FOTOgraphia 187 dicembre 2012

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Mensile, 6,50 euro, Poste Italiane SpA - Spedizione in abbonamento postale - D.L. 353/2003 (convertito in Legge il 27-02-2004, numero 46), articolo 1, comma 1 - DCB Milano

ANNO XIX - NUMERO 187 - DICEMBRE 2012

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Richard Avedon S-PUNTI DI RIFLESSIONE Alberto Bregani CIME MAESTOSE

GIOVANNI GASTEL TRA REALTÀ E IMPROBABILITÀ


Mensile, 6,50 euro, Poste Italiane SpA - Spedizione in abbonamento postale - D.L. 353/2003 (convertito in Legge il 27-02-2004, numero 46), articolo 1, comma 1 - DCB Milano

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Abbonamento 2013 (nuovo o rinnovo) in omaggio 1839-2009 Dalla Relazione di Macedonio Melloni alla svolta di Akio Morita

Richard Avedon S-PUNTI DI RIFLESSIONE Alberto Bregani CIME MAESTOSE

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GIOVANNI GASTEL TRA REALTÀ E IMPROBABILITÀ ANNO XIX - NUMERO 186 - NOVEMBRE 2012

Leica e Nikon e Hasselblad RIFLESSIONI E CONSIDERAZIONI E CONTORNI

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ANNO XIX - NUMERO 187 - DICEMBRE 2012

Wolfgang Tillmans NUOVO MONDO

Edward Weston RETROSPETTIVA A MODENA

VISIONE STRAORDINARIA CELEBRATING THE NEGATIVE

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prima di cominciare IMMAGINE A SOMIGLIANZA. Il Primo dicembre, il settimanale SportWeek, magazine del quotidiano La Gazzetta dello Sport, ha presentato in copertina il calciatore del Milan Stephan Kareem El Shaarawy, astro nascente del firmamento sportivo italiano. Non pensiamo (?) che ci possano essere stati i tempi tecnici per “copiare” -replicandola pedissequamente- la copertina dell’edizione europea di Time, che abbiamo presentato lo scorso novembre, illustrata con un profilo del calciatore italiano Mario Balotelli, che gioca nel campionato inglese. Non lo pensiamo (?), perché ci sembrerebbe... troppo spudorato. Però, alla resa dei conti, le due copertine, che qui accostiamo in comparazione, hanno talmente tanti e tali punti fotografici in comune, da farci venire qualche dubbio. In ogni caso, come da copione dei nostri giorni, sul sito web della Gazzetta è proposto il video del backstage in sala di posa.

I fotografi della bruttura sdoganata come arte passano, le loro devastazioni culturali restano. Pino Bertelli; su questo numero, a pagina 64 Abbiamo tanto a cuore ogni qualsivoglia manifestazione fotografica, che finiamo per concentrarci e applicarci a ogni immagine, magari indipendentemente dalla nostra partecipazione al soggetto implicito ed esplicito. Angelo Galantini; su questo numero, a pagina 34 Che la fotografia non sia mai un arido punto di arrivo, ma sempre uno straordinario s-punto di partenza. Per la Vita, verso la Vita. Maurizio Rebuzzini; su questo numero, a pagina 62

Copertina Dal progetto Genesi - Visioni di realtà e improbabilità, che Giovanni Gastel ha realizzato a quattro mani con l’hair-stilyst Franco Curletto: da cui, una edizione in tiratura numerata. Ne riferiamo da pagina 26

3 Altri tempi (fotografici) Reflex con otturatore a tendina Murer: nei formati 6,5x9, 9x12 e 10x15cm. In dettaglio, da un annuncio pubblicitario dell’autunno 1927: ottantacinque anni fa

7 Editoriale Secondo uno stereotipo diffuso, la fotografia varrebbe mille parole. Ma non è proprio vero: ci sono parole che rimangono irraggiungibili (anche dalla fotografia). Però, ahinoi, la caotica socialità in Rete dei nostri giorni sta sostituendo mille parole con una immagine... inutile. Quantomeno, inutile: con quanto ne consegue. Diamine!

8 Uno in più (con noi) Agli undici Taschen Store distribuiti tra Europa e Stati Uniti se ne aggiunge uno virtuale (e ipotetico): nella fantasia dei Simpson, Taschen Store Springfield

10 Notizie Attrezzature, vicende e altre segnalazioni

12 Fotoricordo... la vita Ancora tra le pieghe del film One Hour Photo, per rintracciare avvincenti considerazioni sulla fotografia familiare e qualcosa d’altro. Sempre parole preziose Ricerca iconografica di Filippo Rebuzzini SportWeek del Primo dicembre (El Shaarawy) e Time Europa del quattordici novembre (Mario Balotelli).

16 Sondaggio TIPA 2013 Tra i lettori delle ventinove riviste associate a TIPA


DICEMBRE 2012

RIFLESSIONI, OSSERVAZIONI E COMMENTI SULLA FOTOGRAFIA

19 Dietro le quinte Due valide e convincenti considerazioni sulla fotografia, in forma di manuale illustrato: La visione del fotografo e La mente del fotografo, di Michael Freeman di Antonio Bordoni

Anno XIX - numero 187 - 6,50 euro DIRETTORE

RESPONSABILE

Maurizio Rebuzzini

IMPAGINAZIONE

Maria Marasciuolo

REDAZIONE

21 Oltre le origini

Angelo Galantini

Secondo volume della storia della fotografia (che, alla fine, ne comprenderà quattro), a cura del competente e autorevole Walter Guadagnini: La Fotografia. Una nuova visione del mondo 1891-1940

Rouge

26 Genesi In forma di libro, fantastico progetto di Giovanni Gastel, fotografo della moda con frequentazione anche critica e profondamente valutativa. In allineamento con l’hair-stylist Franco Curletto, in tiratura limitata e numerata, Genesi - Visioni di realtà e improbabilità di Caterina De Fusco

34 Cime maestose La fotografia raccolta nel libro Dentro e fuori le cime, di Alberto Bregani, non si esaurisce con il suo soggetto esplicito, che pure la definisce e caratterizza: Dolomiti di Brenta: tra l’occhio e il passo. Va oltre: vale per tutto quanto ciascuno di noi trova in se stesso di Angelo Galantini

42 Lègami! Legàmi! La preziosa edizione di Nobuyoshi Araki. Bondage riunisce le fotografie di una intera vita, le preferite dall’autore giapponese. A ciascuno, le proprie opinioni al riguardo. Anche le nostre: con doverosi distinguo

48 Sguardi naturali Il Calendario Epson 2013 è illustrato con fotografie del bravo Stefano Unterthiner, uno dei più acclamati fotografi della natura. Da cui: Equilibri naturali Intervista di Lello Piazza

56 S-punti di riflessione Per qualcosa che ci arricchisca il cuore e la mente, ritorno su In the American West, di Richard Avedon, con una testimonianza diretta dell’autore e il racconto visivo della affascinante monografia/backstage Avedon at Work in the American West, di Laura Wilson di Maurizio Rebuzzini

FOTOGRAFIE SEGRETERIA

Maddalena Fasoli

HANNO

COLLABORATO

Pino Bertelli Beppe Bolchi Antonio Bordoni Alberto Bregani Caterina De Fusco Giovanni Gastel Chiara Lualdi Lello Piazza Franco Sergio Rebosio Ciro Rebuzzini Filippo Rebuzzini Stefano Unterthiner Redazione, Amministrazione, Abbonamenti: Graphia srl, via Zuretti 2a, 20125 Milano; 02-66713604 www.FOTOgraphiaONLINE.it; graphia@tin.it. ● FOTOgraphia è venduta in abbonamento. ● FOTOgraphia è una pubblicazione mensile di Graphia srl, via Zuretti 2a, 20125 Milano. Registrazione del Tribunale di Milano numero 174 del Primo aprile 1994. Poste Italiane SpA - Spedizione in abbonamento postale - D.L. 353/2003 (convertito in Legge il 27-02-2004, numero 46), articolo 1, comma 1 - DCB Milano. ● A garanzia degli abbonati, nel caso la pubblicazione sia pervenuta in spedizione gratuita o a pagamento, l’Editore garantisce la massima riservatezza dei dati forniti dagli abbonati e in suo possesso, fatto diritto, in ogni caso, per l’interessato di richiederne gratuitamente la rettifica o la cancellazione ai sensi della legge 675/96. ● FOTOgraphia Abbonamento 12 numeri 65,00 euro. Abbonamento annuale per l’estero, via ordinaria 130,00 euro; via aerea: Europa 150,00 euro, America, Asia, Africa 200,00 euro, gli altri paesi 230,00 euro. Versamenti: assegno bancario non trasferibile intestato a Graphia srl Milano; vaglia postale a Graphia srl - PT Milano Isola; su Ccp n. 28219202 intestato a Graphia srl, via Zuretti 2a, 20125 Milano; addebiti su carte di credito CartaSì, Visa, MasterCard. ● Nessuna maggiorazione è applicata per i numeri arretrati. ● È consentita la riproduzione di testi e fotografie, magari citando la fonte (ma non è indispensabile, né obbligatorio farlo). ● Manoscritti e fotografie non richiesti non saranno restituiti; l’Editore non è responsabile di eventuali danneggiamenti o smarrimenti. Fotocomposizione DTP e selezioni litografiche: Rouge, Milano Stampa: Arti Grafiche Salea, Milano

Rivista associata a TIPA

64 Alexandra Boulat Sguardo sul coraggio della fotografia (del dolore) di Pino Bertelli

www.tipa.com



editoriale M

eglio chiarire subito, affinché non sorgano equivoci. Non sono affatto contrario alle manifestazioni attuali della socialità fotografica, e neppure ho nulla da rimproverare all’evoluzione tecnologica che ha travolto il nostro mondo, imponendogli drastici cambi di passo e ritmo... anche espressivi. Soltanto, mi premuro di osservare e riflettere, valutando sia le trasformazioni a breve, sia i possibili cambiamenti che potranno affacciarsi, e che sono già lì, all’orizzonte. Del resto, penso che noi di FOTOgraphia siamo già stati espliciti, lo scorso novembre, quando abbiamo analizzato il presente sul futuribile alla luce delle indicazioni intraviste tra le consistenti pieghe della Photokina 2012. In definitiva, si tratta di riconoscere quanto l’idea consolidata e radicata di “fotografia” come esercizio volontario e consapevole non sia più l’unica che identifica l’uso e l’applicazione dell’immagine. Soprattutto in questi ultimi tempi, e con progressione sistematicamente accelerata, si sono fatti avanti aspetti soprattutto sociali, che applicano la fotografia con altre intenzioni, diverse da quelle per noi tradizionali. La fotografia che dà corpo e anima ai social network, dove viene “caricata” in quantità da capogiro, non ha nulla da spartire con la storia evolutiva del suo linguaggio espressivo. Però, come già scritto: «È l’inizio di un’altra Storia, meno fotografica e più sociale di quella che è stata scritta nei decenni trascorsi dalle origini. Meno fotografica, sia detto per inciso, ma altrettanto Storia». Questo uso dell’immagine sta sostituendo la parola. Invece di raccontare, si “posta” direttamente il soggetto della vicenda (gita, incontro conviviale, altro ancora), sia per fare più presto, sia nella convinzione di essere più espliciti e diretti. Qui, non contano le considerazioni sulla soggettività dell’immagine fotografica (note a chi frequenta la sua storia radicata), ma si impone il preconcetto della sua oggettività presunta, propria e caratteristica delle semplificazioni. Lentamente, ma inesorabilmente, questa socialità fotografica goliardica sta sostituendo mille parole con una immagine. E qui, eccomi, sta il pericolo. A parte essere convinto che ci sono parole irraggiungibili dalla fotografia (nonostante il luogo comune che una fotografia ne varrebbe mille) -e viceversa-, sono altrettanto consapevole del valore dell’immaginazione: da e con Giacomo Leopardi, «L’anima s’immagina quello che non vede». Entusiasmi (altrui) a parte, è questo azzardo che mi crea disagio e imbarazzo. La perdita di capacità narrativa non è minimamente compensata dall’incremento di immagini casuali, condivise caoticamente. Ma non sono colpevoli i mezzi e le tecnologie, che dunque non processiamo, quanto i cattivi utilizzi, che censuriamo ogni volta che vediamo uno smartphone puntato su qualcosa di inconsistente, condiviso soltanto perché oggigiorno è facile farlo. Ma, soprattutto, si crede che sia necessario doverlo fare. Maurizio Rebuzzini

Non è esattamente vero che la fotografia valga sempre mille parole. Ci sono parole irraggiungibili (anche dalla fotografia), che è giusto che restino tali... parole. Però, è vero che l’attuale socialità della condivisione -caotica e casuale, a tutti i costi e senza alcun criteriosta sostituendo mille parole con una immagine... inutile. A scapito della capacità narrativa individuale e collettiva.

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Cameo

di Maurizio Rebuzzini - Ricerca iconografica di Ciro Rebuzzini

UNO IN PIÙ (CON NOI)

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A

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Taschen Store Hollywood, al Farmers Market, 6333 West 3rd street, di Los Angeles.

TIM STREET / PORTER STUDIO

Nell’episodio The Day the Earth Stood Cool, dei Simpson, è ipotizzato il Taschen Store Springfield, che si aggiunge agli undici attivi tra Europa e Stati Uniti.

Taschen Store New York, a SoHo: 107 Greene street.

ERIC LAIGNEL

Assolutamente e inderogabilmente, oggigiorno, Taschen Verlag (www.taschen.com) è il più intraprendente e convincente editore di libri illustrati al mondo. Lo è per almeno tre motivi, strettamente collegati ognuno agli altri: uno, quantitativamente, le sue edizioni sono sia numerose sia capaci di osservare a tutto tondo tra le arti visive e qualcosa di più (appassionanti monografie fotografiche comprese); due, qualitativamente, le stesse edizioni sono sempre prodotte in maniera formalmente impeccabile, oltre che arricchite di testi di primordine; tre, i prezzi di vendita/acquisto dei suoi libri sono i più convenienti dell’intero panorama editoriale internazionale, e italiano a conseguenza diretta. A tutto ciò, si aggiungono prestigiose edizioni speciali a tiratura limitata e numerata, che fanno corsa a sé: ne abbiamo riferito in tante occasioni, sottolineando anche le edizioni standard successive degli stessi volumi originari di prestigio. Aziendalmente, la sede principale (e originaria) della casa editrice è a Colonia, in Germania: in Hohenzollernring 53. Quindi, un secondo quartier generale agisce e opera da Berlino: in Kurfürstendamm 213. Per la distribuzione internazionale, Taschen Verlag agisce con agenti locali (in Italia: Inter Logos, strada Curtatona 5/2, Località Fossalta, 41126 Modena; 059-412648; www.libri.it), oppure tramite proprie filiali dirette, là dove le consistenze commerciali lo richiedono e consentono: Taschen America (6671 Sunset Blvd, Los Angeles, CA 90028), Taschen España (c/ Víctor Hugo, 1,2.° dcha, E-28004 Madrid), Taschen France (82 rue Mazarine, F-75006 Paris), Taschen Hong Kong (27f The Workst-at-tion, 43 Lyndhurst Terrace, Central Hong Kong) e Taschen UK (5th Floor, 1 Heathcock Court, 415 Strand, GBLondon WC2R 0NS). Ancora: in diverse città di primaria importanza culturale, sono attivi i Taschen Store, punti vendita che presentano una panoramica completa dell’imponente catalogo. Anche qui,


Cameo

Taschen Store London: 12 Duke of York square.

EVENTATTITUDE / F. BLAISE

HELLE MOOS PHOTO

XAVIER BÉJOT / TASCHEN GMBH

Taschen Store Paris: 2 rue de Buci.

LUKE HAYES

(*) Al pari del titolo dell’episodio dei Simpson nel quale compare un Taschen Store, ripreso dall’originale del film cult di fantascienza Ultimatum alla Terra ( The Day the Earth Stood Still) anche il nostro titolo è evocativo di altro: Uno in più, di Mogol Battisti, cantato da Riki Maiocchi, nel 1966.

Taschen Store Copenhagen: Østergade 2a.

Taschen Store Brussels: Grand Sablon Grote Zavel, rue Lebeaustraat 18.

il relativo casellario, tra Europa e Stati Uniti: nelle immediate vicinanze della sede principale, nella quale tutto nasce e viene progettato e prodotto, c’è il Taschen Store Cologne (Hohenzollernring 28, D-50672 Köln); sempre in Germania, ma molto più a nord, è attivo il Taschen Store Hamburg (Bleichenbrücke 1-7, D-20354 Hamburg); quindi, a spasso per l’Europa, Taschen Store London (12 Duke of York square, GB-London SW3 4LY), Taschen Store Paris (2 rue de Buci, F-75006 Paris), Taschen Store Amsterdam (PC Hooftstraat 44, NL-1071 BZ Amsterdam), Taschen Store Brussels (Grand Sablon/Grote Zavel, rue Lebeaustraat 18, B-1000 Brussels) e Taschen Store Copenhagen (Østergade 2a, DK1100 Copenhagen); a seguire, negli Stati Uniti, Taschen Store New York (107 Greene street, New York City, NY 10012), Taschen Store Miami (1111 Lincoln Road, Miami Beach, FL 33139), Taschen Store Hollywood (Farmers Market, 6333 W. 3rd street, CT-10, Los Angeles, CA 90036) e Taschen Store Beverly Hills (354 North Beverly Drive, Beverly Hills, CA 90210). Tutto questo lungo preambolo (anche noioso e soltanto burocratico), per sottolineare che all’inizio di dicembre, si aggiunge un altro riferimento... virtuale. Nel settimo episodio della ventiquattresima stagione di The Simpson, probabilmente il più longevo cartone per televisione, programmato negli Stati Uniti per domenica nove dicembre, nel centro di Springfield, città di ambientazione, compare una libreria “Taschen”... che si aggiunge alle undici da tempo attive tra Europa e America. L’episodio si intitola The Day the Earth Stood Cool (citazione/parodia del titolo originario del film cult di fantascienza Ultimatum alla Terra, del 1951: The Day the Earth Stood Still ). Allora: il capofamiglia Homer è alla ricerca di una propria immagine più giovane e alla moda. Così, si muove tra i “cool” di Portland in modo da poter trasformare la sua cittadina di residenza in una città modaiola al passo con i tempi. Per l’appunto, la metamorfosi presuppone il cambiamento di molti negozi precedenti, ricollocati secondo l’attualità “cool” della vita attuale. Giocoforza: tra questi, il Taschen Store Springfield. ❖

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Notizie a cura di Antonio Bordoni

MACRO. Come specifica la sigla identificativa, l’M. Zuiko Digital ED 60mm f/2,8 Macro è specificamente indirizzato alla fotografia a distanza ravvicinata, nel cui ambito assicura una consistente risoluzione, con un ottimo contrasto e massimo dettaglio. La messa a fuoco minima, ravvicinata, approda al fatidico rapporto al naturale, 1:1, che definisce una acquisizione di immagini di dimensioni fisiche pari a quelle del soggetto inquadrato.

progettuale recente, la struttura circolare delle singole aperture di diaframma produce un gradito e gradevole effetto bokeh. Oltre la notevole sofisticazione tecnologica interna, la montatura meccanica dell’obiettivo è realizzata per durare nel tempo, con un barilotto a tenuta di polvere e spruzzi e un particolare trattamento protettivo sulle lenti. La ghiera di messa a fuoco permette di selezionare preventivamente le escursioni di messa a fuoco: 0,19-0,4m, 0,19minfinito e 0,4m-infinito. A tutto questo, va aggiunta la visualizzazione dell’effettiva distanza di messa a fuoco, che garantisce un opportuno controllo sui parametri tecnici impostati. In più, è disponibile anche un paraluce automatico (accessorio opzionale), che scorre avanti e indietro per ridurre il flare e proteggere l’obiettivo. (Polyphoto, via Cesare Pavese 11-13, 20090 Opera Zerbo MI; www.polyphoto.eu; www.olympus.it).

