FOTOgraphia 188 febbraio 2013

Page 1

Mensile, 6,50 euro, Poste Italiane SpA - Spedizione in abbonamento postale - D.L. 353/2003 (convertito in Legge il 27-02-2004, numero 46), articolo 1, comma 1 - DCB Milano

ANNO XX - NUMERO 188 - FEBBRAIO 2013

Davide Medri ASTRATTE MEDRIGRAFIE Alfred Wertheimer ALLE ORIGINI DI ELVIS

RAFAL MALESZYK PAESAGGI DI ANTICHE RADICI


Mensile, 6,50 euro, Poste Italiane SpA - Spedizione in abbonamento postale - D.L. 353/2003 (convertito in Legge il 27-02-2004, numero 46), articolo 1, comma 1 - DCB Milano

Davide Medri ASTRATTE MEDRIGRAFIE Alfred Wertheimer ALLE ORIGINI DI ELVIS

RAFAL MALESZYK PAESAGGI DI ANTICHE RADICI

.

Mensile, 6,50 euro, Poste Italiane SpA - Spedizione in abbonamento postale - D.L. 353/2003 (convertito in Legge il 27-02-2004, numero 46), articolo 1, comma 1 - DCB Milano

Non è venduta in edicola. Per averla hai una sola possibilità: sottoscrivere l’abbonamento annuale. 12 numeri 65,00 euro

ANNO XX - NUMERO 188 - FEBBRAIO 2013

ANNO XIX - NUMERO 187 - DICEMBRE 2012

Richard Avedon S-PUNTI DI RIFLESSIONE Alberto Bregani CIME MAESTOSE

Abbonamento 2013 (nuovo o rinnovo) in omaggio

Mensile, 6,50 euro, Poste Italiane SpA - Spedizione in abbonamento postale - D.L. 353/2003 (convertito in Legge il 27-02-2004, numero 46), articolo 1, comma 1 - DCB Milano

GIOVANNI GASTEL TRA REALTÀ E IMPROBABILITÀ ANNO XIX - NUMERO 186 - NOVEMBRE 2012

Leica e Nikon e Hasselblad RIFLESSIONI E CONSIDERAZIONI E CONTORNI

1839-2009 Dalla Relazione di Macedonio Melloni alla svolta di Akio Morita Compilare questo coupon (anche in fotocopia), e inviarlo a: Graphia srl, via Zuretti 2a, 20125 Milano MI (02-66713604; graphia@tin.it)

Abbonamento a 12 numeri (65,00 euro) ❑ Desidero sottoscrivere un abbonamento a FOTOgraphia, a partire dal primo numero raggiungibile ❑ Rinnovo il mio abbonamento a FOTOgraphia, a partire dal mese di scadenza nome

cognome

indirizzo CAP

città

telefono MODALITÀ DI PAGAMENTO

fax

❑ ❑ ❑

e-mail

Allego assegno bancario non trasferibile intestato a GRAPHIA srl, Milano Ho effettuato il versamento sul CCP 28219202, intestato a GRAPHIA srl, via Zuretti 2a, 20125 Milano Addebito su carta di credito ❑ CartaSì ❑ Visa ❑ MasterCard

numero data

provincia

firma

scadenza

codice di sicurezza



prima di cominciare VENTI ANNI SONO PASSATI (E ANCHE QUARANTA). Oltre il ricordo e la commemorazione in cronaca, la nostra frequentazione del mondo della fotografia impone anche altre ricorrenze. L’otto febbraio conteggiamo venti anni dalla tragica scomparsa del fotografo Enzo Nocera, che ha illuminato una lunga stagione italiana con una sua fantastica propensione al ritratto in studio, per il quale -tra tanto altro- ha realizzato una straordinaria galleria di personaggi del quartiere milanese di Brera, che si snoda nelle strade attorno le celeberrime Pinacoteca e Accademia di Belle Arti, dove peraltro lui viveva. Accompagnato dall’assistente Aldo Sorriso, di Licata, anche lui perito nella stessa circostanza, Enzo Nocera stava viaggiando per assolvere un incarico professionale per la rivista Dove. Un banco di nebbia nel tratto tra Parma e Piacenza -all’altezza di Fiorenzuola d’Arda- dell’Autostrada A1 (Milano-Napoli), altrimenti identificata come Autostrada del Sole (assente in quella tragica mattina di febbraio, tra le nove e le dieci), ha provocato un colossale inferno di automobili, con un drammatico bilancio di cinque morti immediate e cento feriti. Enzo Nocera e Aldo Sorriso sono arrivati al loro appuntamento definitivo lunedì 8 febbraio 1993. Il mio ricordo personale di quei giorni torna al venerdì immediatamente precedente, cinque febbraio, quando Enzo Nocera mi portò in studio un oggetto da collocare nella mia particolare collezione (raccolta) di oggetti inerenti la fotografia, ispirati ai suoi strumenti e termini. Non era riuscito a parcheggiare l’automobile, quindi fu un incontro lampo. Io sulla porta dello studio, lui un piede nel cortile e le braccia protese. «Ora devo scappare», disse. «Ci sentiamo con calma, la prossima settimana». Non ci siamo più sentiti, né visti. Oltre i ricordi del cuore, tra i quali le cene conviviali a casa di Emilio Frisia, che nel frattempo è pure mancato, mi rimane quel porta carta igienica in ceramica, a forma di rullino 35mm. E il suo biglietto di accompagnamento, scritto in milanese: «Te ghe l’è?»; ovverosia, ce l’hai? Allo stesso tempo e momento, lasciando il solo territorio della fotografia, per incamminarmi in quello della vita -non soltanto della mia, ma di una generazione che ha avuto il coraggio e l’ardire di sognare-, ricordo anche che sono passati quaranta anni dalla tragica sera del 23 gennaio 1973, quando il giovane studente universitario Roberto Franceschi è stato ucciso dalla polizia nel corso di una manifestazione davanti all’Università Bocconi, di Milano, in un tempo di grandi tensioni sociali: controversa storia del nostro paese, che non è certo avaro di momenti e passaggi di poca chiarezza politica e sociale. M.R.

Ci sono cretini che hanno visto la fotografia e ci sono cretini che non hanno visto la fotografia (ma continuano a farla). Pino Bertelli; su questo numero, a pagina 64 Dobbiamo annotare anche e ancora come e quanto la contemporaneità fotografica [...] trovi terreno fertile in una socialità dinamica, attenta, attiva e aperta (politica estera a parte): gli Stati Uniti. Che poi questo significhi anche dominio culturale, con relativa propaganda di stili e ideologie... è tutto lo stesso discorso, ci piaccia o meno che sia così (e, personalmente, non ci piace). Angelo Galantini; su questo numero, a pagina 42 L’anagrafe e la frequentazione del mondo della fotografia mi presentano costantemente il proprio conto. Maurizio Rebuzzini; su questo numero, a pagina 8

Copertina Dalla serie Plastic Landscapes, di Rafal Maleszyk, autore che interpreta la natura con attenzione mirata e particolare: persino appassionante e condivisibile. Nessuna remora. Ne riferiamo da pagina 28

3 Altri tempi (fotografici) Supporto Busch, composto di un’asta di sostegno, alla quale sono collegate «due branche e una bretella». Dal catalogo generale Ambrosio, di Torino, del 1909

7 Editoriale Sì! Per quanto siamo fermamente convinti che non esista una “fotografia italiana”, siamo altrettanto consapevoli di quanti tanti autori italiani meriterebbero onori e riconoscimenti internazionali. Ma, purtroppo, l’assenza di referenze autorevoli e di tanto altro ancora, condiziona la nostra assenza dai palcoscenici planetari, storici e contemporanei. È l’Italia. Anche in fotografia

8 Per ricordare meglio Lo scorso quattordici dicembre, a ottantaquattro anni, è mancata Wanda Tucci Caselli, intraprendente ed elegante signora della fotografia non professionale

12 Notizie Attrezzature, vicende e altre segnalazioni

14 Cento idee. Cento Prezioso casellario composto da Mary Warner Marien, 100 idee che hanno illuminato la fotografia è una disamina che potrebbe illuminare -a propria voltail cammino fotografico individuale di molti di noi


FEBBRAIO 2013

RIFLESSIONI, OSSERVAZIONI E COMMENTI SULLA FOTOGRAFIA

16 Pittorialismo italiano A Modena, l’avvincente allestimento di un autore storico italiano (non professionista) del quale è bene e opportuno conoscere il percorso e l’espressività: Domenico Riccardo Peretti Griva (1882-1962)

20 Musical stopposo Per quanto il film Funny Face (Cenerentola a Parigi ) possa vantare la consulenza di Richard Avedon, la sua sceneggiatura è a dir poco vomitevole. Eccoci qui Ricerca iconografica di Filippo Rebuzzini

Anno XX - numero 188 - 6,50 euro DIRETTORE

IMPAGINAZIONE Maria Marasciuolo

REDAZIONE Angelo Galantini

FOTOGRAFIE Rouge

SEGRETERIA Maddalena Fasoli

HANNO

24 Schindler’s lift Quarto appuntamento nazionale con la creatività (anche fotografica) applicata all’ascensore: a Napoli

28 È paesaggio Nelle proprie intenzioni implicite ed esplicite, la fotografia di Rafal Maleszyk è onesta e chiara. Non intende essere altro che osservazione colta della natura. Aggraziato esercizio estetico capace di emozionare di Angelo Galantini

34 Stelle e strisce

RESPONSABILE

Maurizio Rebuzzini

COLLABORATO

Pino Bertelli Beppe Bolchi Antonio Bordoni Carlo Cavicchio Chiara Lualdi Davide Medri Franco Sergio Rebosio Ciro Rebuzzini Filippo Rebuzzini Redazione, Amministrazione, Abbonamenti: Graphia srl, via Zuretti 2a, 20125 Milano; 02-66713604 www.FOTOgraphiaONLINE.it; graphia@tin.it. ● FOTOgraphia è venduta in abbonamento.

In cartellone a Modena, fino al prossimo sette aprile, la selezione di fotografia statunitense Flags of America si completa con un eccellente volume-catalogo

● FOTOgraphia è una pubblicazione mensile di Graphia srl, via Zuretti 2a, 20125 Milano. Registrazione del Tribunale di Milano numero 174 del Primo aprile 1994. Poste Italiane SpA - Spedizione in abbonamento postale - D.L. 353/2003 (convertito in Legge il 27-02-2004, numero 46), articolo 1, comma 1 - DCB Milano.

40 In forma d’arte (?)

● A garanzia degli abbonati, nel caso la pubblicazione sia pervenuta in spedizione gratuita o a pagamento, l’Editore garantisce la massima riservatezza dei dati forniti dagli abbonati e in suo possesso, fatto diritto, in ogni caso, per l’interessato di richiederne gratuitamente la rettifica o la cancellazione ai sensi della legge 675/96.

Dagli avvincenti Burns Archive, una re-interpretazione di fotografie di cronaca, che -esauriti i propri compiti originari- acquistano significati innovativi: News Art

48 Ecco il re! Le origini del mito di Elvis Presley, raccontate dalle fotografie che Alfred Wertheimer ha realizzato nel 1956 di partenza. In solida monografia d’élite. Quindi, richiamo alla beatlesmania, con Harry Benson di Maurizio Rebuzzini

56 Disegni fotogenici Intelligente progetto di Davide Medri, che si incammina sulle tracce della Storia e della contemporaneità dell’astrattismo fotografico (difficile andare oltre questo). Da cui, certifichiamo che si tratta di Medrigrafie di Antonio Bordoni

● FOTOgraphia Abbonamento 12 numeri 65,00 euro. Abbonamento annuale per l’estero, via ordinaria 130,00 euro; via aerea: Europa 150,00 euro, America, Asia, Africa 200,00 euro, gli altri paesi 230,00 euro. Versamenti: assegno bancario non trasferibile intestato a Graphia srl Milano; vaglia postale a Graphia srl - PT Milano Isola; su Ccp n. 28219202 intestato a Graphia srl, via Zuretti 2a, 20125 Milano; addebiti su carte di credito CartaSì, Visa, MasterCard. ● Nessuna maggiorazione è applicata per i numeri arretrati. ● È consentita la riproduzione di testi e fotografie, magari citando la fonte (ma non è indispensabile, né obbligatorio farlo). ● Manoscritti e fotografie non richiesti non saranno restituiti; l’Editore non è responsabile di eventuali danneggiamenti o smarrimenti. Fotocomposizione DTP e selezioni litografiche: Rouge, Milano Stampa: Arti Grafiche Salea, Milano

Rivista associata a TIPA

64 Carla Cerati Sguardo su una interprete della fotografia del desiderio di Pino Bertelli

www.tipa.com



editoriale I

nevitabilmente, certe considerazioni si affacciano alla mente. Soprattutto se e quando si frequenta la fotografia con convinzione e intensità, non si può imbrigliare il pensiero, che scorre libero e spazia in mille e mille e mille direzioni. Se si riesce a distaccarsi dai propri personalismi, che possono entrare in campo in una fase successiva, quella del ragionamento e del dibattito, allora non si può non vedere che la fotografia tutta, nel proprio insieme e complesso, ha molto di raccomandabile, molto di cui tenere conto. Tra le tante considerazioni possibili e plausibili, una: fatto salvo che non pensiamo esista una “fotografia italiana”, intesa come movimento espressivo autonomo e referente, siamo altresì convinti che -attualmente- l’insieme di tanti sovrastrati espressivi, coabitanti gli uni con gli altri, non consenta più nessun altro riferimento geografico e culturale nazionale. Allora, per quanto non esista una “fotografia italiana”, in un tempo e momento nel quale non esistono altre identificazioni localizzate, siamo altrettanto convinti che esistano e siano esistiti fotografi italiani degni di straordinaria considerazione. Non servono nomi, che tanti ce ne sono, ma basta l’idea secondo la quale nelle infinite trasversalità della fotografia si sono espressi autori di alto livello, di efficace personalità. Soltanto, fatte salve alcune eccezioni, è l’insieme della nostra cultura italiana che non riesce ad affermarsi su palcoscenici planetari. Le qualità fotografiche italiane non mancano di certo, e non sono mancate nei decenni precedenti. Invece, sono certamente mancate quelle infrastrutture, anche pubbliche, anche istituzionali (soprattutto pubbliche, soprattutto istituzionali), capaci di definire e disegnare l’effettiva differenza. In questo senso, nel e dal nostro piccolo e modesto spazio redazionale, noi stessi siamo in qualche misura colpevoli, visto e considerato che tanto spesso rivolgiamo le nostre attenzioni redazionali e giornalistiche oltre i nostri confini. Non serve la motivazione di uno sguardo complessivo sulla fotografia, ma contano i risultati: tra i quali si contano sulle dita di una mano le occasioni nelle quali abbiamo osservato la fotografia italiana. In effetti, ognuno dovrebbe svolgere il proprio mestiere, e il nostro si indirizza alla riflessione complessiva sulla fotografia, senza confini prestabiliti. Però, a ben guardare, non faremmo male a niente e nessuno se riuscissimo a osservare meglio entro i nostri confini nazionali. Che poi sia problematico farlo, soprattutto quando si vogliono evitare frequentazioni di parrocchia, è tutto un altro discorso. Anche se, poi, è l’autentico discorso, l’autentica discriminante. Allora, che fare? Da parte nostra, continueremo a guardare la fotografia a tutto tondo, senza condizionamenti nazionali. Allo stesso tempo e momento, chiediamo a coloro i quali hanno altre prospettive e doveri, di dare senso e spessore al discorso dei e sui e con i fotografi italiani. Non “fotografia italiana” come movimento, sia ribadito, ma autori italiani per le loro riconosciute capacità d’autore. Maurizio Rebuzzini

Federico Garolla (1925-2012), qui in un ritratto del 1954, è certamente uno degli autori italiani che meritano grande considerazione. Senza dubbio, tanti altri ce ne sono. Ma ciò che manca è la proiezione internazionale del nostro essere con la fotografia, del nostro contributo nazionale alla fotografia tutta, nel proprio insieme e complesso.

