FOTOgraphia 190 aprile 2013

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ANNO XX - NUMERO 190 - APRILE 2013

In mostra a Modena TRE STORIE VERE

Guerra del Mali RITRATTI DA UN CAMPO PROFUGHI


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ANNO XX - NUMERO 190 - APRILE 2013

In mostra a Modena TRE STORIE VERE Guerra del Mali RITRATTI DA UN CAMPO PROFUGHI

ANNO XX - NUMERO 189 - MARZO 2013

World Press Photo 2013 DAVANTI AL DOLORE

Era analogica QUESTA È LA FINE

Abbonamento 2013 (nuovo o rinnovo) in omaggio 1839-2009 Dalla Relazione di Macedonio Melloni alla svolta di Akio Morita

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1914-2013: NOVANTANOVE ANNI BUON COMPLEANNO, LEICA ANNO XX - NUMERO 188 - FEBBRAIO 2013

Davide Medri ASTRATTE MEDRIGRAFIE Alfred Wertheimer ALLE ORIGINI DI ELVIS

RAFAL MALESZYK PAESAGGI DI ANTICHE RADICI

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prima di cominciare CAPO GIUSEPPE. Chief Joseph, tradotto in italiano in Capo Giuseppe, ha guidato la tribù dei nativi americani Nez Perce; è stato fotografato da Edward Sheriff Curtis, nel 1903, nell’ambito del suo ciclopico progetto sui North American Indians [FOTOgraphia, maggio 2009] (qui sotto). Gli si attribuisce l’idea che la terra non appartenga a nessuno... ma a tutti, espressa pubblicamente il 14 gennaio 1879, nella Lincoln Hall, di Washington DC, davanti a un’assemblea di deputati, diplomatici e dignitari. Con alle spalle promesse non mantenute, Capo Giuseppe difese la causa del suo popolo. Era passato meno di un anno da quando i Nez Perce si erano sottomessi ai soldati statunitensi, in una cruda e grigia giornata di ottobre: «Amici miei, mi è stato chiesto di mostrarvi il mio cuore. Sono contento di avere l’occasione di farlo. Voglio che gli uomini bianchi capiscano il mio popolo. «Alcuni di voi pensano che un indiano sia come un animale selvaggio. Questo è un grave errore. Vi dirò tutto delle nostre genti, così poi potrete giudicare se l’indiano è o non è un uomo. Credo che potremmo evitare molti problemi, se aprissimo di più il nostro cuore. Vi dirò a modo mio come vedono le cose gli indiani. L’uomo bianco ha più parole per dire come le vede lui, ma non sono necessarie molte parole per dire la verità. Quello che ho da dire viene direttamente dal cuore e io parlerò con lingua diretta. Il Grande Spirito mi sta guardando e mi sentirà. [...] «I nostri padri ci hanno dato molte leggi, che avevano imparato dai loro padri. [...] «Mio padre, che era il rappresentante della sua tribù, si rifiutò di avere a che fare con questo consiglio, perché voleva essere un uomo libero. Sosteneva che nessun uomo può possedere la terra, e che quindi non può vendere o cedere quello che non possiede». Capo Giuseppe morì nel 1904, venticinque anni dopo aver pronunciato questo discorso, che è ben più lungo e articolato. Era ancora confinato in una riserva, lontano dalla terra dei suoi padri. Il dottor E. H. Latham, il medico ufficiale che lo ha curato nei suoi ultimi quattordici anni di vita, spiegò con parole semplici la causa della morte: «Capo Giuseppe è morto con il cuore spezzato».

Il fotografo è la fotografia che fa! La fotografia autentica è vita! E la fotografia coglie la vita sul fatto -come un assassino-, o è solo cronaca, o, tuttalpiù, “arte” buona per tutte le stagioni del mercantilismo d’autore. Pino Bertelli; su questo numero, a pagina 64 Il Colore, la percezione del Colore, è emozione. Beppe Bolchi; su questo numero, a pagina 40 Si sa dove e quando la riflessione individuale parte, ma non si conosce affatto fin dove riesce ad approdare. Maurizio Rebuzzini; su questo numero, a pagina 56 Detta meglio, forse: l’attualità tecnologica non è per se stessa né “angelo” né tantomeno “demone” (in parafrasi dallo scrittore Dan Brown)... però le sue consecuzioni sono spesso devastanti. Angelo Galantini; su questo numero, a pagina 26

Copertina Dalle Tricromie di Beppe Bolchi, avvincente ricostruzione del Colore attraverso i filtri Rosso Verde e Blu (RGB), l’ingrandimento in dettaglio evidenzia le pennellate di luce, spesso simili a quelle della pittura impressionista, che rivelò la grande capacità di “vedere” e “percepire” come la luce è composta, e quindi definisce il mondo che ci circonda. Ne riferiamo da pagina 34

3 Altri tempi (fotografici) Dal catalogo generale Ambrosio, di Torino, del 1909, otturatore centrale Unicum (Bausch & Lomb Opt. Co.): «D’un costo alla portata di tutti, ben fatto e di grande durata. [...] E possiede un diaframma a Iris»

7 Editoriale Allora. Alla luce delle attualità tecnologiche odierne, quali sono le prospettive della fotografia espressiva e creativa dell’immediato futuro? Se ne dovrebbe parlare, ammesso e non concesso che serva a qualcosa farlo

8 Ciao, Gabriele Gabriele Basilico, a merito considerato tra gli autori più significativi della fotografia contemporanea, è mancato lo scorso tredici febbraio. Un ricordo

10 Notizie Attrezzature, vicende e altre segnalazioni

12 Da un campo profughi Commoventi ritratti a margine della guerra del Mali dal taccuino di un fotografo di strada (Pino Bertelli)


APRILE 2013

RIFLESSIONI, OSSERVAZIONI E COMMENTI SULLA FOTOGRAFIA

17 Vita scandalosa (?) Il film-biografia The Notorious Bettie Page, del 2006, ripercorre la vita della celebre (e scabrosa) modella degli anni Cinquanta, fenomeno dei nostri tempi. Ce ne occupiamo in accordo con i novant’anni dalla nascita (su questo stesso numero, da pagina 58) Ricerca iconografica di Filippo Rebuzzini

22 L’orrifico Witkin In mostra al Museo Nazionale Alinari della Fotografia, di Firenze, Joel-Peter Witkin è un autore controverso. Personalmente, ne prendiamo le distanze. Ma!

24 Erotismo d’oggi Siccome la monografia The New Erotic Photography 2 è adeguatamente qualificata (dall’autorevolezza della curatrice Dian Hanson), il panorama fotografico che descrive è esplicito: tedio e noia. Niente di diverso

32 Rolleiflex 3,5F Dal 1959 al 1979 a cura di New Old Camera

34 Tricromie Attraverso i filtri Rosso, Verde e Blu (RGB), tre immagini singole combinano i colori originari su soggetti immobili: per modulare la gamma cromatica su ciò che si muove di Beppe Bolchi

42 Tre storie A Modena, collettiva di tre autrici internazionali: Zanele Muholi, Ahlam Shibli e Mitra Tabrizian. Attraversamento del dolore dei nostri giorni di Antonio Bordoni

51 Supereroi e dintorni La presentazione della avvincente monografia The Golden Age of DC Comics è un pretesto: fondato sulla riflessione indotta al lettore, il racconto illustrato influenza tanto quanto la fotografia ci accompagna di Maurizio Rebuzzini

58 Novant’anni

Anno XX - numero 190 - 6,50 euro DIRETTORE

RESPONSABILE

Maurizio Rebuzzini

IMPAGINAZIONE Maria Marasciuolo

REDAZIONE Angelo Galantini

FOTOGRAFIE Rouge

SEGRETERIA Maddalena Fasoli

HANNO

COLLABORATO

Pino Bertelli Beppe Bolchi Antonio Bordoni Chiara Lualdi Franco Sergio Rebosio Ciro Rebuzzini Filippo Rebuzzini Ryuichi Watanabe (New Old Camera) Redazione, Amministrazione, Abbonamenti: Graphia srl, via Zuretti 2a, 20125 Milano; 02-66713604 www.FOTOgraphiaONLINE.it; graphia@tin.it. ● FOTOgraphia è venduta in abbonamento. ● FOTOgraphia è una pubblicazione mensile di Graphia srl, via Zuretti 2a, 20125 Milano. Registrazione del Tribunale di Milano numero 174 del Primo aprile 1994. Poste Italiane SpA - Spedizione in abbonamento postale - D.L. 353/2003 (convertito in Legge il 27-02-2004, numero 46), articolo 1, comma 1 - DCB Milano. ● A garanzia degli abbonati, nel caso la pubblicazione sia pervenuta in spedizione gratuita o a pagamento, l’Editore garantisce la massima riservatezza dei dati forniti dagli abbonati e in suo possesso, fatto diritto, in ogni caso, per l’interessato di richiederne gratuitamente la rettifica o la cancellazione ai sensi della legge 675/96. ● FOTOgraphia Abbonamento 12 numeri 65,00 euro. Abbonamento annuale per l’estero, via ordinaria 130,00 euro; via aerea: Europa 150,00 euro, America, Asia, Africa 200,00 euro, gli altri paesi 230,00 euro. Versamenti: assegno bancario non trasferibile intestato a Graphia srl Milano; vaglia postale a Graphia srl - PT Milano Isola; su Ccp n. 28219202 intestato a Graphia srl, via Zuretti 2a, 20125 Milano; addebiti su carte di credito CartaSì, Visa, MasterCard. ● Nessuna maggiorazione è applicata per i numeri arretrati. ● È consentita la riproduzione di testi e fotografie, magari citando la fonte (ma non è indispensabile, né obbligatorio farlo). ● Manoscritti e fotografie non richiesti non saranno restituiti; l’Editore non è responsabile di eventuali danneggiamenti o smarrimenti. Fotocomposizione DTP e selezioni litografiche: Rouge, Milano Stampa: Arti Grafiche Salea, Milano

Rivista associata a TIPA

Ultima osservazione su Betty Page, in occasione dei novant’anni dalla nascita: 22 aprile 1923-2013 di Angelo Galantini

64 Edward Weston Sguardo su un samaritano dell’arte fotografica di Pino Bertelli

www.tipa.com



editoriale A

près moi, le déluge!... Dopo di me, il diluvio. Questo è quanto affermò Luigi XV di Borbone, detto il Beneamato (1710-1774), re di Francia dal 1715 fino alla sua morte. Con questo, pronosticò un periodo di tempesta rivoluzionaria dopo il suo regno, in evidente declino: e così fu, dal 14 luglio 1789. Intervistato a proposito del futuro della fotografia, nel 2007, il fotografo statunitense Tod Papageorge, classe 1940, attivo nell’ambito della street photography e docente, ha ripreso, citandola, questa clamorosa espressione: ipotizzando, così, una fine ormai prossima della fotografia come espressione creativa. Non è detto! Anche se molti indizi potrebbero indurre a tale conclusione. Lontani, ma -allo stesso momento- prossimi a questa visione apocalittica, non sappiamo immaginare l’avvenire della fotografia, nella nostra epoca di rapide trasformazioni e continui cambiamenti. Infatti, al giorno d’oggi, l’idea e ipotesi di Fotografia sono meno chiare e definite di quanto lo sono state in tempi passati. Oggigiorno, i conti vanno fatti anche alla luce dei social network, che si esprimono soprattutto attraverso la condivisione di immagini (ne abbiamo riflettuto sul nostro numero dello scorso novembre, alla luce delle trasversalità espresse dallo svolgimento della Photokina 2012, volente o nolente il più significativo appuntamento tecnologico della fotografia, con proiezioni sulla società nel proprio insieme e complesso e altro ancora). La luce, per dirne una, autentica essenza della fotografia, non ha più alcun segreto per le tecnologie dei nostri giorni: viene interpretata con sofisticazioni un tempo irraggiungibili. Allo stesso momento -un passo avanti e uno indietro-, la nostalgia contemporanea per qualche manualità artigianale e il fascino della registrazione su pellicola hanno favorito e alimentato riscoperte di tecniche antiche, spesso laboriose, altrettanto frequentemente complesse (quantomeno nella propria forma apparente... alla semplice portata di applicazioni semplificate degli smartphone dei nostri giorni e dei corrispondenti tablet). Ora è tempo di riflettere su questo: da una parte tante innovazioni, dall’altra altrettanti programmi che alterano le immagini digitali perfette, rendendole simili a quelle di bassa qualità, per le quali si nutre qualche nostalgia. Riflettiamo su questo, oltre che su tanto altro ancora: oggigiorno, coesistono molteplici intenzioni fotografiche, diversi intendimenti di Fotografia (a ciascuno, il proprio), che si indirizzano in mille direzioni, fino ad elevare ad espressività contemporanea interpretazioni cromatiche sbilanciate, sfocature e non nitidezze formali, simili a molta fotografia del passato (anche remoto). Anche se può sembrare che ogni giorno segni la nascita di una nuova tecnologia fotografica, è bene tenere a mente che la fotografia coincide con l’uso che ne facciamo, e non con l’uso che lei fa di noi (da e con Mary Warner Marien [FOTOgraphia, febbraio 2013]). Maurizio Rebuzzini

Visualizzazione di comodo, per esemplificazione (sotto la superficie della reflex Nikon D4, top di gamma): la creatività fotografica, che oggi è messa in discussione, deve fare i propri conti con la tecnologia degli strumenti dei nostri giorni, che non assolve più soltanto parametri operativi, ma si allunga sull’interpretazione del soggetto, ovverosia della stessa espressione della fotografia nel proprio insieme. E... allora? Ci sarebbe di che discuterne!

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In ricordo di Maurizio Rebuzzini

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CIAO, GABRIELE

Rimane la consolazione di una vita assolta, forse addirittura risolta: misera consolazione, di fronte alla tragicità della scomparsa prematura di Gabriele Basilico, a merito uno dei più validi interpreti della fotografia contemporanea, mancato lo scorso tredici febbraio, a sessantotto anni (era nato il 12 agosto 1944). Una vita durante la quale Gabriele Basilico ha espresso una fotografia di alto profilo, che ha segnato indelebilmente il nostro tempo, creando addirittura uno stilema espressivo che ha fatto scuola. Punto. Considerata la confusione dei nostri tempi attuali, così disordinati e caotici, oltre che estranei alla sostanza dei valori dell’esistenza, come potrebbe il mondo, così come lo conosciamo, operare una distinzione, saggia e precisa, tra ciò che è importante e ciò che sembra importante? Eccoci: è importante! Quando scompare un autore di tanto pregio, qualità e merito, il mondo della fotografia, entro il quale agiamo tutti noi, o al quale -quantomeno- riferiamo la sostanza delle nostre riflessioni, perde una porzione capitale della propria personalità, della propria stessa presenza. Nella struttura della vita, in generale, nulla cambia. Il grano continua a maturare al sole. I fiumi trasportano le loro imbarcazioni e versano la propria forza motrice in una miriade di turbine, le mandrie sono sempre innumerevoli, dovunque gli uomini lavorano, schiavi delle occupazioni per cui molti sono nati. In questo, la prematura scomparsa di Gabriele Basilico -che molto ancora avrebbe potuto esprimere, all’interno della propria vita assolta e risolta- appesantisce però il mondo fotografico in misura consistente e lascia un terribile vuoto, con il quale si dovranno fare conti nei prossimi tempi, esaurita l’emozione del momento, che troppo induce in tentazione. A monte dei meriti che la sua fotografia gli ha elargito, in un processo di ascendenti a doppio senso di marcia (la Fotografia tutta ha ricavato dalla sua azione più di quanto gli

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abbia riconosciuto), Gabriele Basilico è stato un fotografo che ha continuamente riflettuto su ogni azione della vita, ricavandosi sempre il tempo sufficiente per farlo. Ha trascorso una esistenza austera, in mezzo ai libri, nei musei e nei luoghi della sua indagine d’autore. Le conoscenze profonde, pazientemente accumulate su molte cognizioni che potevano anche non avere alcuna relazione tra loro, ma che hanno attivato il suo interesse in tutti i momenti della sua vita, gli sono valse una collocazione di prestigio e vertice nel controverso mondo della fotografia internazionale. Nella vita di ciascuno ci sono momenti nei quali si è portati a pensare che la nostra mente, di solito assorbita in misteriose precauzioni, lasci all’improvviso intravedere alla nostra coscienza una nebulosa previsione di avvenimenti felici, che il destino ci prepara. Chi non ha provato, qualche volta, questa intuizione di certezza inspiegabile? Eccoci di punto in bianco sicuri che tutto andrà a posto. E non si tratta della feb-

Alla fine del 2009, Giart - Visioni d’arte, di Bologna, ha prodotto cinque Dvd dedicati ad autori della Fotografia Italiana, di cinquantadue minuti circa ciascuno. Come tutti i cinque fotografi, Gabriele Basilico è presentato con una efficace combinazione di situazioni operative sul campo e interviste, che hanno ripercorso il suo straordinario tragitto espressivo. Tra tanto materiale disponibile, questo Dvd aggiunge il contatto diretto e trasparente con Gabriele Basilico.


In ricordo

brile certezza dell’uomo in pericolo, né della tenace illusione dell’ottimista: è la convinzione spontanea che il successo delle nostre azioni, grandi o piccole, è lì a portata di mano. Gabriele Basilico ha vissuto con gli occhi... ha intuito subito, non soltanto presto, la soluzione delle sue immagini. La sua profonda capacità di osservazione ha sempre registrato in tutti i particolari quello spettacolo imprevisto e commovente che è la traccia dell’Uomo. Sempre quella sua capacità di vedere le cose e la sua mente attiva hanno afferrato e gustato (e fatto afferrare e fatto gustare) certi particolari con una facile prontezza, che ha sempre stupito chi -come me, per esempio- è fornito di reazioni più lente. L’impressione di bellezza è sempre stata viva ed esultante nella sua fotografia, e ha acuito i suoi sensi. Al culmine di azioni fotografiche a lungo pensate e meditate, in pochi attimi, l’immagine è stata fissata per sempre nella sua mente e memoria, prima ancora che sulle sue pellicole.

