Mensile, 6,50 euro, Poste Italiane SpA - Spedizione in abbonamento postale - D.L. 353/2003 (convertito in Legge il 27-02-2004, numero 46), articolo 1, comma 1 - DCB Milano
ANNO XX - NUMERO 191 - MAGGIO 2013
Fukushima 2011 SILENZIO ASSORDANTE Leica Talent 2012 PAOLO CIREGIA
MAURO VALLINOTTO APPUNTI FOTOGRAFICI DA CUBA
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O T N E M A N O B B A N I O L SO
Fukushima 2011 SILENZIO ASSORDANTE Leica Talent 2012 PAOLO CIREGIA
MAURO VALLINOTTO APPUNTI FOTOGRAFICI DA CUBA
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ANNO XX - NUMERO 191 - MAGGIO 2013
ANNO XX - NUMERO 190 - APRILE 2013
In mostra a Modena TRE STORIE VERE Guerra del Mali RITRATTI DA UN CAMPO PROFUGHI
ANNO XX - NUMERO 189 - MARZO 2013
World Press Photo 2013 DAVANTI AL DOLORE
Era analogica QUESTA È LA FINE
1914-2013: NOVANTANOVE ANNI BUON COMPLEANNO, LEICA
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prima di cominciare QUELLI CHE. Venerdì ventinove marzo è mancato Enzo Jannacci, una delle figure più alte e nobili della canzone italiana d’autore. Altrove, in spazi preposti, ne è stata rievocata la vita e la carriera. Qui, richiamiamo La fotografia, presentata al Festival di Sanremo, nel 1991, inclusa nell’album Guarda la fotografia. La fotografia Uhe, no guarda la fotografia sembra neanche un ragazzino io, io son quello col vino lui, lui è quello senza motorino così adesso che è finito tutto e sono andati via e la pioggia scherza con la saracinesca della lavanderia no io aspetto solo che magari l’acqua non se lo lavi via quel segno del gesso di quel corpo che han portato via e tu maresciallo che hai continuato a dire andate tutti via andate via che non c’è più niente da vedere niente da capire credo che ti sbagli perché un morto di soli tredici anni è proprio da vedere perché la gente sai magari fa anche finta però le cose è meglio fargliele sapere.
Non affermo certezze, ma frequento dubbi. Maurizio Rebuzzini; su questo numero, a pagina 9 Del resto, indipendentemente dal contenitore erotico (dichiarato e notificato), l’intimità degli atteggiamenti, delle posture e delle enunciazioni è sempre e comunque stilema che definisce la posa fotografica consapevole, che appartiene al lungo tragitto del linguaggio espressivo della stessa fotografia, a partire dalle proprie origini. Angelo Galantini; su questo numero, a pagina 49 L’arbitrarietà della Lomografia, fenomeno dei nostri tempi, non ha alcun tratto in comune con altre interpretazioni personali e intime della fotografia. Antonio Bordoni; su questo numero, a pagina 56 La fotografia del consumo permesso non riguarda la grazia né la bellezza della fotografia del dissidio praticata dai grandi randagi dell’immagine ereticale. Pino Bertelli; su questo numero, a pagina 66
Guarda la fotografia sembra neanche un ragazzino io son quello col vino lui è quello senza motorino era il solo a non voler capire d’esser stato sfortunato
Copertina Inquadratura di dettaglio, dal reportage del fotogiornalista Mauro Vallinotto da Cuba, con testimonianza di uso della Nikon 1 V2, della quale riferiamo da pagina 34. Alla stessa pagina 34, la composizione originaria
nascere in un paese dove i fiori han paura e il sole è avvelenato e sapeva quanto poco fosse un gioco... la sua faccia nel mirino la... ohi... la... da... daradan... daradan... daradan... è finita la pioggia tutto il gesso se l’è portato via lo so che ti dispiace maresciallo, ma appoggiato alla lavanderia
3 Altri tempi (fotografici) Folding 6x9cm Rhaco dei secondi anni Venti del Novecento: «Macchina [fotografica] a pellicole e lastre, pratica, elegante, ottica ricercata»
era il mio di figlio, e forse è tutta colpa mia perché perché come in certi malgoverni se in famiglia il padre ruba anche il figlio a un certo punto vola via e così lui non era lì per caso no. Anche lui sparava e via ma forse il gioco era già stanco e non si è accorto neanche che moriva guarda la fotografia sembra neanche un ragazzino io son quello col vino lui è quello senza motorino guarda la fotografia sembra neanche un ragazzino
7 Editoriale Le esuberanti tecnologie dei nostri giorni stanno minando la socialità, compromettendola e indebolendola. Soprattutto, stanno mortificando l’approfondimento, la comprensione, l’orientamento e il pensiero. Ne dovremo riflettere. E rifletteremo... quanto prima
8 Doppia negazione! Provocatorio pamphlet Dio non esiste, la fotografia sì!, di Pino Bertelli e Ando Gilardi. In prefazione (a invito), Maurizio Rebuzzini prende le distanze da qualsivoglia affiliazione di carattere religioso e assoluto. Diamine!
io son quello col vino lui è quello senza motorino la fotografia la fotografia la fotografia
10 Notizie Attrezzature, vicende e altre segnalazioni
tutto il resto è facce false della pubblicitaria tutto il resto è brutta musica fatta solamente con la batteria tutto il resto è sporca guerra stile stile mafieria la fotografia tu che sei famoso, firma firma per piacere la fotografia.
12 Da Toscani e oltre Organizzate dall’Associazione Fotografi Italiani Professionisti, le Lectio Magistralis di fotografia e dintorni sono esordite con una conferenza di Oliviero Toscani
MAGGIO 2013
RIFLESSIONI, OSSERVAZIONI E COMMENTI SULLA FOTOGRAFIA
15 Quella bandiera Il film Flags of Our Fathers, di Clint Eastwood, rievoca le vicende correlate a una fotografia epocale, realizzata da Joe Rosenthal: la bandiera statunitense issata sul monte Suribachi, nell’isola di Iwo Jima Ricerca iconografica di Filippo Rebuzzini
Anno XX - numero 191 - 6,50 euro DIRETTORE
RESPONSABILE
Maurizio Rebuzzini
IMPAGINAZIONE
Maria Marasciuolo
REDAZIONE
Angelo Galantini
21 In similitudine
FOTOGRAFIE
Con accostamenti garbati, la selezione Cani e umani, di Davide Mengacci, rispetta le singole personalità
SEGRETERIA
Rouge
Maddalena Fasoli
HANNO
24 Myosotis Paolo Ciregia si è affermato al Leica Talent 2012, categoria M (professionale), con un intenso reportage sul Centro Clinico Nemo. Missione della fotografia è anche rivelare la vita nel proprio svolgersi di Maurizio Rebuzzini
32 Leitz Prado 66 Dal 1954 a cura di New Old Camera
COLLABORATO
Pino Bertelli Beppe Bolchi Antonio Bordoni Chiara Lualdi Davide Mengacci Franco Sergio Rebosio Ciro Rebuzzini Filippo Rebuzzini Mauro Vallinotto Ryuichi Watanabe (New Old Camera) Redazione, Amministrazione, Abbonamenti: Graphia srl, via Zuretti 2a, 20125 Milano; 02-66713604 www.FOTOgraphiaONLINE.it; graphia@tin.it.
34 Appunti da Cuba
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In viaggio con la Nikon 1 V2. Si sottintende ciò che è e deve anche essere l’esercizio della fotografia Testo e fotografie di Mauro Vallinotto
● FOTOgraphia è una pubblicazione mensile di Graphia srl, via Zuretti 2a, 20125 Milano. Registrazione del Tribunale di Milano numero 174 del Primo aprile 1994. Poste Italiane SpA - Spedizione in abbonamento postale - D.L. 353/2003 (convertito in Legge il 27-02-2004, numero 46), articolo 1, comma 1 - DCB Milano.
42 Scatti concreti Shot by Kern è una affascinante monografia che riunisce oltre trecento fotografie di ragazze/donne comuni, non professioniste, in esplicita proposizione erotica di Angelo Galantini
50 Silenzio assordante Migthy Silence, del giapponese Yasushi Handa, testimonia le conseguenze dello tsunami del marzo 2011
56 Identità Lomo Due raccolte in cofanetto raccontano i primi venti anni della Lomografia: per l’appunto, Lomo Life. E dintorni di Antonio Bordoni
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Rivista associata a TIPA
62 Quante storie! Avvincente e convincente retrovisione d’autore: Gianni Berengo Gardin. Storie di un fotografo
64 David LaChapelle Sguardo su un protagonista del cattivo edonismo di Pino Bertelli
www.tipa.com
editoriale T
ecnologicamente parlando, il nostro presente è persino esuberante: disponiamo certamente di più di quanto abbiamo bisogno. Stiamo registrando una crescita esponenziale, che non ha paragoni con nulla di precedente: e sia chiaro come e quanto siamo consapevoli che “tecnologia” non sia sinonimo di elettronica e dintorni, ma significhi qualcosa di più sostanzioso e sostanziale. Dal greco τεχνολογία (tékhne-loghìa), letteralmente “ragionamento (o discorso) sull’arte”, tecnologia intende il saper fare. Da cui dovrebbe derivare il dover fare. E a questo proposito è giocoforza ribadire l’origine: per quanto la tecnica (base fondante) riguardi la manualità, il “ragionamento” intende la razionalizzazione e comprensione dei risultati raggiunti attraverso l’azione concreta. In traduzione: la tecnologia diventa il progetto della tecnica. Nella dialettica del fare e del sapere, tecnologia e progetto hanno interagito nel corso del tempo, spesso scambiandosi di ruolo nel promuovere l’evoluzione della stessa tecnologia. Certo: la tecnologia influenza in modo decisivo il benessere degli individui e della collettività. L’utilizzo da parte dell’Uomo della tecnologia ha avuto inizio con la conversione delle risorse naturali in strumenti semplici: dalla scoperta e controllo del fuoco, che ha aumentato le fonti disponibili di cibo, all’invenzione della ruota, che ha aiutato a muoversi e viaggiare in uno spazio sempre più ampio. In ogni caso, ogni tecnologia ha ridotto barriere fisiche e ha permesso di interagire liberamente su scala sempre più globale. Nel complesso, quindi, un luogo comune assolutamente diffuso contrappone tra loro la natura e l’artificio, l’ambiente originario e le trasformazioni prodotte dalla tecnologia. A ben vedere, però, l’Uomo non introduce nella natura qualcosa che già non esista. Tutti i processi realizzati possono essere illustrati come riproduzione di meccanismi naturali per il raggiungimento di una meta individuale o collettiva, laddove in natura il più delle volte questi stessi processi avvengono in modo casuale. L’antagonismo tra naturale e artificiale non è qualitativo (tipo di trasformazione, fattori implicati), ma quantitativo (riconducibile alla intensità nel consumo di risorse rinnovabili e non rinnovabili). Oggigiorno, si dovrebbero aggiornare le considerazioni. L’esuberanza tecnologica non inquina tanto la natura, minandola, quanto la socialità, compromettendola e indebolendola. Anche dal solo punto di vista fotografico, che è quello che ci compete (competerebbe), è chiaro e lampante come la progressione tecnologica si accompagni con impoverimento sociale. Addirittura, con perdite di capacità individuali di pensiero e ragionamento. Abbiamo tanto, sicuramente troppo, ma non sappiamo cosa farcene. Tanto è vero che l’abbondanza di informazioni in tempo reale, per dirne una, ha ucciso l’approfondimento, la comprensione e l’orientamento. Ed è anche su questo si dovrebbe riflettere. E rifletteremo... quanto prima. Maurizio Rebuzzini
Ovviamente, è luogo comune intendere tecnologia con elettronica e digitalizzazione (dei nostri tempi). No: tecnologia è il ragionamento sull’arte del saper fare (e dover fare). Per la prima volta nella storia dell’Uomo, l’attuale esuberanza tecnologica influisce negativamente sulla socialità. Da parlarne.
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Riflessione di Maurizio Rebuzzini
DOPPIA NEGAZIONE!
P
Pino Bertelli, che su queste nostre pagine affronta ogni mese un autore della fotografia (Sguardi su, in chiusura di fogliazione della rivista), aggredisce la materia con piglio e decisione. Diciamolo chiaramente: senza compromesso alcuno. Per farlo, e nel farlo, ricorre spesso a paradossi fonetici, utili a rafforzare e sottolineare le proprie inderogabili idee sulla fotografia... che si proietta sulle esistenze individuali e collettive. In questo, si è perfettamente accordato con Ando Gilardi, personalità di spicco della fotografia commentata e analizzata, mancato lo scorso 5 marzo 2012, commemorato dallo stesso Pino Bertelli sul nostro successivo numero di giugno: «L’ho conosciuto bene Ando Gilardi... mi è stato amico e maestro... ci siamo frequentati per quasi vent’anni... scambiati lettere, opinioni, invettive sull’uso politico o poetico della fotografia... lo andavo a trovare, una o due volte l’anno... lassù nei boschi dove aveva fatto il partigiano, in quella casa in fondo al paese... colorata delle sue opere sparse dappertutto... si mangiava qualcosa con Luciana, sua moglie, e poi ci si rinchiudeva nella sua stanza/studio... fascinosa... piena di cose, libri, stampe digitali delle sue fotografie surreali... accendevo il registratore e fermavo nel tempo le nostre lunghe discussioni sulla politica, la fotografia, la Shoah, la resistenza sociale. [...] «Ti abbraccio teneramente, à bonne lumiere Ando, con chi ami e chi ti ama... là dove le nostre lacrime s’incontrano, i nostri cuori si danno del tu! Ciao (lasciami il posto alla tua sinistra, a destra ci mettiamo una corona di spine d’acacia e ci facciamo sedere chi sappiamo noi)». In quell’occasione, Pino Bertelli anticipò un’edizione libraria: «Eretico dell’eresia, [Ando Gilardi] sosteneva, a ragione, che per chi scrive o fotografa a un certo grado di qualità è sempre aperto il reparto degli incurabili dell’utopia... quindi, “Meglio ladro che fotografo” diceva. Le nostre conversazioni, scambi di idee, e-mail
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Dio non esiste, la fotografia sì!, lettere, invettive, eresie di Ando Gilardi e Pino Bertelli; prefazione di Maurizio Rebuzzini; NdA Press, 2013 (via Pascoli 32, 47853 Cerasolo Ausa di Coriano RN; www.ndanet.it); 224 pagine 21x20,5cm; 15,00 euro.
