbraio 2012)
MARIO DONDERO
C
C’è più verità in un atto d’insubordinazione che in tutte le fotografie del mondo, e tutte le fotografie del mondo non valgono un caffè con un amico o un colpo di pistola preso al cuore per la conquista di una società di liberi e uguali. Se la fotografia della stupidità (digitale o analogica è la medesima cosa) non rassomigliasse perfettamente al talento, al progresso, alla speranza o all’arte fotografica per tutti... nessuno vorrebbe essere stupido. Con una macchina fotografica da esibire nello spettacolo infame, cialtrone, vigliacco che gli stupidi della fotografia (amatoriale o professionale) celebrano perfino al cesso... tutti si sentono artisti, e mostrano a ogni sfogliata dell’industria culturale o elettorale (sempre più penosa) che il confine tra stupidità e vanità è banalizzato per il fatto che solo gli ironici, i cinici o i liberi pensatori hanno il pudore di nasconderlo. Insomma, dietro un bel fotografo c’è spesso un bello stupido.
SULLA FOTOGRAFIA DELLA STUPIDITÀ Ci sono fotografie che -malgrado la loro banalità espressivaraggiungono il riconoscimento mercantile di Christie’s, oppure -con la loro ferocia- acquisiscono il Premio Pulitzer. Una fotografia di Andreas Gursky (Rhein II, stampata nel 1999) è stata battuta da Christie’s, a New York, per oltre quattro milioni di dollari. Si tratta di una veduta del fiume Reno, incastonato tra due sponde verdi e il cielo piovoso; l’immagine di Andreas Gursky è di una stupidità estetica di non poco conto [FOTOgraphia, aprile e giugno 2012]. Il fotogramma di un qualsiasi film western di John Ford o una sola immagine (imperfetta) di donne e uomini in rivolta della Rivoluzione dei gelsomini bastano a gettare tutta l’arte fotografica di Andreas
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Gursky nella pattumiera, e restituire alla storia la verità che le compete. E dire la verità in ogni campo della comunicazione è un atto rivoluzionario. Rhein II ha spodestato un’altra fotografia della stupidità celebrata, Untitled #96, dell’americana Cindy Sherman, battuta all’asta, sempre da Christie’s, lo scorso maggio 2011, per 3,89 milioni di dollari [FOTOgraphia, giugno 2011]. L’immagine raffigura una ragazzina con una maglietta arancione, una gonna bianca e arancione appena sollevata sulle cosce (le gambe non si vedono), ha una mano quasi chiusa vicino alla
più infima, è il medesimo che ri/produce un’umanità di Bibbie e cannoni. Anche la fotografia con la quale Kevin Carter ha vinto il Premio Pulitzer nel 1994, Stricken child crawling towards a food camp, scattata in Sudan, che per molti rappresenta il simbolo della carestia e dalle fame nel mondo... a noi sembra invece esprimere una visione “cannibalesca” della verità. È un giorno di marzo del 1993, il fotogiornalista Kevin Carter vede una bambina poco distante dal suo villaggio, che sta morendo... un avvoltoio la segue, in attesa di farne il pasto. Il fotografo
«Mai dimenticare che uccidere un padrone è un assassinio, farne fuori cento di padroni è un atto eroico!» (Cantava uno straccivendolo anarchico in un’osteria di porto della mia città, nel primo dopoguerra, che tutti chiamavano Bakunin) testa (si notano le unghie laccate di rosso) e nell’altra, appoggiata su una gamba, tiene un pezzo di carta (una pagina strappata dall’elenco del telefono). Il pavimento è di mattoncini giallo-oro, la bocca appena dischiusa e le labbra dipinte con rossetto rosso, lo sguardo perso verso qualcosa lontano. Quando i fotografi non hanno niente da dire, non hanno una visione autentica di ciò che fanno. Non si parla che di letteratura; è difficile trattenere il vomito di fronte a tanta stupidità applicata alla fotografia. Il mercato dozzinale d’alto bordo che compra l’arte, anche la
aspetta il momento decisivo, e dopo una ventina di minuti scatta. Poi va sotto un albero a parlare con Dio e pensare a sua figlia (racconta lui). Quando gli fu assegnato il prestigioso Pulitzer, e i giornalisti chiesero che fine avesse fatto la bambina, Kevin Carter non dette alcuna risposta. Pochi mesi dopo, il 27 luglio 1994, scrive una lettera alla figlia e alla moglie, dalla quale si era separato, e si lascia morire con il gas, nella sua automobile. Aveva affermato: «Sono rimasto sconvolto, vedendo cosa stavano facendo. Ero spaventato per quello che io stavo facendo. Ma poi,