Una volta collocato il suo apparato fotografico, inviolabilmente apparecchi a corpi mobili stabilmente fissati su treppiedi, Gabriele Basilico ha metodicamente evidenziato fatti e combinazioni da considerare come chiave risolutiva delle sue rappresentazioni d’autore. Le idee si sono associate spontaneamente e in modo sistematicamente nuovo, fino a trovarsi così ordinate in maniera definitiva prima ancora che si sia compreso il significato del soggetto per se stesso. Gabriele Basilico è stato un interprete di spicco della fotografia contemporanea, in ragione del suo essere stato -prima di tutto e di altro- un infaticabile curioso della vita e del proprio svolgersi, che ha definito in una fotografia dalla quale l’esclusione volontaria della gente è diventato stilema della loro inquietante presenza morale. È stato un fotografo dal vero, per il quale il “vero” è stato la traccia delle esistenze, più che la loro raffigurazione esplicita (propria e caratteristica di altre strade della fotografia).

Gabriele Basilico: Le Tréport; 1985 (dal progetto Bord de mer). «È a Le Tréport che ho forse davvero compreso il collegamento tra l’ampio, minuzioso paesaggio globale della pittura fiamminga del Seicento e la potenza di tono tutto industriale della fotografia: un collegamento tra una visione moderna del mondo e una contemporanea».

Di continuo, accadono attorno a noi cose notevoli, che a volte non siamo in grado di cogliere. Dal che si intuisce che siamo soliti dare molto credito alle nostre percezioni, quando consideriamo come notevoli soltanto le vicende accompagnate da particolari sensazionali. Con l’occhio al vetro smerigliato, sotto l’immancabile e indispensabile panno nero, Gabriele Basilico si è distinto da tutta questa “normalità”, sapendo riconoscere l’essenza implicita di ciò che non si offre come oggettivamente clamoroso. Da cui, e per cui, sono fragorose le sue fotografie, che hanno declinato un linguaggio diretto ed esplicito capace di far arrivare a ciascuno (di noi) l’essenzialità dei soggetti, sia per se stessi sia a pretesto di altre evocazioni e racconti. Tanto ancora ci sarebbe da dire. In questi momenti, tanto è stato detto e ricordato. I miei ricordi personali rimangono tali... personali. E questo è quanto. ❖ Ciao, Gabriele.

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Notizie a cura di Antonio Bordoni

IN CORSA! All’indomani della configurazione Hasselblad Lunar, che ha inaugurato il segmento Luxury della nobile casa fotografica di radici antiche e proiezione contemporanea (come ampiamente commentato nella nostra relazione giornalistica, e altro ancora, dalla Photokina 2012, in FOTOgraphia, del novembre scorso), arriva e si propone una ulteriore versione speciale di straordinario lusso. È stata realizzata una edizione limitata di quattrocentonovantanove Hasselblad H4D-40 con personalizzazioni Ferrari, e relativi logotipi identificativi, che viene presentata nel corso di fastose serate, svolte in location di adeguato richiamo e prestigio. I dettagli e le sfumature di questa iniziativa sono riuniti e raccontati nelle apposite pagine dedicate del sito Internet di Hasselblad, all’indirizzo www.hasselblad.com/ferrari-edition.aspx, dove sono riunite tutte le informazioni sull’iniziativa e dove sono pubblicati avvincenti video di presentazione.

Ovviamente, questa avvincente e lussuosa Hasselblad H4D40 Limited Ferrari Edition conferma l’alta tecnologia originaria dell’apparecchio, completo di obiettivo standard HC 80mm f/2,8, in una finitura rosso fuoco... Ferrari. Oltre i riferimenti fotografici propri e statutari, l’apparecchio sfoggia il leggendario cavallino rampante Ferrari e viene venduto in una custodia con coperchio di vetro, appositamente creata: 21.499,00 euro, il prezzo ufficiale. (Aproma, via Cimabue 9, 20032 Cormano MI; www.aproma.it).

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PROTEZIONE MONITOR. Nella confezione di vendita delle reflex, si trova (quasi) sempre un copri monitor, per proteggere il display Lcd posteriore da graffi e sporco. Normalmente, questi copri monitor standard sono in plastica, e si montano sulla reflex per mezzo di un sistema a scatto, che lascia un intervallo di aria tra il copri monitor e lo stesso Lcd. Dunque, pur svolgendo egregiamente il proprio compito di protezione, questi stessi copri monitor non offrono la massima salvaguardia dal punto di vista della qualità di visione. La piccola intercapedine di aria riduce la luminosità e il contrasto dell’immagine, e la loro realizzazione in plastica non è adeguata alla nitidezza che molti degli odierni monitor sono in grado di offrire. Ancora, con il trascorrere del tempo, la plastica può ingiallire, compromettendo anche la fedeltà cromatica delle visualizzazioni. Insomma, il display Lcd è protetto, a scapito della qualità originaria del monitor, da cui ne consegue una valutazione non adeguata e non corretta dei parametri fotografici della ripresa. Per questo, Mas ha creato una linea di copri monitor realizzati in cristallo ottico infrangibile, che consentono di apprezzare al cento percento la qualità di immagine propria e caratteristica dei monitor delle reflex. I copri monitor Mas sono così sottili da poter essere impiegati anche con apparecchi dotati di display “touch screen”, sono infrangibili, sono trattati UV, per garantire il massimo della fedeltà cromatica, e dispongono di un trattamento anti-riflesso, che preserva la superficie esterna dalle impronte digitali. È come mettere a protezione del display Lcd della propria reflex un filtro fotografico UV (di quelli che, solitamente, si collocano davanti alla lente frontale dell’obiettivo!). La linea dei copri monitor Mas prevede configurazioni dedicate a tutte le reflex digitali attualmente in commercio. Sono anche disponibili copri monitor Mas per alcune Mirrorless e per gli iPhone 4, 4s e 5.

Il montaggio è semplice. Il copri monitor viene fornito con un apposito kit che prevede una salvietta umida monouso per la pulizia del display, strip adesive per l’eliminazione di granelli di polvere residui, una spatolina per l’eliminazione di eventuali bolle d’aria e un panno antistatico per le successive pulizie. Si noti che il montaggio avviene per attrazione elettrostatica, e non prevede l’impiego di adesivi (che lascerebbero tracce, alla rimozione del copri monitor). Sul sito del distributore Rinowa è pubblicato un video dimostrativo, che visualizza le caratteristiche del prodotto e le fasi di montaggio. (Rinowa, via di Vacciano 6f, 50012 Bagno a Ripoli FI; www.rinowa.it).

SCANSIONE RAPIDA. Top di gamma, ed estremamente rapido, il nuovo CanoScan 9000F Mark II, con CCD da 9600dpi, è ideale per la scansione di alta qualità di fotografie, documenti e pellicole: risoluzione ottica massima 9600x9600dpi, per le pellicole, e 4800x4800dpi, per documenti e fotografie. La funzione Auto Document Fix garantisce caratteri di testo chiari e nitidi, mentre le immagini mantengono i colori, toni e contrasti originari. Con un solo passaggio, CanoScan 9000F Mark II è in grado di acquisire fino a dodici fotogrammi di pellicola 35mm (diapositiva o negativa), o quattro diapositive 24x36mm montate. Lo scanner supporta anche il formato pellicola a rullo 120 (massimo 6x22cm). Inoltre, grazie al software in dotazione Canon Enhancement Film Automatic Retouching (Fare) Level 3, può produrre scansioni di qualità anche

da originali degradati da polvere, graffi e altre imperfezioni. Lo scanner CanoScan 9000F Mark II è dotato di una serie di funzioni, per migliorare la facilità di uso. I sette pulsanti EZ, situati sulla parte frontale, consentono una scansione one-touch e possono essere configurati secondo esigenze personali di utilizzo. Inoltre, la conveniente modalità di scansione automatica riconosce immediatamente il tipo di originale da sottoporre a scansione e lo salva come fotografia o documento, utilizzando impostazioni ottimali. Per una maggiore produttività, CanoScan 9000F Mark II offre una velocità di scansione di circa sette secondi per documenti a colori in formato A4 (21x29,7cm), a 300dpi. In dotazione tecnica, il nuovo software My Image Garden assicura una facile navigazione tra le funzioni di scansione, oltre a eccellenti capacità di organizzazione delle fotografie, tra le quali il riconoscimento automatico dei volti. Per una facile gestione dei documenti, My Image Garden è provvisto di riconoscimento ottico dei caratteri di testo (Ocr) e di creazione file Pdf, con la possibilità di aggiungere password di sicurezza ai documenti riservati. L’utile funzione Canon Scan to cloud consente di eseguire la scansione ai servizi cloud Evernote o Dropbox, grazie al semplice tocco di un pulsante. Mentre Stitch Assist permette la scansione di documenti e fotografie A3 (29,7x42cm), che unisce automaticamente in un secondo momento. (Canon Italia, Strada Padana Superiore 2/b, 20063 Cernusco sul Naviglio MI; www.canon.it). ❖



Guerra del Mali

dal taccuino di un fotografo di strada; Burkina Faso, 18 volte gennaio 2013

DA UN CAMPO PROFUGHI A tutti i bambini uccisi nelle guerre, per fame e dalla rapacità di una cosca di arricchiti.

PINO BERTELLI (FOTOGRAFIA DI MARCO PALOMBI)

N

Non ci sono guerre giuste, né guerre sante, né tantomeno guerre umanitarie. La guerra -lo sappiamo- è la continuazione della politica con altri mezzi. Ciò che resta agli uomini, alle donne è il rifiuto di subordinare il proprio destino al corso della storia e inceppare la macchina burocratica, militare, politica e ogni forma di oppressione foraggiata dalla finanzia internazionale. La vocazione totalitaria dell’attuale società mercantile va combattuta a viso scoperto, e il cambiamento dell’intero genere umano non può che nascere dall’indignazione planetaria contro la casta della politica/finanza che determina le condizioni di esistenza. I caratteri oppressivi della società consumerista impongono la rassegnazione dell’attuale stato di cose, e solo una resistenza attiva, etica, libertaria può er-

La guerra del Mali (scoppiata mentre eravamo in Burkina Faso, a pochi chilometri dal Mali) non è solo una guerra tra i fanatici della Jihaˉ d (Esercitare il massimo sforzo) e governativi del Mali -affiancati dalle forze internazionali che fanno capo ai corpi speciali francesi-, è una guerra di ricchi contro i poveri. I fanatici islamisti e una parte di Tuareg hanno cercato di destabilizzare l’area del Sahel, ma -a ben vedere- dietro queste ondate terroristiche si celano grandi interessi finanziari. gersi a difesa della propria dignità. La fine dell’ineguaglianza si avrà soltanto con la fine del privilegio di massacrare, saccheggiare, violentare e restare impuniti. La storia dell’umanità coincide con la storia dell’assassinio e dell’asservimento che cementa oppressi e oppressori. Si tratta di rompere queste catene, e tutto un mondo nuovo da guadagnare. I politici, i padroni, i generali e i preti hanno prodotto un mondo di terrore; ora, tocca agli uomini in libertà cambiarlo.

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trofio situato ai confini con il Mali, ai bordi del deserto del Sahel, quando è infuriata la guerra tra fondamentalisti musulmani e l’insieme delle forze governative internazionali (che dicono di portare la democrazia a colpi di bombe e massacri di civili). Tutti sapevano e tutti sono stati zitti; aerei americani e francesi, carichi di soldati e mezzi, atterravano alle frontiere del Burkina Faso, truppe speciali scorrazzavano sui camion verso il confine, le miniere d’oro in Burkina (sfruttate da multinazionali canadesi) proteggevano i propri interessi, armi alla mano. La fame si vedeva dappertutto, come la paura. Protetti da una scorta armata, con alcuni amici e giornalisti di La Stampa e La Repubblica, siamo andati in un campo profughi Tuareg, allestito dalla cooperazione internazionale nella

Il Mali è il terzo produttore africano d’oro. Inoltre, ci sono giacimenti di uranio, gas, bauxite. Italia, Russia, Inghilterra... si sono messe a disposizione delle truppe francesi, e in poco tempo hanno cercato di spazzare via i Jihaˉ disti. Intanto, la popolazione civile -come in ogni guerra- viene falcidiata, con buona pace dei regimi “comunisti” e delle democrazie dello spettacolo. À rebours. Eravamo in Burkina Faso a preparare un libro in sostegno ai ragazzi di un orfanozona di Dorì: non per il gusto di cercare notizie da prima pagina, ma soltanto per vedere e affrancarsi a quanti soffrono per guerre decise ai tavoli della politica dominante. La guerra non ci piace e la politica dei governi ricchi, come le religioni monoteiste, ci fa schifo. Così, preferiamo mostrare la dignità e la bellezza di un popolo attraverso una manciata di volti. Agli stupidi, lasciamo la convinzione che la guerra e il terrorismo che passano nei telegiorna-


Guerra del Mali

li, o sulla stampa di grande tiratura, sia la verità... tuttavia, nel Web circolano libere informazioni e, malgrado i tentativi di censura che provengono dai centri di controllo (dall’immacolata concezione del potere), nessuno può più imbavagliare la libertà, né la verità. C’è un tempo per disvelare e c’è un tempo per raccogliere e indignarsi... il nostro tempo. In Africa, tutti fanno affari con tutti. Armi, oro, diamanti, gas, acqua, coltan, petrolio, terreni per la seminagione di piante transgeniche, il cui Dna è stato modificato con tecniche di ingegneria genetica (sovente i loro effetti sono risultati devastanti per la distruzione della biodiversità, con conseguenze disastrose per il genere umano, come scrive l’attivista indiana Vandana Shiva)... sono saccheggio delle multinazionali e dei governi (tutti) che sostengono dittatori-fantoccio e si spartiscono le ricchezze del “continente nero” (col sangue dei poveri più poveri della Terra). Tutti stanno al gioco, la Chiesa inclusa, e tutti sono responsabili di cri-

«La società attuale non fornisce, come mezzi di azione, altro che macchine per l’umanità; qualunque siano le intenzioni di quelli che le prendono in mano, queste macchine schiacciano e schiacceranno finché esisteranno. Con quei penitenziari industriali che sono le grandi fabbriche si possono fabbricare solo degli schiavi. E non dei lavoratori liberi, ancor meno dei lavoratori in grado di costruire una classe dominante. Con i cannoni, gli aerei, le bombe si può seminare la morte, il terrore, l’oppressione, ma non la vita e la libertà. Con le maschere a gas, i rifugi, gli allarmi si possono forgiare greggi miserabili di esseri spaventati, pronti a cedere ai terrori più insensati e ad accogliere con riconoscenza le più umilianti tirannie, ma non dei cittadini. Con la grande stampa e il telegrafo [cinema, televisione, telefonia, internet, armi nucleari...] si possono far inghiottire a tutto un popolo, insieme alla colazione o alla cena, opinioni preconfezionate, e quindi assurde, perché anche punti di vista ragionevoli si deformano e diventano falsi nello spirito di chi li assimila senza riflettere: ma con simili mezzi non è possibile suscitare neppure un barlume di pensiero»

mini commessi contro l’umanità. In Africa, l’oppressione sociale è forte, e feroce è il marchio della menzogna religiosa. A pagare con la violazione della libertà, della giustizia e della vita sono sempre le donne, i bambini e gli indifesi. L’organizzazione del potere mondiale (finanziario-politico) è la gogna eretta contro gli ultimi, chi non ha voce né volto. Là dove il potere militare/religioso moltiplica le guerre, il capitale finanziario centuplica i dividendi. I popoli impoveriti sono oppressi dalla dottrina del potere che falsifica tutti i rapporti sociali, e attraverso i partiti, i sindacati, i saperi e i media impone la servitù e la colonizzazione dei mercati globali. A dispetto di quello che i potenti chiamano progresso, «L’uomo non è uscito dalla condizione servile nella quale si trovava quando era esposto -debole e nudo- a tutte le forze cieche che compongono l’universo» (Simone Weil diceva). Una Carta autentica della vita sociale non è stata ancora scritta, né sono mai state praticate

Simone Weil

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Guerra del Mali

Utopie di accoglienza, fraternità, solidarietà, dove gli uomini hanno davvero sconfitto la loro schiavitù e assaporato la felicità più piena. I saprofiti della politica, della finanza, delle religioni monoteiste e dei saperi addomesticati sono i tenutari della cosa pubblica, e chi non sta al loro giogo viene emarginato, carcerato o ucciso. Ripudiamo con disgusto lo spettacolo (mediocre, mafioso, criminale) della menzogna elettorale che rappresentano, e ridiamo del loro terrore di perdere il potere... quando gli uomini in libertà cancelleranno per sempre tutti i nemici del genere umano. La bellezza vi seppellirà. In Africa, la politica saprofita della banche, dei governi forti, dei regimi autoritari e delle religioni monoteiste foraggia rivolte, insurrezioni, colpi di Stato, e la grande industria, gli eserciti, le polizie, la burocrazia e le imposizioni commerciali permettono a una minoranza di privilegiati di soffocare i diritti più elementari degli uomini, e mantengono in ginocchio l’intera umanità. Tuttavia, l’op-

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pressione sociale si porta appresso anche i fuochi di ritorno di uomini e donne in rivolta: saranno loro -prima o poi- che con ogni mezzo necessario si faranno protagonisti della propria esistenza liberata, e lasceranno nel mondo un segno indelebile di bellezza, accoglienza e fraternità. Con queste idee in testa, ci siamo aggirati -fin quando è stato possibile- in un campo profughi Tuareg (Burkina Faso), che ospita quattromila persone fuggite dalla guerra in Mali. È attrezzato per accoglierne oltre ventimila. Lasciamo alla bellezza dei loro volti il rifiuto del carattere oppressivo della società contemporanea. Lì, un vecchio Tuareg ci ha lasciato in sorte un detto: «Nella vita, incontrerai tre tipi di persone: quelle che ti cambieranno la vita, quelle che ti rovineranno la vita e quelle che... saranno la tua Vita». Quando gli uomini si accorgeranno della loro fame di bellezza, di giustizia, di amore, divamperà la rivoluzione nelle strade della Terra. ❖

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Cinema

di Maurizio Rebuzzini - Ricerca iconografica di Filippo Rebuzzini

VITA SCANDALOSA (?)