CENTOVENTICINQUESIMO. Disegnato e costruito con una attenzione specifica ai campi di impiego della macrofotografia, dispone di un sistema di messa a fuoco interna con elementi flottanti, capace di produrre la stessa qualità di immagine tanto nelle riprese a distanza ravvicinata quanto nell’accomodamento su altre distanze, per la fotografia di paesaggio, ritratto e, in assoluto, per la fotografia tutta. In efficace combinazione, la generosa apertura relativa f/2,8 è pratica sia per affrontare e risolvere situazioni di scarsa luminosità, sia per fotografare con diaframmi che riducano al minimo l’estensione della profondità di campo, in modo da ottenere una maggiore evidenza e contrasto tra il soggetto principale e lo sfondo, in inquadrature che sappiano declinare in modo opportuno la sintassi compositiva propria e caratteristica del lessico fotografico. Allo stesso momento, in dipendenza di una attenzione

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Per celebrare i centoventicinque anni di produzione fotografica, avviati nel 1887 (!), la tedesca Linhof ha realizzato edizioni speciali di tre suoi apparecchi attuali. Un limitato quantitativo di folding 4x5 pollici Master Technika Classic e Master Technika 3000 e della particolare Technorama 617s III, per esposizioni 6x17cm su pellicola a rullo 120 e 220, è disponibile nella configurazione “Edition 125”, personalizzata con finiture grigie e completata dall’incisione dedicata “1887-2012 Linhof 125 Years”. Ogni apparecchio celebrativo è altresì confezionato in una valigetta altrettanto identificata.

Di cosa si tratti, in assoluto, è presto detto: Linhof è uno dei marchi più antichi e nobili della fotografia, che dai primi decenni del Novecento ha stabilito straordinari primati nell’interpretazione della fotografia a corpi mobili, sia a banco ottico, sia (soprattutto) in costruzione folding a base ribaltabile. Proprio le folding Linhof, nella gamma sistematicamente perfezionata fino alle attuali Master Technika, hanno contribuito a scrivere capitoli fondamentali della storia della fotografia professionale. Così come, con rigore analogo, la fotografia a inquadratura panorama, con rapporto accelerato 1:3 sui lati del fotogramma, è esordita proprio con la prima Technorama, degli anni Settanta. Insomma, centoventicinque anni di storia personale che si sovrappongono alla stessa Storia della fotografia. (Gruppo BP, via Cornelio Tacito 6, 20137 Milano; www.gruppobp.it).

Quindi, due elementi asferici strategicamente posizionati nel disegno ottico (seconda lente verso l’esterno e penultima verso il piano di proiezione) garantiscono prestazioni fotografiche di alto livello formale a ogni focale e a tutte le distanze di messa a fuoco, dalla minima di 30cm, con rapporto di riproduzione 1:11,6. Analogamente, l’adozione di due lenti a basso indice di dispersione (extra-low dispersion) assicura colori saturi, eccellente distribuzione tonale e assenza di riflessi parassiti anche nelle condizioni di ripresa più difficili. La ghiera di messa a fuoco è dotata dell’esclusivo sistema a frizione One Touch, che consente di passare rapidamente dall’autofocus alla regolazione manuale, senza dover intervenire sui

AMPIE VISIONI. Apprezzata produzione fotografica, la giapponese Tokina propone sempre interpretazioni ottiche di prestigio e valore. È il caso, manco a dirlo, della seconda generazione dello zoom tutto ipergrandangolare AT-X Pro SD 11-16mm f/2,8 (IF) DX II Asph, che mette a buon frutto la sua convincente costruzione ottica di tredici lenti divise in undici gruppi: per un angolo di campo che varia da 104 a 82 gradi sui sensori in dimensioni DX (APS-C) delle reflex Canon e Nikon. Nel concreto, la sua escursione equivale all’intervallo 16,5-24mm della fotografia 24x36mm, inevitabile riferimento d’obbligo: ovverosia, assolve e risolve micrometricamente ogni esigenza di fotografia fortemente grandangolare. La generosa apertura relativa f/2,8 (costante su tutte le focali; diaframma minimo f/22) è pratica e agevole sia nel caso di riprese fotografiche in esterni, di ampi paesaggi o inquadrature volontariamente ravvicinate e ad ampio respiro, sia in interni con illuminazione d’ambiente avara.

controlli della reflex. In messa a fuoco automatica, il motore silenzioso DC, accoppiato con un rinnovato dispositivo magnetico GMR, gestisce un accomodamento rapido e preciso. Operativamente parlando, la maneggevolezza di impiego si basa sull’efficace distribuzione volumetrica e delle ghiere di comando, in una costruzione meccanica sostanziosamente compatta: 89,2mm di lunghezza, per 84mm di diametro, in un peso di soli 550g. Innesto filtri 77mm. (Rinowa, via di Vacciano 6f, 50012 Bagno a Ripoli FI; www. rinowa.it). ❖



Cinema

di Maurizio Rebuzzini - Ricerca iconografica di Filippo Rebuzzini

FOTORICORDO... LA VITA

C

Ci siamo già occupati del buon film One Hour Photo, di Mark Romanek (anche sceneggiatore, alla prima regia cinematografica, dopo esperienze nel mondo video). Soprattutto, in due occasioni proprie e una obliqua. Anzitutto, ne riferimmo, in cronaca, nel novembre 2002, in coincidenza con la programmazione nelle sale cinematografiche italiane; quindi, tre anni fa, nel dicembre 2009 abbiamo avuto cura di sottolineare l’ottima scenografia delle sequenze vere e proprie del trattamento della pellicola a colori e stampa delle copie. Di traverso, poi, nel maggio 2008 sottolineammo la sua assenza dalla classifica dei dieci migliori film a tema fotografico, stilata dall’autorevole periodico American Photo, del marzo precedente. A questo proposito, e prima di riparlare specificamente di One Hour Photo, con ulteriori considerazioni aggiuntive alle precedenti già espresse, è opportuno sottolineare una volta ancora la nostra presa di distanza da quell’elenco, dal quale, oltre lo stesso One Hour Photo, sono stati esclusi altri film autenticamente fondanti e significativi della presenza della fotografia al cinema, soprattutto nelle sue sceneggiature. Ancora oggi, consideriamo quantomeno colpevole le esclusioni di La dolce vita, del 1960, di Federico Fellini, dal quale è altresì nato il neologismo di “paparazzo” [FOTOgraphia dello scorso giugno], Occhio indiscreto, con il suo convincente richiamo a Weegee [FOTOgraphia, novembre 2012], Il favoloso mondo di Amélie, che non si esaurisce nella combinazione con la sola fototessera da cabina automatica, che pure ne definisce la vicenda [FOTOgraphia, ottobre 2005], e Smoke, che approfondisce un consistente aspetto del tempo fotografico [diversi richiami in FOTOgraphia, fino a quello del maggio 2010].

PSICOPATICO One Hour Photo è un film fotograficamente appetibile, soprattutto perché prende a pretesto il servizio di sviluppo e stampa delle fotoricordo: con ti-

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Oltre l’impianto complessivo del film One Hour Photo, del 2002, di Mark Romanek, che si basa su un minilab presso un centro commerciale, alle porte di una anonima città statunitense, è doveroso segnalare una consistente qualità di avvincenti osservazioni sulla fotografia. Tra tanto altro, il protagonista Seymour “Sy” Parish (interpretato da un commovente Robin Williams) riflette sulle fotoricordo che trova in un mercatino: «Quanto sono straordinari i ritratti familiari. Rivelano molto della vita delle persone. Significano che c’è stato chi ti ha amato tanto... da fotografarti». Eccolo qui un valore assoluto e inviolabile e inderogabile della fotoricordo, che compone un tratto luminoso della storia quotidiana con la fotografia.

Immagine simbolo del film One Hour Photo: Seymour “Sy” Parrish (Robin Williams) visiona una striscia di negativi nel laboratorio di sviluppo e stampa annesso a un generico centro commerciale statunitense. La vicenda scorre tra osservazioni fotografiche e risvolti esistenziali.



Cinema I titoli di testa di One Hour Photo (di Mark Romanek; Usa, 2002) riprendono l’aspetto del negativo fotografico 35mm, alternando sullo schermo una avvincente successione di colori: richiamo esplicito e mirato all’essenza del film, le cui sceneggiatura e vicenda si basano appunto su un servizio di sviluppo e stampa di fotografie in un’ora (lapalissiano).

Lunga sequenza di lavorazione di una pellicola 35mm: dalla compilazione della busta di lavorazione alle fasi preparatorie, con codice numerico di trattamento, alle fasi di sviluppo del rullino, con affascinanti visualizzazioni del passaggio della pellicola tra i bagni, ed espulsione finale del negativo sviluppato.

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tolo esplicito e diretto, che richiama giusto lo sviluppo e stampa delle copie in un’ora. Dopo di che, sia chiarito subito, la sceneggiatura narra una vicenda dai molteplici risvolti e di svolgimento quantomeno controverso, della quale è protagonista assoluto -se non già unico- un ottimo Robin Williams, nei panni di Seymour “Sy” Parish, addetto al servizio rapido di stampa colore presso un lindo centro commerciale (SavMart), alle porte di una anonima città statunitense. Con franchezza: Seymour “Sy” Parish è uno psicopatico, che vive un’esistenza in qualche modo di riflesso. Nello specifico, di riflesso alla famiglia Yorkin, che conosce e ama attraverso le fotografie che la moglie Nina (interpretata dall’attrice Connie Nielsen) gli porta regolarmente a sviluppare. Oltre le copie che consegna, contravvenendo tutte le logiche e regole del proprio mestiere (questo va detto, sottolineato e ribadito, a garanzia e tutela della privacy dei clienti), Sy stampa una propria serie aggiuntiva. Attraverso queste serene e allegre istantanee partecipa alla vita della famiglia, ritagliandosi una sorta di ruolo di ipotetico e amato “zio”: «Quando guardiamo i nostri album fotografici, vediamo soltanto momenti felici; nessuno scatta fotografie dei momenti che vuole dimenticare», riflette il protagonista. E in sintonia, osserva anche come attraverso l’insieme delle proprie istantanee ciascuno lasci anche una indelebile traccia di se stesso: «Io c’ero», può pensare. Quando, da una serie di copie stampate per un’altra cliente, Sy scopre che la famiglia alla quale si è “associato” non è limpida come appare nelle fotografie, ma il marito/padre ha una relazione extraconiugale, scatta un meccanismo di ribellione, che lo porta a interferire in modo aggressivo nelle loro esistenze reali. E non andiamo oltre con le rivelazioni, per non infastidire coloro i quali ancora non hanno visto il film, ed è legittimo che non conoscano i dettagli del suo svolgimento. Comunque sia, straordinaria metafora della Vita e della Solitudine individuale, con eccezionali momenti di richiamo tra l’istantanea fotografica e la realtà (per esempio, Seymour “Sy” Parish che all’imperso-


Cinema Imprecisione scenografica, oppure errore del cinema, di quelli che vengono anche sottolineati e puntualizzati in siti Internet a questo riservati, compilati da spettatori attenti e severi. Ma non importa: licenza più che legittima e ininfluente (la possiamo rilevare solo noi addetti). In One Hour Photo, Nina Yorkin (l’attrice Connie Nielsen) consegna per lo sviluppo e stampa un rullino Fujicolor da 400 Iso. Una volta sviluppata la pellicola, l’addetto al minilab Seymour “Sy” Parish (Robin Williams) ha tra le mani un negativo colore Kodak 400VC.

Dopo lo sviluppo della pellicola, il negativo viene inserito nel minilab di stampa, con successiva sillabazione delle fasi che si susseguono, tutte riferite alla medesima inquadratura di una festa di compleanno, con mamma Nina (Connie Nielsen) accanto al figlio Jake (Gary Cole). Per l’appunto, uscita della copia dalla stampante, inserimento nella busta di lavorazione e riconsegna. Attenzione, dettaglio scenografico da non perdere, che sottolinea, una volta ancora e una di più, l’attenzione e cura con le quali il cinema americano nel proprio complesso confeziona i propri film: nelle diverse fasi di lavorazione della pellicola colore, stampa delle copie e uscita dal minilab è sempre visualizzato lo stesso scatto, lo stesso fotogramma.

nale tavola calda, dove cena immancabilmente da solo, mostra alla cameriera la fotografia del piccolo Jake, presentandolo come proprio nipote), One Hour Photo non esaurisce le proprie riflessioni nel solo riferimento fotografico, dal quale peraltro prende avvio. L’analisi è più profonda, ed è stata ben sottolineata da un direttore della fotografia (Jeff Cronenweth) capace di alternare l’aridità degli spazi dello psicopatico Sy, sempre bianchi, sempre lindi, sempre anonimi, sempre asettici (quasi sopraesposti di uno o due stop), con l’energia, il calore, la saturazione e la vivacità dei luoghi della vita di tutti i giorni.

RIFLESSIONI Ancora avanti, e oltre l’impianto complessivo del film, One Hour Photo è fotograficamente consistente sia in termini quantitativi sia per considerazioni qualitative, a margine. La quantità è a tutti evidente, a partire dal titolo e dall’ambientazione originaria; l’abbiamo già sottolineata soprattutto nel dicembre 2009-, e oggi ripetiamo ancora le sequenze propriamente specifiche: dai titoli di testa, che riprendono l’aspetto caratteristico del negativo fotografico 35mm, alternando sullo schermo una avvincente successione di colori [pagina accanto], alla lunga sequenza di lavorazione di una pellicola 35mm a colori [su queste pagine]. Tra l’altro, rileviamo e riveliamo che proprio questa sequenza contiene una inesattezza di quelle che fanno piacere a coloro i quali -e sono tanti- vanno a ricercare gli errori nei film: Nina Yorkin (l’attrice Connie Nielsen) consegna all’addetto al minilab Seymour “Sy” Parish (Robin Williams) un rullino Fujicolor da 400 Iso, che diventa

negativo Kodak 400VC, una volta sviluppato [qui sopra]. La qualità fotografica di alcuni passaggi del film non è altrettanto evidente e palese, ma va ricercata tra le pieghe dei dialoghi. Già abbiamo ricordato che Seymour “Sy” Parish annota che «Quando guardiamo i nostri album fotografici, vediamo soltanto momenti felici; nessuno scatta fotografie dei momenti che vuole dimenticare»; e anche abbiamo già richiamato la sua opinione sulla fotoricordo, attraverso la quale ciascuno lascia anche una indelebile traccia di se stesso: «Io c’ero», può pensare. Ma c’è altro, su cui soffermiamo la nostra attenzione mirata. Visitando un mercatino dell’usato, Seymour “Sy” Parish si imbatte in una scatola che contiene una consistente quantità di fotoricordo familiari, assolutamente eterogenee tra loro e di epoche diverse: oltre la postura, i volti e gli abiti indossati, lo rivelano anche le copie in bianconero e a colori e la finitura delle stesse stampe. Con lentezza, scorre le fotografie; ne trattiene alcune tra le dita [a pagina 12], le guarda con attenzione, le soppesa... si commuove. E pensa. «Quanto sono straordinari i ritratti familiari», riflette tra sé e sé. «Rivelano molto della vita delle persone. Significano che c’è stato chi ti ha amato tanto... da fotografarti». Eccolo qui un valore assoluto e inviolabile e inderogabile della fotoricordo, che compone uno dei tratti più luminosi della storia quotidiana con la fotografia (se non proprio “della fotografia”): la testimonianza degli affetti, delle comprensioni. Già... dell’amore. Qualsiasi cosa questo possa significare. ❖

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tipa.com La Technical Image Press Association (TIPA) è un’associazione non-profit registrata in Spagna.

QUINTO SONDAGGIO TIPA 2013 Sondaggio tra i lettori delle ventinove riviste associate alla Technical Image Press Association

LA VOSTRA OPINIONE VALE Ogni due anni, TIPA rileva e valuta le opinioni e tendenze dei lettori delle ventinove riviste associate, in tema di fotografia. Partecipare al sondaggio significa fornire all’Associazione utili spunti e importanti informazioni, che -analizzate dall’istituto WIP, di Colonia, Germaniasaranno presentate alle maggiori industrie del settore, per offrire alla loro attenzione l’orientamento dei clienti finali. Tra tutti i lettori delle riviste TIPA partecipanti al Sondaggio 2013 saranno estratte a sorte presso uno studio notarile di Madrid quattro macchine fotografiche* insignite dai TIPA Awards 2012. * le tre reflex Canon Eos-1Dx, Nikon D800 e Nikon D5100 in palio sono solo corpo: quindi, senza obiettivo, che appare nelle illustrazioni per motivi puramente ed esclusivamente estetici. Eventuali tasse o imposte sono a carico del vincitore; regolamento completo (in inglese e spagnolo) alla pagina http://www.tipa.com/italian/archivie_2010.php?idnews=100.

TRA TUTTI I PARTECIPANTI AL SONDAGGIO TIPA 2013 IN PALIO QUATTRO MACCHINE FOTOGRAFICHE PREMIATE CON I TIPA AWARDS 2012 Best Digital SRL Professional Canon Eos-1Dx (solo corpo)

Best Digital SRL Expert Nikon D800 (solo corpo)

Best Digital SRL Entry Level Nikon D5100 (solo corpo)

Best CSC-Compact System Camera Advanced Panasonic Lumix GX1 (con Lumix GX Vario 14-42mm f/3,5-5,6 Asph)

Le reflex sono visualizzate complete di obiettivo per motivi puramente estetici

Estratto dal regolamento. Al Sondaggio TIPA 2013 partecipano i lettori della riviste associate alla TIPA, compilando il presente questionario (anche in fotocopia) o rispondendo ai quesiti online direttamente su http://presseforschung.de/FOTOgraphia. Tra i partecipanti verrano estratti i quattro premi sopra indicati. Non è ammesso l’invio per email. TIPA garantisce la privacy e si riserva il diritto di sostituire il premio con prodotto di analogo valore e prestazioni, in caso di indisponibilità di quello proposto e di sospendere limitare, modifi-

care o cancellare l’iniziativa in qualunque momento. TIPA e FOTOgraphia (Graphia srl) non sono responsabili per qualsivoglia disguido, perdita o danno riconducibile al sondaggio o a qualunque altra circostanza o inconveniente. I vincitori saranno informati via posta entro il 31 marzo 2013. L’elenco dei vincitori sarà disponibile sul sito tipa.com e pubblicato su questa rivista. Eventuali tasse o imposte relative ai premi vinti a seconda della legislazione del paese di residenza sono a carico del vincitore.


