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ANNO XX - NUMERO 189 - MARZO 2013
World Press Photo 2013 DAVANTI AL DOLORE Era analogica QUESTA È LA FINE
1914-2013: NOVANTANOVE ANNI BUON COMPLEANNO, LEICA
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World Press Photo 2013 DAVANTI AL DOLORE
Era analogica QUESTA È LA FINE
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ANNO XX - NUMERO 189 - MARZO 2013
ANNO XX - NUMERO 188 - FEBBRAIO 2013
Davide Medri ASTRATTE MEDRIGRAFIE Alfred Wertheimer ALLE ORIGINI DI ELVIS
RAFAL MALESZYK PAESAGGI DI ANTICHE RADICI
(nuovo o rinnovo) in omaggio 1839-2009 Dalla Relazione di Macedonio Melloni alla svolta di Akio Morita
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Abbonamento 2013
ANNO XIX - NUMERO 187 - DICEMBRE 2012
Richard Avedon S-PUNTI DI RIFLESSIONE Alberto Bregani CIME MAESTOSE
GIOVANNI GASTEL TRA REALTÀ E IMPROBABILITÀ
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prima di cominciare EVOCAZIONE LEICA. Aggiungiamo un’altra nota alla affascinante celebrazione libraria dei novantanove anni Leica, conteggiati dal 1914 di pre-origine: Ninety Nine Years Leica, su questo numero, da pagina 34. Tra tante evocazioni possibili, segnaliamo la copertina del racconto per ragazzi L’isola dei cani senza testa, di Cinzia Zungolo, pubblicato da Rizzoli, all’inizio del 2011. Non entriamo nel merito della vicenda e neppure della sua narrazione, perché non possediamo i canoni della letteratura per ragazzi. Soltanto, precisiamo che, oltre ai richiami al padre del protagonista, Paolo, fotogiornalista inviato in terre lontane, la fotografia fa capolino grazie al rinvenimento di una Leica abbandonata durante la Seconda guerra mondiale, con un rullino esposto ma non sviluppato. Proprio lo sviluppo di questa pellicola offre la chiave per la risoluzione di molti enigmi che hanno appesantito e reso in un certo modo drammatica la vita sulla fantomatica isola del Mediterraneo. A conseguenza (?), la copertina e la sovracopertina del racconto richiamano proprio l’inequivocabile configurazione Leica, graficamente interpretata per l’occasione. Una volta ancora, una di più, sicuramente mai una di troppo, si tratta di una avvincente testimonianza del mito Leica, la cui personalità fotografica senza tempo e i cui connotati formali sono simbolo stesso di fotografia. A scelta, a ciascuno il suo: Io sono leggenda, oppure Io sono Fotografia. Tanto è, e dovevamo.
La fotografia, dunque, è un dispositivo creativo che figura la libertà, la giustizia, i diritti delle persone, o è soltanto un palcoscenico (nemmeno troppo bello) sul quale si esibisce il buffone, per meglio onorare il re. Pino Bertelli; su questo numero, a pagina 64 Capacità di muoversi con disinvoltura tra le pieghe di un lessico, di un linguaggio, di una espressività che si è manifestata in mille e mille e mille risvolti, molti dei quali non palesemente espliciti, altrettanti dei quali da individuare sottotraccia. Antonio Bordoni; su questo numero, a pagina 22 La scomparsa delle tenebre. Fotografia alla fine dell’era analogica (laddove le “tenebre” di “darkness” identificano -prima di altro- la tenue illuminazione di sicurezza dei processi di produzione, sviluppo e stampa delle pellicole -buio totalee delle carte sensibili della fotografia chimica). Maurizio Rebuzzini; su questo numero, a pagina 54
Copertina Dalla monografia Ninety Nine Years Leica, che racconta con intelligenza novantanove anni del nobile marchio fotografico tedesco, abbiamo ripreso la torta augurale che dà avvio al racconto. Ne riferiamo da pagina 34
3 Altri tempi (fotografici) Leica I in interpretazione grafica consapevole, che esaspera ed evidenzia la distribuzione dei pixel (lessico dei nostri tempi). Dal Catalogo Generale dell’Ing. Ippolito Cattaneo, del 1929-1930, dove la Leica compare per la prima volta: mezza pagina, sul totale di duecentosessanta. Cattaneo ha rappresentato Leica per cinquant’anni, fino all’alba degli Ottanta, quando è subentrata Polyphoto; dall’inizio dello scorso anno, la distribuzione è curata dalla filiale Leica Camera Italia
7 Editoriale In un tempo che richiede rinnovate interpretazioni giornalistiche, adatte e coerenti con l’attualità delle tecnologie dei nostri giorni, i libri si offrono e propongono come spunto di riflessione della fotografia: osservazioni e commenti a conseguenza
8 Cattaneo 1913 (2013) Nel centenario di un Catalogo Generale fotografico, considerazioni lievi che sottolineano la completa assenza di qualsivoglia riferimento con i nostri giorni Evocazione Leica dal racconto L’isola dei cani senza testa, di Cinzia Zungolo: sovracopertina estesa (comprensiva di retro e risvolti) e copertina del libro, ancora con scorrimento dalla prima di fronte alla quarta di retro.
10 Notizie Attrezzature, vicende e altre segnalazioni
MARZO 2013
RIFLESSIONI, OSSERVAZIONI E COMMENTI SULLA FOTOGRAFIA
12 Una Leica qua, una là
Anno XX - numero 189 - 6,50 euro
Attraversamenti cinematografici, con presenza Leica nelle rispettive sceneggiature e/o scenografie Ricerca iconografica di Filippo Rebuzzini
DIRETTORE
RESPONSABILE
Maurizio Rebuzzini
IMPAGINAZIONE
Maria Marasciuolo
16 Avventura fotografica
REDAZIONE
Un anno di Fotofocus, il concorso Sony che ha celebrato la passione per la fotografia. I tre vincitori finali
FOTOGRAFIE
Angelo Galantini Rouge
SEGRETERIA
18 Agile cronologia
Maddalena Fasoli
A cura di Juliet Hacking, Photography. The Whole Story scandisce tempi e modi significativi del suo linguaggio di Antonio Bordoni
Pino Bertelli Beppe Bolchi Antonio Bordoni Lorenzo Cattaneo Caterina De Fusco Chiara Lualdi Nino Migliori Franco Sergio Rebosio Ciro Rebuzzini Filippo Rebuzzini Ryuichi Watanabe (New Old Camera)
24 Dolore! Il dolore dell’esistenza è trasversale alle indicazioni di tutte le categorie proprie del reportage sulla vita e della vita, che compongono l’insieme del prestigioso e autorevole World Press Photo
34 Novantanove anni Leica Una intensa monografia celebra novantanove anni di storia Leica (1914-2013): Ninety Nine Years Leica stabilisce i termini e il senso di una autentica leggenda di Maurizio Rebuzzini
45 Materia del sogno Nino Migliori a Palazzo Fava. Antologica presenta uno dei più multiformi artisti nel campo della fotografia di Caterina De Fusco
50 Leica 0 Prototyp 2 2004: centoventicinque anni dalla nascita di Oskar Barnack a cura di New Old Camera
52 Questa è la fine Attraverso i luoghi dismessi dei suoi passati splendori, il canadese Robert Burley ha celebrato la fine della pellicola fotosensibile: The Disappearance of Darkness. Photography at the End of the Analog Era
61 Oltre Alice
HANNO
COLLABORATO
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Rivista associata a TIPA
Il racconto Camera oscura, di Simonetta Agnello Hornby, evoca la figura di Lewis Carroll... fotografo di Angelo Galantini
64 Alexander Gardner Sguardo su un interprete della fotografia di frontiera di Pino Bertelli
www.tipa.com
editoriale
XAVIER BÉJOT / TASCHEN GMBH
ERIC LAIGNEL
LUKE HAYES
L
ungo il cammino della propria esistenza, spesso difficile, doloroso e tormentato, ciascuno di noi è anche obbligato ad affrontare problematiche di mestiere: sia quotidiane (tattiche), sia di più ampio respiro e vasta proiezione (strategiche). Soltanto queste vicende professionali possono essere esternate e condivise in luoghi, spazi e momenti pubblici: per esempio, sulle pagine e dalle pagine di questa rivista. Quindi, in un frangente nel quale è anche lecito farlo, riflettiamo sulla trasformazione, ineluttabilmente indotta dalle evoluzioni tecnologiche che influiscono sullo svolgimento della vita, sul suo costume, sulla sua socialità. Inevitabilmente, la personalità giornalistica dei nostri giorni deve fare i propri conti con la rapidità di taluni mezzi: radio e televisione, per quanto riguarda la cronaca; rete Internet, per tutto il resto, per tutto quanto accade. Ciò rilevato, i tempi tecnici di realizzazione e produzione dei periodici non hanno alcun modo di competere con queste immediatezze (pronto... fatto), che raggiungono il pubblico in tempo reale. Bisogna tenerne conto, e commisurare a conseguenza il proprio giornalismo, anche solo questo, indirizzato al mondo della fotografia. Ovverosia, per i mensili, è inattuabile rincorrere le novità tecniche, per esprimere un esempio lampante, che vengono ormai annunciate in diretta sulla Rete; se non già, addirittura, anticipate da consistenti rumors, ancor prima delle note ufficiali. Ragione per cui, ciascun periodico fotografico ha il dovere, oltre che la necessità, di ridefinire altrimenti il proprio ruolo. Con competenza, alcuni mensili del nostro settore hanno rafforzato l’analisi e l’approfondimento degli strumenti, spesso messi a dura prova da test di convincente severità. Altri hanno affinato visioni ulteriori. Fuori tempo e fuori luogo sono/sarebbero quelli che promettono attenzione mercantile a partire dall’annuncio di novità. In tutto questo, avviata nel maggio 1994 con indirizzo sui modi e le logiche della fotografia professionale, ancora oggi, la nostra FOTOgraphia conserva la promessa originaria e statutaria di Riflessioni, osservazioni e commenti, ma -nel frattempo- il suo punto di vista si è sensibilmente spostato verso indagini sostanziosamente approfondite, rivolte all’immagine fotografica nel proprio insieme e complesso. In questo modo, il ruolo del periodico e della confezione cartacea non si incontra, né -tantomeno- scontra, con altre logiche di rapido consumo, ma impone i tempi e modi di un avvicinamento più lento, che non sorvola su nulla, ma entra nei dettagli e si muove oltre la superficie apparente. Complici di questa visione, oppure ispirazione (che è poi lo stesso), sono spesso i libri, sui quali -a propria volta- si raccolgono considerazioni di sostanza: parole e immagini senza alcuna soluzione di continuità. È anche per questo, è soprattutto per questo che molte nostre riflessioni partono proprio dai libri, fantastico orientamento per osservazioni e commenti a conseguenza. Maurizio Rebuzzini
Taschen Store di Londra, New York e Parigi (librerie mono editore alle quali ci siamo riferiti lo scorso dicembre, segnalandone la presenza di fantasia in un episodio dei Simpson): tre autentici templi del libro illustrato.
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Un secolo fa di Maurizio Rebuzzini
CATTANEO 1913 (2013)
D
Datato 1913-1914, il Catalogo numero 50 di Materiale per la cinematografia fotografia pittura (testuale), della Casa Grossista Ing. Ippolito Cattaneo, in piazza Cinque Lampadi 17-5, a Genova, approda oggi al secolo tondo: per l’appunto, 19132013. La consultazione delle sue duecentonovanta pagine (sì, proprio 290!) non ha alcuna attinenza con la fotografia dei nostri giorni, e neppure con la ripresa (ormai) video, né con la pittura. È solo un esercizio della mente, forse anche di una certa nostalgia, sollecitato dalla clamorosa ricorrenza tonda, che sarebbe colpevole lasciare perdere, avendo l’opportunità di non farlo. Assieme tanta altra documentazione fotografica del passato, questo catalogo, appesantito dall’ingiuria del tempo, è custodito in quella caotica raccolta di testimonianze fotografiche -soprattutto cartacee- che attende da tempo di trovare una collocazione che sia conforme alla certificazione di una Storia scandita da parole di accompagnamento e presentazione della tecnica fotografica. Ed è soprattutto in questo senso («Storia scandita da parole di accompagnamento e presentazione della tecnica fotografica») che ora e qui ne riferiamo, sfogliando le pagine, leggendo i testi, decifrando un tempo e un’epoca della fotografia assai più remoti di quanto conteggiato dai cento anni trascorsi.
PAGINA DOPO PAGINA Sulla copertina è incollata una stampa fotografica originaria, che subito certifica l’anima commerciale del prezioso Catalogo: ritratto femminile, in posa ispirata, stile inizio del Novecento, stampato su carta Gevaert Ortho Brom, sviluppata con Peratol Gevaert [in questa pagina]. Quindi, all’interno, tra le pagine rigorosamente stampate al tratto, con illustrazioni dai neri forti, è inserita una seconda fotografia, ancora un ritratto femminile, di sapore vagamente agreste, attribuita allo Stabilimento fotografico Civicchioni, di Chiavari, città del-
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Catalogo Ing. Ippolito Cattaneo, del 1913-1914, di Materiale per la cinematografia fotografia pittura. Ovviamente, nell’attuale ricorrenza del centenario (1913-2013), il panorama fotografico è eccezionalmente diverso, senza alcun punto di contatto, né per le attrezzature, né per le parole di presentazione.
la riviera ligure, in provincia del capoluogo Genova [pagina accanto]: su carta Gyska, prodotta dall’italiana Cappelli, che a metà degli anni Trenta sarebbe confluita in Ferrania. Gevaert, Cappelli e Ferrania sono solo alcuni dei nomi-marchio storici della produzione fotografica, ormai pensionati da tempo (chi prima, chi dopo), che compaiono o sono evocati in questo catalogo, attraverso il quale si apre una finestra su una condizione tecnica decisamente antica, che non ha alcun riscontro plausibile con l’attualità tecnologica dei nostri giorni: sia detto per inciso. Ma non sono soltanto le consistenti oggettività a sottolineare il divario temporale che ci separa da queste pagine, che sono straordinarie e avvincenti soprattutto (o forse addirittura soltanto) in relazione alla retorica del buon tempo passato. Certo, gli strumenti fotografici presentati rivelano una antichità che si perde nella not-
te dei tempi, più prossima alle origini della fotografia che al nostro tempo. Basti pensare che, ironia delle coincidenze, quel 1913 nel quale Ippolito Cattaneo scandisce tempi e modi di apparecchi fotografici in legno, di sostanziose dimensioni, lastre in vetro, suppellettili per il ritocco e tanto altro ancora, è l’anno nel quale Oskar Barnack mette a punto il suo contenitore per pellicola 35mm a doppia perforazione, dal quale, di lì a una dozzina di anni ancora, nel 1925, sarebbe nata la Leica: importazione che ha dato lustri e onori proprio a Cattaneo, di Genova, che l’ha rappresentata e distribuita per decenni, dal 1930 agli anni Ottanta (prima certificazione ufficiale, nel Catalogo Generale, del 19291930; su questo stesso numero, a pagina tre e in Sommario). Più concretamente, sono le parole del 1913 a rilevare, rivelandolo, il sapore di un tempo tra-passato. Da una parte, ci sono espressioni di una società estremamente classista, impassibile e socialmente indifferente (che in un registro scolastico dell’epoca, altro discorso, ma stesso discorso, si consentiva di definire, nero su bianco, “derelitti” gli scolari provenienti da famiglie a basso reddito); dall’altra, si registra il romanticismo dei buoni sentimenti. In questo ordine.
PAROLE E PAROLE Allora: diversamente dai richiami pubblicitari lievi dei nostri tempi («per quei giorni», in cenno al ciclo femminile; «facili da usare, confortevoli da portare», per promuovere i preservativi; e poi altre evocazioni di profilo alto), nella società di cento anni fa si andava diretti allo scopo. Così, per esempio, lo Stabilimento chimico farmaceutico Ing. Ippolito Cattaneo ha potuto dichiarare di essere fornitore ufficiale di «Ospedali civili, militari e manicomi». Quindi, dopo tale declinazione clinica, che oggi ammorbidiremmo con sinonimi di convenienza, il Catalogo Cattaneo del 1913-1914 pubblica una lunga introduzione (romantica) alla passerella dei prodotti fotografici, cinematografici e per pittura distribuiti. A
Un secolo fa Nel Catalogo Cattaneo del 1913-1914 è inserita una stampa fotografica originaria, attribuita allo Stabilimento fotografico Civicchioni, di Chiavari, in provincia di Genova.
Due degli apparecchi fotografici di attualità tecnico-commerciale nel 1913 presentati nel Catalogo Cattaneo del quale ricorre il centenario: reflex Ernemann, per esposizioni 6x9cm, 9x12cm o 10x15cm, e folding Thornton-Pickard, per esposizioni 9x12cm, 12x16cm, 13x18cm, 18x24cm e 24x30cm.
firma di tale Luigi Orsini, Divagazioni sulla “fotografia” è una accorata considerazione sui valori impliciti ed espliciti della sua pratica, con conclusione d’obbligo, riferita a una pubblicazione monografica sull’Italia: «Dal che risulta indiscutibile un fatto, e cioè, che la Ditta Cattaneo fu la prima, e l’unica in Italia ad avere il nobilissimo pensiero di tale omaggio verso chi regge i destini della nostra nazione; e che, valendosi della sua arte ecletissima, e non badando a sacrifici di sorta, compiè opera altamente patriottica ideando una raccolta -riuscita poi semplicemente magnifica- la quale intendesse, per il decoro del paese intero, a illustrare e commentare in guisa degna e vera le più belle pagine della nostra moderna conquista. Né io credo di esagerare, asserendo che la Ditta Cattaneo, con quest’opera di Bellezza e d’amore, ha consegnato alla Storia il più vivo documento artistico della nostra odierna grandezza».
Di lì a due anni, l’Italia si imbarcò nella Prima guerra mondiale, ai tempi identificata come Grande guerra.
APPUNTO, DIVAGAZIONI Ecco qui, l’esordio delle Divagazioni sulla “fotografia”, di Luigi Orsini. «Fra i miei ricordi fotografici (quale mirabile sussidiatrice delle arti, in genere, è la Fotografia, questa fedele ancella del Bello!) ve n’è uno più caro di quanti io ne abbia serbati... Si tratta di un adolescente a pena uscito di malattia, che siede sotto i rami di un mandorlo in fiore e attende dal sole, che uomini e cose pervade, il risveglio della salute verso una vita novella. Questo breve quadrato di carta sul quale dal magnifico pittore, il Sole, vennero tracciati in un giorno lontano i contorni di una visione soffusa di umana dolcezza, reca ancora oggi al mio spirito un senso di poesia squisita, che mi fa pensare alla bontà della luce e al significato della pura Bellezza nelle
manifestazioni della vita e dell’arte. Questa fotografia, che mi rammenta un attimo delle mie corse instancabili alla ricerca del Sogno, mi suggerì poi, nei giorni del raccoglimento, l’idea di un’ode, che nacque, e prese il nome del “Convalescente”. E potrebbe, a lettore superficiale, sembrare superfluo e vano questo personale accenno ad un mediocrissimo fatto letterario, se dal fatto personale in sé stesso non scaturisse una verità generica, alla quale unicamente io intendo di dare importanza. «La fotografia, nutrendosi di realtà e facendosi di essa riproduttrice vivace e precisa, può essere eccitamento e ispirazione alla fantasia dell’artista, infallibile guida allo scienziato, documento fedele e prezioso allo storico». E avanti in questo tono entusiasta e romantico, così diverso e lontano dal cinismo dei nostri giorni. Circa. ❖
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Notizie a cura di Antonio Bordoni
NASCE SIGMA CONTEMPORARY. Le più consistenti dotazioni di un obiettivo zoom standard per reflex sono finalizzate a fornire immagini di qualità e raggiungere i risultati desiderati, in tutte le situazioni e condizioni di utilizzo. Nel proprio insieme e complesso, lo zoom standard Sigma 17-70mm f/2,8-4 DC Macro OS HSM (anticipato lo scorso autunno, e ora sul mercato) è in linea con queste prerogative di alto profilo: offre la consistenza di prestazioni ottimali, come una confortevole distanza minima di messa a fuoco, una generosa apertura relativa e una avvincente escursione focale, che dall’ampia inquadratura grandangolare approda a un agevole avvicinamento tele, con equivalenza 25,5-105mm con sensori di acquisizione digitale di immagini di dimensioni inferiori al fotogramma 24x36mm: angolo di campo da 79,7 a 22,9 gradi. In baionetta Canon, Nikon, Pentax, Sigma e Sony.