77


Ricordo di Maurizio Rebuzzini

PER RICORDARE MEGLIO

L’

L’anagrafe e la frequentazione del mondo della fotografia da quarant’anni suonati, dal settembre 1972 di partenza [ FOTOgraphia, settembre 2012], -ma soprattutto l’anagrafe- mi presentano costantemente il proprio conto. Così che per me è ormai frequente salutare amici e conoscenti che ci hanno lasciato. Di ognuno di loro, amo pensare che stiano da qualche altra parte, per quanto non più qui con noi. Amo pensarlo, certamente, per dare consolazione al dolore e all’amarezza, che si appesantiscono altresì del dovere giornalistico del loro ricordo. Saluto qui Wanda Tucci Caselli, decana della fotografia, instancabile animatrice del Circolo Fotografico Milanese, che è uno dei più antichi tra quanti agiscono nell’ambito della fotografia non professionale organizzata e ordinata nel coordinamento della qualificata Fiaf (Federazione Italiana Associazioni Fotografiche). Ci ha lasciati lo scorso quattordici dicembre, vinta da una malattia che ne ha minato il tramonto. Donna d’altri tempi, donna di eleganze ormai dimenticate e di cortesie che non appartengono più al nostro quotidiano, Wanda Tucci Caselli non ha mai assecondato i canoni della sua anagrafe -è nata nel 1928-, rivelandosi sempre curiosa delle novità, attratta dalla contemporaneità, affascinata dai percorsi espressivi che l’evoluzione costante del linguaggio fotografico dischiude davanti a ciascuno di noi. È contraddittorio rivelarlo, ma è giusto farlo, oggi più che mai: in un contenitore per propria natura conservatore, come è quello della fotografia non professionale italiana (lo osserviamo senza esprimere alcun giudizio di demerito alcuno), Wanda Tucci Caselli ha sempre percorso una strada autonoma e indipendente, fino a rappresentare uno spirito assai più giovane, mai giovanile, di coloro i quali possono vantare anagrafi meno datate. Non ci siamo mai frequentati con assiduità, ma l’ho sempre incontrata nell’ufficialità delle riunioni settima-

8

Wanda Tucci Caselli (1928-2012), in un ritratto realizzato da Armando Lampertico, nel 1965.

nali del Circolo Fotografico Milanese, dove mi richiamano spesso incontri che seguo con piacere e interesse: presentazioni di autori e discussioni su temi, oltre altre convivialità senza confini. In tutte queste occasioni, quando il dibattito si è incanalato lungo direttive di contrapposizioni lessicali, piuttosto che tecnologiche (queste ultime, soprattutto declinate nella presunta e pretestuo-

sa antitesi tra pellicola fotosensibile, con annessi e connessi, e acquisizione digitale di immagini, con altrettanti annessi e connessi), Wanda Tucci Caselli si è sempre schierata con le avanguardie e le modernità, piuttosto di condividere qualsivoglia nostalgia dal e del passato. L’insieme delle sue fotografie l’ho avvicinato potendo accedere alla preparazione di una monografia d’au-


Ricordo tore, che ormai verrà pubblicata postuma (con testi di Cesare Colombo e Sergio Magni): avrebbe tanto voluto finirla per tempo, ma la accuratezza e minuziosità della sua preparazione hanno dilatato i tempi oltre il consentito. La monografia, che ora si declinerà in memoria, è saggiamente introdotta da un suo testo, intitolato Per ricordare meglio, che oggi e qui abbiamo anche fatto nostro, in suo ricordo (appunto). In estratto: «C’è un’età (un tempo, una stagione) in cui raramente si avverte il subbuglio di un fremito. Tutto scorre su binari senza passaggio di locomotive né frizioni di stelle. È allora che si tenta di ancorare a un hobby sopite speranze di evasioni. Gli hobby non scaturiscono

8 marzo 1991.

Vetrina di Ravizza, in via Hoepli, a Milano; 1997.

9



Ricordo Ritratto dello storico della fotografia Helmut Gernsheim (1987), al quale -tra tanto altrosi deve il ritrovamento, nel 1952, dell’eliografia Veduta dalla finestra di Gras, di Joseph Nicéphore Niépce, del 1826-27, di 20,3x16,5cm, che si conteggia come la prima fotografia in assoluto della Storia (è stata donata alla University of Texas, di Austin, dove è ora conservata). È nota l’amicizia tra Wanda Tucci Caselli e Helmut Gernsheim. Da una lettera degli anni Sessanta: «Carissima Wanda, mi spiace che ci sia voluto così tanto tempo per finire il rullino iniziato con il tuo ritratto, nel luglio scorso. Penso che tu avessi ragione, gli occhiali sono una parte del tuo viso e considero riuscito il volto sorridente. Nell’altra foto appari piuttosto triste, come spesso sei. Come stai e quando ti rivedrò? Ho mostrato le tue foto del Carnevale di Basilea a Fritz Henle, che era entusiasta come me. Te ne prenoterò e pagherò delle altre. Con affetto, tuo Helmut».

mai come polle improvvise: traggono la propria origine da esigenze riposte, ossessioni e incubi radicati nell’infanzia più remota. «Per lunghi anni c’è stato un sogno che si ripeteva all’infinito: diversi i termini, le proposte, le circostanze, ma identico il ritmo scandito con inesorabile inevitabilità. Io possedevo qualcosa, lo avevo, lo amavo, ma non lo sapevo e lo perdevo proprio quando stavo per stringerlo ed afferrarlo. Era come per certi abiti, che più ti piacciono più non li metti, per non sciuparli troppo, e poi, quando li indossi,

(a sinistra, in alto) Giorgio Rastelli, alla Galleria Schubert, di Milano; 1979.

(a sinistra, al centro) Michele, Fiera di Sinigaglia, Milano; 1976.

(pagina accanto) Monica in Tunisia; 1976.

ti accorgi che sono fuori moda ed è come se te li avessero rubati, quei piaceri per sempre rimandati. Poi, in una certa fase della vita, si sa che se certe completezze non saranno mai nostre; c’è, esiste un’altra realtà che si può tenere e conservare e su quella realtà fenomenica ci si butta per conservarla intatta nella propria fragilità. «Io so bene che anche il ricordo più caro desolatamente svanisce, ed ecco allora che il mezzo per trattenere le immagini diventa arma di sfida contro i vecchi incubi ricorrenti e leva per rispolverare, del passato, una certa

tendenza alla trasfigurazione ideale. «Presa dalla fuggevolezza dell’attimo, quasi avesse la pregnanza di un fatto storico svelato a me sola, io scatto sempre senza riflettere, contagiata da un istinto implacabile, folle, perché la realtà corrisponde all’ansia di inusitato e predispone quell’incanto che, essendo imprevedibile, è unico. Ed è perciò che scatto molto, perché di fronte alla realtà non mi sento spettatrice, ma convulsa interprete di fragilissimi intuiti». Appunto, e in ripetizione d’obbligo, la fotografia per ricordare meglio. ❖

11


Notizie

a cura di Antonio Bordone

IMMANCABILMENTE CSC (GIÀ MIRRORLESS). Consistente comparto tecnico-commerciale, sul quale si basano molte delle speranze mercantili della fotografia, l’offerta di compatte a obiettivi intercambiabili CSC (Compact System Camera, già Mirrorless) si amplia con l’arrivo di due configurazioni della prestigiosa e autorevole famiglia Nikon 1. La Nikon 1 J3 segnala il corpo macchina più piccolo al mondo (al momento attuale), e l’elegante Nikon 1 S1 dà avvio a una nuova gamma, che si aggiunge alle identificazioni “J” e “V” di partenza [FOTOgraphia, ottobre e dicembre 2011]. Entrambe vantano il ritardo allo scatto più ridotto sul mercato (ancora, al momento attuale) e la ripresa in sequenza rapida più veloce della propria categoria: quindici fotogrammi al secondo. Con ordine. La terza generazione Nikon 1 J3 si basa sulla avvincente velocità e sul design compatto e facilmente trasportabile su cui è stato edificato il successo di vendite dell’originaria J1, sul mercato da un paio di stagioni. L’ulteriore diminuzione delle dimensioni non è andata a scapito di alcuna delle prerogative di utilizzo, che dalla fotografia si allungano sulla ripresa video Full-HD. Quindi, come appena anticipato, la Nikon 1 S1 inaugura la nuova serie “S”, caratterizzata e definita da rapidità, eleganza e intuitività di uso, e si propone di consentire risultati fotografici di alta qualità formale con il minimo sforzo. Progettata per garantire velocità e semplicità, la Nikon 1 S1 è pratica e facile da usare, come una compatta, ma molto più veloce, notevolmente più potente e con una superiore qualità di immagine. Entrambe le nuove Nikon 1 J3 e Nikon 1 S1 mettono a buon frutto la tecnologia proprietaria Nikon 1 di seconda generazione, introdotta di recente dalla Nikon 1 V2. Possono contare su nuovi livelli di velocità e su prestazioni più accurate, oltre che su funzioni convincenti, come il

12

Live Image Control e il Best Moment Capture, e anche sulla possibilità di trasferire wireless le immagini acquisite e registrate, tramite l’accessorio WiFi dedicato (opzionale). Il doppio motore di elaborazione Nikon Expeed 3A gestisce i dati ad altissima velocità, per prestazioni eccellenti in qualsiasi situazione e condizione di impiego. Tra l’altro, ciò consente la ripresa continua più veloce al mondo, a quindici fotogrammi al secondo in autofocus, e fino a sessanta fotogrammi al secondo con AF a punto fisso. Il soggetto inquadrato è messo a fuoco senza ritardo, grazie alla combinazione AF ibrido avan-

zato, che si caratterizza per un veloce autofocus a rilevazione di fase, per i movimenti più rapidi, e un autofocus a rilevazione del contrasto, per cogliere i dettagli minimi, anche in condizioni di scarsa illuminazione. In combinazione, in base alla scena, il sensore passa immediatamente dalle settantatré aree di messa a fuoco a rilevazione di fase alle centotrentacinque aree di messa a fuoco con contrasto di fase, garantendo immagini e filmati superlativi, in qualsiasi tipo di ambiente. La funzione Best Moment Capture, appena ricordata, permette di selezionare automaticamente lo scatto migliore: con una sola azione sul pulsante di scatto, la

funzione “Selezione foto intelligente” scatta fino a venti immagini ad alta risoluzione (quindici con la Nikon 1 S1) e consiglia le cinque migliori, tra le quali scegliere la preferita; invece, e al contempo, la funzione “Visualizzazione al rallentatore” acquisisce fino a venti immagini in sequenza (quindici con la Nikon 1 S1) e le riproduce al rallentatore sul monitor LCD, per consentire all’utente di scegliere l’istante migliore da conservare, registrare definitivamente e archiviare. Oltre le funzioni fotografiche di partenza e riferimento, le due nuove Nikon 1 J3 e Nikon 1 S1 garantiscono immagini e filmati dettagliati, anche in condizioni di scarsa illuminazione: la Nikon 1 S1 vanta una risoluzione di 10,1 Megapixel, con una sensibilità alla luce estendibile da 100 a 6400 Iso equivalenti; la Nikon 1 J3 porta la risoluzione a 14,2 Megapixel, con una gamma di sensibilità da 160 a 6400 Iso equivalenti. In entrambe le nuove configurazioni, il sensore di immagine Cmos in formato CX offre il punto di equilibrio ideale tra dimensioni, velocità e qualità dell’immagine, per ottenere fotografie e filmati di alto livello senza sacrificare la portabilità. A seguire, la possibilità di riprendere con elevate impostazioni Iso equivalenti permette di registrare la quantità di luce necessaria anche quando si impostano condizioni di ripresa da sessanta fotogrammi al secondo. Sia la Nikon 1 J3 (terza generazione) sia la Nikon 1 S1 registrano filmati Full-HD, a sessanta e trenta fotogrammi al secondo, con frequenze fotogrammi di 60i, 60p e 30p, oltre a scattare immagini fotografiche a piena risoluzione durante le stesse riprese video. È anche possibile usare i controlli PSAM per gestire al meglio tempo di otturazione e apertura diaframma, e si possono ottenere effetti sensazionali al rallentatore, con una velocità di registrazione massima di milleduecento fotogrammi al secondo. (Nital, via Tabacchi 33, 10132 Torino; www.nital.it). ❖


ELEZIONI POLITICHE ITALIANE PER LA CAMERA DEI DEPUTATI E IL SENATO DELLA REPUBBLICA Domenica e lunedì 24 e 25 febbraio 2013

Credo che le istituzioni bancarie siano più pericolose per le nostre libertà di quanto non lo siano gli eserciti spiegati. Se il popolo americano consentirà mai alle banche private di controllare l’emissione del denaro, dapprima attraverso l’inflazione e poi con la deflazione, le banche e le compagnie che nasceranno intorno alle banche priveranno il popolo dei suoi beni, finché i loro figli si sveglieranno senza neanche una casa nel continente che i loro padri hanno conquistato.

(Thomas Jefferson, 28 maggio 1816)


Da considerare di Antonio Bordoni

CENTO IDEE. CENTO

C

Come si è soliti annotare... a ciascuno il suo. L’intraprendente americana Mary Warner Marien ha censito 100 idee che hanno illuminato la fotografia, compilandole in casellario. Al proposito, ognuno di noi potrebbe avere altre valutazioni, ma queste sono lì, nero su bianco, in una avvincente edizione italiana Logos. Dunque, alla luce della propria autorevolezza libraria, vanno prese in attenta considerazione. Dopo di che, volendolo fare, altri compilino

elenchi diversi, esprimano considerazioni proprie, valutino fatti ulteriori. Questi sono qui! L’elenco di Mary Warner Marien non è alfabetico (evviva!), ma procede passo a passo attraverso i meandri espressivi e tecnologici della fotografia, legati e vincolati da un filo quantomeno doppio: in reciproca andata-e-ritorno. Si comincia con la Camera obscura, dalla quale tutto si può far risalire, o -quantomeno- da cui si può partire dal punto di vista fisico: quello

DA UNO A CENTO, PASSO DOPO PASSO

Come precisato, le cento idee che Mary Warner Marien ha indicato come significative nel e del percorso storico della fotografia -per l’appunto, esplicitamente identificate come 100 idee che hanno illuminato la fotografiasono prese in considerazione in subordine a una propria cadenza temporale. Eccoci qui, con le segnalazioni complessive, nell’ordine originario, che procede tra valori tecnici, espressioni linguistiche, movimenti culturali e altro tanto ancora: sempre nell’illuminazione della fotografia nel proprio insieme e complesso. 1 Camera obscura 2 Immagine latente 3 Immagini positive dirette 4 Negativo / Positivo 5 Dagherrotipo 6 Esplorazioni 7 Calotipo 8 Il nudo 9 Obiettivo 10 Otturatore 11 Estetica 12 Cianotipo 13 Collodio 14 Ritaglio 15 Camera oscura 16 Dipingere le fotografie 17 Stereoscopio 18 Veduta 19 Guerra 20 Immagini in movimento 21 Ingrandimento 22 Supporti 23 Colore 24 Foto-scultura

14

25 Edificare 26 L’Académie 27 Cartes de visite 28 Comma bicromatata 29 Stampa al Platino 30 Fotocamera stenopeica 31 Somiglianza 32 Ferrotipo 33 Prove scientifiche 34 Evoluzione 35 Carta albuminata 36 Raccontare per immagini 37 Sfondi 38 Viaggio di piacere 39 Società fotografiche 40 Photo-Sharing 41 Stampa alla gelatina d’argento 42 Portatili 43 Tabloid 44 Autochrome 45 Cartoline 46 Proiezione 47 Luce artificiale 48 Messa a fuoco 49 Fermare il tempo 50 Mezzatinta 51 Pellicola avvolgibile 52 Sequenze 53 Fabbriche di immagini 54 Fotografia aerea 55 Macro / Micro 56 L’arte del popolo 57 Photo-Secession 58 Equivalents 59 Collezionare 60 Immagini che vendono 61 Agenzie fotografiche 62 Reflex

della formazione dell’immagine (a cui fa inevitabile compagnia quello chimico, peraltro latitante, peraltro impalpabile, della sensibilità alla luce e della capacità della luce di modificare sostanze sensibili: seconda “idea”, dell’Immagine latente). Quindi, con un percorso consequenziale, si approda all’acronimo conclusivo Gis, che sta per Geographic Information System: software che raccolgono, immagazzinano, analizzano e confrontano immagini e testi.