quasi giornaliere... sono poi finite in un pamphlet: Dio non esiste! La fotografia sì!, il titolo è di Ando». Pubblicato da NdA Press all’inizio dell’anno, Dio non esiste, la fotografia sì!, titolo definitivo e ufficiale, si presenta e offre come Lettere, invettive, eresie, e si specifica come Conversazioni sulla storia infame della fotografia pornografica e sulla storia bastarda della fotografia sociale. I riferimenti sono forti, oltre che espliciti, oltre che paradossali. Ma, tant’è! Conosco abbastanza bene Pino Bertelli, del quale apprezzo il candore e la purezza ideologica. Come annotato in altre occasioni, a questa temporalmente precedenti, non
sempre ne condivido le opinioni: ma lui ha il diritto di esprimerle e io, forse, il dovere di pubblicarle. Ho conosciuto abbastanza bene Ando Gilardi, con il quale, per un paio di stagioni, ho condiviso anche gli spazi del reciproco lavoro, e che mi è stato direttore (assieme a Roberta Clerici) nella redazione di Photo 13, mensile dell’inizio degli anni Settanta, al quale -spesso- molti fanno ancora riferimento (ma non è più il caso di farlo). Questa partecipazione a tre mi è valsa l’invito a scrivere la prefazione al libro, con la quale non sono entrato in alcun merito concreto con i testi che vi sono stati raccolti, alternativamente di Ando Gilardi e Pino Bertelli, ciascu-
Riflessione no da par proprio. Però, per quanto ci si conosca, e ci sia conosciuti, ognuno di noi ha percorso strade fotografiche autonome, andando a maturare opinioni individuali che poco hanno in comune tra loro. Subito detto: personalmente, sono molto lontano dagli assoluti che hanno guidato il pensiero di Ando Gilardi e stanno definendo la scrittura di Pino Bertelli. Per equilibrare le loro severità, mi sono espresso in termini meno incondizionati. In un certo senso, ho anche mentito: perché, religioni a parte, sono convinto che qualcosa di più grande di noi deve pur esistere... l’alternativa a ciò che siamo sarebbe il nulla. E il nulla è troppo! Comunque, in ripetizione d’obbligo, ripropongo qui la mia prefazione a Dio non esiste, la fotografia sì!, avvincente trattato di contro-fotografia, con il quale si dovrebbero fare i conti, ammesso e non concesso che l’esprimersi senza steccati (da e con Pino Bertelli) abbia ancora qualsivoglia senso. La prefazione si intitola In ogni caso, senza religione alcuna!, e sottolinea il pericolo di ogni credo incondizionato e illimitato. Non entro nel merito di nessuna delle due questioni, per le quali si sono già sprecate tante parole. Forse, troppe. Non ho alcuna opinione sull’esistenza o meno di Dio, di un Creatore, e neppure sono così convinto che esista la Fotografia, almeno per come la intendono in molti. Forse, troppi. Mi spiego meglio, e poi lascio stare la vicenda: paradossi e metafore a parte, il mistero della Vita è tanto e tale da non consentirmi alcuna speculazione; ancora, la Fotografia si manifesta in una quantità di varianti ideologiche che il solo censirle mi pare impegno improbo, fuori dalla mia portata. Preciso ancora: non mi interessa alcuna religione, sia divina sia di affiliazione terrena. Da cui, e per cui, lascio perdere il richiamo originario -Dio non esiste, la fotografia sì!-, per ragionare altrimenti, senza comunque sfuggire al riferimento fotografico, per me indispensabile e d’obbligo, e senza rinunciare al richiamo religioso, implicito nella negazione di Dio a favore della Fotografia. In un mondo nel quale la Foto-
grafia è per ciascuno qualcosa di diverso di ciò che è per gli altri, fino ad assumere per ciascuno i connotati della confessione e devozione nella quale credere (il reportage, il bianconero, la fotografia chimica, quella ad acquisizione digitale di immagini, l’arbitrarietà del foro stenopeico e tanto altro ancora, tra cui scegliere), non affermo certezze, ma frequento dubbi. Una convinzione, sopra tutte, e nulla d’altro mi interessa veramente: la Fotografia deve essere un inviolabile gesto d’amore, non dipende mai da come la si realizza, ma perché lo si fa. Sì, l’applicazione volontaria e consapevole di tante convinzioni individuali -motivi conduttori e traccia indelebile di tante parole sulla fotografia- può anche introdurre una serie di valori che condivido e che mi sono particolarmente cari. Prima di tutto, e oltre tutto, per quell’attimo, che si fissa indelebilmente nel cuore e animo di ciascuno, dove rimarrà custodito per sempre, pronto a tornare in superficie per evocare vibranti emozioni. Per come la intendono in molti, la creazione di ogni immagine fotografica (chimica o digitale, poco conta) ribadisce quel processo creativo con il quale “la natura si fa di sé medesima pittrice” (espressione presa a prestito da evocazioni antiche, dell’epoca nella quale alcuni pionieri sperimentavano le strade chimiche della formazione automatica di immagini: che poi avremmo definito “fotografia”). No, come ogni altra opinione al proposito, qualsiasi convinzione elevata ad assoluto, a religione, dischiude porte che avviano in luoghi imbarazzanti e inquietanti. Per quanto segua con passione ogni espressione fotografica, sono anche convinto che molte frequentazioni dei nostri giorni, non tutte, per fortuna, rappresentino anche malaugurate alleanze. Come distinguere l’una intenzione e dimensione dall’altra? Con il cuore, prima che con altri criteri. Sto con Pino Bertelli, straordinario filosofo di strada della fotografia, quando annota che solo i poeti sanno veramente parlare della libertà, dolcissima e inebriante:
il dire senza steccati (né religioni) è sempre una sfida all’indicibile, è vivere se stessi come verità che riporta e diffonde l’impensato. Soprattutto nel caso della fotografia -afferma Pino Bertelli-, il fascino estraniato e stregato della fotografia rimanda alla parola mai detta, all’infelicità mascherata, alla violenza esasperante della quotidianità mai affrontata. In una creatività applicata, quale è quella fotografica, definita da differenze espressive immortali, il territorio della sua manifestazione esplicita è quello dell’immaginazione che va oltre l’immagine. Con Giacomo Leopardi: «L’anima s’immagina quello che non vede». Allora: se il linguaggio fotografico è -come effettivamente è- una straordinaria combinazione di regole logiche e usi arbitrari (ancora con Pino Bertelli), la fotografia tutta -senza religioni, senza chiusure, senza barriere- deve essere un fantastico atto d’amore: solo l’amore si accorda con quella situazione di verità che restituisce alla vita la bellezza che le è propria. Nel fotografare, ciascuno ha opinioni diverse su ciò che è degno di memoria, ma tutti abbiamo capito che se possiamo rubare un momento dall’aria (magari con una fotografia), possiamo anche crearne uno tutto nostro. Con la fotografia tutta -senza però aggiungere alcun credo assoluto e riduttivo-, è legittimo e indispensabile approdare a un effettivo riconoscimento di una fotografia che non vale solo per sé, e le proprie intenzioni e/o necessità di partenza, ma per qualcosa di altro che ciascuno trova prima di tutto in se stesso. Allora: non affermo certezze, ma frequento dubbi; ho opinioni mie su ciò che è degno di memoria. Ancora: l’applicazione volontaria e consapevole di tante convinzioni individuali [...] può anche introdurre una serie di valori che condivido e che mi sono particolarmente cari. Prima di tutto, e oltre tutto, per quell’attimo, che si fissa indelebilmente nel cuore e animo di ciascuno, dove rimarrà custodito per sempre, pronto a tornare in superficie per evocare vibranti emozioni. ❖
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Notizie a cura di Antonio Bordoni
LO ZOOM IDEALE. Domanda d’obbligo: quali caratteristiche deve avere lo zoom ideale? Alcune sono indispensabili: efficace apertura relativa, versatilità nella ripresa, possibilità di passare agevolmente da una condizione all’altra; per esempio, dal ritratto alla fotografia in interni. A questo, aggiungiamo un design compatto che accompagna una agevole escursione focale. L’eccellente Sigma 18-35mm f/1,8 DC HSM è il primo zoom di questa categoria che offre l’apertura massima f/1,8 a tutte le selezioni focali. Si tratta di uno zoom standard di grande luminosità per reflex ad acquisizione digitale di immagini, con sensore di formato APS-C.
cepita per risultati ottimali di sofisticata espressività. La combinazione ottica dà il massimo rilievo alle esigenze della fotografia artistica di quanti desiderano ottenere immagini fotografiche di qualità superiore, senza rinunciare alla compattezza e facilità di uso dell’obiettivo: ritratti, paesaggi, still life, macro e istantanee. Ancora, la linea Art è adatta per la fotografia in studio e fornisce risultati di alta qualità anche nella fotografia di architettura, nelle riprese subacquee e in molti altri generi fotografici. L’elevata luminosità relativa f/1,8 di questo zoom offre anche una migliore osservazione nel mirino reflex. In ripresa, consente, quindi, di impostare tempi di otturazione sistematicamente più rapidi e di distribuire al meglio e secondo esigenze anche particolari l’estensione o la contrazione della profondità di campo, con messa a fuoco da 28cm (e corrispondente rapporto massimo di ingrandimento 1:4,3). Disegno ottico di diciassette lenti divise in dodici gruppi; apertura minima f/16; diametro dei filtri 72mm; dimensioni 78x121mm (larghezza per lunghezza), 810 grammi di peso. (M.Trading, via Cesare Pavese 31, 20090 Opera Zerbo MI; www.m-trading.it).
INDISPENSABILE PER IL VIDEO! Sevenoak SK-MHF 03 è
In equivalenza al formato fotografico 24x36mm, immancabile riferimento d’obbligo, la variazione focale corrisponde all’escursione dalla visione grandangolare 27mm alla focale standard 52,5mm (angolo di campo da 76,5 a 44,2 gradi). La sua elevata luminosità relativa consente di finalizzare la propria creatività in qualsiasi situazione e condizione luminosa. Nell’attuale scomposizione ottica Sigma -scandita da linee definite Contemporary, Art e Sportsil Sigma 18-35mm f/1,8 DC HSM appartiene alla gamma Art, con-
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un efficace e congeniale Rig motorizzato per le reflex digitali di ultima generazione, in funzione video: efficiente supporto, che consente un ulteriore passo in avanti nella realizzazione di filmati di livello professionale. Realizzato sulla base del Sevenoak SK-R02 (uno dei bestseller della linea Sevenoak), il nuovo Rig SK-MHF 03 consente il controllo motorizzato della ghiera di messa a fuoco e della ghiera zoom dell’obiettivo di ripresa. Integra un sistema elettro-meccanico che, grazie a due pratici servo-motori e ad altrettanti anelli gommati, trasferisce il movimento alle ghiere di messa a fuoco e zoom dell’obiettivo. Inoltre, il Rig è dotato di un
Li-Ion, compreso nel kit di vendita, assieme al relativo ricaricatore a rete. (Rinowa, via di Vacciano 6f, 50012 Bagno a Ripoli FI; www.rinowa.it).
doppio sistema di comandi. I bilancieri per il controllo dello zoom e della messa a fuoco sono, infatti, presenti sia sulle impugnature anatomiche anteriori, sia su una comoda centralina collocata nella parte posteriore del supporto. Questo consente una perfetta gestione della messa a fuoco e dell’inquadratura, sia nelle riprese a spalla, sia quando il sistema è ancorato a un treppiedi. Il controllo ottimale è anche garantito dalla possibilità di regolazione fine della velocità di rotazione dei due servo-motori. Gli stessi servo-motori del Sevenoak SK-MHF 03 sono montati su supporti che scorrono sul binario principale. Questo consente un rapido ed efficace adattamento del Rig a qualsiasi tipo di combinazione reflex-obiettivo. I supporti sono anche dotati di regolazione in altezza, per consentire una perfetta trasmissione del movimento dai servomotori alle ghiere dell’obiettivo. Il Sevenoak SK-MHF 03 è costruito sulla base di rotaie standard in alluminio, da 15mm (interasse 60mm). Questo lo rende compatibile con analoghi elementi prodotti da altre aziende specializzate. Sevenoak rende comunque disponibili un’ampia gamma di raccordi e di supporti, che permettono di ancorare al Rig tutti gli elementi aggiuntivi che le riprese video richiedono: microfoni, monitor, illuminatori. Sempre come accessorio opzionale, è anche disponibile un contrappeso (SK-R02 CW), da ancorare nella parte posteriore del binario, per un bilanciamento ottimale del sistema. La configurazione è alimentata da un accumulatore
30X IN PICCOLE DIMENSIONI. Eccoci arrivati! Alla compatta di dimensioni ridotte, con potente zoom 30x: Sony Cyber-shot HX50, che ovviamente propone sofisticate funzionalità di uso. Combinato con lo stabilizzatore di immagini integrato, il sensore da 20,4 Megapixel consente di scattare fotografie e registrate video Full-HD di alta qualità, dai colori vibranti, anche con soggetti molto distanti. Provvista di potente zoom ottico 30x (Sony G 24-720mm f/3,5 equivalente; undici lenti in dieci gruppi, con cinque elementi asferici), Sony Cybershot HX50 è la compatta più piccola e leggera al mondo. L’ampia escursione focale garantisce maggiore flessibilità nella scelta della posizione dalla quale scattare, mentre la tecnologia di compensazione delle vibrazioni Optical SteadyShot assicura immagini di qualità sempre impeccabile. Anche alla selezione zoom massima (30x / 720mm equivalenti), la stabilizzazione dell’immagine ha un’efficacia doppia rispetto la precedente e apprezzata Cybershot HX200V2. Grazie al potente sensore Cmos Exmor R da 20,4 Megapixel e al processore Bionz, la HX50 realizza immagini ad alta risoluzione e di qualità elevata con prestazioni eccezionali anche in condizioni di scarsa luminosità. Con una velocità più che doppia rispetto alla Cyber-shot HX200V4 a pieno zoom, l’autofocus ad alta velocità permette di congelare anche gli istanti più sfuggevoli. Inol-
Notizie tre, grazie alla connettività Wi-Fi integrata, è possibile condividere i ricordi con amici e parenti, con la massima semplicità e rapidità (caratteristica dei nostri giorni). In aggiunta, per interventi individuali, oltre gli automatismi di uso, sono disponibili le regolazioni della compensazione dell’esposizione ed è previsto un selettore per impostare le modalità P/A/S/M. Inoltre, la compatta è provvista di slitta Multi Interface Shoe, per la connessione di accessori compatibili, come mirino elettronico, flash o microfono (per potenziare la qualità video e audio, abbinamenti congeniali alla funzionalità FullHD). Completa la versatilità di impiego un terminale multiplo, per l’utilizzo del telecomando. Altro aspetto fondamentale di questa configurazione è la consistente autonomia, indispensabile quando si è in viaggio e non
si dispone di una presa per la ricarica. La batteria agli ioni di Litio tipo X della Sony Cyber-shot HX50 è più piccola di quelle dei modelli precedenti, ma permette di scattare fino a quattrocento fotografie con un’unica carica. Ancora, si segnalano nove diversi effetti di immagine, che consentono interpretazioni fotografiche personalizzate. E poi sono possibili altri tre effetti aggiuntivi, per le immagini, in modalità Intelligent Sweep Panorama, oltre a quattro effetti per i filmati. (Sony Italia, via Galileo Galilei 40, 20092 Cinisello Balsamo MI; www.sony.it).