Per praticità di identificazioni certe, considerato zoom standard, questo Sigma 17-70mm f/2,8-4 DC Macro OS HSM è adatto e indicato per riprese fotografiche di ogni genere, nell’ambito delle quali fa valere sia la sua sostanziosa apertura relativa f/2,8 (f/4 alla selezione tele 70mm), sia la compattezza delle proprie dimensioni: 79mm di diametro, per 82mm di lunghezza e 465g di peso, con ingombri inferiori del trenta percento al-
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meno rispetto disegni parifocale. Diaframma minimo f/22. Progettato e costruito per essere l’obiettivo da portare sempre appresso, estende le proprie prestazioni anche alla fotografia a distanza ravvicinata, da cui la sua certificazione “Macro”: da 22cm, con rapporto di riproduzione limite 1:2,8 (alla focale estrema di 70mm, la distanza di lavoro è appena 5,52cm). Nella attuale gamma ottica Sigma, questo zoom fa parte della linea Contemporary, basata su tecnologie all’avanguardia e unione di compattezza e qualità ottica; addirittura, è il primo obiettivo della gamma. Quindi, altre due linee ottiche sono state certificate come Art e Sport, di immediata decifrazione fotografica. Il disegno ottico di sedici lenti divise in quattordici gruppi del Sigma 17-70mm f/2,8-4 DC Macro OS HSM comprende due lenti in vetro ottico FLD a basso indice di dispersione (“F” Low Dispersion), le cui prestazioni fotografiche equivalgono a quelle delle lenti in vetro alla fluorite. Inoltre, si segnala anche una lente in vetro ottico SLD (Special Low Dispersion) e tre lenti asferiche, in vetro a superficie asferica doppia. Da cui consegue una pertinente correzione di ogni aberrazione cromatica. Quindi, il rivestimento Super Multi Strato riduce il flare e le immagini fantasma e assicura immagini adeguatamente contrastate anche nelle riprese in controluce. Ancora, la stabilizzazione ottica OS (non presente nelle configurazioni per reflex Pentax e Sony, che agiscono dal corpo macchina) compensa di almeno quattro diaframmi gli eventuali movimenti accidentali della fotografia a mano libera. Analogamente, il motore ipersonico HSM (Hyper Sonic Motor) assicura una messa a fuoco automatica silenziosa e veloce, che può essere alternata alla messa a fuoco manuale volontaria mediante la semplice impostazione dell’apposita ghiera. (M.Trading, via Cesare Pavese 31, 20090 Opera Zerbo MI; www.m-trading.it).
ILLUMINAZIONE LED PROFESSIONALE. Francamente: le competenze e gli ambiti operativi del fotografo professionista sono sempre più diversificati. Oggigiorno, la committenza richiede sia immagini fisse (fotografie) sia filmati, soprattutto per la comunicazione attraverso la Rete. Quindi, sempre più spesso, oltre le fotografie, l’operatore è chiamato a realizzare contemporaneamente anche riprese video. A questo proposito, va osservato come e quanto le esigenze di illuminazione siano, ovviamente, diverse nei rispettivi ambiti e utilizzi: da cui ne consegue che gli illuminatori Led offrano un sostanzioso contributo alla possibilità di realizzare buone immagini, grazie alla compattezza e ai bassi consumi che possono assicurare. Con le conosciute configurazioni Led 80B, Led 48A, Led 144AS e Led 312AS -ideali per le riprese video realizzate con reflex digitali e/o videocamere prosumer-, la gamma degli illuminatori Led LS, distribuita da Rinowa, si è imposta rapidamente, conquistando una consistente quota di questo mercato. Recentemente, l’offerta tecnica degli illuminatori Led LS si è arricchita con tre nuovi modelli, indirizzati all’impiego professionale: grazie alla doppia alimentazione (battery pack agli ioni di Litio e adattatore alla corrente di rete), alla loro compattezza e leggerezza, Led 876AS, Led 508AS e Led 411A sono in grado di muoversi con agilità in tutti i contesti operativi, passando in un attimo dal lavoro in studio alle riprese in location esterne. L’illuminatore Led 876AS è dotato di ottocentosettantasei elementi luminosi, con dimmer per la regolazione continua della potenza e regolazione continua della temperatura colore (5600/3200 kelvin). Molto leggero e compatto (il pannello misura 41x23cm e pesa soltanto 1,4kg), è dotato di grande autonomia operativa grazie a due accumulatori intercambiabili, in dotazione standard assieme al relativo ricaricatore, al-
l’adattatore a rete, al diffusore e alla borsa per il trasporto. Con medesime caratteristiche tecniche, l’analogo illuminatore Led 508AS ha potenza leggermente più contenuta. Il peso e le dimensioni (appena 900g, con un pannello di 33x17cm) lo rendono impiegabile sia su stativo sia direttamente sulla videocamera o sulla macchina fotografica, tramite gli appositi bracci snodati (accessori opzionali). Infine, l’illuminatore anulare Led 411A completa la gamma, risolvendo particolari condizioni operative, quali, per esempio, la fotografia di moda e beauty: luce Daylight (5600 kelvin), quattrocentoundici elementi Led, dimmer continuo per la regolazione della potenza, robusta slitta per la collocazione di reflex con obiettivi di dimensioni “importanti” e una comoda impugnatura sul lato sinistro, per un perfetto controllo nelle riprese a mano libera. Il posizionamento degli accumulatori nella parte bassa dell’illuminatore garantisce un ottimo bilanciamento del carico. Anche con il Led 411A, la dotazione a corredo è composta dal diffusore, dagli accumulatori Li-Ion con il relativo ricaricatore, dall’adattatore per l’alimentazione a rete, con il relativo cavo, e dalla borsa per il trasporto. (Rinowa, via di Vacciano 6f, 50012 Bagno a Ripoli FI; www.rinowa.it). ❖
Cinema
di Maurizio Rebuzzini - Ricerca iconografica di Filippo Rebuzzini
UNA LEICA QUA, UNA LÀ
P
Per certi versi, la presenza Leica nelle scenografie cinematografiche non dà adeguato merito alla sua leggenda e mito, appena celebrati dalla straordinaria edizione della convincente e avvincente monografia Ninety Nine Years Leica, della quale ci occupiamo, su questo stesso numero, da pagina 34, allineando altresì altre tante rievocazioni distribuite sulle nostre odierne pagine. Queste a sfondo cinematografico, tra tutte. Nonostante i valori impliciti del sistema Leica e l’affascinante estetica del design delle diverse configurazioni a telemetro, soprattutto della serie M, con innesto a baionetta degli obiettivi intercambiabili e ampio mirino, sono altre le presenze forti che possono essere conteggiate nella trasversalità della fotografia al cinema. Diciamolo senza alcuna esitazione: per motivi tutti propri, possono vantare primati di spicco la Speed Graphic della fotocronaca e la Nikon F delle guerre degli anni Sessanta (protagoniste in molti film di alto valore e successo commerciale). In questo senso troviamo curioso che, salvo rari casi (per esempio, il film Persona, di Ingmar Bergman, del 1966 [a destra, in alto]), l’eleganza delle Leica M cromate non sia stata convenientemente considerata dal cinema. Ma dalla letteratura, sì. Leggiamo da Bagheria, di Dacia Maraini: «Queste fotografie delle ville di Bagheria sono state fatte probabilmente con una vecchia Leica, come quella che usava mio padre. Il mirino che sporge come un piccolo cannocchiale, il corpo metallico chiaro con le finiture in ferro nero, una vestina di pelle butterata. Esplosione, velocità, distanza. Ogni cosa si regolava a mano e le foto risultavano precise, col disegno in bianco e nero nitido e pulito, come una incisione a punta secca».
CASELLARIO / 1 Senza alcun ordine, né meritorio del film, né altro, ricordiamo una serie di film nei quali fanno bella mostra di sé apparecchi Leica di epoche diverse, sempre allineati ai riferimenti
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temporali delle rispettive sceneggiature, spesso tra le mani di attori di spicco. Ovviamente, è evidente, si tratta soprattutto di Leica a telemetro, con poche escursioni verso le reflex. Quindi, bastian contrari, come spesso ci capita di essere, partiamo proprio da queste. Tre le Leica R al cinema degne di sostanziosa attenzione: anzitutto, quella cromata tra le mani della fotografa Fiona Ulrich, interpretata da Lili Taylor, in Prêt-à-Porter, di Robert Altman, del 1994 (negli Stati Uniti, Ready to Wear) [a sinistra]; quindi, segnaliamo la Leica R6.2 nera usata da Robert De Niro, nei panni dell’agente segreto Sam, in Ronin, di John Frankenheimer, del 1998 [pagina accanto]. Lo stesso Robert De Niro, il fotografo della polizia Wayne “Mad Dog” Dobie di Lo sbirro, il boss e la bionda, terribile titolo italiano dell’originario Mad Dog and Glory, di John McNaughton, del 1993, usa una Leica R6 (o R4 o R5) nei momenti fotografici propri, oltre la professione [FOTOgraphia, novembre
Cinema Backstage dal film epico I dieci comandamenti, di Cecil B. DeMille, del 1956 (in originale, The Ten Commandments): con il costume del faraone Rameses, l’attore Yul Brynner fotografa con una Leica M3 cromata. Attenzione. Doris Brynner ha confidato alla figlia Victoria, che stava curando la monografia Yul Brynner: Photographer, del 1996: «Il primo regalo che mi ha fatto tuo padre è stata una Leica». Robert De Niro in Ronin, del 1998. James Rebhorn in La neve cade sui cedri, del 1999.
Franco Branciaroli in La chiave, del 1983.
Herbert Grönemeyer in U-Boot 96, del 1985. Jack Nicholson in Chinatown, del 1974.
(pagina accanto, dall’alto) Liv Ullmann in Persona, del 1966. Lili Taylor in Prêt-à-Porter, del 1994.
Walter Santesso (il mitico Paparazzo) in La dolce vita, del 1960.
2009]. Altro collegamento con Robert De Niro, in Indiziato di reato, di Irwing Winkler, del 1991(in originale Guilty by Suspicion): nei panni del protagonista David Merrill regala una Leica IIIc con Elmar 50mm f/3,5 al figlio Paulie (l’attore Luke Edwards). Punto e basta, almeno a memoria, almeno alla nostra memoria. Le Leica a telemetro con innesto a vite degli obiettivi intercambiabili, precedenti al 1954 di nascita del sistema Leica M, avviato dalla originaria Leica M3, sono evidentemente subordinate alla sceneggiatura, ovverosia ai tempi di svolgimento e ambientazione delle vicende narrate nei e dai rispettivi film. Cominciamo. Per quanto il film La chiave, di Tinto Brass, del 1983, sia fotograficamente appetibile soprattutto per l’errore storico di comprendere una Polaroid Model 95, la prima commercializzata (dal 26 novembre 1948; FOTOgraphia, novembre 2008), in una storia veneziana ambientata alla fine degli anni Trenta (peraltro errore perdonato, come già annotato in FOTOgraphia, dell’aprile 2009), non dobbiamo sottovalutare la partecipazione anche di una Leica a vite con Elmar 50mm f/3,5, plausibilmente una Leica III. Anche in questo caso, una concessione scenografica: l’inutile e superflua presenza del mirino-telemetro verticale, necessario soltanto con le Leica prive di accoppiamento al telemetro del proprio obiettivo di ripresa, messo lì perché... fa scena. Ovverosia, fa cinema [in questa pagina]. In propria elegante borsa di cuoio, questa Leica a vite è usata da Laszlo Apony (Franco Branciaroli) per fotografare la suocera Teresa (Stefania Sandrelli), durante una gita in riva al mare, in pose elegantemente e provocatoriamente scomposte. Analogamente allo scarto temporale Polaroid Model 95 appena ricordato, retrodatato di un decennio, è altrettanto fuori tempo la Leica M3 con la quale il corrispondente di guerra Sandy Kevin (l’attore Sandy McPeak) fotografa il generale George Smith Patton (George G. Scott) nel film-biografia Patton, generale d’acciaio, di Franklin J. Schaffner, del 1970 (in originale, Patton, e basta). La Leica M3, la prima con innesto a baionetta degli obiettivi intercambiabili e mirino con
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Cinema telemetro accoppiato, è del 1954: dieci anni dopo la fine della Seconda guerra mondiale. Invece, è legittima la presenza della stessa Leica M3 in Dossier Odessa, di Ronald Neame, del 1974 (in originale, The Odessa File), nelle mani di Peter Miller, interpretato dall’attore Jon Voight, che partecipa a un raduno di ex SS. Comunque, tornando alle Leica a vite, un’altra Leica III fa capolino in un passaggio di Stalag 17, di Billy Wilder, del 1953: è uno dei preziosi tesori gelosamente custoditi nel consistente baule del controverso sergente J.J. Stefton (l’attore William Holden), internato in un Campo tedesco, durante la Seconda guerra mondiale. Una analoga Leica IIIa è usata dall’investigatore privato J.J. Gittes, interpretato da un affascinante Jack Nicholson, in Chinatown, di Roman Polanski, del 1974. Nello specifico, Leica IIIa completa di mirino aggiuntivo, per l’inquadratura con il teleobiettivo 135mm [a pagina 13]. E poi, ancora Leica III, sempre in ambiente di Seconda guerra mondiale: la usa il corrispondente Werner, interpretato da Herbert Grönemeyer, in U-Boot 96, di Wolfgang Petersen, del 1985 (in originale, Das Boot) [a pagina 13]. E la usa anche Donald Sutherland, nei panni della spia tedesca Faber, che in La cruna dell’ago, di Richard Marquand, del 1981 (in originale, Eye of the Needle), fotografa un aeroporto alleato alla vigilia del prevedibile sbarco in Normandia. Dovrebbe essere ancora una Leica III quella che appare al collo di James Rebhorn, nei panni di Alvin Hooks, in La neve cade sui cedri, di Scott Hicks, del 1999 (in originale, Snow Falling on Cedars) [a pagina 13]. Invece è una Leica I (e/o Leica Standard), con Elmar 50mm f/3,5 utilizzato a distanze effettivamente inferiori la sua minima capacità di messa a fuoco, quella che contrasta le tante Rolleiflex biottica della fotocronaca italiana degli anni Cinquanta tra le mani di Walter Santesso, il mitico Paparazzo del film La dolce vita, di Federico Fellini, del 1960 [a pagina 13].
AVANTI: CASELLARIO / 2 Da qui, le Leica M, in diverse configurazioni, sempre e comunque in relazione alle rispettive sceneggiature cinematografiche. Senza troppi det-
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Mary McDonnell in Amori e amicizie, del 1992.
Penélope Cruz e Scarlett Johansson in Vicky Cristina Barcelona, del 2008.
Meg Ryan e Maureen Stapleton in Innamorati cronici, del 1997.
(in alto, centropagina) Locandina del film Fotografando Patrizia, del 1984. Fotogramma dal film di animazione Coraline e la Porta Magica, del 2009.
tagli aggiunti e aggiuntivi, risolviamo con un elenco incessante. Subito la Leica M3 evocativa del film Fotografando Patrizia, di Salvatore Samperi, del 1984, uno degli autori della terribile stagione dei film italiani ammiccanti, ideologicamente successivi a Blow up (come recentemente riscontrato e ribadito, in FOTOgraphia, del settembre 2012): Leica M3 ampiamente visualizzata sui materiali promozionali del film e sui suoi attuali riversamenti in Dvd [in questa pagina]. Un’altra Leica M3, questa volta “si-
mil”, è la macchina fotografica di Coraline e la Porta Magica, in originale soltanto Coraline, film di animazione del 2009, realizzato da Henry Selick [in questa pagina]. Sempre dal passato (non troppo remoto), arriva la Leica M2 di Mary McDonnell, nei panni di Mary-Alice Culhane, protagonista di Amori e amicizie, di John Sayles, del 1992 (in originale, Passion Fish) [in questa pagina]. E la stessa Leica M2, con immancabile Summicron 35mm f/2, riappare nel controverso High
Cinema Niente cinema, ma un’altra testimonianza Leica altrettanto apprezzabile: Elvis Presley con Leica M3 (rimandiamo all’anno di esordio del Re del Rock, in FOTOgraphia, dello scorso febbraio).
Jennifer Connelly in Blood Diamond Diamanti di sangue, del 2006. Jason Schwartzman in S1m0ne, del 2002.
Bradley Cooper in A proposito di Steve, del 2009.
Art, di Lisa Cholodenko, del 1998: è usata da Ally Sheedy, che interpreta Lucy Berliner, una delle protagoniste di questa avvincente vicenda omosessuale, che in Italia è stata proiettata soltanto al Festival del Cinema di Torino, nel 1999. Da qui, si decolla verso configurazioni tecniche meno retrodatate nel tempo. Sempre a pellicola, ecco la Leica M4 che il fotoreporter Russell Price, interpretato da un plausibile Nick Nolte, alterna alle reflex Nikon, durante la guerra civile in Nicaragua, rac-
contata nel film Sotto tiro, di Roger Spottiswoode, del 1983 (in originale, Under Fire). Invece, è Leica M4-2, con Summilux-M 35mm f/1,4 Asph, nella commedia The Anniversary Party, di Alan Cumming e Jennifer Jason Leigh (anche attori nel film), del 2001: la usa l’attrice Jennifer Beals, che interpreta la fotografa Gina Taylor.
ANCORA: CASELLARIO / 3 Nessuna Leica M5 è censibile, almeno tanto quanto la si può considerare un incidente di percorso tecnico,
(in alto, centropagina) Julia Roberts in Closer, del 2004.
così lontana dall’estetica conosciuta e confermata e confermata ancora delle Leica M a telemetro. Quindi, cinque Leica M6, sia nere sia cromate, a volte addirittura con winder di avanzamento rapido della pellicola dopo lo scatto: in Closer, di Mike Nichols, del 2004 (con la fotografa Anna Cameron, interpretata da Julia Roberts [FOTOgraphia, ottobre 2006]) [in questa pagina]; in Spy Game, di Tony Scott, del 2001 (con la spia Tom Bishop, interpretata da Brad Pitt, che copre la propria attività fingendosi fotogiornalista in Medio Oriente -e nella vita reale Brad Pitt è anche fotografo... per l’appunto con Leica[FOTOgraphia, maggio 2012]); nel duro Blood Diamond - Diamanti di sangue, in originale soltanto Blood Diamond, di Edward Zwick, del 2006 (con la fotogiornalista Maddy Bowen, interpretata da Jennifer Connelly, che fa ampio uso del Summicron-M 35mm f/2) [in questa pagina]; in Innamorati cronici, di Griffin Dunne, in originale Addicted to Love, del 1997 (con la protagonista Maggie, interpretata da Meg Ryan, e sua nonna Nana, nell’interpretazione della brava Maureen Stapleton) [pagina accanto]; e poi, nel tortuoso S1mOne, di Andrew Niccol, del 2002 (con l’intraprendente Milton, interpretato da Jason Schwartzman, fedele all’ElmaritM 28mm f/2,8) [in questa pagina]. Indipendentemente, quindi, dalla Leica M8 riservata al regista Woody Allen, in edizione dedicata, nel suo film Vicky Cristina Barcelona, del 2008, del quale abbiamo già annotato i dialoghi a base fotografica [in FOTOgraphia, del giugno 2011], fa bella mostra di sé una Leica M7 cromata, con Summilux-M 35mm f/1,4 Asph, tra le mani delle attrici Scarlett Johansson e Penélope Cruz, rispettivamente nelle parti di Cristina e Maria Elena [pagina accanto]. Invece, e qui concludiamo, anche se il casellario sarebbe ancora più lungo (e rimandiamo a www.lab.leicacamera.it/lab/tricks/Leica-al-cinema), la digitale originaria Leica M8 è inclusa nella scenografia di A proposito di Steve, di Phil Traill, del 2009 (in originale, All About Steve): proprio tra le mani del protagonista Steve, interpretato dall’attore Bradley Cooper [in questa pagina]. Fine del casellario. ❖
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Iniziativa di Angelo Galantini
AVVENTURA FOTOGRAFICA
C
Come anticipato lo scorso marzo, al suo avvio, un anno fa, il progetto con il quale Sony ha celebrato la passione per la fotografia si è svolto con incessanti cadenze mensili, alle quali ha fatto seguito la conclusione prevista e preordinata. Secondo intenzioni esplicite, svolto in Rete, Fotofocus si è proposto e offerto come un concorso, una community, un blog. Ovviamente, l’indirizzo è stato rivolto al più ampio pubblico: ovvero, nulla da spartire, né condividere, con i fantastici Sony World Photography Awards internazionali, che si svolgono annualmente, dal 2008 [la più recente segnalazione in FOTOgraphia, dello scorso giugno], e che celebrano la più autorevole fotografia professionale. A differenza, e magari completamento, perché no?, Fotofocus ha allestito una avvincente avventura dedicata a tutti gli amanti della fotogra-
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Primo premio assoluto: Time, di Sharon Formichella.
fia, con tragitto di andata-e-ritorno: invio delle proprie immagini, ma anche spazio sul quale e nel quale trovare considerazioni fotografiche a tutto campo. Per un anno, Fotofocus ha tenuto compagnia a chi fa della fotografia una passione e ha premiato le capacità fotografiche degli utenti... e non solo, alla cadenza di dodici temi mensili che hanno spaziato attraverso gli stili tipici della fotografia. Così agendo, Sony ha creato una community fotografica, nella quale gli utenti hanno potuto mettere in mostra le proprie capacità, diventando protagonisti del mondo dell’immagine, scoprendo segreti e curiosità sulla fotografia, confrontandosi, commentando e votando le fotografie preferite e -come in ogni concorso che si rispetti- ha assegnato numerosi premi. Forte di una gamma completa di prodotti dedicati alla fotografia, per
l’utente appassionato e per il fotografo professionista, e sulla scia dei già ricordati Sony World Photography Awards, che ogni anno richiamano autori da tutto il mondo, Sony ha celebrato la passione per la fotografia anche in Italia, creando un affascinante palcoscenico per autentici “fotolovers”. Ogni mese, per un intero anno, Fotofocus ha suggerito un tema. Le fotografie degli utenti caricate sul sito www.fotofocus.it, attinenti al tema mensile, sono state sottoposte al voto di tutta la community. Le dieci fotografie che hanno ottenuto più voti nell’arco di ognuna delle quattro settimane hanno formato una shortlist mensile di quaranta fotografie, tra le quali sono state selezionate le vincitrici. A conclusione di tutto, e indipendentemente dagli svolgimenti mensili, la giuria -composta dal fotografo Massimo Bassano, dal giornali-
Iniziativa Secondo premio assoluto: Ragazza Dasenck, di Renzo Mazzola.
