FOTOgraphia 194 settembre 2013

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Mensile, 6,50 euro, Poste Italiane SpA - Spedizione in abbonamento postale - D.L. 353/2003 (convertito in Legge il 27-02-2004, numero 46), articolo 1, comma 1 - DCB Milano

ANNO XX - NUMERO 194 - SETTEMBRE 2013

Bibliografia ARRIVEDERCI, NEW YORK Tecnologie attuali CANON EOS 70D FUJIFILM X-M1 SONY RX1R E RX100 II Storia della fotografia VERSO LA CONTEMPORANEITÀ


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O T N E M A N O B B A N I O L SO

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ANNO XX - NUMERO 194 - SETTEMBRE 2013

Bibliografia ARRIVEDERCI, NEW YORK Tecnologie attuali CANON EOS 70D FUJIFILM X-M1 SONY RX1R E RX100 II Storia della fotografia VERSO LA CONTEMPORANEITÀ

ANNO XX - NUMERO 193 - LUGLIO 2013

Sebastião Salgado GENESI Apparecchi e immagini PASSIONE, STORIA E AMORE

Abbonamento 2013 (nuovo o rinnovo) in omaggio 1839-2009 Dalla Relazione di Macedonio Melloni alla svolta di Akio Morita

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COLLEZIONE AMEDEO M. TURELLO MIRRORS OF THE MAGIC MUSE

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ANNO XX - NUMERO 192 - GIUGNO 2013

GIAN PAOLO BARBIERI DARK MEMORIES

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SONCINO (CR): SCUOLA PROIEZIONE CAZZANIGA

prima di cominciare L’ESTATE STA FINENDO. Degna conclusione dei tanti programmi fotografici che hanno animato l’estate italiana, alcuni più meritevoli di altri, ma tutti insieme significativi di un certo fermento, se non già di una autentica passione (e storia e amore, come annotato e sottolineato lo scorso luglio), la collettiva Artisti americani e non 2, in programma a Soncino, in provincia di Cremona, dal trentuno agosto al ventinove settembre (da e con Mogol e Battisti: «Seduto in quel caffè / io non pensavo a te / [...] Mi son svegliato e / e sto pensando a te»), si offre e propone come una delle più avvincenti e convincenti osservazioni sulla fotografia contemporanea.

Cosa c’è di più funesto nella fotografia, se non la fede vigliacca nella gerarchia dell’impostura. In questo universo improvvisato e provvisorio, anche i pidocchi reclamano la paternità di artisti. Pino Bertelli; su questo numero, a pagina 64 New York è la città di guglie e alberi maestri. Walt Whitman; su questo numero, a pagina 38 Se non estraiamo la Fotografia dal percorso sociale e culturale entro il quale ha agito, dando e attingendo in un coerente tragitto di andata e ritorno, ovvero se ne sottolineiamo l’appartenenza alla società tutta, il suo racconto storico non può limitarsi alla sola sequenza degli autori accreditati, ma deve includere anche quell’insieme di fotografie anonime che appartengono alla Vita nel proprio svolgersi. Angelo Galantini; su questo numero, a pagina 44

GIANFRANCO SALIS: ILONA

Copertina A cura di Ilka Scobie e Luigi Cazzaniga, la collettiva di trentacinque autori, tra statunitensi e italiani, porta il contributo fotografico al più ampio contenitore della Settima Biennale di Soncino. In un allestimento scenico di prim’ordine, con una coinvolgente attenzione nella scelta delle opere, questa rassegna è degna di essere iscritta tra le più consistenti della stagione fotografica italiana, capace di accostare tra loro generi diversi, interpretazioni di grande personalità e visioni di sogno, che compongono i tratti identificativi della fotografia contemporanea, senza alcuna soluzione di continuità di genere, intenzione e indirizzo. Diciamolo a chiare lettere. Un appuntamento da non perdere, una presentazione della quale fare tesoro, un momento di straordinaria osservazione, che ha modo, tempo e qualità di contenuti tali da arricchire il bagaglio di conoscenze di ciascuno di noi. Una volta ancora, mai una di troppo: passione, storia e amore.

Nostra modificazione consapevole da una illustrazione di Peter Driben, degli anni Quaranta (a pagina 28, l’originale: al quale abbiamo aggiunto materia in alto e a sinistra, per la proporzione della nostra copertina). Fenomenologia delle pin-up, che nella attuale riproposizione (?) richiederebbe, comunque, conoscenza e cultura. Ne riferiamo da pagina 26

3 Altri tempi (fotografici) Inizio Novecento, non oltre la prima decade. Maschera per la messa a fuoco: «Praticissima [...] è preferibile al panno nero. Permette di avvicinarsi od allontanarsi dal vetro smerigliato secondo il bisogno»

7 Editoriale Scienza (nella propria applicazione tecnologica) e tempo scorrono di pari passo, offrendo soluzioni adatte al momento e alle condizioni, anche sociali. L’eventuale discussione sul tema non può prescindere da competenze ed etica e morale: la vantata libertà della Rete non è tale, se non include partecipazione

8 Vincenzo Carrese Un cameo (e poi due) del fotografo, fondatore della Publifoto, che ha inventato la fotocronaca italiana

10 Notizie Attrezzature, vicende e altre segnalazioni

12 Alla base del sistema La nuova configurazione CSC Fujifilm X-M1 di Antonio Bordoni


SETTEMBRE 2013

RIFLESSIONI, OSSERVAZIONI E COMMENTI SULLA FOTOGRAFIA

15 Il caso WhiteWall Il qualificato laboratorio tedesco, TIPA Award 2013 di categoria, interpreta con piglio la globalizzazione, che abbatte confini geografici. Servizi di qualità online e stampe d’autore per arredamento (Lumas Galleries)

Anno XX - numero 194 - 6,50 euro DIRETTORE

RESPONSABILE

Maurizio Rebuzzini

IMPAGINAZIONE

Maria Marasciuolo

REDAZIONE

20 Comparto prosumer

Angelo Galantini

Canon Eos 70D: ancora una reflex, una reflex in più

Rouge

FOTOGRAFIE SEGRETERIA

23 Gira e rigira

Maddalena Fasoli

Per propri contenuti narrativi, il film Sballati d’amore, di Nigel Cole, del 2005, è in qualche modo e misura discriminante della presenza della fotografia al cinema Ricerca iconografica di Filippo Rebuzzini

Pino Bertelli Antonio Bordoni Ferdinando e Giulia Carrese Giancarlo Farabegoli Chiara Lualdi Vincenzo Marzocchini Franco Sergio Rebosio Ciro Rebuzzini Filippo Rebuzzini Ryuichi Watanabe (New Old Camera)

26 Che pin-up sia! Fenomeno di costume in prepotente riproposizione, l’attuale riscoperta di raffigurazioni visive ispirate a decenni lontani è qualitativamente approssimata. Per quanto leggero e marginale, anche il fenomeno delle pin-up ha propri valori storici e proprie consistenze, delle quali essere consapevoli: conoscenza e cultura di Maurizio Rebuzzini

34 Deardorff 8x10 pollici Con Kodak Wide Field Ektar 250mm f/6,3 a cura di New Old Camera

36 Arrivederci, New York Ancora un titolo sulla città più celebre e fotogenica del pianeta: New York. Born back into the Past. In integrazione, una consistente passerella bibliografica di Angelo Galantini

47 Passato prossimo

HANNO

COLLABORATO

Redazione, Amministrazione, Abbonamenti: Graphia srl, via Zuretti 2a, 20125 Milano; 02-66713604 www.FOTOgraphiaONLINE.it; graphia@tin.it. ● FOTOgraphia è venduta in abbonamento. ● FOTOgraphia è una pubblicazione mensile di Graphia srl, via Zuretti 2a, 20125 Milano. Registrazione del Tribunale di Milano numero 174 del Primo aprile 1994. Poste Italiane SpA - Spedizione in abbonamento postale - D.L. 353/2003 (convertito in Legge il 27-02-2004, numero 46), articolo 1, comma 1 - DCB Milano. ● A garanzia degli abbonati, nel caso la pubblicazione sia pervenuta in spedizione gratuita o a pagamento, l’Editore garantisce la massima riservatezza dei dati forniti dagli abbonati e in suo possesso, fatto diritto, in ogni caso, per l’interessato di richiederne gratuitamente la rettifica o la cancellazione ai sensi della legge 675/96. ● FOTOgraphia Abbonamento 12 numeri 65,00 euro. Abbonamento annuale per l’estero, via ordinaria 130,00 euro; via aerea: Europa 150,00 euro, America, Asia, Africa 200,00 euro, gli altri paesi 230,00 euro. Versamenti: assegno bancario non trasferibile intestato a Graphia srl Milano; vaglia postale a Graphia srl - PT Milano Isola; su Ccp n. 28219202 intestato a Graphia srl, via Zuretti 2a, 20125 Milano; addebiti su carte di credito CartaSì, Visa, MasterCard.

La Fotografia. Dalla Stampa al Museo 1941-1980: terzo volume della Storia, a cura di Walter Guadagnini

● Nessuna maggiorazione è applicata per i numeri arretrati. ● È consentita la riproduzione di testi e fotografie, magari citando la fonte (ma non è indispensabile, né obbligatorio farlo). ● Manoscritti e fotografie non richiesti non saranno restituiti; l’Editore non è responsabile di eventuali danneggiamenti o smarrimenti.

54 Piano piano

Fotocomposizione DTP e selezioni litografiche: Rouge, Milano Stampa: Arti Grafiche Salea, Milano

Sulla lentezza stenopeica, in riferimento alle interpretazioni artigianali di Giancarlo Farabegoli, di Cesenatico di Marvin (Vincenzo Marzocchini)

Rivista associata a TIPA

61 Doppio passo Sony Seconde generazioni: Cyber-shot RX1R e RX100 II

64 Lee Friedlander Sguardo su un interprete della fotografia istintiva di Pino Bertelli

www.tipa.com



editoriale Z

apping! Non lo riferiamo al passaggio rapido da un canale televisivo all’altro, con semplice selezione dal telecomando, comodi sul divano di casa, ma all’escursione, magari altrettanto veloce, attraverso le tecnologie fotografiche che ciascuno di noi ha avuto modo di incontrare. Complice l’anagrafe (sono nato nell’estate 1951, cronologicamente sessantadue anni fa, per altre considerazioni mille e mille anni fa), quando voglio farlo, saltello attraverso i decenni, partendo dall’inizio degli anni Settanta, quanto ho cominciato a occuparmi di fotografia (con il primo contatto, originario, nel settembre 1972, quarantuno anni fa, con la redazione del mensile Clic, per la compilazione di voci tabellari della Fotocineguida 1973 ), ma sapendo retrovedere anche verso periodi antecedenti, che mi sono ben chiari e dei quali sono assolutamente consapevole: penso di averlo rivelato e fatto capire a chiare lettere. Escursioni sempre affascinanti, che -comunque- non mi fanno perdere il senso del tempo: per il quale riconosco che ogni epoca abbia diritto di esprimersi in relazione a tecnologie, anche soltanto fotografiche, adeguate e al passo. Escursioni che mi consentono di annotare che tutto cambia, per restare sempre uguale. Oggi come ieri, c’è chi sa ragionare e chi non conosce i confini leciti della parola e del pensiero individuale, anche soltanto in fotografia. Neanche a dirlo, senza alcuna soluzione di continuità, c’è chi ancora pensa, come ha sempre fatto, che possano esistere prodotti tecnologici inadatti e non soddisfacenti. Dal punto di vista tecnico, questo è assolutamente improbabile, forse impossibile; e, soltanto, si possono registrare clamorosi errori di tempo e modo, che hanno fatto naufragare molte idee applicate alla fotografia, che spesso hanno trascinato con sé anche la credibilità delle aziende produttrici e, addirittura, la loro stessa esistenza (Polavision, Kodak Ektaflex, Kodak Disc, Aps, Nimslo... solo per ricordare i fiaschi più clamorosi). In effetti, ciascun apparato fotografico, in ogni tempo ed epoca, ha sempre assolto le condizioni tecniche annunciate e promesse. Eventuali sproporzioni tra valori e costi sono state punite dal mercato: una volta, analizzato e vivisezionato dal giornalismo di settore; oggigiorno, discusso in Rete. Trasformazione sociale inevitabile, dal giornalismo al passaparola di base (online), la discussione in Rete ha, però, un retrogusto amaro e malevolo. Infatti, mentre il giornalismo, anche solo fotografico, risponde a princìpi inviolabili di etica e professionismo (almeno così dovrebbe essere, e così è stato per decenni e decenni), la parola individuale scorre senza freni inibitori. Ma non si tratta di democrazia, come molti (erroneamente) asseriscono. La democrazia è come la libertà di Giorgio Gaber: «La libertà non è star sopra un albero, / non è neanche avere un’opinione, / la libertà non è uno spazio libero, / libertà è partecipazione». Eccoci qui: anche solo in fotografia. Maurizio Rebuzzini