QUINTO SONDAGGIO TIPA 2013 COMPILA IL QUESTIONARIO (ANCHE IN FOTOCOPIA) E INVIALO PER POSTA. PARTECIPI ALL’ESTRAZIONE DI UNA DELLE QUATTRO MACCHINE FOTOGRAFICHE* PREMIATE CON I TIPA AWARDS 2012. * le tre reflex Canon Eos-1Dx, Nikon D800 e Nikon D5100 in palio sono solo corpo: quindi, senza obiettivo, che appare nelle illustrazioni per motivi puramente ed esclusivamente estetici. Eventuali tasse o imposte sono a carico del vincitore; regolamento completo (in inglese e spagnolo) alla pagina http://www.tipa.com/italian/archivie_2010.php?idnews=100.

È POSSIBILE PARTECIPARE ANCHE ONLINE SU http://presseforschung.de/FOTOgraphia 01 Scatto fotografie ❏ Da privato ❏ Da semi-professionista ❏ Da utente professionale (libero professionista: architettura, designer, altro) ❏ Da fotografo professionista 02 Mi riconosco nelle seguenti definizioni da completamente vero

Partecipo spesso ai concorsi La mia attrezzatura deve essere in linea con le ultime tecnologie Spendo in accessori tanto quanto per le macchine fotografiche Regolarmente, do consigli per l’acquisto di un prodotto fotografico

a non vero

03 Scatto le mie fotografie con Apparecchio Micro QuattroTerzi Apparecchio con sensore APS-C Reflex con sensore digitale a pieno formato Reflex con sensore digitale medio formato In particolare Con apparecchio analogico (in pellicola) In formato grezzo RAW In formato compresso Jpeg

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04 Scatto circa .................... fotografie al mese (inserire la quantità) Per le riprese, uso .................... macchine fotografiche Stampo circa .................... fotografia (personalmente) circa .................... % più grandi di mezza pagina di rivista Ordino circa .................... stampe a un laboratorio/negozio circa .................... % più grandi di mezza pagina di rivista

07 Uso le funzioni della macchina fotografica Video Modalità Scena / Arte Program Priorità ai diaframmi Priorità ai tempi di otturazione Manuale

spesso

ogni tanto

di rado

mai

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08 Mi informo regolarmente sui prodotti fotografici 1. Su riviste di fotografia 2. Su riviste di computer 3. Su riviste di tecnica varia (foto digitale / video / audio) 4. Presso il mio negoziante 5. Alle fiere specializzate 6. Su dépliant dei distributori 7. Su Internet Tra tutte, mi fido di più della fonte numero ....................

❏ ❏ ❏ ❏ ❏ ❏ ❏

09 FOTOgraphia pubblica dieci numeri all’anno Ne leggo .................... numeri all’anno Questa è la prima volta che la leggo

10 Ottengo FOTOgraphia (indicare solo la più pertinente) Sono abbonato Come saggio promozionale La leggo quando altri l’hanno già letta

❏ ❏ ❏

11 Sfoglio o leggo ogni numero di FOTOgraphia circa .................... volte

05 Per presentare le mie fotografie utilizzo Facebook Flickr SmugMug Picasa Photobucket 500px Il mio sito personale Altri siti Internet

06 In un anno creo e stampo circa .................... photo book

spesso

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mai

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12 Di ciascun numero di FOTOgraphia leggo Tutte o quasi tutte le pagine Circa tre quarti della rivista Circa la metà della rivista Circa un quarto della rivista Solo alcune pagine della rivista

❏ ❏ ❏ ❏ ❏

13 Leggo una copia di FOTOgraphia per un totale di .................... minuti 14 Oltre a me, altre .................... leggono ogni numero di FOTOgraphia

PER LA PRIVACY, L’AREA TRATTEGGIATA CON I DATI PERSONALI VERRÀ SEPARATA AL RICEVIMENTO SE NON VOLETE RITAGLIARE QUESTE PAGINE, FOTOCOPIATE LE DUE FACCIATE IL QUESTIONARIO (FRONTE E RETRO) DEVE PERVENIRE ENTRO L’8 FEBBRAIO 2013 È POSSIBILE INVIARE IL QUESTIONARIO IN FORMA ANONIMA, RINUNCIANDO ALL’ESTRAZIONE Potete evitare di fornire i vostri dati (che comunque non sarebbero riferiti a terzi). Però, in questo modo, rinunciate alla possibilità di partecipare all’estrazione di una delle quattro macchine fotografiche in palio. L’anonimato è garantito, perché questa parte del questionario verrà separata dalle risposte.

Elaborati dall’istituto WIP di Colonia, i risultati saranno pubblicati sul sito tipa.com, su FOTOgraphia e su Fotografia Reflex. L’estrazione delle quattro macchine fotografiche avverrà entro marzo 2013, presso uno studio notarile a Madrid, in Spagna (attenzione: eventuali tasse o imposte sono a carico del vincitore).

Regolamento (in inglese e spagnolo) alla pagina http://www.tipa.com/italian/archivie_2010.php?idnews=100


15 Considero FOTOgraphia

19 La pubblicità che appare su FOTOgraphia da completamente vero

Un’importante rivista di fotografia Fonte di ispirazione (riflessione) Di grande aiuto pratico Molto attendibile e competente Dà ottimi consigli per l’acquisto di attrezzatura Dà ottimi consigli per l’acquisto di accessori Rende il mercato fotografico più trasparente Se FOTOgraphia non ci fosse, mi mancherebbe

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a non vero

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16 Una versione formato digitale di FOTOgraphia da completamente vero

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17 Nei prossimi ventiquattro mesi (due anni) intendo acquistare Reflex digitale Sistema digitale medio formato Compatta digitale a obiettivi intercambiabili (CSC / Mirrorless) Compatta digitale Software per gestione colore Obiettivi intercambiabili Software foto / grafico Luci da studio Scanner Stampante fotografica Treppiedi Proiettore Accessori

❏ ❏ ❏ ❏ ❏ ❏ ❏ ❏ ❏ ❏ ❏ ❏ ❏

18 Leggo la pubblicità che appare su FOTOgraphia sempre ❏ spesso ❏ di rado

più volte una volta ogni al mese al mese 2-3 mesi

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Per tenermi aggiornato Per gli argomenti di fotografia Per la cultura della fotografia

mai

21 Io viaggio Per lavoro, almeno Per piacere, almeno 21 Informazioni personali Sono maschio ❏ Stato civile Sono single Sposato / convivo Ho figli minori Sono in pensione

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meno spesso

mai

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ogni mese

ogni tre mesi

due volte all’anno

di rado

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22 La disponibilità mensile netta della mia famiglia è (facoltativo) Inferiore a 1000,00 euro Tra 1000,00 e 1499,00 euro Tra 1500,00 e 1999,00 euro Tra 2000,00 e 2499,00 euro Tra 2500,00 e 2999,00 euro Tra 3000,00 e 3499,00 euro Tra 3500,00 e 3999,00 euro Tra 4000,00 e 4499,00 euro Superiore

cognome

indirizzo

telefono

a non vero

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femmina ❏ Ho .................... anni Dove vivo ❏ In una grande città ❏ ❏ In una città media ❏ ❏ In un paese ❏ ❏ In campagna ❏

COMPILAZIONE FACOLTATIVA (rinunciando all’estrazione dei premi)

CAP

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20 Visito il sito FOTOgraphiaONLINE.it di FOTOgraphia

Grazie per aver partecipato al SONDAGGIO TIPA 2013

nome

❏ ❏ ❏

a non vero

❏ ❏

La troverei attraente L’acquisterei al posto di quella cartacea L’aggiungerei al mio abbonamento, con funzioni addizionali a pagamento

da completamente vero

Ha un valore informativo Mi ha già spinto a chiedere più informazioni Mi ha già spinto a fare un acquisto

città

provincia fax INVIATE IL QUESTIONARIO A

FOTOgraphia - Sondaggio TIPA via Zuretti 2a - 20125 MILANO MI

e-mail

❏ ❏ ❏ ❏ ❏ ❏ ❏ ❏ ❏


Da leggere di Antonio Bordoni

E

DIETRO LE QUINTE

Entrambi pubblicati da Logos, di Modena, nella propria collana di manuali per la fotografia, nel cui catalogo spiccano soprattutto titoli utilitaristici, densi di informazioni da mettere prontamente in pratica, La visione del fotografo e La mente del fotografo, dello statunitense Michael Freeman, sono qualcosa di diverso da alcunché di strumentale: come i titoli rivelano subito, non soltanto presto, sono due considerazioni sull’essenza della fotografia, sostanzialmente vicine tra loro. Da cui, i rispettivi sottotitoli esplicativi: Capire l’opera dei grandi maestri e Il pensiero creativo al servizio della fotografia digitale (e qui, la specifica “digitale” ci pare un’aggiunta superflua, dettata da esigenze mercantili: infatti, il testo tratta di fotografia nel proprio insieme e complesso, indipendentemente dal supporto con il quale ciascuno agisce; ma, tant’è!). Di fatto, le due trattazioni si completano l’una con l’altra, andando a comporre i tratti di un benefico approfondimento della fotografia, che l’autore affronta senza soluzione di tempo e applicazioni. Dove risiede, ammesso che ci sia, la differenza tra uno svolgimento e l’altro? Nel sottile distinguo che -da una parte- definisce la fantastica capacità di trasformare in fotografia (La visione del fotografo) e -dall’altra- identifica e sottolinea la costruzione, giorno per giorno, di quel bagaglio di esperienze e conoscenze che stanno alla base del pensiero fotografico, che sollecitano e guidano (La mente del fotografo). Dopo questa doverosa precisazione, in ripartizione di intenti, i due testi di Michael Freeman sono sostanzialmente omogenei, tanto da avere tratti in comune e da esprimere -comunque sia- una medesima condizione di fondo: al pari di tanti altri linguaggi (anche espressivi, anche visivi), quello fotografico dipende da un requisito fondante e sostanziale. Non si tratta mai di realizzazioni casuali e incidentali, ma il percorso di ciascun autore, di ciascun interprete (anche di chi è svincolato da finalità professionali) proviene sempre da una con-

sapevolezza radicata, scomposta tra la vita reale e la sua trasfigurazione in forma di immagine. Ovvero, Michael Freeman è abile e competente nell’indicare il tragitto che inserisce l’esercizio individuale della fotografia all’interno di un atteggiamento complessivo nei confronti dell’esistenza. Personalmente, noi teorizziamo e auspichiamo che la fotografia sia sempre e comunque un gesto, un atto d’amore (qualsiasi cosa questo sia e qualsiasi significato possa avere). L’autore statunitense è più pragmatico di noi, ma non devia dalla stessa linea conduttrice, che non esclude la partecipazione del cuore nella composizione di una inquadratura, nella trasfigurazione di una visione dal vero.

La visione del fotografo (Capire l’opera dei grandi maestri) e La mente del fotografo (Il pensiero creativo al servizio della fotografia digitale), di Michael Freeman; Logos, 2012 (strada Curtatona 5/2, 41126 Modena; www.libri.it); entrambi 192 pagine 23,5x25,5cm; 19,95 euro ciascuno.

Per farlo, in entrambi i suoi testi, Michael Freeman si riferisce sia a immagini fondamentali della storia evolutiva del linguaggio fotografico, per il quale si richiama a autori acclamati e riconosciuti, sia a immagini persino anonime (nel senso di autori non conosciuti), in ogni caso utili e proficue al discorso intrapreso. Così che entrambi i volumi sono ampiamente illustrati, in modo da prendere per mano il lettore e accompagnarlo in un fantastico viaggio attraverso i luminosi sentieri della fotografia tutta. In un certo senso, non soltanto condividiamo questa impostazione, peraltro arricchita anche da considerazioni compositive pratiche (queste sì, da applicare subito, in misura utilitaristica e di convenienza individuale), ma addirittura la consigliamo a coloro i quali -e tanti sono- si impegnano giorno per giorno in lezioni didattiche, svolte presso circoli fotografici e/o associazioni culturali sparse su tutto il territorio nazionale. Così che, le due avvincenti considerazioni sulla Visione del fotografo e la Mente del fotografo possano funzionare da traccia utile per una cadenza didattica esemplare e ben svolta (sulla stessa linea conduttrice, di tutt’altro livello, intellettualmente e culturalmente più alto, tanto da essere indirizzato soprattutto a coloro i quali fanno mestiere della fotografia, sia realizzata sia gestita, è lo straordinario percorso accademico di Stephen Shore, raccolto nel saggio Lezione di fotografia, pubblicato in italiano da Phaidon, che abbiamo presentato in FOTOgraphia del luglio 2009). In ogni caso, finalità successive e aggiunte a parte, si tratta di due testi utili e proficui a tutti coloro i quali agiscono con la fotografia. Soprattutto, si tratta di due testi preziosi per chi esercita la fotografia con convinzione e dedizione (almeno queste sono spesso le intenzioni di partenza), che in questi due volumi trova considerazioni e precisazioni eccezionalmente vantaggiose e produttive: una lettura delle esperienze altrui delle quali fare tesoro per se stessi. ❖

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Storia di Angelo Galantini

OLTRE LE ORIGINI

C

Come da programma annunciato, prosegue il lodevole progetto dell’editore Skira: dopo il primo dei quattro volumi previsti, arriva il secondo di La Fotografia, che continua l’ambizioso e avvincente viaggio intrapreso. A cura di Walter Guadagnini, questo secondo capitolo, che specifica Una nuova visione del mondo 1891-1940, si aggiunge al primo, che si è concentrato su Le origini 18391890 [FOTOgraphia, ottobre 2011], e anticipa i prossimi due tempi successivi, Dalla Stampa al Museo 19411980 e L’età contemporanea 19812010, che seguiranno. Una volta ancora, una di più, mai una di troppo, prima di tutto va confermata una osservazione d’obbligo (almeno per noi). Ribadendo quanto già annotato in occasione della presentazione del primo dei quattro volumi dell’opera complessiva, attestiamo anche qui come e quanto «In una bibliografia eccessivamente americanocentrica, si ha tanto bisogno di storie della fotografia curate da autori di altra geografia, addirittura italiani, quantomeno di storie scritte con la competenza a farlo: e non è successo sempre, anzi è esattamente vero il contrario». Approdato al suo secondo di quattro capitoli, La Fotografia sta scandendo l’evoluzione di oltre centosettanta anni di Storia con tempi opportunamente ritmati e considerazioni temporali che sottolineano il retrogusto implicito della fotografia, che dalla fine dell’Ottocento, dopo i cinquanta anni di partenza, esprime quella che il curatore ha classificato come Una nuova visione del mondo, che ha definito, fino a caratterizzarli, i cinque decenni dal 1891 al 1940. La visione del curatore Walter Guadagnini è intellettualmente onesta, per quanto ci sembri un tantino troppo accademica. Attenzione, a scanso di equivoci, lo precisiamo subito: onore e merito alla scomposizione e visione storica espressa, indipendentemente da nostre posizioni personali, che possono essere moderatamente divergenti. Però, nulla da eccepire

Alfred Stieglitz: Il ponte di terza classe; 1907 [Stampata nel 1913 o prima; Photogravue, 32,2x25,8cm; The Metropolitan Museum of Art, New York City, Alfred Stieglitz Collection, 1933].

Robert Capa (fotografie di Robert Capa e Gerda Taro): Soldati repubblicani; Barcellona, Spagna, agosto 1936 [Stampa ai sali d’argento].

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Storia

Man Ray: Le lacrime (lacrime di vetro); 1932 [Stampa ai sali d’argento].

Erich Salomon: Marlene Dietrich telefona alle quattro del mattino, in una delle prime conversazioni telefoniche transatlantiche, alla figlia a Berlino; 1930 [Stampa ai sali d’argento; Berlinische Galerie, Berlino].

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su questo racconto, che -in occasioni e luoghi opportuni- noi esprimiamo in maniera ponderatamente diversa, in relazione a una diversa lettura della Storia della fotografia. Legittimamente, oltre che con pertinente visione, La Fotografia - Una nuova visione del mondo 1891-1940 osserva la stessa fotografia come entità propria, in sostanziosa autoreferenzialità. Noi la pensiamo diversamente, e non sottovalutiamo la combinazione tecnica-creatività e quella, coincidente, di società-fotografia-società, in un percorso di andata e ritorno senza alcuna soluzione di continuità. Ovvero -così come già fatto dal precedente primo volume, e come presumiamo accadrà ai prossimi due-, mentre questo racconto qui in pas-


Storia

serella considera la fotografia come espressione assoluta (e spesso autonoma e svincolata), noi siamo soliti introdurre altre varianti e/o influenze reciproche: da una parte, e in disaccordo con molti storici italiani (alcuni ne conosciamo e frequentiamo), diamo fiato alle consecuzioni introdotte dalla tecnica/tecnologia applicata (e in questo senso sono lungimiranti le quattro svolte senza ritorno che il nostro direttore Maurizio Rebuzzini ha raccontato nel suo 1839-2009. Dalla Relazione di Macedonio Melloni alla svolta di Akio Morita); da altra parte, non sottovalutiamo la partecipazione della fotografia alla società tutta, in un rapporto che va da-a nei due sensi (dalla società alla fotografia, ma anche dalla fotografia alla società).

L’attuale Una nuova visione del mondo 1891-1940, secondo titolo, secondo capitolo del progetto La Fotografia (storia della fotografia in quattro volumi), è più un libro di parole che di immagini, e ne siamo contenti. Infatti, delle immagini storiche raccolte in forma di qualsivoglia casellario ne abbiamo fin sopra i capelli: ce ne sono in abbondanza, e dunque non serve una ennesima ribollita. Invece, abbiamo bisogno di resoconti che contestualizzino e raccontino, che spieghino e istruiscano, che contribuiscano alla conoscenza e competenza individuale. Ovviamente, lo riveliamo a chiare lettere, questa monografia non è di alcuna utilità, se si pensa al proprio sterile impegno nell’ambito della fo-

August Sander: Pasticciere; 1928 - Il pianista (Max van der Sandt); 1925 circa [Stampe ai sali d’argento, 26x17,2cm e 25,8x17,7cm; Die Photographische Sammlung / SK, Köln, August Sander Archiv].

Lewis W. Hine: Icaro in cima all’Empire State Building; 1931 [Stampa ai sali d’argento, 8,8x6,5cm; George Eastman House, Rochester, New York].

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Storia

Margaret Bourke-White (con Erskine Caldwell): Rimpatriata (Southern Revival); 1937 [Stampa ai sali d’argento, 17,6x23,6cm; Fotografis Collection Bank Austria, Museum der Moderne, Salzburg].

La Fotografia. Una nuova visione del mondo 1891-1940 (volume 2); cura di Walter Guadagnini; Skira Editore, 2012; 336 pagine 21x28cm, cartonato con sovraccoperta; 60,00 euro.