Terzo premio assoluto: Torre del lago, di Gianfranco Barsella.
sta e critico Stefano Biolchini, dal giornalista e docente universitario di Storia della Fotografia Maurizio Rebuzzini (direttore di FOTOgraphia) e da esperti di Sony- ha indicato tre fotografie vincitrici assolute, che presentiamo in queste pagine: di Sharon Formichella, Renzo Mazzola e Gianfranco Barsella. Tradotti in cifre, i dati di partecipazione e fidelizzazione di Fotofocus sono sostanziosi e confortanti di una consistente passione per la fotografia, alla quale si dovrebbe trovare modo di esprimersi sempre e comunque (dovere dell’industria produttrice): oltre quarantatremila utenti registrati (43.401); oltre trentottomila fotografie approvate (38.323); oltre duecentosessantottomila commenti (268.868); oltre trecentotrentunomila voti espressi dal pubblico (331.707); oltre ottocentocinquantottomila visite al sito (858.757); piÚ di sei milioni di pagine visitate (6.344.260), con una media di 7,39 pagine aperte a ogni visita e una media di permanenza nel sito di oltre sette minuti (sette minuti e trentotto secondi); oltre quattrocentosessantaquattromila post visti (464.540). �
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Storia di Antonio Bordoni
AGILE CRONOLOGIA
T
Tra i tanti modi di raccontare la Storia della Fotografia, l’intraprendente Juliet Hacking, dal 2006 direttrice del dipartimento fotografico del Sotheby’s Institute of Art, di Londra, ne ha adottato uno particolarmente intrigante e convincente, con il quale ha redatto una suggestiva Photography. The Whole Story, ovverosia Tutta la Storia (ammesso, e non concesso, che questo assoluto possa essere plausibile), pubblicata dal qualificato editore inglese Thames & Hudson. Anzitutto, ha agito in doverosa sequenza cronologica, scomponendo i tempi in cinque grandi periodi, ciascuno per sé e tutti in consecuzione identificativi dell’evoluzione del linguaggio espressivo della fotografia. Quindi, all’interno di questi contenitori sovrastanti, ha individuato istanti rilevanti e sostanziosi, trattati con perizia e presentati sia per se stessi sia attraverso opere di autori che si sono particolarmente distinti nel panorama generale e complessivo. Ognuno dei cinque periodi è introdotto da una sintesi grafica, che colloca tutto nella propria sequenza temporale e fornisce una ricapitolazione di immediata comprensione [pagina accanto]: The Experimental Period, 1826-1855; Photographic Commerce and Art, 1856-1899; Photography and Modern, 1900-1945; Post-War to the Permissive Society, 1946-1976; From Postmodernism to Globalization, 1977-Present. Subito rileviamo come queste scomposizioni teoriche siano poco autoreferenziali della sola fotografia (fatto salvo il primo capitolo, relativo ai tempi e momenti delle sperimentazioni e dei primi passi, all’indomani delle date ufficiali del 1839), ma -soprattutto- quanto si riferiscano a quel processo di andata-e-ritorno, nei due sensi e senza alcuna soluzione di continuità, che collega la stessa fotografia alla società tutta, con reciproche influenze da-a, sempre nei due sensi. In un certo modo e per un verso subito individuato e annotato, la scomposizione si aggiunge e accosta a quelle sintetizzate da altri storici, che è opportuno ricor-
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The Birth of Photography, primo capitolo della sostanziosa Photography. The Whole Story, a cura di Juliet Hacking, che dà avvio al primo dei cinque periodi individuati e sottolineati. Come in tutti i capitoli della lunga narrazione, che si completano anche con analisi e considerazioni su singole immagini (per esempio, The Seine, the Left Bank and the Ile de la Cité, del 1844 circa, di Frédéric Martens, qui accanto), anche questo, relativo alla nascita della fotografia, è contestualizzato con la sintesi di avvenimenti chiave.
Le fotografie presentate come emblematiche sono analizzate nel dettaglio, con scomposizione in dettagli significativi.
Storia dare qui, che è necessario mettere a confronto e in parallelo. Ricordiamo, dunque, la cadenza programmata della collana di quattro volumi storici, a cura di Walter Guadagnini, in corso di pubblicazione con Skira, a cadenza annuale: La Fotografia. Le origini 1839-1890, della fine 2011 [FOTOgraphia, novembre 2011]; La Fotografia. Una nuova visione del mondo 1891-1940, della fine 2012 [FOTOgraphia, dicembre 2012]; La Fotografia. Dalla Stampa al Museo 1941-1980 e La Fotografia. L’età contemporanea 1981-2010, programmati e previsti per il 2013 e 2014. Allo stesso momento -soprassedendo peraltro sulle quattro svolte senza ritorno, che il nostro direttore Maurizio Rebuzzini ha analizzato nel suo lungimirante e originale 1839-2009. Dalla Relazione di Macedonio Melloni alla svolta di Akio Morita, pubblicato dalla nostra casa editrice- conteggiamo anche le scomposizioni dell’esposizione permanente del Museo Nazionale Alinari della Fotografia (Mnaf), di Firenze [FOTOgraphia, dicembre 2006]. A cura di Monica Maffioli, che è anche direttrice del Museo, Le origini della fotografia (1839-1860) richiama subito la contrapposizione primigenia della storia; con L’età d’oro della fotografia (1860-1920), il curatore Italo Zannier accompagna l’osservatore lungo un tragitto fantastico per creazioni e prolifico per idee; e in L’avvento delle avanguardie (19202000), Charles-Henri Favrod conclude il percorso storico. Photography. The Whole Story, a cura di Juliet Hacking, è ancora altro, e aggiunge a queste scomposizioni altrui la forza e il senso del proprio passo, che nell’edizione libraria si avvale anche di ulteriori preziosità redazionali. Sopra tutti: un’ottima prefazione di David Company, scrittore, curatore e artista, docente alla University of Westminster, di Londra, e un apprezzato glossario conclusivo, che specifica i termini tecnici compresi e adottati nei testi. Quindi, si fanno apprezzare le sintesi degli avvenimenti chiave, che sottolineano i singoli argomenti trattati, ai quali aggiungono lo spessore degli accadimenti significativi che li hanno accompagnati. Da annotare, ancora, che le fotografie presentate e analizzate come emblematiche del lungo percorso del
Photography. The Whole Story, a cura di Juliet Hacking; Thames & Hudson, 2012; 576 pagine 24,5x17,5cm, con sovraccoperta; 19,95 euro.
Sintesi grafiche dei cinque periodi nei quali è stata scomposta la retrovisione di Photography. The Whole Story.
linguaggio espressivo sono esaminate nel dettaglio, se così possiamo esprimerci. Soprattutto, alla maniera dei possibili ingrandimenti a monitor (manifestazione formale dei nostri giorni), sono scomposte e analizzate per e con propri particolari, sui quali l’autrice richiama l’attenzione. Da cui, e per cui, dal nostro punto di vista, l’unico neo di questa edizione libraria è la sua redazione in inglese, che esclude dall’avvicinamento e dalla comprensione effettiva coloro i quali non conoscono la lingua. E tra i tanti testi a disposizione del racconto storico della fotografia, questo andrebbe assolutamente tradotto e pubblicato in italiano, nonostante la sua visione sia -ovviamente- viziata da una anglocentricità che ne definisce lo spirito (comunque sia, imperfezione -se così vogliamo definirla- assolutamente (continua a pagina 22)
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Storia PASSO A PASSO, DALLE ORIGINI
I cinque capitoli fondanti della storia della fotografia Photography. The Whole Story, compilata da Juliet Hacking, sono a propria volta suddivisi in argomenti portanti e significativi, scomposti tra avvenimenti e immagini. Per sottolineare lo spessore di questa retrovisione, ne scandiamo la cadenza, che -se ancora servisse farlo- ribadisce l’originalità del particolare punto di vista The Experimental Period, 1826-1855 ❯ The Birth of Photography [a pagina 18] • Boulevard du Temple, Paris; 1838 (Louis-Jacques-Mandé Daguerre) • The Haystack; 1844 (William Henry Fox Talbot) ❯ Daguerrotype Views • The Temple of Vesta, Rome; 1842 (Joseph-Philibert Girault de Prangey) • The Seine, the Left Bank and the Ile de la Cité; 1844 circa (Frédéric Martens) [a pagina 18] ❯ Daguerrotype Portraits • Hamburg Artists Association; 1843 (Carl Ferdinand Stelzner) • Untitled (Two Women Posed with a Chair); 1850 circa (Albert S. Southworth e Josiah J. Hawes) ❯ The British Calotype • The Reading Establishment; 1845 circa (attribuito a Benjamin Cowderoy) • Santa Lucia, Naples; 1845 (reverendo Calvert Richard Jones) ❯ Eyewitness Photography • Valley of the Shadow of Death; 1855 (Roger Fenton) ❯ Figure Studies • Sandy (or James) Linton, his Boat and Bairns; 1843-1846 circa (David Octavius Hill e Robert Adamson) ❯ The Human Condition • Untitled (Melancholia Passing into Mania); 1851 circa (Hugh Welch Diamond) ❯ Still Life • The Sand of Time; 1855 circa (Thomas Richard Williams) ❯ Art and Industry • Transporting the Bavaria Statue to Theresienwiese; 1850 (Alois Löcherer) ❯ Egypt and the Holy Land • The Banks of the Nile at Thebes; 1854 (John Beasly Greene) ❯ The French Calotype • The Ladder; 1853 (Henri-Victor Regnault) • The Forest at Fontainebleau, 1855 circa (Gustave Le Gray) ❯ Photography and the Fine Arts • Plate XXIX from the Delacroix Album; 1854 circa (Eugène Durieu)
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e del racconto nel proprio insieme e complesso. Nel farlo, indichiamo i singoli argomenti (redazionalmente certificati con una freccia “❯”, la nostra consueta) e le fotografie prese in relativo esame (annotate con un punto “•” e attribuite ai rispettivi autori), i cui titoli sono rimasti nella dizione originaria e non sono stati specificati dal corsivo, che solitamente li distingue nei nostri testi.
Photographic Commerce and Art, 1856-1899 ❯ Photography and Tourism • The Pyramids of Dahshoor, from the East; 1858 (Francis Frith) ❯ Picturing the World • Madura, Trimul Naik’s Choultry; 1858 (Linnaeus Tripe) ❯ Istantaneity and Effect • The Great Wave, Sète; 1856-1859 (Gustave Le Gray) ❯ Photographic Portraits • Miss Booth, Miss Booth; 1861 (Camille Silvy) • Sarah Bernhardt; 1864 circa (Nadar) ❯ Picturing Childhood • Alice Liddell as “The Beggar Maid”; 1859 circa (Charles Lutwidge Dodgson - Lewis Carroll) ❯ Photography and the Arts • Two Ways of Life; 1857 (Oscar Gustave Rejlander) • Jane Morris; 1865 (John Robert Parsons) ❯ Still Life • Flowers and Fruit; 1860 circa (Roger Fenton) ❯ Women and Photography • Beatrice; 1866 (Julia Margaret Cameron) ❯ Conflict • A Harvest of Death, Gettysburg, Pennsylvania; 1863 (Timothy H. O’Sullivan) ❯ The American West • Agassiz Rock and the Yosemite Falls, from Union Point; 1878 circa (Carleton Watkins) ❯ Ethnographic Photography • Samurai of the Satsuma Clan; 1868-1869 (Felice Beato) [a pagina 18] ❯ Photography and Science • Leland Stanford Jr on his pony “Gypsy”; 1879 (Eadweard Muybridge) • Synoptic Table of the Forms of the Nose; 1893 circa (Alphonse Bertillon) ❯ Street and Society • The Crawlers; 1877 circa (John Thomson) • Lodgers in Bayard Street Tenement, Five Cent a Spot; 1889 (Jacob A. Riis) ❯ Popular Photography • George Eastman on Board SS Gallia; 1890 (Frederick Church) [a pagina 22] ❯ Pictorial Photography • Rowing Home the School-Stuff; 1886
(Peter H. Emerson) • Spring; 1896 (Robert Demachy) Photography and Modern, 1900-1945 ❯ Pictorialism • Wapping; 1904 (Alvin Langdon Coburn) • Frank Eugene, Alfred Stieglitz, Heinrich Kühn and Edward Steichen Admiring the Work of Eugene; 1907 (Frank Eugene) ❯ The Photo-Secession • The Pond-Moonrise; 1904 (Edward Steichen) • The Steerage; 1907 (Alfred Stieglitz) ❯ The Modern Age • Grotto in a Berg, “Terra Nova” in the Distance; 1911 (Herbert Ponting) ❯ War, Protest and Revolution • Death of a Loyalist Militiaman; 1936 (Robert Capa) ❯ Dada • Cut with the Kitchen Knife; 1919-1920 (Hannah Höch) ❯ Experimentation and Abstraction • A Sea of Steps; 1903 (Frederick H. Evans) • Equivalent, Set C2, No. 5; 1929 (Alfred Stieglitz) ❯ The Machine Aesthetic • Criss-Crossed Conveyors, Ford Plant, Detroit; 1927 (Charles Sheeler) ❯ Avant-Garde Photography in the Soviet Union • Osip Brik; 1924 (Alexander Rodchenko) • The Constructor (Self-portrait); 1924 (El Lissitzky) ❯ Avant-Garde Photography in the Weimar Republic • From the Radio Tower, Berlin; 1928 (László Moholy-Nagy) • “Film und Foto” Exibition Poster; 1929 (Willi Ruge e Jan Tschichold) ❯ Avant-Garde Photography in Paris • Satiric Dancer; 1926 (André Kertész) • Fat Claude and her Girlfriend at Le Monocle; 1932 (Brassaï) ❯ Surrealism • Ingres’s Violin; 1924 (Man Ray) • Big Toe; 1929 (Jacques-André Boiffard) ❯ Avant-Garde Photography in Mexico • Workers Parade; 1926 (Tina Modotti) ❯ The Modern Self • Self-portrait (I Am in Training,
Storia Don’t Kiss Me); 1927 (Claude Cahun) • Humanly Impossible; 1932 (Herbert Bayer) ❯ The Modern Body • Georgia O’Keeffe - Torso; 1918 (Alfred Stieglitz) • After the Dive; 1936 (Arthur Grimm e Leni Riefenstahl) ❯ Early Fashion Photography • Miss Nancy Beaton as a Shooting Star; 1928 (Cecil Beaton) • Mainbocher Corset; 1939 (Horst P. Horst) ❯ Advertising Photography • Idle Collar; 1922 (Paul Outerbridge) ❯ Celebrity and Notoriety • Anthony Esposito, Accused “Cop Killer”; 1941 (Weegee) [a pagina 22] ❯ Colour Photography • Lady Bridgett Elizabeth Felicia Henrietta Augusta Poulett as “Arethusa”; 1935 (Madame Yevonde) ❯ Straight Photography • Pepper #30; 1930 (Edward Weston) ❯ Vernacular Photography • Penny Picture Display, Savannah, Georgia; 1936 (Walker Evans) ❯ Street Photography • Cabaret at the Sign of the Armed Man, XVth; 1900 (Eugène Atget) • “El”, Second and Third Avenue Lines; 1936 (Berenice Abbott) ❯ Society • Young Farmers; 1914 (August Sander) • Juvisy, France; 1938 (Henri Cartier-Bresson) ❯ Social Documentary in the Usa • Alabama Tenant Farmer Wife; 1936 (Walker Evans) • Migrant Mother, Nipomo, California; 1936 (Dorothea Lange) ❯ World War II Photography • Omaha Beach, Normandy, France; 1944 (Robert Capa) • The Red Flag on the Reichstag, Berlin; 1945 (Yevgeny Khaldei) Post-War to the Permissive Society, 1946-1976 ❯ Humanist Photography • The Kiss at the Hotel de Ville; 1950 circa (Robert Doisneau) ❯ Magnum Photos • Sale of Gold; 1948 (Henri Cartier-Bresson) ❯ Subjective Photography in Europe • February (from The Window in my Studio); 1948 (Josef Sudek) ❯ Subjective Photography in the Usa • Max Ernst; 1946 (Frederick Sommer) • Things Are Queer; 1973 (Duane Michals) ❯ Post-War Fashion Photography • Dovima with Elephants; 1955 (Richard Avedon) • New York, New York, East River Drive; 1960 (Norman Parkinson)
❯ Portraiture and Celebrity • Andy Warhol and Members of The Factory; 1969 (Richard Avedon) ❯ Picturing the “Other” • Lena on the Bally Box, Essex Junction, Vermont; 1973 (Susan Meiselas) ❯ The Nude • Nude, Campden Hill, London; 1949 (Bill Brandt) ❯ The Photobook • The Decisive Moment; 1952 (Henri Cartier-Bresson) ❯ Street Photography • Central Park Zoo, New York City; 1967 (Garry Winogrand) ❯ Press and Paparazzi • Guerrillero Heroico; 1960 (Alberto Korda) ❯ Civil Rights • Trolley - New Orleans; 1955 (Robert Frank) ❯ Youth Culture • Untitled; 1963 (Larry Clark) ❯ The 1960s • Prague, August 1968; 1968 (Josef Koudelka) [a pagina 19] • Buzz Aldrin on the Moon; 1969 (Neil Armstrong) ❯ Colour Photography • Untitled (Memphis); 1970 (William Eggleston) ❯ Topographics • Framework Houses; 1959-1973 (Bernd e Hilla Becher) ❯ Pop and Conceptual Art • Every Building on the Sunset Strip; 1966 (Ed Ruscha) • Yukatán Mirror Displacements; 1969 (Robert Smithson) ❯ Conceptual Photography • Cause of Death?; 1974 (John Hillard) From Postmodernism to Globalization, 1977-Present ❯ Postmodernism • Untitled Film Still #13; 1978 (Cindy Sherman) • Untitled (Cowboy); 1991 (Richard Prince) ❯ Contemporary Art • Atlas Sheet 327 Clouds; 1976 (Gerhard Richter) ❯ Performance and Participation • I’m Desperate; 1992-1993 (Gillian Wearing) ❯ Bodies Politic • Piss Christ; 1987 (Andres Serrano) ❯ The Düsseldorf School • Paris, Montparnasse; 1993 (Andreas Gursky) ❯ Documentary • Sudan; 1993 (Kevin Carter) ❯ Art Documentary • Burning Fields, Melmerby,
North Yorkshire; 1981 (Paul Graham) • New Brighton, England; 1985 (Martin Parr) ❯ Evidence, Testimony and Critique [a pagina 22] • Possession; 1976 (Victor Burgin) • Good Memory, The Classmates; 1996 (Marcelo Brodsky) ❯ Portraits and Self-portraits • Self-deceit #1, Rome; 1978 (Francesca Woodman) • John Lennon and Yoko Ono; 1980 (Annie Leibovitz) ❯ Identity • The Waterbearer; 1986 (Lorna Simpson) • Hip Hop Project (1); 2001 (Nikki S. Lee) ❯ The Family • The Brown Sisters; 1999 (Nicholas Nixon) ❯ Childhood and Adolescence • Untitled; 2000 (Tierney Gearon) ❯ Fashion and Style • Kate Moss, Under Exposure; 1993 (Corinne Day) ❯ Erotica • Colourscapes; 1991 (Nobuyoshi Araki) ❯ Advertising • La Pietà; 1992 / David Kirby’s Final Moments; 1990 (Benetton / Therese Frare) ❯ The City • Shadow (# 002) from “River Series”; 2002-2004 (Naoya Hatakeyama) ❯ Landscape and Nature • North Atlantic Ocean, Cape Breton Island; 1996 (Hiroshi Sugimoto) • Fullmoon@Yesnaby; 2007 (Darren Almond) ❯ The Man-Altered Landscape • Agecroft Power Station, Salford; 1983 (John Davies) ❯ Still Life • Calla Lily; 1986 (Robert Mapplethorpe) ❯ Staged Photography • Action Photo, after Hans Namuth; 1997 (Vik Muniz) • Untitled (Ophelia); 2001 (Gregory Crewdson) ❯ Postproduction Photography • The Flooded Grave; 1998-2000 (Jeff Wall) ❯ Photography Deconstructed • E. Horsfield, Well Street, East London, March 1986; 1992 (Craigie Horsfield) • River Taw (Ivy); 1998 (Susan Derges) ❯ Uprising and Conflict • Baghdad, April 4, 2004; 2004 (Ghaith Abdul-Ahad) • The North Gate of Baghdad (after Corot); 2004 (Simon Norfolk) ❯ Photography and Globalization • Follow Me; 2003 (Wang Qingsong)
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Storia La rievocazione della influenza sostanziale della Box Kodak, del 1888 (la prima grande svolta senza ritorno della fotografia), è visualizzata con il celebre ritratto dell’inventore George Eastman, con Box Kodak tra le mani, sul ponte della SS Gallia, in viaggio per l’Europa, realizzato nel 1890 dal suo procuratore legale Frederick Church.