la gente ha iniziato a parlare di quella fotografia, così ho pensato che forse le mie azioni non sono state poi così cattive. Essere stato testimone di qualcosa di così orribile non è stato necessariamente un male». Dipende dal modo di come si fa o si evita di fare una fotografia. Fotografare significa disfarsi dei propri rimorsi e dei propri rancori, spargere i propri segreti là dove la verità e la bellezza contengono la giustizia sociale. Fotografare è una provocazione, una visione altra della realtà che si situa oltre ciò che è, e denuda ciò che sembra essere. La fotografia della violenza contiene il vocabolario della stupidità. Il calendario Lavazza (il caffè che prende san Pietro per grazia di Dio) è solo un esempio del cattivo edonismo nel quale versa la fotografia del simbolico mercantile. Per festeggiare la ventesima edizione del calendario che magnifica il successo della compagnia, i padroni del caffè hanno riunito dodici celeberrimi autori dell’immagine patinata (Erwin Olaf, Thierry Le Gouès, Miles Aldridge, Marino Parisotto, Eugenio Recuenco, Elliott Erwitt, Finlay MacKay, Mark Seliger, Annie Leibovitz, Albert Watson, David LaChapelle, Ellen von Unwerth), The Lavazzers, appunto, firme che hanno reso grande negli anni il calendario Lavazza. L’entusiasmo è di quelli epocali. I fotografi si sono autocelebrati con un autoscatto, e hanno stretto il loro rapporto più intimo con l’immagine pubblicitaria del caffè Lavazza, dicono. La regia accorta è dell’Agenzia Armando Testa (gente che sa cosa vuole il pubblico più abbiente e dirige i bisogni/consumi dei naufraghi da supermercato). Una messe di fotoamatori o fotografi dell’ascesa all’olimpo consumerista trasecola-
Sguardi su no di tanta sapienza estetica. Tuttavia, il calendario è brutto forte e le sante intelligenze della fotografia riescono far sognare l’immaginario di tutti i mondi fotografici possibili, quelli che danno diritto di cittadinanza alla sregolatezza controllata e all’educabilità del consenso nel confortorio di una continuata compiacenza foto-televisiva. Prendiamo solo l’autoritratto di Annie Leibovitz. La fotografa newyorkese ha una Fujifilm X100 al collo, è seduta su una roccia, in un letto di fiume, con tanto di stivaloni da pescatore... tiene una tazzina di caffè Lavazza, in una mano, e nell’altra il cucchiaino per girare lo zucchero. Si autosserva (autocompiace): sembra dire che la vita è bella e una felice ignoranza prolunga l’esistenza dei consumatori di ogni merce (ma non ci crede nemmeno lei). Annie Leibovitz pare non sapere, e forse non lo sa davvero, che la fotografia del presente è la sola verità possibile (come insegnano le immagini scippate alle rivolte arabe, prese dagli stessi protagonisti dell’insurrezione con telefoni cellulari, macchine usae-getta, videocamere, fatte girare nei social network di tutto il mondo) e cogliere al momento le rose (la bellezza) della vita, Orazio diceva. Sempre lei ha celebrato le magie espressive dell’iPhone 4s (con funzione fotografica incorporata, da otto Megapixel): «Sto ancora imparando ad usarlo -ha annotato, in un fuori onda sul canale statunitense Msnbc-, ma è certamente la macchina fotografica punta-e-scatta dei nostri giorni. È una penna, una matita, un notebook», con il quale fotografi e principianti potranno magnificare le chimere private e pubbliche della società postmoderna. Annie Leibovitz non arriva ad affermare questo, ma è a ciò che l’insieme del suo fare-fotografia mira e fomenta sacche di cadaveri che scattano fotografie. Tiriamo corto. La desertificazione della coscienza e dell’intelligenza fotografica passa pro-
prio dall’adorazione di questi frequentatori di illusioni estetiche/etiche. Solo i buoni poeti (in ogni forma d’arte) si fanno interpreti della bellezza autentica e restituiscono alla storia dell’Uomo, della Donna, ciò che li percorre, li abita e li ossessiona fuori dalla sacralità dei mercati dell’arte. Prima di tutto, i grandi fotografi saccheggiano le corpografie del reale, e attraverso l’ironia, la disobbedienza e il conflitto raggiungono la verità come formazione ideativa, depositaria di saggezze ereticali. La fotografia del vero, del buono, del bello è un tragitto ludico o abrasivo, che porta alla gioia dell’immediato che s’intreccia col giusto. Ciò che non la uccide (la fotografia della bellezza), la fortifica.