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Eugène Atget: Senza titolo; 1899-1900 [Stampa all’albumina, 21,3x16,3cm; The Museum of Modern Art, New York City, Abbott-Levy Collection].

tografia scattata (altri titoli suggeriscono scorciatoie e espedienti da mettere prontamente a frutto, per migliorare i propri scatti). Al contrario, questa stessa monografia è ottima, avvincente e profittevole se si tiene anche conto di quel bagaglio culturale individuale che fa la differenza tra una bella fotografia inutile e una autentica immagine densa di contenuti e intenzioni espresse. Da e con Paul Benjamin e Auggie Wren (gli attori William Hurt e Harvey Keitel, in Smoke, di Paul Auster, del 1995): «Guarda un po’, un fotografo...» / «Beh, non esageriamo. Scatto fotografie. Inquadro qualcosa nel mirino e schiaccio il pulsante. Non è il caso di menarla tanto con tutte quelle cazzate sull’arte». ❖



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GENESI


Un fantastico progetto di Giovanni Gastel, fotografo della moda con frequentazione anche critica e profondamente valutativa, si offre e propone in forma di libro. Non un’edizione standardizzata, ma una particolare interpretazione delle immagini, arricchite di sovrapposizioni e contrapposizioni. In allineamento con l’hair-stylist Franco Curletto, in tiratura limitata e numerata, Genesi - Visioni di realtà e improbabilità «chiama all’elezione di quanti desiderano farsi condurre per mano dall’Artista nel fascinoso viaggio di scoperta, che corrisponde, ciascuna, alla sua propria ricerca di “Identità”»


di Caterina De Fusco

G

enesi, denominatore dal quale Giovanni Gastel parte per la sua ricerca. Origine, ricerca di un’origine, quella dell’uomo, della donna, ma -più semplicisticamente- quella dell’essere umano. Cercare una “verità”, la “verità” sull’origine del genere umano è ricerca antica, che nasce dall’approdare dell’Uomo sulla Terra. Quest’ultimo, l’approdo, come navigatore o come viandante sa, per l’Uomo ha significato di procedere lentamente, ma inesorabilmente, lungo il viaggio di un tempo, il nostro tempo, che ha per obiettivo la Fine. Giovanni Gastel utilizza lo strumento fotografico come compagno. La fotografia può compiere straordinaria opera-

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zione di lettura di quei microscopici dettagli che servono per indagare, scrostare patine di un percorso. Patina, velo, maschera: questi gli elementi con i quali “fingiamo” per poter “essere” in questo mondo. Essere, genesi dell’Essere, questa la ricerca di Giovanni Gastel. Indagare nelle maschere, nella molteplicità degli elementi che l’umano utilizza per poter stare e vivere, difendendosi, in questa esistenza. L’autore propone un lavoro “dentro”, un percorso di discesa all’interno, per ricercare un “senso” e entrare in connessione con quelle maschere e smascherarle. La “Genesi” è un profondo, lento percorso di escavazione per portare in luce l’“identità”. Il termine stesso genesi è in stretta relazione con “rivelare” la propria identità: che appare, se cautamente disvelata. E il disvelamento avvie-



UN LIBRO QUANTOMENO PARTICOLARE

Giovanni Gastel e Franco Curletto: Genesi - Visioni di realtà e improbabilità; stampa Grafiche Nava, Milano; 23,5x22cm; tiratura limitata di seicento copie numerate (quella di Beppe Bolchi è la numero 427, con dedica di Giovanni Gastel). In tre capitoli consequenziali: Per creare, tutto viene azzerato; La realtà e metamorfosi continua...; Realtà improbabile. Testo introduttivo: «Giovanni Gastel e Franco Curletto hanno immaginato un altro mondo e ce lo raccontano attraverso i ritratti di creature ricreate. Gli autori, legati da lunga frequentazione, hanno lavorato a questa straordinaria ricerca attingendo a quella immaginazione ed esperienza estetica che è fondamento dei loro fortunati percorsi professionali. In Genesi, per creare, tutto viene azzerato, ogni interpretazione nasce da figure manichino dal volto metafisico, ognuna delle quali è una simbolica tabula rasa, dove possono rinascere le più ardite interpretazioni in una muta richiesta di diventare altro da sé; tragedia, ironia, sogno, cinema, arte, tutto si mescola, compreso il concetto di uomo e donna, bianco o nero, evoluzione tecnologica ed eco tribali. Ma questa realtà improbabile, sembrano suggerire gli autori, è una genesi che avviene sotto i nostri occhi. Ecco spiegato il contrasto di questi personaggi fuori da ogni logica, con gli abiti quotidiani banali che indossano. La realtà è metamorfosi continua, che forse ci coinvolge e ci è vicina più di quanto i nostri occhi addomesticati sembrino rivelarci».

Genesi - Visioni di realtà e improbabilità: fotografie di Giovanni Gastel. Ufficialmente, è questo. Ma è necessario commentare e approfondire. Parlare di un libro, documentare un Libro d’Autore, è un’ardua impresa, in particolare modo questo libro. Sconosciuta ai più e stampata in seicento esemplari numerati, frutto di un progetto realizzato in collaborazione con il famoso hair-stylist Franco Curletto, la raccolta contiene immagini di rara bellezza, nobilitate da una composizione e stampa da mozzare il fiato. La riproduzione non rende, non può rendere, quello che la visione diretta offre, ahimè solo a coloro i quali ne hanno avuta esperienza diretta [e questa nota giornalistica sia considerata soprattutto documentativa e testimonianza: mai, come in questo caso, è indispensabile l’osservazione dell’originale]. Per quanto la sua fruizione sia limitata alla tiratura di soli seicento esemplari –oppure, proprio in ragione anche di questo dato-, si tratta veramente di un Libro d’Autore. Per questo, trovo assolutamente doveroso parlarne; poi, chi partecipa ai miei incontri didattici, potrebbe avere la possibilità di sfogliarlo “religiosamente”. È una esperienza al limite. Non ho mai visto niente del genere, e ritengo che sia una pietra miliare dell’editoria fotografica d’Autore. Un abbinamento di così elevata qualità, a partire dalle acconciature e al make-up di Franco Curletto, passando alle immagini di Giovanni Gastel e quindi alla preziosa stampa, ricca di equilibrismi compositivi e di vere magìe... tutto è perfetto e coinvolge

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via via l’osservatore con un crescendo di immagini fantastiche. Proprio questo è il mio punto di vista, quello del fotografo, da sempre ammirato dalla capacità di Giovanni Gastel di esprimere non solo la Moda, ma lo spirito della Moda e dei Tempi, il tutto in assoluta semplicità e con una linearità esemplare. Le sue immagini, per la cui lettura rimando al commento critico di Caterina De Fusco (corpo centrale dell’attuale intervento redazionale), sono sempre affascinanti e in particolare modo in questo libro, nel quale l’elaborazione grafica e compositiva porta l’osservatore in un mondo diverso. Stampe nero su nero, su specchio, su velluto, stampe in rilievo, stampe dai colori cangianti, la cui visione e riproduzione cambia secondo il tipo e l’angolazione della luce, veri e propri tableaux vivants (ovverosia, “quadri d’Autore”) che sofisticate tecnologie mettono alla portata dei seicento fortunati possessori. Immagini da vedere e rivedere, da capire, immagini di un universo così vicino eppure così lontano, immagini che si possono toccare e percepire anche attraverso il tatto, con una esperienza sensoriale completa. Non c’è solo Giovanni Gastel “fotografo”, conosciuto e celebrato (e finalmente presentato al recente Paris Photo 2012 [a pagina 32]), ma soprattutto Giovanni Gastel “uomo del proprio tempo”, del nostro tempo, finissimo interprete, attraverso la fotografia, della attuale necessità di un rinnovamento. Di una “Genesi”, appunto. Beppe Bolchi


ne, velo dopo velo, per via di levare, con un procedimento lento. L’essere umano non può sopportare la nudità, specie se improvvisa; specchiarsi per “riconoscersi” può aver luogo soltanto attraverso un tempo graduale. A tal proposito, non è un caso che Giovanni Gastel abbia fatto uso di superfici riflettenti, come specchianti, perché il processo di smascheramento possa manifestarsi. L’autore utilizza il lavoro di make-up Artist per rendere esplicito quanto il trucco e l’acconciatura siano parte integrante del travestimento e, al tempo stesso, la disvela attraverso un percorso di smontaggio. La composizione di Giovanni Gastel mira a cogliere ogni minimo frammento dell’espressività attraverso la molteplicità dei punti di visione. Pagina dopo pagina, prospettiva dopo prospettiva, le sue

immagini rivelano eccellenti composizioni e inquadrature, frutto di selezione raffinata, accorta, perché ogni elemento non abbia alcunché di casuale. L’artista si avvale del creatore di moda, che indirizza, nel descrivere acconciature e volti marcati in occhi, labbra, arcate sopraccigliari. Giovanni Gastel coniuga il proprio punto di visione con quello del creatore di acconciature e trucco, per far emergere, da questa combinazione, quel mondo femminile che, pur conosciuto da tempo, ancor più vividamente fuoriesce con il “suo apparire”. Antico dilemma shakespeariano quello dell’“essere” contro “apparire”, e dunque “non essere”. L’artista abita da lunghi anni il mondo della Moda: con questo lavoro/progetto ci fa entrare nella sua statigrafica conoscenza di quel mondo. Il suo focus non è più tutta la fi-

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GIOVANNI GASTEL A PARIS PHOTO 2012

Tra i protagonisti di Paris Photo 2012 (dal quattordici al diciotto novembre scorsi, al Grand Palais), la più importante vetrina del collezionismo fotografico internazionale, nonché uno degli appuntamenti cardine del Mois de la Photo della capitale francese, c’è stato Giovanni Gastel, fotografo milanese tra i più conosciuti a livello internazionale, presentato

dalla galleria Photo&Contemporary, di Torino. Sono state proposte opere che lo hanno distinto tra i migliori esponenti della fotografia di moda: fotografie che si caratterizzano per un’eleganza formale di grande raffinatezza, nelle quali si coglie, come loro cifra essenziale, la composizione equilibrata che trae ispirazione dall’arte e dalla sua storia.

Giovanni Gastel: senza titolo; 2008 (stampa True Black Fine-Art Giclèe su carta baritata Silver Rag; 45x60cm in cornice 63x78cm; tiratura di cinque copie).

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gura umana, ma solo il volto, e non a caso. È nel volto, sul volto, che Giovanni Gastel legge i segni del tempo e delle mutazioni che trascorrono. Per scavare all’interno di una “identità” -per comprenderla e disgelarla- occorre puntare il fuoco sul volto, e l’autore -dopo lungo percorso- giunge a una “Verità”. L’intento espressivo che, per decenni, si è concentrato sul tutto, ora chiede l’“Essenza”... e si focalizza sul volto. Giovanni Gastel ha ben compreso che per coglierla, quell’“Essenza”, deve compiere un percorso a ritroso cercandola -come effettivamente fa- nel tribale. Rasature totali, paragonabili a “scalpi”, tatuaggi, simboli che le sue modelle recano sulla pelle, raccontano. Non posso, in conclusione, esimermi dal dire che per comprendere

l’indagine di Giovanni Gastel bisogna possedere occhi avvezzi, attenti al particolare, al lenticolare dettaglio. E l’artista ne offre spunto, corredando di maschere, trasparenze, retini e piume le sue multiformi immagini. Non vuole e non sa retrocedere dall’idea di mostrare, di dire, anche se in modo implicito, all’osservatore. Ma, se solo lo stesso osservatore si lascia catturare, irretire dalla pur irresistibile bellezza di superfici riflettenti, nere, come da primi piani, controluci, piume, l’operazione di disvelamento dell’autore gli consentirà di approdare tra gli eletti. Sì, perché è all’elezione che l’autore chiama, all’elezione di quanti desiderano farsi condurre per mano dall’Artista nel fascinoso viaggio di scoperta di “Genesi”, che corrisponde, ciascuna, alla sua propria ricerca di “Identità”. ❖

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di Angelo Galantini

CIME

S

FOTOGRAFIA D’AMORE

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DI

Fotografia realizzata con tale e tanto amore, sia per il soggetto (montagna), sia per la mediazione (fotografia), sia per l’osservatore destinatario (noi tutti), che evoca parole sentite, fino a chiarirle. La fotografia raccolta nella monografia Dentro e fuori le cime, di Alberto Bregani, non si esaurisce con il suo soggetto esplicito, che pure la definisce e caratterizza (Dolomiti di Brenta: tra l’occhio e il passo ), ma va oltre. Questa fotografia vale per tutto quanto ciascuno di noi trova in se stesso

BRENTA

Se è vero -come effettivamente è vero- quanto affermato dal compianto fotografo tedesco Reinhart Wolf, in postfazione alla sua straordinaria raccolta

CROZZON

«Sono un fotografo di montagna, cammino dentro e fuori le cime, ne respiro l’essenza. Non ho mete e non ho percorsi; seguo la luce, le nuvole che corrono, e il vento mi accompagna. Vogliano le Montagne parlarmi di loro, così che io raccolga ogni storia dentro ogni mio piccolo frame. E possa dire ad altri della loro bellezza». Alberto Bregani (1962) è considerato tra i più validi interpreti della fotografia di montagna, che esprime in rigoroso bianconero. Membro del prestigioso Gruppo Italiano Scrittori di Montagna (Gism), dell’Accademia di Arte e Cultura Alpina, integra le sessioni fotografiche con conferenze e articoli (www.albertobregani.com).

correndo la storia della fotografia, si incontrano numerose lacune, alcune addirittura colpevoli. Tra queste, francamente, la più clamorosa riguarda l’assenza di fotografie di montagna, per lo più presenti soltanto in relazione a certi esordi dell’Ottocento: a parte le prodezze dell’italiano Vittorio Sella (1859-1943) e dei fratelli francesi Louis-Auguste e Auguste-Rosalie Bisson (1814-1876 e 1826-1900), il buio, l’oblio. Allo stesso momento, si confonde spesso la fotografia delle montagne, soprattutto di quelle statunitensi, con la fotografia di montagna, ovverosia dalla montagna... in escursione. Se proprio vogliamo vederla anche così, in presenza di un progetto fotografico dell’italiano Alberto Bregani, approdato a una monografia a dir poco entusiasmante -stiamo per riferirci-, si è indotti a pensare che molto di questo vuoto dipenda da un concetto assolutamente deviato, tanto da essere addirittura corrotto: molto probabilmente, a differenza di altri generi applicati, la fotografia di montagna è considerata argomento da addetti e lì si manifesta, finendo per esaurirsi. Plausibilmente, per gli altri, i non addetti, una montagna vale un’altra, fino al punto che la confusione regna sovrana. Come è ovvio, in termini ufficiali, vista e considerata la nostra personale estraneità al mondo della montagna, noi apparterremmo proprio a questa categoria di persone. Soltanto, e a differenza, abbiamo tanto a cuore ogni qualsivoglia manifestazione fotografica, che finiamo per concentrarci e applicarci a ogni immagine, magari indipendentemente dalla nostra partecipazione al soggetto implicito ed esplicito. Così, abbiamo accostato la monografia Dentro e fuori le cime, di Alberto Bregani, che sottotitola Dolomiti di Brenta: tra l’occhio e il passo.


MAESTOSE


SENTIERO VIDI

I GEMELLI

di Roccia Roccia. Roccia di montagna. Essenza nuda, cruda. Severa maestra di genti che da lei, in passato, si tenevano alla lontana pensando fosse dimora di streghe e demoni. Inizialmente, solo poche persone, i primi alpinisti, hanno cercato di vincerla. Poi, ancora, di addomesticarla, creando percorsi che ne attraversassero passi e cime: le vie ferrate. Ma la roccia rimase roccia: nuda, cruda, severa maestra che oggi, come allora, esige rispetto.

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New York, ogni fotografia contiene le cure, le fatiche e gli sforzi (anche quelli fisici) che sono stati necessari per realizzarla. Da cui, e per cui, tutte le fotografie di montagna di Alberto Bregani che illustrano questa monografia comprendono i termini del suo ricercato avvicinamento: preparazione preventiva, arrivo sui luoghi -spesso all’alba-, attese della luce più consona e tanto altro ancora. Insomma, sono fotografie a lungo meditate, fotografie consapevoli, fotografie colte. Diciamolo: fotografie d’amore. Realizzate con apparecchi medio formato sei-persei centimetri (Hasselblad su treppiedi, dove e quando possibile; biottica Rolleiflex, in parete), queste fotografie sono formalmente ineccepibili, tanto da ribadire ancora, e mai in eccesso, il sottile e consistente rapporto che collega il contenuto alla propria forma (necessaria): da e con il pittore russo Vasilij Vasil’evič Kandinskij, creatore della pittura astratta, che percepiva la realtà come un’immensa partitura musicale nella quale ogni suono, ogni strumento, avesse un colore e una forma e il tutto fosse armonicamente amalgamato. La questione della “forma”, come ricerca di equilibrio e armonia, è stata sempre al centro del suo processo di maturazione artistica. In questo senso, l’intero progetto Dentro e fuori le cime - Dolomiti di Brenta: tra l’occhio e il passo


DI

BOSCO

è addirittura esemplare, sia nella sua edizione in raffinata e convincente monografia, sia nel corso degli incontri e delle serate a tema svolte dall’autore Alberto Bregani, durante le quali i partecipanti raccolgono per quanto loro utile e necessario: gli alpinisti portano a casa magistrali interpretazioni dei luoghi amati (e conosciuti); i fotografi fanno tesoro di una esperienza pratica. Dalla prefazione a Dentro e fuori le cime, di Maurizio Rebuzzini (il nostro direttore, qui in veste di osservatore e commentatore): «Per essere ben eseguita e opportunamente realizzata, la fotografia di montagna richiede talmente tanto sacrificio, tanta disciplina e altrettanta etica, da stabilire presto una straordinaria linea demarcatrice: esiste e si manifesta soltanto una bella ed efficace fotografia di montagna. Non ne può esistere, né se ne può manifestare una brutta, perché la sua realizzazione è selettiva (al contrario di tutta l’altra fotografia del vero e dal vero, che ai nostri giorni è soprattutto definita, condizionata e frequentata da “belle” fotografie inutili). «Quelle di Alberto Bregani sono fotografie di montagna -e subito preciso che sono fantastiche fotografie di montagna- che non si limitano all’osservazione da lontano, come invece fanno altri autori, anche glorificati, che si tengono a debita di-

VALLESINELLA

CIMA MANDRON

di Nuvola Effimere, inconsistenti, cattive, impalpabili, amiche, nemiche, antipatiche quando nascondono il sole, perfide nel piazzarsi davanti a una cima, quella e solo quella, e non spostarsi più. Le nuvole ti cambiano l’umore, decidono la luce, giocano a fare le ombre sotto di loro. Le nuvole, birbanti e irriverenti.

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VALLESINELLA, CASCATE ALTE

di Acqua Acqua: gioia, portatrice di vita. Forza esplosiva e implacabile. Goccia dopo goccia, consuma la roccia, segna il trascorrere del tempo, modifica pareti e vallate. Ruscelli, torrenti, fiumi e cascate che senti da lontano e ti guidano fino a loro, per regalarti fragorosi spettacoli.

stanza. No! No, Alberto Bregani fotografa in escursione, salendo sulle montagne, percorrendone i sentieri, raggiungendo luoghi preclusi ai più (che stanno ben discosti da tali e tanti sacrifici fisici), respirando l’aria in quota, sintonizzando il battito del suo cuore sul palpito della montagna. «Così agendo, altresì guidato da quella eccezionale competenza personale che gli fa intuire le ore legittime per la luce migliore e più adeguata (la fotografia è luce), Alberto Bregani applica e declina due condizioni fondanti della fotografia, di entrambe delle quali è perfettamente consapevole, oltre che convinto. Una: (da e con Edward Steichen, fotografo a New York all’inizio del Novecento) «Missione della fotografia è spiegare l’uomo all’uomo, e ogni uomo a se stesso». Due: (divergendo dalla concezione diffusa che allunga la fotografia dalla pittura) sa bene quanto e come la fotografia sia soprattutto illusione». Avvincente illusione!

