Mensile, 6,50 euro, Poste Italiane SpA - Spedizione in abbonamento postale - D.L. 353/2003 (convertito in Legge il 27-02-2004, numero 46), articolo 1, comma 1 - DCB Milano
ANNO XIX - NUMERO 184 - SETTEMBRE 2012
Mostre d’autunno FRANCO VIMERCATI ROBERT DOISNEAU Mirrorless (CSC) CANON EOS M Curiosity A SPASSO SU MARTE
PHOTOKINA 2012 TRA ATTESE E SPERANZE
Non è venduta in edicola. Per averla hai una sola possibilità: sottoscrivere l’abbonamento annuale. 12 numeri 65,00 euro
Abbonamento 2012 (nuovo o rinnovo) in omaggio 1839-2009
Dalla Relazione di Macedonio Melloni alla svolta di Akio Morita M A U R I Z I O
R E B U Z Z I N I
1839-2009 Dalla Relazione di Macedonio Melloni alla svolta di Akio Morita
Come dire, dal dagherrotipo all’acquisizione digitale di immagini. E consecuzioni
INTRODUZIONE
DI
GIULIANA SCIMÉ
F O T O G R A P H I A L I B R I
prima di cominciare UN ALTRO ADDIO. Nata in Belgio, nel 1938, cresciuta negli Stati Uniti e in Inghilterra, prima di essere stata fotografa, Martine Franck ha studiato storia dell’arte all’Università di Madrid e presso l’Ecole du Louvre, di Parigi, città nella quale ha finito per stabilirsi. È mancata lo scorso sedici agosto, a settantaquattro anni, nella sua casa di Luberon, in Francia, sulle Alpes-de-Haute-Provence. Il suo percorso fotografico è cominciato nel 1963, nella redazione parigina di TimeLife, dove è stata assistente di Eliot Elisofon e Gjon Mili, due grandi del Novecento. Il suo destino si è delineato nel 1966: mentre fotografava le sfilate di moda per il quotidiano New York Times, ha incontrato Henri Cartier-Bresson, che ha sposato nel 1970. Da questo momento, la sua personalità fotografica, di eccezionale livello, ha dovuto fare i conti con l’essere la moglie del più acclamato fotografo di tutti i tempi. In ogni caso, dopo aver lavorato per l’agenzia VU ed essendo stata tra i fondatori dell’agenzia Viva (nel 1972), nel 1980 è entrata nell’agenzia Magnum Photos, divenendone membra effettiva nel 1983. Tra tanto fotoreportage, per Vogue ha realizzato un intenso progetto sulle donne, sui cui diritti ha proseguito con una serie per il ministero francese preposto; è stata fotografa del Théâtre du Soleil, dal 1964; nel 1993, ha iniziato i suoi viaggi sull’isola irlandese di Tory, dove ha documentato l’antica comunità gaelica. Ha anche viaggiato in Tibet e Nepal. Con l’aiuto di Marilyn Silverstone, altra fotografa Magnum Photos, ha testimoniato il sistema di istruzione dei monaci tibetani tulku.
La fotografia è per definizione immagine tecnica, e ciò che la fa diversa da ogni altra immagine prodotta dall’uomo per decine di migliaia di anni è precisamente il fatto di essere prodotta con l’ausilio di un apparato programmato per effettuare un prelievo di impronte luminose dal mondo fisico, e per farlo con quella relativa automaticità che garantisce, appunto, che sia un prelievo e non un’imitazione manuale. Michele Smargiassi; su questo numero, a pagina 59 Discriminare è nella natura umana: facciamo scelte e diamo giudizi ogni giorno. Queste scelte sono parte dell’esperienza concreta. Robert Hughes; su questo numero, a pagina 15
Copertina Richiamo alla Photokina 2012, che si svolge a Colonia, in Germania, dal diciotto al ventitré settembre prossimi. Tra attese e speranze, quale sarà la personalità tecnologica della fotografia in rapido divenire? La filiera della fotografia attuale, dalla ripresa alla gestione dei file-immagine, alla produzione di copie riprende e ripropone una condizione antica: quella del fotografo consapevole del proprio lessico, ma anche capace di governare le fasi operative del proprio mestiere
3 Altri tempi (fotografici) Da un annuncio pubblicitario Vollenda (6x9cm folding) della fine degli anni Venti. Testuale: La super perfezione e la super novità autentica! Da cui e per cui, La creazione Vollenda supera tempi e promesse!
7 Editoriale Il dovere di un giornalismo che si rivolge al proprio pubblico e contribuisce a comporre i tratti del mondo verso il quale si rivolge e del quale testimonia. Ancora, bisogna essere consapevoli che ognuno è parte di una società che possiede una cultura e una storia
8 Curiosity è ammartata Annotazioni sulle fotografie inviate a Terra dalla sonda che ha raggiunto Marte, domenica cinque agosto. E rievocazioni delle fotografie del e dal Pianeta Rosso
12 Notizie Attrezzature, vicende e altre segnalazioni
14 Robert Hughes Martine Franck in un ritratto di Willy Ronis, del 1980.
Commemorazione dello storico e critico letterario di origine australiana, mancato il sei agosto, autore di un saggio fondamentale: La cultura del piagnisteo di Lello Piazza
SETTEMBRE 2012
R , RIFLESSIONI IFLESSIONI, OSSERVAZIONI E COMMENTI OSSERVAZIONI E COMMENTI SULLA FOTOGRAFIA SULLA FOTOGRAFIA
18 Ici Bla Bla Appunti e attualità della fotografia internazionale a cura di Lello Piazza
22 Blow up e dintorni Film fondamentale del lungo capitolo della presenza della fotografia al e nel cinema, Blow up ha segnato anche una lina spartiacque: tra un prima e il dopo Ricerca iconografica di Filippo Rebuzzini
Anno XIX - numero 184 - 6,50 euro DIRETTORE
RESPONSABILE
Maurizio Rebuzzini
IMPAGINAZIONE Maria Marasciuolo
REDAZIONE Angelo Galantini
FOTOGRAFIE Rouge
SEGRETERIA
26 Attese e speranze Alla Photokina e con la Photokina, l’intero mercato della fotografia manifesta spiriti e filosofie trasversali
32 Parigi, ah Parigi! Dal ventinove settembre, a Roma, è in programma una consistente retrospettiva di Robert Doisneau: un poeta del Novecento, in forma fotografica di Maurizio Rebuzzini
40 Inevitabilmente (?) Eos M Canon approda al comparto tecnico-commerciale delle CSC con una affascinante e convincente configurazione di alto profilo e accattivante design di Antonio Bordoni
46 Doppio rosso Intenso reportage della brava Neige De Benedetti, che accosta due realtà politiche che esprimono proprie interpretazioni di una idea comune (?): Cuba e Cina di Angelo Galantini
52 Io sono la lastra A Palazzo Fortuny, di Venezia, l’attesa antologica Franco Vimercati. Tutte le cose emergono dal nulla
58 Ancora stenopeico Dal convegno Lo specifico stenopeico. Filosofia e pratica della fotografia stenopeica, a Senigallia, lo scorso diciannove maggio di Michele Smargiassi
Maddalena Fasoli
HANNO
COLLABORATO
Pino Bertelli Antonio Bordoni Chiara Lualdi Lello Piazza Franco Sergio Rebosio Ciro Rebuzzini Filippo Rebuzzini Michele Smargiassi Redazione, Amministrazione, Abbonamenti: Graphia srl, via Zuretti 2a, 20125 Milano; 02-66713604 www.FOTOgraphiaONLINE.it; graphia@tin.it. ● FOTOgraphia è venduta in abbonamento. ● FOTOgraphia è una pubblicazione mensile di Graphia srl, via Zuretti 2a, 20125 Milano. Registrazione del Tribunale di Milano numero 174 del Primo aprile 1994. Poste Italiane SpA - Spedizione in abbonamento postale - D.L. 353/2003 (convertito in Legge il 27-02-2004, numero 46), articolo 1, comma 1 - DCB Milano. ● A garanzia degli abbonati, nel caso la pubblicazione sia pervenuta in spedizione gratuita o a pagamento, l’Editore garantisce la massima riservatezza dei dati forniti dagli abbonati e in suo possesso, fatto diritto, in ogni caso, per l’interessato di richiederne gratuitamente la rettifica o la cancellazione ai sensi della legge 675/96. ● FOTOgraphia Abbonamento 12 numeri 65,00 euro. Abbonamento annuale per l’estero, via ordinaria 130,00 euro; via aerea: Europa 150,00 euro, America, Asia, Africa 200,00 euro, gli altri paesi 230,00 euro. Versamenti: assegno bancario non trasferibile intestato a Graphia srl Milano; vaglia postale a Graphia srl - PT Milano Isola; su Ccp n. 28219202 intestato a Graphia srl, via Zuretti 2a, 20125 Milano; addebiti su carte di credito CartaSì, Visa, MasterCard. ● Nessuna maggiorazione è applicata per i numeri arretrati. ● È consentita la riproduzione di testi e fotografie, magari citando la fonte (ma non è indispensabile, né obbligatorio farlo). ● Manoscritti e fotografie non richiesti non saranno restituiti; l’Editore non è responsabile di eventuali danneggiamenti o smarrimenti. Fotocomposizione DTP e selezioni litografiche: Rouge, Milano Stampa: Arti Grafiche Salea, Milano
Rivista associata a TIPA
62 Settembre 1972-2012 Quarant’anni con le riviste di fotografia di Maurizio Rebuzzini
64 Paola Agosti Sguardo su una interprete della fotografia delle passioni di Pino Bertelli
www.tipa.com
editoriale D
alla nuova configurazione Canon Eos M, in interpretazione CSC (Compact System Camera, già Mirrorless), alla retrospettiva di Robert Doisneau, a Roma, dal ventinove settembre. Dalla sonda Curiosity, ammartata il cinque agosto, a una certa fenomenologia innescata dal film Blow up, dal quale conteggiamo un prima e il dopo della presenza della fotografia al e nel cinema. E questo, limitandoci soltanto a quattro citazioni dalla fogliazione di questo numero di FOTOgraphia, così ideologicamente coincidente con ogni edizione e -allo stesso tempo- così tanto autonomo. Ora, cosa significano queste eterogeneità, che alla resa dei conti convergono assieme, formando l’ossatura di un consistente numero della rivista? In momenti nei quali si pensa anche alla Photokina (dal diciotto al ventitré settembre prossimi, a Colonia, in Germania; altro argomento, in anticipo, della rivista odierna, con richiamo dalla copertina), riprendo dall’introduzione a Alla Photokina e ritorno, di quattro anni fa, compilato sulla base dell’edizione 2008 della fiera. Va ribadito: prima di tutto, bisogna intendersi. Sono almeno due le funzioni che il giornalismo fotografico deve svolgere: da una parte, si orienta e dedica al proprio pubblico; dall’altra, contribuisce a comporre i tratti del mondo verso il quale si rivolge e del quale testimonia. Sia in ambito squisitamente tecnico, sia indirizzandosi all’immagine e all’approfondimento di aspetti espressivi e culturali, l’azione giornalistica non può venir meno al doppio dovere appena enunciato, con il sostanzioso carico e bagaglio di etica e deontologia che tutto questo comporta. E, quindi, vanno comprese le differenze che intercorrono tra l’individuo singolo (il giornalista, il lettore, l’operatore del mercato fotografico, l’autore...) e il collettivo al quale si riferisce e richiama: ovvero, bisogna essere consapevoli che ognuno è parte di una società che possiede una cultura e una storia. In sintesi, come individui siamo liberi di essere ciò che vogliamo essere, mentre l’appartenenza e il richiamo a un qualsivoglia collettivo impongono un carattere storico, che è anche figlio di una definita continuità culturale. Riscriviamola anche così. Nel collettivo, ciascuno trova la propria cifra più vera e unica. Da solo, nessuno può raggiungere una qualsiasi conclusione che sia diversa da quanto gli fanno credere i propri sensi, ma un collettivo sì. Da soli, non avremmo una logica, che è una costruzione eminentemente collettiva. Da soli, non avremmo una scienza, prodotto di una continua interazione tra uomini e tra uomini e vita. Per essere tale -uomo-, l’uomo deve essere sociale. Eccoci alla conclusione: questo è lo spirito che definisce la personalità giornalistica di FOTOgraphia, Tutte le sue (molte) individualità si proiettano inviolabilmente al collettivo del mondo fotografico, al quale propongono e offrono le proprie (presunte) competenze. Maurizio Rebuzzini
Tutte le individualità attraverso le quali -mese dopo meseformiamo l’ossatura della rivista, in una convergenza di argomenti originariamente autonomi e indipendenti, compongono i tratti dell’appartenenza a un collettivo che impone un carattere storico e culturale (qualsiasi cosa questo significhi) che dà continuità alla nostra presenza giornalistica nel contenitore e mercato della fotografia. Italiana, ma non solo.
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Spazio di Lello Piazza
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Ovvero: Curiosity ammarta sul Pianeta Rosso. Cosa fa il nuovo veicolo inviato dalla Nasa su Marte, appena atterrato (o ammartato)? Scatta una fotografia. Sono le ventidue e trentadue di domenica cinque agosto, ora della California (22,32), dove risiede il Jet Propulsion Laboratory che ospita la sala di controllo della spedizione marziana. In Italia, è già lunedì sei, e sono le sette e trentadue (7,32). I “sette minuti di terrore”, quelli che coprono il rallentamento dai ventimila chilometri orari di arrivo alle soglie dell’atmosfera del pianeta, fino allo stop sul suolo marziano, sono appena terminati. Curiosity è lì per andare in cerca di tracce di vita e, come un normale turista, nel frattempo, scatta fotografie. Vi proponiamo la prima immagine scattata, esattamente nello stato in cui è arrivata, senza elaborazioni, e il primo scatto a colori (parzialmente, il resto dell’immagine è ancora in bianconero) [pagina accanto]. Per quanto riguarda la fotografia del Pianeta Rosso, ricordiamo che le prime immagini ravvicinate di Marte (ventidue in tutto) sono state quelle riprese dalla sonda spaziale Mariner 4, nel 1965, a una distanza orbitale di circa tredicimila chilometri [a pagina 10]. Mariner 4 rivelò che il pianeta era privo di campo magnetico, quindi era continuamente spazzato dal vento solare. La Terra è protetta da questo vento, proprio grazie al suo campo magnetico: quando il vento colpisce le fasce alte della nostra atmosfera, genera le aurore polari, soggetto fotografico straordinario. Mariner 4 ha anche dimostrato che il pianeta è completamente deserto e ha misurato la pressione marziana al suolo, ricavando un valore compreso tra quattro e sette millibar, troppo poco perché l’acqua possa essere presente in forma liquida. La pressione sul nostro pianeta, a livello del mare, è di circa millecento millibar. Per renderci conto della qualità delle immagini scattate, si tenga presente che tutti i dati inviati a Terra dalla sonda durante la missione am-
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Il luogo scelto per depositare il rover Curiosity, nell’area del cratere Gale (154km di diametro). Rispettivamente, gli assi dell’ellisse misurano, 20km e 7km.
Su Curiosity, che ha raggiunto Marte, il cinque agosto, ci sono diciassette macchine fotografiche. La Remote Micro Imager (Rmi) fa parte del Chemistry and Camera suite; quattro Navigation Camera (NavCam), che fotografano in bianconero; e due Mast Camera (Mastcam), che fotografano a colori (con 34mm e 10mm). Poi, ci sono altre due che scattano a colori, la Mars Hand Lens Imager (Mahli) e la Mars Descent Imager (Mardi). Infine, altre otto macchine fotografiche, le Hazard Avoidance Camera (HazCam), montate sul corpo del veicolo: sul muso ce ne sono due coppie, frontali, che fotografano in bianconero, mentre altre due coppie analoghe sono sul retro.
Ricostruzione a computer di uno dei momenti dei “sette minuti di terrore”, quello durante il quale, utilizzando cavi tipo ascensore, la capsula spaziale, proveniente dalla Terra, cala dolcemente il Curiosity sul suolo di Marte.
NASA / JPL (3)
CURIOSITY È AMMARTATA
NASA / JPL (3)
Spazio
La prima fotografia inviata a Terra da Curiosity: il primo scatto, subito dopo l’ ammartaggio. (a destra) La prima fotografia parzialmente a colori, rilasciata dalla Nasa quattro giorni dopo l’ ammartaggio.
Un ritratto che il rover Curiosity si è fatto da sé (autoscatto?).
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NASA / JPL (2)
Spazio
In questa immagine mosaico, ricavata con scatti ripresi dalle sonde Viking, oltre ai crateri, si vedono dei canyon, già individuati dall’astronomo italiano Giovanni Schiaparelli, alla fine dell’Ottocento. La prima fotografia ravvicinata della superficie di Marte, scattata dal satellite Mariner 4, nel 1965.
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montano complessivamente a 5,2 milioni di bit, circa 634kB, neanche un Megabyte. Altre due sonde hanno fotografato Marte, negli ultimi quaranta anni, la Viking 1 e la Viking 2, entrate in orbita, rispettivamente, il 19 giugno e il 7 agosto 1976. Alla ricerca di un luogo dove depositare i lander che portavano a bordo, le due sonde scattarono più di millequattrocento fotografie del pianeta, con una risoluzione compresa tra trecento e centocinquanta metri per pixel (cioè un pixel registrava all’incirca una porzione di suolo compresa tra i 300x300mq
e i 150x150mq). Alcune particolari regioni sono state fotografate con una risoluzione di otto metri per pixel. Tra queste immagini, c’è quella famosissima della Faccia Marziana, che, rifotografata nel 2006 da un’altra sonda, la Mars Global Surveyor, entrata in orbita nel 1997, si rivelò semplicemente una montagnola. Quest’ultima rivelazione è stata possibile grazie a una migliore risoluzione e a una diversa trattazione della geometria delle luci [pagina accanto]. La Mars Orbiter Camera (Moc) operava da un’altezza di trecentosettantotto chilometri (378km), ed era
BIBLIOGRAFIA
Da tempo, con la complicità del cinema, soprattutto, si usano le definizioni di “alieni” e “extra terrestri”. Negli anni Cinquanta e Sessanta, si pensava ai “marziani”, in un certo modo vicini alla Terra, e in possibilità di raggiungerla. Da cui, molti luoghi comuni e molta letteratura fantascientifica direttamente riferita e ispirata a Marte. Alcuni titoli, senza ordine e senza soluzione di continuità tra romanzi, scienza, manuali astronomici, fantasie e speculazioni varie: a ciascuno, i propri approfondimenti individuali. ❯ Ray Bradbury: Cronache marziane (Oscar Mondadori, 2001; 304 pagine; 9,00 euro). ❯ Philip K. Dick: Noi marziani (Fanucci Editore, 2007; 304 pagine; 11,90 euro). ❯ Edgar Rice Burroughs: John Carter e la principessa di Marte (Mondadori, Oscar Bestsellers, 2012; 238 pagine; 9,00 euro). ❯ Isaac Asimov: Sogni di robot (Il Saggiatore, 2009; 406 pagine; 11,00 euro). ❯ Robert Zubrin e Arthur C. Clarke: Case for Mars (in inglese; Edizione per Kindle; Free Press, 2011, 8,27 euro). ❯ Giorgio Bianciardi: Marte, un viaggio nel tempo e nello spazio (Il Castello, 2006; 128 pagine; 15,00 euro). ❯ Luigi Prestinenza: Marte tra storia e leggenda (Utet Università, 2004; 122 pagine; 16,00 euro). ❯ Kage Baker: L’imperatrice di Marte (Delos Books, 2007; 126 pagine; 9,00 euro). ❯ Patrick McGuinness, I canali di Marte (testo inglese a fronte; Mobydick, 2006; 80 pagine; 10,00 euro). ❯ Stefano Cavina: Pianeta Marte. Miti e realtà del futuro avamposto dell’umanità (Aiep, 2004; 222 pagine; 14,00 euro). ❯ Arthur C. Clarke e Stephen Baxter: L’occhio dell’universo (Nord, 2009; 396 pagine; 20,00 euro). ❯ Francis Rocard: Il pianeta rosso. Ultime notizie da Marte (Gem Edizioni, 2009; 256 pagine; 19,00 euro). ❯ Giovanni Schiaparelli: La vita sul pianeta Marte (Edizione per Kindle; 0,89 euro).
NASA / JPL (3)
Spazio
La collinetta fotografata da Viking 1, nel 1976, che, probabilmente a causa del gioco delle ombre, dà l’idea della presenza di una grande scultura, tipo Monte Rushmore. Quindi, la stessa collinetta fotografata trenta anni dopo, a risoluzione maggiore, dalla sonda Mars Global Surveyor.
E i film? Anzitutto, non si possono non menzionare le straordinarie gag di Corrado Guzzanti e compagni nello spassoso Fascisti su Marte, del 2006. Quindi, un’unica altra segnalazione: Mission to Mars, di Brian De Palma, del 2000, con Gary Sinise e Tim Robbins, che avanza una curiosa e affascinante ipotesi, della quale non riveliamo nulla, per non rovinare il piacere del film. Buona visione. Il polo nord di Marte fotografato per la prima volta da Mars Global Surveyor, nel 1997.
composta da tre macchine fotografiche. Una montava un teleobiettivo ed eseguiva riprese solo in bianconero, con una risoluzione di 1,4m per pixel. Con questo strumento furono realizzati novantasettemila novantasette dei duecentoquarantatremila seicentosessantotto scatti totali (97.097 dei 243.668: circa il quaranta percento). Le altre due montavano grandangolari ed eseguivano riprese selezionate, una nella banda del rosso, l’altra in quella del blu, con una risoluzione che poteva andare da duecentotrenta metri a 7,5km per pixel. La Mars Global Surveyor, definita successivamente Mars Odyssey, realizzò anche le prime immagini dei poli di Marte. Tornando a Curiosity, la sua missione terminerà tra due anni, anche se la batteria di bordo, al plutonio, permetterebbe alle sue diciassette telecamere di lavorare quasi in eterno. Il veicolo percorrerà la superficie di Marte secondo un itinerario prestabilito, che prevede l’uscita dal cratere Gale, dove è atterrato, per tentare di raggiungere montagne sconosciute, alla ricerca di tracce di vita. ❖
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Notizie a cura di Antonio Bordoni
TELE, MACRO E LUMINOSO. Tre caratteristiche significative per la versatilità della ripresa fotografica con apparecchi reflex. Le offre e propone l’universale Sigma Apo Macro 180mm f/2,8 EX DG OS HSM, in baionetta per ogni sistema reflex attuale: teleobiettivo (180mm), con possibilità di ripresa estremamente ravvicinata (da 47cm, per un rapporto di riproduzione al naturale, 1:1) e sostanziosa apertura relativa (f/2,8). E poi, anche stabilizzazione OS, tecnologia proprietaria.