CLASSICI, IN ATTUALITÀ. La nota produzione ottica Schneider-Kreuznach, che tanto ha già dato alla storia evolutiva della tecnologia fotografica, dal piccolo al medio, al grande formato fotografico (su pellicola), si
propone anche nel mercato attuale delle reflex digitali. In aggiunta alla efficace gamma di obiettivi per sistemi a corpi mobili e dorso digitale di acquisizione delle immagini, ecco qui obiettivi di alta qualità per reflex dei nostri giorni. Schneider-Kreuznach ha realizzato una famiglia ottica per sensori full frame (24x36mm), adatta sia alle riprese fotografiche sia alle registrazioni video. Si comincia con tre focali fisse: Xenon T 35mm f/2,1, Xenon T 50mm f/2,1 e Xenon T 75mm f/2,1, in baionetta Canon Eos e Nikon F e in montatura PL, per cineprese professionali.
Oltre a condividere l’apertura relativa f/2,1, i tre primi Schneider Xenon presentano la medesima localizzazione dei comandi operativi, la stessa configurazione circolare del diaframma, a quattordici lamelle, robustezza meccanica in stile cinematografico e scala di messa a fuoco ingrandita e scandita. (www. schneiderkreuznach.com). ❖
Lezioni magistrali di Angelo Galantini
DA TOSCANI E OLTRE
A
Avviato a metà aprile con Oliviero Toscani, che ha provocatoriamente parlato nei termini di Il magnifico fallimento (giovedì diciotto aprile), l’avvincente programma di Lectio Magistralis di fotografia e dintorni segna la consistenza del ritorno sulle scene dell’Afip, l’autorevole Associazione Fotografi Italiani Professionisti, da tempo congelata. Ora, sotto la presidenza di Giovanni Gastel e con l’adesione alla Confederazione Nazionale dell’Artigianato (Cna, in acronimo), l’Afip ha messo a punto una serie di prospettive che definiscono e identificano una posizione concreta e attiva nel panorama italiano della fotografia professionale. Immediatamente a seguire, la prima serie di Lectio Magistralis di fotografia e dintorni prosegue con Ferdinando Scianna (Il mestiere di fotografo), il due maggio, Giorgio Lotti (Fotogiornalismo e ricerca), il sedici maggio, Settimio Benedusi (Come diventare un grande fotografo senza esserlo), il trenta maggio, Mimmo Jodice (Città sublimi), il tredici giugno, Toni Thorimbert (Ispirazioni), il ventisette giugno. Ogni lezione si tiene alla Triennale, di Milano, in viale Alemagna 6, dalle 19,00, con ingresso libero (fino a esaurimento dei posti disponibili; www.afip.it); e in diretta streaming all’indirizzo http://afip online.blogspot.it. Da cui, questa attuale personalità dell’Afip, proiettata all’esterno dei confini propriamente di mestiere, è segno di tempi (odierni), che impongono alla fotografia sostanziose riflessioni su se stessa, da condividere sia con coloro i quali ne fanno professione, sia con chi ne osserva la fenomenologia. In questo senso, non si smentiscono le origini dell’associazione, che richiamano tempi eroici e personalità che hanno scritto e contribuito a scrivere importanti pagine della fotografia italiana, ma si sottolinea l’inesorabile scorrere del tempo, con ogni propria possibile diramazione. Da una parte, l’Afip di oggi continua a promuovere l’indipendenza, l’innovazione creativa e
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Il programma delle Lectio Magistralis di fotografia e dintorni, promosso e organizzato dall’Afip, è esordito il diciotto aprile con il primo incontro con Oliviero Toscani, che ha intitolato Il magnifico fallimento. Introdotta da Giovanni Gastel, presidente Afip (a destra, al centro), la conferenza ha richiamato una quantità e qualità di pubblico come la fotografia non vedeva da anni. Le Lectio Magistralis sono programmate fino a fine giugno (pagina accanto), e riprenderanno dal prossimo autunno. Ogni incontro è altresì disponibile all’indirizzo http:// afiponline.blogspot.it.
Lezioni magistrali la qualità delle prestazioni delle imprese dei professionisti (così come recita lo statuto della Cna); da un’altra parte, la stessa Afip è consapevole di dover svolgere un ruolo anche verso la società tutta e nella società nel proprio complesso. A parte le questioni formali e imprenditoriali, che definiscono (e spesso ostacolano) il lavoro indipendente nel nostro paese, sia in fotografia sia in generale, che riguardano i singoli fotografi, che in associazione tra loro possono affrontarli con competenze e strumenti più efficaci di quelli a disposizione di ognuno, l’associazionismo di categoria in sé e l’adesione alla Cna Professioni (in un contenitore complessivo della Confederazione Nazionale dell’Artigianato, che comprende oltre cinquecentomila imprese italiane iscritte) comportano scelte di campo discriminanti, capaci di svolgere ruoli determinanti nel panorama della fotografia in Italia. All’interno della Cna, l’Afip si occuperà direttamente e prevalentemente di argomenti culturali (eventi, mostre, formazione, aggiornamento). Al contempo, le strutture Cna, che agiscono a livello nazionale, regionale e provinciale, e che hanno capacità di relazione e legami con-
solidati con le istituzioni, si occuperanno di tutte le problematiche formali inerenti la professione, anche alla luce della norma Uni sui Fotografi, di recente formulazione. In questo ambito, le Lectio Magistralis di fotografia e dintorni rappresentano qualcosa di fantastico, quasi magico, per definire come e quanto la fotografia appartenga alla vita... e la influenzi. Introdotta da Giovanni Gastel, presidente Afip, la serata di Oliviero Toscani, davanti a un pubblico addirittura straripante, è stata sintomatica. Veder scorrere sullo schermo una intera carriera, commentata e sottolineata, è stato stupefacente, emozionante e coinvolgente. Non si tratta e non si è trattato soltanto del successo di una vita, quella di Oliviero Toscani (e si è trattato anche di questo, sia chiaro), quanto, in avanti, di uno spaccato dei nostri tempi, del nostro mondo. Al solito, e come sempre sottolineiamo da queste pagine, in confronto ad altre espressioni visive (arti visive?), la giovane fotografia è aperta a novità e sperimentazioni: soprattutto, quando interpretata da autori di piglio e intelligenza (Oliviero Toscani docet) si sa mettere in gioco con il giornalismo, la comunicazione so-
L’Associazione Fotografi Italiani Professionisti (Afip) si è costituita a Milano, all’inizio degli anni Sessanta. È stata promossa da tredici professionisti con lo sguardo rivolto in avanti [in basso]. Nel corso di oltre cinquant’anni da quei giorni si sono susseguiti mille e mille accadimenti, che hanno influito sulla stessa vita dell’associazione e sui suoi intendimenti. In ogni caso, si possono sottolineare mirabili iniziative e avvincenti storie. Tra tante, ne isoliamo una esemplare, la rassegna Fotografia: professione, mito e responsabilità, allestita a Milano, alla prestigiosa e autorevole Rotonda di via Besana, a cavallo tra la fine del 1978 e l’inizio del 1979 [in alto]: fondamentale riflessione esistenziale e di contenuti sul mestiere.
LECTIO MAGISTRALIS
Le Lectio Magistralis di fotografia e dintorni, a cura dell’Afip (Associazione Italiana Fotografi Professionisti; www.afip.it), si tengono alla Triennale di Milano, in viale Alemagna 6; alle 19,00, con diretta streaming all’indirizzo http://afiponline.blogspot.it. 18 aprile 2 maggio 16 maggio 30 maggio 13 giugno 27 giugno
Oliviero Toscani Il magnifico fallimento Introdotto da Giovanni Gastel, presidente Afip Ferdinando Scianna Il mestiere di fotografo Conversazione stimolata da Giuseppe Di Piazza e introdotta dalla Gialappa’s Band Giorgio Lotti Fotogiornalismo e ricerca Conversazione stimolata da Antonio D’Orrico e introdotta da Marcello Cesena Settimio Benedusi Come diventare un grande fotografo senza esserlo Conversazione stimolata da Fabio Novembre e introdotta da Giorgio Ginex Mimmo Jodice Città sublimi Conversazione stimolata da Daniele Bresciani e introdotta da Lella Costa Toni Thorimbert Ispirazioni Conversazione stimolata da La Pina e introdotta da Alessandro Cattelan
A seguire: Giovanna Calvenzi (photo editor), Italo Zannier (storico della fotografia), Valerio Tazzetti (gallerista), Fabio Castelli (collezionista, ideatore e creatore di Mia Fair), Silvia Paoli (storica della fotografia), Giovanni Gastel (fotografo), Claudio Santambrogio (esperto di fotografia delle origini), Franco Fontana (fotografo), Donata Pizzi (fotografa), Maurizio Galimberti (Instant Polaroid Artist), Marco Glaviano (fotografo), Gianni Berengo Gardin (fotografo), Luca Stoppini (art director), Marpessa Hennick (modella), Umberto Corsale (agente fotografico).
I tredici soci fondatori dell’Afip (da sinistra, e dall’alto, su tre file): Giancolombo, Gianni Della Valle, Fedele Toscani, Alfredo Pratelli, Luciano Ferri e Gian Greguoli; Mario Dainesi, Roberto Zabban, Aldo Ballo e Italo Pozzi; Davide Clari, Edoardo Mari e Gian Sinigaglia.
ciale, la vita. In ripetizione d’obbligo, alla luce del suo avvio e di quanto sta per accadere, l’autentica lezione magistrale che traspare da questo programma è esplicita e diretta. Lo abbiamo già annotato, e qui lo ribadiamo, una volta ancora, una di più, mai una di troppo: la fotografia coincide ancora con l’uso che ne facciamo, e non con l’uso che lei fa di noi. ❖
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Cinema
di Maurizio Rebuzzini - Ricerca iconografica di Filippo Rebuzzini
QUELLA BANDIERA
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Regista e interprete della trasposizione cinematografica di I ponti di Madison County (film di consistente personalità fotografica; FOTOgraphia, novembre 1995), Clint Eastwood ha incrociato ancora la fotografia con l’eccellente Flags of Our Fathers (Usa, 2006), che richiama una vicenda discriminante del fronte del Pacifico della Seconda guerra mondiale, consegnata alla Storia da una fotografia epocale (FOTOgraphia, dicembre 2001). Il 23 febbraio 1945, le forze armate statunitensi conquistano un prezioso territorio: per l’occasione, cinque marine e un medico issano la bandiera stelle-strisce sulla sommità del monte Suribachi, nell’isola di Iwo Jima. Fotografato da Joe(seph) Rosenthal, dell’Associated Press, il momento è diventato uno dei simboli della Seconda guerra mondiale e un’icona per l’eroismo americano. E qui, e ora, non entriamo nel merito della vicenda dell’autentica bandiera, issata prima di questa, che abbiamo affrontato nel luglio 2007. Flags of Our Fathers è stato sceneggiato da Paul Haggis (che ha firmato anche il pluripremiato Million Dollar Baby), sulla base dell’originario romanzo omonimo di James Bradley: una biografia dei sei uomini nella fotografia di Joe Rosenthal, scritta dal figlio di uno di loro, che nel 2000 è arrivata al vertice delle classifiche librarie del New York Times, nella categoria dei saggi. Nel film, Joe Rosenthal ha il volto dell’attore Ned Eisenberg, che gli assomiglia molto. Con l’occasione, ricordiamo che prima di Flags of Our Fathers, di Clint Eastwood, la vicenda della fotografia epocale di Joe Rosenthal arrivò al cinema nel 1961: The Outsider, del regista Delbert Mann, che in Italia è stato trasformato in Il sesto eroe. In breve, si racconta la storia (reale? inventata? interpretata?) di Ira Hamilton Hayes (l’attore Tony Curtis), elevato a eroe nazionale per aver issato la bandiera sul monte Suribachi (dunque si parla di uno dei sei marine della fotografia, generalmente riferita all’isola di Iwo Jima). Frastornato da tanta attenzio-
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Cinema ne, Ira Hayes diventa alcolizzato, e poi trova la forza di uscire dal tunnel. Ancora a complemento, va segnalato che Clint Eastwood ha girato due film simultaneamente. Oltre la conquista di Iwo Jima, ha raccontato la difesa dell’isola dal punto di vista dell’esercito giapponese. Film di spessore, film straordinario, film epocale, Lettere da Iwo Jima è stato sceneggiato sulla base delle memorie del generale Tadamichi Kuribayashi, comandante in capo a Iwo Jima.
OLTRE LA BANDIERA
Nella fotografia di Joe Rosenthal, i sei marine che issano la bandiera statunitense sul monte Suribachi, nell’isola di Iwo Jima, sono, da sinistra: Ira Hamilton Hayes, Franklin Sousley, Michael Strank, John Bradley, Rene Gagnon (nascosto rispetto gli altri cinque) e Harlon Block.
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In realtà, l’effettiva partecipazione della fotografia a Flags of Our Fathers è quantitativamente limitata, addirittura modesta. Si risolve in fretta, con le sequenze iniziali dei marine che issano la bandiera in cima al monte Suribachi, a certificazione della loro presenza nell’isola e della loro intenzione a conquistarla militarmente (nodo cruciale per il fronte del Pacifico della Seconda guerra mondiale). Da qui, parte il racconto dell’utilizzo e finalizzazione della fotografia di Joe Rosenthal, per la raccolta di fondi a sostegno dell’impegno bellico degli Stati Uniti: ed è questa la qualità della presenza fotografica, che sottolinea come e quanto la fotografia influenzi la nostra vita. (E qualcosa di analogo, con altre intenzioni propagandistiche, alla fine della guerra, è stato organizzato in Unione Sovietica, con Stalin, che volle indicare soldati georgiani per la bandiera issata sul Reichstag, a Berlino, fotografata da Evgenii Khaldei -o Yvgeni Khaldi-; FOTOgraphia, giugno 2005). I sei marine (cinque marine e un medico) vengono richiamati in patria, dove -per l’appunto- sono presentati come eroi da offrire al pubblico: serate a invito, con tanto di rievocazioni del gesto, anche in forma pittorica e in sculture improvvisate di grande impatto e richiamo. Ovviamente, nessuna di queste iniziative provvisorie ha qualcosa da spartire con il monumento ai marine, sulla collina di Arlington, a Washington, all’ingresso dell’Arlington National Cemetery, comunemente citato e indicato come “Iwo Jima Memorial” (Marshall Drive, sulla Route 50, sei isolati dalla stazione della metropolitana Rosslyn). Questo monumento, dedicato a tutti i marine che hanno dato la propria vita in difesa degli Stati Uniti dal 1775,
Nel film Flags of Our Fathers, di Clint Eastwood, del 2006, si racconta delle consecuzioni e finalizzazioni della fotografia ripresa da Joe Rosenthal, sul monte Suribachi, nell’isola di Iwo Jima, il 23 febbraio 1945: è questa la qualità della presenza fotografica nel film, che sottolinea come e quanto la fotografia influenzi la nostra vita. Nel film, il fotografo Joe Rosenthal, dell’Associated Press, ha il volto dell’attore Ned Eisenberg.