Il punto di vista di Photography. The Whole Story non è viziato dalla consuetudine di omettere alcuni generi e alcune fotografie. Ecco, quindi, che la fotocronaca di Weegee, diventa Storia.
Ribadiamo: i periodi analizzati da Photography. The Whole Story sono comprensivi della segnalazione di avvenimenti chiave. Quindi, immediatamente a seguire, non possiamo non annotare anche l’attenzione alla socialità della vita, alla tragedia di certi suoi momenti, qui sottolineata dalla evocazione dei ritratti di internati nella terribile prigione S-21, in Cambogia (1975-1979), prima della loro esecuzione.
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(continua da pagina 19) veniale, che non pregiudica affatto il valore e spessore dell’intera opera). Da rilevare ancora che, fatte salve le origini e qualche caso sparso qua e là sulle pagine, sono presentate poche delle fotografie che di solito vengono utilizzate per raccontare la storia di questo linguaggio. All’opposto, le considerazioni e analisi si basano su un corpus di immagini quantomeno insospettabile, quantomeno poco frequentato, quantomeno stimolante nella propria originalità. Purtroppo per noi, ad esclusione di un esempio di Tina Modotti, italiana soltanto di nascita, non certo cultura, e di rapide citazioni del fotodinamismo futurista dei fratelli Anton Giulio e Arturo Bragaglia e della triestina Wanda Wulz, di cultura mitteleuropea, l’Italia è totalmente assente da questo percorso lungo oltre centosettanta anni. E questo, se ancora servisse sottolinearlo, la dice lunga sul nostro sostanziale provincialismo, che nulla ha da spartire con i valori effettivi di molti fotografi italiani, ma con la nostra irrimediabile esclusione dai palcoscenici internazionali. In tutti i casi, oltre la competenza indispensabile e l’autorevolezza a trattare la materia, cosa offre di più e meglio questa Photography. The Whole Story rispetto altri racconti analoghi? Facile rispondere (almeno per noi): la capacità di muoversi con disinvoltura tra le pieghe di un lessico, di un linguaggio, di una espressività che si è manifestata in mille e mille e mille risvolti, molti dei quali non palesemente espliciti, altrettanti dei quali da individuare sottotraccia. Come spesso abbiamo avuto modo di annotare, altri avrebbero stilato elenchi diversi, avrebbero preso in considerazione immagini differenti. Ma quello che conta non è l’allineamento individuale con ciò che Juliet Hacking sottopone all’attenzione pubblica, quanto la volontà di accodarsi sul suo spirito, con il suo punto di vista, con la sua avvincente partecipazione. Non ci sono distinguo che tengano, e che abbiano alcun diritto di cittadinanza, quando centosettanta anni abbondanti di Storia della Fotografia sono affrontati (e risolti!) con tanto piglio e altrettanta coerenza. Al solito, e come spesso abbiamo annotato, il resto è solo mancia. ❖
DOLORE! S World Press Photo of the Year 2013 e primo premio Spot News Singles: Paul Hansen, Svezia, Dagens Nyheter; venti novembre, Gaza City, Territori Palestinesi, cerimonia funebre per i piccoli Suhaib e Muhammad Hijazi e il loro padre Fouad, uccisi da un attacco missilistico israeliano, che ha colpito la loro casa.
Secondo premio Spot News Stories: Fabio Bucciarelli, Italia, Agence France-Presse; dieci ottobre, Aleppo, Siria, soldato lealista prende posizione durante un attacco delle forze governative nel distretto di Sulemain Halabi.
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di Maurizio Rebuzzini
enza alcuna ombra di dubbio, il World Press Photo, indiscutibilmente il più importante e significativo riconoscimento del fotogiornalismo internazionale, è un premio/concorso che traccia l’indelebile linea del dolore dei nostri tempi, del nostro mondo. Una volta ancora, una di più, sfortunatamente per noi mai una di troppo, lo certifica l’attuale World Press Photo of the Year 2013, sul 2012, assegnata al fotogiornalista svedese Paul Hansen, dal 2000 nello staff del quotidiano Dagens Nyheter (Ultime notizie), che proponiamo qui in apertura di intervento (anche primo premio Spot News Singles ). La specifica è utile, purtroppo potrebbe non essere necessaria, tanto la fotografia risulta per se stessa tragica ed espressiva (e fotogenica?, ne stiamo per parlare). È stata realizzata il venti novembre, a Gaza City, nei Territori Palestinesi: il piccolo Suhaib Hijazi, di due anni, e suo fratello Muhammad sono rimasti uccisi da un attacco missilistico israeliano, che ha colpito la loro casa. Anche il padre, Fouad, è morto nella stessa circostanza; mentre la madre, ferita gravemente, è stata ricoverata in terapia intensiva. I fratelli di Fouad portano i due bambini uccisi alla moschea, per la cerimonia di sepoltura; nel corteo funebre, anche la salma di Fouad (in secondo piano).
Certificato soprattutto e prima di tutto dalla assegnazione della World Press Photo of the Year 2013 (al fotogiornalista svedese Paul Hansen), il dolore dell’esistenza è trasversale alle indicazioni di tutte le categorie proprie del fotoreportage sulla e della vita, che compongono l’insieme del prestigioso e autorevole World Press Photo. Anzitutto e sopra tutto, il dolore che si proietta e manifesta sui palcoscenici internazionali della cronaca che diventa presto (subito) Storia; quindi, non certo in subordine, il dolore quotidiano che accompagna spesso, sempre piÚ spesso, le esistenze individuali
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Primo premio Daily Life Stories: Fausto Podavini, Italia; Mirella dedica la propria vita ad aiutare e sostenere il marito Luigi, affetto da una forma tragica ed estrema del morbo di Alzheimer. Positiva e rassicurante, si prende cura di Luigi con amore e rispetto.
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Ancora, il dolore dell’esistenza è trasversale alle indicazioni di tutte le categorie proprie del fotoreportage sulla e della vita, che compongono l’insieme del World Press Photo. Sia il dolore che si proietta e manifesta sui palcoscenici internazionali della cronaca che diventa presto (subito) Storia, e per questo si eleva sopra tutte le fotografie premiate con valori assoluti, a partire dalla World Press Photo of the Year 2013, appena evocata, sia il dolore quotidiano che accompagna spesso, sempre più spesso, le esistenze individuali. Indipendentemente da qualsivoglia orgoglio nazionale, che sarebbe soltanto misura di arroganza, alterigia e superbia, prima che di fierezza, è in questo senso che consideriamo straordinario e eccezionale il fotoreportage di Fausto Podavini, che gli è valso il primo premio nella categoria Daily Life Stories, che personalmente consideriamo e conteggiamo come il più intenso, toccante e significativo tra
quanti sono stati segnalati dalla giuria di assegnazione degli autorevoli riconoscimenti del World Press Photo 2013, sul 2012 [qui sotto]. Mirella, di Fausto Podavini, è un fotoreportage dedicato alla settantunenne Mirella, per l’appunto, che dedica la propria vita ad aiutare e sostenere il marito Luigi, affetto da una forma tragica ed estrema del morbo di Alzheimer. Positiva e rassicurante, si prende cura di Luigi con intenso amore e rispetto. Lo cura tutti i giorni; per le abluzioni che solitamente richiedono pochi minuti, deve impegnare ore. Questo atteggiamento è proprio amore, se non già straordinaria amicizia incondizionata (beati coloro i quali l’incontrano). Nei suoi gesti c’è il rispetto e l’onore per quarantatré anni trascorsi insieme, condividendo ogni difficoltà della vita, risate e momenti belli. Mirella vive/convive con la malattia del marito Luigi in lealtà a tutto questo.
Il fotoreportage di Fausto Podavini, che purtroppo limitiamo a una sola immagine, per quanto significativa (non perdetevi la galleria dell’insieme del progetto sul sito del World Press Photo, www.world pressphoto.org), esprime quella che è l’autentica missione della fotografia (del vero, dal vero, della vita nel proprio svolgersi): con e da Edward Steichen (1969, in occasione del suo novantesimo compleanno), più volte, tante volte, ricordato su queste nostre pagine, in pertinente equilibrio tra giornalismo (di dovere) e approfondimento/ragionamento (di diritto): «Missione della fotografia è spiegare l’uomo all’uomo e ogni uomo a se stesso». Così che nel fotogiornalismo e con il fotogiornalismo dei nostri tormentati giorni (qualcuno di meno, altri di più), il dolore manifesta ed esprime tutta la propria asprezza... attraverso la propria indiscutibile e terribile fotogenia. Ha affermato Mauro
Vallinotto, allora photo editor del quotidiano La Stampa, commentando e riflettendo il fotogiornalismo dal terremoto di Haiti, del gennaio 2010 (in FOTOgraphia, dell’aprile immediatamente successivo): «Un terremoto, nel Belice come in Cina, è da sempre, sia detto senza malizia, una grande palestra per i fotografi: la disperazione dei sopravvissuti, i morti ricoperti di polvere bianca, che affiorano qua e là tra le macerie, trasfigurati nell’attimo della morte come se fossero calchi di Pompei, i soccorritori che a mani nude scavano in lacrime tra le macerie, i bambini inebetiti, che vagano nel vuoto e nel silenzio, tutto concorre alla realizzazione di immagini di straziante bellezza». Già, straziante bellezza: una volta di più, da Gaza (World Press Photo of the Year 2013, di Paul Hansen) e da Roma (Fausto Podavini, primo premio Daily Life Stories).
Secondo premio Spot News Singles: Emin Özmen, Turchia, Sabah; trentuno luglio, Aleppo, Siria, interrogatorio con tortura di militanti lealisti.
Primo premio General News Singles: Rodrigo Abd, Argentina, The Associated Press; dieci marzo, Idib, Siria, Aida piange per la distruzione della sua casa, nella quale sono morti suo marito e suo figlio.
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IL DOLORE DEGLI ALTRI
Privo di apparato iconografico (ed è addirittura un valore in più del libro, esplicito sui suoi riferimenti e richiami), Davanti al dolore degli altri, di Susan Sontag, edizione italiana Mondadori dell’originario Regarding the Pain of Others, del 2003, è un saggio esemplare, sollecitato e guidato da riflessioni sulla fotografia di guerra, ai nostri tempi, ai nostri giorni. È un autentico urlo: «Nessuno, giunto a una certa età, ha il diritto di avere questo tipo di innocenza o di superficialità, o questo grado di innocenza o amnesia», ammonisce l’autrice.
Tra tanto altro, tutto da assorbire come spugne in acqua, Susan Sontag annota anche il desiderio di vedere rappresentata la morte, in fotografia e in video, soprattutto quando si presenta sotto forma di immagini raccapriccianti. Questa riflessione, come tutte quelle del testo, dà senso e spessore all’analisi di Davanti al dolore degli altri, che esamina i modi, tempi e trambusti nei quali e attraverso i quali il pubblico percepisce la fotografia che incontra casualmente, involontariamente e senza alcuna premeditazione sui giornali che acquista giorno per giorno, settimana per settimana, mese per mese.
WORLD PRESS PHOTO 2013 (SUL 2012)
Il World Press Photo 2013, per fotografie realizzate e pubblicate nel 2012, ha registrato una consistente partecipazione: cinquemilaseicentosessantasei fotogiornalisti, provenienti da centoventiquattro nazioni, per un totale di centoquattromila quattrocentottantuno immagini (5666 fotografi, 124 nazioni, 104.481 immagini). Dal 1955 di origine e partenza, il World Press Photo è sia uno dei più significativi riconoscimenti nell’ambito del fotogiornalismo internazionale, sia una coerente e convincente testimonianza visiva delle vicende dell’anno appena trascorso, che certifica una delle missioni della fotografia. Divise in categorie tematiche -nove quest’anno-, a propria volta scomposte nella duplice indicazione di immagine singola (appunto, Singles) e reportage completo (Stories) -ad esclusione di Sports Feature, in solo Stories-, a tutti gli effetti, le fotografie vincitrici sono le più forti e significative di un intero anno, pubblicate sui giornali di tutto il mondo. Sono inserite nel cadenzato volume-catalogo, ospitate sul sito www.worldpressphoto.org, che allestisce una galleria di immagini di tutti i premiati, estendendosi alle selezioni complete delle Stories, e riunite in una mostra itinerante: in Italia, a Milano e Roma, in primavera, e a Lucca, in autunno. Ribadiamo e confermiamo quanto rilevato nel corpo centrale dell’attuale intervento redazionale: da tempo, l’insieme del World Press Photo è testimonianza di dolore e tragedia della vita, a partire dalla World Press Photo of the Year, ovverosia la fotografia dell’anno, che si eleva sopra tutte, fino alle indicazioni delle categorie proprie del fotoreportage sulla e della vita. Tanto che, riprendendo una ipotesi originaria, alcune delle fotografie affermatesi in passato non si sono esaurite nelle rispettive cronache, ma si sono allungate avanti negli anni. La qualifica di icona, eccoci, dipende in eguale misura, anche se su due livelli concettuali diversi, dallo spessore visivo dell’immagine stessa e/o dalla vicenda documentata, testimoniata e raccontata. Per quanto riguarda l’edizione attuale 2013 del World Press Photo, sul 2012, annotiamo la consistente presenza di sei fotogiornalisti italiani tra i premiati: Fabio Bucciarelli (Agence France-Presse), secondo in Spot News Stories; Alessio Romenzi (per Time) e Paolo Pellegrin (Magnum Photos per Zeit Magazin), primo e secondo in General News Stories; Vittore Buzzi, terzo in Sports Feature Stories; Fausto Podavini e Paolo Patrizi, primo e secondo in Daily Life Stories. Da qui, l’elenco completo e complessivo delle assegnazioni del World Press Photo 2013, sul 2012: poche le donne, soprattutto limitate ai paesaggi, e sostanziosa presenza di fotografi provenienti dai paesi orientali, ai quali si aggiunge la sempre imperante cronaca dal Medio Oriente, svolta da fotografi locali e inviati. World Press Photo of the Year 2013: Paul Hansen (Svezia), Dagens Nyheter; Sepoltura a Gaza Burial, Gaza City, Territori Palestinesi, 20 novembre [a pagina 24]. Spot News Singles: 1) Paul Hansen (Svezia), Dagens Nyheter [a pagina 24]; 2) Emin Özmen (Turchia), Sabah [a pagina 27]; 3) Adel Hana (Territori Palestinesi).
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Spot News Stories: 1) Bernat Armangue (Spagna), The Associated Press; 2) Fabio Bucciarelli (Italia), Agence France-Presse [a pagina 24]; 3) Javier Manzano (Usa), Agence France-Presse / Getty Images per The New York Times. General News Singles: 1) Rodrigo Abd (Argentina), The Associated Press [a pagina 27]; 2) Sebastiano Tomada (Usa), Sipa Press Usa; 3) Dominic Nahr (Svizzera), Magnum Photos per Time. Menzione d’onore: Ammar Awad (Giordania) Reuters. General News Stories: 1) Alessio Romenzi (Italia), per Time; 2) Paolo Pellegrin (Italia), Magnum Photos per Zeit Magazin; 3) Daniel Berehulak (Australia), Getty Images [a pagina 32]. Sports Action Singles: 1) Wei Seng Chen (Malesia) [pagina accanto]; 2) Yongzhi Chu (Cina); 3) Wei Zheng (Cina). Sports Action Stories: 1) Roman Vondrous (Repubblica Ceca), Czech Press Agency; 2) Sergei Ilnitsky (Russia), European Pressphoto Agency [a pagina 31]; 3) Chris McGrath (Australia), Getty Images. Sports Feature Stories: 1) Jan Grarup (Danimarca), Laif [a pagina 30]; 2) Denis Rouvre (Francia); 3) Vittore Buzzi (Italia). Contemporary Issues Singles: 1) Micah Albert (Usa), Redux Images [a pagina 31]; 2) Esteban Felix (Peru), The Associated Press; 3) Emilio Morenatti (Spagna) The Associated Press. Menzione d’onore: Felipe Dana (Brasile), The Associated Press. Contemporary Issues Stories: 1) Maika Elan (Vietnam), Most [a pagina 32]; 2) Majid Saeedi (Iran), Getty Images; 3) Aaron Huey (Usa), per National Geographic. Menzione d’onore: Altaf Qadri (India), The Associated Press. Daily Life Singles: 1) Daniel Rodrigues (Portogallo); 2) Søren Bidstrup (Danimarca); Berlingske [a pagina 31]; 3) Jacob Ehrbahn (Danimarca), per Politiken. Daily Life Stories: 1) Fausto Podavini (Italia) [a pagina 26]; 2) Paolo Patrizi (Italia); 3) Tomás Munita (Cile), per The New York Times. Menzione d’onore: Frederik Buyckx (Belgio), per De Standaard. People - Observed Portraits Singles: 1) Nemanja Pancic (Serbia), Kurir; 2) Marie Hald (Danimarca); 3) Ilona Szwarc (Polonia), Redux Pictures. People - Observed Portraits Stories: 1) Ebrahim Noroozi (Iran); 2) Daniel Ochoa de Olza (Spagna), The Associated Press; 3) Ananda van der Pluijm (Olanda). People - Staged Portraits Singles: 1) Nadav Kander (Israele), per The New York Times / Time; 2) Stefen Chow (Malesia), per Smithsonian Magazine [a pagina 32]; 3) Anna Bedy ska (Polonia), Agora. People - Staged Portraits Stories: 1) Stephan Vanfleteren (Belgio), Panos per Mercy Ships/De Standaard; 2) Ebrahim Noroozi (Iran); 3) Fu Yongjun (Cina), City Express. Nature Singles: 1) Christian Ziegler (Germania); 2) Ali Lutfi (Indonesia), per The Jakarta Globe; 3) Randall Benton (Usa), The Sacramento Bee. Nature Stories: 1) Paul Nicklen (Canada), National Geographic [pagina accanto]; 2) Xiaoqun Zheng (Cina), Wenzhou Daily; 3) Thomas P. Peschak (Germania / Sudafrica).
Primo premio Sports Action Singles: Wei Seng Chen, Malesia; dodici febbraio, Batu Sangkar, West Sumatra, Indonesia, gara di tori Pacu Jawi, alla conclusione del raccolto [questa fotografia è analoga, forse addirittura identica, a quella di Chan Kwok Hung, vincitore della sezione Open del Sony World Photography Award 2011; FOTOgraphia, giugno 2011].
Primo premio Nature Stories: Paul Nicklen, Canada, National Geographic; diciotto novembre, Mare di Ross, Antartide, pinguini imperatore, il piĂš grande degli uccelli della famiglia dei pinguini.
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Primo premio Sports Feature Stories: Jan Grarup, Danimarca, Laif; ventuno febbraio, Mogadiscio, Somalia, partita di basket femminile protetta da militari armati.
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La questione è la solita, ed è antica almeno tanto quanto lo è la fotografia, all’indomani del suo primo impegno in guerra (sui fronti della Crimea, con il subordinato, vincolato e istruito Roger Fenton, nel 1855). La risposta è scontata: nessuna fotografia ha modo di suscitare tanto sdegno da tradursi, soprattutto a livello politico, in azioni effettive contro la guerra. Però, allo stesso tempo e momento, tutte le fotografie di guerra, che -siamo sinceri e onesti- sono realizzate da fotogiornalisti che la ripudiano (la guerra), hanno insieme il grande valore e potere di influire sui pensieri e le intenzioni e la morale collettiva. E sui sentimenti.
SUI SENTIMENTI Del resto, Susan Sontag fu anticipatoria nel suo precedente saggio a tema (nostro), Sulla fotografia (sottotitolo Realtà e immagine nella nostra società),
pubblicato in Italia dal 1977: «In se stessa una fotografia può spiegare solo ciò che è, ma invita alla deduzione, alla speculazione, all’immaginazione, alla riflessione. In senso stretto, non si comprende mai ciò che è a partire solo da una fotografia». Raramente, ma forse neppure tanto raramente, ci sono state anche fotografie determinanti e discriminanti, non tanto sull’immediato, quanto sulle passioni dei cittadini. A questo proposito, è certificato come la celebre fotografia di Nick Ut della bambina che corre urlando, bruciata dal napalm [la nostra più recente rievocazione, in FOTOgraphia, dello scorso novembre 2012, dove certificammo l’eccellente presenza Leica alla Photokina 2012], abbia accelerato il processo di pace in Vietnam, influendo sull’atteggiamento dei governanti statunitensi. John G. Morris, ai tempi photo editor di Life, autore di una straordinaria autobiografia professionale (Get the
Picture, pubblicata da Contrasto, nel 2011, dopo la precedente edizione Sguardi sul ’900 - Cinquant’anni di fotogiornalismo, di Le Vespe, del 2000, presentata in FOTOgraphia, del dicembre 2000), ha annotato, forse provocatoriamente, ma non sappiamo fino a che punto, che «Per fortuna la bambina non aveva peli pubici», altrimenti, per il codice di autocensura americano, la fotografia non sarebbe stata pubblicata. E chissà: se la bambina avesse avuto i peli, la guerra sarebbe durata di più? Comunque, riprendendo il filo della fotografia del dolore, ma forse addirittura della fotogenia del dolore, non possiamo ignorare come e quanto negli ultimi tempi certo fotogiornalismo di guerra sia stato (ben!) accolto dai e sui palcoscenici dell’arte mercantile. In questo senso, Susan Sontag è assolutamente scettica, e noi con lei. Per quanto tra i fattori che definiscono la forza comunicativa del-
Secondo premio Sports Action Stories: Sergei Ilnitsky, Russia, European Pressphoto Agency; trentuno luglio, giochi olimpici di Londra. (in basso) Secondo premio Daily Life Singles: Søren Bidstrup, Danimarca, Berlingske; otto luglio, mattina presto in un campeggio di Jesolo. Primo premio Contemporary Issues Singles: Micah Albert, Usa, Redux Images; tre aprile, Nairobi, Kenya; pausa dalla pioggia, in una discarica.