Il sofisticato schema ottico comprende tre lenti in vetro ottico FLD a basso indice di dispersione e un sistema di messa a fuoco interna, che -insiemeassicurano risultati ottimali per quanto riguarda la correzione delle aberrazioni e garantiscono immagini formalmente perfette a ogni accomodamento di messa a fuoco, dall’infinito alle distanze più prossime e ravvicinate. Ancora, la messa a fuoco interna conserva inalterate le dimensioni meccaniche del teleobiettivo. Primo tele-macro 180mm al mondo dotato di stabilizzazione ottica OS, il Sigma Apo Macro 180mm f/2,8 EX DG OS HSM offre un vantaggio di circa quattro stop. Il sistema compensa i movimenti accidentali della reflex anche alle distanze di ripresa macro, quando persino piccoli tremolii possono risultare molto evidenti. L’ampia apertura relativa f/2,8 è agevole per condizioni luminose avverse, ma anche per contenere l’estensione della profondità di campo nelle inquadrature che prevedono e richiedono la massima concentrazione sul solo soggetto principale. Il diaframma circolare a nove lamelle assicura un gradevole sfocato nelle aree dell’immagine che si
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trovano fuori fuoco (bokeh). Per garantire le massime prestazioni dell’obiettivo, il flare e le immagini fantasma sono stati considerati a tutte le distanze di messa a fuoco, in modo da progettare uno schema ottico in grado di sopportare sia la luce incidente molto laterale, sia il controluce. Il trattamento Super Multi Strato riduce il flare e le immagini fantasma e assicura fotografie definite e ad alto contrasto, anche nelle riprese in controluce. Il motore ipersonico HSM (Hyper Sonic Motor) assicura una messa a fuoco automatica veloce e silenziosa. Il Sigma Apo Macro 180mm f/2,8 EX DG OS HSM offre anche la possibilità di mettere a fuoco manualmente, senza passare nella modalità di messa a fuoco manuale. Con i moltiplicatori di focale dedicati Sigma 1,4x EX DG Apo Converter e 2x EX DG Apo Tele Converter si raggiungono le lunghezze focali incrementate di 252mm f/4 e 360mm f/5,6 MF, con relativa distanza minima di messa a fuoco che supera il rapporto 1:1, al naturale. (M.Trading, via Cesare Pavese 31, 20090 Opera Zerbo MI; www.m-trading.it).
ULTRA ZOOM. La stupefacente escursione 40x dello zoom 22,4-896mm (in equivalenza alla fotografia 24x36mm, di riferimento d’obbligo) della nuova Olympus SP-820UZ è già un valore fotografico assoluto e di inviolabile eccellenza: irraggiungibile, soltanto una manciata di stagioni fa. Ovviamente, nella sigla identificatoria, l’alfabetico “UZ” sta proprio a indicare l’appartenenza alla famiglia e genìa di compatte dotate di Ultra Zoom, ovverosia di obiettivo eccezionalmente versatile, capace di passare dall’ampia visione panorama dell’inquadratura grandangolare 22,4mm (addirittura, un filo più corto dei consueti
rie. (Polyphoto, via Cesare Pavese 11-13, 20090 Opera Zerbo MI; www.polyphoto.eu). 24mm) al consistente ingrandimento e avvicinamento del lungo teleobiettivo 896mm! Da cui e per cui, l’ammiraglia dell’offerta fotografica di compatte Olympus offre e propone la completa soddisfazione di ogni condizione e situazione fotografica: con adeguato accompagnamento di caratteristiche e prestazioni di uso di alto livello. La registrazione dei video in FullHD e ad alta velocità, con il frame rate regolabile, si aggiunge alle tecnologie Olympus iHS, che comprendono il sensore Cmos ad alta sensibilità, il processore immagine TruePic V e una serie di funzioni avanzate. Il tutto, con tempi di reazione rapidi, colori fedeli, oltre a immagini ben incise anche di soggetti in rapido movimento e di scene poco illuminate o in controluce. Disponibile in livree silver e nera, la Olympus Olympus SP820UZ vanta una risoluzione di quattordici Megapixel, che si combinano con le sue eccezionali e discriminanti prestazioni ottiche, che includono anche la possibilità di inquadrature supermacro, estremamente ravvicinate, e l’ulteriore moltiplicazione ottica dell’escursione zoom, che approda all’ingrandimento complessivo di 80x! Ancora, la SP-820UZ è dotata di regolazione HDR Backlight, di modalità Handheld Starlight e di Dual Image Stabilisation: tecnologie che aiutano a ottenere immagini incise, cromaticamente ricche e a basso livello di rumore, indipendentemente dalle condizioni di ripresa. Oltre le configurazioni finalizzate alla qualità formale, anche dotazioni per prestazioni aggiuntive. Tra queste, la Smart Panorama consente la registrazione di panoramiche a trecentosessanta gradi; quindi, dodici Magic Filter, applicabili sia alla fotografia sia al video, introducono interpretazioni creative e arbitra-
PER SONY ALPHA. Lo zoom tele Sony DT 55-300mm f/4,55,6 SAM incrementa il già consistente sistema ottico delle reflex Sony α con sensore di dimensioni APS-C (focale estrema equivalente 450mm). Grazie al silenzioso sistema Smooth Autofocus Motor (SAM), è ideale nella combinazione con reflex con tecnologia Translucent, definite e caratterizzate da eccellenti prestazioni dell’autofocus: è garantita la nitidezza delle immagini e dei video Full-HD anche in presenza di soggetti in rapido movimento. Il disegno ottico finalizzato dello zoom Sony DT 55-300mm f/4,5-5,6 SAM consente di gestire in maniera ottimale l’elevata quantità e qualità di pixel degli odierni sensori di immagine ad alta risoluzione. Disponibile anche qui, come sugli obiettivi Sony G di fascia tecnica alta, un elemento in vetro ED a basso indice di dispersione (Extra-Low Dispersion) riduce le aberrazioni cromatiche per perfezionare la qualità delle immagini acquisite con selezioni focali medio-lunghe e lunghe. Infine, le notevoli prestazioni MTF (Modulation Transfer Function) assicurano una risoluzione formalmente impeccabile, anche nei dettagli infinitesimali. (Sony Italia, via Galileo Galilei 40, 20092 Cinisello Balsamo MI; www.sony.it). ❖
Commemorazione di Lello Piazza
ROBERT HUGHES
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Uno dei libri più straordinari della mia biblioteca (e che reputo irrinunciabile per qualunque cittadino che voglia vivere in modo consapevole) è La cultura del piagnisteo, di Robert Hughes (Adelphi, 2003, ristampa della prima edizione del 1994, duecentoquarantadue pagine). In precedenza, del grande storico e critico letterario australiano, bon viveur, che ha vissuto negli ultimi trenta anni a New York, dove è mancato lo scorso sei agosto, a settantaquattro anni, avevo letto un libro culto, La riva fatale. L’epopea della fondazione dell’Australia (Adelphi, 1995, ristampa dell’edizione del 1990, ottocentotrenta pagine), che mi fu segnalato da Grazia Neri, donna di vaste letture. Confesso di aver annotato con cura solo le prime quattrocento indimenticabili pagine di questa opera gigantesca, dedicata alla follia punitiva che ha caratterizzato l’Inghilterra del Diciottesimo e prima metà del Diciannovesimo secolo; follia in base alla quale, per esempio, Elisabeth Beckford, di settanta anni, per il furto di sei chili di formaggio, e Thomas Hawel, che aveva rubato una gallina viva e una morta, furono condannati a sette anni di deportazione; mentre Elisabeth Powley, ventidue anni, fu prima condannata all’impiccagione per aver rubato un po’ di pancetta e mezzo chilo di burro, poi “graziata” e inviata a deportazione a vita in Australia. Fu questa follia che portò il governo inglese a formulare il progetto di trasformare l’Australia in un enorme campo di concentramento. Ma, di La cultura del piagnisteo, che raccoglie i testi di un ciclo di tre conferenze, tenute presso la Biblioteca Pubblica di New York, sotto gli auspici della Oxford University Press, nel gennaio 1992, mi sono annotato quasi ogni pagina. La ragione di questa mia passione riguarda il fatto che il saggio è dedicato alla crisi culturale susseguente all’epico periodo della contestazione degli anni Sessanta e Settanta, crisi riscontrabile anche nel nostro paese, con il decadimento della scuola pubblica e l’affermar-
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si di una pseudo ideologia di sinistra, che ha le proprie radici in un massimalismo velleitario e sospetto. Massimalismo che, nelle assemblee universitarie di quegli anni, in Italia, faceva sì che il nemico fosse più il Partito Comunista che non la Democrazia Cristiana. Esempi illuminanti dell’ambiguità della contestazione sessantottina sono alcuni dei personaggi nati in quelle lotte, personaggi che oggi svolgono un ruolo di rilievo nel mondo della comunicazione. Parlo di Giuliano Ferrara, ex Pci, oggi berlusconiano doc, Paolo Mieli, ex Potere Operaio, per anni direttore del Corriere della Sera e oggi semprepresente commentatore tv e direttore editoriale Rizzoli, Paolo Liguori, ex Lotta Continua, per anni direttore del Tg di Italia 1 e del TGcom, entrambi berlusconiani. Secondo me, la trasformazione del loro comportamento sociopolitico rivela che in molti casi la contestazione studentesca si è alimentata più con l’esigenza di un’affermazione personale, che non per una solida visione del mondo, egualitaria, democratica e umanitaria. Tornando a La cultura del piagnisteo, di Robert Hughes, per presentarvelo, ricorro a brani del saggio, sperando di motivarvi nella sua lettura. Parlando di alcuni personaggi di rilievo della cultura americana, Robert
Nato a Sydney, in Australia, il 28 luglio 1938, lo storico e critico letterario Robert Hughes è mancato lo scorso sei agosto.
La cultura del piagnisteo, che raccoglie i testi di un ciclo di tre conferenze, tenute presso la Biblioteca Pubblica di New York, nel gennaio 1992, è il libro fondamentale di Robert Hughes, dal quale abbiamo estratto citazioni esemplari, annotate sul frontespizio della copia di Lello Piazza.
Hughes li definisce: «Spacciatori di correttezza politica, che vedrebbero volentieri la doglianza elevata automaticamente a un rango sacrale». A proposito del vittimismo: «Di qui la fortuna di terapie che insegnano che siamo tutti vittime dei nostri genitori; che non è colpa nostra se siamo scriteriati, venali o francamente scellerati, perché veniamo da “famiglie disfunzionali”. Abbiamo avuto modelli imperfetti di comportamento, abbiamo sofferto di mancanza d’affetto, siamo stati picchiati, o magari sottoposti alle voglie libidinose di papà; e se non ne siamo convinti è solo perché ne abbiamo rimosso il ricordo». Per il perdonismo che contraddistingue certa sinistra nei confronti dell’immigrazione incontrollata, secondo Robert Hughes, la polizia, avvertendovi che un drogato rumeno è entrato in casa di vostra nonna uccidendola, dovrebbe dire: «Signore, la informo che un extracomunitario, abituale consumatore di sostanze che alterano la lucidità mentale, è penetrato nel suo appartamento, prelevando molti oggetti di sua proprietà, cui suppongo fosse affezionato. A proposito, sua
Commemorazione
nonna è adesso passata a una condizione di persona non vivente». Sugli studenti: «Io so che per me è stata una fortuna avere l’istruzione scolastica che ho avuto. Era un’istruzione ampia, “elitaria” per l’importanza che dava al rendimento, e rigorosa: il carico di lavoro, la quantità di libri che dovevamo leggere e assimilare sembrerebbero una crudeltà al moderno scolaro americano. Questo non ci ha arrecato alcun danno. Eravamo promossi, oppure bocciati e ripetevamo l’anno: e le pagelle venivano mandate ai nostri genitori senza riguardi per i loro sentimenti. Ci facevano imparare brani a memoria e leggere a voce alta, col risultato che qualcosa attecchiva». E, più avanti: «In breve, quel programma scolastico eurocentrico e monoconfessionale ci diede un punto fermo dal quale, più tardi, avremmo potuto imboccare qualunque strada. Non è possibile vedere bene le altre culture finché, grazie alla conoscenza della propria, non si raggiunge un punto in cui la globalità abbia senso. Il mio ambiente, sebbene fortemente monoculturale, non era però monolitico: mi ha dato gli strumenti per ribellarmi». A proposito degli artisti: «Col diffondersi anche in campo artistico di una lacrimosa avversione all’eccel-
lenza, la discriminazione estetica viene tacciata di discriminazione razziale o sessuale. Su questo argomento, pochi prendono posizione, o rilevano che in materia d’arte “elitarismo” non vuol dire ingiustizia sociale e inaccessibilità. Discriminare è nella natura umana: facciamo scelte e diamo giudizi ogni giorno. Queste scelte sono parte dell’esperienza concreta. Naturalmente, vengono influenzate dagli altri, ma in sostanza non sono il prodotto di una reazione passiva all’autorità. Il principio del piacere, in arte, ha un’importanza enorme». Sulle élite: «Le élite ci saranno sempre, ma la loro composizione non è necessariamente statica. Il primo passo per diventare persone del genere è riconoscere che noi non siamo un’unica grande famiglia mondiale, e che probabilmente non lo saremo mai; che le differenze tra razze, nazioni, culture e rispettive storie sono profonde e durevoli almeno quanto le loro somiglianze. Il compito della democrazia, nel campo dell’arte, è di proteggere l’elitarismo. Non un elitarismo basato sulla razza o il denaro o il rango sociale, ma sul talento e sull’immaginazione». Sulle università: «Le università sono istituti di cultura superiore, non (almeno non principalmente) di terapia sociale. Hanno il diritto di ab-
Il Guru Swami Satchidananda svolge il discorso inaugurale del festival musicale di Woodstock, che si aprì il 15 agosto 1969, a Bethel, nello stato di New York. Mezzo milione i partecipanti, trenta le band, che hanno suonato senza sosta per quattro giorni (uno in più dei tre previsti). Woodstock ha rappresentato uno dei momenti più intensi della protesta dei giovani americani contro la guerra in generale, ma soprattutto contro la guerra in Vietnam, sognando una nuova era di pace e amore.
bassare i criteri d’ammissione e i livelli di insegnamento per permettere agli svantaggiati di stare al passo, a scapito del diritto all’istruzione degli studenti più capaci?». Concludo, citando il brano con il quale Robert Hughes esordisce nella prima conferenza, una profezia tratta da For the Time Being: A Christmas Oratorio, del poeta Wystan Hugh Auden, del 1944, là dove Erode medita sul compito ingrato di massacrare gli innocenti. D’animo fondamentalmente tollerante, ne farebbe volentieri a meno. E tuttavia, dice, se si consente a quel bambino di scamparla... «Non occorre essere profeti per prevedere le conseguenze [...]. La Ragione sarà sostituita dalla Rivelazione [...]. La conoscenza degenererà in un tumulto di visioni soggettive: sensazioni viscerali indotte dalla denutrizione, immagini angeliche suscitate dalla febbre o dalle droghe, sogni premonitori ispirati dallo scroscio di una cascata. Compiute cosmogonie nasceranno da dimenticati rancori personali, intere epopee saranno scritte in idiomi privati, gli scarabocchi dei bambini innalzati al di sopra dei più grandi capolavori [...]. L’Idealismo sarà scalzato dal Materialismo [...]. Sviato dal normale sfogo nel patriottismo e nell’orgoglio civico o familiare, il bisogno delle masse di un Idolo visibile da venerare si incanalerà in alvei totalmente asociali, dove nessuna forma di istruzione potrà raggiungerlo. Onori divini saranno resi a lievi depressioni del terreno, animali domestici, mulini a vento diroccati o tumori maligni. La Giustizia, come virtù cardinale, sarà rimpiazzata dalla Pietà, e svanirà ogni timore di castigo. Ogni scapestrato si congratulerà con se stesso: “Sono un tal peccatore che Dio è sceso di persona per salvarmi”. Ogni furfante dirà: “A me piace commettere crimini; a Dio piace perdonarli. Il mondo è davvero combinato a meraviglia”. La Nuova Aristocrazia consisterà esclusivamente di eremiti, vagabondi e invalidi permanenti. Il becero dal cuore d’oro, la prostituta consunta dalla tisi, il bandito affettuoso con sua madre, la ragazza epilettica che comunica con gli animali saranno gli eroi e le eroine della Nuova Tragedia, mentre il generale, lo statista, il filosofo diverranno zimbello di satire e farse». ❖
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Alberto Dubini Fotografo Lensbaby con Pentax
Ici Bla Bla a cura di Lello Piazza
HORST FAAS, LEGGENDA DEL FOTOGIORNALISMO. Giovedì die-
Questa rubrica riporta notizie che sono appartenute alla cronaca. Però, nel loro richiamo e riferimento molti motivi ci impediscono di essere tempestivi quanto la cronaca richiederebbe. Ciononostante riteniamo giusto proporle, perché siamo convinti che non abbiano perso la propria attualità, e continuino a offrire spunti di riflessione.
ci maggio, in un ospedale di Monaco di Baviera, in Germania, all’età di settantanove anni, è spirato Horst Faas [a destra], uno dei grandi fotogiornalisti dell’Associated Press, vincitore di due premi Pulitzer, il primo nel 1965, per la sua copertura della guerra del Vietnam, l’altro nel 1972, che riguarda torture ed esecuzioni avvenute durante la guerra civile in Bangladesh. Questo premio è condiviso con un altro famoso fotogiornalista, Michel Laurent, che operava in Viet-
nam per l’agenzia francese Gamma e fu ucciso tre anni dopo, il 30 aprile 1975, a Saigon, due giorni prima della caduta della città. Nato a Berlino, il 28 aprile 1933, Horst Faas è cresciuto come i giovani maschi tedeschi di quegli anni, e ha fatto parte della Hitler-Jugend, la Gioventù hitleriana. Alla fine della guerra, la sua famiglia rimane nella parte Est della Germania, finita sotto il controllo dell’Unione Sovietica. Ma nel 1947, Horst Faas riesce a fuggire e a rifugiarsi a Monaco di Baviera. Nel 1960, all’età di ventisette anni, entra nella Associated Press, lavorando in Congo e Algeria. Nel 1962, viene assegnato al Vietnam, dove atterra per la prima volta insieme a un altro vincitore di Pulitzer, il giornalista Peter Arnett. Nel 1972, anno del secondo Pulitzer, documenta l’assalto dei Palesti-
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nesi all’aeroporto di Monaco, durante le Olimpiadi, scattando la famosa fotografia di un guerrigliero (terrorista) protetto da un passamontagna. A Horst Faas dobbiamo la pubblicazione di due delle più importanti icone del fotogiornalismo mondiale. La prima riguarda lo scatto Pulitzer di Eddie Adams, che ritrae il generale Nguyen Ngoc Loan mentre spara un colpo di pistola alla testa di un prigioniero vietnamita, Nguyen Van Lém, in una strada di Saigon, il Primo febbraio 1968. La seconda riguarda un’altra fotografia Pulitzer dal Vietnam, quella di Nick Ut della bambina ustionata dal napalm, che fugge nuda per strada. Eddie Adams e Nick Ut sono entrambi fotogiornalisti Associated Press, il cui lavoro è stato editato da Horst Faas. Infatti, fu lui a battersi per la pubblicazione di quelle immagini che molti volevano che finissero in un cassetto. (Tra parentesi, proprio questo ruolo di editing ha confuso molta stampa nazionale, al solito approssimativa e facilona, almeno riguardo la fotografia -annotazione che sottolineiamo spesso-, che -al momento della sua scomparsa- lo ha ricordato come autore di queste due immagini. Fortunatamente, l’attento e competente Michele Smargiassi ha opportunamente precisato sul suo Blog, del quattordici maggio. Date a Horst quel che è di Faas inizia così: «Immaginate. Muore Lennon, e i giornali scrivono: grandissimo musicista, scrisse alcuni dei brani più importanti della storia del rock come Satisfaction e Blowin’ in the Wind. Muore Gauguin, e i giornali scrivono: pittore incomparabile, suoi i celebri Girasoli e il Déjuner sur l’herbe. Muore Flaubert, e i giornali scrivono: supremo scrittore, dalla sua penna uscirono Papà
Il fotogiornalista tedesco Horst Faas è mancato lo scorso dieci maggio.
Jakarta, 13 aprile 1963: il presidente indonesiano Sukarno tenta di rubare, forse per scherzo, il portafogli al suo ministro della Distribuzione, Johannes Leimena, mentre entrambi aspettano in aeroporto l’arrivo del presidente cinese Liu Shaoqi.
Vietnam, 19 marzo 1964: un padre mostra il figlio ucciso durante l’offensiva americana in un villaggio nei pressi del confine della Cambogia. L’immagine fa parte del reportage con il quale Horst Faas ha vinto il premio Pulitzer, nel 1965.
Pagina di una rubrica che, mensilmente, la rivista Gardenia dedica alla fotografia.
Goriot e Germinale. Muore Antonioni, e i giornali scrivono: regista di enorme talento, celebri i suoi Amarcord e Ladri di biciclette). «Horst Faas è stato un gigante del mondo del fotogiornalismo -ha dichiarato Santiago Lyon, vice presidente e direttore della fotografia della Associated Press-, la cui bravura nel realizzare i reportage più difficili era unica e straordinaria. Era un talento eccezionale, sia con la macchina fotografica, sia nel lavoro di editing di reportage realizzai da altri». La sua galleria: http://apphotocontests.ap.org/AP_ContestSlidshows/horst_faas_obit/index.html.
PERCHÉ INTERESSA PIÙ LA MODA DELLA PIANTA? Affronto (per l’ennesima volta?) un conflitto di interessi, per parlare di un tema che mi sta a cuore: la fotografia del mondo naturale. Ma non voglio parlarne sottolineando quanto siano belle le immagini naturalistiche, di quale vasto pubblico godano, quanto siano esperti i fotografi del settore. Invece, guardo la vicenda da un altro punto di vista: perché, a chi pianifica la comunicazione per un marchio fotografico, interessa di più fare pubblicità su una rivista che, per esempio, si occupa di moda, piuttosto che su una rivista che si occupa di giardinaggio, e che ogni mese dedica una pagina alla fotografia [qui sotto], com-
Ici Bla Bla mentando le immagini inviate dai lettori e la loro attrezzatura, segnalando un nuovo apparecchio ogni mese e proponendo un corso a puntate di elaborazione digitale delle fotografie? Sinceramente, per me resta un mistero insoluto.
Medaglie alle Olimpiadi di Londra 2012: immancabile bacio all’oro, argento e bronzo.
Intervista a Stacy Bass, fotografa di giardini, in Photo District News dello scorso giugno.