U

Ufficialmente accreditato in Italia come La scandalosa vita di Bettie Page, il film statunitense The Notorious Bettie Page, del 2005, diretto dalla canadese Mary Harron, non è mai approdato alle sale cinematografiche del nostro paese. Soltanto, si registra la sua presenza al qualificato Festival del Cinema di Torino, nell’autunno 2006, all’indomani del suo straordinario e consistente successo in patria, che annotammo puntualmente il maggio precedente. Autentica biografia di Bettie Page (qui ci accodiamo a questa grafia, anche se preferiamo “Betty”, come in altri nostri interventi precedenti e su questo stesso numero, da pagina 58, in celebrazione dei novant’anni dalla nascita: 22 aprile 1923-2013), in distribuzione dalla settimana di Pasqua 2006 attraverso il circuito del cinema indipendente statunitense, il film ha registrato incassi consistenti. Tanto successo, annotiamolo subito, si è presto proiettato sulla stampa internazionale, che ha prontamente ripreso l’argomento sottinteso e sottolineato il senso e gusto della rivisitazione di un costume sociale, che negli anni Cinquanta influì sul comune senso del pudore: addirittura «cambiò il comune senso del pudore», secondo l’autorevole quotidiano milanese Corriere della Sera, che il 18 aprile 2006 dedicò una intera pagina al film e alle relative implicazioni fenomenologiche.

SCOPERTA Come è già stato registrato in tante occasioni, sparendo dalla ribalta in modo repentino e assoluto nel 1957, all’apice della propria carriera fotografica (come modella scabrosa e intrigante), Bettie Page ha favorito la nascita di una leggenda, allungatasi nei decenni. Le sue sembianze e i suoi atteggiamenti davanti all’obiettivo sono stati ripresi da numerosi fumetti, e sono stati fonte di ispirazione per molti: sottolineiamo anche qui, e ancora qui, i debiti di riconoscenza di certa fotografia di Helmut Newton, del look originario di Madonna

la sua raffigurazione “babbo natale” del paginone centrale di Playboy, del gennaio 1955 (fotografia di Bunny Yeager), il diciottesimo della fortunata edizione cominciata nel dicembre 1953 con la celeberrima posa di Marilyn [FOTOgraphia, luglio 2003].

RICHIAMI

The Notorious Bettie Page, di Mary Harron (2005), è un film-biografia, con Gretchen Mol nella parte protagonista: la modella scabrosa e intrigante degli anni Cinquanta. La sceneggiatura ripercorre la parabola fotografica di Bettie Page, scandita a ritmo di situazioni di nudo compiacente, presso Camera Club newyorkesi, interpretazioni erotiche nello studio di Irving e Paula Klaw, ancora a New York, e trasferimento in Florida, da Bunny Yeager, modella passata al professionismo fotografico.

e di celebrate firme della moda. Comunque sia, in tempi recenti, da una quindicina di anni, il giornalismo rosa internazionale ha cominciato a certificare l’apporto (inconsapevole?!) di Bettie Page alla rivoluzione sessuale avviata a partire dagli anni Cinquanta. A parte le testate preposte all’argomento (ricordiamo i servizi pubblicati dallo statunitense Playboy, negli anni Novanta), anche pagine insospettabili si sono soffermate sull’argomento. Per quanto riguarda l’Italia, si registrano due momenti originari: un efficace servizio televisivo di Target (Canale 5, domenica 20 aprile 1997) e un esaustivo articolo del supplemento femminile di La Repubblica (D. La Repubblica delle Donne, del 10 giugno 1997). Quindi, nel precedente dicembre 1996, un numero monografico dell’allora bimestrale Fotopratica Immagini, indirizzato all’erotismo visivo, si è attardato su Bettie Page, proponendo in copertina

Nata il 22 aprile 1923, Bettie Mae Page è mancata l’11 dicembre 2008. Dopo il suo esilio volontario, è vissuta in California, ed è stata completamente estranea al proprio mito, che è nato sostanzialmente per caso e che si è alimentato soprattutto alla fonte del mistero della sua scomparsa, ufficialmente sciolto e svelato nella biografia autorizzata Bettie Page. The Life of a Pin-Up Legend, redatta a quattro mani dalla scrittrice Karen Essex e dall’avvocato di famiglia James L. Swanson (General Publishing Group, Los Angeles, 1996). In precedenza, l’ipotesi più diffusa si rifaceva alla decisa attività della commissione antipornografia guidata dal senatore Estes Kefauver, che aveva puntato la propria attenzione sugli studi fotografici newyorkesi che negli anni Cinquanta cominciavano a proporre bizzarre interpretazioni dell’erotismo visivo. A margine, precisiamo che in materia di libertà sessuale, il senatore Estes Kefauver agì con la medesima intolleranza e ottusa severità che caratterizzò la caccia ai comunisti (o presunti tali) del senatore Joseph McCarthy, che disegnò un buio capitolo della storia interna degli Stati Uniti, all’indomani della Seconda guerra mondiale. Nota parallela: in The Notorious Bettie Page, film del quale ci occupiamo qui, il senatore puritano Estes Kefauver ha il volto del bravo David Strathairn, del quale abbiamo apprezzato molte interpretazioni, fino al giornalista liberal Edward R. Murrow, di Good Night, and Good Luck, di George Clooney (nomination agli Oscar 2006, dove si è affermato lo straordinario Philip Seymour Hoffman, di Truman Capote - A sangue freddo).

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Cinema

Comunque sia, approdando a The Notorious Bettie Page, rileviamo che il suo racconto è addirittura classico ed emblematico dei tempi narrati (primi anni Cinquanta, a New York City). Come molte coetanee, anche Bettie Page ha cominciato tentando la strada del cinema, nel quale non sarebbe riuscita a entrare per colpa di un accento troppo marcato. Dalla natia Nashville, nel Tennessee, celebre per la musica country e rock & roll, si trasferì a New York, dove intraprese presto la carriera di modella in un ambito di erotismo clandestino, defilato dalla fotografia ufficialmente professionale (altri tempi!). Non era bellissima, non era travolgente, ed era anche oggettivamente bassa, con fianchi lar-

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ghi (le fotografie meno riuscite dell’epoca e rivelano tali “imperfezioni”), ma sapeva posare, era allegra e trasmetteva una leale e trasparente carica erotica, addirittura unica. Assieme a molte colleghe più appariscenti di lei, alle quali la Storia non ha però assegnato alcun ruolo, Bettie Page posava sia nei Camera Club, circoli per fotografi dilettanti, sia nella sala di posa nella quale Irving Klaw e la sorella Paula producevano immagini maliziose e scabrose, commercializzate attraverso circuiti di vendita per corrispondenza sostanzialmente furtivi, occulti, sul filo della legalità: come sottolinea la sceneggiatura del film. Ai tempi malvisto dalla cultura puritana anglosassone, tanto da essere perfino indagato dall’Fbi, che lo accusò di traviare la gioventù (e più precisamente di favorire, con le sue immagini, la vendita di giubbotti in pelle e di coltelli a serramanico), oggi Irving Klaw è considerato un maestro e un caposcuola (anche se lui gestiva l’attività commerciale e la vera fotografa era la sorella Paula). Come più volte annotato, noi dissentiamo da questa attribuzione, assegnando a Bettie Page, e poche altre modelle, il valore delle fotografie arrivate fino a noi. Pur considerandola con la simpatia che probabilmente merita, non possiamo non notare che la tecnica fotografica di Irving Klaw (anzi, di Paula Klaw) era primitiva e semplificata -un colpo di flash e via-; il suo studio era indigente e rimediato -un tavolinetto, una tenda, un divanetto e niente più-, la sua fantasia era misera. Nonostante questo, e nonostante la limitatezza delle sue idee, spesso ossessivamente ripetute, grazie all’espressività e vitalità dell’“innocenza peccaminosa” di Bettie Page, sopra tutte, ha preso forma una miscela esplosiva che ha proiettato le proprie influenze avanti nei decenni. Confermiamo e ribadiamo: a conti fatti, la fotografia di Irving Klaw (di Paula Klaw!) ha ispirato una genìa di interpreti dell’erotismo moderno: dalla fotografia di genere alla fotografia di moda, al fumetto, all’illustrazione, al cinema. Merito di tutto è proprio Bettie Page, che ha interpretato talmente bene le modeste sceneggiature dello studio dei Klaw da far precipitare in secondo piano tutta la povertà e limitatezza della loro fotografia. Ragazza so-

Il film The Notorious Bettie Page dà merito a Paula Klaw (interpretata dall’attrice Lili Taylor): qui sopra in due posati, a sinistra in quattro frame dal film. In effetti, fu lei l’autentica fotografa dello studio newyorkese attribuito al fratello Irving, che gestiva l’aspetto commerciale della vendita delle fotografie.

lare (della porta accanto?), davanti all’obiettivo, Bettie Page si trasformava in seducente maliarda, che indossava con disinvoltura audaci guêpière e improbabili guarnizioni in pelle. Sia che si presentasse per se stessa, in biancheria intima che oggi possiamo definire abbondante (nelle dimensioni), sia che interpretasse le più acrobatiche situazioni bondage (sottomissione oggettivamente casereccia, fatta di fibbie, lacci e brividi assolutamente improbabili), Bettie Page ha dominato la scena e l’inquadratura. Il suo fu un successo travolgente, che durò otto anni, dal 1950 al già ricordato dicembre 1957, e che toccò il proprio apogeo nel gennaio 1955, grazie al più volte ricordato paginone centrale


GIOVANNI RIBOLINI (RIBO)

Cinema

di Playboy realizzato da Bunny Yeager, ex modella che produsse anche un’altra significativa serie fotografica di Bettie Page, diversa dall’iconografia alla quale continuiamo a riferirci, in esterni, con bardature leopardate.

SULLO SCHERMO Film definito torbido, melmoso (come Blue Velvet), infuocato, devastante (come Eraserhead) e risucchiante (come Twin Peaks), Lost Highway, di David Lynch (in Italia, Strade perdute; 1997) si è richiamato a una personalità superficiale di Bettie Page, presunta e apparente (solo l’aspetto esteriore); non ne ha certo messo in scena tutta la intrigante complessità. Nel film, Patricia Arquette interpreta due

Concludendo in questo numero di FOTOgraphia i racconti su Betty Page, in occasione dei novant’anni dalla nascita [da pagina 58], torniamo a un ricordo gradito: la conoscenza e l’amicizia con Paula Klaw, autentica fotografa dell’epopea di Betty Page, testimoniate anche da una fotoricordo dedicata e firmata, il 7 dicembre 1992 (una vita fa).

ruoli: quello della bruna Renee Madison, che muore fatta a pezzi dal marito, e quello della sua reincarnazione, la bionda Alice Wakefield. Come è stato esplicitamente dichiarato, queste due femmine perdute si ispirano al modello di Bettie Page. Invece, più direttamente e ufficialmente, The Notorious Bettie Page, di Mary Harron, sceneggiato insieme a Guinevere Turner, è un’autentica e dichiarata biografia della fenomenale modella, interpretata da Gretchen Mol, classe 1972, che esordì in Girl 6 - Sesso in linea, di Spike Lee (1996) e che vanta molte interpretazioni cinematografiche e televisive. Come anticipato, nonostante il consistente successo di pubblico registrato negli Stati Uniti, il film non è approdato alla distribuzione internazionale, dove certamente non sarebbe stato accolto altrettanto calorosamente. Infatti, per quanto possiamo essere personalmente interessati alla fenomenologia di Bettie Page, che seguiamo da decenni, escludiamo una possibile e potenziale proiezione su grandi numeri di massa. Con l’occasione, non possiamo non ricordare altri, precedenti riferimenti cinematografici a Bettie Page. Ovviamente, la sua personalità è evocata nei due documentari che hanno celebrato la lunga vicenda del mensile Playboy: rispettivamente, nel fragile Playboy: Playmate Pajama Party, del 1999 (regia di Scott Allen; sessantuno minuti), e nel più consistente Playboy: 50 Years of Playmates, del 2004 (stessa regia; settantatré minuti). Ed è soggetto di un documentario a tema, con la regia di Brent Zacky: From Pinup to Sex Queen: Bettie Page, in onda l’11 ottobre 1998 (Christa Campbell nella parte di Bettie Page), ottantanovesimo episodio della seguìta serie televisiva statunitense The E! True Hollywood Story, che dal 1996 ha inanellato oltre seicento puntate (la cinquecentesima è stata trasmessa negli States, il 27 maggio 2009). Prima di questa biografia cinematografica firmata da Mary Harron, prodotta dalla potente rete televisiva HBO, approdata a una distribuzione sostanzialmente nazionale, seppure attraverso il circuito di sale indipendenti dalle major hollywoodiane, si segnalano ancora tre precedenti bio-

grafie, che non hanno certamente superato fumosi cineclub di iniziati. Ricordiamole, per dovere di cronaca: Bettie Page Uncensored: The Unauthorized Story, del 2003 (regia di Michael Flores su propria sceneggiatura; Sarah Masters nel ruolo di Bettie Page); Bettie Page: The Girl in the Leopard Print Bikini, del 2004 (regia e sceneggiatura di Carlos Larkin); Bettie Page: Dark Angel, del 2004 (regia di Nico B., che ha scritto la sceneggiatura con Carly Adler; Paige Richards nella parte di Bettie Page). Infine, ricordiamo che, oltre le fotografie, negli anni Cinquanta, Irving Klaw realizzava e produceva filmini in passo ridotto, che oggi sono stati riversati in Dvd e sono rintracciabili attraverso i consueti canali di distribuzione cinematografica. I titoli attuali replicano le proposizioni originarie: Betty Page: Pin Up Queen e Betty Page: Bondage Queen (1998, su spezzoni d’epoca; bianconero; novantasette e centotredici minuti); Striporama (1953; con diverse modelle della scuderia di Irving Klaw; regia di Jerald Intrator; colore; settantotto minuti); Varietease (1954; colore; settantuno minuti); Teaserama (1955; bianconero e colore; sessantanove minuti). Allora: le fotografie di Bettie Page sono intriganti e affascinanti, mentre i filmini (questi citati e altri reperibili) rivelano una inesorabile povertà di mezzi e idee, che rischia di minarne il mito. Lasciamoli perdere!

NOSTALGIA (?) In stretto ordine temporale, la biografia cinematografica The Notorious Bettie Page è la più recente e convinta celebrazione di Bettie Page, autentica icona del nostro tempo. In precedenza, la sua figura ha ispirato una infinita serie di fumetti, illustrazioni e vicende, sulla cui sovrapposizione quantitativa si è appunto costruito il mito, che ha addirittura sollecitato la creazione di club internazionali di appassionati, che anima migliaia di siti Internet e che ha dato vita alla fanzine periodica The Betty Pages, la cui testata gioca sul cognome “Page” declinato al plurale di “Pages”/pagine. Comunque sia, e oltre una possibile segnalazione bibliografica (e dintorni), è doveroso inquadrare la dimensione moderna e attuale del fenomeno Bettie Page all’interno del

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Cinema

contesto sociale che a nostro modo di vedere l’ha favorito. Per questo, facciamo nostra una analisi riportata sul prestigioso e autorevole quotidiano The New York Times (del 24 luglio 1994), che teorizzò che l’interesse odierno per Bettie Page non va considerato per se stesso e basta, ma va inquadrato nella più ampia rivalutazione -prima statunitense e poi planetaria (del mondo occidentale)- degli anni Cinquanta. Ovverosia di un’epoca nella quale ciò che Bettie Page ha rappresentato (dallo scandalo alla licenziosità) ha fatto parte di un più generale clima di speranze e allegria. All’indomani del buio di un devastante conflitto mondiale, il dopoguerra portò con sé uno stile di vita

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e una narrativa positivi. Lo stato d’animo era ottimista; le automobili, i primi elettrodomestici per la casa e perfino le persone erano splendide e brillanti. Dopo la depressione della guerra, sia negli Stati Uniti, sia nel resto del mondo, la visione di una esistenza solida e tranquilla si concretizzò nelle menti di tutti: ogni ipotesi e ogni conclusione parevano felici. Ufficialmente, non c’erano problemi. E quelli che anche c’erano, ce li siamo ormai dimenticati. Nel momento in cui abbiamo assegnato agli anni Cinquanta l’aggettivo di “favolosi”, abbiamo altresì scelto di guardare al nostro più recente passato attraverso lenti colorate in ammorbidenti toni rosa. Ecco perché, nel corso dei decenni, la solare allegria di Bettie Page -il cui fisico era inferiore a quello di molte modelle dell’epoca, già l’abbiamo scritto- ha finito per prevalere su tutto e per imporsi come specchio dei tempi, come specchio di quei tempi, così come ci ostiniamo a considerarli oggi. Nota conclusiva. Nonostante la nostra vicinanza al fenomeno Bettie Page, continuiamo a non condividere l’inserimento di The Notorious Bettie Page tra i dieci film ai quali l’autorevole periodico American Photo ha riconosciuto il più alto tasso di presenza della fotografia [FOTOgraphia, maggio 2008]. Sappiamo bene di cosa stiamo parlando, come e perché lo stiamo facendo, e lo facciamo mese dopo mese su queste pagine dedicate. Il film è altro, pur ruotando attorno la fotografia: soprattutto, è costume statunitense e vicende di precario moralismo (per certi versi, le stesse descritte dal romanzo L.A. Confidential, di James Ellroy, dal quale è stato tratto l’omonimo film, del 1997, diretto da Curtis Hanson). Sì, in The Notorious Bettie Page c’è tanta fotografia in sala di posa, ma la presenza della fotografia in sceneggiature e scenografie cinematografiche non si misura soltanto sulla quantità, ma soprattutto sulla qualità. E l’elenco di American Photo ignorò bellamente i fondamentali La dolce vita (di Federico Fellini, del 1960 [FOTO graphia, giugno 2012]); Smoke (di Wayne Wang, del 1995 [FOTOgraphia, maggio 2010]); Occhio indiscreto (The Public Eye, di Howard Fran-