SULLA FOTOGRAFIA COMUNARDA La macchina fotografica non è una macchina intelligente che aiuta le persone stupide a diventare artisti. Anzi, è una macchina stupida che funziona solo nelle mani di persone intelligenti a diventare testimoni autentici della propria epoca (alla maniera di Umberto Eco). La bellezza autoriale di Mario Dondero non sempre è stata compresa; nemmeno la sua inclinazione comunarda della realtà è stata molto studiata. Tuttavia, l’affabulazione fotografica di Mario Dondero lascia tracce indelebili del proprio valore di uomo impegnato nel rilevare il disagio sociale e il dolore quotidiano che buca l’ingiustizia generale. Infatti, la nobiltà delle sue immagini mostra che la bellezza è un aspetto della giustizia, e una società dove a molti manca il pane non va sostenuta, ma abbattuta. L’abbiamo detto altrove e lo grideremo sempre (con le parole di un grande filosofo/psicologo, James Hillman): «Se i popoli si accorgessero del loro bisogno di bellezza, scoppierebbe la rivoluzione» nelle strade della Terra. Un’annotazione necessaria (della quale potremmo anche fare a meno): Mario Dondero è
uno dei maggiori fotogiornalisti italiani. Nasce a Milano, nel 1928, e negli anni Cinquanta inizia a lavorare per L’Unità, L’Avanti, Milano Sera, Le Ore. Frequenta il Bar Jamaica (nel quartiere di Brera), dove si incontra con fotografi e intellettuali non proprio intonati con la cultura dominante (Alfa Castaldi, Camilla Cederna, Luciano Bianciardi, Giulia Niccolai, Carlo Bavagnoli, Ugo Mulas, Uliano Lucas). Nel 1955, va a Parigi, e le sue fotografie appaiono sulle pagine di L’Espresso, L’Illustrazione Italiana, Le Monde, Le Nouvel Observateur; conosce Roland Topor, Claude Mauriac, Daniel Pennac; fissa nel tempo l’immagine del gruppo di scrittori del Nouveau roman (Nathalie Sarraute, Samuel Beckett, Alain Robbe-Grillet, Claude Mauriac, Claude Simon, Jerome Lindon, Robert Pinget, Claude Ollier, Gérard Bessette, Michel Butor, Marguerite Duras, Robert Pinget, Jean Ricardou); la sua ritrattistica africana è pubblicata nelle riviste Jeune Afrique, Afrique Asie, Demain l’Afrique; fotografa con grazia Pier Paolo Pasolini, Alberto Moravia, Dacia Maraini (ma sono tanti i ritrattati dell’intellighenzia nobile, borghese fissati dal suo obiettivo). La curiosità documentale, porta Mario Dondero in giro per il mondo, e il suo sguardo singolare, il gusto per la bella/scevra inquadratura, lo iscrive a pieno nella Storia autentica della fotografia italiana. Nella figurazione antropologica di Mario Dondero -e l’impeto libertario che la sostiene (le indagini del Tribunale Russell, gli scatti in Afghanistan, le torture in Algeria, fino a girare un documentario sui Griots, in Africa)- si coglie l’attenzione e lo sforzo (sovente il coraggio) di comunicare la giustizia, la verità e il bene comune negato agli esclusi della Terra. La visione comunarda di Mario Dondero sembra dire che la verità abita l’uomo interiore, e quando i più l’avranno scoperto si riverserà fuori, nel mondo in rivolta. La na-