63 Il momento decisivo 64 Esposizioni multiple 65 Cabine per fototessera 66 Fotogiornalismo 67 Astrazione 68 Straight Photography 69 Fotocamere per bambini 70 Solarizzazione 71 Scene sportive 72 Oggetti immagine 73 Film und Foto 74 Fotogramma 75 Taglia-e-incolla 76 Moda 77 Autoritratto 78 Glamour 79 Espressione documentaria 80 L’intruso 81 La strada 82 Luce invisibile 83 Il surreale 84 La polaroid 85 Kodachrome 86 Televisione 87 New Topographics 88 Fotorealismo 89 Periferie e sobborghi 90 Estetica dell’istantanea 91 La svolta teoretica 92 Fotofonini 93 Costruito per essere fotografato 94 Fotografia concreta 95 Fotoconcettualismo 96 L’occhio del fotografo 97 Appropriazione 98 Foto / Video 99 Fotografia digitale 100 Gis (Geographic Information System)


Da considerare Si tratta di un campionario di cento idee che hanno avuto, e hanno ancora, una autentica portata storica: hanno tracciato e continuano a tracciare un’impronta indelebile nella pratica fotografica, ancora oggi, soprattutto oggi. Del resto, l’autrice è saggia, competente e concentrata; in chiusura di Introduzione, è convenientemente esplicita: «È bene tenere a mente che la fotografia coincide ancora con l’uso che ne facciamo, e non con l’uso che lei fa di noi». Siccome anche noi abbiamo opinioni al proposito, come rivelano i punti di vista espressi su queste stesse pagine e come ha sintetizzato, in un rigoroso percorso storico, il nostro direttore Maurizio Rebuzzini in 1839-2009. Dalla Relazione di Macedonio Melloni alla svolta di Akio Morita, nel quale approfondisce quattro fondamentali svolte senza ritorno della fotografia (originariamente tecnica, e quindi espressiva), ci allineiamo ad alcune scelte dell’autrice e prendiamo le distanze da altre: senza alcuna polemica, ma nello spirito di contribuzione al dialogo. Ma non è questo, che poi conta effettivamente, quanto ci preme sottolineare un punto di vista adeguatamente avveduto, competente, consapevole e, perché no?, astuto. Infatti, questo casellario rappresenta un garbato e avvincente attraversamento della Storia della Fotografia, con doppia maiuscola volontaria, che

ne sottolinea punti salienti, momenti fondanti, istanti decisivi, espressioni lungimiranti. Ecco quindi che Mary Warner Marien scandisce tempi e modi quantomeno appropriati, andando a sottolineare che le origini della fotografia presentarono sia immagini auto positive, o positive dirette, a partire dall’eliografia preistorica di Joseph Nicéphore Niépce e dal dagherrotipo, sia immagini negativo-positivo, che è poi il senso della fotografia così come l’abbiamo intesa fino a oggi, e ancora la intendiamo (in attualità, riferendoci al file digitale). In ogni caso, attenzione, per quanto in qualche misura cronologica, la trattazione di queste 100 idee che hanno illuminato la fotografia non è imbrigliata dal tempo, tanto è vero che i singoli capitoli, le singole idee, sono declinate in assoluta libertà, con considerazioni ed esemplificazioni che passano con disinvoltura dalla storia alla contemporaneità. Tra i tanti che si potrebbero menzionare, è il caso, per esempio, del capitolo Veduta, il diciottesimo dei cento, che accosta tra loro un esempio antico (1860) a una interpretazione attuale, se non già sostanzialmente contemporanea (1988). In conclusione, oltre che in assoluto, una annotazione di forma. Ogni “idea” censita da Mary Warner Marien è esposta su doppia pagina affacciata, con un testo di commento e illustrazioni pertinenti e collegate

100 idee che hanno illuminato la fotografia, di Mary Warner Marien; Logos, 2012 (strada Curtatona 5/2, 41126 Modena; www.libri.it); 216 pagine 21x27cm; 29,95 euro.

(spesso a piena pagina). Quindi, nel proprio insieme, tutte le cento idee compongono i tratti di una trasversalità fotografica della quale fare prezioso tesoro. Non tutti i punti di vista si sono ufficialmente espressi come tali (per esempio, lo hanno fatto le Cartes de visite, ventisettesimo capitolo); molti sono dedotti e intuiti e inventati. Ma tutti, ancora e per completare, sono avvincenti tessere di un mosaico complessivo. ❖


Retrovisione di Angelo Galantini

I

PITTORIALISMO ITALIANO

In date coincidenti con la collettiva Flags of America (dallo scorso quindici dicembre al prossimo sette aprile; su questo stesso numero, da pagina 34), gli spazi espositivi dell’Ex Ospedale Sant’Agostino, di Modena, propongono anche una consistente retrovisione su un autore italiano dei primi decenni del Novecento, che ha interpretato la lunga stagione del pittorialismo fotografico, avviatasi nella seconda metà dell’Ottocento, all’indomani dell’invenzione della stessa fotografia (1839). Con Domenico Riccardo Peretti Griva e il pittorialismo in Italia si incontra un significativo interprete storico della fotografia italiana non professionale, nato nel 1882 e mancato nel 1962, peraltro già incluso nella significativa selezione Fotoamatori Insospettabili, al Centro Italiano

16

Domenico Riccardo Peretti Griva: Bambina sul prato; ante 1929 (Gelatina al bromuro d’argento; Collezione privata, Firenze).

Domenico Riccardo Peretti Griva: Vele e Bocca d’Arno; 1923 circa (Bromolio su carta; Collezione Museo Nazionale del Cinema - Fondo Maria Teresa Peretti Griva e Giovanna Galante Garrone).


Retrovisione Domenico Riccardo Peretti Griva: Ritratto; ante 1929 (Gelatina al bromuro d’argento; Collezione privata, Firenze).

Domenico Riccardo Peretti Griva: Il Balôn (Torino); ante 1929 (Gelatina al bromuro d’argento; Collezione privata, Firenze).

Domenico Riccardo Peretti Griva: Come la barca di Renzo (Como); ante 1929 (Bromolio su carta; Collezione privata, Firenze).

della Fotografia d’Autore, di Bibbiena, in provincia di Arezzo, l’estate 2006 [ FOTOgraphia, maggio 2006]. Curato da Chiara Dall’Olio, l’attuale allestimento espositivo arricchisce il ciclo avviato nel 2010 dal Fotomuseo Giuseppe Panini, dedicato alla corrente artistica del pittorialismo, già indagata attraverso il lavoro di esponenti italiani (Salvatore Andreola) e internazionali (Yasuzo Nojima). In anteprima nazionale, è presentato un album inedito dell’autore, composto da quarantadue fotografie, autografato e datato 1929, proveniente da una collezione privata in deposito a Modena dal 2009. Inoltre, la mostra comprende una selezione di quindici preziose stampe prestate dal Museo Nazionale del Cinema, di Torino, che, dal 2011, grazie alla donazione della figlia del fotografo Maria Teresa Peretti Griva e della nipote Giovanna Galante Garrone, conserva tutto il vasto archivio di positivi e negativi di Domenico Riccardo Peretti Griva, che nella vita fu magistrato di prim’ordine (di

17


Retrovisione

Domenico Riccardo Peretti Griva: Paesaggio alpino; ante 1929 (Gelatina al bromuro d’argento; Collezione privata, Firenze).

Domenico Riccardo Peretti Griva e il pittorialismo in Italia; catalogo della mostra a cura di Chiara dall’Olio; con un approfondimento di Roberta Russo sulle tecniche di stampa usate dal fotografo; Franco Cosimo Panini, 2012; 96 pagine 16,5x23,5cm; 20,00 euro.

18

un tempo e un’etica, anche del capitalismo, anche del potere, della quale sentiamo mancanza). Tra suggestivi paesaggi naturali e ritratti di persone comuni, la selezione presenta il lavoro del fotografo piemontese. Attratto dal bello, ed educato alla scuola positivista di Benedetto Croce, Domenico Riccardo Peretti Griva ha realizzato immagini dai contorni evanescenti, ritratti pastorali e atmosfere rarefatte, composte con semplici alternanze di luci e ombre. Nelle sue fotografie tutto è fermo e tranquillo, lontano dalla frenesia della vita moderna e dalle sperimentazioni estetizzanti del modernismo e del futurismo. Attraverso preziose stampe originarie, realizzate al bromolio, ma anche con la più moderna tecnica della gelatina d’argento, la mostra conduce alla scoperta di uno stile spesso dimenticato, ma che è rimasto fino ai primi anni Sessanta il cano-

ne visivo di riferimento di molti circoli fotografici, in Italia e all’estero. Le immagini pittorialiste di Domenico Riccardo Peretti Griva -negli anni Cinquanta, annoverato tra gli autori italiani maggiormente presenti nelle esposizioni internazionali- sono espressione di un gusto estetico diffuso, nella scelta dei soggetti come nelle tecniche utilizzate. ❖ Domenico Riccardo Peretti Griva e il pittorialismo in Italia; mostra a cura di Chiara Dall’Olio, promossa da Fondazione Fotografia Fondazione Cassa di Risparmio di Modena, con la collaborazione del Museo Nazionale del Cinema, di Torino. Ex Ospedale Sant’Agostino, largo Porta Sant’Agostino 228, 41100 Modena; fino al 7 aprile; martedì-venerdì 11,00-13,00 - 15,30-19,00, sabato e domenica 11,00-20,00 [in coincidenza, nello stesso luogo e con le stesse date, è allestita anche la mostra Flags of America; su questo numero, da pagina 34].



Cinema

di Maurizio Rebuzzini - Ricerca iconografica di Filippo Rebuzzini

MUSICAL STOPPOSO

N

Nel corso della mia vita professionale, a stretto e unico contatto con la fotografia, ho incontrato Richard Avedon in tre occasioni, immediatamente successive. Nell’autunno 1994, nei pressi di Colonia, in Germania, fu organizzata una cena in suo onore, in immediato anticipo sull’allestimento della imponente retrospettiva Evidence 1944-1994, al Ludwig Museum, in date coincidenti con l’edizione della Photokina merceologica. Di quella serata, conservo due ricordi tangibili: il suo segnaposto a tavola, con la dedica «For Maurizio, Richard Avedon», e la firma autografa sulle pagine di un suo servizio di moda pubblicato da Vogue, nel marzo 1951, realizzato in elegante combinazione tra abiti e richiami della fotografia (negativi 6x6cm su rullo 120 in asciugatura e antica biottica Rolleiflex su treppiedi). Quindi, in immediata corrispondenza, ci si incontrò anche alla sontuosa inaugurazione della mostra, al già citato Ludwig Museum, di Colonia. Di lì a qualche mese, nel gennaio 1995, la stessa selezione fotografica fu allestita nelle sontuose sale del Palazzo Reale, di Milano: ne abbiamo riferito, in cronaca, sul numero del febbraio 1995, di FOTOgraphia (mille e mille e mille anni fa). Un ulteriore incrocio indiretto potrei annoverarlo riferendomi all’edizione italiana della biografia per immagini Evidence 1944-1994, in un certo modo volume-catalogo della mostra omonima, pubblicata da Leonardo (a cura di Mary Shanahan, con saggi di Jane Livingston e Adam Gopnik; 184 pagine 28x35,5cm, cartonato con sovraccoperta; in origine, centotrentamila lire), della quale ho corretto e rivisto la traduzione dei testi. Comunque, tre incontri diretti, di persona, in nessuno dei quali ho avuto il coraggio di porgli una domanda che da tempo, da decenni, mi tormenta (per modo di dire, perché gli autentici tormenti esistenziali sono ben altri). Avrei voluto chiedergli se si fosse mai pentito del suo coinvolgimento nel film Funny Face (in

20

creditato come consulente del colore e degli effetti fotografici e aver fornito le immagini (per lo più in trasparenze 8x10 pollici / 20,4x25,4cm) con le quali sono stati elaborati i titoli di testa [FOTOgraphia, luglio 2008], nel proprio insieme, il film è veramente terribile. Lo affermiamo con decisione da tempo, in ogni occasione sia consentito e legittimo farlo, confermandolo ancora oggi, a cinquantasei anni dalla sua data originaria di edizione.

DAL TEATRO

Italia, Cenerentola a Parigi ), diretto da Stanley Donen, nelle sale cinematografiche dall’inizio del 1957. Per quanto, a trentatré anni, all’avvio di carriera (o quasi), possa essere stato gratificante e lusinghiero offrire i caratteri al protagonista Fred Astaire, nei panni del fotografo Dick Avery (e Dick è il diminutivo statunitense di Richard), essere stato ufficialmente ac-

Funny Face (in Italia, Cenerentola a Parigi) è un film del 1957, di Stanley Donen. Fred Astaire interpreta un fotografo ispirato a Richard Avedon: locandina, posato con Audrey Hepburn e fuoriscena con Richard Avedon.

In origine, Funny Face è stato un musical del 1927, composto da George Gershwin (1898-1937), straordinario compositore, pianista e direttore d’orchestra americano, che ha dato molto anche al jazz, considerato l’iniziatore del genere (musical, per l’appunto), autore anche dei noti Rapsodia in blu, Summertime e Un americano a Parigi, che ha concluso la propria carriera con il fantastico allestimento di Porgy and Bess, del 1937. Su liriche del fratello Ira Gershwin, e libretto di Fred Thompson e Paul Gerard Smith, Funny Face debuttò a Philadelphia, prima di approdare a New York, dove ottenne un consistente successo, tanto da essere successivamente trasposto anche a Londra, dopo duecentoquarantaquattro repliche all’Alvin Theatre, di Broadway (al 250west della 52nd street, di New York City): regia di Edgar MacGregor e coreografie di Bobby Connolly. Protagonista del musical originario, nei panni di Jimmy Reeve, Fred Astaire fu successivamente coinvolto anche nella trasposizione cinematografica di Stanley Donen, del 1957, trent’anni dopo, che riprese soltanto quattro canzoni della versione teatrale, e modificò la sostanza della storia, andandola a declinare (eccoci!) in chiave fotografica. Ne è scaturita una sceneggiatura sostanzialmente diversa -che qualcuno riferisce più a un altro musical di Broadway, Wedding Bells, di Leonard Gersche-, tagliata a misura degli interpreti Fred Astaire (il fotografo Dick Avery) e Audrey Hepburn (Jo



Cinema Stockton), anonima commessa di una libreria alternativa del Greenwich Village, a New York, proiettata nel mondo della moda internazionale. Tra le note parallele e di costume, si segnala che il guardaroba di Audrey Hepburn è firmato da Hubert de Givenchy, stilista anche dei costumi dell’epocale Colazione da Tiffany, del 1961, al quale l’attrice è stata sempre professionalmente legata e fedele (ricordiamo che il tubino nero di Colazione da Tiffany è considerato uno degli abiti più influenti nella storia dell'abbigliamento e del costume del Ventesimo secolo). Presentato al Festival del Cinema, di Cannes, Funny Face ha ricevuto quattro nomination ai Premi Oscar 1958 (Sceneggiatura originale, Fotografia, Scenografia e Costumi), senza peraltro vincere alcun premio. Nel 1957 di edizione, il National Board of Review of Motion l’ha conteggiato tra i dieci migliori film dell’anno (figuriamoci quelli dall’undicesimo!).

LA TRAMA: TERRIBILE! Il film Funny Face (in Italia, Cenerentola a Parigi ), prende avvio nei locali newyorkesi della rivista di moda Quality (Harper’s Bazaar?: interpretato dall’attore Alex Gerry, l’art director di fantasia si chiama Dovitch, negli anni in cui l’art director del celebrato mensile era il leggendario Alexey Brodovitch). Si è alla ricerca di un nuovo volto, che riesca a far sognare le donne americane. Grazie all’intuizione del fotografo Dick Avery (Fred Astaire), il nuovo sogno viene individuato in Jo Stockton (Audrey Hepburn), libraia timida e intellettuale, incontrata durante un (grottesco) servizio in esterni, che disprezza la vita mondana, ritenendola solo una esibizione di falsità. Comunque, la giovane si lascia convincere dalla energica direttrice della rivista, Maggie Prescott (interpretata dall’attrice Kay Thompson), e dal fotografo Dick Avery. Partono per Parigi, dove Jo spera di incontrare il suo mito filosofico, il professor Flost, ma dove rimane incantata dal fascino elegante della moda e ancor di più dalle delicatezze di Dick, durante i servizi fotografici. Però, la sera del suo sfarzoso debutto, ignora i suoi doveri, per raggiungere Flost nella sua abitazione... do-

22

Essendo un musical, derivato da una origine teatrale composta da George Gershwin, nel 1927, il film Funny Face / Cenerentola a Parigi è infarcito di balletti e motivi musicali (solo quattro dei quali sono stati ripresi dalla versione teatrale). Tra i tanti, segnaliamo il balletto in camera oscura, nel quale il fotografo Dick Avery (interpretato dall’attore e ballerino Fred Astaire) coinvolge la timida Jo Stockton (la sempre elegante e affascinante attrice Audrey Hepburn), che la direttrice del periodico di moda Quality (ispirato a Harper’s Bazaar) intende trasformare in modella.

ve scopre che il filosofo è totalmente disinteressato alla sua presunta profondità intellettuale, a scapito della quale è invece attratto da un possibile rapporto intimo. Delusa, Jo torna alla sfilata: e qui, Audrey Hepburn sfodera tutta la sua eleganza e raffinatezza. Quindi, finale inevitabile, raggiunto dopo malintesi, coincidenze e altri dettagli di maniera: Dick e Jo si rincontrano nel parco nel quale era stato ambientato il loro servizio fotografico, e lì riconoscono di amarsi. Contravvenendo alle nostre abitudini, proprie e caratteristiche di questo spazio redazionale, abbiamo raccontato la trama di Funny Face / Cenerentola a Parigi per osservare e sottolineare le forzature e improbabilità di una sceneggiatura che fa colpevole scempio di ogni dignità che personalmente attribuiamo alla fotografia di moda e al suo mondo. Per quanto possiamo anche sentircene estranei, ma non indifferenti, né distanti, sia dall’una sia dall’altro, non ci permettiamo, non ci siamo mai permessi e non ci permetteremo mai di irriderli, né di considerarli in forma parodistica, che è poi quella che attraversa il film.