VAL BRENTA

FOTOGRAFIA E PAROLE

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Cadenzata con testi di Roberta Bonazza, tra tanto altro co-ideatrice del Festival d’alta quota Il Mistero dei Monti, a Madonna di Campiglio, in Trentino (identificata come la perla delle Dolomiti di Brenta), la monografia Dentro e fuori le cime, di Alber-


to Bregani, è scandita da cinque tempi, che sono poi quelli dell’escursione consapevole: di Roccia, di Nuvola, di Acqua, di Bosco e di Neve. E alla conclusione del lungo tragitto, torna su questi temi, completandosi con affascinanti percorsi suggeriti da Sandro Vidi, guida delle Dolomiti di Brenta. Ancora dall’introduzione di Maurizio Rebuzzini: «Rivolgendoci sia agli addetti della fotografia -che sono consapevoli dei suoi stilemi-, sia al pubblico generico, che deve esserne informato, è obbligatoria una nota tecnica relativa alla costruzione interpretativa di Alberto Bregani. Dopo aver sottolineato l’alta qualità formale delle sue stampe bianconero, che compongono i tratti di un linguaggio espressivo eccezionalmente efficace [peraltro ulteriormente sottolineato da una raffinata stampa litografica della monografia, a tre toni di grigio e verniciatura protettiva], richiamiamo l’attenzione sulle composizioni quadrate. Non prima di aver rivelato anche che la fotografia è comunque una straordinaria combinazione di regole logiche e usi arbitrari, che Alberto Bregani applica con particolare diligenza. «La composizione quadrata non è un vezzo, ma è lessico, sintassi. Anzitutto confortevole, ma non è questo il problema (seppure lo sia, anche), la composizione quadrata induce lo sguardo dell’os-

VALAGOLA

VERSO RITORTO

di Bosco Come un padre, dà sempre e incondizionatamente riparo e nutrimento. Il bosco a volte è austero e severo; altre è allegro e pieno di colori. Al sicuro con il sole, in pericolo con tuoni e lampi. Il bosco è alto e profondo, oppure fitto e intricato. Quanti boschi abbiamo visto e attraversato; quanti profumi e suoni e colori possiamo ricordare solo chiudendo gli occhi. Bosco casa nostra, ossigeno, vita. Bosco da curare e da salvaguardare. Noi il suo migliore amico, noi il suo peggior nemico.

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VALLESINELLA

Dentro e fuori le cime Dolomiti di Brenta: tra l’occhio e il passo, di Alberto Bregani; testi di Roberta Bonazza, percorsi di Sandro Vidi; prefazione di Maurizio Rebuzzini; Il Margine, 2012; 132 pagine 28x28cm; 39,00 euro.

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PRADALAGO

di Neve Tanto soffice e gentile che tutto ricopre, dai boschi alle montagne, ai suoni, quanto imprevedibile e devastante quando decide di mettersi in movimento e non fermarsi più. Come la roccia, esige rispetto e conoscenza delle regole. Animale quieto, ma sempre pronto a sfoderare gli artigli, se provocato.

servatore: evita che spazi da destra a sinistra, piuttosto che dall’alto al basso, senza trovare un punto di attenzione, e impone una concentrazione assoluta e inderogabile. «Però, attenzione, non si tratta di uno stratagemma, magari del tipo di quelli attraverso i quali l’abile prestigiatore distoglie la concentrazione del pubblico. Al contrario, è una sapiente declinazione, che dalla rispettosa interpretazione del soggetto approda alla complice intesa con l’osservatore. Lo sguardo si posa lieve su visioni fotografiche che raggiungono immediatamente il cuore: è illusione, è teatro... è fotografia autentica. «Prima di altro, prima di tutto, la fotografia è un gesto di amore. Il suo fascino estraniante rimanda alla parola mai detta, alla felicità dell’esistenza, al sogno che ciascuno ha nel proprio cuore. «Guardatele bene queste fotografie (poesie). Indipendentemente dal soggetto-pretesto, come anche allineati al soggetto-pretesto, quando le osserviamo, queste fotografie valgono per tutto quanto ciascuno di noi trova in se stesso». In definitiva, non è proprio questa la missione della fotografia? In ripetizione d’obbligo, da e con Edward Steichen: «Missione della fotografia è spiegare l’uomo all’uomo, e ogni uomo a se stesso». ❖



La preziosa edizione di Nobuyoshi Araki. Bondage riunisce le fotografie di una intera vita, le preferite dall’autore giapponese. Soprattutto nei contenuti, ma anche nella forma delle sue proposizioni Collector’s Edition e Art Edition (per tre), è qualcosa di eccezionale, degno di essere collocato ai vertici supremi della bibliografia fotografica di tutti i tempi. Nostri distinguo a parte, che magari lasciano il tempo che trovano, si tratta comunque di una significativa raccolta del celebrato fotografo. E come tale va considerata. Dopo di che... a ciascuno, le proprie opinioni al riguardo. Anche le nostre

LÈGAMI! LEGÀMI! di Maurizio Rebuzzini

A Nobuyoshi Araki. Bondage; Taschen Verlag, 2012 (distribuzione: Inter Logos, strada Curtatona 5/2, 41126 Modena; www.libri.it); tre volumi in cofanetto di legno, con rilegatura giapponese a mano; 600 pagine 29x33cm. ❯ Collector’s Edition: tiratura numerata e firmata; 845 copie; 750,00 euro. ❯ Art Edition: tiratura numerata e firmata; 150 copie, in tre edizioni da cinquanta copie ciascuna; ogni copia comprende una stampa fotografica 24x29cm a colori di Nobuyoshi Araki; 2500,00 euro.

ffrontiamo e commentiamo la recente edizione di Nobuyoshi Araki. Bondage, pubblicata dal fenomenale Taschen Verlag in selettive e elitarie Collector’s Edition e Art Edition (sue intraprendenti e dinamiche specialità editoriali), tormentati e assillati da un conflitto interno, da uno scontro personale, che potrebbe essere fuori luogo. Da una parte, ogni recensione libraria si basa sulle esperienze e concezioni di chi la scrive, ed è legittimo che sia così; dall’altra, un banale fastidio personale non dovrebbe interferire con il percorso ufficiale della presentazione. Diciamola con franchezza: ancora da una parte, questa edizione libraria è tanto curata e altrettanto opportuna da sollecitare soprattutto consenso, approvazione, lode e onore; dall’altra, personalmente, la fotografia di Nobuyoshi Araki, che abbiamo apprezzato e ammirato in tempi non sospetti, ancora prima della sua clamorosa affermazione planetaria, ci è venuta a sostanziale noia. Oggi come oggi, non ci convince più l’eccesso di ripetizione, che per certa critica è cifra stilistica. Probabilmente, anzi certamente, non è soltanto Nobuyoshi Araki a tediarci... ma ci ha stancato (e stroncato) un poco tutta la fotografia erotica, che ci sembra essersi contorta in se stessa, dopo stagioni di invenzioni sorprendenti e fuori dal comune. Però! Però, nostri fastidi a parte (relativi sia all’autore sia al soggetto esplicito delle sue composizioni), questa odierna edizione di Nobuyoshi Araki. Bondage, che riunisce le fotografie di



una intera vita, le preferite dall’autore, è qualcosa di eccezionale e stupendo, degno di essere collocato ai vertici supremi della bibliografia fotografica di tutti i tempi. Allo stesso tempo e momento, è un’altra edizione che rivela l’attenzione e determinazione di Taschen Verlag, di Colonia, che ha ormai concretizzato una consistente serie di allestimenti librari degni di nota e sottolineatura. Su livelli diversi, con intenzioni altrettanto differenti, l’attuale Nobuyoshi Araki. Bondage, in confezione (rilegatura) giapponese classica, allunga la consistente serie di “attenzioni al dettaglio” che fanno la differenza. A memoria, ricordiamo il Polaroid Book, la cui copertina ha ripreso la grafica dei filmpack Polacolor dei decenni di splendore della fotografia a sviluppo immediato, altresì confezionato in una busta di plastica metallizzata, altrettanto ripresa/attualizzata dagli involucri originari Polaroid. Ancora, citiamo la monografia Elmer Batters. Legs that Dance to Elmer’s Tune, la cui copertina ripropose la stoffa di rivestimento del divano dell’illustrazione fetish di richiamo e la cui confezione sostituì la tradizionale cellofanatura industriale con una calza di seta (adeguatamente fetish). E poi -anche se altro ci sarebbe, ma non qui, né ora-, richiamiamo la confezione di plexiglas di MoonFire: The Epic Journey of Apollo 11, con tanto di oblò stile navicella spaziale [FOTOgraphia, luglio 2009]. In ripetizione, d’obbligo: anche questi dettagli, anche queste attenzioni, anche queste raffinatezze fanno la differenza

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NOBUYOSHI ARAKI CON TASCHEN VERLAG

Ricca di oltre trecentocinquanta titoli, a partire da quella che è conteggiata come la collana originaria, in venti volumi, la bibliografia di Nobuyoshi Araki comprende altre tre monografie, che l’editore tedesco Taschen Verlag ha pubblicato prima dell’attuale raccolta Nobuyoshi Araki. Bondage. Nella collana Klotz [FOTOgraphia, dicembre 2000], la selezione Araki. Tokyo Lucky Hole, del 1997, è scandita al ritmo di fotografie in bianconero, tra le quali si trovano molti autoritratti e autoscatti dell’autore nelle situazioni equivoche entro le quali ha agito (sempre con macchina fotografica al collo): 704 pagine 14x19,5cm;

tra editore ed editore, tra chi rispetta il proprio impegno e chi lo svolge con monotonia e fastidio (tanti ne conosciamo). E ora, senza altre deviazioni e indugi, senza ulteriori distinguo, l’essenza libraria dell’avvincente Nobuyoshi Araki. Bondage, il cui insieme fotografico va ben oltre la sola e semplice apparenza erotica a tutti evidente. Sottotraccia, e come filo conduttore, l’opera tutta del celeberrimo autore giapponese risponde a qualcosa di più profondo, che non si esaurisce nell’esplicita raffigurazione di nudi femminili, spesso in pose almeno indecorose, spesso indecenti, sempre sconvenienti. Nel concreto, la fotografia di Nobuyoshi Araki, esplicitamente e consapevolmente declinata verso un certo princìpio di piacere, risponde all’idea giapponese del Kinbaku-bi. Letteralmente “bellezza della schiavitù”, Kinbaku-bi è l’arte giapponese della legatura erotica, che l’autore ha trasfigurato in uno dei suoi temi fotografici più sostanziosi, che ha addirittura stabilito una identificazione assoluta. Nobuyoshi Araki è stato definito in molte maniere, spesso opposte le une alle altre: genio e poeta, ma anche misogino, pornografo, mostro. Esplicito, diretto, dichiarato e senza sottintesi, Pino Bertelli ha liquidato la sua fotografia in una compatta manciata di battute (nel suo Sguardo su, dello scorso aprile 2012): «La fotografia del cattivo edonismo di Nobuyoshi Araki ci fa sorridere. L’erotismo che sparge nelle sue immagini denuncia una visione superficiale (o ignorata) della filosofia libertina e libertaria che trapassa culture, dogmi, parassiti di ogni forma di autoritarismo... e basta una sola puttana di E.J. Bellocq, un cazzo in erezione di Ro-

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9,99 euro. Nota parallela: la monografia è distribuita con due copertine diverse, una più diretta e esplicita dell’altra [qui sotto, a sinistra]. Un titolo semplicemente Araki, del 2007, ottimo per una conveniente presa di contatto con l’autore (eccellente rapporto contenuto/prezzo), fa parte degli illustrati con i quali l’editore ha celebrato i propri primi venticinque anni di attività [qui sotto, al centro]: 560 pagine 20x29cm, cartonato con sovraccoperta; 49,99 euro. Un altro Araki è stato realizzato in Collector’s Edition, di grandi dimensioni, nel 2002 [qui sotto, a destra]: tiratura numerata e firmata; 2500 copie; 636 pagine 34,5x50cm, in cofanetto; 2500,00 euro.

bert Mapplethorpe o un pube nudo di Oliviero Toscani per spazzare via l’intera immondizia estetizzante del giapponese. Dietro ogni immagine di Nobuyoshi Araki si cela o emerge l’improntitudine del piccolo pubblicitario di provincia che vuole scandalizzare il mondo per farne parte. Araki pare non sapere che non si diventa “artisti” impunemente: vi è dell’imbecille in chiunque trionfi in qualsiasi campo dell’arte, della politica, della fede. Possono ritenersi “artisti” compiuti solo coloro che hanno fatto dell’arte, della politica e della fede il concimaio di tutte le mistiche del successo, o si sono fatti eresiarchi di opere visitate dalla grazia e mostrato che -a parte cinque minuti d’insurrezione di popoli indignati- possono cambiare il mondo». Ma, volente o nolente, la fotografia di Nobuyoshi Araki va oltre le classificazioni semplicistiche e moralistiche (e quella di Pino Bertelli è ancora altro). Per il suo lavoro ha affermato che «Non c’è nessuna conclusione. È completamente aperto. Non va da nessuna parte» (da cui, la continua ripetizione, raccolta in oltre trecentocinquanta monografie, che ha finito per sfibrarci). Sia letteralmente sia metaforicamente, i suoi soggetti sono certamente legati e immobilizzati, ma nei modi più affascinanti. Forse. ❖ Doverosa nota di servizio, che riportiamo in chiusura, a conclusione di questa presentazione. Come già specificato nel testo, molte delle fotografie che illustrano la raccolta Nobuyoshi Araki. Bondage sono clamorosamente esplicite (tanto da trasformarsi in “ginecologiche”, o quasi). Non esprimiamo alcun giudizio moralista, che nulla ha da spartire con la morale (e l’etica e la deontologia), ma precisiamo di esserci limitati a illustrare con le visioni meno sconvenienti. Diciamo, più lievi.



SGUARDI NATURALI

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Realizzato con fotografie del bravo Stefano Unterthiner, uno dei più noti fotografi naturalisti internazionali, il Calendario Epson 2013 evoca lo spirito e senso di Equilibri naturali. In un’unica opera, lunga un anno, due anime: l’attenzione per l’ambiente e la passione per la fotografia d’autore. In combinazione, in linea con l’impegno dello stesso Stefano Unterthiner verso la natura nel proprio insieme, Epson promuove l’iniziativa Sulle orme di Navarre, a sostegno del Progetto Lupo Monte Adone, del Centro Tutela e Ricerca Fauna Esotica e Selvatica - Monte Adone, sull’Appennino emiliano, per il recupero, la salvaguardia e una corretta conoscenza della specie “lupo” Intervista di Lello Piazza

MAGGIO: GRU

CENERINE

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GRUS);

HORNBORGA, SVEZIA

S

tefano Unterthiner ha firmato il tredicesimo Calendario Epson, intitolato Equilibri naturali: ogni tavola illustrata racchiude e comunica poesia e racconto, rispetto per la natura e grande sensibilità artistica. I dodici mesi dell’anno sono dedicati ciascuno a una specie diversa, fino a realizzare un percorso per immagini di estrema potenza espressiva e raffinata attenzione formale, tra alcuni dei luoghi più selvaggi e incontaminati del pianeta. Si compie così un viaggio nel mondo animale, alla ricerca di specie rare e minacciate, come l’albatro urlatore e il cinopiteco Macaca nigra (primo premio nella categoria Animal Portraits - Mammals, del BBC Wildlife Photographer of the Year 2008; copertina di FOTOgraphia del febbraio 2009), che osserva con sguardo interrogativo, ma anche pinguini, orsi e cigni, che Stefano Unterthiner ha fotografato in anni di esplorazioni in tutto il mondo. «Fotografo cercando immagini originali -commenta l’autore-, e ambisco a realizzare fotografie che riescano a trasmettere un’emozione. I miei soggetti sono soprattutto gli animali selvatici e con la fotografia cerco sempre di restituire loro un’identità, di trasmettere -nell’attimo catturato- la loro essenza libera e selvaggia. Inserisco i soggetti nel paesaggio o lavoro a breve distanza con il grandangolare, e “completo” lo scatto effettuato sul campo con una stampa di alta qualità e fedele alla situazione originale, senza un’elaborata post-produzione». Le immagini di Stefano Unterthiner mostrano come sotto i nostri occhi convivano, in sorprendenti giustapposizioni, meraviglie paesaggistiche incontaminate e animali delle specie più rare, e come dagli equilibri di simmetrie e luce prendano vita atmosfere surreali, che, non di rado, si presentano come quadri composti di macchie di colore e linee simili ad arabeschi, o come immagini grafiche di estremo rigore compositivo. Dopo lontani servizi di Enrico Fiorelli, basato tra Roma e New York, dal 2009 Stefano Unterthiner è il primo italiano a pubblicare regolarmente sul prestigioso e autorevole mensile National Geographic.

Sono molto contento che Epson si sia convinta a realizzare il proprio Calendario 2013 con te. Un calendario dedicato alla fotografia della natura. Anzi, vorrei addirittura proporre loro di farlo per dieci anni di fila un calendario così. Che effetto ti ha fatto entrare nel piccolo Olimpo dei fotografi scelti da Epson, dopo dodici anni di calendari firmati da grandi “vecchi” della fotografia italiana?

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«Anzitutto, arrivare a firmare un calendario di questa importanza mi ha molto gratificato. Poi, sono contento di aver portato in questo contesto la natura, o se si vuole la fotografia naturalistica di autore. Anche perché questo tipo di fotografia è sempre stato visto come la cenerentola nel mondo della Fotografia (la maiuscola è d’obbligo). «Non solo ho avuto l’opportunità di mostrare il mio lavoro, ma ho anche potuto parlare di fotografia della natura a persone che non erano abituate a questo genere di argomenti». Parliamo dell’aspetto tecnico, prima; poi, affronteremo i temi culturali. Cosa pensi del percorso di Epson, che ogni anno realizza un Calendario illustrato in tiratura limitata, con le

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fotografie stampate non tipograficamente sulle tavole, ma prodotte in originali (in tiratura) con sue stampanti a getto di inchiostro, le stesse che oggi si utilizzano per la fotografia fine art da collezione? Sei d’accordo che questo progetto ha trasformato un calendario in qualcosa di più, in un oggetto degno di stare in una galleria d’arte? «Sì, trovo che sia la carta vincente di questo Calendario. Anche l’idea di applicare a mano le fotografie stampate -su ogni tavola mensile- lo rende un oggetto artigianale assolutamente particolare, che giustifica l’importante serata della sua presentazione al mondo della cultura fotografica e ai giornalisti». L’utilizzo delle loro stampanti e dei loro inchiostri rende le


(URSUS ARCTOS); VARTIUS, FINLANDIA BRUNO

MARZO: ORSO

copie molto durature nel tempo: la stessa durata che si garantisce -per l’appunto- alle fotografie da collezione. «Non solo gli inchiostri. Si mette anche una grande cura nella scelta dei supporti, della carta di stampa, che non sono gli stesse per tutti i calendari, ma variano in relazione al tipo di fotografia e delle esigenze espressive dell’autore. «Mi affascina anche l’elemento di artigianalità introdotto da una multinazionale ultra moderna nella realizzazione di un proprio prodotto promozionale. In un mondo nel quale tutto è automatizzato, computerizzato, allineato e banalmente globalizzato, l’idea di vedere un abile artigiano che incolla una per una le circa dodicimila copie stampate, necessarie al completamento di novecentonovantanove calendari, mi lascia piacevolmente sorpreso».