Per quanto il film The Notorious Bettie Page ripercorra la vita professionale della celeberrima modella (scabrosa e intrigante), le nostre visualizzazioni si limitano alle situazioni fotografiche nello studio newyorkese di Irving e Paula Klaw, sulle quali è edificato il fenomeno che ha creato il mito di Betty Page [ancora e anche su questo numero, da pagina 58].

klin, del 1992 [FOTOgraphia, novembre 2012]); Flags of Our Fathers (di Clint Eastwood, del 2006 [FOTOgraphia, marzo 2006]); Pretty Baby (di Louis Malle, del 1978 [FOTOgraphia, febbraio 2010]); Fur. Un ritratto immaginario di Diane Arbus (Fur: An Imaginary Portrait of Diane Arbus, di Steven Shainberg, del 2006 [FOTOgraphia, novembre 2006 e giugno 2010]); One Hour Photo (di Mark Romanek, del 2002 [FOTOgraphia, novembre 2002, dicembre 2009 e dicembre 2012]); Il favoloso mondo di Amélie (Le fabuleux destin d’Amélie Poulain, di Jean-Pierre Jeunet, del 2001 [FOTOgraphia, ottobre 2005]). Onore e merito a Bettie Page. Ma! ❖



Mostra di Angelo Galantini

L’ORRIFICO WITKIN

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© JOEL-PETER WITKIN / COURTESY BAUDOIN LEBON (5)

C

Con orgoglio e fierezza, le note ufficiali della mostra Joel-Peter Witkin. Il Maestro dei suoi Maestri, in programma al Museo Nazionale Alinari della Fotografia (Mnaf), di Firenze, fino al prossimo ventitré giugno, sottolineano che nel suo lavoro il controverso autore statunitense «Applica la metodologia compositiva tipica del pittore, rivisitando i temi della mitologia occidentale, i capolavori della tradizione artistica europea e la rappresentazione canonica del corpo umano. Le sue opere sono dense di citazioni formali, nelle quali mescola insieme i grandi nomi della storia della fotografia, come Muybridge, Rejlander e Holland Day, con la scultura greca e romana, l’arte barocca, neoclassica e moderna. Il lavoro di Witkin è dominato dal tema della rappresentazione della nudità, i suoi legami con l’erotismo, la sofferenza e il piacere, ma anche con il deterioramento e la morte». Nulla da eccepire. Forse, tanto da eccepire. E qui, è doveroso esprimere la nostra opinione, che non intende minimamente scalfire il valore espositivo dell’allestimento, realizzato a Firenze in collaborazione con la Galerie Baudoin Lebon, di Parigi. Non sappiamo come il pubblico reagirà all’esposizione degli originali fotografici di Joel-Peter Witkin, in programma al Mnaf, istituzione museale della fotografia. Non sappiamo come le sue audaci composizioni potranno essere digerite dal pubblico eterogeneo e casuale, che non ha magari seguìto le più recenti vicende della fotografia d’autore, le cui acque, negli ultimi trent’anni (e più), sono state agitate dalle opere del newyorkese Joel-Peter Witkin, personaggio di grande spessore (non importa se condiviso o condivisibile), soltanto indirizzato alla rappresentazione dell’orrifico. Come abbiamo già scritto in un nostro intervento redazionale di diciannove anni fa (una vita fa), JoelPeter Witkin è convinto di avere una missione: far vedere agli altri qualcosa che gli fu nascosto. «Ero bam-

Woman with small breasts; 2007. Courbet in Rejlander’s Pool; New Mexico, 1985.

(pagina accanto) Still life with breast; 2001. Prudence; 1996.

bino -ricorda-, e ritornavo dalla messa assieme a mia madre, quando tre auto si scontrarono davanti a noi; ai miei piedi rotolò qualcosa che mi sembrò una palla. Era la testa di una ragazza. Desiderai vederne il viso, ma fui trascinato via». Sarà?! Oggi, l’occasione della mostra fiorentina investe di rinnovata autorità una precedente analisi di Piero Raffaelli, da noi pubblicata (FOTOgraphia, settembre 1994): perché proprio in quel testo sono riportati passi salienti per comprendere la personalità fotografica di Joel-Peter Witkin. Soprattutto, Piero Raffaelli toccò il punto fondamentale della sua opera. Riprendiamone un passo: «Attenti però, con la fotografia non si può scherzare troppo: le persone deformi, gli ammalati di Aids e le salme sono rigorosamente veri. Non siamo al cinema.


Mostra REMINISCENT AS A SELF PORTRAIT AS A VANITÉ ; 1995

PAROLA D’AUTORE Proponiamo una selezione da due testi di Joel-Peter Witkin, del 1985. Nel primo, l’autore newyorkese ha manifestato il suo credo. Nel secondo, ha elencato i soggetti necessari a metterlo in pratica. «Quando le persone vedono il mio lavoro, non c’è nessuna “area grigia” di risposta: sentono o amore, o odio. Chi odia ciò che faccio odia anche me: deve considerarmi un demone o una specie di stregone malefico. Chi capisce quello che faccio apprezza la determinazione, l’amore e il coraggio necessari per trovare meraviglia e bellezza in persone che la società considera danneggiate, impure, disfunzionali, o squallide. «La mia arte è il modo in cui percepisco e definisco la vita. È lavoro sacro, dato che ciò che produco sono le mie preghiere. Queste opere sono la misura del mio carattere, la trasfigurazione dell’amore e del desiderio e, infine, della qualità della mia anima. Con questo lavoro, io mi sottopongo al giudizio mio, dei miei contemporanei e, infine, di Dio. La mia vita e la mia opera sono inseparabili. È tutto quello che ho. È tutto quello di cui ho bisogno. «Un elenco parziale dei miei interessi. Prodigi fisici di ogni tipo: piccole teste a capocchia di spillo, nani, giganti, gobbi, transessuali pre-operazione, donne barbute, artisti da baraccone attivi o in pensione, contorsionisti (erotici), donne con un solo seno (centrale), persone che vivono come eroi da fumetto. Satiri, gemelli uniti per la fronte, chiunque abbia un gemello parassitico, gemelli che condividono un braccio o una gamba, ciclopi viventi, persone con code, corna, ali, pinne, artigli, piedi o mani rovesciati, arti elefantini. Chiunque abbia braccia, gambe, occhi, seni, genitali, orecchi, naso o labbra aggiuntivi. Chiunque nasca senza braccia, gambe, occhi, seni, genitali, orecchi, naso, labbra. Tutte le persone con genitali straordinariamente grandi. Padroni o schiavi sessuali. Donne dalla faccia coperta di pelo o con grandi lesioni della pelle, che sono pronte a posare in abito da sera. Cinque androgini disposti a posare insieme come Les Demoiselles d’Avignon. Anoressici senza peli. Scheletri umani e puntaspilli umani. Persone con un guardaroba completo di gomma. Uomini-lupo. Collezioni private di strumenti di tortura. Romanzo: di parti umane, animali e alieni. Ogni genere di estrema perversione visiva. Ermafroditi e teratoidi (vivi e morti). Una fanciulla bionda con due facce. Qualsiasi mito vivente. Chiunque porti le ferite di Cristo».

«Quando sullo schermo cinematografico appaiono Elephant Man, Mister Hyde, il Golem, la Mummia, Dracula, Frankenstein, il Morto Vivente, l’Ultracorpo o Nosferatu riconosciamo delle creature prodotte dalla nostra immaginazione (e da abilissimi truccatori); quello che si esibisce sul set di Joel-Peter Witkin, davanti a un fondale dipinto, con tutti gli ingredienti della finzione teatrale, è qualcosa di molto più semplice, che tuttavia la nostra immaginazione non ha mai accettato: la vita deforme, la malattia, la morte». Il modo di raccontare di Joel-Peter Witkin è diretto, più di quanto lo sia un pugno nello stomaco. Le sue immagini di feti e di cadaveri, di freak e di ermafroditi, di nani e di corpi smembrati aspirano a documentare la bellezza del macabro, inteso come punto di passaggio dalla luce della vita al buio della morte. Ancora con le note ufficiali dell’attuale presentazione: «In un percorso di cinquantacinque opere, la mostra offre l’occasione di apprezzare l’aspetto creativo e interpretativo di Joel-Peter Witkin nella sua sperimentazione fotografica. Ogni opera è il risultato di una lunga e complessa elaborazione formale, che riguarda sia i soggetti ritratti sia il processo di stampa. Le fotografie sono frutto di una serie di passaggi manuali, nei quali l’autore sperimenta tecniche diverse, dal graffio allo strappo dei negativi, dall’utilizzo di filtri a tipologie di ostacoli posti tra il supporto e l’ingranditore. «Le sue composizioni sono ampiamente studiate e create con la mas-

sima cura per i dettagli. Le scene sono ricche di rimandi, più o meno espliciti, ai grandi maestri dell’arte, da Velasquez a Manet. Joel-Peter Witkin affronta le stesse problematiche plastiche e gli stessi ambiti iconografici di questi capolavori, ritraendo e celebrando in atmosfere sublimi i corpi di soggetti ritenuti storicamente non rappresentabili, come nani e storpi, androgini ed ermafroditi». Come spesso annotiamo, e ancora qui: a ciascuno, il proprio. ❖ Joel-Peter Witkin. Il Maestro dei suoi Maestri, in collaborazione con la Galerie Baudoin Lebon, di Parigi. Museo Nazionale Alinari della Fotografia (Mnaf), piazza Santa Maria Novella 14a rosso, 50123 Firenze (055-216310; mnaf@alinari.it). Fino al 23 giugno; tutti i giorni, escluso il mercoledì di chiusura, 10,00-18,30.

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Guido Argentini (Usa): Andrea and Barbora on a Street in Praha: A Night in Praha.

di Angelo Galantini

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ian Hanson, che ha curato il casellario dell’attuale secondo capitolo della nuova fotografia erotica dei nostri tempi, per l’appunto intitolato The New Erotic Photography 2, è assolutamente qualificata sulla e nella materia. Lo certificano le riviste che ha realizzato nel corso degli anni, tra le quali si segnalano le affermate Puritan, Juggs e Leg Show, e lo confermano le raccolte che ha pubblicato con Taschen Verlag, per il quale, dal 2001, segue per l’appunto le edizioni erotiche. In questa dozzina di anni, ha seguìto una consistente serie e quantità di titoli, alcuni dei quali curati in proprio. Prima dell’attuale monografia, si sono segnalati tanti libri di sostanza, come i quattro titoli della fortunata serie The Big Book (... Penis, Legs, Pussy e Butt, di consistente successo commerciale) e la avvincente retrospettiva su Vanessa del Rio, che abbiamo rispettivamente presentato nel maggio 2009, settembre 2010 e marzo 2008. Dunque, il valore specifico di Dian Hanson è assolutamente fuori discussione. In conseguenza di questo, ammesso e non concesso che il soggetto meriti interesse pubblico e ufficiale, il panorama desolante che traspare dalla incessante sequenza di autori riuniti e raccolti in questo The New Erotic Photography 2 non dipende affatto dalla inettitudine e insufficienza della curatrice (perché è vero l’esatto contrario), ma dall’esaurimento e sfinimento di un genere che non si è trasformato ed evoluto al pari degli altri che compongono la lunga concatenazione del linguaggio fotografico applicato.

CAMBIO DI PASSO? In effetti, complice la condizione appena rilevata, è giusto questo uno dei temi fondamentali dei nostri tempi, almeno in riferimento e richiamo all’espressività della fotografia, con i propri corollari. Infatti, volenti o nolenti, le trasformazioni tecnologi-

In assenza di nuove espressività nell’ambito della fotografia erotica, dobbiamo compiacere la noia dei nostri giorni. Per quanto la curatrice Dian Hanson sia autorevolmente qualificata, The New Erotic Photography 2 rivela la poca consistenza di un genere applicato che non trova percorsi adeguati allo svolgimento attuale della vita. Interpretare sogni collettivi, magari alla luce dei propri, non è impresa da poco, soprattutto se e quando ci si incammina nell’intimità dell’erotismo. Ecco, dunque, il tedio che appesantisce la fotografia erotica dei nostri tempi 24


EROTISMO D’OGGI


Erica Simone (Usa): Park Here on Varick.

che -che qualcuno non vorrebbe considerare- sono tanto influenti sul costume sociale da suggestionare, ispirare e, perché no?, plagiare l’intero apparato sul quale si proiettano. Detta meglio, forse: l’attualità tecnologica non è per se stessa né “angelo” né tantomeno “demone” (in parafrasi dallo scrittore Dan Brown)... però le sue consecuzioni sono spesso devastanti. Nel caso della fotografia erotica, qui e ora in passerella, non si tratta tanto di competere con la pornografia in Rete, prolifica e vasta, quanto di collocare in maniera adeguata le tessere espressive che formano il quadro d’insieme della sollecitazione e pressione e pulsione. Ovvero, l’erotismo visivo non è in alcun modo dipendente dalla quantità di nudo che ne definisce la raffigurazione, soprattutto è lontano dalle dichiarazioni esplicite in posa ginecologica; in altro passo, l’erotismo visivo dipende sempre e comunque dall’intelligenza dell’interpretazione d’autore: come hanno rivelato anni e decenni di fotografi straordinari. Soprattutto oggi, anche la fotografia erotica deve fare i propri conti con lo svolgimento della vita e del costume sociale, per offrire risposte temporalmente e culturalmente conseguenti. Ovverosia, anche il fotografo erotico deve trasformare la propria azione e costruzione, così come hanno fatto tutti i professionisti della comunicazione, che hanno via via perfezionato il proprio passo e la propria cadenza nel rispetto e in osservanza delle modificate esigenze e aspettative del proprio rispettivo pubblico. In assenza di nuove espressività, quelle precedenti non sono più adeguate. E quelle innovative, pertinentemente censite dalla brava Dian Hanson, sono eccezionalmente noiose. È anche questo il senso del tempo che passa, della società che cambia, dei riferimenti e richiami che si evolvono, progredendo (oppure, ma è esattamente lo stesso, che si involvono). Interpretare sogni collettivi, magari alla luce dei propri, non è impresa da poco, soprattutto se e quando ci si incammina nell’intimità dell’erotismo. Ecco, dunque, il tedio che appesantisce la fotografia erotica dei nostri tempi: accettato che questo casellario sia adeguato e rappresentativo. Proprio tedio, non altro. Cioè: non molestia, non disagio esistenziale, non fastidio... ma proprio monotonia, anche quando e per quanto si intravedono intenzioni che avrebbero potuto essere meritevoli e degne di attenzione. Invece, nulla!

PERCHÉ YOSSI LOLOI? Nell’insieme di The New Erotic Photography 2 abbiamo apprezzato la presenza dell’italiano Yossi Loloi, professionista che merita di proiettare il proprio garbo, il proprio gusto e le proprie capacità fotografiche verso palcoscenici internazionali. Siamo soddisfatti e compiaciuti del riconoscimento della sua fotografia, anche se non le attribuiamo alcun connotato erotico: dunque, avvincente l’attenzione della curatrice, forviante l’inclusione in questo contenitore. Infatti, le FullBeauty, di Yossi Loloi, sono ben altro [a pagina 28]. Non tanto in relazione ad alcu-

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na ipotetica classifica -che non ha nessun diritto di ospitalità quando ci si riferisce a qualsivoglia espressione fotografica-, ma proprio per il senso e valore dei contenuti. Ne abbiamo riflettuto in FOTOgraphia, del dicembre 2010, in presentazione del progetto (immediatamente replicato nei canoni del nero-su-nero che ha definito l’edizione dell’aprile subito successivo, propositivo di considerazioni complessive sullo stato della fotografia e dei rispettivi addetti: esplicitamente, Vogliamo parlarne? ). Da cui e per cui, è giocoforza riprenderne i termini, quantomeno in estratto: «Entusiasmante nei propri contenuti, confezionati in una forma impeccabile (a tutti palese; ma, attenzione!), il progetto FullBeauty, di Yossi Loloi, è uno dei più affascinanti, convincenti e coinvolgenti di questi ultimi


(tormentati) tempi fotografici. Oltre gli intendimenti originari, l’operazione realizzata approda alla autentica celebrazione di quella fantastica mediazione visiva che converte la sola raffigurazione fotografica, oggettivamente indispensabile, in rappresentazione convincente. Questa entusiasmante collezione di ritratti di donne dalle forme sovrabbondanti, nude e seminude, si offre e propone come riflessione sul tema del modello estetico dominante e dell’accettazione fisica. E tanto altro, ancora. «Il lavoro di Yossi Loloi, che si è incontrato/scontrato con un tema inconsueto -l’obesità (al femminile)-, è ammirevole per mille e mille motivi. Cerchiamo di isolarne alcuni, senza la presunzione di rivelarli tutti. Anzitutto, sopra tutto, la poesia! Come abbiamo già annotato su queste stesse pagi-

ne, solo i poeti sanno veramente parlare della libertà, dolcissima e inebriante (da e con Pino Bertelli). Yossi Loloi è un poeta: le sue immagini sono fantastiche, coinvolgenti, amorevoli. Raggiungono direttamente il cuore di chi, speriamo noi tra questi, sa ancora commuoversi, fino a piangere. Ha speso bene il suo tempo (fotografico), consapevole che i giorni non torneranno più. «Quindi, ancora e avanti, FullBeauty offre occasioni per fermarsi a ragionare sul valore implicito, oltre che esplicito, della fotografia, sulla sua capacità di raccontare con delicatezza, leggerezza e morbidezza. In un tempo nel quale, in Italia soprattutto, si pensa soltanto a colpire allo stomaco, non sempre per raggiungere altro che questo, Yossi Loloi sot(continua a pagina 30)

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ZAST

La galleria di ritratti di FullBeauty, di Yossi Loloi, è stata presentata e commentata in FOTOgraphia, del dicembre 2010, con richiamo dalla copertina. Successivamente, un portfolio della stessa galleria è stato incluso nell’edizione particolare di FOTOgraphia, dell’aprile 2011: nero-su-nero, in richiamo di una ipotesi da condividere, Vogliamo parlarne? (qui in simulazione illustrata rispetto la stampa serigrafica originaria in nero semiopaco su fondo carta nero opaco). A fine ottobre 2010, le FullBeauty, di Yossi Loloi, furono presentate in una fantastica mostra fotografica allestita nello studio di Gian Paolo Barbieri, a Milano (centro pagina).