A QUALCUNO INTERESSA PIÙ LA PIANTA DELLA MODA? Come contrappunto alla notizia precedente, ecco un’intervista alla fotografa Stacy Bass, pubblicata dal prestigioso mensile newyorkese Photo District News [qui sopra], che racconta del suo ultimo libro dedicato ai giardini (In the Garden; Melcher Media, 2012; 224 pagine 24,1x29,2cm, cartonato con sovraccoperta; 39,57 euro). L’autrice esordisce: «Partecipo spesso a incontri nei Garden Club e, alla fine di ogni conferenza, la maggior parte dei presenti mi chiede notizie su come e dove acquistare il mio libro». Quindi, esiste un popolo al quale interessano più le piante dei tailleur! Questo popolo c’è anche in Italia. Una sua rappresentanza, si tratta di decine di migliaia di persone, almeno secondo le stime ricavate dall’edizione 2011, è presente a I Maestri
del Paesaggio, una manifestazione internazionale che coinvolge esperti dall’Italia e dal mondo, che si svolge a Bergamo, a partire dalla fine di agosto fino al sedici settembre. Per l’occasione, la celebre piazza Vecchia, di Bergamo Alta, è trasformata in giardino [in basso]. Due sono i temi eminentemente fotografici. Il primo riguarda la mostra con le immagini premiate (nelle categorie Greening the City e Fragile Landscape), all’International Garden Photographer of the Year 2012, concorso organizzato dai Kew Gardens, di Londra, e riservato alla fotografia dei giardini. Il secondo è una gara fotografica riservata ai visitatori della piazza Vecchia: gli autori delle tre migliori fotografie della piazza ricevono ciascuno una compatta Nikon Coolpix. Alla gara si partecipa inviando via email i propri scatti. Info all’indirizzo: www.arketipos.org, dove è pubblicato il programma della manifestazione.
ANCORA FOTOGRAFIA NEL MONDO VEGETALE. In FOTOgra-
Piazza Vecchia, a Bergamo Alta, ambiente della gara fotografica riservata ai visitatori della manifestazione I Maestri del Paesaggio.
phia del settembre 2011, abbiamo segnalato una mostra fotografica allestita presso la Questura di Trieste, curata da Tiziana Volta. Il successo di quella manifestazione ha convinto il questore Giuseppe Padulano a riproporla. Dunque, sabato quindici e domenica sedici settembre i triestini sono invitati a visitare Naturalmente Bello 2, un’esposizione di immagini realizzate dal fotografo ligure Matteo Carassale durante i suoi viaggi nel mondo. Sono esposti anche gli acquarelli della disegnatrice paesaggista cipriota Veronica Hadijphani Lorenzetti e le creazioni, con rami di salici intrecciati secondo un’antica tecnica, di Anna Patrucco. Inoltre, sono presentate le migliori immagini realizzate dagli appassionati nell’ambito dell’iniziativa fotografica Trieste e la sua natura. Per informazioni: 040-3790502, Ufficio relazioni esterne e con il pubblico della Questura di Trieste; oppure, urp.quest.ts@pecps.poliziadistato.it.
OLIMPICO CONFORMISMO. Le vedo le decine di bravissimi reporter di Associated Press, Reuters, France Presse, Getty Images, Corbis e chi più ne ha più ne metta, costretti a fotografare decine di medagliati delle Olimpiadi.
Siamo a Londra, a cavallo tra luglio e agosto. Le gare si susseguono a ritmo incalzante, le vittorie, i secondi e i terzi posti, pure. Cosa chiedere ai medagliati? Bacia la medaglia, mordi la medaglia, una richiesta ripetuta decine e decine di volte, fino a fare venire la nausea a chi segue dallo schermo televisivo (o del computer). E, poi, fotografie successivamente pubblicate sui media cartacei. Qui ho raccolto un florilegio di questi scatti [qui sopra].
LABORATORIO FOTOGRAFICO PER ADOLESCENTI CON DISABILITÀ INTELLETTIVA. Promosso dall’associazione torinese Area Onlus, il progetto La creatività non ha limiti è partito nel 2010; inizialmente, è stato promosso, sul territorio nazionale, dall’Associazione Nazionale Fotografi Professionisti TAU Visual. I fotografi professionisti membri dell’Associazione si sono adoperati volontariamente per contattare comunità e gruppi di persone in condizione di disagio. Ciascun fotografo si è impegnato a tenere un breve corso teorico-pratico di fotografia alle persone del gruppo, per aiutarle a comprendere e amare il mezzo espressivo fotografico. Da allora, in Area Onlus, associazione torinese che dal 1982 è punto di riferimento per bambini e ragazzi con disabilità e per le loro famiglie, è
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Ici Bla Bla nato il laboratorio fotografico permanente Zoom: la creatività non ha limiti. In questo laboratorio, ragazzi di età compresa tra i sedici e i ventuno anni, sofferenti di disabilità intellettiva, hanno giocato, imparando a usare la macchina fotografica, strumento che ha immediatamente catturato la loro curiosità, risvegliandone capacità espressive inaspettate. Sono stati organizzati reportage in giro per la città: strade, monumenti, case, particolari già visti sono diventati “nuovi” attraverso l’obiettivo della macchina fotografica. La conseguenza più preziosa di questo percorso è la possibilità -per i ragazzi- di dare forma al proprio sguardo sul mondo. Nel 2011, dal laboratorio è nata una mostra itinerante che ha avuto cinque tappe nel capoluogo piemontese e in Provincia di Torino e Cuneo. C’è un catalogo, che raccoglie le immagini più significative del progetto [qui sopra, un esempio]. Grazie alla Fondazione Banca Nazionale del Lavoro, quest’anno, il laboratorio di fotografia viene riproposto con successo non solo ai nuovi ragazzi di Area Onlus, ma anche ai genitori. Per settembre, è previsto l’allestimento di una nuova mostra, a Torino (www.areato.org).
NUR O LUCE: APPUNTI AFGANI DI MONIKA BULAJ. Poco più di un anno fa, parlando con Monika Bulaj delle sue spedizioni in Afghanistan, spaventato per la sua incolumità, ma rassicurato da lei, le chiedevo cosa la spingesse laggiù. Conoscevo e conosco l’attrazione che prova per i disperati della Terra, e credo che questa attenzione meriti tutta la nostra ammirazione. Colgo l’occasione per riassumere quello che mi disse allora, utilizzando il testo di presentazione della sua mostra che si è inaugurata il tre agosto, a Trieste, e che rimarrà aperta fino al ventitré settembre [a destra]. «Un viaggio solitario nella terra degli Afghani. Dividendo il cibo, il sonno, la fatica, la
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fame, il freddo, i sussurri, il riso, la paura. Spostandosi con bus, taxi, cavalli, camion, a dorso di yak. Dal confine iraniano a quello cinese, sulle nevi del Wakhan, armati soltanto di un taccuino e una Leica, fatti per l’intimità dell’incontro. Balkh, Panjshir, Samanghan, Herat, Kabul, Jalalabad, Badakshan, Pamir Khord, Khost wa Firing. Uno slalom continuo per evitare i banditi targati Talib, seguendo la complicata geografia della sicurezza che tutti gli afghani conoscono. Parlando con gli afghani, ho scoperto che la guerra è una macchina miliardaria che si autoalimenta e che pur di funzionare arriva al punto di pagare indirettamente tangenti allo stesso nemico. Rifiutando di viaggiare con un’unità militare -embedded- protetti da un elmetto in kevlar, ho ritrovato un mondo che, dalla Maillart a Bouvier, gli europei amarono e che ora, dopo dieci anni di presenza militare, abbiamo rinunciato a conoscere. La culla del sufismo e di un Islam tollerante che, lì come in Bosnia, l’Occidente si ostina a ignorare, un mondo odiato dai Taliban e minacciato dal nostro schema dello scontro bipolare. Un paese nudo e minerale, dove un albero ha una maestà senza eguali e l’individuo non ha spazio per l’arroganza. Deserti dove il richiamo “Allah u Akhbar” suona più puro che altrove. Una terra abbacinante, dai cieli sconfinati, e così inondata di sole che bisogna rifugiarsi nell’ombra -interni, albe e crepuscoli-, per ridare un senso alla lu-
Una delle immagini realizzate dai ragazzi di Area Onlus, di Torino, nell’ambito del laboratorio Zoom: la creatività non ha limiti.
ce, al fuoco, ai bagliori dello sguardo. Un paese disperato, dove la donna è schiacciata dal tribalismo e l’oppio è la sola medicina dei poveri, ma dove una straniera può essere accolta in una moschea e l’incantamento dello straniero è vissuto come una benedizione. Una terra dove si rischia la vita solo andando a scuola e dove nelle periferie disperate i bambini si svegliano alle quattro del mattino per andare a prendere l’acqua con gli asini. Ma anche un paese d’ironia, capace di ridere nei momenti più neri, rispettoso degli anziani, perfettamente conscio che il solo futuro possibile sta nella scuola, e nei bambini che domani saranno uomini». Allora: Nur/Luce. Appunti afgani, di Monika Bulaj; Ex Pescheria - Salone degli Incanti, riva Nazario Sauro 1, 34123 Trieste fino al ventitré settembre, lunedì-venerdì 17,00-23,00 sabato, domenica e festivi 10,00-23,00; visita guidata con Monika Bulaj, domenica ventitré settembre, 18,00 (0403226862; www.triestecultura.it).
Dio li fa, poi li accoppia: il settimanale Diva, del quattordici agosto, ha annunciato la passione tra Nicole Minetti e Fabrizio Corona.
MANIFESTAZIONE DI UN PROVERBIO. Dio li fa, poi li accoppia è
Nur/Luce. Appunti afgani, di Monika Bulaj, a Trieste, fino al ventitré settembre.
uno dei proverbi più famosi. Col passare del tempo, mi capita sempre più spesso di attribuire una valenza statistica a questi detti popolari (Rosso di sera, bel tempo si spera, oppure Al cuor non si comanda, o, ancora Tra il dire e il fare c’è di mezzo il mare, e potrei continuare per pagine e pagine). Mi dico: nella sua lunga storia, l’uomo avrà visto verificarsi un certo evento con una frequenza talmente elevata da consentirgli di formulare una regola deterministica, un proverbio. Ecco che nel numero trentadue di Diva, del quattordici agosto, uno strillo di copertina annuncia che tra Nicole Minetti e Fabrizio Corona scoppia la passione [qui sopra]. A parte gli aggiornamenti successivi, pensate anche voi che si sia verificato un’altra volta uno degli eventi la cui frequenza ha probabilmente generato il proverbio Dio li fa, poi li accoppia? ❖
Cinema
di Maurizio Rebuzzini - Ricerca iconografica di Filippo Rebuzzini
BLOW UP E DINTORNI
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Tra i film che hanno affrontato la fotografia, o che hanno basato la propria sceneggiatura sulla fotografia, senza ombra di dubbio, Blow up è assolutamente e inviolabilmente fondamentale. Diretto da Michelangelo Antonioni, che l’ha sceneggiato dal racconto Le bave del diavolo, dell’argentino Julio Cortázar (altrove, La bava del diavolo), ufficialmente accreditato come produzione combinata inglese, italiana e statunitense, il film è datato al 1966 di uscita nelle sale americane (diciotto dicembre); in Italia, ha avviato la stagione cinematografica successiva, con la prima del ventinove agosto, dopo essere stato presentato a Cannes, in primavera. La vicenda è nota, e -rivisto oggiil film risente degli anni trascorsi: poco ritmo, nessuna invenzione, eccesso di stereotipi. L’avventura si svolge nel fermento culturale e sociale della Londra della metà degli anni Sessanta, la swinging London nella quale hanno operato i fotografi David Bailey (che avrebbe ispirato la figura del fotografo protagonista, oltre ad aver concesso il proprio studio per le sequenze ambientate in sala di posa), Terence Donovan e Brian Duffy (recentemente celebrato da una mostra allestita al Museo Nazionale Alinari della Fotografia, di Firenze); tanto che, va rilevato, nel film compaiono anche gli Yardbirds, mitico gruppo musicale con i chitarristi Eric Clapton, Jeff Beck e Jimmy Page, dalle cui ceneri sarebbero successivamente nati i leggendari Led Zeppelin. Tutto si basa sull’individuazione di un cadavere nell’ingrandimento esasperato di una fotografia scattata in un parco (appunto, Blow up, nel senso di ingrandimento fotografico).
DIRE IL VERO In divagazione, rileviamo che questo della inquadratura fotografica che nasconde in sé un mistero, tema latente di Blow up, basato su quanto è entrato inavvertitamente nella composizione originaria, celandosi in secondo piano rispetto il soggetto principale, è stato anche affrontato da Gui-
do Crepax, in una delle prime avventure della sua Valentina, di professione fotografa. Anche qui, dettagli casualmente e involontariamente inclusi nel secondo piano di fotografie di moda rivelano un omicidio: in Ciao Valentina, del 1966 (ribattezzato Ciao, Valentina!, nel giugno 1972, nella reimpaginazione per il terzo titolo dei Libri di Linus), cronologicamente anteriore al film di Michelangelo Antonioni. Comunque, tornando alla sceneggiatura di Blow up, proprio l’idea di qualcosa di inatteso che si scopre in una inquadratura dà la misura della partecipazione della fotografia: da cui, riflessioni comprese, a tutti gli effetti, Blow up è il film fotografico per eccellenza. Ma non è questo che ci interessa, quantomeno qui e ora. Quello che invece ci preme puntualizzare è il retrogusto del film, che in un certo modo può essere considerato come una linea spartiacque tra un prima e il dopo. All’indomani di Blow up, in un tempo di grandi sommovimenti, ma inquietante interregno espressivo, rari furono i fotografi che apparirono sullo schermo in altre vesti che non quelle del sesso. Molte furono le pellicole al di sotto del limite medio di accettabilità che giocarono la facile carta del fotografo senza scrupoli e privo di morale. In definitiva, Blow up innescò una triviale escalation. Comunque si guardi ai fatti, e comunque si colleghino rapporti e relazioni (presunte oppure reali), ribadiamo questa nostra discriminante: la narrazione di Blow up si afferma come spartiacque sia della più generale vicenda cinematografica della fotografia, sia della raffigurazione del proprio mondo e dei propri personaggi. Diciamola così: nel 1966, per la prima volta il fotografo diventa protagonista liberatorio di una situazione che gli appartiene, nello stesso modo in cui appartiene anche al pubblico; ovverosia, diventa interprete di una angoscia da mass media. Come già annotato, ispirata al racconto Le bave del diavolo, di Julio Cortázar (sceneggiato da Michelangelo
La lunga sequenza durante la quale Thomas (l’attore David Hemmings) fotografa la modella Veruschka (Vera Gottliebe Anna von Lehndorff-Steinort, che interpreta se stessa) è simbolica del film Blow up, di Michelangelo Antonioni: tanto da essere stata usata per la cartellonistica promozionale.
Antonioni con Tonino Guerra e Edward Bond, per quanto riguarda i dialoghi in inglese), la vicenda del fotografo di moda londinese che crede di aver visto (e fotografato) un omicidio «è una riflessione sull’impossibilità del cinema di “dire il vero” e sui rapporti complessi tra arte e realtà, tra ciò che si vede e ciò che si capisce» (Paolo Mereghetti, Dizionario dei film). Rivista oggi, questa testimonianza sull’angoscia esistenziale contemporanea ha francamente perso un poco della propria sottigliezza originaria e ha smarrito per strada pure la per-
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Cinema Oltre il suo significato simbolico, nel film Blow up, la sequenza fotografica con Veruschka (qui con Nikon F, dopo l’Hasselblad, visualizzata alla precedente pagina 23) ha stabilito e innescato i connotati cinematografici del fotografo porno, o comunque sia sporcaccione. Purtroppo, molte imitazioni stereotipate successive non sono andate oltre l’apparenza. Nessuna ha ripreso l’intelligenza e i dubbi del protagonista di Blow up: fotografo di moda londinese che crede di aver visto (e fotografato) un omicidio. Come annota Paolo Mereghetti, nel suo Dizionario dei film, Blow up «è una riflessione sull’impossibilità del cinema di “dire il vero” e sui rapporti complessi tra arte e realtà, tra ciò che si vede e ciò che si capisce».
suasione dei primi giorni di proiezione. Anche se il film è considerato un capolavoro della cinematografia italiana, le schematizzazioni narrative sono precocemente appassite. Però, ai propri tempi, Blow up ottenne un grande successo, soprattutto relativamente ai contenuti più facili: nel clima della swinging London, il fascino del presunto giovane fotografo di moda circondato da incantevoli modelle, peraltro disponibili a rapidi rapporti sessuali (una giovanissima Jane Birkin, tra i fondali di carta), avvicinato da donne affascinanti e altrettanto disinibite (per motivi propri, Vanessa Redgrave / Jane), in perenne movimento, al volante di una Rolls-Royce cabriolet. A conseguenza, Blow up va considerato discriminante anche per la semplificazione scenica, che ha finito per influenzare tanto brutto cinema. Dunque, confermiamo: alla rappresentazione di Blow up va addebitata la linea divisoria tra una visione della fotografia precedente e una seguente. In particolare, le va oggettivamente imputato di aver stabilito i connotati cinematografici del fotografo porno, o comunque sia sporcaccione, che estende fino alle estreme conseguenze il modo di vivere interpretato sullo schermo da David Hemmings (Thomas), senza però la sua intelligenza e senza i suoi dubbi.
ROBUSTE OSCENITÀ In ripetizione, d’obbligo: all’indomani di Blow up, in un tempo di grandi sommovimenti, ma inquietante interregno espressivo, rari furono i fotografi che apparirono sullo schermo in altre vesti che non quelle del sesso. Molte furono le pellicole, soprattutto italiane, al di sotto del limite medio di accettabilità che giocarono la facile carta del fotografo senza scrupoli e privo di morale: «Il fotoamatore è diventato un maniaco sessuale, un appassionato del coito ripreso con la macchina fotografica», rilevò Maurizio Porro, su Photo 13, dell’ottobre 1971. Il giovane playboy di Una storia d’amore, di Michele Lupo (Italia, 1969), campa seducendo e fotografando belle signore, che poi vengono ricattate. Circa lo stesso accade pure in Una lucertola con la pelle di donna, di Lucio Fulci, con
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Florinda Bolkan e Jean Sorel (Italia, Francia e Spagna, 1971), dove si registra anche la variante dell’amore particolare. Invece, Le foto proibite di una signora per bene, di Luciano Ercoli (Italia e Spagna, 1971), propose l’aggravante sadica, che però era già stata superata dal ricatto foto-erotico, con slittamento verso l’omicidio, di Vergogna schifosi, del 1969 (con Lino Capolicchio; regia di Mauro Severino). I titoli dei film di questa genìa rivelano subito la propria inconsistenza. Tanto è vero che ricordiamo perfettamente un equivoco di quegli anni, quando l’ottimo Diario di una casalinga inquieta (Diary of a Mad Housewife, di Frank Perry, con Richard Benjamin; Usa, 1970) venne inizialmente veicolato attraverso un canale di sale equivoche; invece, la vicenda aveva nulla di morboso, ma si trattava, più concretamente, di un crudo ritratto della borghesia newyorkese rampante. Con un salto temporale di una quindicina di anni, la fenomenologia porno-fotografica si abbinò, successivamente, al filone del film pseudo erotico italiano. Nel 1985, in Fotografando Patrizia, Salvatore Samperi, maestro del cinema di “pruderie”, presentò un sesso raccontato e spiato attraverso il torbido rapporto tra una sensuale donna di successo (Monica Guerritore) e il fratello minore, introverso, ipocondriaco e pornofilo (Lorenzo Lena). Poco dopo, con Le foto di Gioia, del 1987, Lamberto Bava portò sullo schermo un cast di grande richiamo sessuomane: Serena Grandi, (Capucine), Daria Nicoldi e Sabrina Salerno sono al centro di una contorta storia imperniata su una serie di barbari omicidi compiuti nella villa-studio di una piacente proprietaria di una rivista per soli uomini (o uomini soli). Questo è pure il motivo conduttore, oppure il pretesto, delle due puntate di Sotto il vestito niente, con le quali Carlo Vanzina, prima (1985), e Dario Piana, poi (1988), hanno raccontato un certo mondo della moda e delle top model, che proprio allora cominciavano a contendere alle attrici internazionali il palcoscenico dello star system. Se possibile, Sotto il vestito niente 2 è addirittura peggiore del film originario, che
Cinema era stato tratto dall’omonimo pasticciatissimo giallo parapsicologico di Marco Parma (pseudonimo del giornalista Paolo Pietroni).
PRECEDENTI È un vero peccato che Blow up abbia innescato questa volgare escalation, perché, in precedenza, il sottile tema del rapporto (equivoco?) potenzialmente stimolato dalla macchina fotografica e dalle proprie applicazioni aveva sempre trovato una ospitalità cinematografica soprattutto compiacente e garbata. Certo, l’apparizione sullo schermo della prima figura di donna fotografa, in Legittima difesa, di Henri-Georges Clouzot (Quai des Orfèvres; Francia, 1947), si accompagnò con l’oscura rappresentazione di un personaggio ambiguo, amorale più che immorale e, novità per il cinema di allora, dedito ad amori omosessuali (Dora Monier, interpretata da Simone Renant). Però, bisogna considerare che il regista calcò i toni per sottolineare i pericoli e le nefandezze che si possono commettere sull’onda di un isterismo collettivo, ben noto a chi, come lui, era stato messo al bando (accusato di filonazismo) più per esaltazione e fanatismo che per prove reali. Per cui, le tinte fosche del pessimismo di Henri-Georges Clouzot non modificano il giudizio sulla grande stagione del più sereno e corretto accostamento cinematografico tra la fotografia e la propria implicita proprietà indagatrice, magari anche erotica o pseudo tale o garbatamente tale, che si è esteso nei decenni e che non si è lasciato coinvolgere nei facili e banali slittamenti che abbiamo appena commentato, ma che si è mantenuto simpaticamente ammiccante. Ne è esempio il gustoso breve sketch di Totò / Don Felice Sciosciammocca, scrivano con licenza di fotografare di Miseria e nobiltà [FOTOgraphia, settembre 2008]: l’elemento discriminatorio della scena è più l’avvenente sposina che non la macchina fotografica, sublime pretesto. Un ulteriore momento fotografico di Totò fa capolino in Totò, Vittorio e la dottoressa (di Camillo Mastrocinque; Italia, Francia e Spagna, 1957), nel quale, nel corso di un pe-
dinamento, due improvvisati investigatori privati, Michele Spillone detto Mike (Totò) e Gennaro detto Johnny (Agostino Salvietti), fanno appunto uso di una attrezzatura fotografica opportunamente camuffata: la macchina a soffietto sotto il cappello di Totò, il flash sotto quello del compare. Anche per Sophia Loren si possono individuare delicate squisitezze fotografico-cinematografiche, che riportano nel terreno del civile tentativo di seduzione (già motivo conduttore di La macchina fotografica, episodio di Tempi nostri, di Alessandro Blasetti, ancora con Totò). Peppino De Filippo è il fotografo Mario, con «l’occhio che scruta...», che la insidia in Il segno di Venere, di Dino Risi (Italia, 1955), film costruito su misura per Franca Valeri / Cesira. E poi, in La fortuna di essere donna, di Alessandro Blasetti (Italia e Francia, 1956), Sophia Loren / Antonietta Fallari finisce per innamorarsi del fotografo Corrado Betti (Marcello Mastroianni), al quale avrebbe voluto far causa per una propria immagine finita sulla copertina di un rotocalco. Ma al cinema, la complicità fotografica in tema di seduzione non è stata dipinta soltanto con le tinte allegre della commedia. Prima di fotografare giovani consenzienti, in Girolimoni, il mostro di Roma, di Damiano Damiani (Italia, 1972), Nino Manfredi aveva già interpretato anche un reporter che usa la fotografia per sedurre ragazzine desiderose di fare del cinema. Siamo nel pieno della vicenda che nel 1965 Antonio Pietrangeli raccolse in Io la conoscevo bene (Italia, Germania e Francia): acuto ritratto dell’Italia anni Sessanta, malinconico e cattivo, pieno di millantatori, arrivisti e volgari seduttori. Anche in Ci divertiamo da matti, di Desmond Davis (Smashing Time; Gran Bretagna, 1967), il fotografo della swinging London è una specie di satiro che cerca di allettare, con l’inganno della fotografia pubblicitaria, due giovani ragazze di provincia appena approdate nella capitale. E in La ragazza con il bastone, di Eric Till (The Walking Stick; Gran Bretagna, 1970), David Hemmings torna a essere fotografo, come lo è stato in Blow up, questa volta con componente delinquenziale. Chiuso il cerchio. ❖
La chiave ideologica e di contenuto del film Blow up dipende da una escursione del fotografo protagonista Thomas (l’attore David Hemmings), che fotografa in un parco di Londra, interferendo con un’altra vicenda privata per la quale Jane (l’attrice Vanessa Redgrave) si sente in qualche modo minacciata. Non a torto.