Francobollo da tre centesimi ricavato dalla fotografia originaria di Joe Rosenthal, emesso l’11 luglio 1945. Stampato in centotrentasette milioni di esemplari, per lungo tempo è stato il francobollo americano a più alta tiratura. Nel 1995, nel cinquantenario, ne è stata pubblicata una edizione diversa.
Cinema
è stato eretto sotto la presidenza Dwight D. Eisenhower, l’11 novembre 1954, nel centosettantanovesimo anniversario della costituzione del corpo dei marine. È una imponente statua in bronzo, realizzata dallo scultore Felix W. de Weldon, alta quasi dieci metri (9,75 metri) nel corpo centrale, che supera i diciotto metri alla sommità della bandiera. In particolare, il film Flags of Our Fathers sottolinea subito, non soltanto presto, l’impatto che ebbe la fotografia, una volta pubblicata sulle prime pagine di tutti i quotidiani statunitensi: e qui sta il linguaggio della fotografia, con tutti i propri stilemi (e, dunque, la differenza tra l’istantanea della bandiera originaria e l’epicità dell’immagine di Joe Rosenthal). Come abbiamo già annotato nel maggio 2000 e dicembre 2001, la fotografia ha vinto il premio Pulitzer ed è stata riprodotta su francobolli, poster, magliette, oltre ad essere spesso parodiata in richiamo a eventi da sottolineare con forza e decisione, in virtù soprattutto della
Pubblicata in cronaca da tutti i quotidiani americani, la fotografia di Joe Rosenthal ha subito rivelato le proprie potenzialità propagantistiche a favore del sostegno dell’impegno bellico degli Stati Uniti, al culmine della Seconda guerra mondiale.
I sei marine (cinque marine e un medico) che hanno issato la bandiera statunitense sul monte Suribachi, dell’isola di Iwo Jima, furono richiamati in patria, dove vennero presentati come eroi da offrire al pubblico: rievocazioni negli stadi, cene e incontri, per raccogliere fondi.
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Cinema
Il regista Clint Eastwood non è all’oscuro dei retroscena della fotografia di Joe Rosenthal. Tanto che sui titoli di coda di Flags of Our Fathers presenta la fotografia della prima bandiera statunitense issata sul monte Suribachi, nell’isola di Iwo Jima, scattata da Lou Lowery. I fatti sono andati così. Appena arrivato sull’isola, il 23 febbraio 1945, Joe Rosenthal, giovane fotografo dell’Associated Press (trentatré anni), si affrettò verso il Suribachi, armeggiando con la sua Speed Graphic, la macchina fotografica 4x5 pollici standard per il fotogiornalismo dell’epoca. Arrivato in cima, Joe Rosenthal scoprì che la prima bandiera issata era stata sostituita per ragioni misteriose da una più grande. Cercò i marine che avevano realizzato il primo alzabandiera, per far loro ripetere la scena. Non riuscendo a trovarli, riunì un altro gruppo di uomini, per un secondo alzabandiera a scopo fotografico. (a sinistra, in alto) Il film Flags of Our Fathers, di Clint Eastwood, si conclude con la cerimonia di inaugurazione dell’Iwo Jima Memorial, all’ingresso dell’Arlington National Cemetery, a Washington (11 novembre 1954), che riprende la fotografia di Joe Rosenthal.
Nel cinema americano, l’evocazione del monumento di Washington ispirato alla fotografia di Joe Rosenthal è spesso utilizzato scenograficamente per stabilire -per l’appuntolo svolgimento nella capitale degli Stati Uniti. Tra i tanti possibili, due richiami a Codice d’onore, del 1992 (tre fotogrammi), e Independence Day, del 1996 (ultimo fotogramma, in basso).
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sua appartenenza di diritto alla memoria collettiva (per esempio, copertina di Time Magazine, del 28 aprile 2008; FOTOgraphia, febbraio 2010). In ogni caso, questa fotografia è una icona del nostro tempo (per quanto cerchiamo di usare il richiamo a “icona” con parsimonia). Lo ripetiamo, ribadendolo: fotografato da Joe(seph) Rosenthal, dell’Associated Press, il momento è diventato uno dei simboli della Seconda guerra mondiale e dell’eroismo americano. «La fotografia, la fotografia...», sospirava Joe Rosenthal quando veniva sollecitato al proposito, affaticato dal continuo trambusto attorno quest’immagine. «Non ho vinto io la guerra. Perdonatemi se vi dico che sono stanco di tutto questo». Poi rifletteva e raccontava con un sorriso e grande orgoglio di quell’istante congelato quasi settanta anni fa con un tempo di otturazione di 1/400 di secondo. Sorvolando ancora sulla sua riconosciuta ricostruzione (una posa ad uso fotografico, in dipendenza alle relative e indispensabili esigenze linguistiche), «Fu una folgorazione. Ricordo ancora la mia emozione, i miei sentimenti di allora. “La bandiera che svetta là su è la mia bandiera”, mi sono detto. Sono cresciuto sventolando bandiere. Avevo sette anni quando le truppe sono ritornate dalla Prima guerra mondiale e le ho viste marciare per la Pennsylvania Avenue». ❖
Dalla strada di Maurizio Rebuzzini
C’è un modo di vivere la propria convinzione fotografica che offre visioni e osservazioni straordinarie. È quello che fa rivisitare i propri archivi, alla ricerca di assonanze e dissonanze (sinonimi e contrari), che si sono manifestate nel corso degli anni. Di fatto, sia consapevolmente, sia inconsapevolmente (ma dal profondo del proprio essere), nel manifestare la propria fotografia, ciascun autore incorre e si imbatte in temi ricorrenti, guidati e suscitati dalla propria indole e dalle proprie passioni. Noto conduttore televisivo, Davide Mengacci è anche un diligente fotografo (Fotografo da marciapiede, si definisce), che osserva la vita nel proprio svolgersi. Su queste pagine lo abbiamo già incontrato nel settembre 2006, in presentazione e commento del suo Occhio curioso (e mente attenta e partecipe). Oggi ci riferiamo a una sua recente raccolta, riunita in forma di agile monografia a veicolazione controllata (tiratura in cinquecento esemplari), che
Hogan e il suo umano Davide Mengacci.
Similitudini da Cani e umani, di Davide Mengacci.
SILVIA AMODIO
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IN SIMILITUDINE
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Dalla strada
rappresenta, come appena anticipato, una rilettura d’archivio. La similitudine, a pagine affacciate, è subito sottolineata dal titolo rivelatore, Cani e umani: coppie di fotografie affini tra loro, una con soggetto canino, l’altra con analogo atteggiamento umano. Sia chiarito subito. Siccome il tema fotografico dei cani è solitamente attribuito a Elliott Erwitt, che l’ha svolto con costanza, questa visione di Davide Mengacci è altro. È qualcosa di intimo: non tanto la caricatura e farsa di cani in posture curiose, ma cani (e umani) autenticamente reali... sulle strade di tutti i giorni. Infatti, per lo più, il mondo animale è osservato e pubblicamente apprezzato soprattutto quando e per quan-
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Similitudini da Cani e umani, di Davide Mengacci.
to gli stessi animali smettono di essere se stessi, per emulare atteggiamenti e comportamenti dell’uomo. In genere, questo è lo spirito delle esibizioni al Circo, là dove nessun animale è naturale, ma sostanzialmente violentato: orsi con gonnellino che ballano a ritmo di musica, scimmiette con abiti da bambino che compiono gesti della vita umana quotidiana e via discorrendo. Lo stesso motivo conduttore definisce e caratterizza molte edizioni librarie a tema, appunto confezionate per offrire una visione addolcita del mondo animale; il basso profilo di queste monografie illustrate, addirittura terribile e profanante, si rivolge a un pubblico di mentalità e orientamento analogamente devastato.
Per cui, le similitudini di Davide Mengacci vanno rimarcate e apprezzate per la loro lievità e laicità, al di fuori di altre ideologie deviate e devianti: questa combinazione individuata tra Cani e umani è lontana e estranea a qualsivoglia compiacenza. I cani di Davide Mengacci non ammiccano, perché l’autore rispetta la loro dignità e individualità, appunto rappresentata in educata forma fotografica. A proprio modo, ognuno per sé e tutti insieme nell’incessante sequenza di immagini, ciascun cane afferma una inviolata rispettabilità e personalità. La stessa degli umani che li accompagnano e accostano in parallelo fotografico. Da apprezzare. Apprezzato. ❖
Paolo Ciregia si è affermato al Leica Talent 2012, categoria M (professionale), con un reportage sul Centro Clinico Nemo, che prende in carico e assiste pazienti affetti da patologie neuromuscolari, malattie degenerative e altamente disabilitanti. Progetto intenso, che -accostato a quelli degli altri cinque finalisti-, rivela lo stato di salute del fotogiornalismo italiano dei nostri tempi, capace di osservare con intensità e partecipazione straordinarie la vita nel proprio svolgersi. Anche questa, soprattutto questa, è la missione della fotografia
di Maurizio Rebuzzini
M
yosotis, titolo del reportage con il quale Paolo Ciregia si è affermato al Leica Talent 2012, categoria M (professionale), si richiama e riferisce ad Alessia, nata lo scorso febbraio da Laura, malata di Sla da oltre due anni. Nel suo genere, si tratta di un caso unico, che descrive al meglio lo spirito di speranza e positività che anima il Centro Clinico Nemo, ad alta specializzazione, che prende in carico e assiste pazienti affetti da patologie neuromuscolari, malattie degenerative e intensamente disabilitanti. La struttura accoglie sia i malati sia le loro famiglie, con una assistenza e un accompagnamento globali. Sono tante le storie che si possono raccontare, e Paolo Ciregia ne ha eletta una a simbolo complessivo e collettivo: per l’appunto, quella della piccola Alessia. A lei si riferisce il titolo del progetto, del reportage: Myosotis, termine scientifico che indica il fiore più comunemente conosciuto come non-ti-scordar-di-me, emblema dell’amore eterno del ricordo e simbolo di salvezza dal dolore e di speranza. Approdato in finale con un reportage svolto a Karkov, in Ucraina, lo scorso novembre 2012, Paolo Ciregia ha poi rea-
MYOSOTIS
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lizzato il suo Myosotis in adempimento alle condizioni del qualificato Leica Talent. Il tema originario è adeguatamente forte ed energico: racconto in chiave intima di una realtà sociale definita da giovani laureati che si perdono nell’abuso di droghe pesanti come fuga da una vita dura, senza alternative. Immediatamente a seguire, e in conformità con lo spirito del Leica Talent, che si propone l’individuazione di nuovi talenti nel
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campo della fotografia, ai quali offre visibilità e opportunità a livello nazionale, per regolamento, i sei finalisti della categoria M (professionale) si sono impegnati a realizzare, tra gennaio e febbraio, un progetto fotografico su un tema assegnato da Leica. In questo spirito, rivolto soprattutto alla sottolineatura delle attività di Onlus che agiscono nel nostro paese, Myosotis, di Paolo Ciregia, ha rivelato il bello dell’Italia, che il Centro Clinico Ne-
mo rappresenta: il valore della persona che va oltre la malattia. C’è un’affermazione di Edward Steichen -fotografo di inizio Novecento, che molti (troppi) giudicano con severità e inclemenza (non noi, che preferiamo accettare e comprendere, magari senza peraltro acconsentire)-, che abbiamo riferito in molte occasioni, a questa precedenti. Una volta ancora, una di più, mai una di troppo, ci pare opportuno ripeterci anche qui, so-
prattutto qui: «Missione della fotografia è spiegare l’uomo all’uomo e ogni uomo a se stesso» (Edward Steichen; 1969, in occasione del suo novantesimo compleanno). In questo senso, tutti gli svolgimenti dei sei finalisti del Leica Talent 2012, categoria M, che sintetizziamo in un apposito riquadro, pubblicato sulla prossima doppia pagina, rispondo(continua a pagina 30)
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GLI ALTRI CINQUE FINALISTI
Alla selezione finale del Leica Talent 2012 / M sono approdati sei fotografi. Oltre il vincitore Paolo Ciregia, segnaliamo gli altri cinque progetti. Serena De Sanctis: Dottor Sogni. Ecco, l’ho presa, finalmente... finalmente ho preso la luna. Ho sempre desiderato acchiapparla... Eccola nelle mie mani. Guardate qui?! È una luna divertente, si può sognare con lei, giocare a saltarello, a nascondiglio e persino darle dei calci e farla volare... come se fosse un grande Pallone. Invece è la luna. Frammento dalla poesia La finta luna, di Paolo D’Isanto. Il Dottor Ragù, Paolo D’Isanto, nasce a Pozzuoli, e nel 1992 si trasferisce a Roma. Dal 2000, è uno dei Dottor Sogni della Fondazione Theodora, che è presente in Italia in diciassette ospedali, in undici città, e porta il sorriso ogni anno a più di trentacinquemila bambini ricoverati.
Alessandro Luzi: Nemesis. Sul finire del Settecento, Johann Wolfgang von Goethe portò ai massimi livelli la tradizione del viaggio come strumento di contemplazione culturale. Venne in Italia, per sanare cuore e spirito. Nacque una visione del tutto goethiana del nostro paese, che lasciò un profondo segno. A fine Ottocento, sulla scia di questo, a Roma sorsero molte accademie straniere dislocate attorno a Villa Borghese. Si contrappongono due sguardi: quello del cittadino, che dal Pincio osserva Roma, e quello degli studiosi, che dalle accademie guardano il futuro, ripercorrendone il passato. In un tempo nel quale la desertificazione mentale dilaga, le accademie si presentano come impreviste oasi. Raccontare la bellezza dell’Italia attraverso questi sguardi è azione meritoria.