Negli anni Sessanta, in allungo sui Settanta, la sovietica Zenit-E è stata la reflex più economica del mercato. Le sue caratteristiche tecniche di utilizzo, allineate al basso costo di vendita/acquisto, erano veritiere: per quanto, inferiori a quelle di altre configurazioni, almeno tanto quanto lo era il suo prezzo. In ogni tempo e ogni epoca, la tecnologia, anche solo fotografica, non ha mai mentito: è sempre stata esattamente ciò che ha affermato di essere. Inoltrarsi lungo questo tracciato di pensiero richiede ed esige onestà intellettuale, che si traduce in democrazia e libertà. Da e con Giorgio Gaber: «Libertà è partecipazione».

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Cameo di Maurizio Rebuzzini

VINCENZO CARRESE

I

In un paese, quale è il nostro, nel quale la memoria non è considerata valore e nel quale il ricordo delle persone e dei loro gesti non è frequentato, né -tantomeno- sollecitato e favorito, la fotografia è buona allieva: è perfettamente allineata al (cattivo) pensiero comune. Sia per spirito contrario, che se fosse solo tale sarebbe poca cosa, sia per la espressa volontà di non dimenticare nulla e nessuno -per quanto possibile-, da tempo stiamo meditando su una ipotesi che ci intriga: raggiunte le condizioni logistiche strettamente necessarie, non solo sufficienti, daremo vita a un libretto, tale nella forma ma non nei contenuti, di aneddoti e ricordi fotografici, riferiti soprattutto alla storia italiana, una sostanziosa parte della quale abbiamo vis-

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Il settimanale Sette, del diciannove luglio, ha ricordato i settant’anni trascorsi dal 25 luglio 1943: caduta del fascismo. In questa immagine si riconosce Vincenzo Carrese, sul tetto dell’automobile. Un album di fotografie. Racconti è una avvincente testimonianza di Vincenzo Carrese, fondatore della Publifoto e inventore della fotocronaca italiana.

suto in cronaca, dal settembre 1972. Tra i tanti appunti che si stanno sommando gli uni agli altri, inviolabilmente annotati con carta e penna (a stilo), non pochi ruotano attorno alla fantastica esperienza della Publifoto, agenzia fotogiornalistica di primo piano e livello, antesignana di un tempo e mondo che da lì avrebbe preso ispirazione, da lì avrebbe mosso altri propri passi autonomi. Pensare alla Publifoto, significa soprattutto pensare al suo fondatore Vincenzo Carrese, che nei secondi anni Quaranta ha letteralmente inventato la fotocronaca. A metà luglio, per una di quelle coincidenze e casualità che spesso indichiamo come i soli accadimenti che rivelano che la vita possa avere anche senso (metafora e paradosso allo stesso tempo), Sette, il magazine settimanale del Corriere della Sera, ha realizzato una copertina che bene si allinea alla nostra aneddotica, che addirittura può arricchirla di un altro episodio (foto Carlo Ancillotti / Publifoto). Con data di copertina diciannove luglio, Sette ha anticipato la ricorrenza del venticinque luglio, ricordando i settanta anni trascorsi dal 1943, quando l’Ordine del giorno Grandi, al Gran consiglio del fascismo, creò i presupposti e le condizioni per la caduta di Mussolini, e il suo conseguente arresto. Quegli istanti di euforia popolare sono stati ricordati dalla copertina di Sette con una fotografia di cronaca che sottolinea il senso di gioia per la fine del fascismo, con tanto di prima pagina del Corriere della Sera in bella evidenza («Le dimissioni di Mussolini / Badoglio Capo del Governo»). Sul tetto di un’automobile, spicca proprio Vincenzo Carrese con la sua macchina fotografica pronta all’uso. Sia chiarito subito: non si tratta affatto di una istantanea, ma di una situazione costruita, per quanto fedele a ciò che stava succedendo in ogni città d’Italia. Chi può ricordare, ha riconosciuto nei volti di presunti anonimi cittadini molti dipendenti della Publifoto, che Vincenzo Carrese ha diretto per una fotocronaca plausibile e veritiera, per quanto non vera (ma senza inganno).

Così, allora, per rievocare il clima di quei tempi, le schermaglie di quel fotogiornalismo, le destrezze e malizie di quella fotocronaca, consigliamo di rintracciare un libro assolutamente prezioso, probabilmente indispensabile: Un album di fotografie. Racconti, di Vincenzo Carrese, pubblicato da Il Diaframma, nel 1970 (192 pagine 14,3x22,5cm). Si tratta di resoconti, magari romanzati, magari reinterpretati, scritti da chi ha inventato la fotocronaca in Italia: già l’abbiamo detto, e la ripetizione si impone. Si tratta di una incessante sequenza di fatti e fatterelli che appartengono a pieno diritto alla storia della fotografia italiana. Non quella teorica e concettuale, ma quella vera e quotidiana. ❖



Notizie a cura di Antonio Bordoni

IMPEGNO REFLEX. Soprattutto nota e riconosciuta per la propria gamma di obiettivi con innesto universale per le reflex dei nostri giorni (oltre che per quelle del passato prossimo), Sigma è impegnata anche nella produzione di apparecchi fotografici dalle prestazioni lusinghiere. In questo senso, oltre le compatte di alta qualità, si segnala ora la prosecuzione di quella linea di reflex che ha sempre sottolineato prerogative di uso assolutamente particolari, spesso uniche. L’attuale configurazione Sigma SD1 Merrill, che riprende una definizione che sta identificando una gamma di compatte superlative, conferma l’adozione del sensore di acquisizione Foveon X3 (23,5x15,7m), nella sua risoluzione da quarantasei Megapixel su tre strati (4704x3136 pixel per tre strati), capace di una avvincente restituzione cromatica, dalla saturazione naturale a una vasta gamma di sfumature intermedie. La baionetta di innesto per gli obiettivi intercambiabili è dotata di un filtro antipolvere sigillato ai bordi, che impedisce alla polvere di entrare e depositarsi sul sensore. Il corpo macchina in pressofusione di lega di magnesio, leggero e robusto, è impermeabile ad acqua e polvere. Il sensore Foveon X3 a immagine diretta acquisisce i tre colori primari della sintesi RGB con ciascuno dei pixel posti nei tre strati, garantendo così la completa acquisizione di tutta la gamma dei colori. Grazie a due processori True II, l’algoritmo deputato al calcolo dell’immagine offre alta risoluzione e forma immagini ricchissime di toni, dan-

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do l’impressione della tridimensionalità. Ancora: sensore a doppia croce su undici punti, per assicurare una migliore messa a fuoco automatica, selezionabili sia manualmente sia automaticamente; sensore AE a settantasette segmenti. La reflex Sigma SD1 Merrill è dotata di mirino a pentaprisma, che offre una visione del novantotto percento del campo inquadrato (orizzontale e verticale), con un ingrandimento di 0,95x e una distanza pupillare di 18mm. La correzione diottrica va da -3 a +1,5 diottrie. Si possono impostare sensibilità da 100 a 6400 Iso equivalenti, con assenza di rumore alle sensibilità maggiori ed estreme. Il monitor LCD TFT da tre pollici garantisce una buona visione del soggetto inquadrato, anche in esterno e in alta illuminazione. Il flash elettronico incorporato, Numero Guida 11, offre un angolo di copertura di 17mm (equivalente, nel formato 24x36mm all’inquadratura grandangolare 25,5mm). Sincro flash a 1/180 di secondo. In dotazione, il software Sigma Photo Pro converte i file grezzi Raw senza difficoltà e in modo veloce. E ridà tutte le informazioni veicolate dai quarantasei Megapixel. Mentre si osserva l’immagine nel monitor, con il semplice movimento di un cursore è possibile effettuare le correzioni necessarie. La SD1 Merrill accede a un sistema ottico di quaranta obiettivi Sigma, che vanno dall’ultra grandangolare al super tele, al macro, al fish eye. Tutti sono costruiti secondo le più recenti tecnologie dell’ottica fotografica, come l’adozione di lenti in vetro ottico FLD (a basso indice di dispersione), che offrono risultati equivalenti a quelli dei vetri alla fluorite. Quindi, lenti in vetro ottico SLD, lenti asferiche, sistema di stabilizzazione OS proprietario Sigma, motore Hyper Sonic e trattamento Super Multi Strato. (M.Trading, via Cesare Pavese 31, 20090 Opera Zerbo MI; www.m-trading.it).

Q DI VERTICE. Il sistema reflex Pentax Q, caratterizzato da corpi macchina di dimensioni sostanziosamente contenute, approda alla configurazione Q7, che si colloca al top di gamma. Il sensore di immagine è ovviamente più potente di quello in dotazione alle altre configurazioni dello stesso sistema, per offrire un ulteriore salto nella qualità dell’immagine, senza peraltro rinunciare all’estrema compattezza e alla leggerezza che consentono a queste reflex di stare nel palmo della mano. Semplificata nell’uso, la Pentax Q7 è dotata di sensore di acquisizione Cmos retroilluminato da 1/1,7 di pollice (le dimensioni maggiori della serie Q), da dodici Megapixel, che si abbina al processore di immagine Q Engine, per sensibilità fino a 12.800 Iso equivalenti. È presente il sistema proprietario antivibrazioni Shake Reduction ed è stata realizzata una migliore e più rapida risposta all’accensione e tra i singoli scatti, nonché un impiego sempre facile e intuitivo. Nella sua dotazione, dispone di svariati strumenti creativi, come Bokeh Control e Smart Effect, che assistono per creare facilmente immagini personalizzate. Tra tanto d’altro, una notazione riguarda la livrea, disponibile in venti colorazioni, con sei combinazioni di impugnatura, per un totale (incredibile!) di ben centoventi finiture tra le quali scegliere. Quindi, registrazione di filmati Full-HD (1920x1080 pixel, a trenta fotogrammi al secondo, nel formato di registrazione H.264), anche alle alte sensibilità. Una nuova funzione per la ripresa intervallata di filmati HD aggiunge creatività alle possibilità espressive. (Fowa, via Vittime di Piazza Fontana 52bis, 10024 Moncalieri TO; www.fowa.it).