Entusiasmante nei propri contenuti, confezionati in una forma impeccabile (a tutti palese; ma, attenzione!), il progetto FullBeauty, di Yossi Loloi, è uno dei più affascinanti, convincenti e coinvolgenti di questi ultimi (tormentati) tempi fotografici. Oltre gli intendimenti originari, l’operazione realizzata approda alla autentica celebrazione di quella fantastica mediazione visiva che converte la sola raffigurazione fotografica, oggettivamente indispensabile, in rappresentazione convincente. Questa entusiasmante collezione di ritratti di donne dalle forme sovrabbondanti, nude e seminude, si offre e propone come riflessione sul tema del modello estetico dominante e dell’accettazione fisica. E tanto altro, ancora. Il lavoro di Yossi Loloi, che si è incontrato/scontrato con un tema inconsueto -l’obesità (al femminile)-, è ammirevole per mille e mille motivi. Cerchiamo di isolarne alcuni, senza la presunzione di rivelarli tutti.

Anzitutto, sopra tutto, la poesia! Come abbiamo già annotato su queste stesse pagine, che danno spazio e fiato soprattutto alla parola, alla riflessione, solo i poeti sanno veramente parlare della libertà, dolcissima e inebriante (da e con Pino Bertelli). Yossi Loloi è un poeta: le sue immagini sono fantastiche, coinvolgenti, amorevoli. Raggiungono direttamente il cuore di chi, speriamo noi tra questi, sa ancora commuoversi, fino a piangere. Ha speso bene il suo tempo (fotografico), consapevole che i giorni non torneranno più. Quindi, ancora e avanti, FullBeauty offre occasioni per fermarsi a ragionare sul valore implicito, oltre che esplicito, della fotografia, sulla sua capacità di raccontare con delicatezza, leggerezza e morbidezza. In un tempo nel quale, in Italia soprattutto, si pensa soltanto a colpire allo stomaco, non sempre per raggiungere altro che questo, Yossi Loloi sottolinea i pregi espressivi della fotografia lieve, che sfiora i sentimenti... per sollecitarli.


The New Erotic Photography 2, a cura di Dian Hanson; Taschen Verlag, 2012 (distribuzione: Inter Logos, strada Curtatona 5/2, Località Fossalta, 41126 Modena; 059-412648; www.libri.it); edizione multilingue inglese, francese e tedesco; 424 pagine 22,7x31,7cm, cartonato con sovraccoperta; 39,99 euro.

(continua da pagina 27) tolinea i pregi espressivi della fotografia lieve, che sfiora i sentimenti... per sollecitarli. «L’entusiasmante collezione di ritratti di donne dalle forme sovrabbondanti, nude e seminude, compilata da Yossi Loloi con ammirevole bravura (non soltanto formale, ma di contenuto), si offre e propone come riflessione sul tema del modello estetico dominante e dell’accettazione fisica. Come certificato ufficialmente, è particolarmente significativo che una critica alla bellezza standardizzata e alla dittatura estetica dei media abbia solennemente preso “corpo” (è il caso) nello studio di uno dei più eminenti interpreti della fotografia di moda, Gian Paolo Barbieri, che per la prima volta ha aperto al pubblico le porte della sua officina creativa.


«Così, paradossalmente (?), nello stesso spazio nel quale centinaia di modelle e celebrità si sono alternate nell’incarnare in molte interpretazioni lo stesso ideale di perfezione, si è potuta ammirare la bellezza straripante di corpi femminili dalle forme morbide ed esagerate. Già: morbide ed esagerate! Yossi Loloi ha avvicinato ed esaltato la femminilità delle sue modelle, trasformandola in puro estetismo; quasi un manifesto contro l’uniformità del gusto e l’omologazione estetica. «Con consapevolezza, l’autore ha applicato una straordinaria lezione fotografica, che è creativa anche in relazione alla declinazione convinta (e convincente) del suo lessico: a differenza della parola, va riconosciuto un valore proprio della fotografia (da applicare e usare con rigoroso giudizio

-etica, morale e deontologia dell’autore-): la grande rivoluzione della fotografia è stata quella di mostrare la realtà senza apparenti mediazioni e da qui, forse, è nata la sua diffusione e popolarità anche come documento. «Autore di statura, Yossi Loloi ha realizzato un’opera di rara bellezza, sia formale sia di contenuto. Oltre il soggetto esplicito, che stabilisce un punto fisso che scarta a lato ogni sovrastruttura e codifica termini e spessore della ricerca fotografica contemporanea, è opportuno riflettere sulla sostanza della questione». Le fotografie di Yossi Loloi sono tutt’altro che erotiche. Ma la sua inclusione in The New Erotic Photography 2 gratifica, comunque, la sua espressività d’autore. E tanto ci basta. Ma! ❖

Tomohide Ikeya (Giappone): Breath.

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dal 1959 al 1979


Rolleiflex 3,5F

www.newoldcamera.com


Attraverso i tre filtri Rosso, Verde e Blu (RGB), tre immagini singole combinano i colori originari su soggetti immobili: per modulare tutta la gamma cromatica su ciò che si muove. Traccia dell’azione, del gesto, delle attività, che appare magicamente viva. Non solo percezione, ma puro e semplice Colore, spalmato, steso e disegnato dalla stessa azione fotografica volontaria e consapevole

di Beppe Bolchi

T TRICROMIE

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ricromie: tre volte la realtà. Da quando la Fotografia è nata, il Colore è stato una chimera per quasi un secolo. Dapprima, studiosi e scienziati si dedicarono alla ricerca della “Sostanza Camaleonte”, cioè l’emulsione che consentisse di ricevere e conservare l’impronta dello spettro e dei suoi colori. Quindi, gli sforzi vani dei padri della Fotografia indussero a privilegiare la riproduzione dei colori indiretti, che, a partire da fine Ottocento, consentì di fare opera di riproduzione, documentazio-


L’ingrandimento di dettagli di alcune immagini tricromatiche evidenzia le pennellate di luce, spesso simili a quelle della pittura impressionista, che rivelò la grande capacità, fin da allora, di “vedere” e “percepire” come la luce è composta, e quindi definisce il mondo che ci circonda.

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ne e divulgazione attraverso matrici trasparenti, adatte a essere proiettate, ma non ancora valide per la stampa su supporto cartaceo. Solo l’invenzione della pellicola a colori diretti, grazie a Kodak e Agfa, alla fine degli anni Trenta del Novecento, a un secolo, appunto, dalla scoperta dei materiali sensibili monocromatici (1839), ha consentito la disponibilità e l’espansione della Fotografia a Colori su larga scala. Non è questo lo spazio e il tempo per approfondire l’appassionante e avvincente mondo della riproduzione del colore, che sto studiando e di cui preparerò presto una serie di interventi didattici, a partire dall’arte fino agli aspetti percettivi e psicologici. Annoto, comunque, che l’antica (originaria) fotografia a colori indiretti si è basata su tre riprese bianconero, opportunamente filtrate e quindi riprodotte attraverso i tre filtri Rosso, Verde e Blu. Dopo vari esperimenti, la tecnologia di allora consentì di realizzare e costruire apparecchi fotografici ap-

Esemplificazione delle tre riprese attraverso i filtri Rosso, Verde e Blu (RGB). Quindi, composizione per sovrapposizione a registro delle tre immagini singole.

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Alternativamente, lo scorrere del tempo viene espresso dalla diversa combinazione di colori dei soggetti in movimento. Nebbia, nuvole, acqua, fuoco, foglie, tutto ciò che si muove, impercettibilmente o velocemente, lascia la propria traccia colorata, persino le ombre diventano significative. La sfumatura o la violenza dei colori così generati è espressiva della velocità e dell’intervallo adottato per la sequenza da sottolineare.

(pagina successiva) Dato che le emulsioni fotografiche sono adatte e finalizzate a esposizioni con tempi brevi, con la fotografia tricromatica con foro stenopeico, oltre l’effetto proprio delle tricromie, la dilatazione dei tempi di posa (otturazione) altera la resa finale dei colori, aggiungendo proprio una patina... come del tempo che passa.

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positamente dedicati, in grado di scomporre l’immagine attraverso specchi semiriflettenti, per esporre contemporaneamente tre lastre bianconero relativamente e rispettivamente filtrate. Con un processo analogo, la proiezione consentiva di vedere in sovrapposizione le tre immagini parziali, che -fuse assieme- restituivano tutto lo spettro visibile, non senza difficoltà, ma con risultati più che apprezzabili. Se l’intento di questo tipo di ripresa fu proprio quello di poter fissare anche soggetti in movimento -un unico scatto, opportunamente scomposto-, l’esigenza di dover utilizzare apparecchi di grandi dimensioni e peso ne sconsigliò l’utilizzo per immagini tipicamente di reportage. Ci fu un fotografo, però, che effettuò proprio questo tipo di riprese, per le quali si dotò di una apparecchiatura che gli consentiva di viaggiare agevolmente e effettuare riprese in modo semplice. La soluzione che adottò il russo Sergej Michajlovič Prokudin-Gorskij (1863-1944; peraltro allievo di Dmitrij Mendeleev, l’inventore della Tavola periodica degli elementi ) fu quella di un apparecchio “folding” (a base ribaltabile, già in uso a quel tempo), al quale venne adattato un dorso -specificamente realizzato- per contenere le tre lastre, che venivano esposte in rapida successione. Benché di ottima qualità, i risultati soffrivano però del fatto che, se i soggetti non erano immobili, si registrava una sfasatura tra i tre scatti singoli, e quindi tra i tre colori, che creava una sostanziosa confusione visiva [a pagina 39]. Siccome allora l’intenzione era quella di realizzare e proporre immagini che possiamo definire “istantanee”, la mia ricerca, oggi, è partita proprio da quella sfasatura che il non perfetto allineamento dei soggetti va a realizzare. Sia chiaro: niente di nuovo dal punto di vista tecnico, e sperimentazioni ne sono state fatte a iosa, in particolare negli anni Sessanta, quando fotografi creativi hanno realizzato tre esposizioni sullo stesso fotogramma, utilizzando alternativamente i filtri Rosso, Verde e Blu. E c’è chi, ancora oggi, si diletta in questa modalità, pretendendo addirittura di aver inventato l’effetto miracoloso, come il buon Robert S. “Bob” Harris, impiegato della Kodak, al quale fanno riferimento parecchi “adoratori” statunitensi, evidentemente a digiuno di cultura e storia della Fotografia. La mia ricerca, però, ha origine e scopi diversi. Nasce dalla considerazione della possibile soluzione, ancora irrisolta, della raffigurazione del Movimento. Per dirla con il compianto Ando Gilardi: «La fotografia, in generale, assolve in modo soddisfacente la rappresentazione della Forma, assolve solo indirettamente quella del Colore, non assolve la rappresentazione del Movimento». Il Movimento, in fotografia, è stato e viene rappresentato applicando tempi di otturazione lunghi che, a partire dal Fotodinamismo Futurista di Anton Giulio Bragaglia, ha rappresentato la “traiettoria” come testimonianza della velocità, del trascorrere del tempo, facendo percepire situazioni che l’occhio umano non può e non riesce a fissare, né distinguere, né cogliere.


Fotografie tricromatiche di Sergej Michajlovič Prokudin-Gorskij (1863-1944), straordinario sperimentatore del colore fotografico di inizio Novecento. Immagini di altri tempi e altre epoche, restituite grazie a un minuzioso recupero storico che ne viene fatto, che niente hanno da invidiare a quello che l’evoluzione tecnologica ha consentito e consente di fare. Come sempre, gli aspetti più importanti sono l’occhio, il cuore e l’abilità del Fotografo.

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Anche la tecnologia stroboscopica, da Eadweard Muybridge (dal 1872) in poi, fino alle eccellenti raffigurazioni di Harold Eugene Edgerton (dalla fine degli anni Trenta del Novecento), ha mostrato la successione degli attimi, restituendo sequenze nelle quali possiamo analizzare le diverse fasi del movimento, ma non l’emozione che offre e consente quello effettivo. La tecnologia attuale, poi, propone apparecchi fotografici sempre più sofisticati, anche in questo senso: tra i tanti, la genìa delle Mirrorless Nikon 1, di uso comune e acquisto generalizzato/generalizzabile, capaci di effettuare riprese fotografiche a sessanta fotogrammi al secondo, fino a l’altro ieri alla sola portata di strumentazioni scientifiche particolarmente sofisticate. Tutto ciò, però, non fa percepire l’emozione del tempo che scorre. Guarda caso, però, il Colore, la percezione del Colore, è emozione. Ecco! La mia sperimentazione e la mia ricerca mettono a frutto l’emozione dell’uno per far percepire quella dell’altro. Effettuo tre scatti, in sequenza più o meno distanziata, in funzione del soggetto, della rapidità del movimento originario, dell’interpretazione che desidero accentuare e sottolineare, dell’emozione che spero di suscitare. Tre immagini singole, attraverso i tre filtri Rosso, Verde e Blu (RGB), da sovrapporre a registro, per combinare i colori originari sui soggetti fermi, immobili, e -in complemento- per modulare tutta la gamma cromatica su ciò che si muove. I primi esperimenti sono stati effettuati con il foro stenopeico e pellicola diapositiva, per enfatizzare il trascorrere del tempo con i suoi lunghi tempi di posa, ma con i limiti della definizione relativamente bassa, dovuta allo stesso sistema fotografico adottato [qui, a sinistra]. Il passo successivo è stato compiuto con apparecchi digitali (ad acquisizione digitale di immagini), per semplificare le fasi dell’intero processo, che comunque è laborioso e richiede precisione e sensibilità. Soprattutto, mi guida il desiderio di guardare, di vedere, di capire, di imparare e di trasmettere percezioni che i nostri sensi non riescono a definire, di offrire sensazioni che possiamo solo recepire con il cuore e sentire dentro di noi. Non di certo elaborazioni di fantasia, ma semplicemente somma di realtà, di ben tre realtà, alle quali possiamo e dobbiamo credere. Il risultato offre la traccia dell’azione, del gesto, delle attività, che appare magicamente e visivamente viva. Non più solo percezione, ma puro e semplice Colore, spalmato, steso e disegnato dalla stessa azione fotografica, mirabile pennello che l’Autore può soltanto catturare, ma non gestire, che il Tempo -però- può evidenziare e tramandare, rendere evidente, stupendo i comuni mortali i cui occhi possono finalmente realizzare quello che normalmente si perdono per la velocità (o la lentezza) e l’incapacità, dovute ai limiti sostanziali della nostra fisiologia. ❖

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Zanele Muholi: Tinashe Wakapila, Harare; Zimbabwe, 2011. Dalla serie Faces and Phases (Stampa ai sali d’argento; Courtesy l’artista e Stevenson Gallery, Cape Town).

di Antonio Bordoni

A

ncora le sale espositive dell’Ex ospedale Sant’Agostino, di Modena, che stanno rivelando una propria considerevole consistenza fotografica, che negli ultimi tempi ha scandito passi di sostanza. Ne abbiamo riferito, lo scorso ottobre e a febbraio, presentando -rispettivamente- la retrospettiva di Edward Weston, la collettiva di fotografia statunitense del Novecento Flags of America e il pittorialismo di Domenico Riccardo Peretti Griva. Ora, è la volta di Three True Stories, mostra a cura di Filippo Maggia, Claudia Fini e Francesca Lazzarini, promossa da Fondazione Fotografia Modena - Fondazione Cassa di Risparmio di Modena. Come specifica il titolo, in maniera assolutamente didascalica, chiara, esplicita e diretta (finalmente!), si tratta di Tre storie vere narrate da tre autrici che indagano temi di forte impegno ci-

TRE STORIE Collettiva di tre autrici: Zanele Muholi, Ahlam Shibli e Mitra Tabrizian. Attraversamento del dolore che accompagna molte esistenze dei nostri giorni, forse troppe: la sudafricana Zanele Muholi ha documentato i crimini contro la comunità gay del continente, soprattutto quella femminile; la palestinese Ahlam Shibli indaga artisticamente le implicazioni umane, sociali e simboliche del conflitto arabo-israeliano; l’iraniana Mitra Tabrizian, basata a Londra, approfondisce il tema dell’identità culturale del mondo islamico

Zanele Muholi: Xana Nyilenda, Newtown; Johannesburg, 2011. Dalla serie Faces and Phases (Stampa ai sali d’argento; Courtesy l’artista e Stevenson Gallery, Cape Town).

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vile attraverso la fotografia e il video: Zanele Muholi (Sudafrica), Ahlam Shibli (Palestina) e Mitra Tabrizian (Iran / Inghilterra). A conseguenza, in allestimento espositivo, il percorso comune (accomunato e equiparato) si articola in tre narrazioni parallele che, partendo da questioni specifiche, legate a contesti di origine delle artiste, affrontano temi universali, come l’identità di genere, il diritto all’esistenza, l’esperienza dello sradicamento. Insomma, Tre storie vere che appartengono al nostro tempo, talvolta crude e dolorose, sulle quali tuttavia non è possibile chiudere gli occhi, fingere indifferenza, rimanere estranei.