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ATTESE E SPERANZE
Anzitutto, riaffermiamo che la Photokina non è più solo e soltanto una fiera tecnicocommerciale, ma l’espressione più chiara, trasparente e concreta degli infiniti collegamenti che oggigiorno definiscono la fotografia nel proprio insieme: a Colonia, in Germania, dal diciotto al ventitré settembre. Alla Photokina e con la Photokina, l’intero mercato della fotografia manifesta spiriti e filosofie trasversali, da decifrare per allineare e finalizzare ogni personalità commerciale quotidiana. Occasione e opportunità per considerare la fotografia nel proprio effettivo complesso. A seguito delle recenti e inarrestabili evoluzioni tecnologiche, al giorno d’oggi, il processo fotografico non può essere inteso e considerato per comparti stagni, ma deve essere valutato in una continuità che dalla ripresa passa per la gestione e approda alla copia conclusiva
MAURIZIO REBUZZINI
di Antonio Bordoni
A
ppuntamento canonico dell’industria fotografica. sull’onda lunga di travolgenti trasformazioni tecnologiche, nel corso dei più recenti anni, la biennale Photokina, di Colonia, in Germania, ha sistematicamente modificato la propria personalità, adattandola -al possibile- alla nuova realtà che si è delineata. Se si tratta di stabilire passi cadenzati e certi, si può considerare che -con curiosa coincidenza di date- il cambio di marcia ha coinciso con il passaggio di secolo/millennio, tra la fine del Novecento, e i suoi tormentati anni Novanta (tormentati dal punto di vista dell’applicazione tecnologica della fotografia), e l’avvio del Duemila. In precedenza, poco ha mai alterato gli equilibri tecnico-commerciali dell’intero comparto fotografico, che ha registrato soltanto la fine del cinema a passo ridotto, incalzato dalla videoregistrazione magnetica. Ma, alla luce di quanto abbiamo incontrato negli anni a seguire, pressati dalla tecnologia ad acquisizione e gestione digitale di immagini, quella del cinema a passo ridotto fu un’autentica inezia (che riguardò soltanto una limitata quantità di operatori: Kodak, con i suoi Kodachrome Super8 venduti e sviluppati in milioni di pezzi, sopra tutti). Così, per testimonianza e partecipazione diretta, dal 1974 della nostra prima Photokina, possiamo affermare come e quanto nei decenni passati la cadenza biennale sia stata assolutamente adeguata e consentiva... di attendere. Tutte le grandi case produttrici finalizzavano i propri tempi, per presentare le novità più sostanziose alla Photokina, nell’autunno degli anni pari. Oggi, no. Oggi nessuno aspetta mai tanto, e le novità tecniche subentrano le une alle altre con un ritmo sempre più serrato; tanto che i marchi leader sono addirittura approdati a novità stagionali (soprattutto, compatte di primavera e autunno: rispettivamente rivolte ai consumi dell’estate e agli acquisti natalizi). Dunque, a diretta conseguenza, la Photokina ha dovuto modificare la propria personalità, per adattarla ai tempi fotografici attuali: non più e non soltanto fiera tecnico-commerciale, ma appuntamento fotografico di altro respiro e orizzonti allargati.
E RITORNO Tutto questo è stato adeguatamente analizzato e approfondito quattro anni fa dal nostro direttore Maurizio Rebuzzini, che all’indomani dell’edizione 2008 della Photokina (World of Imaging) non compilò il consueto articolo di analisi e passerella, ma individuò i segni e il senso di una autentica svolta. Da cui, il suo ampio saggio Alla Photokina e ritorno, con richiami e riferimenti che non si esaurirono con il solo svolgimento della Photokina, pubblicato dalla nostra casa editrice. A seguire, due anni fa, al rientro dall’edizione 2010, abbiamo annotato come e quanto le considerazioni espresse in quel testo fossero ancora di
Photokina 2010: la prima successiva al consistente approfondimento di Alla Photokina e ritorno, del precedente 2008: da cui, l’inevitabile ritorno... alla stessa Photokina. Con l’occasione, ricordiamo che fu la prima senza l’amico Jin Yamaguchi, della giapponese Horseman, al quale dedicammo questa relazione, al solito tra costume, tecnica e altre considerazioni.
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Pubblicato alla fine del 2008, il saggio Alla Photokina e ritorno ha composto i termini di una lunga riflessione che non si esaurì con il solo svolgimento della Photokina 2008, dalla quale prese spunto e alla quale riferì le proprie osservazioni (che non vennero replicate su FOTOgraphia: a destra). Oggi, fatti salvi i riferimenti tecnici delle novità fotografiche 2008, a distanza di quattro anni, questo testo non ha perso nulla del proprio smalto originario: è ancora immancabilmente di attualità! Da leggere o rileggere: ha descritto anche la Photokina 2010, così come l’imminente 2012. (pagina accanto) La Photokina 2006 fu illuminata dalla Horseman 3D, l’ultima a pellicola.
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stretta attualità (a parte i riferimenti espliciti ai prodotti-novità di allora): ancora e immancabilmente, spunti utili e proficui sia al comparto tecnico-commerciale sia la mondo della fotografia espressiva e creativa. Lo stesso, in anticipo, lo possiamo affermare ora, a distanza di altri due anni: perché la Photokina 2008 fu quella nella quale la straordinaria fiera tedesca rivelò tutta la propria capacità di interpretare e assecondare le condizioni del mercato fotografico planetario. Rileggiamo. «[Nel 2008] Dopo stagioni di confusioni esistenziali, durante le quali troppo spesso l’industria fotografica ha indossato gli abiti dell’impresa finanziaria, ognuno per sé e tutti insieme (in coincidenza di intenti) i singoli marchi sono tornati alle proprie origini, alla propria personalità: industria produttrice, che punta soprattutto sulla qualità vantata dei propri prodotti e il rapporto con i clienti, siano fotografi professionisti o non professionisti. Senza fronzoli finanziari aggiunti, senza deviazioni sostanziali dal tracciato principale, fondamentale e discriminante, l’industria ha sottolineato soprattutto la propria personalità produttrice. [...] «La Photokina dei nostri attuali tempi è disponibile ad accompagnare i visitatori e gli operatori secondo ritmi e intenzioni individuali. Nella sostanza dei suoi padiglioni, ciascuno può avere la propria Photokina: ci sono tante Photokina, una simultanea all’altra, una all’interno dell’altra, ognuna coabitante con le altre. «A parte le finalità professionali individuali, dal giornalismo al fotolaboratorio senza soluzione di continuità, qualche negoziante può leggere tra le righe del nuovo, preventivando già cosa dovrà presto ritirare come usato; altri possono gradire la sola atmosfera; molti hanno visitato la Visual Gallery, versione attuale dell’originaria Sezione Culturale del compianto Fritz Gruber; tanti appassionati la vivono come il paese dei balocchi. Anche i giornalisti inviati si comportano in maniera diversa, manifestando ciascuno interessi e prospettive autonome. «A parte gli obblighi di mestiere, io ho seguìto ricercati dettagli, mi sono allungato alle immagini di contorno (ufficialmente culturali e altro) e, risolti i dialoghi sui massimi sistemi, quelli che richiamano l’attenzione del vasto pubblico (consumatore), mi sono mosso ancora tra le pieghe, per dare spazio, senso e visibilità a quegli entusiasmi progettuali che vanno oltre i grandi numeri, e da questi sono lontani. «Ho mirato all’individuazione di altri modi di intendere l’azione fotografica, per la quale la configurazione tecnica è soprattutto necessaria, non soltanto sufficiente, al risultato finale, che rimane la Fotografia: la sua espressione e il suo linguaggio. Dove sta la differenza? Nello smettere di sentire il cervello, per ascoltare l’anima. In ogni caso, sono stato guidato e indirizzato anche dalla voglia di assaporare il profondo di un’esperienza che sembra essere sempre uguale, ma che invece è sempre così diversa. [...]. «Ripeto, ribadisco e concludo: la Photokina è og-
gi l’espressione più chiara, trasparente e concreta di tutti questi intrecci, legami e collegamenti. Photokina non sono i soli strumenti della fotografia. Alla Photokina e con la Photokina, l’intero mercato della fotografia manifesta spiriti e filosofie trasversali, da decifrare per allineare e finalizzare ogni personalità commerciale quotidiana; anche quelle giornalistiche, sia chiaro».
OGGI E DOMANI Stabiliti i consistenti pregi e valori della fiera in quanto tale, che a differenza di altre espressioni analoghe -soprattutto nazionali- sa proporsi al passo con le esigenze e necessità attuali, rimane da domandarsi cosa ci si attende dall’appuntamento del prossimo diciotto-ventitré settembre. Ovviamente, non dovrebbero arrivare novità di primo livello, visto e considerato che ciascun produttore ha già presentato le proprie in tempo reale, senza temporeggiare. Altrettanto ovviamente, ciascun produttore presenterà qualcosa di nuovo, perché la passerella tecnologica lo esige e pretende. Tra le pieghe di tanto, forse di tutto, l’osservazione giornalistica ha un altro compito: quello di individuare filoni, di portare alla luce connessioni, di tracciare panorami futuribili. Quindi, è in questo senso che si nutrono attese e si coltivano speranze. Precisato che dal punto di vista tecnologico la fotografia vale soprattutto per quanto definisce e contorna la ripresa, cioè lo scatto, è giocoforza pensare in termini adeguatamente finalizzati: apparecchi fotografici e propri accessori di uso (a partire dagli obiettivi intercambiabili e dai flash elettronici dedicati), software di gestione dei file-immagine, stampanti (sia in proprio, sia conto terzi). E questa combinazione, questa filiera, identifica subito una condizione attuale della pratica fotografica, comunque venga svolta, con indirizzo professionale o intendimenti non professionali. Paradossalmente, l’evoluzione tecnologica dell’era digitale ha riportato la pratica fotografica alle proprie condizioni originarie, di metà Ottocento, precedenti l’epocale svolta impressa da George Eastman con la sua Box Kodak, del1888, più volte e motivatamente commentata sulle nostre pagine (ancora, lo scorso luglio, a completamento delle considerazioni sulla nuova distribuzione commerciale dei prodotti Kodak, affidata al Gruppo Fowa-Nital). Tra tutte le sue innovazioni, a cascata, la Box Kodak avviò una condizione che ha definito il mercato fotografico per decenni e decenni, fino a ieri l’altro (e, forse, qualcosa vale ancora oggi): trattamento dei materiali e stampa delle copie conto terzi. In precedenza, il fotografo pre Box Kodak operava da solo. Oltre le capacità espressive e creative della sua azione, doveva possedere la perizia di trattamento delle lastre e stampa delle copie. Oggi, siamo tornati a quello. Per cui, eccoci, oltre l’essenza degli apparecchi e contorni, lo sguardo va rivolto alla gestione delle acquisizioni (software preposti) e alla produzione delle copie su carta (stampanti). È in questo ambito che si esprimono le no-
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Photokina 2002: lo prevedemmo ed ora è certo. Momento storico di passaggio ufficiale da un prima a un dopo. Dal passato al presente-futuribile.
vità più concrete che si possono incontrare oggi. Certo, è quasi paradossale, perché sono le prestazioni originarie degli apparecchi che definiscono la versatilità della ripresa fotografica, ma è l’indotto che ha possibilità di comporre tratti di autentica differenza. Attese e speranze sono rivolte soprattutto a questo: alla sostanziosa possibilità di governare l’immagine e guidarla secondo le intenzioni creative che esprimono la personalità di ciascun fotografo: sia professionista sia non professionista. Il resto, che si esprime in miriade di sfumature e tonalità tecnologiche, è soltanto apparenza: dalle prestazioni delle reflex di vertice alla semplificazione delle compatte per la fotoricordo tutto rien-
UNO SGUARDO INDIETRO
PHOTOKINA 1952
Photokina 2004 (copertina dedicata e apertura di articolo): tra tanto altro, elevammo a simbolo Vincenzo Silvestri e il suo banco ottico Micron S5, con il quale è finita l’epopea dei corpi mobili.
Come specificato in tante occasioni, e annotato anche nel corpo centrale di questo intervento redazionale, frequentiamo la Photokina, di Colonia, dal 1974: a tutt’oggi, abbiamo visitato diciannove edizioni. Gli anni Settanta e Ottanta, e qualcosa dei Novanta, hanno definito tempi di grandi corrispondenze giornalistiche. Sopra tutti, allora si segnalavano gli staff delle prestigiose e qualificate riviste statunitensi a larga tiratura, nell’ordine di oltre un milione di copie mensili (!), che guardavamo con ammirazione e un poco di invidia. Per la cronaca, precisiamo che la Photokina è nata annuale. Le prime due edizioni si sono svolte nel 1951 e 1952 (rispettivamente dal venti al ventinove aprile e dal ventisei aprile al quattro maggio), dopo una precedente fiera nazionale Photo-und Kino-Ausstellung (Esposizione di fotografia e cinema), del 1950 (dal sei al quattordici maggio). La terza edizione del 1954 è stata l’ultima annuale (dal tre all’undici aprile). Dalla successiva edizione 1956, oltre la cadenza biennale, che l’avrebbe caratterizzata nei decenni a seguire, la Photokina ha spostato le proprie date all’autunno: dal ventinove settembre al successivo sette ottobre.
tra in una sorta di dovere dal quale nessuno può sfuggire. Invece, la sottigliezza e raffinatezza di gradazioni infrastrutturali fanno l’autentica differenza. Senza clamore, senza proclami... si tenga conto che oggigiorno il processo fotografico non può essere inteso e considerato per comparti stagni (come è sempre successo), ma deve essere valutato in una continuità che dalla ripresa passa per la gestione e approda alla copia conclusiva. Almeno, così dovrebbe essere. ❖
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Il soggetto Robert Doisneau è uno dei sei della serie filatelica Les œuvres des grands photographes français (alla lettera Opere dei grandi fotografi francesi), emessa il 10 luglio 1999. Introdotti da un riferimento a Niépce e Daguerre, padri riconosciuti e ufficiali della fotografia, i sei valori postali propongono rispettive opere significative delle singole personalità d’autore: Robert Doisneau ( L’information scolaire, del 1956), Brassaï (Gyula Halász), Jacques-Henri Lartigue, Henri Cartier-Bresson, Eugène Atget e Nadar (Gaspard-Félix Tournachon).
PARIGI, Per accostarci alla mostra antologica di Robert Doisneau, al Palazzo delle Esposizioni, di Roma, dal ventinove settembre, riprendiamo -traducendolo- il titolo della straordinaria guida turistica scritta in forma aforistica dal filosofo polacco Mieczysław Kozłowski (1858-1935): Pary ż, ach Pary ż!. Così facendo, sottolineiamo la dedizione dello straordinario autore, che ha concentrato la propria attenzione fotografica soprattutto sulla città di nascita e vita; da cui, il titolo esplicito della mostra: Paris en liberté
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di Maurizio Rebuzzini
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gni incontro con Robert Doisneau è affascinante. Almeno, lo è per me, e sono convinto di essere in buona e sostanziosa compagnia. Straordinario interprete e protagonista di quella che sono solito definire fotografia flânerie, identificandola e certificandola sempre come tale, rispetto altri autori, altrettanto apprezzati e amati (da Henri Cartier-Bresson a Willy Ronis, da Édouard Boubat all’italiano Gianni Berengo Gardin; la scuola statunitense della New Documentary scorre su un binario parallelo, avvincente a proprio modo e in modo diverso), straordinario interprete della fotografia flânerie -riprendo il filo-, Robert Doisneau ha accompagnato e guidato le proprie visioni con una componente di affascinante ironia, che ha de-
Be-bop en cave, (oppure, Be-bop à Saint-Germaindes-Près); 1951.
Les enfants de la place Hébert ; 1957.
AH PARIGI! terminato e definito un pizzico di sapore... in più. Ecco qui, in un concetto semplice e diretto, il suo valore aggiunto: almeno per me. A questo punto, in ripetizione d’obbligo, per la presentazione della fantastica selezione Paris en liberté, al Palazzo delle Esposizioni, di Roma, dal ventinove settembre, va chiarito e ufficializzato che con “fotografia flânerie” identifico quelle immagini del vero e dal vero che possono anche non appartenere a un progetto (al quale, invece, spesso appartengono), ma sono colte al volo, senza premeditazione alcuna o annuncio sbandierato. Non visioni preordinate, dunque, ma situazioni che attirano e colpiscono l’attenzione dell’autore, dell’interprete. In una idea, non fotografie cercate, ma fotografie scoperte. Non il fotografo che insegue l’immagine, ma l’immagine che trova lui, presentandosi e offrendosi alla sua intelligenza (di capire e raccogliere).
LA SUA PARIGI
Robert Doisneau e Parigi: un binomio inscindibile tra uno dei più grandi autori del Novecento e la città che ha amato e eternato con una fantastica quantità e qualità di fotografie (e sulla fotografia a Parigi, rimandiamo al nostro numero dello scorso aprile, sul quale abbiamo presentato e commentato la fantastica monografia Paris. Ritratto di una città, a cura di Jean Claude Gautrand, pubblicata da Taschen Verlag). Al Palazzo delle Esposizioni, di Roma, dal ventinove settembre [con e da Mogol e Battisti: «Seduto in quel caffè, io non pensavo a te»], Paris en liberté, di Robert Doisneau, allestisce oltre duecento fotografie scattate tra il 1934 e il 1991, raggruppate tematicamente, che ripercorrono i temi cari all’autore: di fatto, una autentica rassegna antologica. Sguardi defilati di piccole cose. Parigi raccontata
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dallo sguardo incantato di uno dei suoi più grandi cantori, Robert Doisneau, per il quale, nel 2005, al Palazzo Reale, di Milano, fu coniata l’identificazione di L’amore è..., precedente antologica che fece tesoro e bandiera dell’ampiamente conosciuto Le baiser de l’Hôtel de Ville [in questa pagina e a pagina 37], scattato a Parigi nel 1950, certamente uno dei baci più famosi della storia della fotografia, tanto da essere noto anche al più ampio pubblico (generico). Rimanendo all’appuntamento romano, come racconta la storia evolutiva del linguaggio fotografico, Robert Doisneau ha assunto la propria Parigi a unità di misura di una poesia espressiva, che ha ricercato e visualizzato in ogni immagine. La Parigi in mostra è una città vera e viva: splendida e inconsueta, lontana dagli avvenimenti mondani e dalle mode. È la città della gente comune, delle periferie, degli affetti e dei piccoli accadimenti privati. Soprattutto è la Parigi dei sobborghi, dove Robert Doisneau nacque nel 1912 e nei quali ha sempre trovato l’“amore”, per renderlo soggetto. Qui risiede l’anima nascosta della capitale francese, che si manifesta senza clamori e che definisce nel profondo l’estetica dell’autore e il suo modo di guardare la realtà direttamente negli occhi.
Le baiser de l’Hôtel de Ville; 1950.
SCELTA DI VITA Va ripetuto: Parigi e i parigini sono sempre stati i soggetti privilegiati di Robert Doisneau, da quando, negli anni Trenta, svincolò la propria capacità di osservazione e sintesi dai legami imposti dalle committenze, per dare alla propria fotografia rinnovato e personale valore e dignità: rivolgendosi a quei momenti intimi che non attirano altre attenzioni. In questo senso e direzione, Robert Doisneau orientò il proprio percorso espressivo, avviando anche una collaborazione professionale con l’Agenzia Rapho, che dal 1946 è durata tutta la vita, e che lo ha portato a numerosi contatti: da Blaise Cendrars, con il quale condivise la realizzazione del suo primo libro, La banlieue de Paris (1949), al poeta Jacques Prévert. Dopo l’interruzione della produzione fotografica professionale durante l’occupazione tedesca di Parigi, Robert Doisneau riprese a lavorare nell’immediato dopoguerra, con collaborazioni fotogionalistiche di grande prestigio e qualità. Notevole è stata la sua vena ritrattistica, con frequentazioni personali del vivace mondo culturale parigino (animato da figure del calibro di Raymond Queneau, Blaise Cendrars, Pablo Picasso e Georges Braque), e lucide sono state le sue scelte di campo (nell’ambito fotografico si segnala la commossa testimonianza visiva della distruzione delle Halles). In tempi nei quali tali attestati hanno avuto senso, peso e valore, nel 1949 ha vinto il Premio Kodak e nel 1956 gli è stato assegnato il Premio Niépce.
LA BANLIEUE Con la fotografia, Robert Doisneau ha messo in scena la propria visione della banlieue, una visione fortemente influenzata dalle teorie del moder-
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L’information scolaire; 1956.
(prossima pagina) Pierrette d’Orient; 1953. Le ruban de la mariée; 1951.
Tra le tante monografie dedicate alla fotografia di Robert Doisneau, segnaliamo quella pubblicata da Taschen Verlag: completa, ben stampata, con testi in italiano e, soprattutto, economica. A cura di Jean Claude Gautrand; 192 pagine, 14x19,5cm; 7,99 euro.