LUCE MORBIDA. In un momento nel quale la luce fotografica è sostanziosamente ignorata dalle ultime leve del professionismo in sala di posa, la svizzera Broncolor conferma il proprio impegno e la propria visione a trecentosessanta gradi. In questo senso, il rinnovato sistema di Softbox per le proprie torce flash è adeguatamente differenziato, sia per assolvere condizioni luminose in ampi spazi, sia per risolvere l’illuminazione morbida e avvolgente in still life, anche di soggetti di dimensioni ridotte. Tutti i Broncolor Softbox presentano superfici interne in materiale altamente riflettente, in modo da distribuire sul diffusore esterno una luce sostanziosamente omogenea. In tre linee di prodotto: Softbox rettangolari e quadrati e Octabox (ottogonali). Ogni linea condivide l’innesto rapido alle torce flash Broncolor, la facilità di montaggio e smontaggio, l’intercambiabilità del diffusore esterno, il più soggetto ad alterarsi nell’uso. Ancora, ogni Softbox può essere ulteriormente accessoriato con griglie lineari che indirizzano la luce, interrompendo la propagazione angolare. Broncolor Softbox rettangolari: 35x60cm, 60x100cm, 90x120cm, 120x180cm, 30x130cm (stiplight); Broncolor Softbox quadrati: 100x100cm, 60x60cm; Broncolor Octabox: diametro 75cm, diametro 150cm. (Mafer, via Brocchi 22, 20131 Milano; www.maferfoto.it). ❖



X factor di Antonio Bordoni

ALLA BASE DEL SISTEMA

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Nato con l’originaria X-100, oggi in evoluzione X-100S, proseguito con la configurazione a obiettivi intercambiabili X-Pro1 [FOTOgraphia, marzo 2012 / Migliore CSC Professionale ai TIPA Awards 2012; FOTOgraphia, giugno 2012], continuato con la versione semplificata X-E1, sempre a obiettivi intercambiabili [FOTOgraphia, ottobre 2012 / Migliore CSC Expert ai TIPA Awards 2013; FOTOgraphia, giugno 2013], il consistente sistema fotografico Fujifilm X propone ora una nuova X-M1, ancora a obiettivi intercambiabili, le cui prerogative tecniche si rivolgono indifferentemente a un pubblico di base e a un’utenza esperta e consapevole. Ovviamente, è confermata la linea di innovazione (tecnologica) e tradizione (nel design), che definisce e caratterizza la particolare interpretazione CSC Fujifilm (già Mirrorless, in identificazione precedente). Dotata di un corpo macchina compatto e leggero, la X-M1 propone lo stesso sensore APS-C X-Trans Cmos da 16,3 Megapixel presente nella versatile X-Pro1 di vertice e nella intrigante X-E1. Nonostante le ridotte dimensioni, la Fujifilm X-M1 promette prestazioni molto elevate per la sua categoria, consentendo di apprezzare la qualità delle immagini, l’avvincente design e le caratteristiche di uso che contraddistinguono i modelli della serie X, sia agli appassionati di fotografia, sia a un bacino più ampio di utenti: ovvero, si rivolge a coloro i quali si avvicinano a un sistema fotografico a obiettivi intercambiabili e si indirizza anche ai fotografi (persino professionisti) che cercano un sistema alternativo, senza compromessi con la qualità. L’esclusiva matrice filtro-colore minimizza l’effetto moiré e le aberrazioni cromatiche, eliminando la necessità del filtro ottico passa-basso. Inoltre, aumenta considerevolmente la nitidezza a parità di quantità di pixel, permettendo di ottenere immagini ricche di dettagli. Il collaudato sensore è progettato per trarre il massimo risultato dagli obiettivi di elevate prestazioni e fornisce immagini chiare, con un rumore straordinariamente basso an-

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La Fujifilm X-M1 è disponibile in tre livree: silver, black e brown.

Comparazione simulata tra l’ingombro di una reflex e la Fujifilm X-M1, che propone prestazioni molto elevate per la sua categoria, paragonabili e allineabili a quelle delle reflex.


X factor te in ogni tipo di situazione, e la funzione “Filtri avanzati”, che consente di scattare fotografie “artistiche” utilizzando diversi filtri fotografici. La Fujifilm X-M1 è dotata di due ghiere di comando (Command Dials), che consentono di regolare rapidamente il valore del diaframma, la velocità di scatto e la compensazione dell’esposizione.

Per accedere alle funzioni utilizzate più di frequente, come il bilanciamento del bianco, lo scatto in sequenza rapida e la modalità macro, senza dover passare dal menu, è possibile utilizzare i comodi pulsanti dedicati sul retro, che consentono un funzionamento intuitivo e veloce. Infine, è presente l’utile pulsante “Q”, che consente di passare velocemente alla visualizzazione dei menu più utilizzati.

STILE CLASSICO Come ogni precedente configurazione fotografica del proprio sistema, la Fujifilm X-M1 vanta un design classico ed elegante [FOTOgraphia, aprile 2012]. Il corpo dalle dimensioni estremamente compatte e il suo peso leggero rendono agevole il trasporto e minimo l’ingombro: solo 330 grammi, compreso l’ampio sensore Cmos APS-C, il monitor LCD basculante ad alta definizione da tre pollici e

che in condizioni di scarsa illuminazione, negli scatti notturni, nelle riprese di interni e in tutte le situazioni nelle quali è richiesta un’elevata sensibilità. Il sensore riproduce fedelmente i toni caldi dell’incarnato e i colori vividi: dal blu profondo del cielo alle tonalità rosse del sole al tramonto. La sensibilità nominale del sensore parte da 200 Iso equivalenti, per approdare a 6400 Iso equivalenti, ed è possibile usufruire anche della gamma estesa di 100, 12.800 e 25.600 Iso equivalenti, per ottenere immagini efficacemente chiare, con basso rumore, anche di notte o in condizioni di scarsa illuminazione.

NELL’USO Il processore EXR Processor II garantisce risposte rapide in ogni situazio-

ne di ripresa, per non perdere mai l’attimo: riceve le informazioni dal sensore X-Trans Cmos e le elabora rapidamente, assicurando tempi di risposta molto rapidi. Si registra un tempo di avvio pari a 0,5 secondi, un ritardo allo scatto di soli 0,05 secondi e una velocità di scatto continuo pari a 5,6 fotogrammi al secondo, fino a trenta scatti consecutivi. Tutti i pulsanti e le ghiere di selezione sono collocati a destra del monitor LCD posteriore (orientabile), per favorire velocità, operatività ottimale e facilità di uso. La ghiera delle modalità consente di scegliere comodamente e rapidamente quale impostazione utilizzare. Sono disponibili, tra le altre, la funzione “SR Auto”, che riconosce automaticamente il tipo di scena per ottenere fotografie formalmente perfet-

Il monitor LCD della Fujifilm X-M1, da tre pollici e 920.000 pixel, è basculabile, per consentire osservazioni da punti di vista agevoli per ogni situazione di ripresa.

920.000 pixel, il flash incorporato con Numero Guida 7, il sistema wireless per il trasferimento delle immagini e una slitta per flash a contatto caldo. Ovviamente, è possibile registrare video Full-HD a trenta fotogrammi al secondo. Durante le riprese video, possono essere aggiunti effetti creativi con le opzioni di simulazione pellicola, tra le quali “Monochrome” (bianconero) e un convincente effetto Bokeh. In dotazione kit, oltre la versione commerciale solo corpo, il compatto e leggero zoom XC 16-50mm f/3,55,6 OIS è stato progettato per essere il complemento ideale della X-M1: la sua escursione equivalente va da 24 a 76mm, ed è ideale per affrontare scenari differenti, tra i quali riprese in interni, paesaggi e istantanee. ❖

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Servizio di Angelo Galantini

IL CASO WHITEWALL

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Premiato con il TIPA Award 2013 per il Servizio fotografico conto terzi (FOTOgraphia, giugno 2013), il laboratorio tedesco WhiteWall si è imposto all’attenzione internazionale. La motivazione ufficiale ne ha sottolineati i valori professionali: «Come tutti gli ideatori del concetto di laboratorio online, WhiteWall offre opzioni di qualità su numerose superfici, con alternative di cornici e finitura. I fotografi possono ordinare stampe di dimensioni esatte, su una vasta gamma di supporti, per abbinare soggetto e scena, tra cui carte fine-art, tela, pellicola adesiva in lattice, supporto metallico e una stampa diretta dietro vetro acrilico. Le cornici disponibili sono in legno massello, alluminio, cornice con passepartout, con effetto ombra, o ArtBox in alluminio o legno massello. Il prodotto finito è di qualità da galleria, pronto per essere appeso. Inoltre, ci sono nuove funzionalità che vengono costantemente aggiunte all’offerta, come le stampe su tessuti, su alluminio spazzolato e stampa Lightjet su carta Ilford bianconero». A dirla tutta: l’insieme di queste prestazioni sono comuni a molti laboratori conto terzi del mondo, Italia compresa. Ciò che fa la differenza sostanziale e sostanziosa è la proposta online di lavorazioni solitamente riservate al professionismo, qualsiasi cosa questo significhi, e la proposizione di stampe bianconero fine-art, realizzate su carta baritata e lavorate secondo princìpi antichi (riquadro a pagina 16). Ma, soprattutto, ciò che fa la differenza è la combinazione tecnicocommerciale tra il laboratorio White Wall (sede commerciale a Berlino e laboratorio operativo a Frechen, alle porte di Colonia) e la catena di gallerie Lumas, attraverso le quali vengono vendute stampe di autori-fotografi, proposte a prezzi abbordabili (in tirature già preordinate per l’arredamento... non copie da mercato d’arte). E allora il pensiero scorre in avanti, piuttosto che indietro (fate voi), per (continua a pagina 18)

Fasi di lavorazione presso il laboratorio WhiteWall, a Frechen, alle porte di Colonia, in Germania. Il laboratorio agisce anche, o forse soprattutto, online, con ordini che arrivano da tutto il mondo. Specializzato sia in stampa (compresa la fine-art, sulle cui prerogative annotiamo nel riquadro pubblicato a pagina 16), sia in montaggio in innumerevoli finiture, il laboratorio è stato premiato con il prestigioso e ambìto TIPA Award 2013 per il Servizio fotografico conto terzi ( FOTOgraphia, giugno 2013).