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Gianluca Panella: Oss! “Oss” è un saluto e segno di rispetto che proviene dalle arti marziali: «Si fa con un pugno avvolto da una mano aperta, rappresenta la solidarietà che abbraccia la sicurezza!», spiega Mario Furlan, fondatore dei City Angels. Gianluca Panella ha fotografato la spinta che trasforma comuni cittadini di giorno in angeli della città di notte. A domanda, ha risposto Elfo, vice coordinatore dei City Angels, di Milano: «Un giorno, a un luminare della scienza venne chiesto quale fosse la più grave malattia del secolo. Ci si aspettava che dicesse il cancro o l’infarto. Grande fu lo stupore, quando lo scienziato rispose: l’“indifferenza!”. Quindi, gli domandarono quale ne fosse la cura. Lo scienziato rispose: “Accorgersene”». Con il suo lavoro, Gianluca Panella racconta la storia di un gruppo di persone che “se ne accorge”.
Pietro Quaranta: Unglorios bastards. Reportage svolto presso il centro Enpa (Ente Nazionale Protezione Animali), di Torino, gestito da volontari, dove è attivo un programma di riabilitazione per cani ex combattenti, per lo più Pit Bull, che provengono da sequestri ad associazioni criminali. Generalmente, all’arrivo, i cani presentano gravi ferite e una psiche instabile, che li rende iper aggressivi e difficilmente controllabili. Il fotoracconto ripercorre i luoghi e i tempi del lavoro di Giusy, trentaquattro anni, addestratrice comportamentista, che accompagna i cani nelle proprie attività quotidiane e li conduce verso l’obiettivo finale: l’adozione. Grazie al lavoro di Giusy e degli altri volontari, a queste vittime della brutalità dell’uomo viene data la possibilità di riscoprire un rapporto solidale con le persone e i gli altri cani.
Serena Faraldo: Enziò. Nel paese nel quale vive, Enzo è chiamato “Enziò”. Lavora come operatore sociale per il gruppo Cgm, prendendosi cura di chi non può badare a se stesso autonomamente. C’è la signora Carmela da accudire, e i suoi tre figli, che sono adulti, ma che hanno l’animo e le esigenze di bambini. Enzo si prende cura di loro, a casa loro, come se fosse un fratello maggiore. E poi c’è la sua vita, la sua quotidianità fatta di gesti semplici, di cose normali. Questo è il racconto di un intreccio di vite... il racconto di una scelta non facile, non ripagata in termini economici, in un paese -come il nostro- nel quale si investe ben poco nel sociale. Eppure, è una scelta che qualcuno ancora compie: piccolo ingranaggio che -silenziosamentefa muovere la macchina del nostro paese.
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(continua da pagina 27) no a questo, declinano quella che è anche una delle missioni della fotografia (che altre tante ne ha). Così che siamo certi e consapevoli dell’imbarazzo della giuria selezionatrice (composta da Lorenza Bravetta, dal 2010 Development Director di Magnum Photos per l’Europa continentale, Denis Curti, direttore della sede milanese di Contrasto e
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vicepresidente della Fondazione Forma - Centro Internazionale di Fotografia, Inas Fayed, direttrice editoriale di Leica Fotografie International, Franco Pagetti, fotografo di moda e reportage, e Paolo Pellegrin, fotogiornalista, membro di Magnum Photos dal 2005). Siamo certi e consapevoli che non è stato assolutamente facile attribuire un premio, scegliendolo tra progetti di analogo spessore e valore. Ma, come evidente, se di
concorso si tratta... uno solo deve vincere. Uno solo vince. Ma gli altri cinque finalisti non si sentano sminuiti: tutti i reportage realizzati sono di altrettanta profondità e consistenza. Motivazione ufficiale per l’affermazione di Myosotis, di Paolo Ciregia: «La giuria della categoria M ha decretato la vittoria di Paolo Ciregia, con il progetto Myosotis, alla seconda edizione di Leica Talent. I giudici hanno scelto il lavoro di Paolo Ci-
regia per la straordinaria capacità di rendere in modo delicato e discreto un tema doloroso, entrando comunque in profondità nelle viscere del racconto. Tutto questo attraverso immagini forti ma non violente, che mostrano empatia e compassione per i soggetti fotografati, e evidenziano uno stile e una narrazione di altissimo livello». Ancora: missione della fotografia. ❖
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dal 1954
Leitz Prado 66
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APPUNTI In viaggio con la Nikon 1 V2. A un anno e mezzo, circa, da una prima testimonianza sul campo, con l’originaria Nikon 1 V1, della quale ha riferito con un viaggio in India, in FOTOgraphia del dicembre 2011, il fotogiornalista Mauro Vallinotto considera le innovazioni tecnico-pratiche della nuova configurazione derivata V2, utilizzata nel corso di una visita a Cuba. Tra annotazioni tecniche e considerazioni escursionistiche, entrambe concrete nella propria lievità, si sottintende ciò che è e deve anche essere l’esercizio della fotografia: memoria di emozioni e suggestioni da raccogliere con apparecchi fotografici da compagnia, che si impongono per il proprio bagaglio tecnico, senza peraltro interferire con le commozioni. Efficacia, con contorno di discrezione e riservatezza
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DA CUBA
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testo e fotografie di Mauro Vallinotto
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ono passati quasi vent’anni dal mio ultimo viaggio a Cuba. Allora, come inviato di Repubblica alla ricerca dei cattolici in attesa della visita nell’isola di papa Giovanni Paolo II. Oggi, come semplice turista equo-solidale. Per la fotografia, questi recenti venti anni sono stati tecnologicamente epocali: hanno segnato il passaggio all’acquisizione digitale di immagini, con quanto questo comporta, sia dal punto di vista tecnico-operativo, sia sulle sue inevitabili conseguenze nell’approccio al soggetto. Comunque, sono e rimango un fo-
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tografo, con un’esperienza alle spalle e una radicata consapevolezza della costruzione dell’immagine: dal reale alla sua rappresentazione, in forma di racconto. Allora, venti anni fa, mi aggiravo con un paio di Nikon F4 e un set completo di obiettivi nelle strade della città vecchia, dove i parroci esercitavano il loro sacerdozio in chiese dal tetto scoperchiato dalla violenza degli uragani, dove i cortili stretti tra alti muri diventavano improvvisati oratori per improvvisati giocatori di basket. Oggi, con il patrocinio dell’Unesco e un lavoro di restauro non dettato dalla speculazione alla quale siamo normalmente abituati, il centro storico si è trasformato in un piccolo gioiello architettonico, e io mi aggiro leggero
tra mille colori, rumori e rivisitazioni con la mia Nikon 1 V2 nella tasca della giacca. Il tempo non trascorre invano, a volte. Nel volo di andata verso l’isola caraibica, mi ripasso il libretto di istruzioni della V2... spesso, è un’ottima alternativa ai film disponibili a bordo. Annoto che, con lo spostamento nella parte superiore della ghiera di selezione video/fotografia, i progettisti hanno risolto quello che per me era un difetto molto fastidioso nella V1 [rilevato in FOTOgraphia, del dicembre 2011, con testimonianza di un viaggio in India]. Con la ghiera all’altezza del mirino, capitava spesso di inserire per errore la modalità video mentre si stava fotografando, o viceversa. Con risultati non proprio positivi. Poi, vedo che la ri-
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soluzione passa da dieci a quattordici Megabyte, in file grezzo Raw, il che permette di avere immagini da quasi 60Mb, come con una reflex professionale di ultima generazione. Quindi, il flash è incorporato a scomparsa sul piccolo pentaprisma e funzionerà, come vedrò, quasi meglio come luce di riempimento che come luce principale nella notte; mentre la nuova impugnatura promette una presa/tenuta decisamente migliore, sia nelle pose lunghe, sia lavorando (come ho fatto) con uno zoom 70-300mm e l’adattatore a baionetta FT-1. Ancora, rispetto alla V1, per il collegamento al computer, l’attuale Nikon 1 V2 utilizza il cavo Mini Usb standard; ed è decisamente aumentata la sensibilità Iso
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equivalente. Purtroppo, nella frenesia di restyling, i tecnici giapponesi hanno pensato bene di cambiare anche la modalità di alimentazione. Così, non volendo separarmi dal modello precedente, mi toccherà viaggiare con due caricabatteria e due scorte di batterie diverse. Per il turista curioso, dell’Avana della seconda metà degli anni Novanta restano ancora molte tracce, ma non in superficie. In quegli anni, si avvertiva una cupezza che strideva con la musica a tutto volume che usciva dalle stanze dei “solar”, il centro storico era al massimo degrado per la crisi economica susseguente al crollo dell’impero sovietico, e alla Bodeguita del Medio, il locale preferito da Ernest He-
mingway, stanchi camerieri servivano mojito annacquati. Le sue strade strette erano setacciate da famelici stormi di quineteras, ragazze di più o meno specchiata virtù, in cerca di turisti e valute pregiate, mentre personaggi umani degni dei racconti di Pedro Juan Gutiérrez tiravano a far tardi, abbandonati sulle soglie delle loro case. Oggi, la Bodeguita serve cocktail come si deve, le signorine “ciao italiano” sono quasi invisibili, dopo il giro di vite applicato da Raul Castro. La mini-liberalizzazione del fratello del Lider Máximo ha portato allo scoperto attività turistiche che precedentemente operavano nelle case private: molte botteghe artigiane sono state trasformate in locali di
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design, che non sfigurerebbero in corso Como, a Milano, con ristoranti dove una cena si paga solo in pesos convertibili ed equivale allo stipendio mensile di un professore, e dove la presenza dei cubani è spesso superiore a quella dei turisti con valuta forte. Miracoli del doppio mercato. In tutto questo, aiutato dalla discrezione della Nikon 1 V2 e da quella gentilezza e cortesia che fanno dei cubani una specie a parte nel panorama socio-politico del Centro America, ripercorro le aree meno conosciute della capitale. La riservatezza della macchina fotografica non appariscente fa di me un tranquillo turista, anche se un po’ curioso. Nella sua palestra con il ring all’aperto, al centro di un cortile, ritrovo Kid
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Chocolate, mitico campione dei pesi medi degli anni Sessanta, i guantoni sbrecciati, il sacco rattoppato. Entro in una scuola elementare, dove, sotto i ritratti del Che e di Camilo Cienfuegos, una bambina in divisa segue la lezione di geografia, accarezzando un gattino che si è portato da casa. Torno nelle case della Santerìa, ma molte magie di un tempo sono svanite. Mi fermo a osservare giocatori di domino nell’androne di un vecchio e buio palazzo, dove i 6400 Iso sono di rigore. Ma dalla notte si passa alla luce abbagliante, quella del Callejon de Hamel, un centro sociale dove anziane e giovani ballano la rumba tra nuvole di fumo, dove lavorano pittori di murales e scultori. La V2 fa il suo dovere, ma rimpiango, nella cal-
ca feroce, di non disporre ancora dell’annunciato zoom ultra grandangolare, equivalente a un 18-35mm. Il Malecón è a due passi. Lì, plotoni di fotografi, professionisti e non, hanno esercitato il proprio occhio a catturare, nel vento e negli spruzzi delle onde che si frangono sulla scogliera del lungomare, l’essenza del sapore di Cuba. Ragazzini in amore, famiglie con decine di bambini al seguito, venditori di girandole e lupini, medici diventati tassisti con vecchie Dodge anni Cinquanta per sbarcare il mese... tutto trasforma un tramonto sul Malecón in una palestra di rara umanità. Alla quale anch’io non intendo sottrarmi. Per nulla al mondo. ❖
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SCATTI
RUSSIA
CONCRETI
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FRANCIA
Derivata da un programma video trasmesso in Internet, dal 2005, Shot by Kern è una affascinante monografia che riunisce oltre trecento fotografie di ragazze/donne comuni, non professioniste, in esplicita e dichiarata proposizione erotica. Rispetto tanta altra noia e al tedio dei nostri tempi, già registrati e commentati lo scorso aprile, quest’altra fotografia (erotica) è fresca, brillante e accattivante. Il bravo statunitense Richard Kern non ricorre ad alcun sotterfugio, ma va diritto allo scopo, subito alla meta. Per quanto serva sottolinearlo, una fotografia della quale tenere conto, ammesso ma non concesso che l’erotismo visivo sia argomento meritevole di qualsivoglia attenzione. E poi, in accompagnamento, ancora altre due monografie a tema (o quasi)
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iusto un mese fa, lo scorso aprile, abbiamo annotato come l’erotismo fotografico dei nostri giorni sia poco brillante... almeno. Addirittura, lo abbiamo definito tedioso e noioso, quantomeno alla luce di quanto la capace e competente Dian Hanson, autorità in materia, ha censito per la consistente selezione The New Erotic Photography 2, comunque sia monografia della quale tenere conto. A questo punto, ammesso e concesso che l’erotismo sia una delle espressioni proprie e caratteristiche del linguaggio fotografico applicato, occorre sottolineare la capacità interpretativa di autori di richiamo e riferimento. Anzitutto, ci riferiamo all’edizione del valido Shot by Kern, del
POLONIA
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bravo e concentrato Richard Kern, a propria volta a cura della stessa Dian Hanson, richiamando poi altre due edizioni attuali dell’editore tedesco Taschen Verlag, che frequenta più di altri, e sicuramente meglio di altri, la fotografia erotica (in un catalogo di pubblicazioni estremamente vasto ed eterogeneo, che esalta il libro illustrato, spaziando in lungo e largo, dall’arte all’architettura, dalla moda alla fotografia, dal design a tanto altro ancora): la riedizione di Helmut Newton. World Without Men (originariamente del 1984), riattualizzata dalla mostra recentemente allestita alla Helmut Newton Foundation, di Berlino, e Ellen von Unwerth. The Story of Olga, in edizione a tiratura numerata [rispettivi riquadri a pagina 46 e 48]. Dopo precedenti monografie, tra le quali va ricordata almeno Richard Kern. Action, del 2007, dello stesso Taschen Ver-
BULGARIA
di Angelo Galantini
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SENZA UOMINI
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Helmut Newton. World Without Men; Taschen Verlag, 2013 (distribuzione: Inter Logos, strada Curtatona 5/2, Località Fossalta, 41126 Modena; www.libri.it); edizione multilingue, italiano, portoghese e spagnolo; 188 pagine 24x32,5cm, cartonato con sovraccoperta; 39,99 euro.
FRENCH VOGUE ; PARIGI, 1969
FRENCH VOGUE ; PARIGI, 1965
BRITISH VOGUE ; LONDRA, 1967
Originariamente pubblicato nel 1984, in edizioni nazionali (non in italiano), World Without Men, di Helmut Newton, è stato rieditato da Taschen Verlag (i cui meriti fotografici crescono di giorno in giorno), in occasione della mostra omonima allestita nelle prestigiose sale dell’Helmut Newton Foundation, di Berlino. Fedele all’originale, la monografia sottolinea gli anni formativi del celebre e celebrato autore, mancato all’inizio del 2004 (FOTOgraphia, febbraio 2005): esaustiva selezione di fotografie di moda ed editoriali, è accompagnata da testi dal diario dell’autore, che forniscono aneddoti e descrivono le circostanze di ogni servizio realizzato. Di fatto, si tratta dell’avvicinamento, anche filologico (perché no?) a una visione innovativa, che ha trasformato la fotografia di moda. Un’influenza che perdura e si conferma ancora oggi sulle pagine delle riviste specializzate.