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Secondo premio People Staged Portraits Singles: Stefen Chow, Malesia, per Smithsonian Magazine; sei febbraio, Pechino, Cina, l’artista cinese Ai Weiwei. (in basso) Primo premio Contemporary Issues Stories: Maika Elan, Vietnam, Most; Da Nang, Vietnam, Phan Thi Thuy Vy e Dang Thi Bich Bay, che vivono insieme. Terzo premio General News Stories: Daniel Berehulak, Australia, Getty Images; sette marzo, Rikuzentakata, Giappone, riaffiora un albero sradicato durante lo tsunami di un anno prima.
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la fotografia ci sia anche una presumibile o presunta “artisticità” dell’immagine (non solo nel senso di “esteticamente piacevole”, ma soprattutto in quello di “artefazione”, ovverosia immagine composta e creata con canoni artistici), non possiamo, né tantomeno vogliamo ignorare che tra la realtà e la sua rappresentazione fotografica ci stia un autore: con i propri sentimenti, le proprie opinioni, le proprie concezioni e, perché no? perché negarlo?, i propri pre-concetti.
LINGUAGGIO FOTOGRAFICO Molte delle fotografie di guerra più celebrate e universalmente conosciute e acquisite (soprattutto dal grande pubblico... generico) sono frutto di un intervento del fotografo. Non mancano gli esempi: dalla Valle dell’ombra della morte, di Roger Fenton, del 1855, al miliziano di Robert Capa, dalle bandiere issate sul monte Suribachi, sull’isola di Iwo Jima, di Joe Rosenthal, e sul Reichstag, di Evgenii Khaldei (o Yvgeni Khaldi), entrambe del 1945, fino a qualcosa di meno lontano. Le storie della fotografia, quantomeno quelle più accreditate e leggibili, non speculano su questi dettagli, se non già per sottolineare la trasversalità di etica e morale, ma anche su questo e per questo valutano le abilità accreditate ai fotografi autori, che hanno saputo declinare linguaggio, lessico, sintassi e stilema. Però, con Susan Sontag, oltre che con noi stessi, ci domandiamo anche cosa cambi, nella mente dell’osservatore/fruitore/pubblico, sapere che il fotografo-testimone ha modificato la scena, per farla risultare più “memorabile”, più “fotografica”. Comunque, aggiungiamo noi, non dimentichiamo che questi interventi, accertati o meno che siano, sono stati tutti applicati nell’intenzione e consapevolezza di declinare un linguaggio visivo specifico, definito da connotati propri (così come anche la parola e la sua scrittura hanno regole grammaticali e lessicali altrettanto proprie). In ogni caso, e prima di tutto, Susan Sontag si pone ben altre domande. A monte di tutto, Davanti al dolore degli altri, oggi rievocato a contorno dell’edizione World Press Photo 2013 -così simile alle precedenti, quantomeno da questo punto di vista-, è diretto e esplicito: complici i mezzi di informazione, che oggigiorno svolgono un ruolo sempre più centrale nella vita sociale, nella società contemporanea il dolore degli altri è uno spettacolo all’ordine del giorno. Sfogliando i quotidiani, guardando i telegiornali, siamo costantemente messi di fronte ad atrocità di ogni genere: distruzioni, bombardamenti, violenze su uomini e donne, vittime innocenti di guerre, che subiscono passivi e inermi. Quali conseguenze producono queste immagini su noi osservatori, che stiamo a guardare, a guardarle? La visione di orrori e crudeltà ci porta ad allarmarci o a essere sempre più indifferenti? Ci fa odiare la violenza o ci incita a sostenerla e a praticarla? Personalmente e individualmente, in ogni caso, e prima di altri distinguo, davanti al dolore degli altri... la nostra misericordia. ❖
Datando l’anticipatoria UR-Leica, di Oskar Barnack, al 1914 (altre fonti hanno spesso indicato 1913), una intensa ed esemplare monografia celebra novantanove anni di storia Leica: per l’appunto, 1914-2013. Ninety Nine Years Leica è un libro irrinunciabile, sia per la propria intelligenza manifesta, sia per il punto di vista originale, attraverso il quale stabilisce i termini e il senso di una autentica leggenda. Sì, proprio leggenda. Specchio fedele della attuale personalità tecnico-commerciale della casa tedesca, questo volume canonizza la propria storia in riferimento a quella complessiva della fotografia. Straordinario esempio di coerenza produttiva, in un racconto altrettanto fantastico. Da non perdere! Esclamativo Novantanove anni sono passati dall’idea di Oskar Barnack, del 1914, oggi classificata come UR-Leica (prefisso che in tedesco significa primitivo, primordiale: rafforzativo del concetto di originario). Le intenzioni di partenza non ipotizzavano una produzione, ma così è stato, con straordinaria influenza sulla storia della tecnologia fotografica, rilevante sul linguaggio espressivo e altro ancora. Allo scadere dei novantanove anni, sul mercato, si affaccia l’attuale Leica M (2013).
di Maurizio Rebuzzini
L
eica, e Leica sempre, e fortissimamente Leica (in parafrasi da Vittorio Alfieri, dalla Lettera responsiva a Ranieri de’ Calsabigi, del 1783). Questo è quanto sollecita e induce a considerare la straordinaria edizione di una monografia che racconta un secolo di fotografia Leica, conteggiato dal 1914 di pre-origine, appropriatamente identificata e identificato -la monografia e il secolo- come Ninety Nine Years Leica,
NOVANTAN
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1914 UR-Leica
Leica M 2013
NOVE ANNI
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Oskar Barnack utilizzò pellicola 35mm a doppia perforazione di origine cinematografica: da cui è nato il formato fotografico 24x36mm. Qui quella che è conteggiata come la prima fotografia ripresa da Oskar Barnack con la UR-Leica (negativo e ingrandimento): Primo agosto 1914, mobilitazione militare a Wetzlar. Da Ninety Nine Years Leica: l’origine dell’idea, da cui è partita la leggenda.
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ovverosia novantanove anni... Leica. Già qui, già subito, una nota di garbo, intelligenza e sagacia: non cento anni, ma novantanove, che suona meglio e con efficacia più appropriata. Senza ombra di dubbio. Ovviamente, non ignoriamo che -tra le tante/tutte possibili- quella Leica è la storia produttiva più raccontata e censita della lunga evoluzione degli strumenti della fotografia. Molti i titoli tra i quali scegliere, forse addirittura troppi. Di Leica si è detto tutto (forse); quindi, stupisce che ci sia ancora qualcosa da enunciare e riportare. Ma così è, in questa mirabile edizione, che nasce in casa, e che osserva la vicenda con un occhio e un piglio che nessuno ha mai posseduto (a parte episodi marginali, che stiamo per richiamare). Tra tanto altro, e oltre i valori tecnici e operativi concreti, che le hanno consentito lunga e gloriosa esistenza, a margine di molto, Leica rappresenta oggi anche l’apoteosi e l’esaltazione del particolare fenomeno del collezionismo storico, avviato in forma ufficiale e solenne all’alba degli anni Settanta, con capitolo italiano sollecitato e guidato da due personalità fondanti, significative persino a livello internazionale: i compianti Ghester Sartorius e Gianni Ro-
gliatti, rispettivamente mancati nel settembre 1999 e lo scorso marzo 2012 [FOTOgraphia, aprile 2012]. A diretta conseguenza, la storia Leica ha sollecitato studi e casellari, utili per l’identificazione dei singoli modelli e del loro relativo valore collezionistico, e proficui dal punto di vista della conseguente redditività editoriale. Soprattutto a livello internazionale, in lingua inglese, ma anche in italiano, la quantità di titoli è impressionante, anche se non altrettanto si può affermare a proposito delle connesse qualità. Per cui, senza farci abbagliare dai lustrini di costose opere, solitamente impreziosite da una abbondante quantità di illustrazioni in dettaglio (fino a minuziosi censimenti di particolari produttivi, come l’adozione di viti e complementi cambiati nel corso degli anni), sfrondiamo la quantità conferendo la dote assoluta e incondizionata di aver composto i due casellari discriminanti alla Carta d’identità delle Leica e alla Carta d’identità degli obiettivi Leica, originariamente compilate da Ghester Sartorius, e ora attribuite a Giulio Forti e Pierpaolo Ghisetti (Editrice Reflex; quarta e terza edizione, aggiornate alla fine del 2012): il resto sono solo parole in più, spesso di scarsa utilità.
Ninety Nine Years Leica; testi di Rainer Schillings; dove non specificato altrimenti, fotografie di Ansgar Pudenz; art direction di Till Schaffarczyk; 99pages Verlag, 2012; 286 pagine 24x30cm; 99,00 euro (ovviamente: novantanove euro!).
Ilse Bing: autoritratto allo specchio, con Leica; 1931. Quindi, rifacimento di Abe Frajndlich, realizzato cinquantacinque anni dopo per il suo fantastico progetto di ritratti di fotografi Masters of Light, originariamente presentato alla Photokina 1990.
IO SONO LEGGENDA
A completa differenza, lasciando per l’appunto ad altri il certosino computo dei modelli e delle varianti, oltre che delle rispettive caratteristiche, l’eccezionale Ninety Nine Years Leica, fortemente voluto dal Ceo Alfred Schopf, che sta rivitalizzando e attualizzando la personalità tecnico-commerciale della casa, è ben altro. Compone i tratti di una disamina storica priva di qualsivoglia nostalgia e malinconia del passato, per proiettare Leica al presente e futuro. Ovverosia fa bandiera e vanto della Storia, non relegata a se stessa, ma capace di imprimere radici solide, per fiori e frutti di sistematica attualità (con Anne Perry, da I peccati di Callander Square: «La storia non può insegnarci niente se scegliamo di dimenticarla»). L’edizione libraria inizia con un piglio che la dice lunga sulla consistenza dei progetti Leica dei nostri giorni, proiettati sul mercato fotografico futuro e futuribile. Parafrasi del film del 2007, di Francis Lawrence, con Will Smith nei panni del sopravvissuto Robert Neville, dall’omonimo romanzo di Richard Matheson, e con richiami alla musica di Bob Marley, I am Legend (Io sono leggenda) è una affermazione totale, che abbraccia la storia per offrirla all’attualità.
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Due testimonianze Leica: una di spicco, l’altra curiosa. La Leica Ic personalizzata di George Bernard Shaw e il racconto per l’infanzia Leica - Mädel Monika (Monika, la ragazza Leica), di Elisabeth Günther, del 1955. Leica M7, l’ultima per pellicola, in una interpretazione dell’artista olandese Jeroen van de Vlag: fragilità e arte. Forse.
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Curiosamente, ma neppure poi molto curiosamente, lo scorso novembre, relazionando sullo svolgimento della Photokina 2012, l’appuntamento più significativo della tecnologia fotografica, noi stessi identificammo la realtà della personalità Leica dei nostri giorni con una attribuzione analoga, se non già coincidente: Io sono Fotografia, certificammo. In estratto, riprendiamo i termini di quelle note, che composero uno dei passi della nostra lettura dei tempi e modi della fotografia al giorno d’oggi (con ogni proprio annesso e connesso). «L’intero Padiglione Uno della Photokina, che in anni recenti ha ospitato le mostre istituzionali della collegata Visual Gallery, è stato occupato da Leica. Da cui, e per cui, Leica ha puntualizzato l’aspetto fondante della sua personalità fotografica, che affonda le proprie radici indietro nei decenni: dal 1925 dell’originaria Leica I, presentata alla Fiera di Primavera di Lipsia, oppure dal 1913 (o 1914) del prototipo UR-Leica, evocato in tutte le Storie, da cui è altresì partito il fotogramma 24x36mm su pellicola 35mm a doppia perforazione (va detto!). In ripetizione d’obbligo, oltre le innumerevoli diatribe dei nostri giorni e le altrettanto molteplici sfumature tec-
nico-commerciali, Leica è stata, ed è!, categorica: ha affermato e certificato Io sono fotografia. Ecco che, con personalità perentoria, l’affermazione di princìpio di Leica è assoluta, inviolabile e inderogabile: io ho contribuito a scrivere capitoli fondamentali della sua storia evolutiva, che a propria volta si sono proiettati anche in capitoli altrettanto capitali e nodali della Storia del mondo contemporaneo. Nello spirito che ci è particolarmente caro del come e quanto la fotografia influenzi e abbia influenzato la vita, il fotogiornalismo del Novecento è stato scritto in punta di Leica (soprattutto!). «Dunque, si lasci pure che l’idea fotografica venga anche declinata altrove e altrimenti. Ma! «Ma, la Fotografia che proviene dal lungo e affascinante cammino del suo linguaggio, la Fotografia inviolabilmente tale, la Fotografia che non dipende da sovrastrutture effimere e transitorie... questa Fotografia è altro. È se stessa, e continua e continuerà ad esserlo, con tragitto autosufficiente rispetto qualsivoglia ulteriore personalità si affacci accanto alla sua ribalta, anche carpendone alcuni dei suoi tratti peculiari: quelli della sola apparenza, non certo quelli autenticamente distintivi.
A un certo punto di Ninety Nine Years Leica, verso l’epilogo della lunga vicenda, raccolta su duecentottantasei pagine, si incontra una doppia pagina che ne introduce altre due chiuse e sigillate, con proprio retro. Avvertimento esplicito, esortazione: «Top Secret - Do not open! - Leica future». Ovviamente, le abbiamo aperte, per leggere dei programmi futuri di Leica... da scoprire individualmente: qui e ora, non riveliamo nulla. A ciascuno, il suo. Paradossale. Il fenomeno delle Leica false o falsificate è proliferato: Leica II, del 1932-1948, sua copia cinese e poi, ancora, copia russa della copia cinese.
«Se fino a qualche stagione fa si è potuto identificare come “Leica” una fotografia composta con garbo e riflessione, di soggetti avvicinati quasi in punta di piedi, inquadrati con la solennità e delicatezza del mirino esterno, all’indomani del balzo in avanti ideologico della presenza Leica alla Photokina 2012, dobbiamo aggiungere altro ancora». Ciò che si è visto in Photokina, lo scorso autunno (e che invitiamo a rileggere dalla nostra relazione completa, pubblicata a novembre), è stato soltanto la punta di un iceberg che esprime la personalità con la quale Leica sta affrontando il mercato fotografico dei nostri giorni. In questo senso, la fantastica monografia Ninety Nine Years Leica la dice lunga, perché sottolinea valori e consistenze di distinzione assoluta, da spendere sia con il pubblico propriamente fotografico (quello di sempre), sia con un nuovo segmento, composto da chi frequenta (frequenterebbe) la fotografia con un rinnovato e innovativo spirito di alta classe formale. Leica afferma Io sono leggenda, nel senso che Io sono qui, con qualità, meriti e virtù che ho conquistato e solidificato anno dopo anno, dopo anno: ovvero, oltre i contenuti tecnici innegabili, sono anche un autorevole status symbol.
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OTTO ATTINENZE IN INCESSANTE SOLLECITAZIONE TRASVERSALE
Come anticipato, l’argomento complessivo di Ninety Nine Years Leica procede al ritmo di otto relazioni e attinenze, attraverso le quali Leica ha stabilito e ufficializzato la propria leggenda. Lo svolgimento del libro è scandito da due componenti di ritmo, che agiscono in sostanziale simultaneità: lo scorrimento temporale si accompagna con le innovazioni tecnologiche via via realizzate e proposte. Leica History: intende e comprende i valori che dalla produzione e dalle configurazioni tecniche si sono proiettati sul linguaggio fotografico applicato. ❯ I am Legend ❯ How I invented the Leica ❯ Ernst Leitz - the visionary ❯ Reportage ❯ Paris is a bitch ❯ The Hindenburg Crash ❯ An “important company of the war effort”, 1939-1945 ❯ The sad fate of the Leicaflex 013 ❯ The digital revolution ❯ The love of anachronism ❯ The survival of a legend ❯ A touch of luxury ❯ The flying Elmarit ❯ The ground-breaking ceremony the return to Wetzlar
Leica Technology: prende in esame esattamente i princìpi che hanno governato l’evoluzione dei modelli e delle costruzioni. ❯ Small-format picture ❯ .:?! ❯ 1923 - the Null series ❯ 1924 - the camera goes into production ❯ 1934 - the Reporter camera ❯ The hot shoe ❯ 1954 - the bayonet ❯ 1964 - the Leicaflex ❯ The lens ❯ 1976 - the autofocus ❯ 1984 - the M6 ❯ 1996 - the S1 studio camera ❯ 2008 - Noctilux ❯ 2008 - the M8 as the sign of a new beginning
❯ 2009 – the S2, a new system ❯ 2012 - the Monochrom, the incarnation of the Ur-Leica ❯ 2012 - M and no end, S3, X2
Leica Photography: sottolinea il valore testimoniale di una identificata serie e qualità di autori che hanno edificato il proprio linguaggio espressivo con la lievità dell’apparecchio fotografico a telemetro, oppure che hanno realizzato fotografie clamorosamente epocali (dal punto di vista dei curatori dell’opera). ❯ Henri Cartier-Bresson ❯ Ilse Bing ❯ Robert Capa ❯ Sam Shere ❯ Gisèle Freund ❯ Alfred Eisenstaedt ❯ Elliott Erwitt ❯ Alberto Korda ❯ Nuynh Cong Út ❯ Jim Marshall ❯ Leni Riefenstahl ❯ Sebastião Salgado ❯ Thomas Hoepker Leica Community: con brillantezza e intelligenza affronta e approfondisce l’appartenenza a un mondo, quello Leica, per l’appunto, composto da fatti concreti e contorni altrettanto consistenti.
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Non banalmente consequenziali, ma alternati tra loro, gli argomenti iscritti nei capitoli di attinenza si richiamano a questo, che viene interpretato con apprezzati scarti di riferimento: la lunga narrazione non è sterilmente suddivisa in orizzontale, ma -in intreccio costante- è scomposta per linee verticali di continua e incessante sollecitazione trasversale.
99 Years of Passion Magnum - a success story Eternal credit 213 - or 1.000.000 cameras later Passion for collecting Leica for Men It’s an M-Class Top Secret [a pagina 39]
Leica Celebrity: fidelizzazione al di fuori dello stretto ambito professionale. ❯ Leopold Godowsky and Leopold Mannes, the inventors of the Kodachrome film ❯ Leica Teddy for bed ❯ Queen Elizabeth II and other royals ❯ Star Leicas & Leicas for stars ❯ The butcher’s delight Leica Reality: riferimenti interni e proiezioni esterne, passi e momenti tecnici e dintorni. ❯ My personal Leica ❯ Leica as a status symbol ❯ Monika the Leica Girl ❯ Leica rules the world ❯ Leica fakes ❯ The ticking bomb - M4 & M5 ❯ Cheap, expensive, priceless ❯ In the line of fire ❯ All handmade ❯ Portugal - a family affair ❯ Leica R, involuntary pit stop ❯ Hermès - luxury in leather ❯ Tradition and vision salvation of the brand
Leica Identity: scandisce la partecipazione attiva alla composizione di autentiche pietre miliari del linguaggio fotografico applicato. ❯ Inventor of reportage ❯ SLR pioneer ❯ Milestones of lens construction ❯ Global Brand ❯ How children see cameras ❯ A piece of art ❯ Digital flood of images as the salvation of photography Leica Philosophy: nel corso dei decenni, con lo scorrere dei tempi, dalla-alla società tutta con processo di andata-e-ritorno senza alcuna soluzione di continuità. ❯ See more ❯ The new vision ❯ Dressed in black ❯ Rivalry between object and subject ❯ Click - the Sound of Silence ❯ The most powerful Weapon in the World ❯ Good camera. Bad camera! ❯ Touch me - the eroticism of touching
NOVANTANOVE ANNI
Subito annotato: Ninety Nine Years Leica è un’edizione preziosa anche dal punto di vista formale. Una grafica ardita, ma efficace (firmata dall’art director Till Schaffarczyk), riporta al solo presente concetti che, se rimanessero storici, sarebbero sterili e soltanto autoreferenziali. In questo senso, e con ammirazione, è un volume dei nostri giorni, che interpreta la propria forma cartacea nell’era della comunicazione rapida ed effimera della Rete. Ovverosia, è un’opera che fa stilema espressivo della propria forma, sia per rivolgersi al pubblico tutto, sia per distinguere l’approfondimento dalla nozione in rapido esaurimento. Proprio la grafica del libro, con tante efficaci invenzioni -sia per quanto riguarda la messa in pagina dei testi, sia per ciò che concerne l’apparato illustrativo-, introduce la consistenza dei contenuti, che tracciano una personalità definitiva e che misurano l’entità di un mito dei nostri tempi, degno di stare accanto ai riferimenti che appartengono a pieno diritto alla memoria collettiva del costume sociale. E non è certo poco. Anzi, è addirittura vero l’esatto contrario. Lo svolgimento dei testi di Rainer Schillings è scandito da due componenti di ritmo, che agisco-
no in sostanziale simultaneità: lo scorrimento temporale si accompagna con le innovazioni tecnologiche via via realizzate e proposte. Non banalmente consequenziali, ma alternati tra loro, gli argomenti iscritti nei capitoli di attinenza si richiamano a questo, che viene interpretato con apprezzati scarti di riferimento. Ovvero, sono definiti dall’evoluzione sociale più che dai soggetti espliciti appena riferiti. In questo modo, la lunga narrazione non è sterilmente suddivisa in orizzontale, ma -in intreccio costante- è scomposta per linee verticali di continua e incessante sollecitazione trasversale. Quindi, alla fine del libro, un intelligente sommario mette in ordine e in riga tutti gli argomenti trattati, che hanno infarcito il racconto di questi straordinari novantanove anni (attenzione, per quanto siamo convinti che la fotografia sia l’autentico linguaggio, non soltanto visivo, del Novecento, siamo altrettanto consapevoli che l’apporto Leica sia stato più che sostanzioso... spesso determinante). Questo intelligente sommario finale svela e rivela lo spirito complessivo dell’opera, che è svolta zigzagando tra otto relazioni e attinenze, attraverso le quali Leica ha stabilito e ufficializzato la propria leggenda.