TRE PASSI, TRE CADENZE Nata a Umlazi (Durban), nel 1972, la sudafricana Zanele Muholi si definisce “attivista visuale”, ed è strenuamente impegnata nella difesa della comunità Lgbti africana (lesbica, gay, bisessuale, transessuale e intersessuale, derivazione del-


Ahlam Shibli: Untitled (Death, no. 32); Palestina, 2011-2012 (C-print, 38x57cm; Courtesy l’artista). Campo profughi Balata, 16 febbraio 2012. Il ritratto del martire Khalil Marshoud viene spolverato dalla sorella, nel soggiorno della loro abitazione. Nel poster, un regalo delle Brigate Abu Ali Mustafa, è indicato come Segretario Generale delle Brigate dei Martiri di al-Aqsa, di Balata.

Mitra Tabrizian: dalla serie Another Country; 2010 (C-print; Courtesy l’artista e The Wrapping Project Bankside, Londra).

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Zanele Muholi: Crime Scene #5; 2012 (C-print; Courtesy l’artista e Stevenson Gallery, Cape Town).

Zanele Muholi: Crime Scene #1; 2012 (C-print; Courtesy l’artista e Stevenson Gallery, Cape Town).

l’originaria Lgbt). Vive a Johannesburg, ed è cofondatrice del Forum for the Empowerment of Women (www.zanelemuholi.com). I suoi lavori sono stati inclusi in importanti mostre internazionali. Ha lavorato come fotografa e reporter per il periodico specializzato Lgbti Behind the Mask ; nel 2002, ha fondato un’organizzazione che offre protezione e luoghi di incontro alle lesbiche africane. Con la sua fotografia, Zanele Muholi ha documentato i crimini contro la comunità gay, portando alla luce il fenomeno dei terribili e drammatici “stupri correttivi”, praticati come “cura” dell’omosessualità, tacitamente accettati dalla

maggior parte della popolazione e giustificati ai fini di una rieducazione alla “normalità”. Nell’aprile 2012, ignoti si sono introdotti nel suo appartamento, e le è stato rubato l’archivio fotografico che documenta le ricerche di una vita: sull’episodio grava il sospetto che non si sia trattato di una semplice rapina (perché mai dovrebbe essere così?), ma di una intimidazione nei confronti dell’artista e del suo lavoro. I crimini e le violenze contro le donne lesbiche sono al centro delle opere esposte a Modena. Per la rassegna Three True Stories, Zanele Muholi ha selezionato fotografie dalle recenti serie Faces and Phases (2010-2012) e Crime Scene

(pagina accanto, dall’alto e da sinistra) Zanele Muholi, dalla serie Faces and Phases (Stampe ai sali d’argento; Courtesy l’artista e Stevenson Gallery, Cape Town): Thembela Dick, Nyanga East; Cape Town, 2011; Gazi T Zuma, Umlazi; Durban, 2010; Phila Mbanjwa, Pietermaritzburg; KwaZulu Natal, 2012; Tash Dowell, Harare; Zimbabwe, 2011.

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Ahlam Shibli: Untitled (Death, no. 37); Palestina, 2011-2012 (C-print, 100x66,7cm; Courtesy l’artista). Campo profughi Balata, 12 febbraio 2012. Nella camera per gli ospiti della famiglia di Kayed Abu Mustafa, un dipinto raffigura il martire. Vi è scritto: «La pantera di Kata’ib Shuhada’ al-Aqsa, Mikere» (Mikere, delle Brigate dei Martiri di al-Aqsa). Le persone nella stanza sono la madre di Mikere, il suo nipotino e i suoi due figli.

(2012) e il video Difficult Love, del 2010 (quarantasette minuti). Ahlam Shibli è nata in Palestina, nel 1970; vive e lavora a Haifa (www.ahlamshibli.com). Indaga artisticamente le implicazioni umane, sociali e simboliche del conflitto arabo-israeliano. Il suo progetto fotografico più recente, Death, del 20112012, è composto da una settantina di immagini scattate in luoghi pubblici e in abitazioni private, equiparate dalla presenza costante di ritratti, scritti, poster che commemorano persone cadute nella lotta contro il regime di occupazione. Attraverso un approccio documentario, la serie rivela le condizioni di vita, materiali ed esistenziali, del po-

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polo palestinese, e il suo particolare e necessario rapporto con la morte... per l’appunto, Death. Ahlam Shibli visualizza come la proliferazione ossessiva delle immagini commemorative sia in grado di mantenere in vita i defunti, seppur ridotti a una rappresentazione fantasmagorica dei corpi e dei volti, e plasmare ideologicamente sia la sfera pubblica, sia quella domestica. Nata a Teheran, in Iran, Mitra Tabrizian vive e lavora a Londra (www.mitratabrizian.com). Le sue fotografie in mostra a Modena, nel contenitore della collettiva Three True Stories, sono estratte dalla serie Another Country, del 2010: indagine sul tema dell’identità culturale.


Ahlam Shibli: Untitled (Death, no. 7); Palestina, 2011-2012 (C-print, 57x38cm; Courtesy l’artista). Città vecchia, quartiere al-Kasaba, Nablus, 11 agosto 2012. Lettere e cartoline dai prigionieri alla loro sostenitrice, nominata come “madre della resistenza”. Durante la Seconda Intifada, ha messo a disposizione di tutti i membri della resistenza che hanno bussato alla sua porta il suo lavoro, la sua casa, le sue provviste. Un biglietto di auguri recita: «Non so dove si incontrano i compagni. In carcere, o nella tomba, o all’ombra di uno Stato?». Una lettera alla “madre della resistenza” è scritta dai prigionieri Nader e Mawjoud. Alternano le righe: uno scrive in nero, l’altro in blu.

Ahlam Shibli: Untitled (Death, no. 31); Palestina, 2011-2012 (C-print, 38x57cm; Courtesy l’artista). Campo profughi ’Ala’in, 28 febbraio 2012. Mohammad Khalid mostra la fotografia di un suo amico della resistenza, il martire Firas Abu al-Rish, ucciso dagli israeliani, nella sua automobile, il 17 ottobre 2006.

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Mitra Tabrizian: dalla serie Another Country; 2010 (C-print; Courtesy l’artista e The Wrapping Project Bankside, Londra).

Mitra Tabrizian: dalla serie Another Country; 2010 (C-print; Courtesy l’artista e The Wrapping Project Bankside, Londra).

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Mitra Tabrizian: dalla serie Another Country; 2010 (C-print; Courtesy l’artista e The Wrapping Project Bankside, Londra).

Mitra Tabrizian: Teheran, West Suburb; 2008 (C-print; Courtesy l’artista e The Wrapping Project Bankside, Londra).

Sebbene mettano in scena situazioni immediatamente riconducibili al mondo islamico, in molti dettagli, rivelano di esser state realizzate in ambienti inglesi. Questo scarto visivo è metafora del senso di sradicamento percepito da chi, esiliato, vive a cavallo tra due culture diverse. Di fronte al bivio se abbracciare o respingere la cultura occidentale, le comunità ritratte da Mitra Tabrizian sembrano essersi richiuse nelle proprie tradizioni, forse nell’illusione di poter mantenere intatta la propria identità, o semplicemente per poter sopravvivere, mettendo in atto una strategia quotidiana di resistenza, non priva di contraddizioni. Così come il film del 2004, The Predator (di

ventisei minuti), la serie fotografica propone una concentrata riflessione sul concetto di Islam e sugli stereotipi occidentali collegati. Infine, le fotografie panoramiche Tehran e Untitled, realizzate in Iran, sollevano riflessioni sull’Iran contemporaneo, relative a temi quali l’esilio, il controllo sociale, la costruzione del futuro. ❖ Three True Stories / Tre storie vere, a cura di Filippo Maggia, Claudia Fini e Francesca Lazzarini; mostra promossa da Fondazione Fotografia Modena. Ex Ospedale Sant’Agostino, largo Porta Sant’Agostino 228, 41100 Modena (059-239888; www.fondazionefotografia.it, info@mostre.fondazione-crmo.it); dal 20 aprile al 23 giugno; martedì 11,00-13,00 - 15,00-19,00, mercoledì-venerdì 15,00-19,00, sabato e domenica 11,00-19,00.

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SUPEREROI E DINTORNI La presentazione della avvincente monografia The Golden Age of DC Comics, di Paul Levitz, che racconta l’epoca d’oro della nobile casa editrice statunitense di letteratura a fumetti, è sostanzialmente un pretesto. Al solito, ci esprimiamo soprattutto a parole: questa volta per rilevare, sottolineandole, le peculiarità del racconto illustrato, fondato sulla riflessione indotta al lettore, che ci influenza tanto quanto la fotografia ci accompagna di Maurizio Rebuzzini (da una conversazione con Ciro Rebuzzini)

S

acrosanto: a volte, ritornano. Dopo aver curato e compilato una più che consistente storiografia della casa editrice statunitense DC Comics, come specifica la definizione, indirizzata alla pubblicazione di fumetti, il solerte Paul Levitz si è ripetuto. Alla fine del 2010, in occasione dell’anniversario, compilò l’epocale (in senso specifico, non assoluto) 75 Years of DC Comics. The Art of Modern Mythmaking, che -per l’appunto- ha considerato e analizzato la mitizzazione dei fumetti dei supereroi della scuderia, tra i quali spiccano -sopra tutti-

Superman (per decenni, tragicamente tradotto in Italia come Nembo Kid) e Batman. Ora, Paul Levitz è tornato sull’argomento: rimestando e rimescolando le stesse avvincenti carte, aggiornando i testi e aggiungendo illustrazioni ha redatto un altrettanto convincente The Golden Age of DC Comics, che si annuncia come primo punto di osservazione di una storia programmata su più puntate monografiche. Non è di questo che vogliamo scrivere, considerati gli altri indirizzi statutari della rivista, ma è da questo che partiamo, per considerazioni a più ampio raggio, che avvolgono il mondo della letteratura a fumetti (sì, proprio “letteratura”, senza alcuna scala gerarchica), e la loro relativa proiezione nella vita:

Da World's Finest Comics; marzo-aprile 1953 (illustrazione di Win Mortimer).

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non tanto, come e quanto la influenzano, che esula dalle nostre competenze; bensì, come e quanto la rappresentino e sottolineino e decifrino, che ci sta a cuore al pari di ogni altra considerazione accompagna l’esistenza quotidiana (a partire dalla fotografia, sia sempre specificato, per inciso). Non trattiamo tanto di The Golden Age of DC Comics, a cura dell’autorevole Paul Levitz, pubblicato dall’assiduo e sempre presente Taschen Verlag, di Colonia, quanto del mondo dei e dai fumetti, sul quale ci soffermiamo, complice questo pretesto esplicito e di stretta attualità. Dunque, risolviamo subito le burocrazie (che si completano con le illustrazioni di accompagnamento), per proseguire poi oltre e di traverso: se anche così vogliamo interpretare il nostro parlare e scrivere.

L’EPOCA D’ORO

Wonder Woman; 1944 (autore sconosciuto). Detective Comics; maggio 1939 (illustrazione di Bob Kane).

(pagina accanto) Superman: illustrazione di Hugh Joseph Ward; 1940.

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The Golden Age of DC Comics, che dà avvio alla storia completa della fantastica casa editrice, stabilisce subito i termini del proprio soggetto esplicito: gli anni d’oro dei fumetti DC Comics, che si è soliti datare dagli anni Trenta ai Cinquanta. Come dire, e diciamolo!: ecco come tutto ha avuto inizio. Dall’Uomo d’Acciaio (Man of Steel) a Batman e Wonder Woman, passando per Superman, la statunitense DC Comics ha creato e dato fiato a una consistente quantità e qualità di supereroi (che nell’editoria specifica si assommano a quelli della squadra Marvel Comics: Spider-Man / Uomo Ragno [FOTOgraphia, novembre 2012], Capitan America, Iron Man, Thor, X-Men, Hulk. Se si volesse sottolinearla, una delle differenze che distingue l’una scuderia dall’altra potrebbe essere definita dall’adozione di città immaginarie da parte di DC Comics -Gotham City di Batman, e Smallville e Metropolis di Superman- e l’ambientazione reale dei personaggi Marvel Comics). Il suo debutto editoriale, come Action Comics, è datato al giugno 1938, quando un nuovo tipo di personaggio è stato lanciato dalla copertina: un uomo in costume, con doppia identità, dotato di una forza eccezionale e poteri straordinari, in grado di proteggere la gente (il pubblico) quando e per quanto le misure ordinarie non sarebbero state sufficienti. Non fu quello il primo supereroe in assoluto, ma l’Uomo d’Acciaio (Man of Steel) si è successivamente imposto come il prototipo per tutti i supereroi a seguire. Tutto sommato, le invenzioni di Superman, Batman, Wonder Woman e altri personaggi al servizio della gente comune hanno composto i termini e numeri dell’epopea della DC Comics, che viene raccontata con competenza e partecipazione (e amore!) in questa monografia, che più esaustiva e completa non avrebbe potuto essere. Dalle origini, sono raccontati fatti e gustosi dietro-le-quinte, ma anche misfatti: come il rogo dei fumetti (rogo di libri: orrendo, in assoluto!), preteso e comandato dal famigerato senatore Joseph McCarthy, repubblicano del Wisconsin, protagonista assoluto della caccia alle streghe che dai secondi anni Quaranta si è estesa fino alla metà dei


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Superman; maggio-giugno 1942 (illustrazione di Fred Ray). Movie Comics; settembre-ottobre 1939. The Big All-American Comic Book, numero 1; 1944 (autori vari). All-Star Comics; dicembre 1942 - gennaio 1943 (illustrazione di Joe Gallagher). Batman; aprile-maggio 1942 (illustrazione di Fred Ray e Jerry Robinson).

(pagina successiva) Superman; settembreottobre 1943 (illustrazione di Jack Burnley). Superboy, numero 1; marzo-aprile 1949 (illustrazione di Wayne Boring).

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Cinquanta. Il suo feroce anticomunismo arrivò a includere tanto/tutto nella sua battaglia, identificata come maccartismo (pagina nera della storia degli Stati Uniti): perfino i fumetti, il cinema, la letteratura e ogni forma di espressione culturale. Oltre le valide parole a commento (in edizioni inglese, francese e tedesca), l’apparato di The Golden Age of DC Comics, di Paul Levitz, è edificato su una rigogliosa quantità di migliaia di illustrazioni, tutte pertinenti all’argomento esposto, tutte ben proposte sulle pagine di dimensioni generose, 23,8x32,4cm: copertine e interni, illustrazioni originali, fotografie di scena e da collezione contribuiscono a tracciare linee di una storia ricca di creatori e personaggi. Insomma, si tratta di un autentico e irrinunciabile punto di riferimento per gli appassionati della letteratura a fumetti.

A PROPOSITO DI FUMETTI In tempi sostanzialmente recenti, la letteratura a fumetti ha offerto numerose e consistenti sceneggiature al cinema, che ne ha trasposto molti: alcuni in maniera egregia, altri senza alcun sapore effettivo. Allo stesso momento, praticamente tutti i supereroi hanno avuto la loro brava trasposizione cinematografica: anche qui, alcuni con successo, spesso proporzionale alla propria qualità formale e di contenuto, altri senza lode né merito. Insomma, tutto nelle regole dei giochi, con le trascrizioni dei fumetti italiani buon fanalino di coda: Diabolik, Valentina, Dylan Dog, Tex Willer. A questo punto, dopo aver sottolineato che la distinzione per case editrici interessa solo l’aspetto imprenditoriale della vicenda, che riguarda gli addetti, rileviamo come il pubblico percepisca soltanto i personaggi, senza alcuna forma di antagonismo. Al pari del cinema, della narrativa, della mu-


A CURA DI

Paul Levitz, qui fotografato con il suo imponente 75 Years of DC Comics. The Art of Modern Mythmaking è un appassionato di fumetti. È stato editore e redattore di The Reader Comic, dove ha pubblicato numerose avventure di supereroi. Al culmine di trentotto anni di carriera, ora è presidente della società. Dopo un intervallo sabbatico, sulla spinta delle ricerche finalizzate alla stesura dell’originario 75 Years of DC Comics. The Art of Modern Mythmaking, pubblicato alla fine del 2010, è tornato alla sceneggiatura di fumetti. KAREEM BLACK / COURTESY TASCHEN

sica, ognuno non legge solo un fumetto, ma ne frequenta la totalità. È soltanto un’analisi dall’interno che valuta la loro provenienza, sia nazionale sia editoriale (e oggi, e qui, abbiamo già distinto DC Comics da Marvel Comics): come è per le produzioni cinematografiche, la pubblicazione di libri, il mondo della musica. A diretta conseguenza, cosa definisce la letteratura a fumetti statunitense, il suo racconto/romanzo illustrato, rispetto quella di altri paesi? Siccome ciò che conta è la storia, in analisi critica bisogna considerare come viene raccontata. A partire dai supereroi, che oggi richiamiamo con l’occasione della fantastica monografia The Golden Age of DC Comics, di Paul Levitz, la narrativa statunitense a fumetti è da tempo definita -non solo caratterizzata- da una schiera di eroi positivi in perenne conflitto con nemici negativi. E qui si colloca la caratteristica in base alla quale il fumetto statunitense si svolge, offrendo spazio individuale alla riflessione personale del lettore. A differenza, i fumetti italiani, sia storici sia contemporanei, sono altro: autoespressivi e basati su simbologie e ripetizioni stereotipate, dalle caratterizzazioni ai modi di dire (per esempio, il seguìto Dylan Dog, di Sergio Bonelli Editore, con camicia rossa, giacca nera, Maggiolino Volkswagen, veliero in perenne costruzione e parole sistematicamente ripetute, a partire da “giuda ballerino”). Anche i celebrati fumetti francesi sono altro, così come, per versi propri, lo sono i Manga giapponesi. Eredi di una forma culturale fresca e senza radici antiche, i fumetti statunitensi pescano la propria struttura anche dalla storia del cinema americano, dove i problemi -quando si presentanovengono affrontati con la frase giusta al momento giusto e il piglio dell’avventura guardata direttamente negli occhi. Ecco come e quanto i fumetti

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The Golden Age of DC Comics, a cura di Paul Levitz; Taschen Verlag, 2012 (distribuzione: Inter Logos, strada Curtatona 5/2, Località Fossalta, 41126 Modena; 059-412648; www.libri.it); in inglese, e edizioni in francese e tedesco; 416 pagine 23,8x32,4cm, cartonato; 39,99 euro.