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Servizio STAMPA FINE-ART

Una idea: una ipotesi (antica), che arriva da lontano, ma si ripropone oggi alla luce della vantata stampa fine-art bianconero che il laboratorio tedesco WhiteWall offre e propone ai propri clienti. Di cosa si tratta? Per rispondere, rispolveriamo concetti che sono maturati nei decenni scorsi, diciamo fino agli anni Ottanta, all’apice della fotografia chimica. Magari utilitaristicamente non più spendibili, queste considerazioni sarebbero senza tempo. Un approfondimento doveroso, alla maniera di come ci si è giornalisticamente comportati nelle stagioni di attualità della stampa chimica bianconero: per quello che può ancora valere, magari anche soltanto per conoscenza individuale. E la competenza si sa dove può partire, ma non ci si immagina mai fin dove può arrivare! La durata nel tempo di una stampa fotografica è al di là del nostro controllo. L’ostacolo sulla strada della permanenza nel tempo è rappresentato dall’ambiente. L’inquinamento ambientale attacca ogni cosa attorno a noi, praticamente nulla ne è immune, certamente non le fotografie. Come mai la conservazione (nel tempo) rappresenta una ossessione per molti fotografi? Forse perché consideriamo il nostro lavoro tanto importante? Oppure, perché le gallerie, i collezionisti e i musei sono consci dell’importanza della conservazione delle stampe fotografiche e vogliamo anche noi un posticino in paradiso? Si tratta forse di un capriccio? Quali sono gli elementi che possono influire negativamente sulla durata di una stampa bianconero? La durata delle stampe a colori è sospetta; infatti, sebbene siano stati fatti passi avanti nel rendere stabili i coloranti, sono ancora soggetti a sbiadimento. Ecco i settori nei quali è possibile intervenire per una migliore conservazione: 1, La pulizia; 2, La carta fotografica; 3, I prodotti chimici; 4, Gli ausili al lavaggio; 5, Il lavaggio; 6, Il viraggio; 7, L’essicazione; 8, L’archiviazione; 9, Il montaggio e l’esposizione. 1: La pulizia Lavorare in modo pulito vuol dire non contaminare: un velo di sporco o di polvere non influisce sulla durata di una stampa, ma solo sulla qualità dell’immagine. Ma chimici versati fuori dai recipienti, le bacinelle e le pinze non lavate, usare lo stesso misurino o lo stesso imbuto per prodotti diversi sì. Bisogna entrare nell’ordine di idee di mantenere la camera oscura rigorosamente pulita e libera da prodotti contaminati. Bisogna usare costantemente le stesse bacinelle per gli stessi prodotti e lavarle energicamente prima di ogni seduta di stampa; lavare e rilavare misurini, imbuti e pinzette. Bisogna a tutti i costi rendersi conto che la contaminazione è sempre in agguato. 2: La carta fotografica Le carte con il supporto di cellulosa sono le uniche che attualmente fanno al nostro caso, perché vengono utilizzate da quasi cento anni e abbiamo quindi come prova le copie che sono arrivate intatte fino a noi. I supporti più diffusi hanno lo stesso grado di purezza e qualità della cellulosa; cambia solo la gradazione tonale. 3: I prodotti chimici Usare sempre chimici freschi; niente distrugge più rapidamente una stampa fotografica di un trattamento realizzato con prodotti chimici troppo sfruttati o esauriti. È necessaria solo un po’ di disciplina, e bisogna seguire attentamente le istruzioni fornite dai fabbricanti. Il costo dei prodotti è talmente basso, rispetto a quello della carta e del tempo necessario per realizzare una stampa, che in questo, come in molti altri casi, il risparmio finisce per tradursi solo in una maggior spesa. Se la purezza dell’acqua è sospetta, per preparare le soluzioni può essere inoltre necessario utilizzare

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acqua distillata, al fine di non modificare il livello di pH previsto ed eliminare così il rischio di una contaminazione con sostanze sconosciute, anche di origine organica, presenti in sospensione nell’acqua del rubinetto. Uno sviluppo esaurito e contaminato è causa di macchie e influisce sulla gradazione tonale, ma non ha effetto per quel che riguarda la durata nel tempo. Il bagno di arresto esaurito causa macchie sulla stampa, sviluppo non uniforme e, peggio, riduce l’efficacia del fissaggio. Un semplice modo per controllare l’efficacia del bagno d’arresto è quello di strofinare con due dita la carta. Quando la carta esce dal bagno di sviluppo risulta scivolosa al tatto, ma se il bagno d’arresto è fresco questa scivolosità scompare. Il bagno di fissaggio è un punto tanto fondamentale, quanto trascurato, al fine della conservazione e durata delle stampe nel tempo. Fissare la carta in modo approssimativo o usare un bagno esaurito è garanzia di un invecchiamento rapido delle stampe. Il fissaggio ha lo scopo di rimuovere dalla stampa gli alogenuri d’argento non impressionati, che, altrimenti, si annerirebbero rapidamente una volta esposti alla luce. I bagni di fissaggio sono di due tipi. Il classico tiosolfato di sodio con induritore, in uso da centosettant’anni, e il bagno a base di tiosolfato d’ammonio, conosciuto anche come fissaggio rapido. Entrambi presentano vantaggi e svantaggi; in ogni caso, qualsiasi tipo si scelga, non bisogna mai eccedere nel tempo di fissaggio. Logicamente, più ampi sono i margini bianchi di una stampa e maggiore è il lavoro che il fissaggio deve svolgere e, quindi, più rapido il suo esaurimento. Se è nel proprio stile di stampare con margini bianchi evidenti, si deve considerare che il numero di stampe che è possibile trattare con un litro di soluzione è sensibilmente inferiore ai valori indicati dal fabbricante. ❯ Vantaggi del tiosolfato di sodio: 1: è dimostrata la sua efficacia per oltre centosettant’anni; 2: con l’aggiunta di sostanze induritrice, le stampe sono meno sensibili ai graffi e alle abrasioni; inoltre, l’induritore protegge le stampe dell’umidità ambientale e limita la contaminazione chimica; 3: i sistemi che prevedono due bagni sono utili quando si fissano gruppi di stampe, perché possono restare nel bagno per più tempo. ❯ Svantaggi del tiosolfato di sodio: 1: il tempo di trattamento è piuttosto lungo; 2: poiché le stampe restano nel bagno per un tempo più lungo, aumenta il rischio che gli ioni del tiosolfato penetrino nelle fibre della carta, così che diventa difficile rimuoverli durante il lavaggio; 3: l’induritore forma una barriera che si oppone allo scambio degli ioni e fa aumentare il tempo di lavaggio; inoltre, l’induritore rende più difficoltoso il procedimento di viraggio. ❯ Vantaggi del fissaggio rapido: 1: il tempo di fissaggio si riduce a soli trenta secondi; 2: gli ioni non possono penetrare nelle fibre della carta, dato il breve tempo di fissaggio; il lavaggio è molto rapido. ❯ Svantaggi del fissaggio rapido: 1: dato il breve tempo di fissaggio, diventa complesso controllare gruppi di stampe; l’attenzione necessaria per controllare esattamente la durata del bagno rallenta l’intero processo di stampa; 2: non esistono prove dell’effettiva durata delle stampe nel tempo; anche se ricerche accurate affermano che si tratta di un prodotto valido, bisognerà attendere anni per avere un riscontro pratico. 3: il fissaggio rapido non incorpora un agente induritore; è necessario prevedere un bagno a parte.


Servizio 4: Gli ausili del lavaggio I prodotti che facilitano il lavaggio sono esattamente ciò che afferma la propria denominazione. Modificano chimicamente l’iposolfito della stampa, in modo che sia più facile rimuoverlo durante il lavaggio. 5: Il lavaggio Un lavaggio accurato è fondamentale per la durata delle stampe nel tempo. Nessun altro procedimento di camera oscura ha maggiore importanza ai fini della conservazione e della durata delle stampe. Gli effetti di un lavaggio inadeguato non si mostrano che dopo alcuni anni, quando è ormai troppo tardi per intervenire. Il lavaggio consiste in un processo di liscivazione che deve essere radicale: tutte le superfici della stampa, emulsione e dorso, devono ricevere un eguale ed effettivo lavaggio. ❯ Princìpi fondamentali del lavaggio delle stampe: 1: all’interno del bagno in acqua di lavaggio, nulla deve entrare in contatto con la superficie della stampa: le aree della stampa che entrano in contatto con altre copie non vengono lavate; 2: le bolle d’aria che si formano sulla superficie delle stampe devono essere eliminate, poiché formano una barriera allo scambio di ioni tra le sostanze chimiche presenti nella carta e l’acqua di lavaggio; 3: la temperatura dell’acqua deve essere superiore a sedici gradi; l’ideale è una temperatura di lavaggio intorno ai ventiquattro gradi; 4: una lieve agitazione è necessaria per liberare gli ioni di tiosolfato di cui le fibre della carta sono impregnate; 5: non bisogna mai lavare eccessivamente le stampe; 6: premunirsi contro una nuova contaminazione, sciacquando a parte le stampe prima di immetterle nella vasca di lavaggio; 7: controllare l’efficacia del lavaggio; i procedimenti di camera oscura non sono unici e variano da fotografo a fotografo, non ci si fidi dei tempi di lavaggio raccomandati; il livello del pH dell’acqua è proporzionale al tempo di lavaggio: per esempio, se l’acqua è molto dura, il tempo di lavaggio deve essere prolungato. 6: Il viraggio L’immagine fotografica è composta di argento metallico; per evitarne l’ossidazione, si consiglia di virare le stampe. In teoria, il procedimento di viraggio riveste l’argento dell’emulsione e lo protegge dalle aggressioni degli agenti chimici, la sua efficacia è comunque discutibile. I due viraggi maggiormente usati sono quelli a base di Oro e di Selenio. L’Oro non modifica la gamma tonale della stampa, il Selenio a volte sì. 7: L’essiccazione Quando si asciuga una stampa sono più le cose che non bisogna fare che quelle da fare. Non usare mai nessun procedimento che preveda dei materiali assorbenti, come tamburi di essiccamento con fasce di tela, tamponi di carta assorbente o simili. Tutti trasmettono le sostanze contaminanti di una stampa impropriamente lavata a tutte le copie che entrano successivamente in contatto con la loro superficie. Usare invece pannelli di vetroresina. Le stampe vanno asciugate con il lato dell’emulsione in alto ma mai nella zona “bagnata” della camera oscura. Sostanze chimiche volatili possono depositarsi sulle stampe e contaminarle. 8: L’archiviazione Anche le stampe trattate nel modo più pulito e accurato possono essere ricontaminate da una archiviazione impropria. Archiviare accuratamente le stampe è piuttosto costoso, ma sempre meno di quanto non costi stamparle di nuovo. Bisogna riporre le stampe in armadi appositamente concepiti per questo scopo; una precauzione supplementare consiglia di separare le stampe con un foglio di carta

speciale, usato dai musei; la temperatura deve essere costante e non superare i ventiquattro gradi, con un tasso stabile di umidità. È fondamentale mantenere le stampe lontane da cartoni in pastalegno, sostanze appena verniciate, plastica adesiva, cartone ondulato, umidità elevata, temperatura elevata, etichette adesive, fermagli metallici, culture di insetti, nastro adesivo e animali domestici. 9: Il montaggio e l’esposizione Se si ha intenzione di esporre le proprie fotografie, ci si assicuri che le cornici utilizzate corrispondano agli standard adottati dai musei e dalle gallerie d’arte. Il modo più rapido per rovinare una stampa è quello di incorniciarla in modo inadeguato. Incorniciare delle stampe affinché durino in permanenza è un’arte: 1: sono stati scritti ottimi libri sull’argomento; 2: non si imbrogli sul materiale usato, e ci si assicuri che i pannelli utilizzati per la montatura e per il passepartout siano realizzati nel cotone telato più fine; costano un po’ di più, ma se si sistemano le stampe preziose tra fogli di materiale a base di pasta di legno saranno praticamente rovinate nel giro di un anno; 3: imparare il modo corretto di fissare la stampa sulla sua montatura; si utilizzino o costruiscano angolini di puro tessuto o di carta con un grado di pH neutro; avendone pazienza, si utilizzino linguelle in tessuto giapponese, che sono il non plus ultra, ma il cui utilizzo richiede applicazione; non si usino mai nastri adesivi, né altri materiali autoadesivi, che contengono sostanze a base di alcool, che distruggono rapidamente le stampe; non bisogna nemmeno utilizzare cartone ondulato per il supporto delle montature; 4: si impari a maneggiare le stampe con attenzione e amore; si tengano le stampe non montate sul palmo della mano e, soprattutto, non si afferrino le fotografie fra il pollice e l’indice: è garantita una rottura a forma di mezzaluna sull’emulsione; si usino sempre guanti bianchi di cotone, per evitare di depositare sulle stampe il grasso e altre sostanze contaminanti che si trovano sulle mani; molti affermano che le montature aperte sarebbero l’ideale per la durata delle stampe: però, le montature aperte hanno l’inconveniente di dare alle fotografie un antiestetico aspetto severo; 5: si presti attenzione a che il vetro della montatura non sia mai in contatto con la stampa; in breve tempo, diverrebbe un ideale terreno di coltura per muffe e funghi; 6: se le stampe devono essere maneggiate frequentemente, le si montino tra una base di cartone telato e un passepartout; si tenga presente che le stampe così montate sono voluminose e occupano molto spazio nell’archivio; in compenso possono essere esaminate senza alcun problema. In conclusione, l’utilizzo di materiali che offrano standard d’archivio, per se stesso non garantisce nessun grado di durata nel tempo. È indispensabile che si accompagnino a una disciplina assoluta durante tutte le fasi del trattamento. La durata può divenire una realtà soltanto se non si trascura il benché minimo dettaglio durante tutto il trattamento; infatti, non necessariamente un prodotto che viene definito “per l’archiviazione di qualità” oppure “rispondente agli standard dei musei” è effettivamente tale. Spesso, si sono acquistati supporti garantiti come costruiti nel più puro cartone telato, per poi riscontrare un inaccettabile livello di acidità del materiale; allo stesso modo di nastri di carta spacciati come di puro lino. Questi sono sicuramente casi isolati: la maggior parte dei prodotti corrisponde alle caratteristiche dichiarate dal costruttore. Comunque, non si sia ossessionati dalla durata delle fotografie. Dopotutto, l’importante è realizzare immagini superbe. Il resto...