Il 24 giugno 2010, presentando la versione iPhone 4 dello smartphone Apple, Steve Jobs lo paragonò alla bellezza Leica senza tempo. Testuale: «The iPhone 4: it’s like a beautiful old Leica camera». Sulla falsariga di questo, annotiamo che nella quantità ed eterogeneità di cover di rivestimento dell’iPhone è disponibile anche una finitura che riprende il design Leica: da cui... LeicaPhone (?).
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In Ninety Nine Years Leica, la rievocazione dei bui anni della Seconda guerra mondiale (1939-1945) è leggera nella propria visualizzazione (con un richiamo alla fantastica serie di fumetti americani Camera Comics, che abbiamo presentato e commentato lo scorso giugno 2012; qui sotto), quanto sofferta nel ricordo. Si fa esplicito riferimento all’impegno civile di Ernst Leitz II e sua figlia Elsie Kühn-Leitz a favore dei propri impiegati ebrei (da cui il parallelo con Oskar Schindler, reso celebre dal film di Steven Spielberg, del 1993). Ne abbiamo riferito nell’ottobre 2011, ma si impone una ripetizione. Ai due Leitz riuscì di salvare decine dei loro impiegati ebrei, procurando loro visti per l’estero, pagando le spese di viaggio e riuscendo in parte a trasferirli negli uffici di New York. Questi fatti sono raccontati in un libro del rabbino Frank Dabba Smith: The Greatest Invention of the Leitz Family: The Leica Freedom Train, pubblicato nel 2002 [a sinistra]. L’intera operazione non fu priva di rischi. Nel 1938, fu arrestato Alfred Turk, direttore vendite dello stabilimento, dopo che qualcuno segnalò alla Gestapo l’attività di aiuto agli ebrei. E nel 1943, la figlia di Ernst Leitz, Elsie, finì in carcere per aver aiutato Hedwig Palm, un ebreo residente a Wetzlar, a fuggire in Svizzera. Elsie e Turk furono liberati solo grazie a cospicue bustarelle pagate dai Leitz. Tra i personaggi divenuti famosi tra gli ebrei salvati, c’è Edith Katzenstein, capo della camera oscura dell’azienda, che fuggì dalla Germania nel 1933. Dopo un’esperienza professionale come responsabile della camera oscura del londinese Picture Post Magazine, avviò il suo laboratorio di sviluppo e stampa. Tra i suoi clienti Henri Cartier-Bresson.
Evocato anche in apertura del capitolo dedicato alla Seconda guerra mondiale (1939-1945), in Ninety Nine Years Leica, Camera Comics è stato un fumetto statunitense di propaganda, pubblicato dall’ottobre 1944 all’estate 1946: complice la fotografia, i nove numeri hanno sostenuto lo sforzo bellico degli Stati Uniti. Rievocazione approfondita in FOTOgraphia, dello scorso giugno 2012.
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A parte le specifiche riassunte a pagina 40, in apposito riquadro, l’argomento complessivo di Ninety Nine Years Leica procede al ritmo di: Leica History, che intende e comprende i valori che dalla produzione e dalle configurazioni tecniche si sono proiettati sul linguaggio fotografico applicato; Leica Technology, che prende in esame esattamente i princìpi che hanno governato l’evoluzione dei modelli e delle costruzioni; Leica Photography, che sottolinea il valore testimoniale di una identificata serie e qualità di autori che hanno edificato il proprio linguaggio espressivo con la lievità dell’apparecchio fotografico a telemetro (e annessi e connessi), oppure che hanno realizzato fotografie clamorosamente epocali (dal punto di vista dei curatori dell’opera); Leica Community, che con brillantezza e intelligenza affronta e approfondisce l’appartenenza a un mondo, quello Leica, per l’appunto, composto da fatti concreti e contorni altrettanto consistenti; Leica Celebrity, ancora testimonianze di fidelizzazione, non soltanto di uso, al di fuori dello stretto ambito professionale; Leica Reality, tra riferimenti interni e proiezioni esterne, passi e momenti tecnici e dintorni; Leica Identity, che scandisce la partecipazione attiva alla composizio-
ne di autentiche pietre miliari del linguaggio fotografico applicato; Leica Philosophy, nel corso dei decenni, con lo scorrere dei tempi, dalla-alla società tutta con processo di andata-e-ritorno senza alcuna soluzione di continuità. In tutto questo, oltre lo spessore dei testi, gli argomenti sono presentati e visualizzati con illustrazioni a dir poco eccezionali (dove non specificato altrimenti, fotografie di Ansgar Pudenz). Nulla rimastica quanto è già conosciuto, ma tutto è stato realizzato per l’occasione: prima di altro, fantastiche raffigurazioni degli apparecchi in passerella. Infine, da notare la presenza di tanta aneddotica complementare, sulla falsariga di quanto facciamo spesso proprio sulle nostre pagine: dai fumetti, dal costume sociale, dal quotidiano, dal cinema, dalla numismatica, da tanto altro ancora.
PUNTO DI VISTA Così come la fotografia del vero e dal vero, entro la quale si manifestano le peculiarità operative del sistema Leica a telemetro, dalle proprie origini avanti nei decenni, dipende in larga misura dal punto di vista dell’autore, che così indirizza l’osservazione e
La briosa e accattivante grafica di Ninety Nine Years Leica include anche una pagina da personalizzare, ognuno per conto proprio: ritagliando l’illustrazione messa in pagina, la si può sostituire con un’altra immagine, magari di se stessi, per dare una impronta individuale alla propria copia del libro.
percezione della propria immagine, anche questa Ninety Nine Years Leica è identificabile per un punto di vista discriminante. Ribadiamo, confermandolo: non una sterile storia cronologica, ma un corso di eventi eccezionalmente dinamico e originario, che è stato capace di individuare, presentare e sottolineare momenti effettivamente discriminanti (e ha avuto il coraggio di ragionare sulla propria identità commerciale; per esempio, ha affrontato la filosofia aziendale fino a certificare come è stato salvato il marchio: con il paragrafo Tradition and vision - salvation of the brand, attribuito a Leica Reality ). In altre parole: non semplicistica messa in ordine di fatti, ma loro contestualizzazione, loro consecuzioni, loro influenze e loro importanze... in chiave di leggenda. Va ripetuto quanto espresso in apertura: «Questa mirabile edizione osserva la vicenda con un occhio e un piglio che nessuno ha mai posseduto (a parte episodi marginali)». Tra i possibili precedenti marginali, di spessore ben diverso, perché consistentemente inferiore, ci preme segnalare la trasversalità di ragionamento e osservazioni (e, quindi, conclusioni) che ha caratterizzato il capitolo 1913-1925. L’esposimetro di Oskar Bar-
nack, che in 1839-2009. Dalla Relazione di Macedonio Melloni alla svolta di Akio Morita affronta la vicenda Leica come una delle quattro svolte senza ritorno della tecnologia fotografica di tutti i tempi. Anche qui, una analoga visione originaria, non tanto degli apparecchi in quanto tali, ma della loro influenza sulla fotografia, con collegamento sociale e di costume, sottolineato da un affascinante apparato di illustrazioni, in una certa misura anticipatorio di quello, ben più denso e robusto, di Ninety Nine Years Leica. Ma lo spirito, il punto di vista, l’occhio critico sono identici. Lo rileviamo senza alcuna autoreferenzialità, ma con onestà intellettuale, la nostra di sempre. Allora: sia in relazione alla propria materia dichiarata, sia per ulteriori valori assoluti e inviolabili, Ninety Nine Years Leica è una monografia irrinunciabile. Soprattutto chi vive e interpreta la fotografia tutta con intensità e consapevolezza, oltre che coscienza, non dovrebbe (potrebbe) farne a meno. Ovviamente, l’edizione corrente è in inglese (o in tedesco), che limita l’avvicinamento ai testi, ma non sono escluse iniziative private di traduzione: delle quali siamo sostenitori. Speriamo. Racconto epocale di parole e immagini. ❖
Nel 1961, si è raggiunto il numero di matricola 1.000.000 (Leica M3 Terzo tipo, riservata a Ludwig Leitz): un milione di Leica dopo l’originaria Leica I, del 1925, successiva i prototipi Leica 0 Nullserie, del precedente 1923. In Ninety Nine Years Leica, la vicenda è sottolineata dalla storia di un collezionista americano, che, possedendo un esemplare Leica I con matricola 213, ha ricercato e trovato la Leica M3 con numero di matricola 1.000.213. Quindi, ha richiesto una targa automobilistica analogamente personalizzata: Leica 213. Retroscena delle Leica con numeri di matricola particolari, donate a personalità, sono stati raccontati in FOTOgraphia, dell’aprile 2006.
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MATERIA
DEL SOGNO Nino Migliori a Palazzo Fava. Antologica si offre e propone come la più ampia e articolata mostra degli ultimi anni, allestita con le opere di uno tra i più imprevedibili e multiformi artisti nel campo della fotografia. Nato a Bologna, città che ora lo celebra, fino al ventotto aprile, Nino Migliori è oggi considerato un vero architetto della visione, al culmine di un percorso artistico di grande rilievo a livello internazionale
Orantes (installazione); 2011-2012.
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di Caterina De Fusco
C Da Muri; 1973.
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redo che la Fotografia sia come tutta l’Arte: un vero e profondo atto d’amore. Ma, per compiere un atto d’amore, bisogna avere l’umiltà di eseguire ricerca. Fare ricerca corrisponde a riflettere sul perché dell’emozionarsi, che reca con sé l’agire. Agire: il vero “agire” è atto di pancia, perché la pancia ha in sé l’istinto. L’istinto: nell’istinto vive il genio. Fino al prossimo ventotto aprile, a Bologna, a Palazzo Fava, l’antologica di Nino Migliori permette di entrare nel suo mondo immaginifico. Penetrare nell’immaginario mondo del poliedrico autore, lasciandosi andare al brivido dell’emozione. Quando inquadra, Nino Migliori “sente”; infatti, l’impulso che lo conduce alla costruzione fotografica nasce prima nella sua pancia, che nella sua mente. Anche Michelangelo e Albert Einstein sapevano che l’opera non è partorita dalla causa e dalla sua conseguenza, ma dall’istinto “interiore”, che si genera grazie al collegamento con il Tutto. Tutto. Nino Migliori indaga, penetra, entra nei molteplici aspetti del reale, e naturalmente li disvela. Disvelare in fotografia è disvelare se stessi, è entrare in perfetta sintonia con il proprio Io interiore. Solo allora nascono opere geniali. Il genio è di chi colloquia con se stesso, e dunque con il mondo che gli è d’intorno.
Strade, piazze, città, mura, natura, costellano i piani di Palazzo Fava. Come ricercatore sa, la natura è grande maestra, ma Nino Migliori non si può fermare alla sola osservazione del reale, escava dall’antico, raccoglie la memoria dell’antico. Il suo occhio conosce, ha vissuto, ha vibrato di cultura filmica neorealista, così come ha indagato il dipingere di ar-
tisti della sua terra natale: Annibale Carracci, Guercino, Giorgio Morandi. Umilmente, Nino Migliori visita, indaga il lavoro, la tecnica dei suoi predecessori, non omettendo nulla di ciò che può aiutarlo nelle sue ricerche fotografiche sperimentali. La sperimentazione è parte integrante di un genio, così Nino Migliori, naturalmente attento visibilista, unisce le proprie intime pulsioni con il cat-
turare quei particolari, vuoi pittorici vuoi filmici, integrandoli nella sua forte “identità” personale. Fuoriuscita di identità attraverso un semplice gioco di estroflessione, di cosa si vive dentro. Capacità di metter dentro ed estroflettere, per poter creare con “semplicità” immagini suadenti, persuasive, che invitano gli spettatori a “entrare dentro”, per comprendere, per “comprendersi”. Chi fa sperimentazione annulla il tempo, vive al di là; e l’antologica di Nino Migliori, che riceve a Bologna degna accoglienza in uno storico palazzo seicentesco, rivela quanto la fotografia sia parte integrante della comunicazione visiva dell’oggi, specie quando si palesa come atto d’amore. La mostra ripercorre molteplici aspetti della sua attività fotografica, a partire dalle immagini in bianconero degli anni Cinquanta, quelle più conosciute dal pubblico. In queste, l’autore compare in tutta la propria forza compositiva nei sapienti e bilanciati equilibri di luci, ombre, pieni-vuoti, che mostrano la sua profonda conoscenza del cinema neorealista. Indagini su figure, volti, strati sociali, che non risparmiano la crudezza realista. Poi, il suo interesse per la sperimentazione sui e con i materiali, come mostrano le immagini della serie Significazione, del 1978, dove Nino Migliori indaga la “texture” dell’incisione dell’Ecce Homo, di Guercino, pervenendo a risultati assai vicini all’Optical Art, da pochi anni ritornata alla ribalta nell’arte contemporanea (come han-
Notturno dall’Asinelli; 1958.
I luoghi di Morandi (da Paesaggi immaginati); 1985.
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BEPPE BOLCHI
NINO MIGLIORI, FOTOGRAFO D’ARTE
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Antonio Migliori (amichevolmente Nino) è nato a Bologna, il 29 settembre 1926. Il suo curriculum di studi è estraneo alle arti visive: dopo aver conseguito il titolo di Perito Industriale Elettronico, si iscrive alla Facoltà di Economia e Commercio, che abbandona presto. L’interesse per la fotografia prende avvio intorno ai vent’anni, nel 1948. Allestisce un proprio laboratorio di stampa bianconero, che progressivamente attrezza in modo articolato. In apparenza, è un fotografo non professionista, perché non inquadrato tra i canoni del mestiere, oltre che estraneo al fotogiornalismo in auge in quei momenti. Come tanti fotografi del tempo, nel 1956, compie un viaggio fotografico nel sud d’Italia, un percorso tra Campania, Basilicata e Calabria. Nel 1957, riceve dal Comune di Capalbio l’incarico di realizzare un servizio fotografico sulla Maremma. Nello stesso periodo, per un consorzio di architetti bolognesi, realizza un reportage sulle costruzioni del Delta padano. La partecipazione di Nino Migliori ai concorsi fotografici, ieri più di oggi (ma ancora oggi) prassi inviolabile di tanti percorsi d’autore, è datata dal 1950 al 1958: curioso per natura e sperimentatore per vocazione, in questi anni utilizza e applica numerose tecniche e materiali. Alla fine degli anni Cinquanta, si registra un momento di pausa, causato da accadimenti esterni ed estranei alla fotografia, che perdura fino all’inizio dei Settanta, quando riprende il cammino d’autore con proiezioni sempre più accentuate verso l’espressione d’arte e di fotografia concettuale.
no rivelato molte presentazioni mercantili della recente edizione di Arte Fiera, di Bologna). Quindi, si registra il lavoro fotografico che Nino Migliori ha realizzato con tecnica e materiali polaroid, come mostrano I luoghi di Morandi, del 1985, e le Polaoro, del 1989. Nei Luoghi di Morandi, l’artista ripercorre paesaggi dipinti dal pittore, natio della stessa terra, facendo uso di “manipolazioni” sull’immagine, così da affiancarsi ancor più fortemente al lavoro originario su tela. Invece, le Polaoro rimandano alla leggiadria di tecniche miniate e arte di Simone Martini, del Quattordicesimo secolo, esperto in “punzonature” così come Nino Migliori è maestro dell’eleganza nell’uso della foglia aurea, che fa da fondo alle proprie immagini. A piano terra di questa avvincente e convincente Antologica, ci si imbatte negli Orantes, del 2011-2012, e al piano superiore in Elegia della carne, del 2008-2011, che fanno entrambi parte dell’ampio capitolo di Installazioni. Appena si entra nelle autorevoli e nobili sale di Palazzo Fava -sede della mostra-, gli Orantes si presentano come uomini inginocchiati, riversi in avanti, con braccia conserte sul fondo schiena. Semplici oggetti d’uso quotidiano, bottiglie di plastica accartocciate dalle mani dell’artista, che poi getta in bronzo. Un centinaio di queste figure appaiono all’interno di una grande vasca ricolma di sabbia. Sulle pareti laterali, due impianti video proiettano singoli Oranti, emergenti dal buio, che diventano lentamente moltitudine. Una musica li avvolge, trasportando il visitatore in uno spazio mistico, di preghiera. Maestria di un uomo, Nino Migliori, che mostra di esser capace di stare al passo con i tempi, non disdegnando nessun tipo di tecnologia. Infine, Elegia della carne, del 2008-2011, grande omaggio al protagonista della Scuola degli Incamminati dell’Accademia bolognese: Annibale Carracci. Ispirazione all’antico diviene mezzo per il contemporaneo. Il testo della Macelleria (di Annibale Carracci) è eccellente spunto di riflessione sull’antico Memento mori di tradizione secentesca. Quale indagine è più intrigante di quella di mettere il dito nella piaga della corruzione sociale, come del Seicento, così vieppiù del nostro tempo? Nino Migliori compie tale operazione, anni addietro, sicuramente guidato dalla sua mano d’artista geniale, per far riflettere i visitatori sul non senso della nostra attuale “fiera delle vanità”. ❖
Lineamentis (da Moebius); 2008.
Frutta & verdura (installazione); 2006.
Nino Migliori a Palazzo Fava. Antologica. Palazzo Fava - Palazzo delle Esposizioni, via Manzoni 2, 40121 Bologna (051-19936305; www.genusbononiae.it, palazzofava@genusbononiae.it). Fino al 28 aprile; martedì-domenica, 10,00-19,00. ❯ Volume-catalogo Nino Migliori. La materia dei sogni (dalla mostra allestita alla Fondazione Forma per la Fotografia, di Milano, dallo scorso diciotto ottobre al sei gennaio); a cura di Denis Curti e Alessandra Mauro; Contrasto, 2012; 300 pagine 24,5x32cm, cartonato con sovraccoperta; 39,00 euro.
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nel 2004: centoventicinque anni dalla nascita di Oskar Barnack (1879-2004)
Emissione filatelica della Micronesia, del 1999: Leica, “prima macchina fotografica 35mm di successo commerciale (1925)”. È raffigurato il prototipo Leica 0 (Nullserie).
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Leica 0
Prototyp 2
www.newoldcamera.com 51
QUESTA Su struggenti note della chitarra solista di Robby Krieger, alle quali si accoda presto la leggera batteria di John Densmore, che introduce la tastiera di Ray Manzarek, nel 1967, la voce flautata di Jim Morrison intonava «This is the end, beautiful friend / This is the end, my only friend, the end / Of our elaborate plans, the end / Of everything that stands, the end» (Questa è la fine, una bella amica / Questa è la fine, la mia unica amica, la fine / Dei nostri piani elaborati, la fine / Di tutto ciò che esiste, la fine). Con analogo trasporto dei Doors, il canadese Robert Burley ha celebrato la fine della pellicola fotosensibile, andando nei luoghi dismessi dei suoi passati splendori, che ha riunito in una avvincente monografia illustrata (per noi, anche malinconica): The Disappearance of Darkness. Photography at the End of the Analog Era. Questa è proprio la fine. Fine
The Disappearance of Darkness. Photography at the End of the Analog Era, fotografie di Robert Burley; introduzione di Gaëlle Morel e Doina Popescu; saggi complementari e di approfondimento di Robert Burley, Alison Nordström, François Cheval e Andrea Kunard; Princeton Architectural Press (www.papress.com), 2012; 160 pagine 26,9x21,6 cm, cartonato con sovraccoperta; 50,00 dollari.