Tanto che, torniamo da capo, ci ha sempre stupito la complicità certificata di Richard Avedon, fotografo del quale non si può non considerare e rispettare il rigore professionale, allineato con l’efficacia e spessore di una lunga carriera espressiva, costellata di straordinarie immagini, non soltanto di moda (il nostro più recente richiamo, lo scorso dicembre, con gli s-punti di riflessione dal fantastico progetto In the American West ). In ripetizione: ufficialmente, Richard Avedon, ai tempi trentatreenne, risulta consulente del colore e degli effetti fotografici del film, ma ufficiosamente è più che palese la sua partecipazione diretta alla definizione dei tratti identificativi e scenografici del fotografo protagonista, interpretato da un poco credibile Fred Astaire. In molte occasioni pubbliche, lo stesso fotografo di fantasia è stato esplicitamente riferito proprio a Richard Avedon; in cronaca, ai tempi, e in commenti successivi, molti critici cinematografici statunitensi hanno allineato la raffigurazione scenica a Richard Avedon (i critici italiani non lo hanno fatto, perché -molto probabilmente- neppure conoscono l’“originale”); da parte nostra, oggi confermiamo una nota parallela già espressa, rilevando ancora che il personaggio del film si chiama Dick Avery, e, negli Stati Uniti, Dick è il diminutivo corrente di Richard.

ALTRO ANCORA A diretta conseguenza, non possiamo non richiamare l’attenzione sulla raffigurazione quantomeno caricaturale del mondo della moda, come abbiamo appena rilevato, a partire dai capricci e isterismi della redazione della rivista di moda newyorkese, dalla quale parte il racconto. E poi, non possiamo soprassedere sulla favola della commessa di libreria del Greenwich Village, di New York, trasformata in affascinante modella (appunto Cenerentola): dall’intellettualismo di maniera ai fasti dell’effimero, nell’interpretazione di Audrey Hepburn, nei panni di Jo Stockton. Comunque, per quanto riguarda il nostro osservatorio mirato e privilegiato, orientato sulla presenza della fotografia nel cinema, nell’ampio contenitore di Funny Face / Cene-


Cinema Ancora il balletto in camera oscura, sul motivo conduttore Funny Face, da cui il titolo del film (o viceversa) di Stanley Donen, che Fred Astaire (nei panni del fotografo Dick Avery) canta a e per la timida e intimidita Jo Stockton (Audrey Hepburn); la canzone comincia con l’evocazione esplicita «I love your funny face» (Mi piace il tuo volto divertente). Ovviamente, come sanno coloro i quali hanno frequentato la camera oscura per il trattamento chimico delle stampe bianconero, la luce di sicurezza più idonea era (è?) quella inattinica giallo-verde, che consente una valutazione visiva corretta, prossima alla luce bianca. Però, la luce rossa è sicuramente più scenografica: addirittura, stereotipo cinematografico della camera oscura.

rentola a Parigi possiamo apprezzare identificati momenti, appunto fotografici. Pensiamo prima di altro all’irruzione nella libreria del Greenwich Village, identificata come location adeguata al contrasto visivo con l’alta moda, e alle successive sequenze di moda per le strade di Parigi: in tutti i casi, con biottica Rolleiflex e apparecchi 8x10 pollici di diversa natura e composizione -tra i quali si riconosce la mitica Deardorff in legno-, che sono stati gli strumenti fotografici di Richard Avedon. Ancora, sottolineiamo la presenza nel film di modelle con le quali sono state anche scritte pagine significative e significanti della fotografia di moda: sopra tutte, Suzy Parker e Dovima (nei panni di Marion), che è poi il celebre volto/corpo di Dovima con gli elefanti (Cirque d’Hiver; Parigi, agosto 1955 [FOTOgraphia, dicembre 2010]), di Richard Avedon. A questo proposito, e in collegamento inevitabile, non ignoriamo come le sequenze di moda a Parigi riflettano lo spirito della realtà di strada che lo stesso Richard Avedon stava appunto visualizzando in quegli anni. Oltre la citata imprevedibilità di Dovima con gli elefanti, si ricordano anche altri scorci di esistenza, con marciapiedi affollati o curiosi di contorno. (Per quanto, decenni dopo, questo stilema espressivo sarebbe diventato linguaggio fotografico applicato alla moda da Ferdinando Scianna, a partire dalla celebre serie di Marpessa in Sicilia, che avviò la collaborazione tra il fotografo e gli stilisti Dolce & Gabbana, ricordiamo che in anni precedenti a quelli di Richard Avedon, l’italiano Federico Garolla espresse già una straordinaria fotografia di moda “per la strada”, come ampiamente testimoniato in FOTOgraphia dell’ottobre 2006 e del luglio 2012). Come già rilevato, Funny Face / Cenerentola a Parigi è un musical, un film musicale, infarcito di balletti e canzoni. Tra i tanti quadri, uno in particolare è significativo del clima caricaturale e grottesco della sceneggiatura: quello nel quale Fred Astaire canta in camera oscura e improvvisa (?) un balletto con Audrey Hepburn alla luce soffusa della lampada rossa di sicurezza. Da vomito (?!) ❖

23


In mostra di Angelo Galantini

D

SCHINDLER’S LIFT

Dopo gli allestimenti a Torino, Milano e Genova, la selezione Living in Lift, promossa e sostenuta da Schindler Italia -azienda leader nel settore degli ascensori e scale mobili-, si presenta a Napoli, al prestigioso Castel dell’Ovo, dal ventitré febbraio al sei marzo: mostra d’arte contemporanea, che fa parte del più ampio progetto Schindler per l’Arte. Nell’occasione, è stato indetto anche un concorso mirato, che richiede la progettazione di opere d’arte ispirate all’ascensore, “luogo nonluogo” del nostro quotidiano (basta!, non ne possiamo più dei “non-luoghi” gratuiti e stereotipati). La mostra si compone di opere di trentadue artisti italiani e interna-

24

Fukushi Ito: La lezione di danza III.

Mauro Faletti: Lift from hell.

zionali -tra i quali Fukushi Ito, Giovanna Torresin, Jill Mathis, Francesco Sena e Marina Buratti-, che propongono interpretazioni personali dell’ascensore, parafrasate con e da fotografie, video-arte e installazioni, che nel proprio insieme sottolineano la personalità (!) di uno spazio spesso/sempre concepito come anonimo e freddo, che -invece- nasconde sorprendenti potenzialità espressive: come si deduce dall’intensità degli elaborati, dalla forza delle singole opere e da tutte le opere accostate tra loro. Sergio Rossini, Marketing manager di Schindler Italia, azienda promotrice, ha rilevato che «Incoraggiati ad avvicinarci al mondo dell’ar-

te contemporanea, con il coinvolgimento di artisti italiani e stranieri, attraverso la mostra e il concorso Living in Lift, Schindler ambisce a diffondere un’immagine “inedita” dell’ascensore, che da semplice servizio, che ci porta da un piano all’altro, viene identificato come luogo della vita quotidiana, abitato e animato dalla presenza dell’uomo, nel quale è possibile trovare un confort elevato, ambienti tecnologicamente evoluti, interattivi e dal design moderno ed elegante». Appositamente create per la tappa napoletana di Living in Lift, le opere presentare stravolgono la consueta immagine dell’ascensore come luogo privo di significato e vita. In-



In mostra IN ALFABETICO

La tappa napoletana di Living in Lift, che ha come media partner la rivista di arte contemporanea Julliet, presenta opere di Alessandra Elettra Badoino, Lisa Bernardini, Ennio Bertrand, Marina Buratti, Francesca Della Toffola, Christian Devincenzi, Takane Ezoe, Mauro Faletti, Luigi Gariglio, Tea Giobbio, Ale Guzzetti, gruppo Giu.Ngo-Lab (Giuseppina Longo, Mariapaola Minerba, Angelo Fabio Bianco), Fukushi Ito, Davide Lovatti, Samy Mantegazza, Girolamo Marri, Jill Mathis, Matteo Mezzadri, Max Mirabella, Chiara Morando, Elisa Pavan, Fulvio Pellegrini, Irene Pittatore, Pietro Reviglio, Francesco Sena, Giovanna Torresin e Max Zarri.

terpretato dallo sguardo creativo degli artisti autori, questo spazio diventa “specchio” dell’anima di chi vi trascorre qualche momento della propria vita, riflettendone pensieri, emozioni, sogni e associazioni di idee. Nella propria concezione originaria, perseguita con sistematicità e coerenza, Living in Lift è una mostra itinerante e in progress, che ha predisposto una serie di tappe lungo il territorio nazionale. Dopo il debutto torinese, nelle sale della Fusion Art Gallery, e la seconda tappa a Milano, al Centro Ricerche dell’Accademia di Belle Arti di Brera (Crab), nel 2011, lo scorso novembre, l’esposizione è stata presentata a Genova, nei sontuosi spazi di Palazzo Ducale. Dopo l’allestimento napoletano a Castel dell’Ovo (dal ventitré febbraio al sei marzo), il tour prosegue poi al CAMeC, di La Spezia, dal quindici marzo al quattordici aprile.

26

Davide Lovatti: RossoCheSostiene.

Giovanna Torresin: senza titolo.

Sempre a cura di Walter Vallini, ideatore e curatore della mostra, a Napoli è presentata una quantità di artisti e opere superiore a quella degli appuntamenti precedenti. L’insieme complessivo è articolato in tre sezioni: le opere di ventidue artisti invitati dai curatori; la sottolineatura dei primi tre classificati al concorso Verticalità, indetto in occasione dell’edizione genovese; e la passerella dei cinque vincitori del concorso Living in Lift (www.schindler.it e www. bevisibleplus.com). Nell’intento di aprirsi a contributi di figure sostanziali dell’arte contemporanea, sempre a Napoli, oltre alla condivisione della curatela della mostra con il critico torinese Roberto Mastroianni, la presidenza della giuria del concorso Living in Lift è affidata allo storico dell’arte contemporanea Giorgio Bonomi, direttore della rivista Titolo e autore di consistenti saggi.

Sempre in giuria, i curatori Walter Vallini e Roberto Mastroianni, Gianna Caviglia (responsabile del progetto Spazio giovani, di Sala Dogana del Palazzo Ducale di Genova), Enzo Carbone (Managing director Artistar Project, partner del concorso), Antonello D’Egidio (Managing director di Bevisible+, partner ideativo e organizzativo), Adriana Rispoli (curatrice d’arte contemporanea e coordinatrice del progetto Living in Lift a Napoli), Miriam De Sanctis (responsabile Comunicazione esterna Schindler Italia) e Ale Guzzetti (docente di Nuove Tecnologie, presso l’Accademia di Belle Arti di Brera e artista). ❖ Living in Lift. Castel dell’Ovo, via Eldorado 3 (presso via Partenope - Borgo marinaro), 80132 Napoli; 081-7954593; casteldellovo@comune.napoli.it / www.schindler.it e www.bevisibleplus.com. Dal 23 febbraio al 6 marzo; lunedì-sabato 10,00-18,00, domenica e festivi 10,00-13,00.




Già: è paesaggio. Punto. Oltre la fotografia di dichiarato impegno sociale, che si esprime nell’osservazione e rilevazione della vita nel proprio svolgersi, la sola estetica di un linguaggio tanto specifico (per l’appunto, fotografico) può valere per le buone intenzioni dell’autore. Polacco di nascita, residente nelle Hawaii, il bravo e capace Rafal Maleszyk interpreta il paesaggio naturale in un bianconero di antiche radici e straordinario sapore. La sua fotografia non va oltre i presupposti dichiarati di essere soltanto tale: aggraziato esercizio estetico capace di raggiungere l’animo dell’osservatore

È PAESAGGIO

29


di Angelo Galantini

C

ome è capitato di annotare in altre occasioni, a questa temporalmente precedenti, e come spesso ribadito, la fotografia si esprime con intenzioni diverse e proprie. La discriminante non attraversa soltanto il riconosciuto impegno civile (etico e morale) di certa fotografia di coscienza, soprattutto svolta e assolta da un attento fotogiornalismo, con propri annessi e connessi. Se e quando la fotografia non ha altre intenzioni oltre se stessa e la propria superficie a tutti apparente, si impone con e per altri concetti e valori selettivi: quelli dello svolgimento coordinato e convinto... e di riconosciuto amore. Insomma, non è obbligatorio fare arma dell’espressione fotografica, ma si può anche farne estetica, bellezza e armonia. Ovvero, tradotto nel concreto: ci potrebbero anche essere ambiti fotografici da non frequentare (come, secondo parametri rigorosi e assoluti, sarebbe la fotografia senza altre finalità aggiunte), ma se li si persegue, allora è doveroso farlo bene e con

30


concentrazione. Magari, in accompagnamento d’obbligo, è altrettanto dovuto e imperativo non aggiungere altro, non professare fedi che non hanno alcun diritto di ospitalità. Ciò anteposto e precisato, la fotografia del polacco (di origine) Rafal Maleszyk, basato nelle Hawaii, si rivolge al paesaggio naturale e panorama, senza voler esprimere altro che i propri connotati formali, che confezionano contenuti di sola e ricercata osservazione d’intorno: «Per me, la fotografia è una concreta forma d’arte. Mi permette di esprimere le mie esperienze più intime con la natura». Da cui, fotografie piene di forza, selvatiche, delicate, commoventi, gioiose. A volte, tutti questi connotati insieme. Anche quanto si indirizza verso alterazioni che altrove sono state osservate da una fotografia giornalistica di disappunto e contrarietà, alla quale corrispondono svolgimenti coerenti, trattati in punta di obiettivo (oggi, in punta di pixel), con rappresentazioni, interpretazioni, inquadrature e composizioni in forma di denuncia, Rafal Maleszyk non si discosta dal suo passo e ritmo... e rimane inviolabilmente se stesso. È il

31


caso, per entrare nello specifico, dell’invadente presenza di plastica che altera la naturalezza del paesaggio, rivelando l’incuria dell’uomo, forse addirittura la sua stoltezza e ottusità. Dunque, non fotogiornalismo d’assalto e trincea, ma sempre e comunque delicatezza dello sguardo, che si indirizza lieve: fino all’estetizzazione in forma di bello, per quanto natura e cultura condividano lo stesso impoverimento. Suddivisi e certificati per linee identificatrici, i numerosi portfolio di Rafal Maleszyk sono pubblicati in Rete, dove è stata allestita una esaustiva galleria della sua fotografia fine art, ovverosia “artistica” nelle proprie intenzioni uniche, assolute e inderogabili (www.rafalmaleszyk.com). Ogni tanto, nella vita di tutti noi, sono necessarie pause, che ci consentono di riprendere fiato, per poter proseguire in un quotidiano spesso affannoso. Così come alterniamo, magari, saggi ponderosi con romanzi leggeri, articoli di fondo con storie a fumetti, possiamo anche avvicinarci a questa fotografia del disimpegno, per quanto offre al nostro spirito e animo, senza altri sovrastrati.

32


Del resto, nella vita cadiamo anche per imparare a rialzarci. Dunque, nessun assoluto, nessuna preclusione, ma dobbiamo imparare a trovare il bello e buono là dove franche intenzioni d’autore lo collocano. Nel corso degli ultimi anni, la fotografia di Rafal Maleszyk, declinata nel rigore formale che caratterizza -fino a definirla-, la fotografia fine art di cultura statunitense, di connotato formale ineccepibile (va riconosciuto e detto), ha meritato e ottenuto numerosi riconoscimenti internazionali, fino al primo premio nella categoria Fine Art Landscape, al Prix de la Photographie Px3, a Parigi, la scorsa estate 2012, assegnato alla serie dei Plastic Landscapes, alla quale ci siamo appena riferiti. Il suo è un bianconero di struggente attualità, che fa prezioso tesoro di lezioni compositive radicate indietro nei decenni. Non si sofferma soltanto sull’esteriorità senza tempo, ma riconosce la contemporaneità della vita. Nessuna remora, ma soprattutto il senso del linguaggio fotografico, propriamente fotografico, declinato con coerenza e straordinaria competenza. ❖

33


STELLE

E STRISCE Stephen Shore: Bay Theater, Second Street, Ashland, Wisconsin, July 9, 1973 (C-print; © Stephen Shore). Edward Weston: Pepper no.30; 1930 (Stampa alla gelatina d’argento; © 1981 Center for Creative Photography, Arizona Board of Regents).

Tutte le fotografie presentate fanno parte della Collezione Fondazione Cassa di Risparmio di Modena.

Flags of America; catalogo della mostra promossa da Fondazione Fotografia - Fondazione Cassa di Risparmio di Modena; a cura di Filippo Maggia, con Claudia Fini e Francesca Lazzarini; Skira, 2012; 136 pagine 24x28cm; 40,00 euro.