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Servizio A tutt’oggi, ventidue Lumas Galleries completano la personalità fotografica che parte dal laboratorio WhiteWall: quindici in Germania (qui visualizziamo la galleria di Colonia), cinque in Europa e due a New York City. Attraverso le Lumas Galleries vengono vendute fotografie d’autore in finiture d’arredamento: www.lumas.de, con catalogo sistematicamente aggiornato.

LUMAS PARIS - SAINT-GERMAIN

COME E DOVE

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Per il servizio di stampa e finitura online, dall’Italia il riferimento è www.it.WhiteWall.com: la consultazione, il percorso e le eventuali ordinazioni sono semplici. Allo stesso momento, segnaliamo la serie di Lumas Galleries, attraverso le quali vengono proposte fotografie d’autore in finitura d’arredamento (con catalogo sistematicamente aggiornato): www.lumas.de. Quindici indirizzi tedeschi: Aachen, Berlino (per tre), Bremen, Bielefeld, Dortmund, Düsseldorf, Francoforte, Hamburg, Heidelberg, Colonia, Monaco, Münster e Stoccarda. Cinque indirizzi europei: Londra, Vienna, Parigi (per due) e Zurigo. Due indirizzi a New York City.

(continua da pagina 15) affrontare quel dietro-le-quinte che definisce le singole personalità. Una domanda è d’obbligo: in Germania, da dove agiscono WhiteWall e Lumas, com’è il rapporto con le banche, per finanziamenti di attività? Ancora, quale e quanta è la consistenza dei soci promotori, capaci di ottenere fiducia dalle stesse banche? Annotiamo questo, che è aspetto complementare ma fondante dell’intera vicenda, perché conosciamo personalmente i disagi che gli operatori italiani incontrano se e quando richiedono finanziamenti motivati per espandere o rafforzare le proprie competitività commerciali, oppure per intraprendere nuove vie. Dunque, senza nulla togliere alla qualità formale delle iniziative e della personalità WhiteWall / Lumas, non possiamo ignorare che stiano agendo

da un palcoscenico sociale assolutamente diverso, perché attivo e dinamico, rispetto a quello che si presenta, per esempio, nel nostro tormentato paese. Ciò rilevato, perché determinante, non sottovalutiamo, né sottostimiamo, la qualità della consistente offerta fotografica che viene realizzata e proposta: esempio brillante di attualità fotografica, che fa tesoro delle possibilità tecniche a disposizione, per affrontare e incontrare un pubblico che sappia apprezzare le particolarità della stampa per arredamento (www.it.WhiteWall.com). Anzi, è addirittura vero il contrario: in conferma dell’aggiudicazione del prestigioso e ambìto TIPA Award 2013 per il Servizio fotografico conto terzi, WhiteWall merita una collocazione di vertice nello specifico riferimento d’azione. ❖



Reflex di Antonio Bordoni

COMPARTO PROSUMER

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Velocità, innovazione e condivisione sono le prerogative tecniche esplicite con le quali è stata presentata la nuova Canon Eos 70D, reflex che si inserisce in un sistema fotografico già affollato, già scandito per passi che dalle configurazioni entry level, che richiamano il più vasto pubblico possibile e potenziale, approdano alle dotazioni dichiaratamente professionali, che assolvono e risolvono le condizioni di uso proprie e caratteristiche delle infinite applicazioni di mestiere, a partire dal fotogiornalismo. Per la Eos 70D ci si riferisce a quella fascia prosumer, che è intermedia tra i due estremi, frequentata da utenti appassionati e convinti, ai quali si offre e propone un consistente passo avanti. Per la prima volta, la Eos 70D combina la tecnologia Canon di imaging con funzioni potenti e creative di condivisione wireless, in una reflex reattiva e ideale per tutti gli utilizzi (anche professionali), in grado di agire ai massimi livelli formali, sia in fotografia, sia in registrazione video Full-HD, soprattutto grazie a un nuovo e potente sensore di acquisizione Cmos APS-C da 20,2 Megapixel. La Canon Eos 70D è la prima reflex digitale dotata dell’innovativa tecnologia autofocus Dual Pixel Cmos AF, che offre una messa a fuoco automatica, precisa e fluida durante la ripresa di filmati Full-HD, e rapida quando si scatta in modalità Live View. In unione al processore a 14 bit Digic 5+ e al sistema AF a diciannove punti a croce, la reflex approda alla rapidità di scatto di sette fotogrammi al secondo, a piena risoluzione, con una sequenza continua che raggiunge sessantacinque fotografie in formato compresso Jpeg, oppure sedici in formato grezzo Raw. Inoltre, la gamma nativa delle sensibilità, da 100 a 12.800 Iso equivalenti (con uno step H aggiuntivo a 25.600 Iso equivalenti) consente di scattare in condizioni di luce scarsa e/o di utilizzare tempi di esposizione più rapidi, pur mantenendo un’elevata qualità dell’immagine.

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Il nuovo autofocus Canon Dual Pixel Cmos AF offre una messa a fuoco rapida scattando in modalità Live View, e precisa e fluida durante la ripresa di filmati Full-HD (1920x1080 pixel), consentendo anche di ottenere effetti pull-focus dall’aspetto professionale. La tecnologia utilizza un’architettura Cmos avanzata, che impiega due fotodiodi montati all’interno di ogni pixel, che possono essere letti indipendentemente per ottenere l’autofocus o -insieme- per elaborare le immagini, garantendo sempre la massima qualità, in ogni momento e condizione. Il sistema di autofocus avanzato, che assicura alta velocità e precisione, comprende diciannove punti AF, tutti a croce, sparsi sul foto-

La Canon Eos 70D propone l’innovativa tecnologia autofocus Dual Pixel Cmos AF.


Reflex gramma e visualizzabili nel mirino, ed è ideale per fotografie di sport e natura, nel cui ambito i soggetti si muovono rapidamente all’interno dell’inquadratura. Il sistema AF è personalizzabile, per consentire di adattarlo al soggetto via via affrontato. I punti AF possono essere utilizzati singolarmente, in piccoli gruppi, o per coprire un’ampia area, per i soggetti più imprevedibili. Comodamente posizionato accanto al pulsante di scatto, un selettore dedicato alla valutazione dell’area AF permette di passare rapidamente da una modalità all’altra, senza dover allontanare l’occhio dall’oculare, piuttosto che dal monitor. La Canon Eos 70D è definita da un corpo macchina progettato per la massima comodità e un funzionamento rapido. Il Mirino Intelligente, con una copertura del novantotto percento e un ingrandimento di 0,95x, consente di inquadrare comodamente le immagini e di visua-

lizzare le impostazioni in sovrimpressione. I controlli ergonomici forniscono un accesso immediato alle impostazioni usate più di frequente, come, per esempio, la sensibilità Iso, la selezione AF e la misurazione dell’esposizione, in modo da poter modificare rapidamente le impostazio-

ni senza perdere la concentrazione. Il display orientabile LCD Clear View Touch II, da tre pollici (7,7cm), con una risoluzione di 1.040.000 pixel, è ideale per le riprese video, o per comporre immagini da angolazioni particolari. Il monitor touch è di tipo capacitivo, e supporta una serie di gesti multi-touch: perfetto per navigare nei menu, modificare le impostazioni o sfogliare le immagini. La Eos 70D conferma la funzionalità Wi-Fi integrata, che consente di controllare in remoto la reflex e condividere le immagini. Utilizzando il Wi-Fi, ci si può connettere all’app Eos Remote e controllare a distanza una vasta gamma di impostazioni, tra le quali sensibilità Iso ed esposizione, così come messa a fuoco e scatto. In remoto, si può utilizzare anche la modalità Live View, nonché verificare le immagini e attribuire loro un valore. Ancora, si segnala una consistente serie di modalità. Per esempio, unendo tre esposizioni in una, per registrare maggiori dettagli nelle aree in luce e in ombra, la funzione HDR In-camera elimina le difficoltà di scatto in situazioni difficili e con alti contrasti. Con la modalità di esposizione multipla, si possono scattare e combinare fino a nove esposizioni in una singola immagine, o utilizzare una

In unione al processore a 14 bit Digic 5+ e al sistema AF a diciannove punti a croce, la Canon Eos 70D approda alla rapidità di scatto di sette fotogrammi al secondo, a piena risoluzione, con una sequenza continua che raggiunge sessantacinque fotografie in formato compresso Jpeg, oppure sedici in formato grezzo Raw.

La Canon Eos 70D dispone di display orientabile LCD Clear View Touch II, da tre pollici, con una risoluzione di 1.040.000 pixel, di tipo capacitivo, dal quale si gestiscono le funzioni operative.

serie di filtri creativi, per cambiare istantaneamente lo stile e l’aspetto dello scatto. Quindi, grazie al trasmettitore wireless Speedlite integrato, che fornisce il controllo In-camera e senza cavi di più unità flash Canon Speedlite EX, è semplice sperimentare con creatività, utilizzando il flash lontano dalla reflex. Oltre alla fotografia, Canon Eos 70D permette di registrare filmati di alta qualità formale. Possono essere acquisiti video a risoluzione Full-HD (1920x1080p), con una scelta di frame rate selezionabili tra trenta, venticinque o ventiquattro fotogrammi al secondo (e sessanta e cinquanta fotogrammi al secondo a 720p); il tutto, con una gamma di opzioni di compressione per la post-produzione e la condivisione. Grazie al nuovo autofocus Dual Pixel Cmos AF, la modalità Servo AF insegue i soggetti quando si muovono o anche quando si ricompone l’inquadratura, mantenendoli sempre a fuoco. In alternativa, è possibile selezionare diverse aree di fuoco su oltre l’ottanta percento dell’inquadratura, semplicemente toccando il touch screen, anche quando si registra, per garantire filmati nitidi e chiari in ogni circostanza. ❖

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Cinema

di Maurizio Rebuzzini - Ricerca iconografica di Filippo Rebuzzini

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GIRA E RIGIRA

Commedia romantica, del 2005, diretta da Nigel Cole, Sballati d’amore (in originale A Lot Like Love) è un film statunitense che conteggiamo come discriminante nell’ambito della presenza della fotografia al cinema: in questo caso, come in molti altri, collante scenografico e in sceneggiatura della vicenda principale. Alla maniera e sulla falsariga, quasi, del precedente Harry, ti presento Sally..., del 1989, di Rob Reiner, autentico classico della commedia romantica moderna, si raccontano le peripezie, gli incontri, gli allontanamenti, i ritrovamenti dei due protagonisti: Oliver Martin (interpretato dall’accreditato Ashton Kutcher) e Emily Fiehl (interpretata dalla brava Amanda Peet). Come in molte commedie romantiche americane, di tutti i tempi, il film è ambientato a New York City, contorno ideale e convincente di qualsivoglia storia d’amore, soprattutto di quelle controverse e alternate. Il primo incontro tra i due, che dà avvio a una storia “in sospeso”, avviene su un volo da Los Angeles a New York: Oliver Martin è un neodiplomato svogliato, ma pieno di sogni per il proprio futuro; Emily Fiehl è reduce dalla rottura il fidanzato, chitarrista rock, che l’abbandona proprio all’aeroporto. La reazione immediata di Emily è di quelle che fanno la fortuna di mille e mille sceneggiature cinematografiche (e trame di romanzi leggeri): sull’aereo si concede un’avventura sessuale con uno sconosciuto... per l’appunto Martin. Una volta arrivati a Manhattan, lei se ne va per la propria strada, considerando conclusa la sua avventura in reazione. Come è ovvio che sia (sceneggiatura docet), i due si reincontrano in giro per la città. Da qui, gli anni trascorrono, con uno che cerca e trova l’altra, e viceversa, secondo gli svolgimenti delle rispettive esistenze. Ognuno vive una vita autonoma, con relazioni sentimentali che si alternano, intervallandosi ognuna alle precedenti; ma la loro amicizia è sostanzialmente cementata, e basata su reciproche confidenze e consolazioni.