Tu avevi già avvicinato Epson per la stampa delle tue fotografie che vendi nella Galleria del Forte di Bard, in Val d’Aosta. Queste immagini che vendi per collezionismo sono garantite dalla Digigraphie Epson [comportamenti tecnici secondo i quali fotografie digitali vengono prodotte a stampa limitata e numericamente garantita, firmate, timbrate e datate a mano; FOTOgraphia, marzo 2008]. «La collaborazione con Epson è iniziata due anni fa, e riguarda me e mia moglie Stephanie, con la quale gestisco la Galleria e la vendita delle fotografie. È addirittura lei che ha firmato il contratto con Epson. «Si sono subito dimostrati entusiasti all’idea di supportare la nostra vendita di fotografie fine art. Ci hanno messo immediatamente a disposizione la loro stampante di grande formato 7890, e all’avvio ci hanno fornito di carta e inchiostri. Questo ci ha molto aiutato nel far decollare l’iniziativa. A nostra volta, abbiamo sposato immediatamente l’idea della Digigraphie, ancora poco diffusa, ma che ritengo rappresenti una preziosa garanzia per l’acquirente». Veniamo ai contenuti della fotografia naturalistica. In questi giorni [fine novembre], l’assegnazione, da parte da parte della giuria del concorso italiano di National Geographic, del primo premio nella categoria Mondo Animale a una fotografia di un gaviale scattata in un zoo di Praga ha provocato un piccola bufera su Internet. A oggi sono quasi centotrenta gli interventi apparsi sul sito web di National. Lettori e appassionati di fotografia hanno discusso e criticato duramente la scelta della giuria. Tutta questa discussione mi ha lasciato molto perplesso. Io ho pubblicato un paio di interventi all’interno della discussione: il primo, difendendo il lavoro della giuria; il secondo, valutando positivamente tutta questa discussione, che dimostra che la fotografia naturalistica ha un seguito importante nel nostro paese. Proprio in questo secondo intervento ho suggerito a tutti coloro che erano intervenuti di guardare alla positività della discussione, anziché rammaricarsi per una scelta della giuria, che io continuo a considerare legittima, anche se -ovviamente- discutibile. Questo secondo intervento non ha provocato nessuna reazione; anzi, gli appassionati hanno continuato a criticare con durezza quella scelta, rifiutando -di fatto- la mia proposta di armistizio. Evidentemente, come si evince anche da molti programmi televisivi, la gente ha più voglia di litigare che di andare d’accordo. «Ho letto anch’io il tuo secondo intervento, e l’ho interpretato come una proposta di armistizio. Ma, come ho scritto sul sito mio e di National, anch’io biasimo la scelta della giuria, perché ritengo che un rivista come National Geographic non debba premiare la fotografia di un animale in cattività, anche se, obiettivamente, il regolamento del concorso non lo vieta. «A mio parere, oggi, più ancora che in passato, la fotografia naturalistica possiede valenze che vanno al di là della bellezza dello scatto. Queste valenze riguardano soprattutto le tematiche di protezione della natura. «Io penso che la polemica scoppiata nasca proprio da lì. Cioè, gli appassionati si aspettano che le fotografie naturalistiche siano realizzate secondo canoni che definirei altrettanto naturali, e che prevedono un rapporto intenso del fotografo con il mondo naturale, cioè la sua completa immersione in questo mon-

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do, magari anche la paziente attesa del soggetto, nascosti in un capanno. Un rapporto che non può essere intenso quando l’autore della fotografia scatta in un ambiente artificiale. «Voglio dire che l’appassionato si aspetta che dalla fotografia naturalistica traspaia, in un certo senso, anche il sacrificio fisico sofferto per realizzare lo scatto (per esempio, la fatica per raggiungere il luogo dello scatto, il freddo che si deve soffrire d’inverno o il caldo che si deve sopportare l’estate). In uno zoo, tutta questa faticosa tensione non può realizzarsi. Dunque, penso che chi ha criticato la giuria si sia sentito in qualche misura tradito: perché -avrà pensato- hanno premiato un autore che, senza fatica e senza particolari competenze naturalistiche, ha potuto realizzare un scatto da primo premio, e a me, con tutta la fatica che ho fatto per realizzare la mia fotografia, non è stato riconosciuto niente? «Comunque, non credo che sia soltanto uno spirito egoistico ad alimentare queste critiche. Penso che sia profonda convinzione degli intervenuti che solo una fotografia realizzata con uno stile che definirei etico, naturalistico, deontologico riesce a mostrare la natura come è veramente: libera, naturalistica e impossibile da raggiungere senza sacrifici. Infine, penso che mentre è legittimo fotografare in un zoo o al circo, o anche gli animali domestici di casa, realizzando magari immagini bellissime, sia fuorviante associare queste immagini alla natura, soprattutto sotto gli auspici di National Geographic». D’accordo, ma c’è comunque qualcosa che non mi convince in questa reazione violenta nei confronti di un giudizio della giuria. Non mi convince nel senso che tanto massimalismo integralista si sposa male con altri atteggiamenti, che vengono troppo spesso a mancare, e che dovrebbero riguardare critiche ancora più violente nei confronti di quello che il mondo moderno fa contro l’ambiente e il paesaggio, insomma contro la natura. Peraltro, questa fotografia di gaviale è, a mio parere, bellissima ed evocativa del carattere dell’animale, un

SULLE ORME DI NAVARRE

L’edizione del Calendario Epson 2013 si completa con cinquanta cofanetti intitolati Sulle orme di Navarre, a sostegno del Progetto Lupo Monte Adone, del Centro Tutela e Ricerca Fauna Esotica e Selvatica - Monte Adone, sull’Appennino emiliano, nei pressi di Sasso Marconi (www.centrotutelafauna.org). Dal 1989, il Centro è impegnato a soccorrere, curare e riabilitare la fauna selvatica autoctona ferita o in difficoltà e ad accogliere fauna esotica sequestrata dalle Guardie Zoofile. Il progetto è dedicato a Navarre, uno dei lupi da loro accolti, la cui storia ha commosso migliaia di persone. Nel gennaio 2012, fu trovato nelle gelide acque di un fiume, ferito da due fucilate. Soccorso, è rimasto in degenza per diversi mesi. Quando, a seguito delle cure ricevute, Navarre sembrava completamente riabilitato e si stava preparando la sua liberazione, è inaspettatamente deceduto. L’iniziativa di Stefano Unterthiner e Epson consiste nella consegna al Centro di cinquanta cofanetti che contengono una copia del Calendario 2013 Equilibri naturali, firmata dall’autore, e una stampa Digigraphie, numerata e firmata, della fotografia Confusion, che illustra la tavola di maggio [a pagina 48]. Il Centro mette in vendita i cofanetti a 200,00 euro ciascuno, per sostenere le proprie attività.

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animale che vive di agguato, che attende per ore immobile la sua preda, comportamento al quale la fotografia premiata fa pensare. Mi chiedo: le persone che si sono espresse con parole molto dure contro questa immagine non si saranno indignate solo dopo aver letto la didascalia scritta dall’autore, che sottolinea che lo scatto non è avvenuto in natura, ma in uno zoo? Mi chiedo se coloro che hanno criticato lo sfondo siano mai stati in India e abbiano mai potuto osservare con i propri occhi gli ambienti nei quali questi rettili sono costretti a vivere: ambienti che spesso non sono stupendamente selvaggi, ma degradati dall’intervento dell’uomo. Infine, mi chiedo se costoro sanno che nella provincia di Monza e Brianza, dove io vivo, il cinquantatré percento del territorio è coperto da catrame e cemento; ancora, mi chiedo se mostrano la stessa intensità di protesta nei confronti di questa realtà ambientale che fa sicuramente più danno della fotografia premiata. Mi sembra che ci sia una specie di isterismo snob, simile a quello che rilevavo quarant’anni fa in certi esponenti del Wwf italiano, un isterismo estetizzante per il quale il problema si fermava alla bellezza di un picchio, ma si rifiutava di vedere o non capiva quello che stava accadendo sul territorio e sul paesaggio, che sottraeva al picchio il proprio ambiente naturale. Non ricordo, per esempio, che per loro fosse una priorità la guerra alla speculazione edilizia, che ha devastato l’Italia negli ultimi cinquant’anni, causando certamente più danni della stessa caccia eccessiva. «Su questo sono pienamente d’accordo. Ne abbiamo parlato anche prima della presentazione del Calendario, durante l’incontro con quei giovani che seguono me e Epson su Twitter e Facebook. C’è una sovra attenzione, direi quasi consumistica, per temi come quello di una fotografia premiata a un concorso o quello del modello di macchina fotografica appena uscita, al quale gli appassionati trovano un sacco di difetti perché non incontra il loro gusto. «Tu hai detto del Wwf di quaranta anni fa. In questi decenni, mentre si è condotta una sacrosanta battaglia per proteggere la foca monaca, metà del Borneo se n’è andata. Quindi, ci chiediamo se coloro che hanno a cuore la natura adottino le strategie giuste. Si parla sempre più di cambiamenti climatici. Ma la mia impressione è che queste urgenze siano sostanzialmente inascoltate. Dovremmo essere tutti dalla stessa parte, ambientalisti, fotografi, lettori, tutti quanti. Lo ha detto anche Yann-Arthus Bertrand, l’altra sera, inaugurando la sua mostra fotografica al Forte di Bard: “dovremmo essere tutti ecolò”, trasformazione fonetica -secondo l’usanza del francese parlato, che tende a troncare tutto- dell’identificazione ecologiste in qualcosa di più sonoramente gradevole. «Per mancanza di tempo, purtroppo, è quello che non sono riuscito a dire l’altra sera ai giovani [nell’ambito della presentazione del Calendario Epson 2013]. È questo il momento per diventare ecolò. Che per me vuol dire amare la vita, amare la natura». Però, non è sorprendente che la fotografia naturalistica abbia difficoltà a coinvolgere il pubblico in un azione di protezione del pianeta. Esattamente come la fotografia di guerra, che mostra immani tragedie, gente affamata, corpi sbudellati, non basta a convincere il pubblico a intraprendere un’azione efficace contro la guerra stessa. Addirittura, come tu certamente sai, il problema dei fotografi di guerra si manifesta ancora prima della dif-


ANTARTICHE FRANCESI E

(CATHARACTA LONNBERGI ); CROZET, TERRE AUSTRALI BRUNI

- STERCORARI PATAGONICUS)

(APTENODYTES REALI

sformato in lavoro la passione per la natura. «Penso che sia una questione di sapersi organizzare. Trovare un buon progetto. Riuscire a metterlo in comunione con più di una persona o un ente disposti a sostenerlo. «Per fortuna, in questi ultimi anni ho cominciato a lavorare con National Geographic, di Washington. Lavorare con loro significa poter essere sul campo a realizzare il progetto in corso e -contemporaneamente- pensare al progetto successivo. «Tra l’altro, sono fortunato, perché ho sempre lavorato con mia moglie, che mi aiuta molto e con cui condivido scelte e progetti». Sono molti i fotografi naturalisti che lavorano in coppia con la moglie (fotografi stile vecchio Airone, che oggi non esiste più, stile sintetizzato dal blasone: vivere la natura, conoscere il mondo). Qui ricordo le coppie più famose. Quelle dove entrambi sono fotografi: Christine e Michel DenisHuot, specializzati in Africa, soprattutto Kenya e Tanzania; Brian e Cherry Alexander specializzati nelle regioni artiche; John Eastcott e Yva Momatiuk, che lavorano anche per National Geographic; Claude Nuridsany e Marie Pérennou, passati poi al cinema, autori degli straordinari film-documentario Microcosmos: Le peuple de l’herbe e Genesis; Tiziana a Gianni Baldizzone, dei quali conosciamo bene il progetto Esprit Nomade. Nomades des déserts de sable, d’herbe, de neige, che abbiamo presentato su questa rivista, nel giugno 2010. Poi, quelle dove uno dei due è fotografo, l’altro è un naturalista, come Frans Lanting e Chris Eckstrom, che si sono conosciuti in Botswana (lei è una biologa). In un certo senso, anche Yann Arthus-Bertand e sua moglie Anne hanno cominciato insieme. Si sono conosciuti in Africa, all’inizio degli anni Ottanta, dove lei studiava i leoni e lui li fotografava. «Con Stephanie, stiamo tra l’altro aspettando un bambino, che arriverà a maggio e cambierà molto la nostra vita. Dovrò lavo-

APRILE: PINGUINI

ficoltà a convincere il pubblico. I fotografi di guerra non riescono a convincere a pubblicare le loro fotografie neppure i direttori dei giornali. Perché così vanno le cose: chi gestisce la pubblicità nei giornali non vuole che il lettore sia intristito con fotografie della verità. «Ma sì, certo. Non si può pretendere troppo dalla fotografia. La fotografia svolge il suo piccolo-grande mestiere, come lo fanno la televisione, il cinema e anche l’arte, in un certo senso. «D’altra parte, il mondo va così veloce, che pare non ci sia più tempo per riflettere. Prendiamo come esempio la fotografia digitale e Internet. Ancora solo dieci anni fa, io usavo la pellicola, Internet mi serviva soltanto per la posta elettronica. Oggi, scatto in digitale e attraverso Internet faccio circolare il mio lavoro. «Tutto è in costante e rapida trasformazione, a causa del tumultuoso evolversi della tecnologia. E allora, tornando a quello che dicevamo prima, l’esperienza del Calendario Epson per me ha ancora più valore. Questa molecola di lenta artigianalità, inserita nella sua realizzazione, che consiste nell’applicare a mano le copie fotografiche, mi fa ritenere questa esperienza Epson ancora più interessante». Sì, con questa raffinata produzione reintroducono il concetto di limite. Quando si incolla a mano, non si può andare più veloci di tanto. Ripropongono il concetto di limite che la fotografia digitale sembra far dimenticare, trasformando la quantità, in qualità. Anche se continuo ad affermare che la scoperta della fotografia digitale rappresenta una vera fortuna, perché ci permette di realizzare fotografie impensabili fino a qualche anno fa. «Anch’io sono entusiasta della fotografia digitale, e ho completamente cancellato i dubbi che mi erano venuti nella breve fase di transizione». Prima di concludere, vorrei che dicessi qualche cosa su come organizzi la tua vita professionale e come hai tra-

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PAINE, CILE DEL

NOVEMBRE: GUANACO (LAMA GUANICOE); TORRES HOKKAIDO, GIAPPONE CYGNUS);

(CYGNUS SELVATICI

DICEMBRE: CIGNI

EDIZIONE DI PRESTIGIO

Il Calendario Epson 2013, Equilibri naturali, illustrato da Stefano Unterthiner, ripropone i termini di una raffinata edizione, esordita dodici anni fa, nel 2001, con Giorgio Lotti. Le dodici immagini mensili sono realizzate in stampe originarie, prodotte con stampante Epson Stylus Pro 7890 su carta opaca Epson Enhanced Matte, incollate manualmente una per una sulle novecentonovantanove copie della tiratura. 2001. Giorgio Lotti: Luce, colore, emozioni. 2002. Franco Fontana: Paesaggio Immaginario. 2003. Mario De Biasi: Immagini che contano [FOTOgraphia, dicembre 2002]. 2004. Giovanni Gastel: La realtà immaginata [FOTOgraphia, dicembre 2003]. 2005. Mimmo Jodice: Mare. 2006. Ferdinando Scianna: Allo specchio [FOTOgraphia, febbraio 2006]. 2007. Gian Paolo Barbieri: Eleganza naturale. 2008. Gianni Berengo Gardin: Poesie italiane. 2009. Massimo Vitali: Paesaggi umani [FOTOgraphia, dicembre 2008]. 2010. Vittorio Storaro: Scrivere con la luce [FOTOgraphia, febbraio 2010]. 2011. Gabriele Basilico: Dentro la città. 2012. Maurizio Galimberti: Passato Contemporaneo. 2013. Stefano Unterthiner: Equilibri naturali.