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È LA FINE
DWAYNE’S PHOTO LAB: L’ULTIMO NEL QUALE SI È TRATTATA LA DIAPOSITIVA KODACHROME, FINO AL 31 DICEMBRE 2010; PARSONS, KANSAS, USA (30 DICEMBRE 2010)
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IN ATTESA DELL’IMPLOSIONE DEI BUILDING 65 E 69; KODAK PARK, ROCHESTER, USA (6 OTTOBRE 2007)
di Maurizio Rebuzzini
P
ubblicata all’inizio dello scorso novembre 2012, la monografia illustrata The Disappearance of Darkness, che si specifica in Photography at the End of the Analog Era, è stata tanto ben accolta nel mondo della fotografia internazionale, da essere già di difficile reperimento, anche presso gli indirizzi online di vendita di libri. Per ora, nulla di tragico o irrisolvibile, ma qualcosa di arduo e problematico. A seguire -facili profeti-, ne prevediamo il rapido esaurimento, che potrebbe magari sollecitare una seconda ulteriore edizione (e altre ancora, forse), oppure potrebbe allungare l’elenco dei titoli fotografici introvabili, pazientemente ricercati da coloro i quali non intendono farne a meno. Personalmente, complice un amico che conosce la nostra attitudine verso il libro fotografico -con interessi che spaziano a trecentosessanta gradi, senza alcuna soluzione di continuità, dalla storia alla contemporaneità, dalle curiosità alle scoperte, dalle visioni fantastiche a lezioni classiche (molte delle quali presentate e commentate anche su queste pagine redazionali)-, ne possiamo parlare e scrivere dopo aver soddisfatto il nostro piacere del possesso, questa nostra autentica necessità. Pubblicata dalla statunitense Princeton Architectural Press (www.papress.com), The Disappearance of Darkness. Photography at the End of the Analog Era è esattamente ciò che il titolo rivela in maniera esplicita e palese; traduciamo in misura adeguatamente teatrale: La scomparsa delle tenebre. Fotografia alla fine dell’era analogica (laddove le “tenebre” di “darkness” identificano -prima di altro- la tenue illuminazione di sicurezza dei processi di produzione, sviluppo e stampa delle pellicole -buio totale- e delle carte sensibili della fotografia chimica).
LA MESSA IN PAGINA Di fatto, si tratta di due libri in uno, almeno di due. Da una parte, conteggiamo e consideriamo i consistenti testi preliminari, che la dicono lunga sull’epopea della fotografia chimica. Dopo una rapida introduzione di Gaëlle Morel e Doina Popescu, rispettivamente curatore delle mostre e direttrice del Ryerson Image Centre, della Ryerson University, di To-
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ART PHOTO STUDIO: CHIUSO PER PENSIONAMENTO; TORONTO, CANADA (2005)
IMPLOSIONE DEI BUILDING 65 E 69; KODAK PARK, ROCHESTER, USA (6 OTTOBRE 2007)
CAMERA OSCURA DI NATHAN LYONS; ROCHESTER, USA (2009)
ronto, Canada, quattro concentrati saggi a tema approfondiscono considerazioni storiche e sociali della fine della pellicola fotosensibile: del fotografo canadese Robert Burley, autore delle immagini del progetto The Disappearance of Darkness. Photography at the End of the Analog Era; di Alison Nordström, curatore senior della George Eastman House, museo della fotografia, di Rochester, Stati Uniti; di François Cheval, curatore del Musée Nicéphore Niépce, di Chalon-surSaône, in Francia; di Andrea Kunard, curatore associato per la fotografia alla National Gallery of Canada, di Ottawa. Dopo di che, consideriamo la lunga e avvincente sequenza di sessantacinque fotografie di Robert Burley. E a queste soltanto ci riferiamo, lasciando le amarezze dei testi ad altri momenti, altre istanze, altri spazi. Quindi, in espressione diretta, consideriamo la monografia propriamente fotografica, con quanto e per quanto proprio la fotografia sia autentica comunicazione, che dalla propria origine visiva consente a ciascuno di decollare verso considerazioni e riflessioni proprie. Così esprimendoci, ribadiamo anche una delle nostre convinzioni, una delle nostre asserzioni (in una qualche misura originaria), che è trasversale a molte delle considerazioni giornalistiche di queste pagine, spesso compilate in forma di saggio. Per propria condizione espressiva, la fotografia supera tempo e spazio. Lo fa con un linguaggio proprio e caratteristico, che è bene riferire non tanto alla sua apparenza a tutti evidente (la cui costruzione potrebbe dipendere da antiche e radicate lezioni della storia dell’arte), quanto alla sua sostanza, ovverosia al suo contenuto. Ciò rilevato, è necessario sottolineare che uno dei principali debiti di riconoscenza dell’espressività fotografica dipende dal teatro, dalla messa in scena, dal suo modo di pronunciarsi, dalla creazione consapevole di una illusione. Osservando le fotografie del progetto The Disappearance of Darkness. Photography at the End of the Analog Era, di Robert Burley, nella loro presentazione monografica, così come osservando tante altre fotografie d’autore, prende vita una teatralità visiva che esclude qualsivoglia ambiente circostante, per dare esistenza alle sole immagini. In una suggestiva sequenza temporale, dal soggetto alla sua abile rappresentazione, dal vero/verosimile alla sua immagine, i passi compiuti dal fotografo diventano nostri: di noi osservatori. In definitiva, nella consistenza del proprio tema dichiarato,
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MAGAZINO DELLE BOBINE DI PELLICOLA; AGFA-GEVAERT, MORSTEL, BELGIO (2007)
queste fotografie evocano parole sentite, fino a chiarirle: «L’anima s’immagina quello che non vede» (Giacomo Leopardi).
C’ERA UNA VOLTA Per dieci anni, nei recenti dieci anni, il fotografo canadese Robert Burley ha girato il mondo, documentando l’abbandono e la distruzione della fotografia basata sulla pellicola fotosensibile: soprattutto, dalle fabbriche di produzione delle stesse pellicole ai laboratori che le hanno trattate chimicamente (www.robertburley.com). Ha scattato in grande formato 4x5 pollici, con una folding Toyo 45A, declinando l’atmosfera del paesaggio moderno, così come lo hanno teorizzato -ciascuno a proprio modo, ma con straordinari punti in comune- autori contemporanei statunitensi ed europei. In questo senso, la contemporaneità del linguaggio fotografico si discosta da molte delle lezioni storiche, avviatesi all’indomani dell’invenzione, che hanno resistito e sono state lessico per decenni. Andando sottotraccia, oltre la superficie apparente, dobbiamo osservare come e quanto il paesaggio, la veduta, si basi su una interpretazione sempre più personale del soggetto inquadrato e composto (in questo caso sull’ampia e brillante area del vetro smerigliato di generose dimensioni). In origine, il paesaggio fotografico dell’Ottocento, e primo Novecento, ha osservato e acquisito con reverenza quasi religiosa nei confronti della natura, tanto che l’autorefotografo ha potuto calarsi nel ruolo di geologo che per la prima volta ha il beneficio di tale vista. Oggi, a distanza di un secolo abbondante, gli stupori originari si sono dissolti. Sia per abitudine, sia perché -nel frattempo- molte antiche meraviglie naturali si sono inaridite, il fotografo paesaggista dei nostri giorni deve fare i propri conti anche con una natura e una cultura che condividono lo stesso impoverimento ideologico. A conseguenza, la scuola dell’osservazione meridiana, del rigore compositivo, dell’inquadratura quasi clinica è diventata stilema rappresentativo, al quale, ciascuno con propri personalismi, si riferiscono i movimenti fotografici contemporanei statunitensi ed europei (e anche in Europa si individuano e annotano tante sottili differenze, altrettanti distinguo, fino alla ripartizione riconosciuta, per esempio, tra il pensiero tedesco e quello italiano). Robert Burley si riconduce più che altro all’esperienza statunitense, che personalmen-
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MISCELAZIONE DEI CHIMICI; BUILDING 13, KODAK CANADA, TORONTO, CANADA (2006)
CATENA DI ASSEMBLAGGIO DEI FILMPACK SERIE 600; POLAROID, ENSCHEDE, OLANDA (2010)
PELLICOLE A RULLO 120 E 220; ILFORD, MOBBERLEY, INGHILTERRA (2010)
te riconduciamo spesso alla fotografia di Joel Meyerowitz [la cui serie Aftermath, da Ground Zero, sulle ceneri delle Torri Gemelle, di New York, è stata presentata e commentata in FOTOgraphia, del novembre 2006 e settembre 2011]. Robert Burley ha applicato questa visione d’atmosfera, fotografando situazioni e luoghi raramente visitati dal grande pubblico -e anche dagli operatori della fotografia-, nei quali, per oltre un secolo, si è praticata e gestita la fantastica alchimia del processo fotografico. Valgano per tutti i riferimenti primari e eclatanti/sensazionali della sede Eastman Kodak, a Rochester, stato di New York, dello stabilimento Polaroid, a Waltham, in Massachusetts, della filiale produttiva Kodak-Pathé, a Chalon-sur-Saône, in Francia, dove -tra l’altro- ebbe successo il primo esperimento pionieristico della stessa fotografia (Veduta dalla finestra di Gras, di Joseph Nicéphore Niépce, del 1826-1827; otto ore di posa). Ne consegue che The Disappearance of Darkness. Photography at the End of the Analog Era è una riflessione elegiaca sulle forme d’arte tradizionali della fotografia nell’era digitale, oltre che una commemorazione vitale di un settore secolare, che sembra essere scomparso durante la notte (ancora “darkness”, in altro senso, in altra declinazione).
FOTOGRAFIA: LA MEMORIA Del resto, pur trasformando le proprie tecnologie, via via adeguate ai tempi, la fotografia non è mai venuta meno ai propri princìpi originari e di percorso linguistico. Così come la sua definizione è stata profetica e non debba essere sconvolta da alcun metodo di lavoro (da chimico a digitale), altrettanto inviolabili sono le sue applicazioni: sempre tenendo conto di una declinazione volontaria e consapevole (le immagini casualmente postate attraverso i social network dei nostri giorni sono altro). Il termine “fotografia” è attribuito a sir John Frederick William Herschel, che già nel 1819 offrì uno straordinario punto fermo alle sperimentazioni verso la natura che si fa di sé medesima pittrice, scoprendo che l’iposolfito di sodio scioglie i sali d’argento non colpiti dalla luce: da cui, la possibilità di fissare stabilmente le copie fotografiche (non ancora “fotografiche”), che in esperimenti precedenti svanivano per ulteriore azione della luce.
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GEORGE EASTMAN MEMORIAL; KODAK PARK, ROCHESTER, USA (2010)
La definizione “fotografia” è suggerita da John Herschel in una lettera del 28 febbraio 1839, indirizzata a William Henry Fox Talbot, e ufficializzata in una sua relazione alla Royal Society (Note on the Art of Photography, or the Application of the Chemical Rays of Light to the Purposes of Pictorial Representation / Nota sull’arte della fotografia, o l’applicazione dei raggi chimici della luce ai fini della rappresentazione pittorica). Fondendo le parole greche phos (luce) e grapho (scrittura), John Herschel unificò ciò che fino allora ciascuno aveva definito a modo proprio, stabilendo una casa comune, nella quale includere l’eliografia di Niépce, il dagherrotipo, i disegni fotogenici di Fox Talbot, i processi che sarebbero arrivati in seguito... l’acquisizione digitale di immagini. La definizione “fotografia” è adeguatamente esplicita della propria azione, sebbene altre identificazioni suonino certamente più affascinanti. Per esempio, nel 1788, lo scienziato giapponese Otsuki Gentaku (1757-1827), stabilitosi in Olanda, descrisse la camera obscura (in giapponese “donkurukaamuru”), chiamandola “shashin-kyo”, cioè “specchio del vero”: e “Shashin” significa ancora adesso fotografia in giapponese. Dunque, specchio del vero... specchio con memoria. Altrettanto lirici furono i cinesi Mo Ti e Chuang Chou (Chuang Tzu). Nel quinto secolo avanti Cristo osservarono che i raggi del sole che passano per una piccola apertura producono un’immagine circolare (foro stenopeico), e si espressero nel senso di “Stanza del Tesoro Nascosto”. In ogni caso, fotografia con memoria e per la memoria. Come declina anche Robert Burley, con il suo attuale The Disappearance of Darkness. Photography at the End of the Analog Era, che compone i tratti di una sorta di trompe-l’œil del ricordo... fotografico.
AL CUORE, ROBERT In parafrasi, da Per un pugno di dollari, film di Sergio Leone, del 1964, con il quale inizia la stagione dei western all’italiana. Il duello finale, nella strada principale del villaggio, contrappone l’eroe Joe (interpretato dall’attore Clint Eastwood) al prepotente tiranno locale Ramón Rojo (interpretato da Gian Maria Volonté, originariamente accreditato con il nome di John Wels): «Al cuore, Ramón. Se vuoi uccidere un uomo, devi colpirlo al cuore».
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AREA DI LAVORAZIONE; BUILDING 13, KODAK CANADA, TORONTO, CANADA (2006)
EDIFICIO DI LAVORAZIONE DELLE PELLICOLE; BUILDING 13, KODAK CANADA, TORONTO, CANADA (2006)
EDIFICIO DI FINITURA DELLA CARTA SENSIBILE; ILFORD, MOBBERLEY, INGHILTERRA (2010)
Comunque, «Al cuore, Robert. Al cuore»: parallelo e richiamo assolutamente intimi. Infatti, per quanto queste fotografie (come tutte le fotografie, del resto) siano intese da ciascuno secondo parametri e intenzioni proprie, la nostra visione individuale della Disappearance of Darkness / Scomparsa delle tenebre è in tanta misura più partecipe. Da una parte, la fotografia è l’unica dimensione esistenziale che occupa la nostra vita e le nostre giornate; da un’altra, simultanea, lo svolgimento del nostro impegno professionale giornalistico in questo settore specifico ci ha fatto conoscere i luoghi fotografati da Robert Burley nei tempi e momenti del loro grande splendore. Non possiamo sfogliare queste pagine con alcuna indifferenza, perché le fotografie che si susseguono una dietro l’altra compongono anche i tratti di un nostro album di ricordi, di un nostro album personale. No, non ci sono rimpianti, e neppure nostalgie senza patria. È giusto e legittimo che i fatti fotografici siano andati come sono andati, si siano svolti come si sono svolti. Non serve recriminare sul disfacimento di un mondo e di tutte le sue filiere, sull’incalzare prepotente di nuove tecnologie che hanno ucciso antiche maestrie e capacità (e sostanziosi redditi di impresa, va sottoscritto). Soltanto: un conto è prenderne clinicamente atto, un altro è toccare con mano la disintegrazione, vederla con i propri occhi, attraverso quelli altrui (di Robert Burley, nello specifico). Avete presente come si presentano i luoghi abbandonati, anche solo da qualche settimana o mese? Non hanno più alcuna traccia delle proprie prosperità precedenti, quando erano attivi e vitali, e mostrano inviolabili i segni dell’usura, della trascuratezza. Del resto, è stato calcolato che se l’Uomo sparisse dalla Terra, le tracce della sua presenza precedente si esaurirebbero in un tempo risibile, soprattutto rispetto la cultura millenaria della specie. Senza manutenzione, tutto andrebbe in crisi. In una manciata di secoli, la Natura tornerebbe sovrana, sovrastando e cancellando tutto. Allora, senza manutenzione, senza vita, questi luoghi sono autentici morti (apparentemente) viventi. Tracce in estinzione di un mondo che si è evoluto in oltre centocinquanta anni di invenzioni e perfezionamenti, per poi soccombere di fronte alla sua ultima tecnologia, che tanto dà, ma troppo ha tolto (e non c’entrano i discorsi sull’immagine e sull’espressività). Questa è la fine. ❖
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Lettura di Angelo Galantini
Q
OLTRE ALICE
Quanti sono i motivi per leggere un libro? Meno di quanti ce ne sono per leggere un buon libro. Siccome Camera oscura, della intraprendente Simonetta Agnello Hornby, è proprio un buon racconto (per quanto breve, ma concentrato), ne aggiungiamo uno: si tratta di una evocazione esplicita della figura di Lewis Carroll fotografo, oltre la sua celeberrima notorietà come autore di Le avventure di Alice nel paese delle meraviglie, spesso contratto in Alice nel paese delle meraviglie, e Attraverso lo specchio e quel che Alice vi trovò, altrettanto frequentemente contratto nel solo Attraverso lo specchio. Al secolo Charles Lutwidge Dodgson (1832-1898), Lewis Carroll è un personaggio quantomeno controverso della storia della fotografia, con valide e motivate imputazioni di pedofilia, trasversali anche alla straordinaria nota critica di Brassaï, inclusa nelle convincenti edizioni di Lewis Carroll. Fotografo e Lewis Carroll. Sulla fotografia, comprensive di suoi racconti e pamphlet sulla fotografia, rispettivamente pubblicate da Abscondita nel 2009 e 2007. In questo avvincente e convincente Camera oscura, che si basa soprattutto su lettere inviate dallo scrittore-fotografo (a margine della sua ufficialità di diacono, matematico e docente) ai signori Mayhew, genitori della piccola Ruth, Simonetta Agnello Hornby compie ampi giri concentrici su questa interpretazione della personalità di Lewis Carroll, osservato dagli occhi e dal cuore di una delle sue bambine (Ruth Matthews), anni dopo il loro incontro originario. Dunque, dal tempo delle fotografie, 1879, comunque venti anni dopo quelle di Alice Liddell (1858), i due giorni della vicenda di Camera oscura, di Simonetta Agnello Hornby, si svolgono nel 1896, quando Lewis Carroll era già sessantaquattrenne. Ovviamente, non riveliamo nulla del racconto, che merita di essere centellinato senza alcuna informazione preventiva sul suo svolgimento e le sue conclusioni, fatto salvo il
Camera oscura, di Simonetta Agnello Hornby (in copertina, dettaglio dal ritratto di Gertrude Dykes, di Lewis Carroll, del 1862); Skira, 2010; 128 pagine 12,3x16,8cm, cartonato con sovraccoperta; 15,00 euro.
contenitore complessivo e ispiratore della personalità del protagonista di richiamo e riferimento. Soltanto, precisiamo che Lewis Carroll non ne esce proprio bene, quantomeno alla luce delle convenzioni sociali dei nostri giorni: altero, supponente, arrogante, presuntuoso... è esattamente tutto quello che cercheremmo di evitare nelle nostre frequentazioni amicali (nel frattempo, trascorsi i decenni, e perfino oltre un secolo, persistono fotografi di altrettanta scortesia, tanti ne abbiamo incontrati: altro discorso). Però, l’autrice Simonetta Agnello Hornby è cortese sia con lui, sia con noi lettori. In postfazione è esplicita. Annota: «Spero che questo racconto dai personaggi immaginari, ma
basato su fatti storici documentati e sulle lettere scritte da Dodgson, possa permettere al lettore di approfondire la conoscenza dell’uomo che ci ha dato Alice nel paese delle meraviglie - indiscusso capolavoro della letteratura mondiale e del tutto privo di morale, come d’altronde fu il suo autore» (dice la Duchessa, nel capitolo IX, Storia della finta tartaruga: «C’è sempre una morale, basta trovarla»; oppure, «Ogni cosa ha la sua morale, se sai trovarla», in altre traduzioni). Però, in immediata precedenza, valutando il morboso rapporto con le bambine -dopo aver rilevato che Lewis Carroll «si trovava a proprio agio soltanto in compagnia delle bambine che fotografava e con cui
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Lettura
Tra le innumerevoli frequentazioni fotografiche dell’ Alice di Lewis Carroll, che attraversano tutta la contemporaneità e storia del linguaggio visivo, merita particolare attenzione il fantastico servizio di moda realizzato dalla celebrata Annie Leibovitz, pubblicato da Vogue, nel dicembre 2003. In avvincenti costruzioni fotografiche, una qualificata serie di stilisti ha posato
giocava» (e nel racconto esige anche un pedaggio dalle sue bambine, «una cosa da nulla [...], un bacio»)-, l’autrice osserva con trepidazione: «Che effetto fa a una bambina essere baciata da un adulto estremamente tattile, che poi la fotografa nuda? E se un’adolescente si fos-
in presentazione di propri abiti: Tom Ford, Nicolas Ghesquiere, John Galliano, Oliver Theyskes (Rochas) -che ripropone la personalità fotografica di Lewis Carroll-, Marc Jacob, Carl Lagerfeld, Jean Paul Gautier, Viktor & Rolf, Christian Lacroix e Donatella Versace. Come è evidente, le affascinanti doppie pagine ripropongono in coincidenza di intenti sia lo stile dell’autrice sia il senso del paese delle meraviglie.
se innamorata di lui? O viceversa?». Insomma, c’è proprio di che riflettere, magari cercando di comprendere lo spirito e il clima dell’Inghilterra vittoriana, di un mondo nel quale l’universo femminile era considerato in maniera assai diversa da come lo intendiamo oggi.
A completamento, e precisazione, è obbligatorio ricordare che le lettere sulle quali si basa il racconto sono state pubblicate nell’ottimo Cara Alice...: lettere di Charles Lutwidge Dodgson / Lewis Carroll, a cura di Masolino d’Amico, edito e stampato da Einaudi, nel 1985. ❖
Sguardi su
di Pino Bertelli (Piombino, dal vicolo dei gatti in amore, 20 volte novembre 2012)
ALEXANDER GARDNER
B
Bagatelle per un massacro della fotografia. La fotografia consumerista è una sorta di postribolo a cielo aperto, entro il quale e nel quale ciascuno applica la sua marchetta e ognuno è parte di un gioco giocato nel consenso e nel successo tenuti a libro paga di saprofiti dell’immagine fotografica. La fotografia è sempre stata una forma di comunicazione, anche artistica, genuflessa ai dettati della disumanità predominante. Il divenire davvero umano della fotografia supera il reale dal quale parte e crea il proprio destino sulle rovine della menzogna e della mediocrità. L’abitudine a servire per essere garantiti da quelli che diffondono il terrore sociale riversa lo spirito della delazione e la tolleranza diventa una gabbia dello spirito. Del resto, «Per la Tolleranza ci sono le apposite case» (Paul Claudel), mai chiuse, semmai trasformate in salotti della “buona nobiltà” o strade di periferia frequentate da padri di famiglia timorati di Dio, dello stato e magari austeri sostenitori delle sinistre al potere (una nomenclatura di scagnozzi).