Nel frattempo, le ambizioni professionali di Oliver non trovano sbocchi concreti, mentre Emily si è affermata come fotografa, tanto capace da meritarsi esposizioni in gallerie d’arte. La conclusione, sette anni dopo l’incontro originario, è scontata, oltre che ampiamente prevista. Riguardando le fotografie della loro prima giornata insieme a New York, quando era Oliver ad avere una Canon al collo, Emily capisce che il loro strano e curioso rapporto è stato l’unico elemento costante della sua vita... e lo stesso è per Oliver. Lieto fine. E questo è tutto, o quasi tutto, per il film in quanto tale. La fotografia, ora. Meno sfacciata che in altre sceneggiature e scenografie cinematografiche, altrettanto proiettate al racconto di storie d’amore, passione e sentimento (per esempio, pensiamo a I ponti di Madison County, di Clint Eastwood, del 1995 [soprattutto, FOTOgraphia, febbraio 2012], e a Il favoloso mondo di Amélie, di Jean-Pierre Jeunet, del 2001 [FOTOgraphia, ottobre 2005], che si conteggiano come film “fotograficamente” autoritari, ma che nel concreto finalizzano la fotografia al resoconto di intensi momenti d’amore), la fotografia è comunque il collante di Sballati d’amore. Scenograficamente, sottolineiamo anche (e in supplemento) le fototessere da cabina automatica che accompagnano lo scorrere dei titoli di testa e quelli di coda); nel concreto, mettiamo in risalto come il film sia discriminante nella identificazione e classificazione della presenza consapevole della fotografia (e/o dei fotografi) nel cinema. Ovviamente, ribadiamo, confermandola: la svolta epocale, la svolta senza ritorno è tracciata e disegnata da Blow up, di Michelangelo Antonioni, del 1966 [la più recente riflessione, in FOTOgraphia, del settembre 2012], film che consideriamo e conteggiato come linea spartiacque tra un prima e il dopo. All’indomani di Blow up, in un tempo di grandi som-

Il film Sballati d’amore, di Nigel Cole, del 2005, può essere considerato discriminante della presenza della fotografia nel cinema: in forma leggera, è l’elemento di contatto tra i due protagonisti del quale racconta le vicende esistenziali. Annotazione scenografica aggiunta: sui titoli di testa e di coda scorrono fototessere da cabina automatica. Oliver Martin (Ashton Kutcher) e Emily Fiehl (Amanda Peet) si incontrano per caso sul volo da Los Angeles a New York, sul quale hanno un incontro sessuale. Si lasciano all’aeroporto, e si incontrano casualmente a Manhattan: è l’inizio di una storia a tempi alternati, accompagnata dalla fotografia.

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Cinema Nell’alternanza delle singole esistenze, i protagonisti di Sballati d’amore vivono balzi temporali e rincorse. Alla resa dei conti, Emily (Amanda Peet), che nel frattempo è diventata fotografa, capisce che lo strano e curioso rapporto con Oliver (Ashton Kutcher) è stato l’unico elemento costante della sua vita. Riguarda le fotografie della loro prima giornata insieme a New York, quando era Oliver ad avere una Canon al collo, e medita sulle loro affinità. Lieto fine.

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movimenti ma di inquietante interregno espressivo, rari furono i fotografi che apparirono sullo schermo in altre vesti che non quelle del sesso. Molte furono le pellicole al di sotto del limite medio di accettabilità, che giocarono la facile carta del fotografo senza scrupoli e privo di morale. In definitiva, Blow up innescò una triviale escalation. Comunque si guardi ai fatti, e comunque si colleghino rapporti e relazioni (presunte oppure reali), ribadiamo questa nostra discriminante: la narrazione di Blow up si afferma come spartiacque sia della più generale vicenda cinematografica della fotografia, sia della raffigurazione del proprio mondo e dei propri personaggi. Diciamola così: nel 1966, per la prima volta il fotografo diventa il protagonista liberatorio di una situazione che gli appartiene, nello stesso modo in cui appartiene anche al pubblico; ovverosia, diventa interprete di una angoscia da mass media. In tono meno determinante, ma non certo ideologicamente minore, quanto identifichiamo e classifichiamo come consapevole presenza dei fotografi e della fotografia nel cinema è cambiato ancora, negli ultimi anni, dopo decenni di sostanziale ripetizione di concetti presto codificati e/o stereotipi subito smascherati. In particolare, sono discriminanti due film, tra loro temporalmente vicini e prossimi ai nostri giorni. Indipendentemente uno dall’altro e a titolo assolutamente individuale, Sballati d’amore, del quale ci occupiamo oggi, e Closer [FOTO graphia, ottobre 2006] hanno finalizzato l’elemento fotografico alla consecuzione delle rispettive vicende. Ricordiamolo in fretta: in Closer (regia di Mike Nichols; Usa, 2004), la fotografia è l’elemento di contatto tra i due protagonisti, dei quali il film narra le vicende esistenziali e sentimentali (la fotografa Anna Cameron, interpretata da Julia Roberts, e l’aspirante scrittore Dan, con il volto di Jude Law); analogamente, anche per l’odierno Sballati d’amore la fotografia è il filo che lega i balzi temporali della contraddittoria rincorsa tra la disinvolta Emily Friehl e il confuso Oliver Martin. In entrambi i casi, la fotografia è leggera, pur essendo, in sostanziosa misura, discriminante. E qui sta la differenza con la precedente lunga vicenda della fotografia nel cinema. ❖



Alberto Vargas, al quale dobbiamo figure affascinanti, ricche di fascino proprio e senza elementi compositivi aggiunti, è stato uno dei grandi illustratori di autentiche pin-up degli anni Cinquanta.

(pagina accanto) Gil Elvgren è stato uno dei più grandi autori della lunga stagione delle pin-up. Stabilendo una sua stagione autonoma: monografie, card, calendari.

Fenomeno di costume in prepotente riproposizione, l’attuale riscoperta di raffigurazioni visive ispirate a decenni lontani (Quaranta e Cinquanta) è quantitati vamente consistente, quanto qualitati vamente inefficace. Più apparenza che sostanza, più esteriorità che conte nuto, più superficialità che conoscenza e competenza, è figlia dei nostri confusi tempi, che non prevedono alcuna consapevolezza, ma premiano (?) l’approssimazione. Da cui e per cui, per quanto leggero e marginale, per quanto minore e relativo, anche il fenomeno delle pin-up ha propri valori storici e proprie consistenze, delle quali essere consapevoli 26

CHE di Maurizio Rebuzzini

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oprattutto questa estate, le spiagge italiane delle vacanze sono state attraversate da una identificata affinità e conformità, in proiezione solare di quanto -dall’autunno a primavera- si sta manifestando nelle città di residenza. Al culmine di un processo avviato una manciata di stagioni fa, da tempo, una individuata sostanziosa ripetizione in chiave attuale del fenomeno di costume delle pin-up (grafia che preferiamo) sta accendendo le luci della ribalta sulla interpretazione corrente di stilemi visivi (fotografia e illustrazione) che, originariamente, si imposero tra la fine degli anni Quaranta, all’indomani della fine della Seconda guerra mondiale, e i successivi Cinquanta: prima di tutto, negli Stati Uniti, momento iniziale e punto di partenza storicizzato, e poi nell’intero il mondo occidentale. Con declinazioni diverse, ma coincidenti nelle proprie intenzioni esplicite, la trasversalità odierna delle pin-up viene via via presentata come tale, per l’appunto Pin-Up, e/o con definizioni comunque sia specifiche e mirate, tutte dipendenti dalla cultura del vintage (e contorni). In trasformazione di stile, genere e contenuti, soprattutto Burlesque, nella interpretazione statunitense del Novecento, che trasportò in varietà e spogliarello lo spettacolo satirico inglese di riferimento, nato alla fine del Settecento e impostosi lungo tutto l’Ottocento, e Glamour, nel proprio sinonimo accettato di nudo femminile, in chiave di fascino, charme, malìa e incanto... soprattutto fotografici. Moda (effimera?) del vintage a parte, tutto questo fa parte di un più ampio contenitore, che nasce nel costume e si allunga sul sociale. In effetti, come sottolineato con profilo giornalistico alto da Sette, magazine settimanale del Corriere della Sera, dello scorso dodici luglio, in dipendenza di una regia televisiva occulta e dissimulata, nei recenti tre decenni, a partire da Drive In e Striscia la notizia (entrambi i programmi nel palinsesto Mediaset... guarda caso?!), la socialità italiana è stata radicalmente trasformata «in un paese nel quale le gambe (delle ragazze [veline e dintorni/contorni] e dei calciatori) conta di più del cervello». E queste considerazioni appartengono ad altro giornalismo, che non il nostro: ma! Con taglio mirato -ovviamente, a partire dalla fotografia, ad attraversare la fotografia, a finire alla fotografia-, noi dobbiamo necessariamente muoverci in modo diverso, ovverosia specifico. Dunque, fatte salve le considerazioni sociali appena espresse, ci rivolgiamo indeterminatamente alla fotogra-


PIN-UP SIA!

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fia: manco a dirlo! Al solito, lo facciamo per stabilire dei confini e delle frequentazioni distintive: tra l’essere (al quale sollecitiamo) e l’apparire, tra la comprensione e la beata incoscienza, tra... e.