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rare da solo, e questo è difficile. Per fortuna, collaborando con National Geographic, potrò avere un assistente, il che mi permetterà di sentire un po’ di meno l’assenza di Stephanie». Prima di salutarci, racconta i tuoi progetti futuri. «Alcune cose sono top secret. Però, posso dire che sto conducendo un grosso progetto che riguarda le Alpi. Si concluderà nel 2014, e prevede la pubblicazione di un libro importante. Poi, continuo la mia collaborazione con National Geographic». Un pensiero di chiusura? «Vorrei tornare al tema che abbiamo trattato all’inizio, che riguarda i concorsi. Ribadisco che per me il bravo fotografo naturalista non è quello che li vince -i concorsi-, ma è quello che riesce a fotografare provocando il minimo disturbo possibile. Ed è ancora più bravo, se con le sue fotografie riesce a fare passare un messaggio positivo per la natura. Questo è il bravo fotografo. Se poi vince anche un concorso, tanto meglio per lui». Ti confesso, comunque, che auspico che la fotografia della natura rimanga un tipo di attività non troppo praticata. Se i fotografi naturalisti aumentano oltremisura, rischiano di fare gli stessi danni dei cacciatori. Secondo te, come si può pensare di porre un limite? Proprio l’altro giorno, parlavamo di un’attività, sempre più praticata, che ha un grande successo nel Nord Europa. Spiego qui di cosa si tratta: l’attività prevede che qualcuno, chiamiamolo ranger, pasturi gli animali, creando un carnaio o qualcosa di simile, per attirarli costantemente presso un capanno attrezzato, dove il fotografo naturalista si nasconde per realizzare le sue immagini. Sappiamo che questo può provocare anche la morte di qualche animale. E allora, come si può fare? «Penso che alla fine sia preferibile che ci sia qualcuno competente che gestisce in loco questa attività, piuttosto che ciascuno cerchi di organizzarsi da solo. I ranger sanno che dalla loro capacità di limitare l’accesso alle zone dove gli animali vengono nutriti, e quindi dalla capacità di limitare il pericolo per questi animali dipende anche la possibilità di continuare il proprio lavoro. «La risposta è comunque difficile. Da una parte, bisognerebbe dire che meno male che c’è più gente che va in natura a scattare fotografie. Dall’altra parte, c’è il problema tutta questa gente può provocare danni. Ma la domanda che mi pongo è questa: i fotografi naturalisti sono come quelli che in natura vanno a fare motocross? Cioè, sono più interessati al gesto che compiono che non all’ambiente nel quale si trovano? «Io credo che la stragrande maggioranza dei fotografi naturalisti sia molto più interessata alla natura, che non al gesto fotografico. Però, questa pulsione a riuscire a realizzare la fotografia migliore, ad apparire come quello che ha vinto un concorso, rappresenta un sentimento pericoloso. E non sono solo i concorsi il pericolo, ma anche i social network, come Facebook, Instagram, Twitter. Anche qui c’è una competizione, un confronto quotidiano con tutti gli altri della tua tribù, dei tuoi amici che scattano fotografie. Non so quale potrebbe essere lo strumento che limita. Non riesco a darti un risposta». Come si capisce anche da certe tue osservazioni, credo che la soluzione del problema sia nell’educazione generale della gente, nel fatto che tutti imparino, magari a partire dalla scuola primaria, il concetto di limite, quello che già diceva Orazio duemila anni fa, che oltre un certo limite non può esistere il giusto. Cioè è importante che la gente impari da sola a capire fino a dove si può arrivare senza fare danni. A rispettare l’ambiente. Grazie, Stefano. ❖



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S-PUNTI

DI RIFLESSIONE Ci occupiamo della serie di ritratti del progetto In the American West, di Richard Avedon, confortati da una testimonianza diretta dell’autore e dal backstage raccolto in una affascinante monografia: Avedon at Work in the American West, di Laura Wilson. La serie è ampiamente nota, e fa già parte della Storia della Fotografia; non ci sarebbe altro da aggiungere ancora. Ma l’aggiornamento delle considerazioni di Richard Avedon, con accompagnamento di fotografie di scena, sono per tutti noi, a nostra disposizione. Utili per il nostro bagaglio di conoscenze e competenze della fotografia, compongono i tratti significativi di quei tasselli che, giorno dopo giorno, anno dopo anno, ci rendono fotografi migliori (di scatto o di interesse per). Soprattutto, persone migliori

di Maurizio Rebuzzini

A

LAURA WILSON: DAVIS, CALIFORNIA 9

LAURA WILSON

MAGGIO

1981

vviato nel 1979, e completato in cinque anni, fino al 1984, In the American West, di Richard Avedon, è uno dei progetti fotografici più consistenti della fotografia contemporanea, quella che si data nei decenni che scorrono a partire dagli anni Sessanta. È uno dei progetti che hanno arricchito la Storia della Fotografia nel proprio complesso. Non si tratta di una fotografia che si ispira ad altro, a sé estraneo, ma di una fotografia che rimane autenticamente tale, manifestando stilemi che sono propri e caratteristici soprattutto del suo linguaggio espressivo, così come si è delineato e composto nello scorrere dei propri tempi, dalle origini di metà Ottocento. Ovvero, anche nell’applicazione separata dall’assolvimento di incarichi e committenze, Richard Avedon è stato soprattutto fotografo, nella maniera e nei modi che ha collaudato e controllato con perizia per anni e anni e anni ancora. Non siamo in presenza di fotografia che si propone come arte (e da questo territorio dipende), ma di fotografia che è arte proprio in quanto... fotografia. Se servono, due paralleli e tante lontananze.

Avedon at Work in the American West, di Laura Wilson; prefazione di Larry McMurtry; Harry Ransom Humanities Research Center Imprint Series / University of Texas Press, 2003; 132 pagine 22,5x27,8cm, cartonato con sovraccoperta; 42,00 dollari. La monografia raccoglie i backstage delle sessioni fotografiche che Richard Avedon ha realizzato nell’Ovest degli Stati Uniti, dal 1979 al 1984, allestendo uno straordinario capitolo della fotografia contemporanea.

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LAURA WILSON

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In un certo senso, quello che effettivamente conta e ha peso, nel conteggio della fotografia contemporanea, In the American West, di Richard Avedon, sta in buona e bella compagnia con gli Small Trades, di Irving Penn, i piccoli mestieri fotografati a Parigi, Londra e New York [FOTOgraphia, marzo 2012], che a propria volta si sono allungati verso i ritratti etnici in Centro e Sud America, in Nuova Guinea e al Nord dell’Africa: tutte interpretazioni (!) nelle quali l’autore ha colto i soggetti nella propria individualità manifesta. E poi, si accosta ai progetti etnici -diciamola così- di Gian Paolo Barbieri [FOTOgraphia, settembre 2007 e aprile 2011], aggiuntivi alla sua fantastica fotografia di moda: in volume, Silent Portraits (1984), Tahiti Tattoos (1989 e 1998), Madagascar (1997), Equator (1999), Exotic Nudes (2003) e Body Haiku (2007). Allargandoci alla Storia della Fotografia nella propria articolazione completa, come non avvicinare questi progetti di Richard Avedon, Irving Penn e Gian Paolo Barbieri agli Uomini del Ventesimo secolo, di August Sander [FOTOgraphia, settembre 2007], ai nativi americani, di Edward Sheriff Curtis [FOTOgraphia, maggio 2008], e alle prostitute di New Orleans, di E.J. Bellocq [FOTOgraphia, febbraio 2012]? Impossibile non farlo! Allo stesso tempo, e nel medesimo senso, ancora quello che effettivamente conta e ha peso, nel conteggio della stessa fotografia contemporanea, In the American West, di Richard Avedon, ha nulla da spartire con la contemporaneità di altri autori

RICHARD AVEDON

Sul set che Richard Avedon ha allestito nei pressi di un distributore di benzina, a Yukon, in Oklahoma, il 16 giugno 1980, per il ritratto di Bill Curry, operaio incontrato lungo la Interstate 40.

acclamati dai mercanti (del tempio), che intendono una fotografia concettuale ed effimera (siamo perfettamente convinti della transitorietà di tanti successi dei nostri giorni).

OLTRE LA MODA Fotografo oltre la sala di posa che lo ha immortalato, eternandolo come uno dei più grandi della moda -grande interprete, grande esecutore, gran-


LAURA WILSON RICHARD AVEDON

AMERICAN WEST

de inventore di situazioni e tratti distintivi-, prima di In the American West, Richard Avedon ha più volte rivelato la propria attenzione alla vita attorno a sé. In anticipo su altro, è celebre e celebrata la serie di ritratti realizzati in Times square, a New York, la notte del 22 novembre 1963, di cittadini costernati nella lettura delle edizioni speciali dei quotidiani che annunciarono e commentarono l’assassinio del presidente John Fitzgerald Kennedy.

In the American West è una raccolta di ritratti di persone comuni dell’Ovest degli Stati Uniti: molti dei quali sono stati assunti a icone della Storia della Fotografia, magari a partire dal celeberrimo apicoltore Ronald Fischer, fotografato a Davis, in California, il 9 maggio 1981 [a pagina 57 e in questa pagina]. La serie è stata realizzata e composta con straordinaria perizia, evidenziata anche in una monografia fotografica complementare al volume originario, del 1985, pubblicato in occasione della prima esposizione in mostra (design di Marvin Israel; edizione Harry N. Abrams, di New York [a pagina 60]). Il backstage di quegli intensi cinque anni è riunito in Avedon at Work in the American West, di Laura Wilson: racconto fotografico di straordinario fascino e intenso valore storico [a pagina 57]. Testimonianza diretta, dal sito www.richardavedon.com, a cura della Richard Avedon Foundation, istituita all’indomani della scomparsa del celebre fotografo (Primo ottobre 2004 [FOTOgraphia, feb-

JOHN LOENGARD

E poi non si deve sottovalutare l’impegno sociale e civile espresso in diverse occasioni, a partire dall’adesione alle proteste contro la guerra in Vietnam, coincidente con un certo sommovimento complessivo del mondo culturale statunitense dei secondi anni Sessanta. A questo proposito, sono significative le prese di posizione: quando fotografò i dimostranti per i diritti civili, impegnandosi attivamente contro il razzismo e le intolleranze, e quando realizzò un commovente lungo servizio negli istituti psichiatrici della Louisiana. Addirittura, nel 1972, venne arrestato e imprigionato per disobbedienza civile durante una manifestazione pacifista al Capitol Building, di Washington. A margine, leggiamo da Lo Chic Radicale, di Tom Wolfe: «Tuttavia, lo Chic Radicale era arrivato. La season dell’autunno 1969 fu il suo grande momento. Gente come Jean van den Heuvel dette dei parties per la rivista Ramparts, che ormai era già diventata una rivista di barricadieri, e per gli Otto di Chicago. Jules Feiffer dette un party per le caffetterie dei G.I., al quale Richard Avedon, il più famoso fotografo di moda americano, fece il ritratto di chiunque desse venticinque dollari per la causa. Aveva sistemato la macchina fotografica e le luci nella sala da pranzo. Sta di fatto che Avedon era diventato il fotografo ufficiale del Movimento. Stava facendo la sua emersione quinquennale, per vedere a che punto si era arrivati. Cinque anni prima, era emerso dal suo studio per dare uno sguardo in giro e aveva fotografato e pubblicato un intero numero di Harper’s Bazaar per segnalare le sue scoperte, che erano del genere Pop, Op, Rock, Andy, Rudy e Go-Go. Adesso, Avedon stava preparando un album sul Movimento. Era andato a Chicago per il processo degli Otto e si era sistemato in un albergo vicino al tribunale per fotografare tutte le celebrità e gli attivisti che testimoniavano al processo o vi assistevano o giravano da quelle parti, per un motivo o per un altro».

Da Celebrating the Negative, di John Loengard (straordinaria monografia della quale ci siamo occupati lo scorso ottobre), il negativo 8x10 pollici del ritratto dell’apicoltore Ronald Fischer tenuto dalle mani dell’autore Richard Avedon (New York City, 3 maggio 1994).

A tutti gli effetti, il ritratto dell’apicoltore Ronald Fischer, fotografato a Davis, in California, il 9 maggio 1981, è il più celebre e conosciuto del progetto In the American West, di Richard Avedon. Ne sono state scattate diverse varianti, una delle quali è considerata l’immagine definitiva e ufficiale.

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In the American West, di Richard Avedon (copertina e retro); design di Marvin Israel; Harry N. Abrams, 1985. Quotazioni antiquarie, da quattrocento dollari.

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braio 2005]): «Dalla primavera 1979, ho occupato i mesi estivi viaggiando attraverso l’Ovest degli Stati Uniti; mi sono fermato in stazioni di servizio per autotreni, ho raggiunto recinti per il bestiame, ho camminato tra la folla, nelle fiere locali, alla ricerca di volti da fotografare. La struttura del progetto mi fu subito chiara, e ciascun nuovo ritratto ha trovato la propria collocazione all’interno della struttura preordinata. Con il procedere del lavoro, gli stessi ritratti rivelarono presto relazioni significative -psicologiche, sociologiche, fisiche, familiari- tra persone estranee tra loro». Richard Avedon ha allestito i propri set in situazioni temporanee e precarie, riversando nel progetto le capacità acquisite in anni di mestiere (e vale anche l’opposto: l’esperienza di In the American West ha arricchito la sua fotografia professionale): «Il mio metodo di lavoro. Ho fotografato i miei soggetti davanti a un fondale bianco, largo 2,70 metri e alto 2,10 metri, momentaneamente assicurato a una parete, a un edificio, a volte sul fianco di un camion. Ho lavorato in luce diffusa (da un telo collocato orizzontalmente sopra il soggetto), perché la luce diretta del sole avrebbe creato alte luci, ombre e intonazioni che avrebbero potuto distogliere l’attenzione dell’osservatore. La luce morbida e diffusa ha neutralizzato ogni possibile invadenza, rendendo altresì i ritratti stilisticamente omogenei tra loro. «Ho scattato con una Deardorff 8x10 pollici in legno, ovviamente fissata su treppiedi: folding moderna per pellicole piane, niente affatto diversa da-

gli apparecchi antichi usati da Edward Sheriff Curtis, Mathew B. Brady e August Sander. Generalmente, mi sono posizionato accanto al treppiedi, non dietro il vetro smerigliato, a sinistra dell’obiettivo, a circa un metro e mezzo dal soggetto. Così, mentre compongo l’immagine, concepisco l’inquadratura meglio di come potrei fare osservando attraverso l’obiettivo. Sono abbastanza vicino, da poter toccare il soggetto; nulla si interpone e possia-


mo interagire: si procede in base a una ritualità particolare e finalizzata, estranea a ciò che accade nella vita ordinaria».

RITRATTO FOTOGRAFICO A questo punto, dopo la forma, i contenuti. Cosa è, per Richard Avedon, un ritratto fotografico? Quali le sue caratteristiche discriminanti? Dove nasce il suo valore?

Testuale (o quasi): «Per realizzare la sua immagine, il fotografo ritrattista dipende anche dal suo soggetto: non dall’apparenza della sua fisionomia, ma dalla essenza e consistenza della sua personalità, della sua vita. In un certo modo, si tratta di proiettare la propria soggettività sul soggetto, che deve essere rivelato in base a una raffigurazione/finzione della quale lui non possiede le chiavi esplicative (le padroneggia soltanto il fotografo). Nella sessione di ritratto, il fotografo e il soggetto hanno proprie preoccupazioni autonome, e aspirazioni distinte. Ognuno dei due vorrebbe controllare appieno la situazione, che comunque è nelle mani del fotografo. Quando sono su un set, sono io che dirigo l’intera sessione secondo mie intenzioni. «Nessun ritratto fotografico è a somiglianza del soggetto. Quando un’emozione viene convertita in fotografia, non raffigura più un fatto, ma rappresenta un’opinione. In fotografia non c’è imprecisione. Tutte le fotografie sono rigorose e veritiere, sebbene nessuna racconti la verità» [oppure, ed è lo stesso: «Tutte le fotografie sono fedeli, nessuna è la verità»]. Da cui, il rapporto tra il fotografo e il suo soggetto, consapevolmente in posa, consenzientemente saldo davanti all’obiettivo (soprattutto nel caso di un set con apparecchio grande formato 8x10 pollici, con quanto comporta la sua sola gestione): «In una sessione fotografica di ritratto, si comincia con un processo cognitivo, sia per il soggetto sia per me e per noi insieme. Io-fotografo colloco l’apparecchio fotografico, stabilendo la distanza di ripresa, l’inquadratura e la

Ancora quattro set volanti del progetto fotografico In the American West, di Richard Avedon: «Ho fotografato i miei soggetti davanti a un fondale bianco, momentaneamente assicurato a una parete, a un edificio, a volte sul fianco di un camion. Ho lavorato in luce diffusa, perché la luce diretta del sole avrebbe creato alte luci, ombre e intonazioni che avrebbero potuto distogliere l’attenzione dell’osservatore. Ho scattato con una Deardorff 8x10 pollici in legno, ovviamente fissata su treppiedi: folding moderna per pellicole piane, niente affatto diversa dagli apparecchi antichi usati da Edward Sheriff Curtis, Mathew B. Brady e August Sander». Su questa doppia pagina, dall’alto: Wilson, Wyoming, 2 luglio 1982; Yukon, Oklahoma, 16 giugno 1980; Wild Horse, Colorado, 16 giugno 1983; Reliance, Wyoming, 29 agosto 1979.

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ARCHIVIO FOTOGRAPHIA (3)

LAURA WILSON

Valutazione degli ingrandimenti fotografici del progetto In the American West, nello studio newyorkese di Richard Avedon.

Tre copertine dedicate a Richard Avedon: Newsweek, del 16 ottobre 1978, United (mensile delle linee aeree United Airlines), del luglio 1986, e The Magazine (allegato domenicale del Sunday Times), del 26 settembre 1993. Nota parallela: una volta con Sinar Norma e due con Deardorff; in ogni caso, sempre 8x10 pollici.

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distribuzione degli spazi attorno il volto, o la figura. «Mentre preparo i miei strumenti, valuto anche le gestualità del soggetto e la sua reazione al mio lavoro. Sono queste sue espressioni che poi indirizzano la mia attenzione, orientata verso la maggiore naturalezza possibile. Nessuna persona comune ha familiarità con un autentico set fotografico; per questo, faccio in modo che il soggetto acquisisca familiarità con le mie esigenze e necessità: soprattutto, con il fatto che -una volta stabilita l’inquadratura e accomodato l’apparecchio- non può più muoversi, sia per non uscire dalla messa a fuoco sia per non alterare la composizione. Il soggetto deve sintonizzarsi con me e il mio apparato fotografico, e accettare la disciplina e concentrazione dell’intera operazione. «Finalmente, scatto. Il rumore dell’otturatore meccanico anticipa le fasi immediatamente successive: estrazione dello châssis dal dorso, inserimento di un altro châssis per un secondo scatto e così via. Queste fasi sono svolte dai miei assistenti. A volte, io parlo; altre volte, no; in ogni caso, cerco sempre di alleviare la tensione naturale che si respira su un set. «Questa teatralità è sempre finalizzata alla realizzazione di un’illusione. Valutando l’immagine, ogni osservatore non deve essere distratto da quelle che sono state le fasi operative, ma deve percepire che quanto è rappresentato nella fotografia è accaduto in modo naturale e che la persona fotografata è in una posa spontanea. In conclusione, non si deve percepire la presenza del fotografo». In tutti i casi, il progetto In the American West non

è frutto del caso, non è casuale: è stato ipotizzato, ideato e realizzato da un fotografo che ha esercitato con amore e convinzione il proprio ruolo. In Evidence 1944-1994, catalogo dell’omonima mostra itinerante, che arrivò a Milano all’inizio del 1995, Adam Gopnik racconta un curioso aneddoto. Attraversando con Richard Avedon il Central Park, di New York, i due incontrano un ambulante che realizza fotobottoni immediati con ritratti polaroid. Se ne fecero uno insieme, da regalare a una comune amica, e poi coinvolsero l’ambulante in una ulteriore sessione operativa con due ragazze di passaggio. Di fronte alla perplessità dell’ambulante, innervosito dai due amici che osservavano da vicino le sue azioni, Richard Avedon fu esplicito. Lo tranquillizzò, affermando «Anch’io sono fotografo». Ecco qui, in conclusione. I ritratti di In the American West, di Richard Avedon, appartengono di diritto (e dovere) alla Storia della Fotografia. Le osservazioni complementari, arricchite dallo straordinario backstage raccolto in Avedon at Work in the American West, di Laura Wilson, sono per tutti noi, a nostra disposizione. Utili per il nostro bagaglio di conoscenze e competenze della fotografia, compongono i tratti significativi di quei tasselli che, giorno dopo giorno, anno dopo anno, ci rendono fotografi migliori (di scatto o di interesse per). Soprattutto, persone migliori. Che la fotografia non sia mai un arido punto di arrivo, ma sempre uno straordinario s-punto di partenza. Per la Vita, verso la Vita. ❖



Sguardi su

di Pino Bertelli (Piombino, dal vicolo dei gatti in amore, 27 volte novembre 2012)

I

ALEXANDRA BOULAT

I cattivi fotografi copiano, i grandi fotografi rubano, diceva... tutto qui. Ecco perché ci sono frotte di stupidi che scattano fotografie e una minoranza di randagi dell’immagine del dolore che fanno della fotografia una forma di comunicazione (o d’arte) di compiuta bellezza estetica ed etica. Sono i “quasi adatti” della fotografia di strada, di guerra e degli ultimi che ai quattro angoli della Terra (o sul tetto della propria casa) mostrano i reticolati di un disagio sociale diffuso. La sofferenza profonda, morale, disumana nella quale versano i popoli impoveriti dalle menzogne del mercato neoliberista e dalle bombe che l’industria della guerra (dei paesi occidentali e dei comunismi al potere) continua a riversare contro gli esclusi dal banchetto delle politiche di colonizzazione dei governi “democratici” al servizio della teocrazia finanziaria delle banche è sempre più una struttura consortile della demagogia. Gli autocrati del nuovo fascismo determinano l’aumento della ricchezza per i pochi e l’impoverimento progressivo dei molti. Quando gli uomini comprenderanno che mettere fine (con tutti i mezzi necessari) all’impero dell’odio è una necessità per il raggiungimento della felicità del maggior numero... allora -e solo allora- si potrà vedere la partecipazione dai cittadini alla “cosa pubblica”, alla nascita di una democrazia diretta, consiliare, libertaria che metta fine alla fenomenologia del male o alla farsa elettorale, anche. I parlamenti sono covi di serpi; e per non essere uccisi dal loro veleno millantatore, mafioso o poliziesco, alle serpi va schiacciata la testa.