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nismo e soprattutto dalle idee dell’architetto Le Corbusier, un cui articolo ha campeggiato per trent’anni sulle pareti del suo studio di Montrouge, alle porte di Parigi. Le immagini della banlieue e dei propri abitanti sono al contempo la raffigurazione di una classe sociale e l’autorappresentazione di un artista. «La banlieue è il mio ritratto; come lei, io sono un agglomerato di scorie». Acuto osservatore e fine psicologo, Robert Doisneau ha sempre preferito l’imprevedibilità dell’intuizione ai grandi voli lirici, l’emozione di uno sguardo alla artificiosità della costruzione scenica dettagliata. Per questo, la strada è stata il suo habitat. Quando era in strada, non era più realmente un fotografo. Era un poeta. Come ha osservato lo scrittore francese Renaud «Robert Doisneau mostrava l’acciottolato delle nostre città come nessuno di noi l’aveva mai visto; guardava i bambini di Parigi, le sue coppie di innamorati o i suoi vecchi con una tenerezza infinita. A proprio modo, Doisneau cantava la strada. Umanità, humour, amore: aveva il dono di prendere il meglio della vita, di cogliere quell’istante fugace in cui il banale e il quotidiano divengono, solo per un momento, poesia». Un altro motivo dell’amore di Robert Doisneau per la strada, comune a tutti gli esponenti della co-
siddetta fotografia umanista (in forma di flânerie), va ricercato nel fatto che è proprio nelle vie e nelle piazze che si svolge la vita della classe popolare, con la quale il compianto autore francese si sentiva fortemente solidale, in virtù della propria ideologia di sinistra.
PESCATORE DI IMMAGINI Quando, sul finire degli anni Settanta, Robert Doisneau torna alla sua banlieue ha ancora energia a sufficienza per dedicarsi all’amata città, tanto che nel 1984 avvia un vasto studio, questa volta a colori, nell’ambito di un progetto sul paesaggio, sulla periferia e sulle nuove città della regione parigina. Muore nell’aprile 1994, a ottantadue anni [FOTOgraphia, maggio 1994]. Cantore di una scena quasi fiabesca, osservata con occhio attento e mente partecipe, nel corso dei decenni, il francese Robert Doisneau ha saputo cogliere e raccontare l’essenza stessa del mondo: raffigurativa di un microcosmo, la sua fotografia è stata addirittura rappresentativa dell’esistenza. Dominato da una forte carica sentimentale, lo stile di Robert Doisneau ha segnato la storia della fotografia con la propria disponibilità e tenerezza (non soltanto visiva) verso la condizione dell’uomo nel-
IL BACIO, ANCORA
Originariamente, Le baiser de l’Hôtel de Ville, di Robert Doisneau fu pubblicato da Life, nel 1950, in un servizio illustrato, intitolato Speaking of Pictures... (Parlando di fotografie...).
Il quotidiano La Repubblica, del 14 febbraio 2009, ha commentato la combinazione tra Le baiser de l’Hôtel de Ville e la festa di San Valentino, che si ripropone ogni anno.
Lo scorso quattordici aprile, la pagina iniziale del motore di ricerca Google ha ricordato il centenario della nascita di Robert Doisneau: 1912-2012 [ FOTOgraphia, maggio 2012].
Tanto che, lo scorso quattordici aprile, la pagina iniziale del motore di ricerca Google ha ricordato il centenario della nascita di Robert Doisneau, evocandolo attraverso la visualizzazione di sue quattro celebri fotografie, tra le quali non manca questo leggendario bacio [FOTOgraphia, maggio 2012, e a sinistra]. Infine, con un balzo temporale indietro negli anni, ricordiamo una campagna pubblicitaria Peugeot, del 2000: pagine e spot. Lo spot fu affascinante, almeno per noi consapevoli del dietro-le-quinte. Ferma sul marciapiedi, una ragazza, un poco nervosa, sta visibilmente aspettando qualcuno che non arriva. Lui -è ovvio che si tratti di un “lui”- è su una Peugeot 406 Coupé (unica macchia di colore nel bianconero generale), bloccata nel traffico. L’appuntamento è davanti al Café de Hôtel de Ville, e già questo svela qualcosa (a noi, almeno). Finalmente, i due si incontrano e il loro bacio è bloccato dallo scatto dell’inconfondibile otturatore centrale di una Rolleiflex; nel fermo fotogramma, riconosciamo la fotografia di Robert Doisneau, appunto Le baiser de l’Hôtel de Ville [qui sotto]. In sovraimpressione, si legge un testo attribuito allo stesso Doisneau: «La bellezza sfugge alle mode passeggere». Il medesimo bacio, nell’inquadratura fotografica originaria, con la delicata aggiunta di una Peugeot colorata che passa per la strada, è stato utilizzato anche in campagna stampa: da solo [in basso, a sinistra], e poi assieme ad altri due baci fotografati da Robert Doisneau [in basso, a destra]. Concludiamo con la sottolineatura di Repubblica, del 14 febbraio 2009, che ha affrontato il tema della speculazione del bacio, in occasione della festa di San Valentino [in alto], che pare ripetersi ogni anno. Immancabilmente, ogni anno.
Stressato dalle pretese sempre crescenti di persone che hanno asserito di riconoscersi nei due giovani che si baciano nella più celebre delle sue fotografie, l’icona Le baiser de l’Hôtel de Ville, del 1950, e per questo hanno preteso onerosi compensi, negli ultimi anni della sua vita Robert Doisneau dichiarò che si sarebbe trattato di due attori ingaggiati per l’occasione. Non ci crediamo, ma pensiamo che questa ammissione sia stata soltanto strategica, per togliersi di dosso ogni pretendente (presunto). In ogni, caso, non ci interessa nulla qualsivoglia “verità”: ciò che conta è la forza della fotografia, che ha superato indenne le decadi. Nulla di più, né d’altro. Però, ci sollecitano annotazioni a margine. Anzitutto, ricordiamo che originariamente fu pubblicata da Life, nel 1950, in un servizio illustrato, intitolato Speaking of Pictures... (Parlando di fotografie...), che diede fama internazionale a Robert Doisneau [in alto]. Paradossalmente, quel bacio non fu l’apertura di servizio, ma pubblicato in dimensioni contenute. Delle altre fotografie si è persa memoria, questa è diventata una icona del Novecento e simbolo di tutta la fotografia di Robert Doisneau.
Tre fotogrammi dallo spot che Peugeot ha realizzato nel 2000, sceneggiando Le baiser de l’Hôtel de Ville, di Robert Doisneau. Le baiser de l’Hôtel de Ville, con la delicata aggiunta di una Peugeot colorata che passa per la strada, in campagna stampa Peugeot, del 2000.
Altro soggetto della campagna stampa Peugeot, del 2000 (comprensiva dello spot televisivo illustrato qui sopra con tre fotogrammi), nella quale la fotografia Le baiser de l’Hôtel de Ville è accompagnata da altri due baci fotografati da Robert Doisneau. Le tre fotografie comprendono un inserimento Peugeot.
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QUATTRO PER QUATTRO
Nell’ottobre 1995, in contemporanea alla imponente retrospettiva al parigino Musée Carnavalet, la rivista francese Photo ha dedicato a Robert Doisneau un intero numero monografico. La redazione del fascicolo fu più che pertinente. La fenomenologia fotografica di Robert Doisneau fu affrontata da quella serie di infiniti punti di vista che dimostrano come la Francia sappia coltivare la propria cultura, che nello specifico si manifesta nella figura di un autore che ha arricchito un già abbondante bagaglio. Oltre a questo, va segnalata la particolare confezione editoriale, impreziosita di una stampa bianconero 13x18cm incollata
sulla copertina. Quattro soggetti sono stati stampati in una quantità complessiva di centocinquantamila copie (trentasettemila cinquecento copie per ciascuno di loro): Be-bop en cave, Parigi 1951; L’information scolaire, 1956; Mademoiselle Anita, Parigi 1951 e Concert Mayol, Parigi 1949. Per realizzare questa operazione, la filiale Ilford Francia fornì trentacinque chilometri di carta fotografica bianconero in bobine di 127mm di larghezza. Il laboratorio parigino Labo Eco stampò l’intera tiratura in meno di quattro giorni lavorativi, alla velocità di cinquemila copie all’ora.
la società. Tanta e tale è stata la sua personalità fotografica, da arrivare a essere considerato un notevole rappresentante della fotografia umanista (sempre declinata in flânerie). Da “pescatore di immagini”, come lui poeticamente amava definirsi, risulta più che mai evidente che la sua fotografia è -prima di tutto- un «desiderio di registrare», un bisogno privato, così come le immagini «sono spesso la continuazione di un sogno». ❖ Robert Doisneau. Paris en liberté. Palazzo delle Esposizioni, via Nazionale 194, 00184 Roma (06-39967500; www.palazzoesposizioni.it); dal 29 settembre al 3 febbraio 2013; domenica, martedì, mercoledì e giovedì 10,00-20,00, venerdì e sabato 10,00-22,30.
INEVITABIL Canon completa la proposizione tecnico-commerciale delle CSC (Compact System Camera, già Mirrorless). A un tempo, la Eos M è dotata di caratteristiche tecniche e di utilizzo di profilo sostanziosamente alto, in un corpo macchina dal design accattivante: adeguato alle esigenze e necessità del pubblico al quale si rivolge e indirizza. Nostre perplessità a parte -non sul prodotto, ma sulla potenzialità di questo mercato-, una configurazione all’altezza della tecnologia di ultima generazione e della personalità della casa produttrice, che con questa ulteriore proposta ribadisce la propria finalità tecnico-commerciale di leadership
Con l’arrivo sul mercato fotografico della nuova configurazione Canon Eos M (che nella propria definizione ribadisce la genìa della tecnologia proprietaria Eos) si completa il panorama commerciale del comparto CSC (Compact System Camera, già Mirrorless). Dotata di prestazioni e caratteristiche di alto pregio, la Eos M è altresì definita da un accattivante design, dichiaratamente indirizzato a «chi usa la fotografia per condividere le proprie passioni quotidiane».
La Canon Eos M è disponibile in quattro accattivanti livree: nero satinato, argento, bianco e rosso lucido.
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di Antonio Bordoni
U
ltima arrivata nel comparto tecnicocommerciale delle Compact System Camera, in acronimo CSC, al quale ci riferiamo in un apposito riquadro, pubblicato a pagina 44, la Canon Eos M non ha potuto fare a meno di presentarsi sul mercato con una sostanziosa personalità. Se andiamo a cercarne i motivi, ne individuiamo almeno due. Anzitutto, il primo dipende dalla condizione appena enunciata: buona ultima di una lunga serie di configurazioni, che possiamo datare dalla metà del 2010, quando arri-
varono le prime interpretazioni Mirrorless (usiamola ancora, questa identificazione), non avrebbe potuto fare diversamente di come ha fatto, sottolineando una pertinente combinazione di prestazioni di uso e avvincente design. Quindi, non va sottovalutato il carattere Canon, che non può esprimersi in altro modo, che con proposizioni di vertice tecnologico. Da cui, e per cui, la Canon Eos M vanta una consistente serie di prerogative, che riassumiamo a parte, a pagina 43, che la proiettano all’apice di un comparto fotografico decisamente abbondante di proposte, sia in senso qualitativo dei singoli apparecchi -ciascuno per
MENTE (?)
EOS M 41
Il monitor LCD touchscreen Clear View II della Canon Eos M, da tre pollici (7,7cm), formato 3:2 e 1,04 Megapixel di risoluzione, utilizza la tecnologia capacitiva per il controllo di alcune funzioni di scatto e riproduzione tramite lo sfioramento.
La Canon Eos M esordisce con due obiettivi, ai quali presto faranno seguito altri, nella composizione prevista di un energico sistema ottico: “pancake” EF-M 22mm f/2 STM e zoom standard EF-M 18-55mm f/3,5-5,6 IS STM.
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sé, e tutti insieme... appassionatamente-, sia in misura quantitativa.
CSC (O MIRRORLESS) La domanda a cui rispondere, alla quale devono (dovrebbero) rispondere i distributori nazionali, voce allungata dai produttori originari, rimane sempre la stessa che da tempo proponiamo su queste nostre pagine. In concretezza, oltre le intenzioni teoriche istituzionali, questo comparto tecnico-commerciale Compact System Camera (CSC, oppure Mirrorless) sta effettivamente incrementando i volumi della fotografia, così come si è inteso alla partenza? Oppure, si è creata una terza opzione, ulteriore alle due di sempre, che acquisisce proprie quote a scapito delle compatte e delle reflex, andando a erodere un poco da una parte e un poco dall’altra? La questione è giusto questa. E va ribadita. Reinventando una forma compatta degli apparecchi, dotati però di sensore di acquisizione di dimensioni adeguate alla massima qualità (dimensioni sostanzialmente superiori a quelle delle compatte standard), provvisti altresì di obiettivi intercambiabili, da due stagioni l’industria fotografica sostiene questo innovativo comparto tecnico-commerciale, prevedendo di richiamare e guadagnare nuovo pubblico. Ovverosia, clienti in più rispetto quelli che già si rivolgono alle altre due componenti: compatte e reflex. Con l’attuale identificazione CSC (Compact
System Camera), dopo altre definizioni che non hanno dato frutti (Mirrorless, ma anche Evil, da Electronic Viewfinder Interchangeable Lens), si intende sottolineare l’originalità della proposta, che fonde assieme i benefici operativi delle due altre ripartizioni: praticità e leggerezza delle compatte, efficacia e versatilità delle reflex. Bene! Ma come si può comunicare questo? Come si può avvicinare un nuovo pubblico utilizzatore? Noi non siamo preposti a dare risposte, che spettano a chi di dovere. Soltanto, possiamo arricchire il dibattito con una modesta opinione: secondo noi, è difficile convincere chi ambisce a un apparecchio reflex, che considera punto di arrivo del proprio percorso individuale (e a nulla valgono altre considerazioni di praticità delle CSC, quale è l’attuale Canon Eos M). Così come, potrebbe essere problematico anche la trasmigrazione dalle compatte, che sono vendute a prezzi convenientemente inferiori. Però, sì: ci sono (sarebbero?) proprio i termini per un nuovo pubblico... al quale presentare l’efficacia tecnologica dell’interpretazione fotografica CSC: magari sottolineandone le peculiarità e promuovendo soprattutto, o forse soltanto, l’assoluta novità e attualità tecnologica, indipendentemente dalla lunga storia evolutiva della fotografia (e lo affermiamo con il pianto nel cuore, con un dolore indicibile). Ma!
CANON EOS M Ecco, quindi, l’ufficialità della proposizione Canon, che afferma che l’attuale-presente-futuribile Eos M è stata « progettata per chi usa la fotografia per condividere le proprie passioni quotidiane, dal cibo alla moda, dalla cultura alla mu-
TECNOLOGIE EOS M
Per la propria Eos M, che arriva buona ultima nel segmento tecnico-commerciale di riferimento, Canon ha applicato una consistente serie di tecnologie proprietarie. In sintesi. ❯ Sensore Cmos Progettato e prodotto per operare in combinazione con i propri processori, la tecnologia Canon Cmos integra un avanzato sistema di riduzione del rumore, a livello del singolo pixel, grazie alla quale le immagini prodotte ne sono virtualmente prive. Rispetto la tecnologia CCD, il basso consumo di energia dei sensori Canon Cmos contribuisce alla lunga durata della batteria. Il sensore in dimensioni APS-C in dotazione alla Eos M è provvisto di un innovativo sistema autofocus ibrido a trentuno punti, che utilizza i pixel nell’area centrale per finalizzare l’AF continuo quando si scatta in modalità Live View o video. Il sistema Hybrid AF usa una combinazione tra rilevazione di fase e contrasto, per assicurare una messa a fuoco rapida e precisa. ❯ Processore Digic 5 La più recente generazione di processori Canon Digic, per l’appunto Digic 5, è stata approfondita per elaborare i dati delle immagini in modo più dettagliato e veloce, riproducendo accuratamente ogni parte della scena con colori naturali e tonalità sfumate. L’elaborazione dei dati immagine è sei volte più veloce rispetto al predecessore, così la potenza del processore Digic 5 in dotazione alla Eos M permette di utilizzare una vasta gamma di impostazioni di scatto avanzate e modalità, per migliorare la qualità dell’immagine o espandere il potenziale creativo. ❯ Live View La Canon Eos M è dotata di un nuovo monitor LCD Clear View II touchscreen da tre pollici (7,7cm), formato 3:2, che dà l’agio di comporre agevolmente l’inquadratura: Controllo esposizione, con diversi metodi di misurazione (valutativa, parziale, spot e media ponderata al centro); Griglia a scelta, con divisione in nove o ventiquattro aree; Multiformato 3:2, 4:3, 16:9 e 1:1. ❯ AF ibrido A trentuno punti, che offre una messa a fuoco super-veloce e precisa durante la ripresa di fotografie e video. Il sensore Cmos accoppia AF a differenza di fase con AF a contrasto, per fornire un sistema autofocus ibrido veloce e molto accurato. Modalità AF: Face Detection e tracking (rilevamento e messa a fuoco sui volti presenti nell’inquadratura con inseguimento del movimento); FlexiZone - Multi (divide automaticamente l’inquadratura in trentuno diverse aree AF e utilizza un algoritmo per dare priorità alla messa a fuoco al centro e alle parti più vicine al soggetto); FlexiZone - Single (AF standard); Regolazione messa a fuoco dopo AF (simile alla messa a fuoco manuale nelle reflex Eos); Touch AF e pulsante di scatto Touch (toccando il monitor LCD si individua l’area di messa a fuoco). ❯ Video Snapshot Consente di registrare brevi clip video con durata variabile (due, quattro e otto secondi), che vengono poi uniti in un file. Sia che venga visualizzata sul monitor touchscreen o su un più grande HDTV, sfruttando la connessione HDMI, durante la riproduzione di video può essere applicata una musica di sottofondo (BGM).
❯ LCD touchscreen Clear View II Da tre pollici (7,7cm), formato 3:2 e 1,04 Megapixel di risoluzione, che utilizza la tecnologia capacitiva per il controllo di alcune funzioni di scatto e riproduzione tramite lo sfioramento del monitor. L’interfaccia touch consente di selezionare i punti AF, inseguire volti e soggetti, far scattare la macchina fotografica toccando lo schermo o regolare le impostazioni delle immagini istantaneamente. ❯ Eos Scene Detection Analizza automaticamente la presenza di volti, la luminosità, il movimento, il contrasto e la distanza dei soggetti nella scena, fornendo informazioni utili alla funzione Scene Intelligent Auto. Quindi, la stessa funzione Scene Intelligent Auto ricava le informazioni fornite e determina le impostazioni per la ripresa fotografica più efficace. ❯ Picture Style Impostazioni che possono essere paragonate ai diversi tipi di pellicola, ognuna delle quali fornisce un effetto differente nella resa dei colori. Per ogni preimpostazione selezionabile, vengono controllati contrasto, nitidezza, tono colore e saturazione. Le preimpostazioni Picture Style consentono di ottenere immagini Jpeg utilizzabili immediatamente, senza bisogno di interventi supplementari. Le preimpostazioni Picture Style applicate alle immagini grezze RAW possono essere riviste e modificate con il software Canon Digital Photo Professional. ❯ Basic+ È la funzione creativa di imaging che rende più facile realizzare gli effetti fotografici desiderati durante la ripresa di una scena. ❯ Filtri creativi Possono essere applicati alle immagini RAW e Jpeg, anche dopo lo scatto: Art Bold effect (Basso/Standard/Forte; crea un effetto di “pittura ad olio”); Water Painting effect (Leggero/Standard/Profondo; crea un effetto “acquerello”, con colori tenui); Effetto fish-eye (simula la distorsione sferica); Bianconero sgranato (crea un’immagine in bianconero, con una grana evidente); Soft Focus (ricrea un effetto flou); Toy Camera (scurisce i bordi dell’immagine ed effettua l’elaborazione delle immagini per aumentare le differenze di contrasto globale e creare l’effetto di uno stile rétro); Effetto miniature (sfuma i bordi dell’immagine, per realizzate un aspetto simile a un modello in scala). ❯ ImageBrowser EX Software per la visualizzazione, l’editing e l’organizzazione delle immagini, è destinato agli utenti che scattano prevalentemente in formato compresso Jpeg. Incorpora le funzionalità di ZoomBrowser EX e ImageBrowser in un unico programma, consentendo di eseguire elaborazioni di base delle immagini, tra le quali luminosità e bilanciamento del colore, con connessione a DPP per l’editing delle immagini RAW. ❯ Speedlite EX La slitta porta accessori della Canon Eos M è compatibile con la gamma di flash Canon Speedlite EX. Il nuovo Speedlite compatto, Speedlite 90EX, ha Numero Guida 9 e un controllo wireless opzionale, per gestire in maniera più creativa fino a tre gruppi flash su quattro canali.
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Il flash Speedlite 90EX dedicato è incluso in ogni kit di vendita della Canon Eos M: con l’uno o l’altro dei suoi obiettivi nativi, oppure con gli obiettivi che verranno.
sica e all’arte. Con una qualità delle immagini da reflex, funzioni creative e registrazione di filmati Full-HD, Eos M è la compagna ideale da portare ovunque con sé, per una nuova generazione di appassionati/e, che desiderano raccontare la propria vita attraverso le immagini, senza necessariamente essere fotografi». Eccoci qui! Contenuti operativi a parte, che ci sono, e sono più che sostanziosi, la Canon Eos M si presenta in maniera accattivante: è disponibile in quattro brillanti livree (nero satinato, argento, bianco e rosso lucido) e concentra l’affermata tecnologia Eos in un design raffinato e compatto. Subito, si accompagna con due obiettivi, ai quali presto faranno seguito altri, nella composizione prevista di un energico sistema ottico: il “pancake” EF-M 22mm f/2 STM e lo zoom standard EF-M 1855mm f/3,5-5,6 IS STM. C’è anche un flash compatto Speedlite 90EX dedicato, che dovrebbe essere incluso in ogni kit di vendita (con l’uno o l’altro obiettivo, con gli obiettivi che verranno). Ancora, considerato il contenuto tiraggio al piano focale, è già preordinato l’anello adattatore EF-Eos M, per utilizzare la vasta gamma di obiettivi Canon EF (quindi, ammesso che sia ri-
DA MIRRORLESS A CSC
A nostro modo di intendere e vedere, uno degli ostacoli alla proiezione delle attuali ed efficaci compatte a obiettivi intercambiabili verso un pubblico neofita, che aumenterebbe i valori del mercato fotografico, dipende soprattutto -o, forse, soltanto- dalla difficoltà di presentare in modo convincente e persuasivo una tecnologia fotografica autenticamente nuova e innovativa (nella quale, peraltro, crediamo molto, o abbiamo creduto molto). L’identificazione originaria “Mirrorless” è settoriale: prevede la preconoscenza che solitamente le reflex hanno uno specchio ribaltabile (Mirror), qui assente (less). L’effimero e presto abbandonato passaggio intermedio Evil (acronimo di Electronic Viewfinder Interchangeable Lens) avrebbe potuto essere accattivante per tutti, soprattutto per i nuovi arrivi. L’attuale identificazione CSC (Compact System Camera) dice niente: almeno, la pensiamo e diciamo così, con la franchezza che ci è abituale. Che fare, dunque? Anzitutto, chiarirsi le idee una volta per tutte: e annunciare una straordinaria rivoluzione tecnologica, che risolve ogni disagio possibile della ripresa fotografica, fornendo altresì prestazioni straordinariamente versatili, fino a offrirsi creative. Quindi, non contare tanto su passaggi interni, con fermata intermedia oltre le compatte e prima delle reflex: una volta ancora, è un richiamo e discorso da addetti (che ne sono già consapevoli, tanto che molti mettono addirittura a frutto la possibilità di usare obiettivi di ogni epoca e produzione, tramite appositi anelli adattatori). Infine, rendersi conto che chi abbandona la compatta per una reflex non è molto interessato a discorsi razionali (minore peso e ingombro), ma vuole proprio approdare alla consistenza di una reflex, con tanto di sua apparenza a tutti evidente. Ciò detto, lo confessiamo apertamente: dopo aver presto creduto in questo comparto tecnico-commerciale della fotografia dei nostri giorni, ci siamo raffreddati. Tanto che, fino a ieri l’altro, abbiamo sperato che Canon ne rimanesse estranea. Però, dopo l’arrivo di Nikon 1, lo scorso autunno, è chiaro che anche Canon dovesse essere della partita. Così, Nikon e Canon, i due marchi leader del mercato fotografico, hanno ufficializzato, canonizzato questo settore. Ora, non si torna indietro: e la distribuzione e il commercio della fotografia devono impegnarsi affinché le Mirrorless / Evil / CSC non erodano soltanto quote commerciali alle compatte e alle reflex, ma finalmente aggiungano i propri volumi per far crescere l’intero mercato fotografico. M.R. Ne abbiamo proprio bisogno. Tanto bisogno.