34


di Maurizio Rebuzzini

E

sauriti i mesi di esposizione, all’autorevole Ex Ospedale Sant’Agostino, di Modena, dallo scorso quindici dicembre al prossimo sette aprile, la selezione di fotografie americanocentriche Flags of America sopravvive nella memoria fotografica collettiva grazie a un ben allestito catalogo di accompagnamento (a proposito: da tempo, ci domandiamo come si possa visitare una mostra, e migliaia sono stati i visitatori, a Modena, a tutt’oggi, primi giorni di gennaio, senza acquistare immediatamente il catalogo; certamente, ragioniamo -male!, sia rilevato per inciso- dal nostro punto di vista viziato, fondato su un confessato amore per il libro, per la carta, che sfogliamo e risfogliamo ogni volta che le circostanze ci inducono a farlo).

Oltre la mostra in cartellone a Modena, fino al prossimo sette aprile, la selezione di fotografia statunitense del Novecento Flags of America si completa con un eccellente volume-catalogo, che riunisce gli autori presi in considerazione: opera libraria di pregio -penalizzata solo da un ordine alfabetico di presentazione-, che offre sia considerazioni specifiche sia spunti di approfondimento individuale sui fotografi che compongono questo percorso espressivo. Ne siamo più che consapevoli, soprattutto alla luce di una convincente indicazione bibliografica che completa le note di ogni fotografo. Magari, soltanto per questo. Che non è comunque poco 35


Minor White: Golden Gate Bridge; 1959 (Stampa alla gelatina d’argento; © Trustees of Princeton University). Paul Caponigro: Reflecting Stream, Redding, CT; 1969 (Stampa alla gelatina d’argento; © Paul Caponigro).

Richard Avedon: William Burroughs, writer, New York City, July 9, 1975 (Stampa alla gelatina d’argento; © The Estate of Richard Avedon).

36

A diretta conseguenza, è obbligatoria una annotazione: salvo pochi casi, per i quali l’emozione dell’originale ci fa ribollire il sangue -e esemplifichiamo con le stampe dei ritratti di Nadar, che tre anni fa hanno avviato il fantastico percorso della mostra La Bohème (The Staging of Artists in photography of the 19th and 20th century, ovverosia La messa in scena degli artisti nella/della fotografia del Diciannovesimo e Ventesimo secolo ), al Ludwig Museum, di Colonia, in date coincidenti con la Photokina 2010, di visita obbligatoria (ma nessun altro giornalista italiano ha superato il perimetro espositivo della fiera merceologica! diavolo!)-, dunque, riprendiamo, a parte pochi casi, alle mostre di fotografie appese alle pareti preferiamo di gran lunga la loro messa in pagina in monografie di consultazione comoda e continuativa. Perché non sempre le stampe originarie aggiungono qualcosa di autenticamente sostanzioso al racconto della fotografia, da qualsivoglia punto di vista venga confezionato. Ecco che il catalogo della mostra, pubblicato dall’intraprendente Skira, ben introdotto con le istituzioni museali ed espositive italiane, assume un valore sostanziale: di memoria in avanti nel tempo e testimonianza imperturbabile, sia dell’evento in quanto tale, sia della convincente selezione riunita sotto l’esplicita definizione e indicazione di Flags of America. Più che alla mostra, ancora in cartellone per due mesi abbondanti da oggi (fino al sette aprile), ci richiamiamo a quanto il catalogo offre e certifica.

BANDIERE AL VENTO Avviata da Fondazione Fotografia con le retrospettive dedicate a Ansel Adams (all’inizio del 2011) e Edward Weston (questo autunno [FOTOgraphia, ot-

tobre 2012]), la ricognizione sulla grande fotografia americana del Novecento è approdata nelle sale dell’Ex Ospedale Sant’Agostino, di Modena, con una collettiva di grande respiro. Flags of America offre e propone opere di ventidue autori che, tra gli anni Quaranta e Settanta del Novecento, hanno compilato alcune delle più significative pagine della storia della fotografia. Selezionate dal più recente nucleo di acquisizioni della collezione fotografica della Fondazione Cassa di Risparmio di Modena, avviata nel 2007, queste fotografie rappresentano un capitolo fondamentale della raccolta internazionale che indaga la scena artistica contemporanea dell’intero pianeta. In aggiunta, si segnala anche il Jupiter Portfolio, di Minor White, del 1975, nella Collezione Fotografica della Galleria Civica di Modena dal 2002, sostanzialmente inedito nel nostro paese. In totale, ottantadue immagini scandiscono il tempo e ritmo di un’epoca di entusiasmante fermento sociale, nell’ambito della quale la fotografia si è proposta come fondamentale strumento di interpretazione, oltre che di lucida analisi critica, capace di rinnovarsi e dare origine a sostanziosi filoni di ricerca: dalla fotografia documentaria alle pratiche più intimiste e spirituali, fino alle indagini dei nuovi paesaggisti. In allestimento, il nucleo moderno (prossimo alla contemporaneità) è anticipato dai grandi autori dei primi decenni dello scorso secolo. Così, con percorso consequenziale, si passa dal purismo formale di Ansel Adams e Edward Weston (che personalmente troviamo spesso stucchevoli), ognuno per sé precursori di un profondo rinnovamento dello sguardo, alle cliniche introspezioni di Diane Ar-


bus e alle rassicuranti visioni di Stephen Shore, interprete del nuovo paesaggio urbano.

APPUNTO, IL CATALOGO Pubblicato da Skira, con una concentrata introduzione del curatore Filippo Maggia, il volume-catalogo Flags of America [a pagina 34] è ordinato in alfabetico per autore. Di fatto, non si stabiliscono tempi e modi di una progressione visiva ed espressiva, ma si mettono semplicemente in successione i singoli autori presi in considerazione, presentati per se stessi (e punto), piuttosto che in relazione a un percorso della fotografia statunitense del Novecento, soggetto esplicito della selezione. Tra le tante possibili, è una scelta soggettiva (magari non completamente condivisibile), che impoverisce la valutazione individuale dell’osservatore/fruitore, escluso dal ritmo, soprattutto temporale, soprattutto culturale, soprattutto ideologico, di questa passerella sulla e della fotografia statunitense del Novecento. In ogni caso, i ventuno autori (dai quali, per motivi burocratico-fiscali, manca Robert Frank) sono introdotti da pregevoli testi critico-biografici e rappresentati dalle immagini (spesso una sola fotografia) del racconto impostato da Flags of America. Tra l’altro, ironia delle casualità (ma le coincidenze potrebbero anche offrirsi come i soli accadimenti capaci di rivelare che la vita ha anche qualche senso), l’alfabetico colloca una immediatamente a ridosso dell’altra due personalità fotografiche che sono state legate da una profonda amicizia, per quanto si siano espresse con intenti autonomi e propri e separati, una dall’altra: i coetanei Diane Arbus e Richard Avedon. A questo proposito, è noto che quando Diane Arbus si suicidò,

37


Garry Winogrand: Hardhat Rally (protest); 1969 (Stampa alla gelatina d’argento; © The Estate of Garry Winogrand). Ralph Eugene Meatyard: Untitled; 1969 (Stampa alla gelatina d’argento; © The Estate of Ralph Eugene Meatyard). Bruce Davidson: Black Americans, New York City; 1962 (Stampa alla gelatina d’argento; © Bruce Davidson Magnum Photos).

il 26 luglio 1971, Richard Avedon lasciò quello che stava facendo e prese il primo volo per Parigi, per comunicarlo a voce alla figlia Doon. I ventuno autori compresi nella monografia Flags of America (dalla quale, per motivi tutti suoi, manca Robert Frank), sette dei quali viventi, sono Ansel Adams (1902-1984), Robert Adams (1937), Diane Arbus (1923-1971), Richard Avedon (19232004), Wynn Bullock (1902-1975), Harry Callahan (1912-1999), Paul Caponigro (1932), Walter Chappell (1925-2000), Van Deren Coke (1921-2004), Bruce Davidson (1933), Roy DeCarava (19192009), Lee Friedlander (1934), John Gossage (1946), Ralph Eugene Meatyard (1925-1972), Richard Misrach (1949), Irving Penn (1917-2009), Stephen Shore (1947), Aaron Siskind (19031991), Edward Weston (1886-1958), Minor White (1908-1976) e Garry Winogrand (1928-1984). Però, oltre i cenni biografici e critici, ciò che dà valore e consistenza a questo catalogo è la lucida bibliografia essenziale che conclude la sua messa in pagina. Per ognuno dei ventuno autori è riportato un prezioso casellario delle loro opere più significative, in progressione cronologica dalle più recenti. A conti fatti, si tratta di una preziosa segnalazione, utile a chi volesse approfondire le singole conoscenze, oltre che necessaria per stabilire i relativi percorsi espressivi e le corrispondenti testimonianze librarie. ❖ Flags of America; mostra promossa da Fondazione Fotografia Fondazione Cassa di Risparmio di Modena. Ex Ospedale Sant’Agostino, largo Porta Sant’Agostino 228, 41100 Modena; fino al 7 aprile; martedì-venerdì 11,00-13,00 - 15,30-19,00, sabato e domenica 11,00-20,00 [in coincidenza, nello stesso luogo e con le stesse date, è allestita anche la mostra Domenico Riccardo Peretti Griva e il pittorialismo in Italia; su questo numero, da pagina 16].

38



di Angelo Galantini

M

olte volte, probabilmente mai troppe, abbiamo lamentato l’edificazione americanocentrica delle più accreditate e seguìte Storie della Fotografia. Ora, in anticipo su osservazioni che stiamo per comporre, che potrebbero far pensare a una ritrattazione, confermiamo ufficialmente questa nostra recriminazione, questo nostro rimprovero (e rimpianto, allo stesso momento). Una volta risolte le origini ufficiali, che stabiliscono le date (del 1839) e i luoghi (dalla Parigi del dagherrotipo all’Inghilterra del disegno fotogenico, di William Henry Fox Talbot, successivamente brevettato come calotipo, che è poi l’autentica fotografia, così come l’abbiamo sempre intesa, e ancora l’intendiamo: negativo-matrice dal quale poter ricavare copie positive in quantità pressoché teoricamente infinita, oggi file digitale), troppe Storie concentrano tutto su quanto accaduto negli Stati Uniti. Lo deploriamo, ma -con l’onestà intellettuale che ci caratterizza- non possiamo ignorare che ci sono sacrosanti motivi per farlo: in effetti, più che altrove, per considerazioni sociali intuibili, che non sottolineiamo, proprio negli Stati Uniti hanno preso corpo e consistenza sia movimenti culturali, sia espressività esplicite, sia utilizzi fondamentali della fotografia. Del resto, tra tanto altro, non possiamo neppure sottovalutare o non conteggiare che stiamo parlando di un continente, non di una nazione, con una popolazione di tutta sostanza, altresì protagonista indiscutibile della Storia del Novecento nel proprio complesso.

Una particolare lettura di alcune delle fotografie di cronaca custodite nel Burns Archive, di New York City, soprattutto fotografie di cronaca nera, le interpreta in forma d’arte: da cui, il casellario riunito nell’avvincente monografia News Art - Manipulated Photographs from the Burns Archive, a cura di Stanley B. Burns e Sara Cleary-Burns. Non approdiamo a questo, ma da qui partiamo per una considerazione che va oltre e coinvolge ciascuno di noi: il valore artistico della fotografia quotidiana, oltre l’assolvimento dei propri intenti originari, dalla fotoricordo alla fotocronaca, ad altro ancora. Ovverosia, arte come condimento della mente e del cuore. Soprattutto, del cuore

IN FORMA

D’ARTE (?)

40



Da News Art, a cura di Stanley B. Burns e Sara Cleary-Burns: carico ai dock della Mauritania, durante uno sciopero generale; 8 maggio 1926 (ritocco totale all’aerografo, per perfezionare nitidezza e contrasto; delimitazione dell’inquadratura).

(a pagina 40) Da News Art, a cura di Stanley B. Burns e Sara Cleary-Burns: l’anarchico italiano Giuseppe Alio, accusato di omicidio; 1908 (ritocco attorno il volto, finalizzato allo scontorno). (a pagina 41) Da News Art, a cura di Stanley B. Burns e Sara Cleary-Burns: fotografi di cronaca con maschere antigas; Inghilterra, gennaio 1937 (ritocchi attorno le figure, finalizzati allo scontorno; segni di inquadratura).

Da News Art, a cura di Stanley B. Burns e Sara Cleary-Burns: ritratto di Albert Einstein; anni Venti (ritocco attorno il volto, finalizzato allo scontorno).

42

Ciò rilevato, dobbiamo annotare anche e ancora come e quanto la contemporaneità fotografica, senza soluzione di continuità dal giornalismo all’arte, alla pubblicità e a tanto altro ancora, trovi terreno fertile in una socialità dinamica, attenta, attiva e aperta (politica estera a parte). Che poi questo significhi anche dominio culturale, con relativa propaganda di stili e ideologie... è tutto lo stesso discorso, ci piaccia o meno che sia così (e, personalmente, non ci piace). Sovraintenzioni e consecuzioni (inevitabili?) a parte, cosa distingue il quotidiano statunitense da quello dei paesi con altra storia e altre profonde radici, dall’Europa all’Oriente tutto? Soprattutto la leggerezza e concretezza delle osservazioni e riflessioni, che non sono appesantite da alcun fardello di memorie antiche. Il tutto accade con il non secondario accompagnamento e condimento di una economia che può contare su valori sostanziosi e


Da News Art, a cura di Stanley B. Burns e Sara Cleary-Burns: posato di Isadora Duncan; 1929 (ritocco attorno la figura, finalizzato allo scontorno).

investimenti (anche culturali) presto remunerativi. Una volta ancora, in conferma d’obbligo: ci piaccia o meno che sia così.

NEWS ART Da cui consegue che -soprattutto ai giorni nostri- la riflessione fotografica statunitense è proficua e avvincente, per l’appunto svincolata dai pesi in carico che definiscono la cultura europea (e italiana), troppo spesso aggravata da preoccupazioni in forma di zavorra: e l’Italia ci aggiunge anche un pizzico di provincialismo e affanno (ci amareggia riconoscerlo). Così, oggi registriamo e approfondiamo il caso a dir poco significativo del Burns Archive, di New York City (140east 38th street; www.burnsarchive.com), ricco di ottocentomila fotografie del quotidiano, entro il quale i titolari Stanley B. Burns e Sara ClearyBurns individuano linee conduttrici e sistematicità. Tra queste, un particolare casellario è stato recen-

Da News Art, a cura di Stanley B. Burns e Sara Cleary-Burns: fotografia di moda; 1939 (ritocco attorno la figura, finalizzato allo scontorno; delimitazione dell’inquadratura).

43


Da News Art, a cura di Stanley B. Burns e Sara Cleary-Burns: la coppia di fantasisti Cook and Brown; 1949 (ritocco attorno i volti, finalizzato allo scontorno).

(centro pagina) Da News Art, a cura di Stanley B. Burns e Sara Cleary-Burns: scena del crimine, con aggiunta di un cadavere disegnato; 1928 (corpo disegnato, finalizzato alla ricostruzione fotogiornalistica).

Da News Art, a cura di Stanley B. Burns e Sara Cleary-Burns: il giocatore degli Yankees Mickey Mantle; anni Cinquanta (evidenziazione all’aerografo, finalizzata alla visualizzazione del cambio di area di strike, nel baseball).