STATI UNITI D’AMERICA SVEZIA
BELGIO
lag, lo statunitense Richard Kern conferma il proprio spirito fotografico con la corrente selezione Shot by Kern, con la quale ripercorre il tragitto di un erotismo visivo agile e smaliziato. Diciamolo: senza illusioni, né sotterfugi. In assoluto, si tratta di ragazze reali in contesti altrettanto reali, fotografate in tutto il mondo. La genesi è suggestiva e attraente. Il sito Internet www.vice.com, realizzato, gestito e curato dalla ironica rivista statunitense Vice, presenta e offre video originali su una vasta gamma di argomenti di attualità. Tra questi, ha avuto consistente successo proprio la serie fotografica Shot by Kern, avviata nel 2005, ideata dallo stesso fotografo (Richard Kern) in collaborazione con il caporedattore Jesse Pearson, che ha proiettato l’intraprendente stile fotografico dell’autore sul palcoscenico internazionale, all’agile portata delle facili (e anche casuali) connessioni in Rete. Per realizzare le sue immagini, nel corso dei recenti sette anni, Richard Kern ha viaggiato in tutto il mondo, accompagnato da uno staff video di Vice.com: si è recato in Belgio, Brasile, Bulgaria, Canada, Repubblica Ceca, Danimarca, Francia, Germania, Italia, Messico, Nuova Zelanda, Polonia, Russia, Spagna, Svezia, Svizzera e Inghilterra, oltre, ovviamente, tante escursioni negli Stati Uniti. L’attuale edizione libraria derivata, Shot by Kern, raccoglie e riunisce qualcosa di più e diverso rispetto le riprese video. Rivela le fotografie provenienti da queste videosessioni, durante le quali tutte le ragazze/donne intervistate hanno sottolineato il proprio sogno di essere autentiche e riconosciute New York Girls (altro titolo di Richard Kern, pubblicato da Taschen Verlag, nel 1997).
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INSAZIABILE!
Al secolo Olga Rodionova, ma conosciuta soltanto con il nome di battesimo, Olga torna con lussuriose avventure fotografiche, con un cast di personaggi di tutto rispetto (entro i termini e limiti del riferimento esplicito). In edizione limitata di mille copie, numerata e firmata dall’autrice Ellen von Unwerth, che abbiamo incontrato nel marzo 2010, per la monografia Fräulein, l’attuale The Story of Olga è un racconto fotografico che traccia il cammino di una giovane vedova, Olga, che -dopo la morte del suo ricco e anziano marito- si proietta verso una lussuria insaziabile. Cerca l’amore, accompagnata dalle ricchezze e stravaganze alle quali è abituata. L’argomento è trattato con originalità, nonostante sia stato già affrontato da Bettina Rheims, che ha pubblicato un suo The Book of Olga, sempre con Taschen Verlag, nel 2008.
Ellen von Unwerth. The Story of Olga; Taschen Verlag, 2012 (distribuzione: Inter Logos, strada Curtatona 5/2, Località Fossalta, 41126 Modena; www.libri.it); tiratura numerata di mille copie, firmata da Ellen von Unwerth; 350 pagine 33x43,6cm, in confezione di plexiglas a guscio; 500,00 euro. ❯ Art Edition: tiratura numerata e firmata (da Ellen von Unwerth); 250 copie, da 1 a 125 e da 126 a 250; ogni copia comprende una stampa fotografica di Ellen von Unwerth, incorniciata in plexiglas ( The Servants, del 2012; oppure, The Widow, del 2012); 1250,00 euro.
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La ricerca esistenziale di Olga rende questa favola assai poco tradizionale: è una eroina che non ha paura della propria lussuria, tanto da spingere la sua sensualità verso il lieto fine che desidera. Ambientata in un epico castello, nel quale sono concentrate tutte le caratteristiche di ricchezza e glamour, questa collaborazione tra la fotografa Ellen von Unwerth e Olga Rodionova racconta una esistenza di lusso sfrenato (e invidiabile?), alla maniera delle favole di tutti i tempi. Almeno nelle intenzioni. Al progetto, hanno contribuito la londinese Anna Trevelyan, giovane stilista che ha creato un contesto unico e affascinante, provocante e di alta carica sessuale, e il set-designer francese Fabienne Eisenstein, responsabile della ideazione dei riti pagani e delle stravaganti scene al castello.
La monografia è illustrata con oltre trecento fotografie inedite, che si indirizzano sia a coloro i quali hanno seguìto le trasmissioni Internet su www.vice.com, sia a coloro i quali seguono l’evoluzione contemporanea e la relativa trasformazione della fotografia erotica, qui espressa attraverso ragazze/donne non professioniste, molte delle quali hanno posato per la prima volta davanti a una telecamera e a una macchina fotografica. Molte di loro sono timide, non soltanto intimidite, altre più sfacciate e impertinenti, ma mai insolenti: in assoluto, tutte rispondono allo stilema espressivo dell’autore Richard Kern, che sottolinea il pudore e la compostezza dell’offerta esplicita e sottintesa del proprio corpo. Nell’eterogeneità geografica, che si svincola da qualsivoglia attuale idea e ipotesi di globalizzazione, si rilevano e notano sia somiglianze culturali, sia differenze: e questo, oltre altre considerazioni possibili e probabili, è uno dei valori prevalenti di questa raccolta fotografica. Del resto, indipendentemente dal contenitore erotico (dichiarato e notificato), l’intimità degli atteggiamenti, delle posture e delle enunciazioni è sempre e comunque stilema che definisce la posa fotografica consapevole, che appartiene al lungo tragitto del linguaggio espressivo della stessa fotografia, a partire dalle proprie origini. Nota conclusiva, di ordine pratico. Al pari del già citato Richard Kern. Action, anche l’attuale Shot by Kern è confezionato con un Dvd: video di un’ora, girato e montato dallo stesso Richard Kern, con musiche originali di Sonic Youth’s Thurston Moore... perché, come le ragazze/donne fotografate, anche il mondo attuale è sempre in movimento. ❖
INGHILTERRA
STATI UNITI D’AMERICA
Shot By Kern, fotografie di Richard Kern, derivate dalle sessioni per video trasmessi dal sito Internet www.vice.com, in onda dal 2005, ideati dallo stesso fotografo e Jesse Pearson; a cura di Dian Hanson; Taschen Verlag, 2013 (distribuzione: Inter Logos, strada Curtatona 5/2, Località Fossalta, 41126 Modena; www.libri.it); 288 pagine 22,5x30cm, cartonato con sovraccoperta; con Dvd; 29,99 euro.
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SILENZIO
ASSORDANTE
Mighty Silence è una raccolta di fotografie di “straziante bellezzaâ€?. Si tratta di immagini realizzate dal noto fotografo di moda giapponese Yasushi Handa tre settimane dopo il terribile terremoto e lo tsunami che ha stravolto la costa orientale del Giappone, nel marzo 2011: treni lanciati lontano dai loro binari, navi portate sulla terraferma, enormi serbatoi di carburante schiacciati come lattine e interi villaggi ridotti a macerie
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itolo esplicito, sottotitolo dichiarato: Mighty Silence - Images of Destruction. The Great 2011 Earthquake and the Tsunami of East Japan and Fukushima. Traducibili in: Silenzio assordante (oppure, Silenzio potente; oppure, Energico silenzio) - Fotografie di distruzione. Il grande terremoto del 2011 e lo tsunami dell’Est del Giappone e Fukushima. Questa monografia pubblicata (in inglese) da Skira racconta i fatti, o -meglio- i postfatti, che nel marzo 2011 hanno sconvolto il Giappone, mettendo letteralmente a soqquadro la sua costa orientale, con terribili e incalcolabili conseguenze su persone e luoghi, e destabilizzando i reattori presso la centrale nucleare di Fukushima Daiichi. Non si tratta di un reportage, che è stato assolto e risolto in cronaca, ma di una sostanziosa riflessione a posteriori. Detto meglio, forse: Mighty Silence è uno straordinario rapporto fotografico che riflette sugli sconvolgimenti del mondo, con il pretesto di un fatto preciso e identificato. Ancora. La fotografia è linguaggio, lessico: da raffigurazione (naturale) a rappresentazione (vo-
lontaria e consapevole). Ovvero, la fotografia mette ordine nel disordine. E poi, non dimentichiamoci mai che «Il miglior fondamento per realizzare una buona fotografia è una buona morale: opportunismo, convenienza, stupidità producono raramente una buona fotografia» (Pino Bertelli). In conseguenza, Mighty Silence visualizza e racconta declinando una condizione fondante della fotografia (soprattutto del dolore): la propria fotogenia. Al proposito, occorre riprendere una considerazione di Mauro Vallinotto, allora photo editor del quotidiano La Stampa, a commento del terremoto di Haiti, del gennaio 2010 (in FOTOgraphia, dell’aprile immediatamente successivo): «Un terremoto, nel Belice come in Cina, è da sempre, sia detto senza malizia, una grande palestra per i fotografi: la disperazione dei sopravvissuti, i morti ricoperti di polvere bianca, che affiorano qua e là tra le macerie, trasfigurati nell’attimo della morte come se fossero calchi di Pompei, i soccorritori che a mani nude scavano in lacrime tra le macerie, i bambini inebetiti, che vagano nel vuoto e nel silenzio, tutto concorre alla realizzazione di immagini di straziante bellezza». Mighty Silence è una raccolta di fotografie di (continua a pagina 54)
Mighty Silence Images of Destruction. The Great 2011 Earthquake and the Tsunami of East Japan and Fukushima, fotografie di Yasushi Handa; Skira, 2012; in inglese; 276 pagine 21x31,2cm, cartonato con sovraccoperta; 60,00 euro.
Vista dalla ferrovia Sanriku; città di Ofunato, prefettura di Iwate.
© 2012 YASUSHI HANDA
di Maurizio Rebuzzini
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© 2012 YASUSHI HANDA (3)
© 2012 YASUSHI HANDA (2)
Una barca da pesca si è abbattuta sulla parte superiore del secondo piano di un edificio; città di Ofunato, prefettura di Iwate.
Questo treno è a metà strada su una montagna; Onagawa Cho, Ojika County, prefettura di Miyagi.
(doppia pagina precedente) Si è creato un fiume rosso di ruggine, acido solforico e argilla fusa; città di Higashi Matsushima, prefettura di Miyagi. Naraha-machi, Futaba County, prefettura di Fukushima. Un camion e un edificio; città di Rikuzen Takata, prefettura di Iwate.
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(continua da pagina 51) “straziante bellezza”. Si tratta di fotografie realizzate dal fotografo di moda giapponese Yasushi Handa tre settimane dopo il terribile terremoto e lo tsunami che ha stravolto la costa orientale del Giappone, nel marzo 2011: treni lanciati lontano dai loro binari, navi portate sulla terraferma, enormi serbatoi di carburante schiacciati come lattine e interi villaggi ridotti a macerie. Non ci sono persone, in queste fotografie. Tuttavia, la raffigurazione/rappresentazione per sottrazione rivela le cicatrici pietose e il deserto di detriti lasciati dall’impetuoso tsunami che ha investito la regione di Tohoku, sulla scia del grande terremoto del Giappone orientale. Le fotografie visualizzano il paesaggio venti giorni dopo che l’acqua dell’oceano si è ritirata.
Scattate con la consapevolezza del proprio linguaggio espressivo (tra la realtà e la sua rappresentazione ci sta sempre un autore, con la propria interpretazione), le fotografie appaiono surreali, perché sottolineano i dettagli non percepibili a occhio nudo, perché sottintendono la fotogenia del dolore e della distruzione. In cronaca, il fotogiornalismo ha raccontato le distruzioni e la sopravvivenza, ha fissato la determinazione di quanti hanno affrontato la tragedia, per superare la propria sventura, ha sottolineato i legami delle comunità impegnate a superare schiaccianti avversità. A completa differenza, le fotografie di Yasushi Handa sono forti e... belle. Ovverosia, inquietanti tracce di vita. Questo silenzio è assordante. ❖
Stand Lomography alla Photokina 2010: analogo a quelli delle edizioni precedenti (con richiamo all’edizione 2008, in Alla Photokina e ritorno, di Maurizio Rebuzzini) e a quello della più recente edizione 2012. In assoluto, la Lomografia si presenta e propone dando rilievo alla comunità delle LomoWall, autentici mosaici di immagini accostate. A partire dalla Lomo LC-A, di origine (a pagina 58), il fenomeno si è esteso con altri apparecchi fotografici semplificati, tutti inviolabilmente per pellicola fotosensibile. La Lomografia celebra i propri primi venti anni con una edizione libraria Lomo Life, di due volumi in cofanetto: Le fotocamere e La storia.
di Antonio Bordoni
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ipetiamo e confermiamo: non fatevi coinvolgere, non coinvolgetevi nelle sterili polemiche riguardo la tecnologia digitale. È espressione di oggi, specchio dei tempi: nel male (?) e nel bene. Come spesso annotiamo, forse addirittura lo facciamo sempre, quantomeno in ogni occasione durante la quale serve farlo, il problema non riguarda mai come si fotografa, ma perché lo si fa. Così che è obbligatorio e doveroso ribadire una delle innumerevoli felici espressioni con le quali Pino Bertelli, che compila i suoi mensili Sguardi su di visione inflessibile e senza compromessi, che concludono la fogliazione di ogni nostro numero di rivista, ha definito l’azione della fotografia (non ricordiamo quando e in riferimento a cosa l’abbia fatto): «Da nessuna parte è l’arte, se al centro della propria espressione non mette la verità e la felicità dell’intera umanità». Ciò detto e precisato, non iscriviamo la Lomografia, fenomeno dei nostri tempi, nell’ambito dell’arte, di qualsivoglia arte. Più prosaicamente, registriamo e conteggiamo la sua eccellente storia, che l’editore modenese Logos ha pubblicato in cofanetto di due volumi, riuniti nel contenitore Lomo Life: uno censisce e sottolinea Le fotocamere, l’altro è riservato a La storia nel proprio insieme e complesso. Però! Però ci discostiamo dall’affermazione perentoria, che la Lomografia ha fatto propria da una mezza dozzina di stagioni, se non ricordiamo male almeno dall’edizione 2006 della Photokina (o forse dalla successiva del 2008): Il futuro è analogico.