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solvibile l’identificazione elettronica dell’obiettivo in uso, condizione fondamentale per l’attivazione della Canon Eos M, i produttori universali si impegneranno di certo nella realizzazione e fornitura di anelli adattatori per ogni sistema ottico del presente e passato).
È OVVIO: QUALITÀ Note tecniche ufficiali. Grazie all’alta risoluzione di diciotto Megapixel del sensore Hybrid Cmos, in dimensioni APS-C, si ottengono file di consistente qualità: per ingrandimenti vigorosi o per selezionare una porzione dell’inquadratura complessiva. Con l’adozione di un processore Canon Digic 5, è assicurata una fedele restituzione fotografica dei colori vivaci e delle tonalità dell’incarnato, mentre la rapidità di scatto super-veloce consente di congelare l’azione dinamica del soggetto in una frazione di secondo. Le atmosfere serali e le scene notturne sono interpretate fedelmente e acquisite semplicemente fin nei minimi dettagli, grazie alla sensibilità nativa di Eos M, che va da 100 a 12.800 Iso equivalenti (estendibile a 25.600 Iso equivalenti). Per scatti nitidi e riprese video di consistente qualità formale, la Canon Eos M adotta un sistema Hybrid AF, che supporta un autofocus continuo veloce e preciso in modalità fotografica e video, per registrare qualsiasi attimo con la certezza del risultato. Ogni aspetto della Canon Eos M è stato progettato per rendere più semplice acquisire e realizzare immagini di alta qualità. Il luminoso monitor LCD Clear View II touchscreen (monitor tattile), ad alta risoluzione, da tre pollici (7,7cm), consente il massimo controllo delle funzioni attive e di quelle passive della ripresa fotografica. Per essere liberi di concentrarsi sulla composizione dell’inquadratura, scegliendo il momento giusto per premere il pulsante di scatto, è sufficiente selezionare una delle modalità di scatto e le impostazioni attraverso le icone sul monitor, o lasciare ad Auto Intelligent Scene il compito di regolare le impostazioni in base al soggetto e alle condizioni di ripresa. In alternativa alle riprese standard (formalmente ineccepibili), è possibile creare immagini arbitrarie, con una serie di filtri creativi, come l’effetto Toy Camera, un bianconero sgranato e anche il filtro che simula la distorsione della visione fish-eye. I filtri possono essere applicati prima che la fotografia venga scattata, con il risultato previsualizzato in Live View, per sperimentare diversi effetti prima di selezionare l’elaborazione perfetta per l’immagine finale. Oltre la ripresa fotografica, la Canon Eos M consente la ripresa video Full-HD, con audio stereo. La modalità Video Snapshot aiuta a evitare lunghe sedute di visione di filmati, creando efficaci video in-camera, con modifiche dal tocco professionale. ❖
1839-2009
la finestra di Gras Dalla Relazione di Macedonio Melloni 2009.unaRicordando pagina, una illustrazione alla svolta di Akio Morita
Come dire, dal dagherrotipo all’acquisizione digitale di immagini. E consecuzioni
1839. Dal sette gennaio al dodici novembre sedici pagine, tre illustrazioni
Tappe fondamentali, che si sono proiettate sul linguaggio e l’espressività, con quanto ne è conseguito e ancora consegue Relazione attorno al dagherrotipo diciotto pagine, tre illustrazioni
1839. Fotogenico disegno dieci pagine, quattro illustrazioni
1888. Box Kodak, la prima diciotto pagine, quarantacinque illustrazioni
1913-1925. L’esposimetro di Oskar Barnack ventiquattro pagine, cinquantotto illustrazioni
1947 (1948). Ed è fotografia, subito ventiquattro pagine, sessantadue illustrazioni
1981. La svolta di Akio Morita dodici pagine, ventisei illustrazioni
• centosessanta pagine • nove capitoli in consecuzione più quattro, tre prima e uno dopo • duecentosessantatré illustrazioni 1839-2009 Dalla Relazione di Macedonio Melloni alla svolta di Akio Morita di Maurizio Rebuzzini Prefazione di Giuliana Scimé 160 pagine 15x21cm 24,00 euro
F O T O G R A P H I A L I B R I Graphia srl • via Zuretti 2a - 20125 Milano 02-66713604 • graphia@tin.it
2009. Io sorrido, lui neanche un cenno dieci pagine, ventisette illustrazioni
Le paternità sono ormai certe otto pagine, tredici illustrazioni
2009. Alla fin fine cinque pagine, quindici illustrazioni
DOPPIO V A oltre sessant’anni dalla Rivoluzione comunista, Mao Zedong continua a sorvegliare i cinesi dalla porta di ingresso della Città Proibita, in piazza Tiananmen, a Pechino. E tra gli sconfitti del capitalismo torna la nostalgia del Grande Timoniere.
Cienfuegos. Il Che, aureolato da una nuvola bianca, guarda la criniera del leone. A un certo punto, in Germania, qualcuno stampò un manifesto del Che con la scritta: «Ho un poster di ciascuno di voi a casa mia: Che».
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di Angelo Galantini
eicolata attraverso il circuito delle Librerie Feltrinelli, la mostra itinerante Doppio rosso, della brava e attenta Neige De Benedetti, ha rintracciato la sua collocazione più adeguata. Infatti, come è noto e risaputo, le radici di questa imponente catena di librerie italiane si individuano nell’idea originaria di Giangiacomo Feltrinelli (morto in circostanze non chiarite, il 14 marzo 1972, su un traliccio dell’alta tensione, alle porte di Milano, in tempi di intense agitazioni sociali), che partì da una impostazione fortemente indirizzata dalla sua visione del mondo: nel quale il comunismo aveva un ruolo fondamentale (da cui, le sue frequentazioni della Cuba di Fidel Castro e Ernesto Che Guevara e della dissi-
denza sovietica; tra l’altro, la nascita dell’iconografia del Che si deve proprio a Giangiacomo Feltrinelli; FOTOgraphia, marzo 2000, luglio 2001 e aprile 2012). Così, oggi, le Librerie Feltrinelli ospitano questa avvincente visione/osservazione fotografica che contrappone tra loro, oppure accosta tra loro, i due regimi socialisti/comunisti più significativi dei nostri tempi. Ciascuno con le proprie caratteristiche e, perché non riconoscerlo?, le proprie stridenti contraddizioni. Certo, la fotografia non ha modo e mezzi per indagare a fondo sfumature politiche che sfuggono all’apparenza quotidiana, per manifestarsi in altri modi e diverse maniere. Però, pur avvicinando sembianze a tutti raggiungibili, la brava Neige De Benedetti ha composto i tratti di un racconto comparato assolutamente coinvolgente. Sia in mostra, sia sulle pagine della mono-
ROSSO grafia che raccoglie l’intero lavoro, Doppio rosso contrappone l’attualità di Cuba, a oltre cinquant’anni dalla presa del potere da parte di Fidel Casto (Primo gennaio 1959, con la fuga del dittatore Fulgencio Batista, la notte di capodanno), a quella cinese, a sessant’anni abbondanti dalla proclamazione della Repubblica popolare (Mao Zedong, in piazza Tienanmen, a Pechino, il Primo ottobre 1948). Cuba e Cina sono agli antipodi, sia geograficamente, sia socialmente, sia per cifre tra loro incomparabili (a partire, magari, dalla popolazione). Per quanto ufficialmente ispirate alla medesima ideologia, alla quale Fidel Castro è però arrivato dopo, per conseguenza e -forse- convenienza (alleanza con la potente Unione Sovietica), le due esperienze politiche sono altrettanto distanti. Si è soliti affermare che la rivoluzione cinese, gui-
Fantastico reportage realizzato su un binario che scorre parallelo, per avvicinare l’attualità di Cuba e Cina (Repubblica popolare), due paesi che hanno/avrebbero applicato lo stesso modello originario (di socialismo/comunismo) e che hanno poco o nulla in comune: questo è certo. Con scrupolo e diligenza di eccellente levatura fotografica, la giovane Neige De Benedetti ha confezionato una stupefacente comparazione. In avvincente e convincente mostra itinerante e in monografia d’autore
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Shaolin. Con il tempo si può assomigliare anche alla statua che si è chiamati a pulire. I cinesi ritengono che la tartaruga possa reggere il peso del mondo, come un operaio fedele alla patria. Però, sedici ore di lavoro al giorno sono troppe, anche nel nome dell’orgoglio nazionale.
Camagüey. L’uomo è caduto a un passo dal traguardo. Segue lettera.
data da Mao Zedong, sarebbe stata un modello di metodo; mentre quella cubana, avviata con l’assalto alla Caserma Moncada, il 26 luglio 1953, da cui il Movimento del 26 luglio, sarebbe invece stata un campione di irregolarità. In ogni caso, ciascuno a proprio modo, i due partiti comunisti sono simbolici: uno dell’applicazione di un modello comunque sia caraibico, con quanto ne può conseguire nel quotidiano,
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l’altro per l’applicazione di un piano volto a fare della Cina la più grande potenza del mondo. Da cui, un partito comunista che se la deve vedere con enormi disagi quotidiani e l’altro che si è affermato come il più autorevole ed energico al mondo... anche se il modello originario si è sicuramente perso per strada. Non è una turista, Neige De Benedetti, perché la sua fotografia va ben oltre gli stilemi della fo-
Kunming. In Cina, nel 2010, ricorreva l’anno della Tigre, animale sacro pressoché estinto nella nazione a causa della deforestazione e del bracconaggio alimentato dalla medicina tradizionale. Nel 2012, si celebra l’anno del Drago, il più fortunato per l’Asia.
Santiago de Cuba. Essere allegri, tra l’uscio e il muro.
toricordo. Ma, allo stesso momento, ha realizzato un affascinante reportage in doppio, applicando alcuni dei tratti distintivi della fotoricordo, in colta declinazione. Non si è comportata da colonialista in visita, ma si è mossa per le strade con la curiosità del testimone raffinato, capace di fotografare con straordinario amore: niente è freddo e distaccato, tutto è coinvolgente e avvincente. Ancora, non ci sono risposte, che forse tra-
spaiono dai testi di accompagnamento alla monografia, pubblicata da Skira, scritti da Adriano Sofri e Giampaolo Visetti. Ma ci sono spunti attraverso i quali ciascuno può accodarsi al viaggio compiuto dalla brava fotografa. In fondo, ma neanche poi tanto in fondo, la fotografia non ha modo di proporre soluzioni, quanto quello di indicare problematiche: situazioni, volti, scene stradali in accostamento sim-
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Lhasa. La bandiera della Repubblica popolare sventola sul tetto del Potala, dividendo i colori dei vessilli tibetani.
L’Avana. L’edificio americano (Ufficio di interessi Usa), che rappresenta qualcosa ma non la rappresenta, data l’assurda protrazione dell’embargo e del mancato riconoscimento: è perfino vietato fotografarlo. A destra, in alto, la bandiera cubana; a sinistra, in basso, lo slogan cubano “Patria o morte”. Bandiere e slogan si gonfiano con il vento, finché il vento non se le porti. Doppio rosso, di Neige De Benedetti; testi di Adriano Sofri e Giampaolo Visetti; Skira, 2012; 168 pagine 24x24cm; 30,00 euro.
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bolico, oltre che effettivo, rivelano similitudini e diversità tra Cuba e Cina. Non sono le istituzioni a parlare, con il proprio linguaggio ingannevole, ma è la gente che si presenta e offre per se stessa, attraverso una mirabile sequenza di immagini: non l’una contro l’altra armate, ma una insieme all’altra evidenti. Di più: indiscutibili. Viaggio straordinario in due realtà partite dalle medesime intenzioni e sollecitazioni, ma ap-
prodate a un quotidiano estremamente diverso: che la fotografia di Neige De Benedetti rivela e sottolinea con scrupolo e partecipazione. Grazie tante. ❖ Avviata alla Libreria Feltrinelli di Verona, dal dodici luglio al trentuno agosto, la mostra Doppio rosso, di Neige De Benedetti, prosegue alle Librerie Feltrinelli di Genova, Firenze, Bologna e Roma (autunno-inverno) e poi in quelle di Napoli, Catania, Bari, Mestre, Padova, Torino e Palermo (nel 2013).
Indirizzata soprattutto ai fotografi professionisti dello sport e della natura, ai non professionisti più esigenti e ai videomaker dei nostri giorni, Canon EOS 7D presenta e offre una fantastica combinazione di caratteristiche, tutte rivolte e proiettate alla migliore qualità fotografica. Attorno al sensore CMOS APS-C da 18 Megapixel, si segnalano un doppio processore DIGIC 4, per elaborazioni estremamente rapide e ottimi risultati in ogni condizione di luce, una gamma di sensibilità espandibile a 12.800 ISO equivalenti, lo scatto continuo fino a otto fotogrammi al secondo alla massima risoluzione e la registrazione di filmati FULL-HD. Ora, le prerogative originarie sono sostanziosamente incrementate, grazie al nuovo firmware v2. Basato sull’alta velocità della reflex, sulla gestione avanzata delle sue caratteristiche e sulla versatilità creativa, il firmware offre una consistente serie di vantaggi, tra i quali una maggiore rapidità di sequenza RAW, funzioni di editing in-camera, Auto Iso definibile dall’utente e supporto per il più recente dispositivo GPS Canon GP-E2.
Controlli extra in fotografia e video. L’efficace e convincente nuovo firmware v2 interviene anche su altri parametri di utilizzo di Canon EOS 7D. Anzitutto, il nuovo controllo su Auto ISO consente di limitare il valore massimo ISO equivalente a qualsiasi livello, all’interno della gamma nativa, da 400 a 6400 ISO equivalenti. Offrendo un maggiore controllo sull’esposizione, questa regolazione consente di personalizzare la sensibilità massima ISO automatica per soddisfare specifiche intenzioni creative. Una migliore funzionalità audio nelle riprese video fornisce ai videomaker un maggiore controllo durante la ripresa. Si possono integrare i filmati video FULL-HD (1920x1080p) con audio stereo digitale a 16bit, con campionamento a 48kHz di qualità broadcast; inoltre, il nuovo controllo manuale dei livelli audio dispone di sessantaquattro posizioni. Un filtro digitale antivento, tecnologia proprietaria, riduce il rumore generato dal movimento dell’aria intorno al microfono, assicurando un suono chiaro e libero da interferenze periferiche.
EOS 7D: ancora un passo avanti Attivando nuove caratteristiche di uso, il firmware v2 aggiorna le prestazioni di Canon EOS 7D, migliorando il già ottimo progetto originario.
Prestazioni RAW migliorate. Con un sensore CMOS APS-C da 18 Megapixel, doppio processore DIGIC 4 e una gamma di sensibilità espandibile fino a 12.800 Iso equivalenti, Canon EOS 7D offre rapidità di scatto e alta qualità a una velocità massima di ben 8 fotogrammi al secondo. Grazie al nuovo firmware, che aggiunge potenti algoritmi di gestione della memoria (derivati dalla serie ammiraglia Canon EOS-1), è ora possibile ottenere una maggiore durata di scatto continuo: fino a 25 file grezzi RAW o 130 compressi JPEG. Valutazione ed elaborazione in-camera. Una gamma di nuove funzioni di editing concede più controllo sulle immagini, consentendo di iniziare la post-produzione già in-camera. Ora, si possono elaborare i file grezzi RAW e correggere vignettatura, distorsione e aberrazione cromatica direttamente dalla reflex. Inoltre, è possibile regolare il bilanciamento del bianco, la nitidezza e scegliere i Picture Style più adeguati, oltre ad altri parametri modificabili subito dopo la ripresa, i cui risultati possono essere salvati come nuovi file JPEG, peraltro ridimensionabili senza la necessità di un computer. Quindi, i fotografi possono facilmente filtrare grandi volumi di immagini sulla via del ritorno da una sessione operativa, utilizzando la funzione di assegnazione delle identificazioni alle immagini. I dati vengono memorizzati nei metadati di ogni file, e possono essere letti da ogni applicazione di editing, tra le quali l’efficace Canon Digital Photo Professional e altri software (Apple Aperture, Adobe Lightroom e Bridge).
Traccia dei viaggi con la compatibilità GPS. Il firmware v2 fornisce anche la possibilità di tenere traccia del luogo nel quale sono state realizzate le immagini. Il ricevitore GPS Canon GP-E2 viene fissato alla slitta porta accessori e collegato tramite un cavo: per “taggare” le fotografie con i dati di longitudine, latitudine e altitudine e direzione dello scatto. Queste informazioni sono aggiunte nel file Exif dell’immagine. Un Logger GPS tiene traccia dei movimenti di percorso, scaricando i dati GPS a intervalli regolari, e la compatibilità con Google Maps consente di visualizzare facilmente l’itinerario nel software gratuito Canon Map Utility.
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IO SONO LA LASTRA 1999 (31X25cm; COLLEZIONE
PRIVATA)
MULTIPLE ;
BROCCA ; 1980-1981 (25X24,5cm; COLLEZIONE
ESPOSIZIONI
PRIVATA)
«Io sono la lastra, ho bisogno di poca luce, di un sospiro, di un soffio di luce». Franco Vimercati si è espresso attraverso la fotografia come artista e come uomo; lui e la sua opera sono stati la stessa cosa. Dal Primo settembre, una avvincente ed esaustiva mostra personale è allestita nelle sontuose, prestigiose e autorevoli sale di Palazzo Fortuny, di Venezia: Franco Vimercati. Tutte le cose emergono dal nulla, a cura di Elio Grazioli
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PRIVATA)
ROVESCIATE ; 1997 (32X25,5cm; COLLEZIONE
di Angelo Galantini (dalla presentazione della mostra)
A
rtista straordinario, dopo gli studi all’Accademia di Brera, a Milano, Franco Vimercati si è avvicinato al mondo dell’arte, che negli anni Sessanta ruotava attorno identificate gallerie milanesi e al mitico Bar Jamaica, nei pressi dell’Accademia stessa, ritrovo di personaggi che hanno animato un tempo e un’epoca (anche fotografica). Ben presto, si è concentrato nella fotografia, individuata e frequentata come avvincente mezzo di espressione. È stato influenzato dalle riflessioni di autori internazionali di riferimento, dai contemporanei Diane Arbus, Lee Friedlander e Robert Frank, che hanno agito nella cultura statunitense, alla straordinaria parabola di August Sander, dell’inizio del Novecento. Al pari del grande autore tedesco, Franco Vimer-
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cati è stato sostanzialmente un contemplativo, non interessato all’azione come tale; piuttosto, si è concentrato su un unico soggetto, facendo proprie le esperienze concettuali e minimaliste. Ora, a una dozzina di anni dalla prematura scomparsa, la fotografia di Franco Vimercati (1940-2001) è celebrata da una imponente mostra personale, a cura di Elio Grazioli, con progetto di allestimento di Daniela Ferretti. A tutti gli effetti, Franco Vimercati. Tutte le cose emergono dal nulla si offre e propone come la più esaustiva dedicatagli: nelle sontuose, prestigiose e autorevoli sale di Palazzo Fortuny, di Venezia, dal Primo settembre.
PERCORSO ESPRESSIVO Fin dall’inizio dell’azione artistica di Franco Vimercati -che nel proprio tragitto ha avuto anche una frequentazione fotografica diretta, come art director della prima delle edizioni italiane di
PRIVATA)
ROVESCIATE ; 1997 (30,7X25cm; COLLEZIONE
Zoom- è emersa l’idea di serialità: già nel 1975, le immagini di piastrelle e, due anni dopo, quelle delle doghe del parquet, fino al grande lavoro delle trentasei fotografie di bottiglie di acqua minerale Levissima (trentasei scatti, uno diverso dall’altro, tutti in bianconero). Questo interesse si sarebbe espresso in seguito in quello che è considerato il suo lavoro più rappresentativo, il ciclo delle terrine di porcellana. Circa ottanta fotografie realizzate in un arco di tempo esteso dal 1983 al 1992. Quindi, da qui hanno preso forma le sue variazioni come in musica. Franco Vimercati non ha mai amato la folla, il chiasso, il mondo delle gallerie d’arte, il mondo esterno in generale. La sua casa è stato il suo spazio vitale e gli oggetti che vi trovava i suoi soggetti: piccoli vasi, un bicchiere di un ferro da stiro, una grattugia, un bricco del latte, una caffettiera. Come affermava, si tratta del piacere di lavorare senza essere disturbato dal soggetto:
«A me interessa che scocchi la fotografia, non mi interessa leggere l’oggetto, ma assistere, ogni volta, a questo miracolo».