44

temente raccolto in forma di monografia, che si aggiunge alle precedenti con le stesse firme: News Art, che sottotitola Manipulated Photographs from the Burns Archive, registra e censisce un centinaio di fotografie di cronaca, per lo più nera, ritoccate ad uso della loro riproduzione su quotidiani e rotocalchi (PowerHouse Books, 2009; 128 pagine 22,6x27,8cm; cartonato con sovraccoperta; 45,00 dollari). Le manipolazioni alle quali si fa riferimento non sono realizzate per alterare in qualsivoglia maniera la fotografia, ma finalizzate alla loro riproduzione a mezzo stampa. Ovvero, si tratta di interventi manuali chiarificatori: nitidezza incrementata, sovrapposizioni di dettagli (nel caso di spiegazione del luogo e del modo di un crimine), isolamento del volto del protagonista da istantanee e altro ancora. Nella loro presentazione in questa raccolta, tutte queste azioni sono certificate e specificate, fotografia per fotografia, immediatamente dopo la descrizione del fatto, dell’accadimento. Ritocchi analoghi, che in epoca di gestione elettronica dei file possono far sorridere per la propria grossolanità, ben lontana dall’essere nascosta, ma sempre evidente, si sono già incontrati in altre raccolte, una volta ancora statunitensi, di fotografie di cronaca dei decenni passati. A questo proposito, tra tanto materiale a disposizione, va ricordata la selezione Local News, a cura di Diane Keaton (proprio lei, l’attrice, che abbiamo già incontrato in veste di collezio-


nista di fotografia in occasione della monografia Mr. Salesman, commentata in FOTOgraphia, del novembre 2009), sottotitolata Tabloid Pictures from the Los Angeles Herald Express 1936-1961 (Dap, 1999). Però, mentre in questa selezione prevale la cadenza fotocronistica dei fatti, in News Art le fotografie sono presentate per se stesse, seppure con ritmo temporale, e valorizzate in quanto tali: opere. Cioè, Stanley B. Burns e Sara Cleary-Burns declinano un’altra ipotesi, un’altra visione: per l’appunto, quella della copia fotografica ritoccata che si offre e propone per individuati valori espressivi definiti e determinati dall’intervento modificatore applicato. Per questo, è opportuno accordarsi su quanto possa essere considerato “arte”, ovverosia attività che si eleva sopra la norma della vita quotidiana, magari offrendo a questa inviolabili spunti di riflessione. Al proposito, non mancano sagaci aforismi, che potrebbero essere usati, ognuno di loro, a definizione assoluta e inderogabile: da Oscar Wilde («Bisognerebbe essere un’opera d’arte o, altrimenti, indossare un’opera d’arte») a Vincent van Gogh («Spesso le persone fanno arte, ma non se ne accorgono»), da Albert Einstein («L’arte suprema di un maestro è la gioia che si risveglia nell’espressione creativa e nella conoscenza») a Francesco De Sanctis («Materia dell’arte non è il bello o il nobile, tutto è materia d’arte: tutto ciò che è vivo: solo il morto è fuori dell’arte»), da Paul Klee («L’arte non riproduce il visibile;

piuttosto, crea il visibile») a Lester Bangs («Il primo errore dell’arte è quello di presumere di essere seria»), da Emilio Cecchi («L’arte, in fondo, come tante tra le cose più belle, vien meglio un po’ di nascosto») a Theodor W. Adorno («Il compito attuale dell’arte è di introdurre il caos nell’ordine»), da Thomas S. Eliot («L’arte non migliora mai, ma... il materiale dell’arte non è mai esattamente lo stesso») a Eugene Ionesco («Un’opera d’arte è soprattutto un’avventura della mente»), da Neal Cassady («L’arte è buona quando muove dalla necessità; questo tipo di origine ne garantisce il valore, e nient’altro») a Lindsay Anderson («L’arte è esperienza, non la formulazione di un problema»), da Pauline Kael («L’irresponsabilità è parte del piacere di ogni arte; è la parte che le scuole non riconoscono») a Albert Camus («Se il mondo fosse chiaro, l’arte non esisterebbe»), da Henry Miller («L’arte non insegna niente, tranne il senso della vita») a un richiamo anonimo, banalizzante e stereotipato («Arte è ciò di cui non si capisce il significato, ma si capisce avere un significato»). Al giorno d’oggi, l’arte si esprime e manifesta in tante maniere, superando confini che in passato la limitavano alla pittura e scultura, confinandola.

Da News Art, a cura di Stanley B. Burns e Sara Cleary-Burns: da una fotografia di cronaca, due utilizzi; 1934 (due diverse delimitazioni dell’inquadratura).

DALLA-ALLA FOTOGRAFIA Del resto, questa proposizione della fotografia in forma d’arte, una volta esauriti i propri compiti istituzionali, ha un che di magico, se pensiamo che

45


Da News Art, a cura di Stanley B. Burns e Sara Cleary-Burns: cadaveri di soldati austriaci, in Serbia; 1915 (corpi ritoccati all’aerografo, per perfezionare nitidezza e contrasto). Da News Art, a cura di Stanley B. Burns e Sara Cleary-Burns: bagagli caricati su un treno; 1924 (ritocco totale all’aerografo, per perfezionare nitidezza e contrasto).

46

proprio l’invenzione della fotografia, che dal 1839 si è fatta carico di assolvere il “realismo” della visione, ha consentito alla pittura di evolversi verso fisionomie e lineamenti che non le erano stati concessi in precedenza. Dall’Impressionismo in poi, prima corrente pittorica a superare vincoli storici e prima di allora inamovibili, l’arte è decollata verso evoluzioni concettuali che hanno dato vita allo straordinario Novecento. E ora, oltre i canoni mercantili (che sono altro), la fotografia sottolinea come sia in una certa misura legittima la propria artisticità... quotidiana. Giocoforza alcune ripetizioni, alla luce delle identificate News Art, riprese e proposte dal Burns Archive, dalla cui es-

senza possono a propria volta avviarsi altre tante ipotesi analoghe, sempre riprese dalla registrazione quotidiana della vita nel proprio svolgersi: «Spesso le persone fanno arte, ma non se ne accorgono» (Vincent van Gogh), «Materia dell’arte non è il bello o il nobile, tutto è materia d’arte: tutto ciò che è vivo: solo il morto è fuori dell’arte» (Francesco De Sanctis), «L’arte non riproduce il visibile; piuttosto, crea il visibile» (Paul Klee), «L’arte, in fondo, come tante tra le cose più belle, vien meglio un po’ di nascosto» (Emilio Cecchi), «L’arte non migliora mai, ma... il materiale dell’arte non è mai esattamente lo stesso» (Thomas S. Eliot), «Un’opera d’arte è soprattutto un’avventura della mente» (Eugene Ione-


sco), «L’arte è esperienza, non la formulazione di un problema» (Lindsay Anderson) e «L’arte non insegna niente, tranne il senso della vita» (Henry Miller). Guardiamole bene queste News Art, sia per se stesse e la propria ri-proposizione, sia come punto di partenza dal quale incamminarsi per ipotesi sostanziosamente analoghe e individuali. Allora, assumono valori autonomi molte altre fotografie quotidiane e persino anonime, che hanno raccontato per quanto capaci di farlo. Così intese, molte fotoricordo familiari e altrettante fotocronache superano il proprio momento originario, per offrirsi in altra maniera. Appunto, in forma d’arte. Certo, non si tratta di quell’arte mercantile ali-

mentata e gonfiata da quotazioni in crescita esponenziale, sia in ragione di considerazioni effettive, sia in relazione a mille altri interessi di casta. Però, sono comunque arte vera: «avventura della mente» (Eugene Ionesco) e «tutto è materia d’arte» (Francesco De Sanctis). Ovverosia, di arte che accompagna la vita quotidiana, rendendola più avvincente, o magari anche solo più tollerabile. Perché, a conti fatti, dovrebbe essere giusto questo il valore dell’arte -non quella dei musei e delle istituzioni e delle quotazioni, ma quella che fa strada giorno per giorno, giorno dopo giorno-: un piacere della vista e del cuore. Soprattutto, del cuore. ❖

Da News Art, a cura di Stanley B. Burns e Sara Cleary-Burns: il fotocronista Walter Craig sul terrazzo di un grattacielo; 1933 (ritocco attorno la figura, finalizzato allo scontorno).

47


48

ECCO IL RE!


I riflettori -è il caso- si accendono sugli esordi della parabola di Elvis Presley, l’indiscusso Re del Rock’n’Roll. Le fotografie del bravo fotogiornalista Alfred Wertheimer non si esauriscono nel racconto del soggetto dichiarato; più in profondità, la raccolta Elvis and the Birth of Rock and Roll rivela il momento e il clima di una metamorfosi musicale, alla quale ha fatto immediatamente corollario una trasformazione culturale del mondo 49


(doppia pagina precedente) Elvis, Scotty Moore, alla chitarra, Bill Black, al basso, e DJ Fontana, alla batteria, in concerto allo Stage Show; 17 marzo 1956.

di Maurizio Rebuzzini

L

eggenda? Realtà? Delle due, entrambe. Forse. Nei primi mesi del 1956, quando al fotografo Alfred Wertheimer fu chiesto di realizzare un servizio su Elvis Presley, lui chiese stupito «Elvis chi?». Prontamente, dall’ufficio pubblicitario della Rca Victor, una delle più importanti etichette musicali del tempo, attenta alle trasformazioni sociali che erano nell’aria, appena esaurita la sbornia della fine della guerra, gli risposero che quell’incarico a Memphis, capoluogo della contea di Shelby, nello stato del Tennessee, sarebbe stato il lavoro della sua vita. Erano certi che il ventunenne Elvis Presley si sarebbe presto imposto nel panorama della musica statunitense e avrebbe dato avvio a una autentica epopea. Seguendo il cantante come un’ombra, Alfred Wertheimer ha avuto accesso illimitato alla vita pubblica e privata di Elvis Presley, del quale ha registrato ogni mossa: sia sui palcoscenici dove si esibiva, sia nei corridoi bui del retroscena, dove seduceva giovani fan, smaniose di un qualsivoglia incontro ravvicinato. In quel 1956 di origine, Alfred Wertheimer ha scattato oltre tremila fotografie, realizzando una impressionante galleria visiva di un personaggio che stava per affermarsi come fantastica superstar del costume di un’epoca in rapida trasformazione sociale. Come appena accennato, all’indomani del buio di un devastante conflitto mondiale, il dopoguerra por-

Alfred Wertheimer. Elvis and the Birth of Rock and Roll; a cura di Chris Murray e Robert Santelli; Taschen Verlag, 2012 (distribuzione: Inter Logos, strada Curtatona 5/2, Località Fossalta, 41126 Modena; www.libri.it); edizione multilingue (inglese, francese, tedesco) 418 pagine 31,2x44cm, in confezione di plexiglas a guscio. ❯ Collector’s Edition: tiratura numerata e firmata; 1706 copie, da 251 a 1956; 500,00 euro. ❯ Art Edition: tiratura numerata e firmata; 250 copie, da 1 a 125 e da 126 a 250; ogni copia comprende una stampa fotografica di Alfred Wertheimer, incorniciata in plexiglas ( Kneeling at the Mosque [a pagina 55], oppure The Kiss, entrambe del 1956); 1250,00 euro.

50

tò con sé uno stile di vita, una narrativa e un quotidiano positivi. Lo stato d’animo era ottimista; le automobili, i primi elettrodomestici per la casa e perfino le persone erano splendide e brillanti. Dopo la depressione della guerra, sia negli Stati Uniti, sia nel resto del mondo, ma soprattutto a partire dagli Stati Uniti, la visione di una esistenza solida e tranquilla si concretizzò nelle menti di tutti: ogni ipotesi e ogni conclusione parevano felici. Ufficialmente, non c’erano problemi. E la liberazione dei costumi passò principalmente dalla musica (come sarebbe successo ancora, di lì a una mezza dozzina di anni, nell’Inghilterra dei Beatles... e poi in tutto il mondo). Nel 1956 di origine, Elvis Presley raggiunse la vetta di tutte le classifiche di vendita di dischi (allora quarantacinque giri, con una canzone di richiamo e il lato B di supporto), a partire da quelle del prestigioso e autorevole Billboard Magazine. Sopra tutte, si segnalano le clamorose affermazioni di Heartbreak Hotel, per otto settimane al primo posto, Love me Tender, primo per cinque settimane, e Don’t Be Cruel / Hound Dog, che ha primeggiato per ben undici settimane. Curiosamente, ma forse neppure poi tanto curiosamente, le fotografie di Alfred Wertheimer rispecchiano il clima e senso delle canzoni di Elvis Presley, che -a propria volta- riflettono il clima del proprio tempo: dall’incessante ritmo di Heartbreak Hotel e Jailhouse Rock (1957, ripreso nel finale del cinematografico The Blues Brothers, del 1980, con


John Belushi e Dan Aykroyd) ai sentimentalismi di Love me Tender e Don’t Be Cruel. Senza soluzione di continuità, si passa dall’esuberanza dei concerti alla lievità del dietro-le-quinte, alla rivelazione dell’uomo oltre la propria apparenza. In fondo, ma neppure poi tanto in fondo, è questa una delle missioni esplicite della fotografia. Una volta ancora, mai una di troppo, da e con Edward Steichen (1969, in occasione del suo novantesimo compleanno): «Missione della fotografia è spiegare l’uomo all’uomo e ogni uomo a se stesso». Tutto sommato, individualismi a parte (e io, che mi sono interrotto agli anni Cinquanta, andando raramente oltre, amo tanto Elvis, per quanto gli preferisca lo sfortunato Jerry Lee Lewis), quegli anni sono stati più che fantastici: illuminanti, per quanto hanno proiettato in avanti, e che è arrivato fino a noi. Volente o nolente, ci piaccia o meno! Da cui, e per cui, mi interessano nulla, non soltanto poco, queste fotografie di Alfred Wertheimer. Altrettanto, mi interessa niente né la musica di Elvis Presley, né la sua influenza sociale che si è allungata avanti nei decenni. Ma non è vero! No, non è proprio vero! In un mondo e un’epoca nella quale alla gente non frega niente (da e con Enzo Jannacci, in Se me lo dicevi prima): «E allora sarà ancora bello / quando tace il water, / e sarà anche più bello / quando scopri il trucco. / E allora sarà bello / quando tace il water, / quando spegni il boiler, / quando guardi il tunnel, / quando, quando senti il sole». Eccoci qui, quindi, con queste fantastiche fotografie che vanno ben oltre se stesse e il proprio soggetto esplicito e dichiarato: Elvis Presley, altrimenti noto come Il re del Rock’n’Roll, all’esordio del suo favoloso percorso individuale e sociale. Non siamo soltanto in presenza di questo, ma al cospetto di un momento fondante della nostra società, che si è proiettato in avanti nei decenni. Ancora, e in smentita di quanto appena riferito, da cui, e per cui, mi interessano molto queste fotografie di Alfred Wertheimer. Altrettanto, mi interessa la personalità di Elvis Presley e la sua influenza sociale che si è allungata avanti nei decenni: sia metamorfosi della musica pop, sia trasformazione culturale del mondo. A conseguenza, accogliamo con piacere ed emozione l’edizione da collezione di millenovecentocinquantasei copie numerate e firmate da Alfred Wertheimer di Elvis and the Birth of Rock and Roll (1956 copie, in richiamo all’anno di esordio di Elvis Presley e della datazione della sostanza delle fotografie di Alfred Wertheimer), del solito e intraprendente Taschen Verlag, di Colonia (editore più che meritevole, checché ne dicano e pensino i soliti stupidi fotografici che proliferano nel nostro paese): due Art Edition, da centoventicinque copie ciascuna, numerate da uno a centoventicinque e da centoventisei a duecentocinquanta, rispettivamente con una stampa originaria bianconero di Kneeling at the Mosque [a pagina 55] e The Kiss [qui a destra], entrambe del 1956; quindi millesettecentosei Collector’s Edition, numerate da duecen(continua a pagina 54)

DIETRO LE QUINTE

Il fotogiornalista Alfred Wertheimer è nato in Germania, nel 1929. Emigrato negli Stati Uniti, si è stabilito a Brooklyn. Originariamente, si è interessato all’architettura e al design, con un percorso accademico alla Cooper Union, dove si è laureato nel 1951. Primo fotografo ad aver seguìto la parabola di Elvis Presley, dalle origini, nel 1956, si è successivamente segnalato per ulteriori proprie personalità fotografiche, anche se la sua fama è legata a doppio filo con gli anni trascorsi accanto al nascente Re del Rock’n’Roll, mancato il 16 agosto 1977, come ancora oggi sottolinea e certifica il sito della sua Collezione: www.alfredwertheimer.com. Chris Murray, il curatore della monografia Alfred Wertheimer. Elvis and the Birth of Rock and Roll, ha organizzato più di duecento mostre di molti dei più importanti artisti del nostro tempo, da Andy Warhol, nel 1970, al primo allestimento di Annie Leibovitz, nel 1984. È stato co-curatore della mostra Elvis at 21, alla Smithsonian Institution, di Washington. Il redattore aggiunto di Alfred Wertheimer. Elvis and the Birth of Rock and Roll, Robert Santelli, è direttore esecutivo del Grammy Museum e Ceo e direttore artistico dell’Experience Music Project. È autore di una dozzina di libri e collaboratore di riviste specializzate, tra le quali Rolling Stone.

Ritratto di Alfred Wertheimer con tra le mani una stampa di The Kiss (Elvis Presley, backstage del Mosque Theater, di Richmond, Virginia, 30 giugno 1956), realizzato da Tim Mantoani, nell’ambito del suo avvincente e convincente progetto fotografico Behind Photographs, svolto in polaroid 50x60cm [ FOTOgraphia, ottobre 2010].