LE AUTENTICHE PIN-UP Quindi, e in ripetizione d’obbligo, socialità distorte o mal indirizzate a parte (materia che non ci compete statutariamente), dal punto di vista visivo, l’esuberante attualità delle pin-up ci ammutolisce e sconforta e demoralizza e scoraggia, anche per l’assoluta ignoranza con la quale la riproposizione del fenomeno viene affrontata e svolta. Ammesso e non concesso che possa essere argomento vivo e palpitante, in ogni caso, al pari di ogni altra vicenda della vita, dell’esistenza e dell’espressività, al di là di capacità pratiche fondamentali, persino la fenomenologia delle pin-up esige e richiede preparazione, perizia e autorità. Altrimenti, come molte espressioni dei nostri giorni, si tratta solo di esteriorità e sembianza. Peccaminose ai tempi delle rispettive apparizioni dal vivo, ovverosia in cronaca, nella seconda metà degli anni Novanta, le licenziose raffigurazioni femminili (soprattutto) disegnate nei decenni scorsi approdarono a una celebrazione storica che ne ha consacrato l’ingresso ufficiale nella più nobile comunicazione visiva. Non più clandestine, non più contrabbandate sotto banco, da allora le pin-up sono state reintegrate nel novero delle figure canoniche e accettate (accettabili): e da qui -in malaugurata reinterpretazione-sono anche nate le attuali raffigurazioni di poca consistenza e nessuna competenza. Da una parte, questa riscoperta è stata merito della scrupolosa catalogazione di intrepidi storici del costume, che hanno dato vita a una serie di monografie a tema, sulla cui genìa editoriale sovrasta l’impeccabile The Great American Pin-Up, dell’editore tedesco Taschen Verlag, pubblicata già nella primavera 1997 (con nostre osservazioni del giugno 1997; anticipatorio e profetico strillo di copertina: «Il grande ritorno delle pin-up»!). Dall’altra parte, non possiamo ignorare, né sottovalutare, almeno due fenomeni che hanno favorito la riscoperta di queste illustrazioni di femmine birichine, volontariamente maliziose, consce della propria carica erotica, che nei decenni scorsi hanno interpretato l’incantevole mistero di una speranza. Anzitutto, va registrato un identificato fastidio per la ginecologia da rotocalco e Rete, che non si concilia con la raffinatezza estetica e visiva dei più autentici e concentrati cultori dell’erotismo visivo (attenzione, come è stato scritto: l’erotismo sta alla volgare e inutile esibizione di carne, come una promessa allettante sta a una offerta tristemente esplicita). Infatti, l’incantevole mistero di una speranza, ottimamente interpretato dalle maliziose pin-up dei decenni scorsi, alimenta quella fantasia e quella attesa senza le quali la vita e il piacere finiscono per non avere brividi. Dopo di che, va pure sottolineata -una volta ancora- la recente rivalutazione generale e generica degli anni Cinquanta (cultura radicale del definito vintage). Pur senza entrare nel merito di competenze

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sociologiche che non ci spettano (ancora!), non ignoriamo che si tratta di una mitizzazione artificiosa e fittizia, basata su sensazioni ed emozioni postume, che nulla hanno di reale. In tutti i casi, rimane il fatto che in quell’immediato dopoguerra regnava uno stato d’animo ottimista. Gli oggetti, gli spettacoli, la vita e persino le persone erano splendide e brillanti. All’indomani del buio di una devastante guerra mondiale, la visione di una possibile vita serena, licenziosa e solare non poteva che donare felicità. Ufficialmente, non c’erano problemi e la cultura delle pin-up appartiene a quel mondo.

COMPETENZE (NON APPARENZA) Purtroppo, come già rilevato, il ritmo sociale dei nostri giorni non consente approfondimenti, ma si ac-

contenta di superficialità. A conseguenza, le attuali riproposizioni visive alle quali facciamo riferimento -con ottusi e incompetenti richiami (solo apparenti) al Burlesque, al Glamour e alle Pin-Up- sono ben lontane dall’essere adeguatamente istruite e sapienti. Insomma, invece di richiamare con adeguata preparazione e bagaglio di nozioni, finiscono solo per declinare una irriverente genericità e faciloneria, che ci amareggiano. Anche perché, la conoscenza è lì a portata di mano, sintetizzata in una identificata quantità e qualità di titoli retrospettivi, sopra i quali, in ripetizione, risalta ed emerge il compendioso The Great American Pin-Up, al quale abbiamo appena fatto riferimento: senza ombra di dubbio, il più completo e attento studio sul fenomeno. Sapendo cogliere quan-

(pagina accanto) Illustrazioni di pin-up con macchina fotografica: rispettivamente, di Al Brulé, Pearl Frush, Vaughan Alden Bass e Peter Driben.

Nel giugno 1997, in anticipo su quanto sarebbe maturato di lì a poco, profetizzammo «Il grande ritorno delle pin-up»! Per l’occasione, l’illustratore italiano Guido Daniele interpretò per noi un soggetto di Vaughan Alden Bass (pagina accanto, in alto, al centro).

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ANCHE QUESTI ALTRI TITOLI

Per affrontare il fenomeno della raffigurazione delle pin-up, e magari reinterpretarlo consapevolmente in chiave attuale, oltre i titoli segnalati nel corpo centrale di questo intervento redazionale, vanno ricordati almeno altri tre titoli, tutti curati dalla assidua e competente Dian Hanson, per conto dell’immancabile Taschen Verlag. Ribadiamo che la conoscenza è strumento attraverso il quale ci si può esprimere con competenza: indispensabile, rispetto la confusa casualità che definisce le interpretazioni a tema dei nostri giorni. Scandito in tre volumi cronologici e consequenziali, in cofanetto, History of Pin-up Magazines affronta con piglio e perizia l’evoluzione delle testate che hanno elevato la pin-up a materia unica, non soltanto principale: Volume 1 (dal 1900 alla Seconda guerra mondiale), Volume 2 (dalla fine della Seconda guerra mondiale al 1959), Volume 3 (dagli anni Sessanta); in inglese, francese

e tedesco; 816 pagine totali 16,7x21,7cm; 29,99 euro. Per quanto riguarda il nostro attuale punto di osservazione, sono proficui i primi due volumi, il primo soprattutto. Lo stesso dicasi per i sei volumi History of Men’s Magazines, i cui primi tre ripetono le date appena segnalate, e gli altri tre si allungano poi oltre gli anni Sessanta e Settanta. Anche in questo caso, i primi due volumi (soprattutto il primo) sono proficui al discorso pin-up, e gli altri si proiettano altrove e altrimenti: ciascun volume 460 pagine 21,3x27,7cm; 39,99 euro. Specifica e mirata, quantomeno al nostro argomento odierno, è la raccolta History of Girly Magazines, che spazia in avanti nel tempo, sfiorando il Duemila: 672 pagine 14,9x19,5cm; 19,99 euro. In un certo senso, si sovrappone alla History of Pin-up Magazines, ma c’è anche qualcosa di più e altrettanto di diverso.

Tre titoli a cura di Dian Hanson; Taschen Verlag (distribuzione: Inter Logos, strada Curtatona 5/2, Località Fossalta, 41126 Modena; www.libri.it). History of Pin-up Magazines; tre volumi in cofanetto; 816 pagine totali 16,7x21,7cm; 29,99 euro. History of Men’s Magazines; sei volumi; ciascun volume 460 pagine 21,3x27,7cm, cartonato; 39,99 euro. History of Girly Magazines; 672 pagine 14,9x19,5cm, cartonato; 19,99 euro. Per l’approfondimento dell’argomento pin-up, sono preziosi i primi volumi di History of Pin-up Magazines e History of Men’s Magazines, ed è indispensabile l’ History of Girly Magazines.

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to corre per l’aria, i curatori Charles G. Martignette e Louis K. Meisel (titolare della apprezzata e omonima Louis K. Meisel Gallery, al 141 Prince street, di New York City) hanno compitato un casellario che ha dell’incredibile. A pagina intera (24x31,6cm), oppure concentrando le illustrazioni a tre/quattro per pagina, i due autori hanno classificato e presentano ben novecento soggetti, suddivisi per settanta autori presi in considerazione: quindici nel capitolo “preistorico” dell’Art Deco, al quale sono riservate quasi quaranta pagine; trentadue nel corpo vivo della monografia, che tratta il periodo che si estende dalla Seconda guerra mondiale agli anni Settanta, distribuito su circa duecentocinquanta pagine; ventitré nel capitolo finale, di circa cinquanta pagine, dedicato ai definiti “Additional Artists”.

Per gusto personale, sopra tutti sovrasta il leggendario Gil Elvgren (1914-1980), particolarmente noto per aver travestito da improbabile cow-boy qualche sensuale smorfiosetta, che sta vivendo anche una fama postuma autonoma con raccolte antologiche e successive serie di card a tema. Comunque sia, l’eccellente The Great American PinUp non ha dimenticato nessuno, e racconta vita e opera di tutti gli specialisti del disegno di fanciulle che hanno definito un’epopea che si è distribuita lungo i decenni, fino a quando il realismo della fotografia di nudo ha finito per avere il sopravvento, dopo aver fatto prepotente breccia tra le maglie di una censura sempre più blanda. La storia che raccontano Charles G. Martignette e Louis K. Meisel ha il merito di usare poche parole Ancora confermiamo la statura di Gil Elvgren, universalmente riconosciuto come uno dei più grandi autori della lunga stagione delle pin-up.

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(peraltro in inglese) e tante figure. Dunque, si tratta di un racconto soprattutto visivo. Dopo di che, chi volesse approfondire il tema, magari per reinterpretarlo con autorevolezza e non solo inutile apparenza, può consultare The Pin-Up: A modest history, di Mark Gabor, testo originario del 1972, rieditato nei secondi anni Novanta dal solito Taschen Verlag (274 pagine 20x27,5cm). Pur nella modestia dell’accompagnamento visivo -sicuramente non paragonabile allo straordinario splendore e alla eccezionale abbondanza di illustrazioni di The Great American PinUp-, qui la fenomenologia della raffigurazione pudicamente erotica è osservata dal punto di vista della “liberazione” degli anni Sessanta. Ma, soprattutto, la narrazione storica è giudiziosa quanto la vicinanza dei fatti raccontati ha permesso. Tra l’altro, Mark Gabor spiega bene anche l’origine dei fenomeni. Per cui, la sua è una ricostruzione storica decisamente preziosa. Tanto per dire, vengono chiariti sia il concetto stesso di pin-up (“appuntare in alto con gli spilli”, fino alla consacrazione di “ritratto femminile con pose audaci, da attaccare al muro”), sia quello collegato di “Cheesecake”, letteralmente torta al formaggio: «L’espressione fu coniata da un goloso capo-agenzia, quando vide -nel 1915!la fotografia di una graziosa cantante russa d’opera sbarcata a New York e convinta da un furbo reporter a sollevare di qualche centimetro la sottana».