MERD DE LA PHOTOGRAPHIE Merd de la photographie. La vita quotidiana è una lotta giornaliera (o una remissione dei peccati), e va combattuta con armi che non possono essere quelle degli aguzzini che vogliamo sradicare. La fotografia, dunque, è un dispositivo creativo che figura la libertà, la giustizia, i diritti delle persone, o è soltanto un palcoscenico (nemmeno troppo bello) sul quale si esibisce il buffone, per meglio onorare il re. Avvolgere lo spettacolo del crimine istituzionalizzato (e viceversa) nella carta straccia della fotografia, dell’ideologia, della religione (o della tirannide finanziaria dei mercati globali) significa ripulire l’infamia che si portano addos-
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so: «Erigere un memoriale della barbarie non è certo il modo migliore per disfarsene» (Raoul Vaneigem). Tutto vero. Che bello! Ogni manciata di secondi muore un bambino per fame, guerra, mancanza di medicinali o semplicemente mangiato da un cane o da un avvoltoio... e la fotografia, invece di denunciare i responsabili dell’assassinio, si abbandona alle prediche filistee della crescita mondiale delle banalità. I fotografi sono famelici di celebrità, come i ratti su un cumulo di spazzatura.
in forniture d’armi o altre merci, per alzare gli indici dei profitti -nelle quali impera il martini con le olive (mancano i bulloni, avrebbe detto con sarcastica ironia il mio amico Ando Gilardi)-, la fotografia di frontiera ha avuto i propri lustri, e ancora a qualche arredatore (o tesoriere di qualche fazione politica) interessa esporre le sue gesta (in dimensioni ciclopiche) nel corso di fiere elettorali, fondazioni bancarie, primarie politiche (con un notevole ritorno economico rubato alle casse dei partiti): tutta gente che andreb-
«Oggi il mondo è pieno di miserabili, e la loro angoscia non ha più alcun senso. La nostra epoca, del resto, è un’epoca di miseria senz’arte; una cosa penosa. L’uomo è nudo, spogliato di tutto, anche nella fede in se stesso. Non voglio essere né il capo né il gregario di nessuno» Louis-Ferdinand Céline Insieme alla fotografia emozionale, inviata attraverso il Web dai soggetti in rivolta, i fotografi dei conflitti sociali sono i soli degni di essere tenuti in considerazione: il resto è smarrimento, prodotto commerciale, che nulla ha a che fare con la visione di sacralità o commozione alla quale giungono i fotografi della deriva... che sono i poeti del dissidio e della disperazione lucida, e nelle loro opere il giusto incontra se stesso e si fa portavoce dell’innocenza tradita. Motto di spirito. Nella storia della fotografia dispensata, o solo esposta in gallerie specializzate
be processata all’istante per complicità con rapine e crimini commessi contro l’umanità. Invece, sono ancora lì, sul ballatoio della connivenza mafiosa e del tradimento popolare, in attesa che venga data loro la sorte che meritano. La luce degli dèi si spegne sotto i cadaveri dei loro miti.
DELLA FOTOGRAFIA DI FRONTIERA Della fotografia di frontiera e di Alexander Gardner: di origini scozzesi, è stato uno dei grandi fotografi che hanno immortalato la “frontiera americana”. Verso la fine dell’Ottocento, lo storico Frederick Jackson Tur-
ner (1861-1932) espose in una relazione accademica la teoria della “frontiera” come condizione indispensabile per comprendere la storia degli Stati Uniti d’America. Sostiene che, mentre le altre nazioni si sono sviluppate conquistando i popoli vicini, quella gente, che aveva trapiantato la vecchia Europa tra la costa atlantica e i monti Allegheny, si è forgiata nella solitudine delle immense pianure del West: qui il colono «È vestito all’europea, ha strumenti europei, viaggia e pensa all’europea. La grande distesa solitaria lo tira giù dalla carrozza ferroviaria e lo mette su una canoa di betulla. Lo spoglia dei vestiti della civiltà, lo veste con la casacca del cacciatore e gli mette ai piedi i mocassini di daino. Lo spinge nella capanna di tronchi d’albero del Ciroki e dell’Irochese e lo circonda di una palizzata indiana. Il colono ha già seminato mais e lo ha arato con il legno appuntito; ora, lancia grida di guerra e scotenna nel più puro e ortodosso stile indiano. Per dirla in breve, alla frontiera l’ambiente è, agli inizi, troppo violento per l’uomo bianco. Questi deve accettare le condizioni che trova o perire, e così si adatta alla radura e segue le piste degli indiani. A poco a poco, trasforma le solitudini deserte, ma il risultato non è la vecchia Europa, lo sviluppo dell’originario germe sassone, il ritorno all’antichissimo ceppo germanico. Nasce con lui un prodotto nuovo: l’americano» (Frederick Jackson Turner, La frontiera nella storia americana; Il Mulino, 1959, rieditato nel 1967 e 1975). Tutto vero. Sovente citata nei film di John Ford, Anthony Mann, Delmer Daves, Raoul Walsh, Sam Peckinpah e Clint Eastwood, la filosofia della frontiera si diffonde in territori aperti all’azzardo, all’espansione, alla scoperta, alla conquista dell’Ovest. Fino ai primi de-
Sguardi su cenni del Novecento, ha rappresentato uno spazio incontaminato, un invito al viaggio, alla costruzione di nuove comunità, nelle quali l’individualità era la legge e la gente andava a fondare una nuova civiltà secondo i propri istinti. Le guerre indiane -che qui non trattiamo- sono la parte feroce di questo spirito d’avventura, ma non sono stati i pionieri, i cacciatori di pelli, i cercatori d’oro, i mandriani a commettere un genocidio mai dimenticato... è stata la politica corrotta dei governi di Washington e i fucili dei “lunghi coltelli” o delle “giacche blu” (mai veramente smascherati) a tingere di sangue le praterie incontaminate del West. Gli scalpi dei nativi americani venduti come souvenir nei mercati delle città (anche le più civilizzate) erano opera di europei venuti a cercare fortuna e ricchezza nel grande paese. Va detto. Alexander Gardner nasce a Paisley, in Scozia, il 17 ottobre 1821, poi la famiglia si trasferisce a Glasgow. A quattordici anni, il ragazzo intuisce che la scuola non fa per lui e diventa apprendista gioielliere. Si avvicina alle idee socialiste di Robert Owen e sogna di far parte della comunità utopica di New Harmony, che Robert Dale Owen (omonimia) e Fanny Wright avevano fondato in Indiana, negli Stati Uniti. New Harmony è stato un esperimento sociale, nel quale tutto era di tutti, che non durò a lungo, anche per il boicottaggio dei mercanti e dei governanti; tuttavia, i contributi al progresso sociale e alla ricerca innovativa delle coltivazioni di New Harmony sono ancora riconosciuti tra i più importanti nella storia degli Stati Uniti. Con la raccolta di fondi, il giovane Alexander Gardner contribuisce alla crescita di questa università della terra. Lavora per la Clydesdale Joint Agricultural & Commercial Company, che si occupava dell’acquisto di terreni negli Stati Uniti. Con il fratello James e altri compagni, nel 1850, viaggia in terra americana e collabora con la comunità Monona,
a Clayton County (Iowa). Alexander Gardner torna, quindi, in Scozia, per raccogliere altri aiuti economici e reclutare simpatizzanti. Acquista il giornale Sentinel Glasgow, che pubblica ogni sabato, e lì scrive editoriali su riforme sociali e articoli a fianco delle classi sfruttate e oppresse. Nell’estate 1851, al Crystal Palace, di Hyde Park, a Londra, Alexander Gardner visita la Great Exhibition of the Works of Industry of all Nations (Grande Esposizione delle opere dell’Industria di tutte le Nazioni), la prima esposizione universale, e resta folgorato dalle fotografie di Mathew B. Brady. Comincia a lavorare con la macchina fotografica e, nel Sentinel Glasgow, dà spazio a immagini e recensioni sulla fotografia. Nella primavera 1856, emigra negli Stati Uniti. Porta con sé la madre, la moglie (Margaret) e i due figli. Arriva alla colonia Clydesdale, dove scopre che molti coloni sono affetti da tubercolosi. Anche sua sorella Jessie e il marito muoiono per la malattia. Alexander Gardner lascia Clydesdale e si stabilisce a New York. È esperto nel trattamento fotografico al collodio umido (che, nell’industria fotografica, stava spodestando il dagherrotipo e la calotipia), e trova lavoro come fotografo nel laboratorio di Mathew B. Brady. La cecità progressiva del titolare gli permette di occuparsi dello studio del maestro, e nel 1858 va dirigere la galleria di Mathew B. Brady, a Washington. Diventa un ritrattista di valore. Allo scoppio della guerra civile, lo studio fotografico invia sui campi di battaglia decine di fotografi e aiutanti, per documentare il conflitto, tra questi ci sono lo stesso Alexander Gardner e Timothy H. O’Sullivan (altro grande interprete dell’immagine di frontiera [FOTOgraphia, febbraio 2001, giugno 2007 e novembre 2011]). I fotografi viaggiavano con la camera oscura appresso, e sviluppavano le lastre al collodio umido sul posto. Alexander Gardner viene inviato al seguito del generale George B. McClellan, che co-
manda l’esercito del Potomac. Gli viene concesso il grado di capitano. Fotografa con una certa dose di coraggio le battaglie di Antietam (17 settembre 1862), Fredericksburg (11-15 dicembre 1862, il primo scontro di trincea della storia), Gettysburg (dal Primo al 3 luglio 1863) e l’assedio di Petersburg (da 15 giugno 1864 al 25 marzo 1865). Per la cultura visiva dell’epoca, le immagini di Alexander Gardner della guerra di secessione erano piuttosto crude; alcune sono addirittura una ricostruzione teatrale inscenata dal fotografo sui campi di battaglia. La più studiata e famosa è The Home of a Rebel Sharpshooter (tradotto in La postazione di un cecchino o Casa del cecchino). Quando Alexander Gardner torna nei luoghi dove era avvenuta la battaglia di Gettysburg sono già passati due giorni; così, prende il corpo di un soldato morto, lo mette in una postazione da cecchino, rovescia la faccia verso la macchina fotografica e appoggia il suo fucile alle rocce. Il risultato è buono, e in linea con altri “falsi” di maestri della fotografia, che qui non vogliamo ricordare (tanti ce ne sono stati). Ciò che conta in fotografia, come nella vita, non è solo la nuda verità, ma anche, e spesso è migliore, l’estetica della bellezza o della felicità dei passatori di ogni arte, che continuano a sognare la libertà, degna solo per chi la sa conquistare. Tuttavia, Alexander Gardner poteva risparmiarsi queste parole, relative a un tempo successivo, che gli vengono attribuite (saranno veramente sue?): «Il diciannove novembre, l’artista partecipò alla consacrazione del cimitero di Gettysburg, e visitò nuovamente la “Casa del cecchino”. Il moschetto arrugginito dalle molte tempeste era ancora appoggiato contro la roccia, e l’ossatura del soldato laico posava indisturbata sull’uniforme rovinata, così come la fredda morte si era posata quattro mesi prima sul corpo. Nessuno di coloro che andava su e giù per i campi per seppellire i morti, lo
aveva trovato. “Scomparso” era tutto ciò che si sarebbe saputo di lui, e una madre potrebbe essere ancora in attesa del ritorno del suo ragazzo, le cui ossa, sconosciute e sole, giacciono tra le rocce di Gettysburg». Comunque la si legga, la fotografia di frontiera di Alexander Gardner (inclusa The Home of a Rebel Sharpshooter) resta alla base della scrittura fotografica come architettura dell’umano. Nel 1865, Alexander Gardner è il solo al quale è permesso di fotografare David Herold, George Atzerodt, Lewis Payne (Lewis Thornton Powell), Mary Surratt, Michael O’Laughlen, Edman Spangler e Samuel Arnold, arrestati con l’accusa di cospirazione e complicità nell’assassinio di Abraham Lincoln (sedicesimo presidente degli Stati Uniti, il primo eletto del Partito Repubblicano), ucciso con un colpo di pistola alla nuca dall’attore di teatro shakespeariano John Wilkes Booth, simpatizzante sudista, il quattordici aprile. Il sette luglio, Alexander Gardner fotografa -a giusta distanza- l’esecuzione di David Herold, George Atzerodt, Lewis Payne (Lewis Thornton Powell) e Mary Surratt (la prima donna a essere giustiziata negli Stati Uniti); gli altri accusati ottennero pene detentive. Nella cloaca di Internet, si possono comprare perfino pezzi di corda (non sappiamo quanto autentici) della prima donna condannata all’impiccagione dal Governo Federale degli Stati Uniti d’America, Mary Surratt, appunto, alla quale Robert Redford ha dedicato un film a dire poco straordinario, The Conspirator (2010), disertato al botteghino, con Robin Wright nella parte protagonista. Dopo la fine della guerra civile, Alexander Gardner scatta fotografie di criminali, banditi, ribelli nelle carceri, diventa il fotografo ufficiale della Union Pacific Railroad, documenta la costruzione della ferrovia in Kansas e allarga il proprio interesse ai nativi americani. La bellezza epica delle sue fotografie mostra l’infrenato amore per
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Sguardi su gli ultimi, e contiene un’intimità sofferta, una compiuta espressione di amore verso la vita. Muore a Washington, il 10 dicembre 1882, a sessantuno anni.
SULLA FOTOGRAFIA DI FRONTIERA Va riconosciuto: quando non è riuscita, come nelle immagini di Mathew B. Brady, Timothy H. O’Sullivan, Alexander Gardner e Edward Sheriff Curtis, la fotografia di frontiera è solo un altro modo di vedere e fotografare la paura, il terrore, l’indulgenza... e non porta ad altro che alla mendicità di volgari simulacri. La luce della speranza emerge soltanto là dove sono fotografati i valori della persona e non gli interessi della classe dominante. Ciò che è difficile è trovare la fotografia che apre alla vita buona o alla caduta, che separa l’essenziale e il temporale. A entrare nel rizomario delle fotografie di Alexander Gardner, si resta affascinati da tanta compiutezza estetica. Le immagini delle battaglie della guerra di secessione sono popolate di segni del dolore, e l’uomo, non importa se è il nemico, è sempre ritratto (anche nella morte) con sofferta dignità. I soldati, i vincitori, i generali fotografati da Alexander Gardner sono fissati sulle lastre con eguale passionalità veridica, ma da ogni ritratto fuoriesce sempre (o quasi) l’uomo e non il condottiero o il profeta (anche quando si tratta di Abraham Lincoln). Nelle fotografie di Alexander Gardner c’è un’attenzione ai corpi, all’ambiente, ai caratteri... una profondità della narrazione figurativa, una simmetria formale che promette una qualche epifania o evento, nel quale tutto si capovolge in tenerezza, in comprensione o malvagità di ciò che avviene di fronte alla “scatola fotografica”. È una misura del vivere ai margini della vita sociale e al riparo dalle nevrosi collettive e dalle ambizioni personali... riflette il malessere di un’epoca dove sognare spesso significa scippare alla follia del mondo la saggezza o la bontà dispersa e saccheggiata della vita reale.
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La ritrattistica dei nativi americani è tra le meno estetizzanti che ci è capitato di studiare: i soggetti sono fotografati -sovente in studio- nella loro freschezza ingenua, mai caricaturale; e Alexander Gardner mostra attenzione alla loro fisicità etica, piuttosto che alla morale folcloristica contrabbandata dai gazzettieri del momento. In queste fotografie, tutto è meravigliosamente autentico e l’insieme del lavoro si può leggere come testimonianza della crudeltà degli uomini contro i propri fratelli. Si tratta di una reticolazione di memorie, una ballata collettiva, un’unità magica che sborda da quei volti austeri e risuona contro la colpevolezza dei grandi interessi finanziari e politici, i veri responsabili di uno dei più grandi massacri (rimasti impuniti) della storia. Quando Alexander Gardner è chiamato a fotografare i complici dell’assassinio di Abraham Lincoln -David Herold, George Atzerodt, Lewis Payne (Lewis Thornton Powell), Mary Surratt, Michael O’Laughlen, Edman Spangler e Samuel Arnold-, e poi l’impiccagione di David Herold, George Atzerodt, Lewis Payne (Lewis Thornton Powell) e Mary Surratt, affabula (credo) alcuni ritratti tra i più belli e sentiti dell’immaginale fotografico. Le fotografie dei cospiratori che Alexander Gardner riprende nella prigione di Washington sono toccanti: i giovani cospiratori fanno trasparire il coraggio, lo sdegno, la forza di un’idea di libertà, o anche di follia ideologica, e rovesciano il fatto di cronaca in alterità di sentimenti radicali che il carcere a vita o l’impiccagione non riescono a cancellare dalla facciata buonista e ipocrita dell’universo mondo. I cospiratori sono fotografati con i ferri ai polsi, ben vestiti, facce aperte, quasi mai guardano in macchina. Ciò che più conta, sembrano impassibili di fronte al fotografo e agli uomini che li hanno giudicati. In alcune immagini, Alexander Gardner evita di far vedere anche i ferri; tuttavia, non trascura una certa emotività descrittiva, come quan-
do raccoglie l’impassibilità dei volti e lo sguardo dei cospiratori deviato al di là delle sbarre, oltre il termine della vita. Anche l’esecuzione degli impiccati è di notevole pienezza estetica. I tre uomini e la donna sono vicini alla forca, e il boia (il capitano Christian Rath) è poco dietro; nel coro degli ospiti, c’è anche il reverendo Gillette; una fila di soldati incuriositi sovrasta la loro impiccagione. Una prima immagine fissa i congiurati sul patibolo, con i cappucci in testa, una piccola folla intorno e qualche ombrello delicatamente aperto sotto un cielo nuvoloso. La seconda, la più atroce, coglie i condannati appesi alle corde: i corpi sono mossi e sembrano dibattersi, ondeggiare pietosamente ai piedi dei loro esecutori. L’impalcatura di legno ricorda una quinta teatrale di provincia, dove ciascuno recita la propria parte (né di vincitori né di vinti, perché l’efferatezza della morte violenta vince su tutto e su tutti). L’immagine coincide con l’atto gelido del capire, forse, che lo spettacolo della forca rimanda all’assassinio legalizzato. La verità è tutta in quel rituale, che sembra quasi sacro, e nulla è rimasto immutato di quel dolore antico, solo il cappio del boia e l’irriducibilità dell’eresia. Però, il capolavoro e l’immagine-chiave del suo fare-fotografia, Alexander Gardner lo destina a Lewis Payne (nato Lewis Thornton Powell): prima che venga giustiziato, fotografa il ragazzo nella cella, a ridosso di un pezzo di tenda sgualcita... quasi un sudario dei poveri. Una luce bianca lo avvolge e lo depone davanti alla macchina fotografica nell’incantesimo liberatore del quale dispone la favola. In principio, il ragazzo evita l’impatto con la camera di Alexander Gardner... l’immagine è sbilenca, sembra affrettata, irrisolta... non riesce a restituire l’attimo fuggente. Nella seconda lastra, Lewis Payne si volta e getta lo sguardo al di sopra del fotografo... e tutto diventa magicamente vero. È bello, il ragazzo... di una bellezza fuori del contingente e del
gesto estremo. I ferri ai polsi, le mani abbandonate sulle gambe, i capelli un po’ spettinati, la faccia da angelo ribelle, il corpo asciutto, quasi sereno al vuoto che avanza, gli conferiscono un’aura sdrucita di felicità a venire, e vanno a comporre l’immagine fertile/androgina di uno dei ritratti immortali dell’intera storia della fotografia. L’icona di Lewis Payne contiene la medesima bellezza aurorale (per niente maledetta) di Louis Dodier, detenuto (forse è una scena ricostruita, ma poco importa), fotografato dal Barone Louis Adolphe Humbert de Molard, nel 1847 (dagherrotipo) [Ne abbiamo trattato nel nostro Fotografia situazionista della rivolta. Dal sessantotto alle attuali insurrezioni nel mondo arabo; Mimesis, 2011. Qui abbiamo scritto: «La fotografia autentica è una lingua senza generi, esprime una fenomenologia del fantastico o del profondo e conferisce a una poetica androgina dell’esistenza quel fare-anima che è proprio di tutte le rivendicazioni sociali... anche quando si diversifica, la fotografia resta una sola e quando è grande esprime la memoria (ferita) di un’epoca»]. A volte anche un aristocratico “senza catene” riesce a vedere ciò che molti esteti dell’immagine celebrata non sono riusciti nemmeno a sognare! Alexander Gardner aveva capito, e bene, che la fotografia incorporata nel tessuto della vita vissuta (e pagata a caro prezzo) è saggezza, passione, dissipazione, arte. La bellezza eversiva di questo ragazzo dell’Alabama, mandato a morte -salito al patibolo con calma e silenzioper avere osato attentare alla deposizione di un potente, basta a certificare l’autorialità di ciò che è detto e fotografato con il linguaggio poetico della verità. Ciò che si lascia tramandare con l’immagine (anche del cinema) è di altra natura rispetto alla parola, al canto, al disegno e alla carta stampata, e costituisce il fondo eversivo dell’utopia (dell’indicibile) che si fa storia. ❖