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statunitensi fanno ragionare, proponendo personaggi in critica o armonia con il proprio mondo. Per esempio, Hulk, della scuderia Marvel Comics, non può arrabbiarsi in una società che obbliga ad arrabbiarsi continuamente (e a indignarsi, anche). Per esempio, Superman, della scuderia DC Comics, si offre e propone come critica alla natura umana. La sua identità segreta Clark Kent rispecchia come il supereroe arrivato dallo spazio vede l’uomo: miope, codardo e debole. Per esempio, Iron Man, ancora Marvel Comics, è un costruttore di armi che rinnega la propria vita per dedicarsi alla soluzione positiva delle controversie sociali. Del resto, anche le strisce giornaliere, altro aspetto della letteratura illustrata, in questo caso in forma di riflessione caustica, arrivano dal quotidiano e si proiettano sul quotidiano. Basti pensare all’inserimento di Piperita Patty nel cast dei Peanuts, del compianto Charles M. Schulz: che all’alba dei secondi anni Settanta è la prima ragazzina del gruppo che possiede le chiavi di casa (perché i genitori debbono lasciarla sola, quando vanno al lavoro), che si muove con disinvoltura tra le pieghe dei propri impegni, che induce il lettore ad ammirarne la libertà e freschezza. Insomma, il fumetto statunitense incarna uno spirito sociale e di costume che offre e propone. Certo, al pari di altro (cinema, letteratura, musica), è anche portatore di una cultura esportata a piene mani. Ma, attenzione, si sa dove e quando la riflessione individuale può partire, ma non si conosce affatto fin dove riesce ad approdare. E la curiosità e la conoscenza sono elementi portanti e irrinunciabili della nostra vita. Come e quanto i fumetti ci influenzano? Tanto quanto la fotografia ci accompagna. Giorno dopo giorno. ❖



Sì, Betty Page (o Bettie Page), icona di una certa socialità, alla quale abbiamo fatto spesso riferimento, è mancata alla fine del 2008. Oggi, comunque, ricordiamo il novantesimo anniversario dalla nascita: a Nashville, capitale dello stato del Tennessee, il 22 aprile 1923. Nella ipotesi e speranza che si tratti del nostro ultimo richiamo sul personaggio, che nel frattempo si è diffuso oltre i confini dai quali abbiamo cominciato a parlarne, concludiamo una epopea avviata oltre quindici anni fa. In tempi non sospetti di Angelo Galantini

que, questo fu il motivo per il quale, nel 1955, Betty Page lasciò New York e Irving Klaw, per trasferirsi in Florida, alla corte di Bunny nticipando molti, e avvistando accadimenti che poi si Yeager, ex modella che cominciava allora a fotografare). sono puntualmente verificati (fummo facili profeti!), Nella biografia, Betty Page ha raccontato che la sera di San cominciammo a segnalare il fenomeno Betty Page, Silvestro del 1957 una serie di coincidenze le procurarono una grafia che preferiamo a quella di “Bettie Page” -per crisi mistica, per la quale abbandonò la ribalta fotografica nella il vero più diffusa-, oltre quindici anni fa. Nel settem- quale si era definitivamente affrancata. Tagliati i ponti con il probre 1997, la nostra prima osservazione e riflessione prio passato, sparita dalla scena dalla sera alla mattina, ha visin chiave giornalistica si intitolò Fenomenale Betty, appunto in sot- suto un’esistenza sobria e tranquilla, lontana dai clamori che nel tolineatura e notificazione di un qualcosa che sentivamo nell’aria frattempo erano sorti attorno la sua personalità. e percepimmo come possibile, plausibile e imminente. In tutti i casi, registriamolo ancora, l’azione della commissioA nostro personale giudizio, il punto di svolta per il passag- ne antipornografia del senatore Estes Kefauver rappresenta la gio da un incontro di nicchia a un interesse più diffuso, quan- chiave narrativa del film-biografia The Notorious Bettie Page, del titativamente più vasto, fu sollecitato dal film di David Lynch, 2005, diretto dalla canadese Mary Harron per la potente rete Lost Highway (sugli schermi italiani da quell’autunno 1997, con televisiva HBO, che ha avuto enorme successo negli Stati Uniti, il titolo Strade perdute), nel quale la protagonista si ispira espli- nella stagione avviata nella primavera 2006 [su questo stesso citamente al modello esteriore di Betty Page, che così diven- numero, da pagina 17]: distribuito attraverso il circuito del cinene riferimento e personaggio pubblico, degno di attenzione ma indipendente statunitense, il film ha registrato incassi congiornalistica. In precedenza, è bene ricordarlo, i cultori e gli ap- sistenti, paragonati dalla stampa nazionale a quelli del molto passionati del suo mito si muovevano soltanto in clandestini- pubblicizzato (e modesto) Scary Movie 4, ennesimo capitolo deltà; a seguire, ognuno ha potuto rivelarsi senza temere di es- la saga delle parodie del cinema horror, record al botteghino. sere frainteso. Da quel momento, Betty Page non è stato più Per mille motivi, sicuramente tutti leciti, The Notorious Betun personaggio di terz’ordine, o da identificati ammiratori, ma tie Page non è approdato alle sale italiane. Presentato al Feè balzata agli onori della cronaca internazionale (culminata al- stival del Cinema di Torino, nell’autunno 2006, nel nostro paela cerimonia celebrativa dei cinquant’anni di Playboy, quando se non è andato oltre sporadiche programmazioni nei canali l’editore Hugh Hefner la volle accanto a sé, in onore e ricordo televisivi a pagamento. In ogni caso, ne riferimmo in cronaca, del paginone centrale del gennaio 1955, con storia lanciata dalla copertina, nel noin costume di “babbo natale”, in una fotostro numero del maggio 2006. E quello, in grafia di Bunny Yeager). cronologia, fu il terzo intervento dedicato a Betty Page: tra il settembre 1997, di oriRIVELAZIONI gine, appena ricordato, e il maggio 2006, Allo stesso momento, la rivalutazione internel marzo 2001, presentammo la serie a nazionale di Betty Page si deve anche alla fumetti Pin up, disegnata e sceneggiata pubblicazione di una attesa biografia: Bettie sulla personalità di Betty Page. Page. The Life of a Pin-Up Legend, redatta Quindi, ancora in FOTOgraphia, altri tre a quattro mani dalla scrittrice Karen Essex e interventi giornalistici mirati: nel febbraio dall’avvocato di famiglia James L. Swanson 2009, registrammo la scomparsa di Betty (General Publishing Group, Los Angeles, Page, avvenuta a Los Angeles, il preceden1996), che fece luce su molti misteri nati e te undici dicembre; nel novembre 2010 e alimentati all’indomani della sua improvvisa novembre 2011, presentammo le mostre uscita di scena volontaria, proprio al culmifotografiche a tema, entrambe a cura di ne della sua parabola fotografica (come moMaurizio e Filippo Rebuzzini (della nostra della scabrosa e intrigante). In precedenza, redazione), rispettivamente allestite alla Galsi era ipotizzata una consecuzione alla decileria Contemporary Concept, di Bologna, e sa attività della commissione antipornograalla Wave Photogallery, di Brescia. fia guidata dal senatore Estes Kefauver, che Betty Page, a cura di Filippo Rebuzzini Questo odierno, in occasione dei novanaveva puntato la propria attenzione sugli stu- e Maurizio Rebuzzini; trentadue visioni più una, t’anni dalla nascita di Betty Page (22 apricon accompagnamento di centonovantotto altre di fotografici newyorkesi che negli anni Cin- pose le 1923-2013), si propone come l’ultimo che rivelano lo splendore dell’epopea quanta cominciavano a proporre bizzarre in- di Betty Page; Graphia, 2011; e definitivo. Insomma, poi basta. terpretazioni dell’erotismo visivo (e, comun- 88 pagine 16,5x23cm; 18,00 euro. (continua a pagina 62)

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NOVANT’ANNI


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(continua da pagina 58)

IN FINE Quindi, sono doverose annotazioni conclusive. Tra le tante considerazioni che si potrebbero esprimere, sottolineiamo ancora come l’“innocenza peccaminosa” di Betty Page, diciamola così, sia oggi rimpianta, in un’epoca nella quale il pudore non esiste più e l’erotismo seriale si basa su infiniti annunci semi-pornografici privi di mistero e sensualità. In questo senso, dal nostro particolare e mirato punto di vista (fotografico!), aggiungiamo che quando si parla di Betty Page, di fatto ci si riferisce sempre e comunque alle “fotografie di Betty Page”: cioè non si richiama alcuna realtà, ma si evoca una trascrizione fotografica, costruita su una sostanziosa quantità di immagini. Dunque, a conseguenza, noi spostiamo a lato i termini del possibile dibattito, al quale partecipano anche sociologi, per annotare appunto la componente fotografica di questa particolare comunicazione visiva, ovverosia dell’autentico e identificato fenomeno. Personalmente, siamo grati e in sintonia con coloro i quali, pur estranei alla cerchia degli addetti, conferiscono all’iconografia di Betty Page aspetti eclatanti della fotografia contemporanea: a partire da un richiamo spesso obbligato a Helmut Newton (più avanti, aggiungiamo altri nomi). Allo stesso momento, confermiamo come e quanto riconoscibili manifestazioni dei nostri giorni (o quasi) abbiano debiti con quel mondo, quella fotografia e quel clima; un nome sopra tutti: la vulcanica e camaleontica superstar Madonna ha sempre ammesso e riconosciuto di essersi ispirata a Betty Page. A conseguenza, rileviamo come in fotografia prima di lei, Betty Page, nessuno abbia osato tanto e dopo di lei sia cambiato tutto. Quando si parla della fotografia di Betty Page ci si riferisce soprattutto, o forse addirittura esclusivamente, alla quantità di immagini realizzate da Irving e Paula Klaw a New York (la fotografa era Paula), originariamente veicolate attraverso un circuito semiclandestino, ai tempi sostanzialmente scandaloso (soprattutto nelle intenzioni). Altri hanno fotografato Betty Page, dalla brava Bunny Yeager, che firmò il paginone centrale di Playboy, del gennaio 1955, appena ricordato, a Weegee (perfino!), a tanti anonimi frequentatori dei discreti e appartati Camera Club, indirizzati a un nudo che doveva essere consumato in confortevole segretezza.

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Però, confermiamolo, sono autenticamente “Betty Page” le fotografie di Irving e Paula Klaw (no: di Paula Klaw!), dei quali noi conosciamo anche innumerevoli scatti di altre modelle, realizzati negli stessi momenti. Quindi, forti di questa competenza, non temiamo di essere smentiti, quando affermiamo che -come fotografa- Paula Klaw era poco più che modesta. Non molto capace, un flash diretto e via, svolgeva sessioni fotografiche di e in quantità, senza alcuna accortezza, né compositiva, né -tantomeno- espressiva. Dunque, la differenza l’hanno fatta soltanto le modelle: Betty Page era sopra e avanti tutte, tanto che poche riuscivano ad avvicinarsi al suo carisma. Come è già stato registrato, sparendo dalla ribalta in modo repentino e assoluto, Betty Page ha altresì favorito la nascita della propria leggenda, allungatasi nei decenni. Le sue sembianze e i suoi atteggiamenti davanti all’obiettivo sono stati ripresi da numerosi fumetti e sono stati fonte di ispirazione per molti: confermiamo i debiti di riconoscenza di certa fotografia di Helmut Newton, del look originario di Madonna (e di celebrate firme della moda internazionale) e di altra fotografia di genere e moda (Horst P. Horst, Paul Outerbridge, Erwin Blumenfeld). Ancora oggi, l’ottantatreenne Bunny Yeager, che vive a Miami, dove ha lavorato fino a poco tempo fa (www.bunnyyeager.com) e presieduto l’associazione di categoria Florida Motion Picture & Television Association, insiste nel considerare Betty Page la migliore modella con la quale abbia mai lavorato. Interpellata per il numero speciale What is Erotic, di American Photo (novembredicembre 1993), Bunny Yeager ha dichiarato che «All’inizio della mia carriera, lavorare con Betty è stato molto positivo. Rispetto a una banale figura di ragazza carina, con lineamenti regolari, che si può trovare a ogni angolo di strada, Betty aveva un’espressione del viso unica: una luce che mancava alle altre modelle». In conclusione definitiva, dall’introduzione a Betty Page Confidential, monografia illustrata, pubblicata nel 1994 da St. Martin’s Press, di New York, Buck Henry ricorda: «La prima volta che la vidi, fu alla metà degli anni Cinquanta. Stavo in piedi fuori del palazzo della 14th street sulla cui facciata era dipinta la gigantesca scritta “Irving Klaw Pinup Photos”. Una porta si aprì, e lei uscì sulla strada. Uomini e donne si voltavano per guardarla, per guardare la nera, nera, nera frangia dei capelli proprio sulla fronte. E, naturalmente, il sorriso. Era il sorriso che ti spezzava il cuore». Questo è tutto. Poi, basta! ❖

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Sguardi su

di Pino Bertelli (Piombino, dal vicolo dei gatti in amore, 6 volte dicembre 2012)

I

EDWARD WESTON

Il fotografo è la fotografia che fa! La fotografia autentica è vita! E la fotografia coglie la vita sul fatto -come un assassino-, o è solo cronaca, o, tuttalpiù, “arte” buona per tutte le stagioni del mercantilismo d’autore. La miseria della fotografia è sconvolgente, celebrata o amatoriale che sia. È sempre esistita, d’accordo, ma un tempo entrava nelle piaghe del quotidiano o si offriva a un mecenate qualunque per raggirarlo, e qualche volta riusciva a smascherare, denunciare o semplicemente descrivere la realtà in forma di poesia, anche. In generale, la fotografia è un contenitore pieno di miserabili e il loro fare-fotografia non ha più alcun senso, se mai ne ha avuto. Del resto, la fotografia che corre (più consumata) è una serie di approssimazioni senz’arte... una cosa penosa. I fotografi sono nudi, spogliati di tutto, anche nella fede delle fedi (compresa quella dell’inginocchiatoio mercantile), che dicono di avere nell’atto del fotografare, del comunicare. La fotografia è tutto questo e altro ancora. La fotografia autentica è più vera della vita.

AL TERMINE DELLA FOTOGRAFIA La coprofagia della fotografia non è una tranche de vie, ma un delirio autorizzato dai tenutari dell’immaginario fotografico che disgusta l’universo intero. Gli esteti dell’immagine fotografica (Edward Weston è uno di questi, ma anche Ansel Adams e Alfred Stieglitz giocano sugli stessi stilemi del “bello” che tanto piace a galleristi e ai “colletti bianchi” della borghesia rampante di ogni tempo) non sono andati a scuola di umanità e di sofferenze morali e fisiche: sconosciuti a vita della realtà marchiata dalla miseria. Le loro immagini fotografiche sono ben fatte, ma non pongono interrogativi, solo applausi. Fiori artificiali senza profumo, né fascino di vi-

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ta vera. Il bello incensato è in molti casi il risultato di un’ipocrisia. Edward Weston, Ansel Adams e Alfred Stieglitz e i loro adepti (Gruppo f/64, meno Imogen Cunningham, forse) e gli arredatori della fotografia pittorialista di Camera Work (Paul Strand, escluso, certo) avevano compreso bene che fotografare è solo un altro modo di entrare in società, danzando al cospetto degli dèi. Ma se non è realizzata per rivelare il dolore profondo degli esclusi, la fotografia non porta ad altro che vili simulacri. Un fotografo del profondo non è mai che

nuti di verità: né i sistemi comunisti e fascisti, né le democrazie dell’apparenza. Parlare di bellezza, di amore e di giustizia in fotografia è come aprire i mattatoi delle buone intenzioni e assistere allo squartamento pubblico dei condannati (che sono sempre i poveri, i ribelli e i poeti). Motto di spirito: i truci assassini o la fanno franca o siedono agli scranni dei parlamenti, e si trasformano in statue di sale. Giurie, premi fotografici, stage, workshop, scuole e concorsi dell’immagine fotografica dovrebbero moltiplicarsi all’infinito,

«Per praticare la libertà senza sensi di colpa, occorre liberarsi da tutti i dogmi che asserviscono a un’ipotetica salvezza o a una possibile dannazione» Michel Onfray l’uomo di una sola idea variamente affinata: una sorta di musicista che non cessa di effettuare variazioni sul medesimo tema (un canone inverso), e la sua intera opera è consacrata a indagare, interrogare, disvelare l’immaginario dal vero. François Rabelais, François Villon e Louis-Ferdinand Céline hanno capito che il buffonesco non sta nel giullare, ma nel re, e avevano dato fuoco alle incrostazioni accademiche della letteratura, per sempre. Lewis Wickes Hine, August Sander e Diane Arbus hanno scritto con la fotografia l’immaginale degli umiliati, dei falliti, degli oppressi, dei diversi, e con aristocratico sdegno hanno mostrato che la bellezza è la chiave che ci fa entrare più in profondità nel destino dell’uomo e racconta come sta al mondo. Abbiamo toccato trenta secoli di grande civiltà, eppure nessun regime resisterebbe a cinque mi-

visto che lavorano alacremente per la crescita dell’industria fotografica in ogni luogo. La salvezza della civiltà contemporanea sta in queste opere di bene. Una gran parte dell’insoddisfazione e dell’inquietudine contemporanea è forse attribuibile alle poche cerimonie deputate alla fotografia liquida... se ne facciano a cascata. La lavanderia delle conventicole è sempre aperta.

FOTOGRAFIA DEL PEPERONE Di Edward Weston (o sull’estetica fotografica del peperone). Edward Weston, il buon samaritano dell’arte fotografica: nasce il 24 marzo 1886 (Highland Park, Illinois) e scompare il Primo gennaio 1958 (Wildcat Hill, California). Da storici, critici, e perfino dal gatto con gli stivali, è considerato -unanimamente- uno tra i più importanti fotografi della prima metà del Novecento. E qui si potrebbe chiudere l’articolo.