MIRACOLO E il “miracolo” si è ripetuto ancora nelle immagini rovesciate, ovvero così come sono realmente “viste” dalla macchina fotografica, e in quelle sfuocate, che, come ha avuto modo di precisare l’autore, non hanno neppure la fase della messa a fuoco. L’effetto è meraviglioso: più che fotografie, sembra di incontrare effetti luminosi quasi di sogno. Siamo di fronte a infinite variazioni dal nero al grigio, con qualche tocco più chiaro, che smaterializzano l’oggetto, varcando la soglia della poesia. Nella stampa su carta, i soggetti vengono spesso ingranditi in modo consistente, dando all’oggetto una presenza particolare, quasi senza sfondo, che ne esalta le forme in senso astratto. Al-
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PRIVATA)
1974 (16X11cm; COLLEZIONE MINUTO DI FOTOGRAFIA ;
UN
tre volte, vengono rimpiccioliti, facendo riferimento, come annotava l’autore, alla precisione delle incisioni degli antichi maestri. Nel 1999, Franco Vimercati ha avviato il ciclo di immagini sovrapposte, che danno l’effetto di un tremolio: la rappresentazione di una rotazione del soggetto, come risulta più evidente l’anno seguente, in una piccola serie raffigurante un bricco del latte. Spesso, Franco Vimercati viene paragonato a Giorgio Morandi, pittore che ha amato anche senza identificarsi con la sua opera; ambedue hanno espresso la tendenza a fare dell’oggetto comune un pretesto per avvicinarsi a mondi e sentimenti diversi. Le fotografie di Franco Vimercati hanno quasi la funzione del mandala: guardandole, si entra in uno spazio fatto di sentimenti profondi, si varca una porta che sta solo a noi oltrepassare. Nel 2001, Franco Vimercati muore improvvisamente. Il suo carattere schivo ha fatto nascere una leggenda, che lo vuole
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recluso in costante meditazione su un unico oggetto, quasi fosse un eterno mantra che -di volta in volta- prende forme diverse, ma in essenza è la stessa cosa. Lui minimizzava, asserendo che credeva sostanzialmente solo nel lavoro, nell’etica del lavoro, nel piacere del lavoro, senza essere disturbato dal soggetto. Credeva nella possibilità di togliere pian piano alla fotografia la parte letteraria, finché non rimanesse nient’altro che lo scatto. Franco Vimercati si è espresso attraverso la fotografia come artista e come uomo; lui e la sua opera sono stati la stessa cosa: «Io sono la lastra, ho bisogno di poca luce, di un sospiro, di un soffio di luce». ❖ Franco Vimercati. Tutte le cose emergono dal nulla, a cura di Elio Grazioli, con progetto di allestimento di Daniela Ferretti. Palazzo Fortuny, San Marco 3958, 30124 Venezia; dal Primo settembre al 19 novembre; mercoledì-lunedì, 10,00-18,00.
A proposito di di Michele Smargiassi
ANCORA STENOPEICO
A
Annunciato e presentato in FOTOgraphia, dello scorso marzo, sabato diciannove maggio si è svolto il convegno Lo specifico stenopeico. Filosofia e pratica della fotografia stenopeica, con la partecipazione, tra gli altri, di Beppe Bolchi, Carlo Emanuele Bugatti, Luigi Cipparrone, Guido Frizzoni, Vincenzo Marzocchini, Maurizio Rebuzzini, Michele Smargiassi e Dino Zanier: a Senigallia, in provincia di Ancona, nella Sala del Trono del Palazzo del Duca (con straordinario soffitto costituito da una struttura lignea a cassettoni). Una sintesi in estratto delle relazioni svolte è stata pubblicata sul Blog accessibile dal nostro sito www.FOTOgraphiaONLINE.it: da mercoledì otto agosto, per sei giorni, fino a lunedì tredici, gli interventi di Vincenzo Marzocchini, Beppe Bolchi, Dino Zanier, Luigi Cipparrone Michele Smargiassi e Maurizio Rebuzzini. Qui e ora, riportiamo quanto annotato da Michele Smargiassi, a tutti gli effetti e fuor di dubbio il più attento osservatore della fotografia
tra quanti agiscono nel nostro paese (e il suo valore supera agilmente i confini nazionali): le sue rilevazioni sono sostanziali e definiscono esattamente la problematica. Da cui, e per cui, è doveroso ripeterle. Prima di farlo, è altrettanto doveroso precisare che, mentre molti di noi che ci occupiamo di fotografia (oseremmo quantificare, tutti) siamo partiti da questa, dalla passione per la fotografia, Michele Smargiassi declina il suo interesse decollando da una fantastica coniugazione del suo essere giornalista di valore: attualmente, per il quotidiano La Repubblica e suoi allegati periodici, dalla redazione di Bologna. Ancora, sottolineiamo lo spessore di contenuti del suo Blog Fotocrazia (http://smargiassi-michele.blogautore.repubblica.it/): una delle letture più confortanti che vengono offerte quotidianamente dalla Rete. E poi, ancora, annotiamo l’ottimo Una autentica bugia. La fotografia, il vero, il falso, pubblicato da Contrasto, nel 2009. A.G.
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PATRIZIA LO CONTE
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Da quando so di dover intervenire a questo convegno, cercando di non dire castronerie su un argomento che non conosco fino in fondo, mi faccio una domanda: potrò chiamare la scatola stenopeica “macchina fotografica”? Be’ fotografica sì, credo ci siano pochi dubbi. Ma è una macchina? Tutto sarebbe più facile se questo convegno si svolgesse in un paese anglofono, perché tutti diremmo camera (io per la verità dico e scrivo più spesso fotocamera che macchina fotografica, ma ora che ci penso lo faccio più per ragioni di brevità che per quelle che sto per dire). Camera, la stenopeica lo è di sicuro, camera obscura per eccellenza. Ma tutte le macchine fotografiche sono, alla base, delle camerae obscurae. Vale anche l’inverso? Tutte le camerae obscurae con una superficie sensibile sulla parete di fondo sono macchine fotografiche? No, credo di no. La macchina fotografica è una camera obscura che possiede un meccanismo. Sarebbe stato ancora più facile se fossi stato invitato a un convegno francofono, perché allora staremmo parlando di apparecchio fotografico. Definizione già più ampia di camera obscura. Un apparecchio è un’organizzazione di oggetti diversi disposti in modo che il loro insieme risponda a uno scopo preciso. La tavola apparecchiata serve per mangiare. Ma non ci siamo ancora. Ma non è una macchina per mangiare. La stenopeica è
un apparecchio fotografico, ma è anche una macchina? Siamo daccapo. Ma non posso, e a questo punto non voglio, eludere la domanda che mi sono fatta da solo. Definiamo allora “macchina”. Macchina è un apparecchio, un apparato, capace di svolgere, una volta ricevuto un input, una sequenza di operazioni distinte e orientate a uno scopo, operazioni che producono un lavoro. L’uomo usa una grande quantità di oggetti da lui costruiti per facilitarsi il lavoro, ma solo alcuni sono capaci di compiere da soli queste operazioni. Un cacciaviti è una protesi del braccio umano, imita amplifica e migliora le performance del corpo umano, ma non è una macchina, non sa effettuare altre operazioni oltre a quelle che direttamen-
Straordinario osservatore della fotografia, il giornalista Michele Smargiassi ha svolto una avvincente relazione nell’ambito del convegno Lo specifico stenopeico. Filosofia e pratica della fotografia stenopeica, a Senigallia, in provincia di Ancona, lo scorso diciannove maggio: riportato in queste pagine.
te, singolarmente imprimiamo loro coi movimenti del nostro corpo. La macchina sa fare qualcosa anche mentre noi aspettiamo che lo faccia per noi. La macchina lavora mentre noi siamo inattivi, o in osservazione. Ogni macchina insomma ha un programma, che l’operatore può avviare, che può predeterminare con una serie di scelte iniziali, ma che poi lascia svolgersi fino al compimento del lavoro richiesto. Dunque, per sapere se posso chiamarla macchina, ora dovrei chiedermi se la scatola stenopeica abbia un programma. Si direbbe, a prima vista, di no. Niente ghiere, niente pulsanti, niente ingranaggi che scattano o si muovono uno dopo l’altro. Ma attenzione, ripeto, macchina non è sinonimo di congegno meccanico, ma di
apparato programmato per compiere un’operazione. E allora direi che la camera stenopeica è a tutti gli effetti una macchina fotografica. Per produrre una fotografia stenopeica bisogna dare un input iniziale: togliere il tappo al forellino. Poi si lascia che il programma svolga la sequenza di operazioni a cui è predisposto: quali? Be’, la luce entra attraverso il forellino, attraversa un certo spazio oscuro, si proietta su una superficie sensibile pronta ad accoglierla, una carta rivestita di emulsione che è stata fabbricata per lasciarsi impressionare in un certo modo, tempo e misura, secondo tabelle predeterminate che conosciamo e di cui teniamo conto; dopo qualche minuto, conteggiato dall’operatore, egli chiude il tappo, e la sequenza è terminata. Il dispositivo ha svolto il proprio compito. Direte: ha fatto tutto l’uomo. Ovviamente no, non è così. Ha fatto tutto la macchina, a cui l’uomo ha dato una mano. Ha partecipato alla sequenza programmata togliendo il tappo, contando il tempo e chiudendo il tappo. Si è prestato a fungere da otturatore. È diventato, consapevolmente, uno degli elementi del dispositivo. Si è fatto programma, si è fatto macchina. Ora, io non voglio fare il guastafeste a tutti i costi. Ma perdonatemi, sono fatto così, cerco sempre qualcosa da mettere sull’altro piatto della bilancia quando mi pare non sia equilibrata. E allora, a costo di fare una indelicatezza come ospite di un convegno in lode della fotografia stenopeica, vorrei provare a equilibrare qualche eccesso di entusiasmo anti-tecnologico, comprensibile ma poco fondato, che a volte sento aleggiare attorno a questa pratica fotografica così singolare e affascinante. Dunque mi sento di affermare che la fotografia stenopeica non è la liberazione dalla tecnica e dai suoi limiti e dai suoi obblighi. Non sperate di liberarvi dalla macchina fotografica. Non è possibile. Oso dire anzi che c’è fotografia solo dove c’è meccanismo programmabile (infatti continuo ad avere molti dubbi che l’offcamera, i rayogrammi, i fotogrammi, ecc possano rientrare a pieno titolo nel campo del fotografico).
PATRIZIA LO CONTE
A proposito di
Giornalista della redazione bolognese di La Repubblica, Michele Smargiassi è autore dell’ottimo saggio Una autentica bugia. La fotografia, il vero, il falso (Contrasto, 2009), uno dei più affascinanti sulla lettura e decifrazione delle immagini falsificate. Da seguire il suo eccezionale Blog Fotocrazia (http://smargiassimichele.blogautore. repubblica.it/), il più avvincente e convincente tra quanti (troppi?) si occupano di fotografia.
Con questo non voglio negare che la stenopeica sia una pratica speciale e in qualche modo liberatoria. Voglio dire che quel che distingue la stenopeica dal resto della fotografia non è, come molti pensano più o meno chiaramente, la sua presunta capacità di liberare il fotografo da quel fastidioso senso di estraneità che si prova maneggiando una fotocamera, quell’impressione (fondatissima) di concorrenza-competizione con la macchina fotografica che impone di venire in qualche modo a patti con la volontà autonoma di un meccanismo capace di produrre immagini anche in modo autonomo. Temo ci sia un certo snobismo anti-tecnologico, a volte, nelle rivendicazioni degli stenopeici, nella loro filosofia dell’immagine, che va superato, perché è uguale e contrario alla tecno-euforia dei malati di digitale estremo. (Non sto parlando solo e tanto di chi, nella povertà francescana della stenopeica, è riuscito a introdurre la sofisticazione ultra-tecnologica dei forellini fatti col laser). Entrambi gli estremismi, della tecnologia e dell’anti-tecnologia, condividono un disagio nei confronti dell’apparato con cui sono costretti a collaborare e cercano di minimizzarne il ruolo. Gli stenopeici perché pensano di usare strumenti così semplici da essere pressoché inesistenti, i tecno-euforici perché si sentono pienamente padroni di strumenti potentis-
simi. Entrambi hanno in realtà una gran paura che la fotocamera sia più brava di loro, sia la vera autrice delle fotografie che fanno, e cercano di convincersi del contrario. Ma è proprio così, con questa incoscienza, che ne diventano gli schiavi. Ora, è evidente che il processo stenopeico è infinitamente più trasparente, ispezionabile, manipolabile dall’operatore, dei software sigillati delle fotocamere di oggi. Certo, la stenopeica si avvicina molto al grado zero del processo fotografico, al minimo necessario perché quel processo possa definirsi tale: un obiettivo senza lente, una camera obscura, una superficie sensibile. Ma quel grado zero è ancora un processo, è ancora un programma, e questo fa dello strumento una macchina, e nessuna macchina è neutrale, disciplinata e docile ai voleri di chi la fa funzionare. Attenti allo snobismo dell’anti-tecnologia. Si converte facilmente nel suo contrario. La stenopeica può forse essere l’equivalente delle verdure ogm free, è sicuramente al riparo dalle alienazioni dei software, ma non è la “fotografia biologica”, non è la versione naturista della fotografia, non è la fotografia nudista. Non è possibile. La fotografia è per definizione immagine tecnica, e ciò che la fa diversa da ogni altra immagine prodotta dall’uomo per decine di migliaia di anni è precisamente il fatto di essere prodotta con l’ausilio di un apparato programmato per effettuare un prelievo di impronte luminose dal mondo fisico, e per farlo con quella relativa automaticità che garantisce, appunto, che sia un prelievo e non un’imitazione manuale. Possiamo, anzi dobbiamo cercare di essere più consapevoli possibile del funzionamento di questo processo, per non farcene sopraffare, per non diventarne schiavi, funzionari obbedienti, burocrati spingibottoni eterodiretti. La stenopeica ci aiuta a tornare alle basi intuitive, comprensibili del meccanismo fotografico. Ma se anziché comprenderlo per tenerlo sotto controllo pensassimo che abbiamo eliminato questo imbarazzante “collaboratore tecnico” che è anche un collaboratore creativo, se pensassimo di avere ridotto la macchina fotografica a un pen-
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A proposito di STENOPEICO. SENZA RELIGIONE!
PATRIZIA LO CONTE
Confermo, ribadisco e ripeto: la fotografia, che deve essere un inviolabile gesto d’amore, non dipende mai da come la si realizza, ma perché lo si fa. Sì, l’applicazione volontaria e consapevole del foro stenopeico -motivo conduttore e traccia indelebile di questo incontro/convegno- introduce una serie di valori che condivido e che mi sono particolarmente cari. Prima di tutto, e oltre tutto, per quell’attimo, che si fissa indelebilmente nel cuore e animo di ciascuno, dove rimarrà custodito per sempre, pronto a tornare in superficie per evocare vibranti emozioni. Per come la intendono in molti, la proiezione del foro stenopeico, così come la creazione di ogni immagine fotografica (chimica o digitale, poco conta), ribadisce quel processo creativo con il quale “la natura si fa di sé medesima pittrice” (espressione presa a prestito da evocazioni antiche, dell’epoca nella quale alcuni pionieri sperimentavano le strade chimiche della formazione automatica di immagini: che poi avremmo definito “fotografia”). No, come ogni altra arbitrarietà fotografica, anche il foro stenopeico elevato ad assoluto, a religione, dischiude porte che avviano in luoghi imbarazzanti e inquietanti. Per quanto segua con passione questa espressione fotografica, che affonda le proprie radici indietro nei secoli, addirittura in tempi antecedenti la nascita della fotografia, in coincidenza di visione, sono anche convinto che molte frequentazioni stenopeiche dei nostri giorni, non tutte, per fortuna, rappresentino anche una malaugurata scorciatoia: per gli imbecilli che non hanno modo di esprimersi con capacità autentica. Come distinguere l’una intenzione e dimensione dall’altra? Con il cuore, prima che con altri criteri. (Da e con Pino Bertelli, straordinario filosofo di strada della fotografia) Solo i poeti sanno veramente parlare della libertà, dolcissima e inebriante: il dire senza steccati (né religioni) è sempre una sfida all’indicibile, è vivere se stessi come verità che riporta e diffonde l’impensato. Soprattutto nel caso della fotografia stenopeica (ben declinata, con intenzioni d’amore), il fascino estraniato e stregato della fotografia rimanda alla parola mai detta, all’infelicità mascherata, alla violenza esasperante della quotidianità mai affrontata. In una creatività applicata, quale è quella fotografica, quale è quella stenopeica, definita da differenze espressive immortali, il territorio della sua manifestazione esplicita è quello dell’immaginazione che va oltre l’immagine. Con Giacomo Leopardi: «L’anima s’immagina quello che non vede»... soprattutto se osserva la proiezione della luce prodotta da un piccolo foro, senza altre mediazioni. Allora: se il linguaggio fotografico è -come effettivamente è- una straordinaria combinazione di regole logiche e usi arbitrari, la fotografia tutta (senza religioni, senza chiusure, senza barriere) deve essere un fantastico atto d’amore: solo l’amore si accorda con quella situazione di verità che restituisce alla vita la bellezza che le è propria. Nel fotografare, ciascuno ha opinioni diverse su ciò che è degno di memoria, ma tutti abbiamo capito che se possiamo rubare un momento dall’aria (magari con una fotografia), possiamo anche crearne uno tutto nostro. Con la fotografia tutta (anche stenopeica, soprattutto stenopeica -senza però aggiungere alcun credo assoluto e riduttivo-), è legittimo e indispensabile approdare a un effettivo riconoscimento di una fotografia che non vale solo per sé, e le proprie intenzioni e/o necessità di partenza, ma per qualcosa di altro che ciascuno trova prima di tutto in se stesso. Maurizio Rebuzzini
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nello, ci vedremmo svanire il giocattolo fra le dita. Salveremmo il nostro orgoglio di creatori unici e assoluti, ma perderemmo la fotografia. Il fotografo stenopeico integrale, quello che fabbrica da solo le proprie scatole, non sta eliminando il ricorso alla macchina. Sta cambiando semmai la sua posizione nella divisione del lavoro del processo fotografico. L’operatore stenopeico si riappropria anche, almeno in una certa misura, della funzione del costruttore, ed elimina insomma dal “collettivo creativo”, prendendo il suo posto, uno dei co-autori di ogni immagine fotografica: il progettista, la persona che ha stabilito le modalità (tecniche e formali) della ripresa. Alcune cose in realtà restano ancora fuori dalla sua portata: le carte e le pellicole e gli chimici di sviluppo si prendono già pronti, fabbricati industrialmente (salvo qualche raro caso di alchimista) e dunque il fantasma di un co-autore remoto esiste ancora. Ma credo di poter dire che il fotografo stenopeico si riprende in grandissima parte i compiti e le prerogative creative che da quando esiste l’industria dei materiali fotografici viene abitualmente delegata ai fabbricanti. Ma questo è il massimo che può fare per riappropriarsi della maggior quota possibile di paternità creativa dell’immagine. Una parte, per quanto piccola, gli resta ancora estranea e inaccessibile, appannaggio di quel piccolo Golem che abbiamo costruito noi stessi, magari con una scatola da scarpe, e che però ora ha una sua autonomia. C’è sempre un punto cieco, quando il fotografo prende la decisione di produrre un’immagine: c’è sempre un breve spazio temporale durante il quale noi lasciamo fare alla macchina il suo lavoro senza intervenire e senza essere ben sicuri di quel che farà. La fotocamera è un cane da riporto, noi lanciamo il bastone ma non sappiamo se e cosa ci porterà indietro. Del resto, non vi dico nulla di nuovo. L’incertezza del risultato, la disponibilità ad accettare il caso, l’errore, l’imperfezione non programmata, la serendipità di un esito non voluto ma felice, un regalo della nostra umile scatoletta, queste cose
PATRIZIA LO CONTE
A proposito di
sono il pane quotidiano dei fotografi stenopeici. Ma allora concentratevi su questo. Perché questa è la fotografia. La fotografia sta tutta in quello scarto fra umano e tecnico, in quella collaborazione fra decisio-
ni della mente umana e leggi della chimica e della fisica organizzate e strutturate in una macchina, creata certo dall’uomo, ma anche Dio che creò l’uomo alla fine dovette rendersi conto che era diverso da sé, e in-
Il convegno Lo specifico stenopeico. Filosofia e pratica della fotografia stenopeica, svoltosi a Senigallia, in provincia di Ancona, il diciannove maggio, è stato una delle iniziative allestite al Palazzo del Duca fino al successivo quattro giugno: soprattutto, mostra di fotografie stenopeiche e di apparecchi artigianali a foro stenopeico.
controllabile. La fotografia è la collaborazione, la competizione, la rivalità, l’accettazione il rifiuto dell’incerto, dell’incontrollabile, dell’Intrattabile (Barthes). Fotografo vero è chi conosce e rispetta (o magari combatte) l’inconscio tecnologico del suo amico-nemico strumento: caro Franco Vaccari, come vedi non dormo sonni tranquilli da quando hai avuto quell’intuizione che mi ha plagiato... Togliamoci dunque dalla testa che la macchina fotografica stenopeica sia la macchina del giardino dell’Eden, la fotografia prima del morso della mela della tecnologia, prima della caduta nel peccato mortale dell’alienazione meccanica. È forse una piccola Arca di Noè su cui possiamo provare a far salire qualche valore da salvare (ne nomino solo uno, già trattato qui: il rapporto col tempo), mentre attorno comincia il diluvio universale della fotografia ubiqua e preterintenzionale dei fotocellulari. ❖
Mi ricordo di Maurizio Rebuzzini
SETTEMBRE 1972-2012
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Scusate se parlo di me, ma la ricorrenza me lo richiede (forse). In questi giorni di settembre, non ricordo la data esatta, ma poco conta, conteggio quarant’anni con le riviste di fotografia. Sono entrato nella prima redazione giusto quaranta anni fa, nel settembre 1972. Per una curiosa serie di circostanze, mi avvicinai al mensile Clic, diretto da Massimo Casolaro, che l’aveva creato e da poco ceduto alla casa editrice Etas Kompass / Etas Tempo Libero. Avevo saputo che cercava collaborazioni per compilare una guida merceologica del mercato fotografico, e mi sono offerto. Lo confesso subito: oltre al Caso (sempre lui), va messo in conto anche l’inganno. Massimo Casolaro voleva esperti di mercato (e altro) e io millantai credito. Non ne sapevo nulla, ma ascoltando le sue requisitorie contro l’Almanacco di Fotografare, dell’odiato (da lui) Cesco Ciapanna, allora leader incontrastato (e lo sarebbe stato per altri decenni a seguire), cominciai a orientarmi. Mi fu affidata la compilazione delle guide mercato delle reflex, dei diaproiettori e dei cineproiettori. Io stavo prestando il servizio militare a Milano, mia città di nascita e residenza (sono stato raccomandato: come tutti i miei seicento commilitoni al Quartier Generale della Prima Divisione Aerea dell’Aeronautica Militare Italiana, con sede in piazza Novelli). Non avevo molti servizi da svolgere, né in caserma né negli uffici; diciamo che ero occupato al massimo per una decina di minuti della mattina, e alle due del pomeriggio uscivamo immancabilmente tutti, in permesso, fino alla tarda serata; un turno di guardia ogni due settimane, e nulla di più. Dunque, avevo tempo a mia disposizione... e potevo accedere a mezzi che mi facilitarono il lavoro. È ridicolo ricordarlo oggi, in tempi di esuberante tecnologia a portata di tutti, ma allora era già un lusso poter disporre di una fotocopiatrice dignitosa: con la quale produssi una serie di schede, poi adeguatamente compilate con i dati dei singoli prodotti.