MANIFESTO PER L’ABOLIZIONE DELLA STUPIDITÀ IN FOTOGRAFIA Manifesto per sopprimere la fotografia della stupidità. Tutta.

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In tre scene da commedia dell’arte, per la sovversione non sospetta dell’immaginario liberato. Perché, in quanto mercimonio del dolore e simulacro dell’arte prostituita, la stupidità in fotografia è repressiva o complice della stupidità predominante per definizione. Scena prima. Il fatto che la fotografia della stupidità esista non solo tra le banalità edulcorate del fotoamatorismo, ma più ancora ai piani “alti” del professionismo celebrato (dai mercanti, storici, critici della convenienza, s’intende), non è un buon motivo per

zioni efficaci contro la partitocrazia e la servitù dell’arte che ne consegue, ma, dopo un attento esame, è evidente che qualunque soluzione implicherebbe innanzitutto la soppressione dei partiti e l’abolizione del mercimonio dell’arte. Solamente il bene comune è un fine. A che giova infatti al fotografo conoscere il mondo intero, se poi perde la propria anima nella merce? «Il mondo non ci appartiene, lo abbiamo ricevuto in prestito dalle future generazioni», ha detto un capo pellerossa («Mio padre sosteneva che nessun uomo può

«Se i popoli si accorgessero del loro bisogno di bellezza, scoppierebbe la rivoluzione» James Hillman

«La bellezza, senza dubbio, non fa le rivoluzioni. Ma viene un giorno in cui le rivoluzioni hanno bisogno di lei» Albert Camus conservarla. Come i partiti politici, del resto. Aderire all’ideologia di un partito o di una religione monoteista significa rinunciare a pensare. I partiti e le religioni (come i mercati globali della rapina, dell’imbroglio, della messa a morte della biosfera) sono un male allo stato puro. E vanno fermati. «La democrazia, il potere della maggioranza non sono un bene [...]. Un popolo [dovrebbe essere] chiamato ad esprimere il proprio volere riguardo ai problemi della vita pubblica, e non solamente ad operare una scelta di persone» (Simone Weil)... sovente colluse con il crimine organizzato. Non è facile concepire solu-

possedere la terra, e che quindi non può vendere quello che non possiede»: Capo Giuseppe, 14 gennaio 1879, dopo essersi sottomesso con il suo popolo ai soldati statunitensi in una cruda e grigia giornata di ottobre, nella Lincoln Hall, di Washington DC, davanti a un’assemblea di deputati, diplomatici e dignitari). È la malvagità di una minoranza di arricchiti che ha generato la disumanità che investe l’intero pianeta, e va combattuta. Scena seconda. Chi tocca i fili spinati dei partiti muore, chi attenta con disprezzo alla cultura dell’apparenza è confinato nel silenzio o emarginato nella follia. Ciascuno difende i propri

spazi di potere, le proprie briciole di successo. L’inumanità generalizzata nasce dallo snaturamento degli uomini, causato dall’appropriazione mercantile, e -alla luce delle discariche dell’arte servile- i mercenari marciano compatti verso il deserto del nulla, che è il cimitero delle buone intenzioni! Siccome è del linguaggio della fotografia che ci occupiamo, ci fa sorridere -e non poco- il fatto che la fotografia dominante continua ad esercitare una sorta di malefica felicità ingannatrice sulla stupidità degli utenti dell’immaginale spettacolarizzato. L’identità di servi gabbati e padroni famelici è il suicidio di tutte le forme di democrazia dell’immagine liberata, autentica, vera, e un invito alla dissipazione della bellezza e della giustizia. I fotografi della bruttura sdoganata come arte passano, le loro devastazioni culturali restano. Punto, a capo. «Oggi il mondo è pieno di miserabili, e la loro angoscia non ha più alcun senso. La nostra epoca, del resto, è un’epoca di miseria senz’arte; una cosa penosa. L’uomo è nudo, spogliato di tutto, anche nella fede in se stesso» (Louis-Ferdinand Céline diceva). Viaggio al termine della fotografia. La fotografia che vale è una tranche de vie o non è nulla! I fotografi del nulla incensato ci disgustano, e solo chi si occupa del male di vivere e dell’uomo in rivolta ci pare degno di attenzione! In ogni forma d’arte, la moderazione degli stolti è il risultato di un’ipocrisia! I fotografi dello spettacolare cresimato sono pericolosi; e le loro stupidità imbalsamate nella schiuma del consenso, immense. Cogliere il momento propizio -non solo nell’atto fotografico- è la chiave che ci apre la vita: ecco la cosa difficile (per non morire


Sguardi su nel buffonesco, nel giullare o nell’incomprensione della lingua Argot di François Villon, che ha parlato delle periferie del mondo come effettivamente sono). Scena terza. Abolire i filamenti della fotografia del disvalore sociale vuol dire lottare per riconquistare la bellezza e la ragione. «La bellezza, senza dubbio, non fa le rivoluzioni. Ma viene un giorno in cui le rivoluzioni hanno bisogno di lei» (Albert Camus). Se i fotografi si accorgessero della loro fame di bellezza, scoppierebbe la rivoluzione nelle strade della Terra. Il bello, il dignitoso, il giusto vanno di pari passo al dilagare incontrastato del brutto, dell’osceno, dell’ingiusto. Mettere a fuoco il cuore del sistema della società consumerista (il marketing internazionale della politica e della congerie delle leggi, dei costumi, delle fedi) vuol dire denunciare gli abusi e i soprusi del rizomario olezzante (cattivo) del pensiero istituzionale. Louis-Ferdinand Céline, il medico dei poveri, ci avvertiva: «Tocchiamo la meta di venti secoli di grande civiltà, eppure nessun regime resisterebbe a due mesi di verità. Parlo del sistema marxista così come dei nostri sistemi, borghesi e fascisti». Ed ancora è così. Peccato che nessuno o pochi si accorgono che anche un cane al potere potrebbe essere migliore di quanti governano in questo modo e a questo prezzo! È lo splendore dell’autentico che annuncia il valore del bello e della giustizia che lo segue. Il pane della libertà, della fraternità e della bellezza non si taglia, si spezza. A ritroso. Non vogliamo qui ricordare la messe di fotografi che hanno perso la vita nel corso di guerre insensate (come tutte le guerre), e hanno cercato di portare alla luce della storia la disumanità della civiltà spettacolare. Alla luce degli indici di gradimento dei media e all’innalzamento dei dividendi delle banche internazionali (a carico di una crescente miseria delle genti), il consenso generalizza-

to diventa l’oppio elettorale e i falsi bisogni di consumo (e il servilismo dei partiti politici verso la tirannide finanziaria) si sostituiscono alla gioia di vivere.

IL CORAGGIO DELLA FOTOGRAFIA Va detto: la fotografia consumerista è parte di un mondo dove tutto ha un prezzo, ma niente più un valore. Il divenire davvero umano della fotografia è nel superamento del mercimonio dal quale si dissocia e inizia a cercare, creare, fantasticare il proprio destino. È il coraggio della fotografia sganciata da ogni sottomissione all’autoritarismo della “grande” informazione a seminare dissidi e diversità (anche attraverso la Rete), e insegna a vivere una vita quotidiana fuori dalla predazione e da un umanesimo d’accatto, che -specie nella sinistra- educa a chinare il capo e leccare il culo ai padroni dei mercati e ai padrini della politica. Gli ovili dell’ordine economico e sociale non possono fare a meno della fotografia banalizzata e ne fanno buon uso: non solo nella cloaca della pubblicità, ma anche -e soprattutto- all’interno della partitocrazia, per continuare ad allevare i nuovi schiavi all’obbedienza e identificarli con il gregge. Per raggiungere la giustizia e la virtù della persona, che non è separata dalla giustizia come etica di una società di liberi e uguali, occorre riprendere la sana abitudine di rendere la vergogna istituzionale ancora più vergognosa, ribaltare la prospettiva dominante e rovesciare un mondo rovesciato, anche con la fotografia. Il coraggio della fotografia di Alexandra Boulat (Parigi, 2 maggio 1962 - Parigi, 5 ottobre 2007 [FOTOgraphia, novembre 2007]) si accorda con l’indignazione montante delle giovani generazioni insorte contro tutte le caste della soggezione finanziaria, politica e religiosa: è un insegnamento a scoprire e smascherare la dissimulazione del profitto. Se ne facciamo buon uso. Nel suo fare-fotografia, Alexandra Boulat ha espresso una

sorta di compassione laica verso ciò che ha fotografato: specie sulle rovine delle periferie colpite dalla guerra e sull’indigenza delle popolazioni civili ha mostrato senza infingimenti che nessuna vita umana ha più importanza se la cattività e l’ingiustizia diventano la ragione di Stato. Ci sembra carino ricordare che «Lo Stato è una relazione sociale, una specifica modalità con cui le persone si relazionano tra di loro. Lo Stato può essere abolito solo creando nuove e diverse modalità di relazione sociale [...], perché lo Stato siamo noi!» (Gustav Landauer). Tutto vero. Come si può tollerare che gli oppressori accusino di violenza gli oppressi che si oppongono ai loro disastri e carneficine? Dove regnano la costrizione e il sopruso, il desiderio di vivere si sostituisce alla messa in scena dell’impostura predominante e chiede (con tutti i dispositivi utili) l’eliminazione della barbarie. Nella ritrattistica di guerra (ma non solo), lo sguardo radicale di Alexandra Boulat ha colto il senso profondo dell’indignazione e lo ha intrecciato al risentimento contro la brutalità dei potenti, dei demagoghi, dei demiurghi che sostengono gli affari sporchi dei vigliacchi e affondano i popoli impoveriti nella disperazione. Figlia di un fotografo della redazione di Life, Pierre, Alexandra Boulat ha frequentato l’École des Beaux-Arts, di Parigi, studiato storia dell’arte e grafica. Ha iniziato come pittrice, poi ha impugnato la macchina fotografica: ha lavorato per Sipa Press e l’agenzia della madre, Cosmos. Nel 2001, insieme con altri fotogiornalisti, ha fondato l’Agenzia VII, una agenzia fotografica indipendente [FOTOgraphia, settembre 2002 e febbraio 2004]. Le sue fotografie entrano (a buon diritto) nelle pagine di giornali e settimanali, come Time, Newsweek, Paris Match e National Geographic. L’interesse creativo di Alexandra Boulat si orienta sulle questioni sociali, e

i suoi reportage raccontano l’indipendenza degli stati sul Baltico, il traffico di bambini in Romania, il razzismo in Germania, i problemi del popolo iracheno durante l’embargo, il conflitto in Bosnia, le tensioni etniche in Kosovo, la guerra contro il terrorismo in Pakistan e Afghanistan. Si accosta (con grazia) anche alla fotografia paesaggistica, a Taiwan e in Indonesia. La fotografia di Alexandra Boulat è carica di una dolente umanità, e riceve molti premi internazionali (The Harry Chapin Media Awards 1994; Paris Match 1998; Visa d’Or pour l’Image 1998; Photo Magazine’s Photographer of the Year 1998; Infinity Award dell’International Center of Photography, 1999; Alfred Eisenstaedt Award 1999; World Press Photo 2003; Overseas Press Club 2003; NPPA 2003; Photographer of the Year 2003). Nel 2006, inizia a occuparsi della guerra tra Israele e Palestina, in particolare della striscia di Gaza. Nel giugno 2007, Alexandra Boulat è colta da un aneurisma cerebrale, a Ramallah, in Palestina, entra in coma farmacologico e passa tre settimane in un ospedale di Gerusalemme. Viene trasferita in Francia, dove rimane in coma per tre mesi. Muore nel sonno, a Parigi, il cinque ottobre, a soli quarantacinque anni. Scompare una donna singolare e un testimone straordinario della fotografia d’impegno civile, resta tuttavia la poesia della sua opera a farci comprendere che la condivisione, l’accoglienza e la bellezza sono aspetti importanti della giustizia, e quando sono calpestati diventano crimini contro l’umanità e vanno denunciati.

SULLA FOTOGRAFIA DEL DOLORE Alexandra Boulat è stata una persona dolce e, a ragione, il ritratto commovente e austero che Lello Piazza le ha dedicato su questa medesima rivista [FOTOgraphia, del novembre 2007] le restituisce il sublime del suo valore di donna e “fotografo” del-

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l’autentico. Qui riporta le sue parole: «Non desideravo diventare un fotografo di guerra. Non mi sentivo fatta per quello. Ma ci sono finita perché in guerra succedono cose alle quali sono interessata, che voglio vedere da vicino e voglio raccontare agli altri. Non mi piace la guerra, ma sento il dovere di essere lì e di vedere. Mi ci è voluto un po’ prima di cominciare a scandalizzarmi. Mi sono scandalizzata quando ho capito che la mia presenza, nella maggior parte dei casi, non aveva influenza sui fatti. Quando ho capito che la mia presenza non era particolarmente utile, né tanto meno necessaria, quando ho capito di non essere un taumaturgo della Storia, ho cominciato a guardare quello che accadeva con maggiore compassione, a rimanere più intimamente coinvolta, Mi è sembrato di essere io stessa uno dei protagonisti della tragedia, io stessa una delle vittime di guerra. Solo allora ho scoperto che puoi mostrare la guerra senza che nella fotografia appaiano fucili o cannoni. Così ho fatto con le mie fotografie di Baghdad: i

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cieli pieni di fumo nero, i soldati che correvano per le strade in una tempesta di sabbia, un cadavere avvolto in un lenzuolo bianco. Immagini che immediatamente ti parlano dell’ambiente, del luogo dove sei. Ma che subito dopo evocano la morte, la guerra nella vita quotidiana, la guerra peggiore tra tutte quelle che puoi immaginare». E tutto questo, le sue fotografie sul dolore sconsiderato delle guerre lo dicono forte. A entrare in punta di sguardo nella scrittura fotografica di Alexandra Boulat possiamo vedere l’attenzione del “fotografo” verso la gente ignuda, ferita, sconvolta di fronte alle situazioni di guerra, specie delle donne. L’attenzione formale, il taglio delle inquadrature, la centralità dei corpi chiamati fuori dal delirio dei fucili e dei cannoni depositano le sue immagini sul sacrario della vita offesa e, alla radice della comunicazione liberata, mostrano una ricerca antropologica della libertà posta tra la giustizia e la bellezza come alterità della conoscenza. Di più. La visione civile che fuoriesce dalle fotografie di Ale-

xandra Boulat s’addossa ai disvalori della società ingiusta e, attraverso la figurazione della verità senza condizioni, ha la capacità di trasformare esistenze martoriate e indifese (dove i colpevoli sono sempre assolti o mai incriminati) in una progettualità onesta della realtà e, in qualche modo, cercare di impedire che il massacro si ripeta. Le mani dignitose di donne velate afghane che chiedono aiuto, i soldati con i fucili alzati contro il cielo grigio del Kosovo, gli occhi impauriti di vecchie pakistane che gettano il proprio sguardo obliquo contro la ferocità della soldataglia... sono attimi di terrore presi con la dolcezza dei forti: si vede, e bene, l’intimità del “fotografo” con l’umanità ferita a morte che ha davanti. Qui, il bene della comunità è più importante del bene individuale, e la vita degli esseri umani è superiore di quella dei governi che fanno della guerra un affare economico. Nella sua solare tenerezza verso gli indifesi, la fotografia della comprensione di Alexandra Boulat è un grido di sdegno gettato contro il silenzio universale dell’infamia. Il coraggio della fotografia di Alexandra Boulat è un canto visuale/architetturale del disagio. Le bare semiaperte delle vittime palestinesi protette dalle ombre dei loro cari, la deposizione di un bambino afghano in un lenzuolo bianco tra i familiari sconcertati, il cielo coperto dal nero delle bombe in Iraq, i panni colorati stesi ad asciugare in un villaggio del Marocco, il pianto disperato di una ragazzina di Gaza sopravvissuta a un bombardamento che ha distrutto la casa e ucciso i genitori... bastano a condannare i teatrini quotidiani della politica e la truffalderia servizievole dei media. Le immagini dell’autentico di Alexandra Boulat si attestano sui valori della bellezza anche quando la tragedia diventa rabbia, dismisura, provocazione. Nel linguaggio fotografico di questa signora della fotografia di strada si percepisce che la giustizia è

l’esatta misura del dovuto a ogni persona sulla Terra. È una fotografia del rispetto, dunque, dove il respiro degli ultimi si trascolora in amore e diventa storia. Nella ritrattistica di guerra di Alexandra Boulat -ma la fotogiornalista va oltre, la supera, la rinnova- c’è tutta la pietà laica che si richiama alla memoria dei padri antichi, alla loro eredità di armonia tra le genti, forse... dove la bellezza è la forma compiuta della giustizia. L’utopia (sogno, cammino verso cui tendere) è di quelle grandi... una sorta di atlante figurato sul princìpio del bene comune... un florilegio passionale, squisitamente amorevole, dove eguaglianza, reciprocità, equità sono opposti alla cattività, alla bruttura, allo scandalo della politica internazionale, responsabile di genocidi e vessazioni contro chi non ha voce, né volto, e impedisce agli esclusi dell’impero della merce il raggiungimento di una vita felice o una vita buona. Era bella, Alexandra Boulat; e il piacere della bellezza disseminata nelle sue fotografie graffiano la disarmonia della condizione umana. «Il piacere di chi capisce, infatti, non è altro che la percezione della bellezza, dell’ordine, della perfezione» (Gottfried Wilhelm von Leibnitz). Detto meglio: «L’uomo può vivere senza la scienza e senza il pane, soltanto senza la bellezza non può vivere» (Fëdor M. Dostoevskij). Tutto vero. La fotografia della bellezza di Alexandra Boulat (dalla cui “lettura” non si esce mai come prima) ha la capacità di illuminare la vita concreta, perché contiene in sé valori di verità, giustizia e bene comune: i soli che possono orientare la libertà verso i territori sconosciuti dell’amore tra gli uomini. Alle anime delicate non è permessa nessuna giustificazione dell’ingiusto... nel loro intimo c’è la consapevolezza che se la giustizia e la bellezza scompaiono, e l’indifferenza e l’arroganza prendono il loro posto, non ha alcun valore che l’umanità sopravviva a se stessa. ❖




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