In buona pace della fotografia, dei critici e di Edward Weston. Siccome di grandi fesserie ne conosciamo a frotte, e abbiamo una naturale gaiezza istintiva, non ci accodiamo a nessuno, e diciamo che non ci è mai piaciuta quella faccenda accaduta in Palestina, più di duemila anni fa... un processo alle idee dove «La piaggeria dei sacerdoti dinanzi al potere stabilito, l’abbietta viltà dei loro scherani e dei loro sbirri, che abusavano come sempre dell’autorità conferita per torturare e avvilire ogni prigioniero alla loro mercè» (Louis-Ferdinand Céline), per passare alla storia come i detentori del sapere. Quindi, ci facciamo avanti, tra lacrime di fuoco e frantumi di anime che si battono per i fottuti di ogni terra. In principio, Edward Weston si dedica alla fotografia flou-flou. Si tratta di ridurre i contrasti dell’immagine (senza sfocare), e ottenere una diffusione delle alte luci con una minima invasione delle zone d’ombra (si legge nei manuali da rubare). Il risultato finale è una fotografia morbida, riduzione delle imperfezioni della pelle del soggetto ritratto e maggiore luminosità... che bello! Anche un mentecatto uscirà al meglio in fotografia, come un borghese qualunque, forse. Peccato che la fotografia flou-flou si occupi di letterati, baroni, artisti, attori, politici, faccendieri, prostitute d’alto bordo e lascia i mentecatti nelle fogne. Sono indegni della vita, senza sapere perché! Ci vuole stile per fotografare e non fotografare in cerca di uno stile. Tra il 1923 e il 1926, il fotografo statunitense va in Messico, fa un po’ il puttaniere, insegna a Tina Modotti a fotografare, la prende/fotografa (magnificamente) nuda su una terrazza, e si dedica in massima parte all’incoronamento della propria vulgata verso il realismo, che è altra cosa da quello per il quale viene cata-


Sguardi su logata la fotografia di Edward Weston e Alfred Stieglitz. A proposito di questo dandy dell’immagine confezionata nelle pieghe del conformismo autoriale (Alfred Stieglitz): s’intende colui che ha scattato una delle più violente immagini contro le classi meno abbienti del proprio tempo. Si tratta di The Steerage (1907), presa sulla nave tedesca SS Kaiser Wilhelm II, una delle più grandi e veloci dell’epoca. È stata valutata una delle fotografie più importanti di tutti i tempi. Raccontiamola. Alfred Stieglitz e la moglie Emmy si sistemano nella prima classe, in partenza per l’Europa (i mezzi della famiglia ebraica agiata lo permettevano). Mentre passeggia sul ponte della nave, Alfred Stieglitz si affaccia sulla stiva, e vede -là in fondo (terza classe)- un gruppo di cenciosi migranti che andavano incontro al sogno americano. Torna in cabina, prende la macchina fotografica e scatta con calma. Il nobile fotografo dice che è attratto dal biancore della passerella dipinta di fresco, l’inclinazione dell’albero verso il cielo, le bretelle bianche che attraversano la schiena di un uomo nella terza classe, la paglietta bianca di un curioso che guarda in basso (a meno che non sputi su quella gentaglia, non è bene in luce). La miseria umana ammucchiata giù in basso è solo parte della scenografia. Va detto. L’innocenza dispersa sulla pelle degli ultimi è propria dei rotti-in-culo che non hanno nulla da perdere e nessuna catena da tagliare. Ti viene il voltastomaco a vedere di che specie d’imbecilli si servano i grandi monopoli del sapere. Per scattare The Steerage, Alfred Stieglitz usa una Auto-Graflex (caricata con una lastra di vetro 4x5 pollici). La fa sviluppare a Parigi, qualche giorno dopo, e subito riconosce di avere contribuito a realizzare «Un’altra pietra miliare nel campo della fotografia» (ma i biografi discordano sull’attribuzione della frase). E pensare che nessuno l’ha buttato ai pescecani. Basterebbe una veloce lettura dei dipinti di Honoré Daumier (Le Wagon de troisiè-

me classe / Il vagone di terza classe, del 1862) e Gustave Courbet (Gli spaccapietre, del 1849) per comprendere che ogni forma d’arte o è la denuncia politica e sociale di un mondo ingiusto o è solo parte di una dottrina dell’integrazione al servizio della civiltà dello spettacolo. Di niente ha tanto paura l’arte contemporanea come di un’opera d’arte o di comunicazione che non esalta il consenso, ma lo distrugge. L’estetica della carogna non si pone in cielo accanto a dio, ma si cala in basso accanto agli uomini sfruttati e oppressi. A ritorno. Il preteso “purismo westoniano” non è affatto una ricerca della verità e allontanamento dal mondo materiale che il fotografo dice di non amare come scrivono storici ed esperti di varie taglie-. Tantomeno è vero che la “fotografia diretta” di Edward Weston (come lui stesso la definiva) è una rappresentazione più cruda e reale di quanto fosse nella realtà, o per lo meno di quanto non avessero raccontato fino ad allora i fotografi che l’hanno preceduto. Vero niente, per l’appunto. I banditi degli slum, di Jacob August Riis, i bambini operai, di Lewis Wickes Hine, o le puttane di casino, di E.J. Bellocq, sono lì, nella storia della fotografia che vale, a testimoniare che l’arte non va santificata, ma usata contro la disonestà intellettuale; e quando smaschera la fenomenologia del male è una provocazione che nessuno ti perdonerà mai. Per non dimenticare. Le poco più di duecento fotografie sgangherate che Tina Modotti teneva in una scatola sotto il letto sul quale faceva l’amore con Edward Weston e, incidentalmente, con la sua governante o qualche amico di passaggio, bastano a cancellare l’intera casistica fotografica del suo maestro. Infatti, Tina Modotti è stata un animale ferito dall’ipocrisia, una fotografa inizialmente destinata alla denigrazione calcolata, che è andata a rompere gli argini dell’empietà (senza il timore di prendere le armi contro la tirannia), per sempre.

Sotto ogni aspetto estetico/etico, Edward Weston rappresenta l’imperio dell’emozione raggelata di forme e linee lucenti, di contenitori vuoti, di candelabri dell’ordine costituito, che portano in sé i segni dell’insufficienza. «Del resto, l’intelligenza non è un trucco, e lo stile non è una trovata» (Louis-Ferdinand Céline). La fotografia incensata è speculare ai sistemi politici, economici e religiosi che la determinano. Da sempre, la fotografia idolatrata si affastella in un’estetica della menzogna a buon mercato. Non c’è purezza in nessuna forma d’arte, se non c’è l’anima libertaria che la sostiene. La fotografia è di chi la vede (in lingua rovescia). La fotografia che conta è quella che lascia negli occhi degli spiriti sensibili la memoria del mondo.

ESTETICA FOTOGRAFICA DEL PEPERONE

La fotografia è tanto più umana quanto più è libera. Le leggende muoiono. Edward Weston è una di queste. Le forme della passione -sotto le quali sono smerciate le sue fotografie in libri, mostre, convegni- ripropongono l’aura dell’artista completo e lo consacrano: «Indiscutibilmente uno dei protagonisti della Storia della Fotografia, che ha lasciato una traccia indelebile nel percorso del suo linguaggio espressivo» (FOTOgraphia, ottobre 2012). Tutto ciò ci fa riflettere, se non piangere di allegrezza, tanto più crediamo alla fotografia che racconta il malessere quotidiano dell’uomo rispetto al mondo. Se la fotografia si presenta come contraddizione, rispettare la contraddizione permette a ciascun artista di affabulare l’esercizio della libertà, ed è il modo migliore di rispettare la vita. L’eleganza formale, modernista, geniale che avvicina la fotografia di Edward Weston alla perfezione -secondo Ansel Adams, altro straordinario merlettaio dell’immagine sacerdotale- è una sorta di Summa Teologica del bello come frammento dell’indubitabile. Vero niente. Le fotografie di Edward Weston trattano di

paesaggi desolati, vecchie auto, fattorie vuote, pianure accecanti... linee, ombre, bianco, nero, grigio... tutto ben sistemato nell’ordine delle cose. La realtà c’è, ma non si vede. Si vedono i segni di ciò che per molti è arte e per altri omicidio dell’umano. Tutto appare semplice, niente è naturale, o forse troppo. L’artificio è nascosto, nemmeno bene. L’astrazione diventa l’opera. La vita vera è da un’altra parte. Il pittorialismo sonnecchia in ogni immagine, e si spinge fino a mostrare una versione della vita come fenomeno armonico con l’artista che la rifugge, ma al tempo stesso contempla nell’inautenticità del narcisismo. La fotografia del dolore, chiede solo la fine del dolore. L’estetica del peperone di Edward Weston si manifesta nelle sue fotografie di peperoni, melanzane, conchiglie, dune di sabbia, foglie di lattuga, cavoli, radici, pesciolini, cactus, funghi, altamente dibattute dove si fa professione di insegnare fotografia. Il rigore delle inquadrature, la forza della stampa a contatto, la nitidezza dei particolari esprimono appieno l’intenzionalità formale dell’autore; tuttavia, a guardare e riguardare le sue fotografie, ciò che più si coglie è la loro progettualità di fantasma della cosa trattata e specchio prezioso di sé... l’industria dell’intrattenimento è servita. Guardare la vita e non riconoscerla come un tradimento della società violata può essere terribile, ma anche accomodante. Sovente, l’inganno dell’arte è così radicato nell’educazione al cattivo edonismo, da sembrare la realtà. L’immagine del water (Excusado, 1925) è una tra le più riuscite di Edward Weston, e molto ci piace. Il senso estetico del fotografo sorregge la sua emozione... vi scorge la sensualità del corpo umano... una simbologia formale alla quale lavorerà con i nudi di donna. «Neanche i greci avevano mai trovato una sintesi più significativa della loro cultura […]; mi ha ricordato in qualche modo la Nike di Samotracia», di-

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Sguardi su ce Edward Weston, con la modestia che gli era propria. Il water assume così una sublimazione dell’oggetto, e il fotografo lega forma e materia in una sintesi che travalica il reale. Bello! Certo! Questo Excusado. Peccato che l’immagine di un qualsiasi gabinetto pubblico riesce a comunicare -più del water di Edward Weston- la cifra antropologica e sociale di ogni tempo (magari con un ragazzo drogato, sgozzato per pochi soldi o una dose di “polvere degli angeli”). La fotografia autentica figura l’imprevedibile della testimonianza: apre e scuote le teste, rompe ogni forma precostituita della coscienza, riavvia la ricerca, produce l’evento singolare dell’interrogazione... mantiene viva la tensione del non ancora detto (o del celato), del mai conosciuto (o dispregiato), e mostra la spinta del desiderio e il lievito della libertà là dove regnano il contagio della prepotenza e dell’esclusione. L’estetica del puro dispendio come teleologia del bello, del buono o del giusto allargata alla comunità che viene. Le metafore della visione che emergono dai nudi di Edward Weston non fanno irruzione nell’alveo edonista della sensualità materica, né sono -come anche l’ultimo critico da boudoir scrive- architettate nel segno del rigore e della perfezione. Le nude donne del fotografo statunitense non figurano una rottura con l’esistente, come le peccatrici denudate di E.J. Bellocq, l’intimità scoperta di Man Ray e la simulazione delegittimata di Brassaï: qui c’è la surrealtà del desiderio come apertura dell’altrove. Nei corpi di donna di Edward Weston c’è la compulsione a ripetere di una ritrattistica virtuosa, come metonimia del desiderio che orienta la lettura nella beatitudine estetica/etica del consenso certo. «È come farsi un clistere di acqua benedetta» (Michel Onfray). Dare libero corso alle passioni radicali, agnostiche e dissolute significa rifiuto di ogni autorità in maniera di fotografia. È il dispendio dell’erotismo per-

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cepito come effluvio di immagini, sapori, odori, corpi in amore, o la sregolatezza libertina e libertaria della voluttà che mette fine a ogni innocenza o virtù imposte, e mostra l’arte di vivere. Se letta in controluce, e al di là dei valori tecnici riconosciuti anche dagli abatini della fotografia inanimata -o still-life (sempre tentati di fare la pubblicità dell’arte e l’arte della pubblicità al cospetto del libro paga che, talora, li incorona come cantori della mitografia consumerista)-, la scrittura estatica (uscire fuori di sé) dei nudi fotografici di Edward Weston è davvero un’iconografia abbastanza irrisolta, dal punto di vista della nudità come contro-morale dell’esistenza. Nella confraternita dell’indecenza, della bottiglia o della sovversione non sospetta di tutti i valori (alla quale siamo legati con amorevolezza fraterna), la liberazione dei corpi (la sessualità liberata) rappresenta un viatico nel quale si rigettano fedi, ideologie, morali, e, fuori da ogni contemplazione dell’esistente deflorato dai codici predominanti, riconosce nell’arte del presente ciò che è possibile realizzare. L’uomo libero è il creatore dei propri valori. A volte, la fattografia ignuda di Edward Weston incuriosisce. Come l’immagine di un culo visto un po’ dal basso (Arizona, 1934), incorniciato in un nero accattivante: la fotografia è ben fatta, luci e ombre perfetti (forse), il culo è bello in sé. Però, tutto questo candore puzza di marcio... cioè sembra un’immagine fatta apposta per essere attaccata in un ufficio della Cia senza scandalizzare nessuno, nemmeno la donna delle pulizie (che come molti sapranno, sa di fotografia molto più di certi storici e critici che si esibiscono sul boccascena dello spettacolo)... l’odore di santità è forte. Chi è stato toccato dalla grazia non puzza di vino cattivo, né di vespasiano. Tuttavia, solo gli artisti ereticali riescono a cogliere l’eccellenza di quelle idee (sovversive) rivestite dell’ineffabile, diceva.

Edward Weston è un asceta che corre dietro alla sua ombra. Il culo doveva piacere molto a Edward Weston, dico in fotografia. Nel 1926, ha costruito un’immagine orrenda, anche ritoccata male, di un culo di donna, appunto. La donna è piegata in avanti. Il taglio delle natiche è ampio. Il nero avvolge il corpo quasi a deificarlo... non ci riesce... la fotografia non canta una mancanza -il corpo-, ma il feticismo del suo ricordo. Ricordiamo che il desiderio sessuale non implica il segno del riconoscimento, la passione dell’amore, ma la presenza del corpo dell’Altro, o almeno una parte del corpo, un suo “divino dettaglio” (Jacques Lacan). Questo “divino dettaglio” di Edward Weston non rimanda a nessun corpo, semmai a una concettualità informe. La divinità del culo è sbagliata (direbbero Georges Bataille e Jean Genet). La sequenza della ragazza nuda che Edward Weston ha fotografato nel deserto dell’Arizona, nel 1936, è piuttosto banale. La ragazza è piegata sulla sabbia; le mani abbandonate (le dita sono un po’ chiuse), il volto quasi nascosto dai capelli, l’inclinazione della testa verso il basso, le gambe assemblate non proprio bene... restituiscono un’immagine povera, dal punto di vista discorsivo povera. Il biancore del corpo sborda nella delicatezza delle ombre; però, lo sguardo resta fuori dall’autenticità della bellezza creativa, che è sempre la profanazione del desiderio di verità, anche il più nascosto. Si vede: mentre fotografava i nudi della ragazza (chi fosse lo sappiamo, ma non c’importa dire), Edward Weston non era proprio baciato dal soffio della poesia. Questa volta, la fotografa di spalle, adagiata sulla sabbia... il corpo è un po’ piegato, dormiente... le gambe sono larghe, la faccia chiusa tra le braccia... le ombre sono quasi assenti, il bianco e il grigio invadono l’immagine... la piattezza è di quelle poco invidiabili... il simbolico prevale sul reale e tutto torna a vantaggio di un qualsiasi gallerista e dell’artista che

ha scoperto il vacuo, come fantasma primario della merce. In una terza immagine, Edward Weston fa anche di peggio. Inquadra (un po’ dall’alto) la ragazza avvolta nella sabbia... il corpo è fresco... la testa è abbassata tra le braccia, come una Madonna denudata, per niente svergognata (e questo è un pregio)... i seni alti, il pube nero, le gambe si toccano quasi con pudore (bello!)... i piedi sembrano volare sulla sabbia grigia... il pallore della pelle rimanda alla sacralità dei santini, dove tutto è talmente falso che può passare anche per vero... sembra dimenticare che tutto ciò che è deificato è privo di fondamento. La fotografia è il segno della magia, della cosmogonia, dell’epifania di una concezione del mondo e della sua realizzazione estetica/etica. Quando è grande, lega le proprie utopie con l’arte (la vivenza) di una società riconciliata con se stessa e nega -sotto ogni aspetto- l’esaltazione dell’aspersorio creativo come fatalità e concezione veridica dell’arte che non conosce l’esilio o la Bastiglia. Tutto qui. Nell’arte della fotografia (come in ogni forma d’arte), il disprezzo, la disaffezione, il godimento e il piacere sono gli imperativi della realtà demistificata. La gaia scienza della fotografia randagia è la bellezza della carne, del vero, del giusto che si fa pensiero... un’estetica libertaria, che dà libero sfogo alle passioni, alla dissolutezza, alla provocazione sfrenata... rifiuta ogni autoritarismo e la buona creanza dei mercanti d’illusioni (non solo) fotografiche... opera alla decostruzione del cinismo, dell’austerità, dell’equità, del rigore... mette in scena la dismisura del vero, del bello e del buono, come affermazione della vita autentica. Che la fotografia sia con voi e più ancora con Lazarillo de Tormes, che non ha mai saputo chi era suo padre, ma ha fatto della torcia l’arte di gioire. Quando è vissuta anzitutto nel sangue dei giorni, la fotografia acquista un’eccezionale carica eversiva di verità. E diventa storia. ❖




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