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Un paio di settimane dopo, tornai da Massimo Casolaro con il lavoro ben confezionato: basato sulla falsariga/traccia dell’Almanacco di Fotografare e sull’aiuto di una consistente serie di cataloghi e dépliant, recuperati da Foto Ottica Artioli, di piazza Venticinque aprile. Se non ricordo male, mi vennero assegnate altre compilazioni, che a fine anno entrarono nell’edizione di una Foto Cine Guida, con la quale lo stesso Massimo Casolaro intendeva soppiantare l’Almanacco. Invece, qualità dei contenuti a parte, tutta soggettiva e tutta da discutere, non successe nulla, e non raccolse neppure credito l’idea della copertina gialla, a imitazione delle (allora preziose) pagine gialle telefoniche. Comunque sia, esattamente nell’autunno di quaranta anni fa cominciò il mio percorso fotografico. Come già annotato in altre occasioni, a questa precedenti, il gioco del destino è perfino curioso, oltre che bizzarro. Infatti, fresco di diploma in ottica (che intravede la fotografia solo di traverso), ero l’unico della mia classe sco-
Foto Cine Guida 1973, ideata e prodotta da Massimo Casolaro, allora direttore di Clic, mensile che aveva appena ceduto alla casa editrice Etas Kompass / Etas Tempo Libero. È stata la prima collaborazione redazionale di Maurizio Rebuzzini, dal settembre 1972: quaranta anni fa.
lastica di sedici totalmente disinteressato alla fotografia. Tutti gli altri erano già competenti, e molti possedevano addirittura reflex di prestigio; ricordo bene una Nikon F, una Pentax Spotmatic e una Canon FT QL. Alla ricerca di un lavoro, di un impiego, all’inizio del successivo 1973, ancora militare (fino a fine febbraio), continuai a frequentare la redazione, che nel frattempo mi assegnò il mio primo articolo. Forza del destino, che da allora mi ha clamorosamente legato alla Leica: avrei dovuto scrivere un commento all’annuncio Leica della dismissione della M4 e probabile uscita dal mercato (!). Quel Leica addio fu il primo articolo che scrissi, documentandomi sugli autori che avevano fatto grande la fotografia a telemetro. Immediatamente a seguire, ancora il Caso. Quell’inverno ci fu un’epidemia influenzale, dalla quale ero immune grazie alle vaccinazioni militari. Solo in redazione, fui raggiunto da una telefonata di Massimo Casolaro, che mi diede istruzioni per mettere assieme gli articoli, già pronti, da lavorare per il numero di febbraio 1973. Sullo schema del numero già stampato di gennaio, sostituii gli argomenti con articoli corrispondenti e analoghi, andando forse a completare qualche buco. Da lì, immediatamente dopo il congedo, entrai in pianta stabile nella redazione di Clic. Non facciamola troppo lunga. Rimasi a Clic fino al settembre 1973, quando venni a sapere che il redattore interno di Photo 13 avrebbe lasciato il suo incarico. Conoscevo e apprezzavo la testata, e mi proposi. Detto, fatto: passai a Photo 13, diretto da Ando Gilardi (mancato lo scorso cinque marzo; FOTOgraphia, aprile e giugno 2012) e Roberta Clerici. Vi rimasi fino al dicembre 1974, quando la testata cessò le sue pubblicazioni, e la casa editrice avviò la prima edizione italiana del francese Photo. Da qui, le collaborazioni, più o meno intense: Fotopratica, Nuova Fotografia (rubrica di storia degli apparecchi fotografici), Reflex (oggi Fo-
Mi ricordo tografia Reflex; ancora rubrica storica), Foto-Notiziario Professionale (diretto da esterno, insieme a Bruno Palazzi), PRO (presto FotoPRO; diretto da esterno per l’Editrice Reflex), Leica Magazine (diretto da esterno per il distributore Polyphoto), Unionfotomarket Informa (periodico del grossista che appena cessato l’attività)... FOTOgraphia, dal maggio 1994. Nel frattempo, dal gennaio 1974, ho avviato anche la professione in fotografia, agendo soprattutto in sala di posa, nello still life (quasi soltanto di oggetti fotografici), che ho continuato in parallelo per decenni, fino a lasciare esaurire questo filone, sulla pressione dei crescenti impegni giornalistici. In tutti i casi, il cammino percorso mi ha portato a considerare la fotografia a trecentosessanta gradi. Tanto che posso tranquillamente affermare una competenza ormai estesa dalla tecnica al linguaggio, alla storia, alla socialità tutta. È stato affermato che scriverei «di linguaggio, tecnica e costume della fotografia applicando idee che, di fatto, abbattono i confini tra i diversi punti di osservazione»; ancora, arriverei «al lessico fotografico partendo dalla presentazione di apparecchi (o fingendo di farlo)», così come, con percorso analogo, inquadrerei e identificherei «l’apporto dell’applicazione tecnica quando affronto il linguaggio espressivo». Quindi, sarei «riconosciuto e stimato
Sicof 1973: lo stand di Photo 13, mensile diretto da Ando Gilardi (mancato lo scorso cinque marzo; FOTOgraphia, aprile e giugno 2012) e Roberta Clerici, alla cui redazione Maurizio Rebuzzini è approdato nell’autunno 1973.
per un apprezzato e confortevole senso delle proporzioni». Si è soliti ipotizzare che il vero luogo natio è quello dove per la prima volta si è posato lo sguardo consapevole su se stessi: la mia prima (e unica?) patria sono stati i libri. La parola scritta mi ha insegnato ad ascoltare le voci; la vita mi ha chiarito i libri. Per la fotografia, ne ho scritti due: Alla Photokina e ritorno, alla fine del 2008, e 1839-2009. Dalla Relazione di Macedonio Melloni alla svolta di Akio Morita, alla fine del 2009. Tra i riconoscimenti professionali, il Premio Giornalistico Assofoto 1984 e il Trofeo Nazionale per la stampa specializzata (Benevento, 1999). E, soprattutto, l’ambìto e prestigioso Horus Sicof, assegnatomi nel mag-
gio 1997: «Da sempre appassionato fotografo professionista e tenace indagatore del mestiere e della cultura fotografica, ha attraversato le grandi stagioni della Fotografia italiana, collaborando a molte tra le più diffuse testate di settore e creandone anche di nuove, soprattutto nel settore professionale. Da alcuni anni, ha fondato e dirige FOTOgraphia, una rivista in cui riversa la sua grande cultura tecnica e la sua acuta competenza culturale. Attraverso di essa contribuisce in maniera decisiva -con i suoi pezzi fatti di misura e di humour, di capacità di sintesi e di attenzione ai dettagli- alla crescita di consapevolezza e di maturità del mondo della Fotografia italiana». Basta: quarant’anni! ❖
Sguardi su
di Pino Bertelli (Piombino, dal vicolo dei gatti in amore, 18 volte maggio 2012)
PAOLA AGOSTI
a Mara Cagol, uccisa tra il pane che profumava ancora di forno e le rose di campo di un’estate violenta
O
Ouverture in forma di eresia. La strada della fotografia è lastricata d’imbecilli che ignorano che ogni immagine equivale a una lordura o a una purezza. La fotografia non s’insegna, si trova nella strada e nei cuori inqualificabili di inadatti a restare nell’ignoranza illuminata dell’arte o della comunicazione seriale, e si danno l’esilio o all’urgenza di rivolte generazionali ai margini dell’eternità. La maggior parte dei fotografi (specie quelli celebrati nel mercimonio, ma anche gli adepti del fotoamatorismo d’accatto non scherzano in fatto di stupidità creativa) non sanno che al fondo poetico, etico, sociale che sta al di là delle apparenze non si accede se non in virtù di lesa maestà dell’ordine costituito. Fotografare significa smascherare le menzogne dei mercati globali, denudare le cosche della politica, denunciare i trafficanti d’armi, scuotere (con tutti i mezzi necessari) le fondamenta delle dittature finanziarie, accendere i fuochi della disobbedienza sotto il culo dei potenti; e questa è la sola espressione accettabile dell’arte di fotografare. «Andate e incendiate il mondo», sosteneva Ignazio di Loyola (e con lui Hélder Pessoa Câmara, uno dei fondatori della Teo-
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logia della liberazione). Solo l’amore dell’uomo per l’uomo e la fratellanza con gli esclusi della Terra è in grado di difendere i diritti umani calpestati dall’indifferenza, dall’oblio e dal disprezzo dei governi. E solo sulla partecipazione autentica dei cittadini alle decisioni che riguardano il bene comune si può stabilire il governo del popolo, visto che tutti i poteri risiedono nel popolo e dal popolo derivano (si legge nella Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino, 1789). «In ogni caso non dovrete trasformarvi in uomini della politica effimera o tanto meno in bonzi di un partito, in segretari di grandi organizzazioni socio-politiche e neppure in puri teoreti delle cosiddette scienze sociali cristiane. Guardatevi dall’aspirare al potere sociale e dall’affermare che si può servire tanto meglio il prossimo quanto più si dispone di potere» (Karl Rahner, gesuita e teologo tedesco 1904-1984). Di là da ogni irremovibile insurrezione dell’intelligenza, non vorremmo altro se non raggiungere la gioia spensierata alla quale gli insorti del desiderio di vivere ci hanno preceduti, e che noi, forse, non raggiungeremo mai, o invece è già qui, nelle nuove primavere di bellezza che hanno schiuso (non solo alla fotografia) le rivolte dei popoli oppressi. Ci affranchiamo dunque a Simone Weil e al suo Manifesto per la soppressione dei partiti, perché «I partiti sono organismi costituiti in maniera da uccidere nelle anime il senso della verità e della giustizia». Chiunque ascenda al potere è sempre l’erede di tutti i vincitori sanguinari e, come è entrato nell’uso comune, i trionfatori di ogni casta si spartiscono il bottino. La legittimazione dell’espropriazione materiale di ogni forma di libertà e della conseguente soggezione di sopravvivenza
di interi popoli passa dall’obbedienza dei nuovi servi a una minoranza di saprofiti. La povertà diventa destino e l’ordine simbolico un prodotto sociale come rappresentazione immaginaria del mondo. Solo una rottura profonda con la temporalità addomesticata dai “poteri forti” può innescare nell’immaginario radicale delle giovani generazioni (dei popoli impoveriti) elementi d’insubordinazione, e quando la forza dell’Utopia si trascolora in insurrezione diventa Storia. E la fotografia? La fotografia che c’entra in questo discorso scanzonato da osteria di porto? Niente!. Come la musica geniale di Mozart usata per una pubblicità di saponi o sui carri armati americani in Iraq (motto di spirito, forse), con le cazzate sempre espresse a ogni levata elettorale dei tenutari dei parlamenti e le falsità celestiali/infernali dispensate dagli impostori delle chiese monoteiste. Un mio amico caro e maestro di eresie (recentemente scomparso) scriveva che «La Fotografia è quel ready made per antonomasia che trasforma in arte un mucchio di spazzatura» (Ando Gilardi). Tutto vero. Come Ando, sento il fascino delle sconfitte: «Gli sconfitti non mi fanno paura, è ai vincitori che non giro le spalle. La guerra sindacale degli anni Cinquanta del secolo scorso -perché è stata quasi una guerra-, per me fu il meglio del niente dopo la guerra partigiana: la macchina fotografica si portava in spalla come il ferro di prima» (Ando Gilardi). Questa è la Fotografia; il resto è merce.
PAOLA AGOSTI FOTOGRAFO Sotto un certo taglio antropologico, Paola Agosti “fotografo” (non è un errore) è una dei pochi testimoni autorevoli della fotografia sociale italiana. Le sue
immagini raccontano le passioni libertarie di un’epoca nella quale gli uomini, le donne osavano avere speranze e utopie, e, attraverso una filosofia della lacerazione, riabilitavano e umanizzavano un’esistenza che i potenti volevano addomesticata. L’immaginario fotografico di Paola Agosti è figurato nell’indignazione, nella passionalità eversiva sovente repressa nel sangue; il suo fare-fotografia non ha mai smesso di meravigliarmi, anche di sbalordirmi: specie per quel suo spirito acuto che riversa nella fotografia senza riguardi a qualsiasi ragion di Stato. Nelle sue immagini colte nella strada (ma non solo) si vede bene che il suo sguardo deborda fuori dalla commedia cronachistica e dalla ritrattistica occasionale. In tempi non sospetti, ha compreso che «L’esercizio del potere non si concilia molto con il rispetto dell’uomo» (Emil M. Cioran), della donna: e tutto ciò che giova alla salvezza e alla potenza dello Stato è male. Il Daimon (lo spirito-guida) del suo fotografare è utopico, mai ingenuo; questo atteggiamento di fronte alla vita quotidiana le evita di soccombere all’imbecillità ideologica e fare della lucidità etica, poetica, esistenziale un dispositivo necessario al superamento del reale per la ricerca del vero. Un’annotazione a margine (lascio agli scrupolosi della croce fotografica internazionale d’inverare e dibattere quello che vogliono). Paola Agosti nasce a Torino, nel 1947. Qui frequenta il Liceo Artistico e l’Accademia delle Belle Arti. Nel 1968, si trasferisce a Roma, e in quegli anni formidabili (dove anche i vini vennero più buoni e le marmellate sapevano di frutta) inizia l’attività di fotoreporter. Viaggia molto in Italia, Europa, Sud America, Stati Uniti, Africa. Nel 1976, inizia ad occuparsi della “condizione femminile” e fo-
Sguardi su tografa l’emersione delle donne in rivolta e di quelle sfruttate. In Riprendiamoci la vita (1977), ferma nel tempo le intemperanze del femminismo; e in La donna e la macchina (1983), raccoglie le immagini delle operaie nelle fabbriche dell’Italia del Nord. Nel 1984, realizza sessanta (magnifici) ritratti di scrittrici e poetesse italiane per la mostra (e il catalogo) Firmato donna, utilizzate poi nel libro di Sandra Petrignani Le signore della scrittura (1984). Importante ricordare la trascrizione visiva del volume di Nuto Revelli, Immagini del mondo dei vinti (1979), dove annuncia con delicata partecipazione la fine della civiltà contadina in Piemonte. Poi è la volta di San Magno, fà prest (1981), con testi di Saverio Tutino, una ricerca antropologica su una festa religiosa nelle valli cuneesi. Con Dal Piemonte al Rio de la Plata (1988), esplora l’emigrazione piemontese in Argentina. Mi pare un secolo. Ritratti e parole (1992), che pubblica insieme a Giovanna Borgese, è un libro d’arte a dire poco stupendo: si tratta di centosei protagonisti della cultura europea del Novecento (con testi a cura delle autrici). Mundo Perro (1993) sono immagini (della tenerezza) sulla condizione dell’esistenza canina. Nel 1988, per il primo Salone del Libro di Torino, cura la mostra e il catalogo dal titolo Volto d’autore, novanta scrittori italiani fotografati da Paola Agosti, Letizia Battaglia, Giovanna Borgese, Fausto Giaccone, Ferdinando Scianna e Franco Zecchin. La mostra è stata poi esposta anche alla Buchmesse, di Francoforte, nel padiglione dell’Italia. Nello stesso anno, per la seconda Conferenza Nazionale dell’Emigrazione, con Maria Rosaria Ostuni, cura la mostra e il catalogo dal titolo L’Italia fuori d’Italia, un assemblaggio di fotografie storiche e contemporanee sull’emigrazione italiana nel mondo. Le sue fotografie sono pubblicate sui principali giornali italiani, libri nazionali ed esteri, utilizzate anche in trasmissioni te-
levisive. Dal 1974 a oggi, ha esposto in numerose mostre personali e collettive, in Italia, Francia, Germania, Canada, Argentina, Stati Uniti e Gran Bretagna. Inoltre, ha svolto workshop sul reportage e sul ritratto. Il compitino è finito. Resta da parlare della fame di fotografia e del realismo magico/androgino che le sue immagini contengono. Fotografie che rigettano il diritto alla misericordia e alla pietà (che sono sempre stupi-
lo fotografica). Ci hanno fatto comprendere che dietro un bel fotografo c’è quasi sempre un bello stupido! La passionalità affabulativa di Paola Agosti si trascolora nell’iconografia gioiosa, sorgiva delle battaglie femministe, nei luoghi di lavoro, nella ritrattistica di uomini, donne attraversati dall’ineffabilità della bellezza, della fraternità e della giustizia sociale. La “fotografa” architetta un immaginario a misura di tutti i
«Ma non voglio parlare di me. Desidero parlare soltanto di fotografia e di ciò che possiamo realizzare con l’obiettivo. Desidero fotografare ciò che vedo, sinceramente, direttamente, senza trucchi, e penso che possa essere questo il mio contributo a un mondo migliore» Tina Modotti, 1926 de) e privilegiano la fotografia delle passioni pervasa da un’aura di giustizia sociale.
SULLA FOTOGRAFIA DELLE PASSIONI Quando la fotografia è rischio, questo è il momento della fotografia. La fotografia autentica emerge dai bordi della tentazione, dove l’innocenza culmina nell’eccellenza etica/strutturale. Paola Agosti è “fotografo” di talento puro, vivo, vero. La sua fattografia visuale riporta lo sguardo al femminile di maestre/eretiche e non servili dell’immagine sociale (Margaret BourkeWhite, Dorothea Lange e Tina Modotti, anche) che hanno disvelato i calunniatori del reale e sostenuto la grande scuola dell’indignazione popolare (non so-
possibili mondi da rivedere, rivisitare o ricostruire. Nel suo fare-fotografia sostiene -a noi sembra- che i piaceri, i desideri, i sogni hanno diritto di cittadinanza, e la felicità è il conseguimento di tutte le disobbedienze e di tutti i valori a venire. Desiderare il desiderio: ecco il culmine dell’amore dell’uomo per l’uomo. Il resto è commedia o tragedia contro l’amore per la vita. Il filo/sguardo tagliente della fotografia di Paola Agosti che più ci piace e commuove si dipana nelle immagini delle donne degli anni Settanta, quando si ri/versarono nelle strade della Terra e cominciarono a sputare contro la stupidità del potere maschile, decise a incrinare violenze subìte sulla lama o
col bastone, da secoli di soggezione maschilista. Ripresero nelle proprie mani antiche rivolte (al femminile) e gridarono (con tutti i mezzi necessari) che non volevano più soltanto il pane e le rose, ma il riconoscimento di essere persone né più né meno degli uomini, e si presero il rispetto dei diritti umani (senza chiedere permesso). A vedere quelle facce, quei corpi, quel gioco di mani e pugni stretti contro il cielo dei padroni dell’immaginario istituito che la “fotografa” ferma nella storia non è difficile scorgere il rapporto complice, amorevole, evocativo della sua macchina fotografica con ciò che finisce in fotografia. Le donne, non importa se femministe, sono riprese nel pieno della propria esistenza insorta e rappresentano una genealogia della morale in azione scevra da tutti i conformismi di sorta. Le sue inquadrature sono asciutte, addossate all’evento e sovente anche un po’ sgangherate; tuttavia, documentano appieno il florilegio di corpi in amore che elevano le donne a soggetti straordinari del proprio tempo e fanno di un’androginia del sentimenti ereticali il crogiolo di nuove visioni del mondo. Sono corpi/messaggeri di libertà sconvolgenti, che portano in sé l’accoglienza, l’uguaglianza, la fraternità, specialmente là dove non ci si aspetta e la si aspetta sempre là dove non c’è mai stata o è stata calpestata dai dogmi della chiesa, del potere, della violenza dell’uomo. Le donne e il lavoro è un altro tema che Paola Agosti sviscera con delicata fermezza, grazia autoriale e notevole compiutezza formale. Fotografie che fuoriescono da una filosofia della carne e spossessano la tirannia del reale nella quale gli uomini hanno affermato improbabili supremazie. Madri in nero nelle proprie case spoglie, operaie alla catena di montaggio e donne che ballano senza l’impudore che i maschi celebrano nelle puttane e nelle sante. Sono immagini che precisano, affinano, correggono
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Sguardi su devozioni imbecilli e rivendicano il corpo come coscienza sociale... di più... in questa trasvalutazione dei valori imposti dall’uomo, le donne iconizzate dalla “fotografa” si nutrono di un eccesso di vitalità dionisiaca che le fortifica: e nel tragitto ludico che le attraversa annunciano nuovi peccati educativi. La fotografia autentica di Paola Agosti ha pochi eguali nella storiografia fotografica italiana. Il suo fare-fotografia ha la capacità e la caparbietà di illuminare la vita concreta. La persona autentica è la persona giusta, è la persona che vive per attuare il bene dentro e fuori di sé, è la persona che ama sopra ogni cosa la verità. Le fotografie di Paola Agosti contengono la bellezza, la giustizia, il bene comune, chiedono la fine del dolore delle donne e mostrano che la vita è tanto più
umana quanto più è libera. La sua ritrattistica è appassionata. A leggere in profondità le immagini/icone di alcuni dei suoi “soggetti”, come Jorge Luis Borges, Emil M. Cioran, Norberto Bobbio, Alberto Moravia, Rita Levi Montalcini e Marguerite Yourcenar (un capolavoro indimenticabile), si riconosce appieno lo sguardo di un maestro che fa della «radura dell’essere» (Martin Heidegger) l’adesione a qualcosa di più grande, che travalica la fotografia e diventa storia. Il senso della realtà e dell’utopia che sborda dalla fotografia di Paola Agosti è carico di verità verso di sé, ed è fonte della coscienza critica in grado di trasformare in vita concreta tutto ciò che scippa alla pelle della storia. La scrittura fotografia di Paola Agosti insorge contro la desertificazione della coscienza e la pietrificazione dei sentimenti.
Nelle sue immagini, il pudore muore nell’innocenza dell’autentico e la «Conoscenza del dolore si trasforma in conoscenza attraverso il dolore» (Michel Onfray). Il suo tessuto fotografico è cosparso di valori che lo percorrono, lo abitano e l’ossessionano. Le sue “corpografie” in bianconero diventano icone di una memoria storica eversiva, mai propedeutica al sistema del mercimonio fotografico, e attraverso l’arte del gioire del giusto, del bello e del buono esprimono un percorso estetico/etico per giungere alla felicità. Là dove la fotografia autentica insorge, la bellezza diventa giustizia. Il resto è trucco. Il grande fotografo non è mai il commesso viaggiatore di idee variamente modificate, tese tutte a cercare un posto nel sottoscala della storia o nelle vetrine mondane del consenso. Il
fotografo autentico è un poeta di strada che non cessa di effettuare variazioni sul medesimo tema che l’appassiona e lo avvolge. La fotografia che vale esige ciò che il cuore esige, è l’affermazione della libertà creativa che nasce nell’atto stesso che l’afferma. La fotografia è uno specchio desiderante che non rigetta l’odore dei poveri e vede nella puzza dei ricchi l’infetta cultura della soggezione. La fotografia toccata dalla grazia del vero è un’epifania dell’immaginario liberato, è un canto d’amore per chi non ha voce né volto o non è nulla. Osare la fotografia significa prendersi la libertà di dire/fotografare ciò che è giusto o sbagliato, e la libertà non è un privilegio che si concede, ma che si prende. Dove c’è amore per l’uomo, per la donna, lì c’è la fotografia autentica. ❖