scita di una società libera e giusta sboccia da una rinnovata resistenza che si traduce in disobbedienza civile. Per Mario Dondero, «La fotografia è un magnifico strumento per raccontare, coglie situazioni che le parole non possono comunicare. Ciò che intendo è che non mi interessa l’aspetto tecnico o artigianale della fotografia, che non mi interessa l’estetica, ma il contenuto delle fotografie. Mi basta raggiungere una capacità tecnica sufficiente per raccontare delle storie. Penso che il fotogiornalismo sia l’espressione più alta della fotografia, e sono convinto che sia più importante pubblicare su un giornale che allestire una mostra. Scomodare l’identificazione arte per il reportage mi sembra eccessivo, anzi direi che troppo talento artistico nuoce al racconto». Tutto vero. Del resto, le turbolenze generazionali che emergono ai quattro venti della Terra gli danno ragione. Ribadiamolo: gli insorti del nuovo millennio, che hanno fotografato se stessi, le morti dei loro cari, l’arroganza dei potenti che li tenevano a catena come schiavi... con immagini sgranate, sghembe, sfocate riprese con telefonini, videocamere, apparecchi amatoriali, hanno mostrato il valore d’uso della fotografia sociale meglio dei fotoreporter blasonati della celebrata carta stampata o delle televisioni. A leggere con attenzione le fotografie di Mario Dondero -non solo quelle d’impegno civile-, si resta affascinati dalla tanta bellezza e senso di giustizia che contengono. Ci salgono agli occhi i contadini del Sud italiano, ritratti di donne di ogni-dove, operai col sorriso aperto verso nuove primavere di bellezza, bambini raffigurati in allegre speranze di vita buona. Sotto ogni taglio, questa scrittura fotografica rimanda a utopie mai dimenticate e, a ben guardare, invita a raccogliere l’azione, la resistenza, fino alla rivolta come esistenza etica, che sfocia in disobbedienza civile.
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Sguardi su BIANCO E NERO Le mostre, i libri, gli incontri pubblici confermano e rinnovano la coscienza sociale di questo fotografo anomalo. La sua opera intera lo incarna come un “maestro di civiltà”, che nulla o poco ha a che fare con la superbia e l’ignoranza propria ai servi contenti della fotografia mercantile italiana. I fotografi della cultura oscurantista (dell’indifferenza) passano, i poeti dell’iconografia della bellezza popolare restano. «La nostra epoca ha nutrito la propria disperazione nella bruttezza. Noi abbiamo esiliato la bellezza, i Greci per essa presero le armi» (Albert Camus diceva). La trattazione fotografica di Mario Dondero riprende la visione libertaria di Henri Cartier-Bresson (ma è solo un esempio) e denuda l’iconologia dell’osceno fotografico nel quale siamo immersi: mette a fuoco, con esattezza, il cuore del-
la tragedia della società dello spettacolo e rompe la relazione tra il mercimonio dell’immagine e il successo/consenso mediatico che abbrutisce l’immaginario collettivo. La fotografia in amore (o dell’anima bella) di Mario Dondero ha la capacità di fissare nella quotidianità i valori e i disvalori disseminati in ogni forma di comunicazione (religiosa, politica, culturale). È un percorso esperienziale che fa buon uso dell’indignazione, per disvelare le fonti dell’ingiustizia impunita (che ciascuno dovrebbe approfondire e portare avanti per sradicare il brutto e il falso dal proprio sentire). Nessuna giustizia e nessuna bellezza può essere sovrana se non è del popolo. La bellezza è la forma compiuta della bellezza. Il divenire di una società di liberi e uguali è tutto qui. ❖
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