COMUNITÀ
Rispettivamente intitolati Le fotocamere e La storia, due volumi in cofanetto raccontano la lunga vicenda della Lomografia, fenomeno fotografico che celebra i propri primi venti anni: per l’appunto, Lomo Life. A differenza di altri momenti della fotografia, sia contemporanea sia storica, la Lomografia scarta a lato ogni possibile espressività, per sottolineare e proporre soprattutto (soltanto?) l’idea di divertimento senza costrizione... indirizzato all’affiliazione alla comunità che vi si riconosce e vi partecipa 56
MAURIZIO REBUZZINI
Infatti, l’arbitrarietà della Lomografia non ha alcun tratto in comune con altre interpretazioni personali e intime della fotografia. Tra tante considerazioni al proposito, richiamiamo il senso, lo svolgimento e le conclusioni dell’eccellente tesi di laurea di Maria Alice Minelli, Passato e futuro
IDENTITÀ LOMO
Lomo Life, due volumi in cofanetto ( Le fotocamere e La storia); Logos, 2013; 384 pagine totali (192 piĂš 192) 21,5x20cm, cartonati; 39,95 euro.
La Lomografia ha avuto origine con la compatta originaria Lomo LC-A, di produzione sovietica. Oltre la versione spartana di origine, nel corso del tempo sono state realizzate finiture dedicate e celebrative, puntualmente annotate nel volume Le fotocamere, del cofanetto Lomo Life.
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delle macchine fotografiche giocattolo: dalle comunità fotografiche all’espressività artistica, dibattuta alla Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università Cattolica del Sacro Cuore, sede di Brescia, per l’anno accademico 2009-2010 (corso di studi Scienze e Tecnologie delle Arti e dello Spettacolo; relatore il professor Maurizio Rebuzzini -tra altro, direttore di FOTOgraphia cartacea e www.FOTOgraphiaONLINE.it- e correlatore il professor Francesco Tedeschi). Con consapevolezza e piglio, la laureanda ha scomposto l’arbitrarietà delle macchine fotografiche giocattolo separando tra loro l’autentica espressività creativa (foro stenopeico, Holga, Diana, tecniche antiche e dintorni) dal senso della comunità, che caratterizza la Lomografia, per la quale non conta tanto (né affatto) l’immagine in quanto tale, ma l’emozione e l’appartenenza a una collettività, addirittura a un “ordine”. Di nostro, aggiungiamo che mentre ogni arbitrarietà fotografica si manifesta in privato e nell’intimità di ciascun autore, la Lomografia ha stabilito e codificato i termini di qualcosa d’altro. Anche se rispetto le proprie origini, nel 1991, con la compatta di riferimento e partenza Lomo LC-A (per fotogrammi standard 24x36mm), nel corso degli anni sono stati acquisiti e proposti innumerevoli altri apparecchi fotografici arbitrari (tra i quali, persino Diana, Horizon, fish-eye e configurazioni a obiettivi multipli in sequenza rapida), l’ipotesi di avvio non è mai cambiata: non conta ciò che fotografi e come lo fai e perché lo fai, purché tutto sia declinato nella più assoluta e anonima casualità. Tanto che, annotiamolo, la Lomografia risponde a un decalogo che nulla ha da spartire, né condividere, con la storia evolutiva del linguaggio fotografico. In antitesi (addirittura!), la Lomografia sottolinea e propone soprattutto l’idea di divertimento senza costrizione alcuna... e finalizzato alla partecipazione alla comunità. Ecco qui. 1. Porta la tua macchina sempre con te. 2. Usala sempre, giorno e notte. 3. La Lomografia non è un’interferenza con la tua vita, è parte di essa. 4. Non guardare nel mirino, scatta allungando il braccio. 5. Avvicinati più che puoi. 6. Non pensare, usa il tuo istinto. 7. Sii veloce. 8. Non preoccuparti in anticipo di come verrà lo scatto. 9. Non preoccuparti nemmeno dopo. 10. Non preoccuparti delle regole, incluse le precedenti nove. Con queste dieci regole d’oro, la Lomografia sottolinea e rende concreta l’idea che per realizzare immagini condivisibili e partecipi alla comunità non bisogna essere un fotografo professionista e neppure un fotografo consapevole e convinto, soprattutto se e quando si intendono affrontare e visualizzare le emozioni dei momenti importanti della vita.
Nella famiglia Lomo dal 2003: Colorsplash, con flash incorporato con dodici opzioni di colore, per fotografie con tonalità dominante.
Nella famiglia Lomo dal 2011: La Sardina, apparecchio 35mm con obiettivo 22mm a diaframma fisso f/8, ispirato a una scatoletta di sardine, realizzato in una vasta serie di livree colorate e personalizzate.
Nella famiglia Lomo dal 2000: SuperSampler, con quattro obiettivi di 24mm di focale a scatto in sequenza: quattro immagini in due secondi o in due decimi di secondo.
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In questo senso, si sprona il Lomografo all’uso frequente, alla condivisione delle proprie immagini, a sperimentare metodi nuovi di fotografia. Addirittura, le prime tre regole (Porta la tua macchina sempre con te / Usala sempre, giorno e notte / La Lomografia non è un’interferenza con la tua vita, è parte di essa) sono la conferma che frequentando questa comunità la vita individuale può cambiare, essere migliore: i Lomografi rendono la propria vita speciale e colorata. Sarà?!
LOMOGRAFIA La Lomografia è un particolare approccio all’esercizio individuale della fotografia, nato negli anni Novanta, quando due studenti austriaci rintracciarono in un mercatino alcune macchine fotografiche compatte fabbricate dall’industria sovietica Lomo (in cirillico Лomo), di Leningrado (oggi San Pietroburgo): acronimo di Leningradskoe Optiko-Mechaničeskoe Ob”edinenie (ЛенинградскоеOптико-MеханическоеOбъединение). La particolarità di questa originaria compatta Lomo LC-A, che ai tempi il distributore italiano Importazioni Cattaneo considerava di qualità improponibile al mercato ufficiale della fotografia, si basa sulla focale medio grandangolare 32mm f/2,8 del suo obiettivo di ripresa, che fornisce immagini estremamente sature e con una vignettatura da sottoesposizione tutto intorno, come una sorta di effetto “tunnel”. Colpiti dalla (non) resa fotografica, i due studenti austriaci hanno dato origine a un fenomeno che, a partire dagli anni Novanta, ha assunto dimensioni di culto a livello mondiale, con la creazione di Lomoambasciate, Lomomissioni, Lomoconcorsi, LomoWall (pareti tappezzate di e con Lomografie accostate in ritmo serrato). In ripetizione. Queste compatte originarie -successivamente accostate dai corollari tecnici che le hanno accompagnate in seguito (sempre e solo per pellicola fotosensibile)-, e i Lomografi rovesciano le regole tradizionali della fotografia (o le ignorano del tutto), che sostituiscono con la scoperta ed esplorazione della natura imprevedibile della pellicola chimica, meglio se scaduta, meglio se di qualità improbabile. I Lomografi puntano a svelare e catturare il mondo e le persone da nuovi punti di vista e con nuove prospettive: tutte insieme, tutte immerse in questo spirito, le loro immagini rappresentano la più pazzesca famiglia fotografica immaginabile. La Società Lomografica ha da poco festeggiato i suoi primi venti anni di vita: appena pubblicati, i due volumi Lomo Life si offrono e propongono come pubblicazione ufficiale che celebra questo importante traguardo. La prima monografia, Le fotocamere, presenta una rassegna completa delle macchine fotografiche Lomo, dai modelli storici agli arrivi più recenti, passando per le configurazioni in edizione limitata. La seconda raccolta, La storia, racconta in dettaglio i primi venti anni di Lomografia, con il resoconto di tutti gli eventi organizzati e svolti dalla Società Lomografica. ❖
La più grande LomoWall realizzata fino a oggi è stata allestita a Pechino, nella Repubblica popolare cinese, in occasione del Lomography World Congress, dal 28 giugno al 4 luglio 2004: sessantamila fotografie, fornite da tremila Lomografi di cinquantasette paesi, montate su settecentoventi pannelli singoli, che hanno creato una parete continua di duecento metri lineari. In questa doppia pagina, testimoniamo di altre LomoWall: Madrid, dal 22 al 26 ottobre 1997 (pagina accanto, in alto); Trading Places, Londra, dal 24 ottobre al 31 dicembre 2004 (pagina accanto, in basso); Lomography World Congress, New York City (Brooklyn), dal 23 al 29 ottobre 1999 (in questa pagina).
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Una vita di Angelo Galantini
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QUANTE STORIE!
Allestita fino al dodici maggio alla Casa dei Tre Oci, di Venezia, dove ha tenuto cartellone per tre mesi e mezzo, la mostra Gianni Berengo Gardin. Storie di un fotografo è l’ennesimo consistente omaggio a uno dei più autorevoli autori italiani di tutti i tempi (e l’identificazione geografica è solo anagrafica... il suo valore professionale non è limitato da confini prestabiliti). Al pari di altre precedenti, anche questa occasione ha imposto una ri-considerazione del proprio archivio, al fine di approdare a una sequenza di immagini accostate non cronologicamente, che non avrebbe avuto senso, ma tematicamente. Appunto, fo-
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Gianni Berengo Gardin. Storie di un fotografo; a cura di Denis Curti; Marsilio Editori, 2013 (www.marsilioeditori.it); 208 pagine 20x24,8cm, cartonato; 35,00 euro.
Lido di Venezia, spiaggia di Malamocco; 1958. Normandia; 1993. Catania; 2001.
tografie capaci di raccontare Storie. In questo senso, la lunga carriera di Gianni Berengo Gardin è emblematica e significativa. Genericamente, e per indicazione subito certa, la sua fotografia viene accreditata nell’ambito del fotogiornalismo. In un certo senso, ma non in tutti, è effettivamente così, perché le immagini di Gianni Berengo Gardin rispondono prima di altro a quegli stilemi e tratti distintivi che compongono il linguaggio del racconto fotogiornalistico. In altri sensi, ma non in tutti, non è esattamente così, perché queste stesse immagini hanno poco da condividere con l’idea e ipotesi di foto-
Una vita
Venezia; 1960.
Venezia, in vaporetto; 1960.
giornalismo in cronaca. Queste fotografie non sintetizzano avvenimenti e accadimenti (magari fugaci), ma rivelano la vita nel proprio svolgersi. La differenza è di sostanza, per quanto possa essere chiara soltanto, e non soprattutto, a chi frequenta la fotografia con la chiarezza e sicurezza di convinzioni profonde. Personalmente, non amiamo mai i paralleli e riferimenti, per cui riconosciamo a Gianni Berengo Gardin quanto gli appartiene, senza evocare esempi e altre personalità (a ciascuno, la propria). Quindi, annotiamo che sia gli svolgimenti professionali della sua fo-
tografia, sia quelli senza incarico predeterminato rispondono a un occhio e un cuore che trasformano il reale in visioni avvincenti e partecipi (a partire dalla raccolta L’occhio come mestiere, del 1970, la prima dall’archivio). Da cui: è sia fotogiornalismo sia non-fotogiornalismo (flânerie?)... nel senso che è racconto dell’esistenza allo stato puro. Ovviamente, l’approfondimento della personalità di Gianni Berengo Gardin, fotografo da oltre sessant’anni (!), non è risolvibile da lievi pagine giornalistiche di informazione, così come sono queste (per quanto siano inter-
pretate con uno scarto di intendimenti, rispetto la norma). L’indagine e l’esame in profondità spettano ad altri tempi e momenti, che nel caso di Gianni Berengo Gardin non sono certo mancati: in introduzione a sue raccolte monografiche e antologiche e in presentazione di cataloghi di spessore. In questo senso, il materiale a disposizione è sia abbondante sia prolifico, a firma di autorevoli personalità internazionali della Fotografia (maiuscola volontaria e consapevole). Quindi, ciò che abbiamo appena annotato non sia inteso in altro modo che come diligente definizione di un criterio di interpretare un linguaggio fotografico, che ha declinato in maniera mirabile la fotografia del vero e dal vero. Comunque, rimanendo in attualità, va annotato che la esemplare selezione di Storie di un fotografo non si è esaurita con la sola esposizione degli originali, in galleria, ma sopravvive nell’edizione di un convincente volume-catalogo, pubblicato per l’occasione da Marsilio. In una sequenza di racconto di Storie, è ovvio, impreziosite da una stampa litografica di pregio e alta qualità, centotrentasette immagini ripercorrono la carriera di Gianni Berengo Gardin, «grande maestro italiano, che più di altri ha saputo restituire e rinnovare il linguaggio visivo del nostro paese» (dalla presentazione ufficiale). Venezia e Milano, il grande reportage Dentro le case, la Biennale d’Arte di Venezia, ma anche New York, Vienna, la Gran Bretagna e la straordinaria esperienza con il Touring Club, fino a fotografie rimaste finora inedite, e presentate qui per la prima volta. In cinquant’anni di viaggi e lavoro in Italia e nel mondo, il patrimonio visivo di Gianni Berengo Gardin, esposto in innumerevoli mostre e custodito nei più importanti musei, costituisce una documentazione unica e irripetibile del nostro tempo. Nota finale. La bibliografia di Gianni Berengo Gardin ha da tempo superato i duecento titoli. Ma, oltre il conteggio aritmetico, si sappiano sempre distinguere le edizioni su commissione (con propri riferimenti e meriti individuali) dalle monografie propriamente d’“autore”. Questa Storie di un fotografo è una monografia d’autore. ❖
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Sguardi su
di Pino Bertelli (Piombino, dal vicolo dei gatti in amore, 14 volte febbraio 2013)
DAVID LACHAPELLE
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Ouverture. La desertificazione della coscienza e dell’intelligenza -non solo in fotografia- passa dal cattivo edonismo del comunicare. La conoscenza della gioia o del dolore si trasforma in conoscenza attraverso la gioia o il dolore, e ogni sorta di impudore muore con l’innocenza. La gaia scienza edonista è una contro-morale nella quale le ferite della vita quotidiana meritano ogni attenzione. «L’edonismo è una filosofia della materia corporale, una saggezza dell’organismo. L’edonismo implica un reale totalmente privo di sacro. La sola concessione fatta alla devozione riguarda il godimento» (Michel Onfray: L’arte di gioire. Per un materialismo edonista; Fazi Editore, 2009). Via dunque Stato, Patria o Religione. L’uomo è misura di tutte le cose. È deplorevole che la cultura fotografica sia sprofondata in una beatitudine contemplativa marcescente. «C’è in ogni demente un genio incompreso: l’idea che gli brillava nella testa sgomentò; e solo nel delirio ha potuto trovare una via d’uscita agli strangolamenti che la vita gli aveva preposto» (Antonin Artaud, a proposito di van Gogh: Van Gogh. Il suicidato della società; Adelphi, settima edizione, 1988). Ecco perché ci sono tanti stupidi che fanno i geni e pochi uomini di genio che restano sconosciuti o sempre in bilico tra il manicomio e la galera. Sono i suicidati della società. È una questione di sensibilità e incapacità di fare dell’arte secondo la firma sugli assegni. I primi non credono mai a ciò che fanno, i secondi ci credono sempre. Fino alla coltellata dal vivo o affogati in una pozza di vino cattivo. È una questione di dignità. Ma sono i geni senza successo che aprono un varco attraverso l’invisibile. Gli altri danzano nella li-
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turgia della merce d’autore. La passione per la conoscenza spinge talora i fotografi negli zuccherifici dell’arte, e qui non c’è nessuna ragione per credere che i buoni poeti siano quelli tenuti a libro-paga dai mercanti d’illusioni. L’essere poeta, maledetto, anche, significa dare vita a un’identità culturale, politica, affabulativa che prima di ogni cosa racconta uno stato d’estesia (che non è una malattia, ma una dimensione interiore dell’immaginario) e obbedisce al princìpio del piacere in opposizione al princìpio di realtà.