51


ALLE ORIGINI DELLA BEATLESMANIA (DEI FAB FOUR)

Come annotato in riferimento alle attuali Collector’s Edition e Art Edition di Elvis and the Birth of Rock and Roll, dello statunitense Alfred Wertheimer (commentate nel corpo centrale dell’odierno intervento redazionale), in tempi successivi, l’intrepido e audace editore tedesco Taschen Verlag fa seguire queste tirature numerate, firmate e personalizzate da una edizione libraria sostanzialmente standardizzata: senza tralasciare la proverbiale cura delle sue fantastiche pubblicazioni, proposta a un prezzo di vendita/acquisto più frequentabile da ognuno. Dunque, a un anno circa dalle originarie analoghe Collector’s Edition e Art Edition, The Beatles, di Harry Benson, approda -per l’appunto- alla sua edizione tranquilla e appetibile: multilingue (spagnolo, portoghese e italiano); 272 pagine 26,5x37,4cm, cartonato con sovraccoperta; 49,99 euro. Ha dichiarato l’autore: «Queste fotografie raccontano di un periodo davvero felice per loro e per me. Tutto si riduce alla musica; senza dubbio, è stata la più grande band del Ventesimo secolo, ed è per ciò che queste fotografie sono così importanti». Come per l’incontro tra Alfred Wertheimer e Elvis Presley, menzionato nel corpo centrale di questo intervento redazionale, in principio, anche Harry Benson ha avuto modo di avvicinare i Beatles nei loro istanti di esordio. All’inizio del 1964, mentre stava svolgendo un assignment in Africa, fu raggiunto da una telefonata dalla photo editor del quotidiano londinese The Daily Express. Gli fu chiesto di raggiungere i Beatles a Parigi, per seguire quella che si stava Al piano, all’Hotel George V, di Parigi, nel 1964, Paul McCartney intona le prime note di I Feel Fine per gli altri tre Beatles: John Lennon (al piano, a sinistra), George Harrison (alla chitarra) e Ringo Starr. Harry Benson. The Beatles; Taschen Verlag, 2013; edizione multilingue (spagnolo, portoghese, italiano); 272 pagine 26,5x37,4cm, cartonato con sovraccoperta; 49,99 euro.

52

profilando come beatlesmania: fu il più grande e importante incarico fotografico della sua lunga e prolifica carriera. Harry Benson fu accolto calorosamente dai quattro (che in origine erano cinque), e realizzò alcune delle fotografie più intime del complesso (come si diceva allora; oggi, band), che stava per imporsi nel mondo intero, stravolgendo sia la musica, di partenza, sia il costume sociale nel proprio insieme e complesso.


Tra tanto, a Parigi, in una stanza del selettivo Hotel George V, furono scattate fotografie private, tra le quali quella della battaglia di cuscini che è diventata autentico marchio di fabbrica. A seguire, Harry Benson ha accompagnato i Beatles nel loro primo tour statunitense, durante il quale si registra la partecipazione al famoso e seguìto programma televisivo Ed Sullivan Show e si annotano incontri ad alto livello, come quello con il pugile

Cassius Clay, eroe delle Olimpiadi di Roma (1960), non ancora Muhammad Ali [in queste pagine, al centro, a destra]. Unica nota stonata di quel tour, estranea alla fotografia, ma da ricordare (soprattutto per coloro i quali, e sono tanti, non l’hanno vissuta in cronaca), fu l’infelice espressione di John Lennon -portavoce dei quattro- che annotò come i Beatles fossero ormai più famosi -o grandi, secondo le traduzioni- di Gesù Cristo. In tutti i casi, gli straordinari e coinvolgenti bianconero di Harry Benson fissano un momento della storia contemporanea con il quale si debbono fare i conti sociali del nostro mondo. In doveroso parallelo, così come Elvis Presley (altrettanto fantasticamente restituito dalle fotografie di Alfred Wertheimer) fu fondamentale per la cultura e socialità statunitense, i Beatles hanno proiettato la propria influenza sull’intero pianeta. Ecco quindi che la contrapposizione tra il fanatismo dei concerti e la rilassatezza del privato, perfettamente combinati nelle fotografie di Harry Benson, racconta come niente altro potrebbe fare il clima e senso di un momento, in procinto di diventare epoca. Molte di queste fotografie sono note e conosciute, a partire da quella della battaglia di cuscini appena evocata [un cui dettaglio illustra la copertina della monografia]; molte di più sono inedite e compongono i tratti di un racconto avvincente e irrinunciabile. Ovverosia, fantastico. Cassius Clay, non ancora Muhammad Ali, solleva Ringo Starr, il batterista dei Beatles, osservato dagli altri tre: John Lennon, Paul McCartney e George Harrison; Miami, Florida, 1964. Storica partecipazione dei Beatles al programma televisivo Ed Sullivan Show, seguìto da settantacinque milioni di telespettatori; New York, 1964. Ritratto di Harry Benson con tra le mani una stampa della celebre battaglia di cuscini dei Beatles, all’Hotel George V, di Parigi, nel 1964, realizzato da Tim Mantoani, nell’ambito del suo avvincente e convincente progetto fotografico Behind Photographs [ FOTOgraphia, ottobre 2010].

53


Kneeling at the Mosque; Richmond, Virginia; 30 giugno 1956 [questo è uno dei due soggetti delle Art Edition di Alfred Wertheimer. Elvis and the Birth of Rock and Roll].

No Gas in the Tank: sulla sua Harley-Davidson, Elvis si domanda perché non parte; Memphis, Tennessee; 4 luglio 1956.

(continua da pagina 51) tocinquantuno a millenovecentocinquantasei. La preziosa monografia, della quale attendiamo con trepidazione una successiva edizione standard, che non mancherà, come non sono mancate quelle di ogni altra precedente Collector’s Edition e Art Edition, riunisce e mette in pagina una consistente e considerevole serie di fotografie che Alfred Wertheimer ha realizzato dal 1956 al 1958, quando Elvis Presley partì per il servizio militare, svolto presso una base statunitense in Germania (e a Brooklyn, New York City, una targa commemorativa è stata collocata nell’edificio dal quale il re è partito: 140 58th street, dove, all’ottavo piano, ha sede la produzione di illuminatori per fotografia e video Lowell Light). La selezione comprende sia fo-

54

tografie ampiamente note di Alfred Wertheimer, che -come profetizzato nel 1956, e ricordato in avvioha indelebilmente incrociato la propria vita con quella di Elvis Presley, sia fotografie poco conosciute, se non già addirittura inedite. Ogni capitolo di Alfred Wertheimer. Elvis and the Birth of Rock and Roll è introdotto da un poster originale creato appositamente da Hatch Show Print, una delle più antiche tipografie degli Stati Uniti. In attività dal 1879, nel corso della propria fantastica parabola professionale, Hatch Show Print ha stampato manifesti per il vaudeville, circhi e spettacoli in tour mondiale del Novecento, e ha creato molte delle immagini xilografiche che hanno definito l’aspetto della musica rock and roll; tra i quali, molti primi manifesti di Elvis Presley, per l’appunto. ❖



DISEGNI I Pre-fotogrammi dell’attento Davide Medri, per i quali abbiamo coniato l’identificazione, prima di approdare a una certificazione conclusiva e definitiva (Medrigrafie ), contengono tracce “fotografiche”, ma basano la propria personalità sulla combinazione pertinente e guidata delle relative forme. Ne conseguono astrattismi puri e inviolabili: in un tutto armonicamente amalgamato di Antonio Bordoni

B

ravo! Bravo e intelligente: due doti che ancora oggi possono fare la differenza nelle esistenze individuali e nel rapporto con gli altri, in proiezione da se stessi. Davide Medri è bravo e intelligente: sa cogliere gli inviti e li sa anche fare propri, offrendoli senza alcun inutile risparmio. I suoi Pre-fotogrammi sono stati sollecitati dalle Vues n° 0, altrimenti conosciute come Manifesto per la fotografia argentica, realizzate dal francese Jean-Christophe Béchet in forma di trittico librario, che abbiamo presentato, commentato e approfondito nel maggio 2007 di FOTOgraphia, con storia di copertina.

56


FOTOGENICI

57


Certo, come dichiara esplicitamente Davide Medri, i suoi Prefotogrammi (la definizione è nostra, in identificazione aperta e palese della loro forma; a seguire, il contenuto) si sono originariamente ispirati al progetto delle Vues n° 0, di Jean-Christophe Béchet, ovverosia di quei non-fotogrammi che sulla pellicola 35mm caricata in macchina precedono gli scatti volontari e consapevoli, nelle fasi di avanzamento al primo fotogramma utile. Un altro richiamo (colto) arriva dalla prima delle Verifiche del compianto Ugo Mulas, quella intitolata Omaggio a Niépce, che dà avvio a sostanziose riflessioni sull’in-

58

fluenza del mezzo (strumenti e materiali: forma) e sull’espressività della fotografia (linguaggio e lessico: contenuto). Diamola per conosciuta (e chi non la conosce, ha modo di trovare materiale esplicativo in Rete), e entriamo nello specifico. Magari, non prima di aver ricordato che si tratta di un provino a contatto di un intero rullo 35mm da trentasei pose non esposto, ma sviluppato, come del resto ha sottolineato l’autore nel suo commento. Eccolo: «La fotografia che ho intitolato Omaggio a Niépce è il risultato di un riesame del mio lavoro di fotografo che ho fatto alcuni anni fa.


«Ho dedicato a Niépce questo primo lavoro, perché la prima cosa con la quale mi sono trovato a fare i conti è stata proprio la pellicola, la superficie sensibile, l’elemento cardine chiave di tutto il mio mestiere, che è poi il nucleo intorno al quale ha preso corpo l’invenzione di Niépce. È una verifica che è prima di tutto un omaggio, un gesto di gratitudine, un dare a Niépce quello che è di Niépce. Per una volta, il mezzo, la superficie sensibile, diventa protagonista; non rappresenta altro che se stesso. «Siamo di fronte a un rullo vergine sviluppato; il pezzettino

che è rimasto fuori del caricatore ha preso luce indipendentemente dalla mia volontà, perché è il pezzettino che prende “sempre” luce quando si deve innestare la pellicola nella macchina: è un fatto fotografico puro. Prima ancora che il fotografo faccia qualsiasi operazione, già è avvenuta qualche cosa. Oltre a questo pezzettino che prende luce all’inizio, ho voluto salvare anche il tratto finale, quello che aggancia la pellicola al rocchetto. È un pezzettino che non si usa mai, che non viene mai alla luce, che si butta via, eppure è fondamentale, è il punto dove finisce una sequenza fotografica. Mette-

59


re l’accento su questo pezzetto vuol dire mettere l’accento sul momento in cui togli dalla macchina la pellicola, per portarla in laboratorio. Vuol dire chiudere. Anche questa è una presenza fotografica, perché, essendoci ancora appiccicata della colla che fa corpo, la luce in quel punto non passa. «Potrei aggiungere che questo omaggio a Niépce rappresenta trentasei occasioni perdute, anzi, trentasei occasioni rifiutate, in un tempo in cui, come scrive Robert Frank riferendosi al fotogiornalismo, l’aria è divenuta infetta per la puzza di fotografia».

60

Per quanto richiamati a questi due precedenti, ognuno nobile per se stesso e in misura propria, i Pre-fotogrammi di Davide Medri sono altro: hanno acquisito da entrambi i segnali, cogliendo note che sono state fatte proprie e autonome. Dalle Vues n° 0 di Jean-Christophe Béchet, arriva la concentrazione sulla porzione di pellicola 35mm che precede la sequenza preordinata degli scatti fotografici veri e propri. Dalla Verifica di Ugo Mulas, perviene la colta trasversalità dell’azione, del progetto, del risultato di Davide Medri: in estratto, «È un fatto fotografico puro»... «Anche questa è


una presenza fotografica»... «Eppure è fondamentale». Con un passo di traverso, Davide Medri estorce al momento fotografico la prerogativa originaria della luce che altera le superfici a lei sensibili; quindi, fa tesoro della casualità dei gesti necessari e indispensabili alla lavorazione della pellicola: dalle inevitabili impronte digitali alle certificazioni di laboratorio, alle sforbiciate di separazione delle strisce da collocare nell’apposito portanegativi, ad altri tanti interventi. Ancora: esclude dal proprio risultato formale qualsivoglia consistenza “fotografica”, per elevare il materiale

fisico della fotografia a nuova forma espressiva propria. Ovvero, nessun Pre-fotogramma di Davide Medri contiene tracce “fotografiche”, ma tutti basano la propria personalità sulla combinazione pertinente e guidata delle relative forme, del relativo aspetto. Ne conseguono astrattismi puri e inviolabili, che avrebbero potuto dare gioia addirittura al pittore russo Vasilij Vasil’evič Kandinskij, creatore della pittura astratta, che ha percepito la realtà come un’immensa partitura musicale nella quale ogni suono, ogni strumento, propone un colore e una forma in un tutto armonicamente amalgamato.

61


La proposizione in rigoroso bianconero, anche di supporti originari da pellicole e negativi a colori, è in ordine ed equilibrio con l’azione fortemente fisica di questa avvincente serie di immagini, che diventano tali (per l’appunto, immagini) attraverso una intelligente acquisizione a scanner. I frammenti di pellicola sono stati sapientemente combinati sul piano di lettura e compilazione della scansione, dove sono andati a formare linee, toni e contrasti inesistenti nella realtà, ma partoriti dal cuore dell’autore. Per certi versi, che non ignoriamo, questa metodologia ha

62

almeno altri due sostanziosi precedenti, che affondano le proprie radici nella storia evolutiva della stessa fotografia: si allinea alle copie a contatto dei pionieri chimici e alle analoghe esposizioni su carta sensibile di comprovati autori, da Man Ray (da cui, Rayograph) a Christian Schad (da cui, Schadograph). Dunque, per queste astrazioni di Davide Medri, astrattismi in origine fotografica, autentici disegni fotogenici senza connotati fotografici di forma, ma di contenuto... ci sbilanciamo in avanti, certificandone l’originalità: Medrigraph. Medrigrafie! ❖



Sguardi su

di Pino Bertelli (Piombino, dal vicolo dei gatti in amore, 19 volte ottobre 2012)

S

Sul paradosso nell’arte del comunicare in lingua rovescia, o motto di spirito in forma di eresia. Ci sono cretini che hanno visto la fotografia e ci sono cretini che non hanno visto la fotografia (ma continuano a farla). Io sono un cretino che la fotografia non l’ha vista mai (e la cerca ancora). Tutto consiste in questo: vedere la fotografia o non vederla. I cretini che vedono la fotografia hanno ali improvvise, sanno anche volare e riposare a terra come una piuma. I cretini che la fotografia non la vedono, non hanno le ali; negati al volo, eppure volano lo stesso, e invece di riposare... ricadono. Ma quelli che vedono, non vedono quello che vedono; quelli che volano sono loro stessi il volo. Chi vola, non si sa. Un siffatto miracolo li annienta: più che vedere la fotografia, sono loro la fotografia che vedono (dètournement dal film di Carmelo Bene, Nostra signora dei turchi, del 1968). Fotografia di religione (fotografia predominante) significa mancanza di desiderio della realtà ed estinzione, spegnimento, eclissi, tramonto del desiderio di fotografare l’insoddisfatto. Se non c’è desiderio, non c’è fotografia: è «Essenzialmente il desiderio di avere il proprio desiderio» (Jacques Lacan diceva)... a fare di un uomo un fotografo e -nella sua mancanza- uno stupido.

LA FOTOGRAFIA DEL DESIDERIO La fotografia del desiderio, chiamiamola anche così, educazione alla civiltà, è qualcosa che rigetta il narcisismo cinico che è al fondo del linguaggio fotografico mercantile che lo sostiene. Fotografia del desiderio significa seguire la rotta segnalata dalle stelle (i desiderantes erano i soldati che aspettavano sotto le stelle i compagni che non erano ancora tornati dal campo di

64

CARLA CERATI battaglia, ricorda Vito Mancuso, citando il De Bello Gallico, di Giulio Cesare), dalla creatività, dal godimento che dissipa la realtà e scippa alla storia dell’infamia la bellezza del vero. Fotografare il non sempre visto, il non sempre conosciuto, riavviare la ricerca della conoscenza, vuol dire mostrare con la fotografia il desiderio all’opera. «Il desiderio in quanto forza che mi supera non è qualcosa che “io” posso governare, non è a mia disposizione, a disposizione del mio Io, ma è piuttosto l’esperienza di uno scivolamento, di un inciampo, di una perdita di padronanza, di una caduta dell’Io. Il desiderio viene dall’esperienza come qualcosa che turba il mio Io e tutte le convinzioni consolidate” (Vito Mancuso). La fotografia del desiderio è l’immagine di un’alterità che irrompe nella credenza dell’idolatria (non solo) fotografica e mostra le ferite di una esclusione. Tutto qui. Carla Cerati è un’esponente singolare della fotografia del desiderio o civile. Nasce a Bergamo, nel 1927. Alla fine degli anni Cinquanta è fotografa di scena, in teatro, a Milano. Si afferma nel reportage e nel ritratto (dicono le note biografiche). Nel 1969, pubblica (con Gianni Berengo Gardin) il libro Morire di classe: un reportage/documento coraggioso sulla condizione manicomiale in Italia, a cura di Franco Basaglia, con la prefazione di Franca Basaglia Ongaro [dopo l’edizione originaria Einaudi, del 1969, nel 2008, è stata pubblicata una proficua anastatica a cura di Duemilauno; FOTOgraphia, maggio 2009]. Sono immagini dure e tenere al contempo di uomini e donne prigionieri, legati, puniti, umiliati, ridotti a sofferenze estreme. Nel 1973, Carla Cerati esordi-

sce nella letteratura con Un amore fraterno. La sua produzione di romanzi sarà vasta, e alcuni le faranno vincere premi importanti; ricordiamo: La condizione sentimentale, La cattiva figlia, La perdita di Diego, L’intruso, L’emiliana, Storia vera di Carmela Iuculano (la giovane donna che si è ribellata a un clan mafioso). Le fotografie di Carla Cerati sono state pubblicate da L’Illustrazione Italiana, Vie Nuove, L’Espresso, Du, Leader, New York Times, Life, Die Zeit. Una cartella con venticinque fotografie di paesaggi, curata da Bruno Munari con la prefazione di Renato Guttuso, esce nel 1965. Tra il 1960 e il 1980, Carla Cerati racconta i cambiamenti sociali, politici, culturali di Milano. Escono fotolibri particolari, come Mondo cocktail (1974) e Forma di donna (1979). Fotografa il Living Theatre e l’arte della danza del ballerino e coreografo spagnolo Antonio Gades. Si interessa della vita politica del proprio tempo e si accosta alle contestazioni generazionali del Sessantotto con grazia e autorialità. Aderisce alla Lettera aperta sul Caso Calabresi (o Manifesto contro il commissario Calabresi), firmata da numerosi politici, giornalisti, artisti e intellettuali italiani contro la farsa del processo sulla strage di piazza Fontana, a Milano (del 12 dicembre 1969), e la criminalizzazione degli anarchici. È attiva e attenta ai mutamenti del costume, e al tempo dell’uccisione di Aldo Moro non resta in disparte. Negli anni Novanta, lascia la fotografia, perché -dice- è delusa dalla superficialità e dall’arrivismo dell’ambiente, segnato da rapporti di potere, e si riversa nella scrittura. Tutto vero. Passiamo al discorso fotografico di Carla Cerati, del quale più ci interessa approfondire, quello che denuda i sommersi e i sal-

vati (Primo Levi non c’entra) della società dello spettacolo. Le immagini d’impianto civile sono un panegirico di emozioni visuali che restituiscono agli ultimi comprensione, accoglienza, condivisione e insorgenze, anche, difficilmente rintracciabili in molti autori celebrati (a torto) dalla storiografia fotografica italiana (che, come sappiano, è una congrega di intrecci tra mercimonio editoriale e politica di regime), ma anche nei nudi di donna la fotografa non si perde in estetismi comuni alla fotografia prezzolata. Chi, come Carla Cerati, vede le rive dell’esclusione, vede anche le rive delle nostre pene. La fotografia deve restare rara, autentica, sofferta, poiché bisogna aver bevuto a lungo o sognato in grande prima di trovare l’eccellente. Del resto, Guy Debord ammonisce che «La demenza ha edificato la sua casa sulle alture della città», o ha fatto il covo nei palazzi della falsa sapienza che alza altari e predicatori, forche e galere per tutti quelli, come Carla Cerati, che hanno avuto l’ardire di scrivere o fotografare la decadenza generale, che è un «Mezzo al servizio della servitù. E solo perché è questo mezzo le è permesso di farsi chiamare progresso» (Guy Debord). Nessuno o pochi fotografi, al di là del proprio impegno sociale, è riuscito -come l’immagine del desiderio di Carla Cerati- a rappresentare alla radice la dignità dell’uomo, della donna in difficoltà (e mostrare anche le maschere/volti dell’ipocrisia dei privilegiati). Il pianeta muore, lo sfruttamento delle masse è planetario, il culto del denaro e della predazione sono i nuovi oracoli. I distruttori della democrazia (i governi dei finanzieri) sono tutti conosciuti: occorre istruire processi internazionali, denunciare la violenza per inter-


Sguardi su dirla, mettere sotto accusa i responsabili, restituire ai popoli impoveriti il diritto alla vita.

SULLA FOTOGRAFIA DEL DESIDERIO La scrittura fotografica del disincanto di Carla Cerati identifica aggressori e aggrediti: implica la fine dell’indulgenza contro lo strapotere dell’esistente e denuncia senza mezzi termini il monopolio di una minoranza di arricchiti e i loro vassalli, al servizio della mediocrità e dell’impostura. A scorrere le immagini della Milano operaia degli anni Sessanta è straordinario vedere come la fotografa riesce a cogliere la condizione proletaria di quei giorni. I ferri del boom edilizio sono visti come bare, e gli operai all’uscita delle fabbriche conservano ancora quella consapevolezza che li faceva essere la spina dorsale del lavoro produttivo. La macchina fotografica di Carla Cerati sa essere anche impietosa, vera, abrasiva... specie se si tratta di fotografare la gente imbellettata nel foyer del Teatro della Scala, il picnic di una famiglia tra le automobili di un parcheggio, alla fiera campionaria, e le “belle statuine” di un cocktail nella Galleria fotografica Il Diaframma. Le immagini sono inequivocabili, avverse alla schiuma modistica che agitano... e diventano specchio di un’intera società: respingono il ricatto dell’industria culturale (come coscienza consumistica) e denudano la comunicazione (caricaturale e mercificata della democratizzazione della conoscenza) della società contemporanea. La fotografia del desiderio, vogliamo ribadirlo, ha la capacità di illuminare l’incompatibilità tra le false promesse politiche e il desiderio di rendere autentica la presa della verità (non importa che si tratti di una macchina fotografica, di una musica o della parola liberata). La forza del desiderio è l’appagamento, il godimento, la soddisfazione di essere partigiani (scegliere la parte con la quale stare) in lotta contro un mondo governato da demoni, «Ossia, chi si serve della

potenza e della violenza stringe un patto con potenze diaboliche […]; chi non lo capisce in politica non è che un fanciullo» (Max Weber, che certo non era un rivoluzionario). E questo basta per abolire i partiti politici e i loro falsi profeti e gettarli nella pattumiera della storia. Noi siamo fanciulli dell’utopia (disertori della politica istituzionale) e ci appropriamo del diritto del desiderio di non essere complici, né servi, di una casta di ladri della politica, della finanza, del neocolonialismo dei mercati neoliberisti (tutta gente che fa affari con la criminalità organizzata), e ci affranchiamo a tutte le forme

elezioni sono soltanto una farsa in cui, ogni quattro anni, la gente viene mobilitata dagli addetti alla comunicazione per appassionarsi e schiacciare un bottone [o mettere un segno sulla scheda], per poi tornarsene a casa e non pensarci più [...] Con un po’ di immaginazione, spirito d’iniziativa e impegno, penso che ci siano molte possibilità da esplorare, e ciò può rappresentare un elemento di sicurezza. Più attivo è l’appoggio dell’opinione pubblica [a rivolte comunitarie come Occupy], maggiore è la capacità di difendersi dalla repressione e dalla violenza» (Noam Chomsky). Tutto vero.

«I nostri contemporanei sono stupidi, ma prostrarsi ai piedi dei più stupidi di loro significa pregare. Si prega così, oggi. Come sempre. Frequentare i più dotati non vuol dire accostarsi all’assoluto, comunque. Essere il più gentile dei gentili. Essere finalmente il più cretino. Religione è una parola antica. Al momento, chiamiamola educazione» Carmelo Bene di disobbedienza civile, di resistenza, di insurrezione che rivendicano il diritto al futuro... vogliamo combattere insieme ai movimenti delle occupazioni, che scendono nelle strade, fermano le fabbriche, bloccano i ponti, le autostrade, le stazioni, gli edifici pubblici e chiedono la fine delle disuguaglianze. «È cruciale impedire che il denaro influenzi le decisioni politiche. Lo è da tempo. Oggi lo è ancora di più. È da molto che le

Forse siamo dei sognatori, certo. Ma sono stati i sognatori che hanno permesso la realizzazione di ogni avanzamento della società. Sono stati i sognatori che hanno abbattuto ogni ingiustizia. Sono stati i sognatori che quando hanno abbandonato la politica dei tribuni e si sono fatti cittadini del mondo, hanno sconfitto il male. Disobbedire per non obbedire mai più è già una meravigliosa vittoria.

La scrittura fotografica del desiderio di Carla Cerati è subito grande. Le immagini del manicomio di Parma restituiscono dignità a coloro i quali non l’hanno mai avuta, ed elevano il matto, l’offeso, l’escluso al piano dell’umano. Il grido di dolore delle persone strette nella camicia di forza è un atto di accusa contro l’intero “apparato” legislativo che ha permesso di imprigionare l’indifeso e non ha denunciato l’aguzzino. Qui, Carla Cerati ha compreso che l’umiltà del male è straordinariamente ricca di risposte, ma non è certo il sistema manicomiale e politico che lo sorregge il rimedio a tanta sofferenza. Le sue inquadrature sono scevre di ogni pietismo, ciò che risulta dal fotografato è il baratro che c’è tra i reclusi, gli offesi e il pregiudizio dei privilegiati. «È più facile spaccare un atomo, che infrangere un pregiudizio» (Albert Einstein diceva). Di più. Le fotografie di Carla Cerati riescono a figurare la vergogna del sopravvissuto (qui Primo Levi c’entra), che abbiamo già visto (e deprecato) nell’iconografia atroce dei campi di sterminio nazisti (il medesimo vomito vale anche per i lager comunisti). Cecità e supponenza (burocrazia e violenza) sono i pilastri del conservatorismo (laico e religioso) e vanno abbattuti. La vita è altrove. I ritratti di artisti, politici, intellettuali, modelle, signore dell’alta borghesia milanese, incontrati sulla Terrazza Martini, in party, studi di scultori, parrucchieri, premi letterari, negozi di arredamento, gallerie fotografiche, librerie dicono che molto del quale si schiamazza sui giornali o alla televisione poggia sull’inganno e l’apparenza. Protezioni, genuflessioni, sottomissioni emergono da quei volti stagliati contro il grigiore dello spettacolare integrato, e riproducono sentimenti di assoluta impotenza. È una fotografia che interroga e s’interroga sulle convenienze dell’ossequio e fa di una corte di adulatori una cartografia di vittime e complici

65


Sguardi su BIANCO E NERO laboratorio fotografico fine - art solo bianco & nero

GIOVANNI UMICINI VIA VOLTERRA 39 - 35143 PADOVA

049-720731 (anche fax) gumicin@tin.it

deposti nel sudario dei loro misfatti. Nessuno può conoscere il bene, se non si è trovato a duellare con la sufficienza e banalità del male. I gruppi, le famiglie, i balli nelle balere, i funerali, i processi (Calabresi, per esempio) sono presi in uno sforzo costante di verità... contengono quella passionalità umana che si pone al di sopra del contingente... ritagliano una concezione della vita che è interiorità, speranza e amore... non rispondono ai crismi della “cattiva bellezza” rappresentata dallo sguardo superficiale e cronachistico, ma affondano lo sguardo là dove malevolenza e fratellanza sono parte delle rappresentazione. Ancora. Tutti i difetti dell’immediato scompaiono di fronte ai suoi meriti affabulativi. Il puro dispendio estetico (dépense, Georges Bataille diceva) si rovescia nell’inquietudine del desiderio di realtà che sta al fondo della vita quotidiana, sapendo che il senso dell’umano è sempre andato a rimorchio del profitto. Non c’è innocenza nella fotografia del desiderio, e la libertà che si prende (senza chiedere permesso)

66

disvela i cortigiani infatuati della loro incompetenza. I corpi di donna fotografati da Carla Cerati (che a noi interessano meno) sono avvolti in un bianconero pudico, quasi ieratico. La fotografa lavora sulle forme, i segni, posture che vanno oltre la nudità, e riportano alla vivenza di bellezze antiche, sovente dimenticate e trascurate per far posto all’oggetto di consumo. Detto meglio, forse: i corpi di donna architettati di Carla Cerati esaltano il mistero del bello, del magico, del sensuale (dell’erotico mai volgare). Hanno l’audacia di sconfinare nell’emancipazione femminile della fine del divieto, e il loro non è solo un “corpo” amato, ma soprattutto anima in volo verso l’avventura dell’identità e della condivisione col diverso da sé. Non vogliono né vendetta né perdono, né pane né rose, chiedono il diritto all’intimità e di donarla a chi pare loro. Niente è più morale di un corpo in amore, anche estremo. Di amorale c’è solo la stupidità. Nel proprio insieme, le immagini del desiderio di Carla Cerati si spingono fuori dall’ogget-

to-feticcio, dall’oggetto-marca, dall’oggetto-idolo, che è la spoliazione mentale e sociale dell’esistenza. La fotografia del desiderio non rinvia solo allo scandalo, alla denuncia, allo smascheramento di ciò che rapisce nel quotidiano, ma -come ogni altra forma del comunicare senza steccati- anche «Alla fertilità della generazione, alla soddisfazione del riconoscimento, all’esistenza di un orizzonte che è speranza, avvenire, frutto, realizzazione, visione, sogno, comunione senza promessa di liberazione, singolarità, dono, possibilità» (Vito Mancuso). La fotografia del desiderio si occupa del divenire umano dell’uomo che supera la propria umanità e crea il proprio destino (o lo distrugge). Basta la fotografia dei giovani nella galleria Vittorio Emanuele, a Milano, che avanzano abbracciati verso la società che viene, per conoscere e comprendere a pieno il Sessantotto. In quelle facce in amore c’è tutto l’evento di un Maggio, di una festa libertaria che cambiò la storia del mondo, e quegli anni formidabili restano impressi a lettere di fuoco sugli scheletri di ogni potere. Nessuno più è stato bello così, né è più riuscito a tornare indietro, per rivivere i migliori anni della nostra vita. La sedia elettrica è nata nei macelli di Chicago; la fotografia, sui corpi martoriati dei comunardi messi in posa per la stampa. Si tratta di rovesciare questi stereotipi della disumanità. Imparare a vivere significa spezzare l’abitudine a chinare il capo e farsi servi della tolleranza dell’orrore. Liberare i canili dell’ordine economico e politico vuol dire mettere i colpevoli di tanta malvagità sociale in condizione di non nuocere più. La fotografia è un mezzo, tra gli altri, con il quale è possibile risvegliare la coscienza di molti e disseminare ovunque le tracce del vero interrogativo: «Come impedire ogni forma di recidività del crimine? Come curare le piaghe di una società ferita a mor-

te? L’oppressione non è stata mai tanto disarmata, mai la servitù delle masse è stata tanto arrendevole» (Raoul Vaneigem). L’onore dei capi di Stato, papi, generali, finanzieri, politici è il disonore di una nazione che non ha ancora preso coscienza della loro inutilità. L’aureola dei parlamentari inquisiti, condannati, impuniti somiglia a un cappello da buffoni; tuttavia, alla corte del re di denari (un professore a capo della cricca senza scrupoli del parlamento italiano), l’usurpazione della legittimità e del diritto sono praticate a colpi di decreti legislativi, e l’aspirazione alla felicità del popolo è circoncisa nell’implosione delle bolle finanziarie e tagli alla spesa pubblica. Gli inquisitori delle chiese monoteiste sono parte dell’affarismo criminale dei potenti; hanno sostituito le false promesse della fede con i bisogni di consumo e sottratto alle persone la gioia di vivere. È la creatività, la bellezza, la dignità degli esclusi che può ridestare la coscienza in letargo di grandi pezzi di popolo e sconfiggere l’impotenza e la disperazione fabbricate dalla macchina dello Stato. Le mafie degli affari vanno colpite al cuore, e gli untori della politica e della chiesa scacciati dai luoghi di potere ed esposti al pubblico ludibrio. La fine dell’incantesimo e della barbarie che ci abita è nel desiderio di amare il diverso da sé, fare della giustizia sociale il primo passo verso una comunità dove ciò che è mio è anche tuo e la ricchezza (dei produttori e non dei padroni) di ciascuno. L’utopia è di quelle forti, ma non impossibili. Poggia sul desiderio dell’altrove ed eleva la vita quotidiana al conseguimento della pace, della bellezza e della fraternità tra le genti. La volontà di vivere insorge dappertutto contro la disumanità predominante, e non sono bagatelle per un massacro ciò che le giovani generazioni in rivolta chiedono... né vendetta né perdono... ma il diritto all’esistenza e la fine dei crimini contro l’umanità. ❖




Turn static files into dynamic content formats.

Create a flipbook
Issuu converts static files into: digital portfolios, online yearbooks, online catalogs, digital photo albums and more. Sign up and create your flipbook.