SUL SALE DELLA FOTOGRAFIA AUTENTICA Ciascuno ha una vocazione interiore, un talento che lo rende unico, e -al di là del quotidiano-
bambino, il suo essere portatore di un destino, il che significa innanzitutto che i dati clinici della disfunzione attengono in un modo o nell’altro a quell’unicità e a quel destino. Le psicopatologie sono altrettanto autentiche del bambino stesso, non già secondarie o contingenti. Essendo dati con il bambino, anzi dati al bambino, i dati clinici fanno parte delle sue doti. Ogni bambino, cioè, è un bambino dotato, traboccante di dati: di doti, che sono tipiche sue e che si manifestano in modi tipici, sovente causa di disadattamento e di sofferenza” (James Hillman: Il codice dell’anima; Adelphi, settima edizione, 2009). L’anima, lo sappiamo, è il “compagno segreto”, l’“angelo custode”, l’“angelo necessario”
«La realtà è terribilmente superiore a ogni storia, a ogni favola, a ogni divinità, a ogni surrealtà. Basta avere la genialità di saperla interpretare» Antonin Artaud è alla ricerca di questa infanzia vocativa che occorre fare attenzione. Il cammino dell’artista è già iniziato nel bambino che è stato: si tratta di andarlo a riconoscere e non tradire i suoi incerti passi. È ciò che James Hillman chiama “teoria della ghianda”, o daimon, e solo se ti muovi per decifrare il codice dell’anima, o il sale della terra, puoi capire il carattere, la vocazione o il destino che ci è stato dato in sorte. L’arte di gioire è tutta qui. Ricordiamolo. «La teoria della ghianda si propone come una psicologia dell’infanzia. Afferma con forza l’intrinseca unicità del
(daimon), che ci affianca nel cammino terreno e irrompe nell’arte come reimmaginazione della vita individuale e sociale. Come il destino della quercia è contenuto nella piccola ghianda, il sale della fotografia è contenuto nell’interrogazione che l’artista pone al mondo con la propria opera o è solo pratica del mercimonio. La bellezza, la fantasia, l’immaginazione, la giustizia, l’accoglienza, la libertà... sono al fondo del codice di bellezza di ogni arte, e con l’insolenza filosofica che ci è propria pensiamo che l’intuizione sia anche il risultato
del fare-fotografia fuori dalle caserme del consenso. Quanto più il fotografo è abitato dal sale della fotografia, da interrogativi, dubbi, domande sull’ordine costituito, tanto più costringe la fotografia a risolvere tensioni e conflitti sociali. Vi è più ragione nel sale della fotografia vera che nella migliore saggezza mercificata che la celebra. Finché il fotografo è protetto dalla stupidità agisce e prospera sulle spoglie della realtà, ma quando si libera della tirannia delle convenzioni feconda idee singolari o di rivolta ed entra di forza nell’universale. È indenne dalla volgarità. Il sale della fotografia non si impara a scuola. E nemmeno la fierezza di non rispettare il gioco delle parti. La verità e la bellezza si nutrono di esagerazioni, tuttavia è nella seminagione del genio che il segreto dell’arte si fa storia. Sotto il sole della fotografia più accattivante trionfano primavere di carogne.
SUL SALE DELLA FOTOGRAFIA E IL CATTIVO EDONISMO FOTOGRAFICO Il cattivo edonismo della fotografia di David LaChapelle dispone di oceani di banalità ordinarie, e le sue immagini rilasciano certificati di distruzione e infatuazione di un’umanità disseminata nei suoi relitti: ma sono esercizi di stile, che finiscono per sostenere ciò che in apparenza demitizzano. La grande fotografia fiorisce soltanto nelle epoche nelle quali le convinzioni crollano e ciò che rimane sulla faccia della vita autentica è l’incendio delle regole. Il grande fotografo si distingue a malapena dal folle; è la sua arte che a volte lo salva dalla segregazione, e non c’è delirio tollerato che tenga: ogni formula del mercimonio dell’arte è approntato sulla ghigliottina del vero, del bello e del bene comune. Qualche nota per gli abatini
Sguardi su delle storiografie fotografiche. David LaChapelle nasce a Fairfield (Connecticut, Stati Uniti), l’11 marzo 1963. Si fa notare presto nei campi della moda, pubblicità, fotografia d’arte. Lo stile è quello strabordante, umoristico, anche, legato a una sorta di simbologia edonista per la quale viene considerato quasi unanimemente “uno dei fotografi più geniali di tutti i tempi”. Frequenta la North Carolina School of the Arts e successivamente la School of the Arts, di New York. Si arruola nei marine, si sposa a Londra; quando torna a New York, si conferma all’altezza delle richieste del mercato e le sue fotografie entrano a far parte dell’immaginario fotografico più emulato. Andy Warhol, grande venditore di patacche fotografiche, film, pitture, gli offre di lavorare per la rivista Interview Magazine. Il successo mondano gli permette di sfornare servizi fotografici per Vanity Fair, GQ, Vogue, The Face, Arena Homme, Rolling Stone. Il primo libro, LaChapelle Land (1996), gli dà la notorietà, e il successivo, Hotel LaChapelle (1999), per il quale fotografa molte celebrità, diventa uno dei libri fotografici più venduti di tutti i tempi. Nel 2006, pubblica Artists and Prostitutes, in tiratura limitata, che è venduto a millecinquecento dollari a copia, incluso l’autografo dell’artista. David LaChapelle firma diversi videoclip, e nel 2005 dirige il documentario Rize, premiato al Sundance Film Festival. Si tratta di una documentazione sulla musica dei sobborghi di Los Angeles e i riti metropolitani del Krumping (una sorta di danza di strada quasi clownesca), che imperversa nei ghetti neri della città degli angeli. I “grandi” del cinema, della politica, dello sport e della musica pop si fanno fotografare da lui e lo proiettano nelle vetrine dello spettacolare integrato negli entusiasmi della propria epoca. Le collaborazioni con le reti televisive internazionali e le campagne pubblicitarie per Tommy
Hilfiger, Nokia, Lavazza, L’Oréal, Diesel, H&M e Burger King lo consacrano autore a tutto campo dei templi dell’edonismo più amato (nei sommari di restaurazione dell’immagine), a conferma che «L’umanità ha adorato soltanto coloro che l’hanno fatta perire» (Emil Mihai Cioran: Sommario di decomposizione; Adelphi, quinta edizione, 1996). Certo è che David La Chapelle è uno dei maggiori interpreti del mondano d’autore, che è riuscito-giustamente- a fare dell’immagine barocca, sulfurea e debordante una religione del gusto che, se da un lato assolve le menzogne della sacralità artistica/liturgica, dall’altro depone nella fotografia l’avvelenamento legittimo del mito che resuscita ciò che divora. Il sale della fotografia non riguarda l’opera di David LaChapelle: è altra cosa. Le fotografie che contano sono più lievi delle ali degli angeli. Hanno in odio tutti gli dèi e lasciano sul sagrato della colpa il sano disprezzo contro tutto quanto è perdita della coscienza... rifiutano il piacere dell’imbecillità e il terrore di diventare santini di una letargia sepolcrale, che all’universo del merletto oppone la bellezza della dignità. La scrittura fotografica così fatta denuda l’irresponsabilità dell’ottimismo moderno e per raggiungere i propri scopi di bellezza, giustizia e accoglienza tutti i mezzi sono buoni, anche quelli che permettono di passare dal maneggiare l’utensile fotografico come giocattolo domenicale al valore d’uso di uno strumento di resistenza sociale. È una fotografia di situazione che mette sulla stessa linea di ripresa, la tenerezza, il diritto e la tragedia. È sempre a favore degli oppressi, di tutti gli oppressi, non solo di alcuni, e più di ogni cosa eleva il fotografato a metafora del mondo come fine della servitù. È la fotografia dell’uomo in rivolta che si sostituisce al nichilismo, all’assassinio e alla tirannia e subordina ogni valore alla conquista di una società giusta.
SUL CATTIVO EDONISMO FOTOGRAFICO DI DAVID LACHAPELLE Il cattivo edonismo della fotografia di David LaChapelle si dispiega in immagini colorate, montaggi barocchi, rivisitazioni di quadri liturgici... veri e propri racconti scenografici d’indubbio effetto. Le citazioni sono copiose... le dissacrazioni plateali... la dismisura visuale è architettata a uso di gallerie, musei, pubblicazioni tese all’applauso incondizionato e alla pari del suo maestro -Andy Warhol- contrabbanda la restaurazione del vuoto con il sovraccarico segnaletico dell’eresia. Questo fare-fotografia suscita ammirazione, fac-simile, copia. Però, l’epica di un fotografo si misura sul numero di immagini -invero poche- che si affermano solo grazie alle realtà, alle verità e alle ingiustizie che provocano e contribuiscono a disvelare. La stupidità governa i cuori e la quotidianità, e fin quando non si sconfesseranno i suoi vizi e le sue virtù prezzolate, i saltimbanchi del divertimento sopravvivranno negli eccessi della demenza accettata. Il fatto è che non c’è fotografia se non nella disaffezione alla vita imposta. Per rinfrescare il linguaggio della fotografia bisognerebbe smettere di fotografare, o portare la macchina fotografica là dove i popoli in rivolta moltiplicano la possibilità di non rinunciare alla propria libertà. Quando i ciarlatani della fotografia sono a corto di trucchi, le loro immagini edulcorate e i loro marcitoi espressivi incantano le coscienze perennemente infantilizzate. A leggere d’infilata l’iconografia di David LaChapelle c’imbattiamo in cristi, madonne, divi dello schermo, della canzone e dello sport che diventano angeli blasfemi, intrecciati a lattine di Coca-Cola, sniffate di cocaina, bambole, giocattoli, palle di vetro, donne in bottiglia, manichini, hamburger, cigni, spiagge e rovine di città; non mancano nemmeno auto di lusso, i grattacieli di New York, i Marlon Brando-donna, le Marilyn-mostro, Angelina Jolie
che fa il pesce o Cher che fa l’indiana col cavallo. Bella fotografia concettuale: la procreazione artistica è immersa, anche simpatica, inseparabile dallo scalpore della costruzione. L’immaginario a misura di tutti i possibili deborda in un universo mitico, dove la materia è impalpabile e l’umanità assente. Il cattivo edonismo fotografico di David LaChapelle si materializza in effluvi visivi, arabeschi aurei e frammenti estetici deposti in forme che sembrano contenere un elencario di demistificazioni licenziose; ma nella vita, come nell’arte, l’inventiva che deborda nel disprezzo della quotidianità è diretta sempre contro ciò che non si comprende, e quindi contro ciò che non si accetta come braciere della storia. Quando è vissuta anzitutto nella pelle dell’esistenza, la fotografia acquista un’eccezionale carica di verità. La fotografia autentica è il tentativo di dire ciò che la verità esige: ciò che non la uccide (la svergogna), la fortifica (la rende unica). Il grande fotografo non è mai il realizzatore di una sola idea variamente modificata, è una specie di poeta del reale che non cessa di portare varianti sul medesimo tema. David LaChapelle riveste le proprie idee nell’ineffabile. Le sue fotografie producono simulacri che collegano l’entusiasmo all’ordinazione senza mai incontrare il Meraviglioso dell’arte surrealista, dove l’immacolata concezione dell’arte veniva deturpata, spingeva all’insubordinazione totale e minava alle radici la banalità del mondo. La coscienza sociale del surrealismo usciva dallo scandalo come rivolta dell’attività onirica e restituiva alla parola, all’immagine e al gesto l’umana deriva della sua innocenza. Per i surrealisti, «Il meraviglioso è sempre bello, qualsiasi meraviglioso è bello, anzi solo il meraviglioso è bello» (André Breton: Entretiens. Storia del surrealismo 1919-1945, a cura di André Parinaud; Massari Editore, 1991). E non c’è meraviglia nel fotografare di David LaChapelle. C’è
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Sguardi su BIANCO E NERO quel senso fortemente narcisistico che illustra il mostrificato come trompe-l’œil di immagini che glorificano le rovine del discorso elogiativo, ininterrotto, che l’ordine presente tiene su se stesso. «Lo spettacolo [non solo della fotografia] non è un insieme di immagini, ma un rapporto sociale fra individui, mediato dalle immagini» (Guy Debord: La società dello spettacolo; Vallecchi, 1979). Compresa nella sua totalità, la fotografia spettacolare è allo stesso tempo il risultato e il progetto del modo di produzione predominante. La fotografia feticista di David LaChapelle è un monologo del potere al tempo della gestione totalitaria dell’esistente. Il suo fare-fotografia è la ricostruzione materiale dell’illusione religiosa: propone il calco dell’irrealismo del non-vivente, segna l’alienazione della fotogra-
fia a beneficio dell’oggetto contemplato. Passando per la fotografia feticista come modello d’identificazione, il fotografo ha rinunciato a ogni qualità autonoma, per identificarsi alla richiesta generale dell’obbedienza al discorso della vita socialmente falsificata. Là dove domina la fotografia spettacolare, domina anche la polizia. «Lo spettacolo non canta gli uomini e le loro armi, ma le merci e le loro passioni» (Guy Debord). Ogni nuova miseria fotografica corrisponde alla confessione della sua miseria precedente. La fotografia del consumo permesso non riguarda la grazia né la bellezza della fotografia del dissidio praticata dai grandi randagi dell’immagine ereticale. La fotografia possiede già il sogno di un tempo di cui non ha che da possedere la coscienza per viverla autenticamente. ❖
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