DAGLI STATI UNITI Con questo, si ufficializza che ambedue le definizioni e fenomenologie sono di origine statunitense, anche se a volte i francesi asseriscono di averle inventate loro le illustrazioni piccanti. Però, per quanto le rotondità mostrate da La Vie Parisienne, fin dalla seconda metà dell’Ottocento, possano essere considerate alla stregua di raffigurazioni provocanti originarie, l’autentica pin-up, così come la intendiamo oggi, nasce negli Stati Uniti. Una citazione d’obbligo riguarda la rivista Esquire, che negli anni Trenta lanciò i due maggiori creativi del fascino svelato: George Petty, maestro delle forme esibite con regale nonchalance, e Alberto Vargas, uno dei maestri, che è rimasto in attività fino all’inizio degli anni Settanta. Alimentato negli Stati Uniti con calendari (sopra tutti, i famosi Girlie Calendar, della Brown & Bigelow, del Minnesota), con illustrazioni su periodici di costume e con testate specializzate, il fenomeno della pin-up viene esportato in Europa al seguito delle truppe liberatrici. Tanto per dire, la storia a fumetti dei francesi Yann Le Pennetier e Philippe Berthet (rispettivamente testo e disegni), originariamente pubblicata da Dargaud Editeur, appunto intitolata Pin-up (edizione italiana Eura Editoriale, in cinque volumi), oltre ad affrontare il mito di Betty Page (al quale ci siamo riferiti spesso), racconta proprio dell’uso di decorare le fusoliere degli aerei da combattimento con ragazze in pose dichiaratamente procaci. Comunque sia, non si confonda mai in modo banale l’illustrazione di giovani e avvenenti fanciulle con lo spirito dell’autentica pin-up. In questo senso, l’antologia riunita nell’impeccabile e prezioso

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The Great American Pin-Up non ammette dubbi. Per quanto non nascondano il proprio erotismo, anzi proprio per questo, le pin-up sono e rimangono «femmine birichine, volontariamente maliziose, consce della propria carica erotica, che hanno interpretato l’incantevole mistero di una speranza». Gli illustratori moderni sono tutt’altra questione. A partire da Hajime Sorayama, celebre soprattutto per le sue Sexy Robot, il cui stile ha condizionato l’attuale generazione di illustratori giapponesi (Araida, Masahiko Fujii, Noboru Ikeuchi, Yasuhiro Kagami, Hideaki Kodama, Junichi Murayama, Keiji Nakagawa...), per approdare agli americani Olivia De Bernardinis, Dave Stevens e Steve Woron non si tratta tanto di interpretazioni attuali di un tema ormai classico, quanto proprio di nuove e originali descrizioni figu-

rative dell’immaginario erotico. Inoltre, potremmo pure arrivare a considerarli tutti eredi del francese Aslan, la cui matita ha spogliato -negli anni Sessanta e Settanta- le star dello spettacolo che non osavano ancora posare davanti all’obiettivo fotografico. Ciò a dire che non tutto ciò che è disegnato riguarda necessariamente le pin-up, la cui connotazione è inconfondibile e determinata. E poi, a conferma, non tutto quanto viene oggi contrabbandato come riscoperta vintage è effettivamente tale: il più delle volte, ahinoi, è soltanto minestra riscaldata (peraltro male) da chi persegue soltanto la non cultura dei nostri giorni, così analfabeti e illetterati. Al contrario, ogni retrovisione in attualità di intenti presuppone e richiede conoscenza e cultura: anche quella delle intriganti pin-up. ❖

The Great American Pin-Up, a cura di Louis K. Meisel e Charles G. Martignette; Tashen Verlag, 1997 (distribuzione: Inter Logos, strada Curtatona 5/2, Località Fossalta, 41126 Modena; www.libri.it); 280 pagine 24x31,6cm, cartonato con sovraccoperta; 14,99 euro.

(pagina accanto, in alto) Tavola di un calendario degli anni Cinquanta, illustrato con l’immancabile pin-up (illustrazione di Ward Brackett).

(pagina accanto, in basso) Composizione illustrata di Joyce Ballantyne, una delle poche donne (probabilmente l’unica) che hanno animato la stagione delle pin-up.

È ovvio concludere con Gil Elvgren, del quale abbiamo già specificato la statura e la personalità d’autore.

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con Kodak Wide Field Ektar 250mm f/6,3


Deardorff 8x10 pollici

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di Angelo Galantini

A New York. Born back into the Past (Dalla collezione di Stefano e Silvia Lucchini); testi di Geminello Alvi e Gianni Riotta; 24ore Cultura, 2013; 110 illustrazioni in bianconero; 144 pagine 24x29cm, cartonato con sovraccoperta; 19,90 euro.

ssolvendo subito una delle regole implicite ed esplicite del giornalismo, della scrittura redazionale, che impone di specificare il soggetto dichiarato entro le prime righe di testo, certifichiamo che stiamo presentando una monografia su New York, realizzata con fotografie d’archivio di autore sconosciuto (autori sconosciuti?), e per questo anonimo/anonimi: New York. Born back into the Past (Dalla collezione di Stefano e Silvia Lucchini). Però, per farlo, dobbiamo subito sottolineare una condizione (ancora) giornalistica e redazionale che ci pare altrettanto indispensabile applicare: quella di allungarci -immediatamente a seguire- su altre esperienze, magari su osservazioni da lontano, in modo da collocare questa ennesima retrovisione su New York in un contesto al quale appartiene per diritto, oltre che dovere. Dunque, volendola riassumere, si impone una segnalazione bibliografica ragionata su New York, che completa la presentazione dell’attuale monografia. Dopo la quale (presentazione), arriveremo ad altre segnalazioni. Tra titoli e volumi di carattere più commerciale e turistico e autentiche perle di reportage e documentazione sociale, i titoli fotografici che hanno affrontato New York si sprecano: molti libri

sono robaccia, sono da buttare; altri -identificabili e identificati- sono invece preziosi; qualcuno è addirittura fondamentale. A suo tempo. Per ora, il soggetto principale e ispiratore di queste note. Pubblicato da 24ore Cultura, New York. Born back into the Past (Dalla collezione di Stefano e Silvia Lucchini) è una raccolta di fotografie d’archivio, tutte di autore sconosciuto (probabilmente soltanto uno), che si completa con testi di Geminello Alvi e Gianni Riotta. La sua genesi è avvincente: la raccolta nasce da un curioso album di fotografie acquistato da Stefano Lucchini, rimasto affascinato dalle immagini in bianconero della città, nella prima metà del Novecento. L’insieme è formato da entusiasmanti interpretazioni della vita nel proprio svolgersi, realizzate da un anonimo fotografo (o forse da più fotografi, ma è improbabile), che propone una New York disarmante e inconsueta, con i suoi scorci cittadini, i grattacieli vertiginosi e i parchi innevati. In monografia illustrata, il viaggio che il lettore ha modo di effettuare con lo sguardo è arricchito da citazioni sulla città di scrittori e artisti che l’hanno cantata. Di fatto, un assortimento affascinate, che permette di rivivere il passato perduto della città simbolo della modernità. Annota lo stesso Stefano Lucchini (Direttore Relazioni Istituzionali e Comunicazione del gruppo Eni,

ARRIVEDERCI

NEW YORK Ancora un titolo sulla città più celebre del pianeta, e una delle più fotogeniche (magari con, oppure dopo, Parigi). New York. Born back into the Past (Dalla collezione di Stefano e Silvia Lucchini) è una raccolta retrospettiva, per l’appunto d’archivio (e collezione), che si aggiunge a una bibliografia già tanto ricca di titoli e interpretazioni e suggestioni visive: ne riferiamo. Location di molti film e serie televisive, meta di un turismo senza soluzione di continuità, fotografata da ogni punto di vista e con ogni possibile intenzione d’autore, New York è tanto universalmente conosciuta da aver sollecitato una riflessione perspicace, acuta, lucida, sottile e sagace: «La prima volta che sono stato a New York... c’ero già stato». E ora, altre interpretazioni, molte delle quali meno conosciute di quelle ampiamente note, che definiscono la città nata nel passato

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docente all’Alta Scuola di Giornalismo, presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore, di Milano, e Visiting Fellow alla Oxford University): «New York è una città da guardare non solo con gli occhi, ma con il cuore. L’idea di questo libro è nata quando, due anni fa, ho acquistato un curioso album di fotografie. Il fascino intriso su quelle immagini, scatti fugaci di quella New York che non dorme mai, dall’estremo sud di Manhattan sino su al nord, oltre l’eterno Central Park. E la vediamo in continuo movimento, dinamica nel suo essere una grandiosa metropoli, perfetta nei suoi palazzi, luminosa, malgrado gli scatti in bianconero, sempre la più emozionante, punto di incontro di gente, realtà e sentimenti diversi. Sempre lei, quella New York che rimane impressa nel cuore di tutti. Evanescente e intrigante, aperta a riflessioni di speranza, meta finale di milioni di fuggitivi. Lei e solo lei, la nuova Babylon scintillante ed effervescente. Con la speranza di risonanze migliori». New York è uno spettacolo che i poeti hanno descritto con partecipe entusiasmo. È la «città di guglie e alberi maestri», di Walt Whitman. È l’assembramento di grattacieli, che Henry James ha visto spuntare «come da uno stravagante puntaspilli troppo affollato». È la «musica incantatrice», che il pittore John Marin finì per udire: squilli d’arrogante superbia. A New York bisogna imparare di nuovo a vedere. Le tradizionali visioni europee qui servono a poco, o a niente addirittura; il filosofo Jean-Paul Sartre ha osservato che «New York è una città da presbiti: si può mettere a fuoco soltanto all’infinito». La vita di New York e i suoi edifici spesso traggono la propria bellezza dall’effetto complessivo, dal modo nel quale catturano l’occhio lungo il corso di una Avenue, da qualche volontaria accentuazione dei dettagli, da qualche smagliatura nella griglia infinita delle strade. A proposito di New York, Le Corbusier ha scritto che «Qui il grattacielo non è un elemento urbanistico, bensì una barriera all’azzurro, una raffica di fuochi d’artificio, un pennacchio sull’acconciatura di nomi definitivamente consacrati nel Gotha del denaro. Dall’asettico ufficio al cinquantaseiesimo piano si può contemplare l’immenso festival notturno di New York, nemmeno lontanamente immaginabile per chi non l’ha visto. È mineralogia titanica, infinita stratificazione prismatica di fiumi di luce: in verticale, in profondità, in saette violente come le linee del diagramma delle temperature al capezzale d’un malato. Diamanti, innumerevoli diamanti. New York di fronte a Manhattan, pietra rosa nell’azzurro d’un cielo marino; New York, di notte, come una gioielleria illuminata».

STAORDINARIA NEW YORK Come già annotato, tra titoli e volumi di carattere più commerciale e turistico e autentiche perle di reportage e documentazione sociale, i titoli si sprecano: molti libri sono robaccia, sono da buttare; altri -identificabili e identificati- sono invece preziosi; qualcuno è addirittura fondamentale.

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MAURIZIO REBUZZINI

William Klein: New York (titolo completo Life is Good and Good for You in New York); 1956. William Klein con una copia aperta di New York.

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Senza fare torto a nessuno, è obbligatoria la menzione di avvio dello straordinario New York, di William Klein (titolo completo Life is Good and Good for You in New York ), che nel 1956 cambiò il ritmo e senso del modo di fare reportage (ne abbiamo scritto e approfondito in occasione della riproposizione dell’edizione libraria New York 1954.55, curata da un pool di editori europei, tra i quali l’italiano Peliti Associati: FOTOgraphia, febbraio 1997). È un libro epocale, che appartiene alla Storia della Fotografia, della quale -peraltro- ha compilato un capitolo fondamentale, le cui ripercussioni interpretative si sono proiettate in avanti, educando generazioni e generazioni successive di fotogiornalisti. Allo stesso modo, non si possono, né vogliono, dimenticare altre memorabili documentazioni e straordinari reportage, e altrettanto indimenticabili omaggi cinematografici (sopra tutti, il delicato e poetico Manhattan, di Woody Allen, che comunque canta e decanta New York in ogni suo film). Obbligatoriamente, il secondo richiamo è per New York, di Reinhart Wolf, del 1980 (edizione italiana del 1986; riedizione Taschen Verlag, del 2001, all’indomani dell’attentato alle Twin Towers, dell’Undici settembre). Tra Zen e Fotografia, è questa una New York di sogno, rigorosa, in linea con tutta l’opera dell’au-

tore tedesco, mancato il 10 novembre 1988, a cinquantotto anni di età, uno dei grandi maestri della fotografia contemporanea. Reinhart Wolf si è sottratto al fascino dei luccichii e alla vertigine delle prospettive dal basso o dall’alto, per concentrarsi sui singoli grattacieli, anzi, sulle cime osservate frontalmente. Cioè: sulle cime sulle quali gli architetti hanno potuto sbizzarrirsi, per esprimere in maniera sontuosa la ricchezza dei committenti. Per le sue fotografie, raccolte in un volume di grandi dimensioni (appunto New York, pubblicato in Italia da Longanesi nel 1986), Reinhart Wolf ha usato un’attrezzatura fotografica imponente: banco ottico Sinar Norma 13x18cm, oppure 8x10 pollici, con lunghi obiettivi di focale da 360 a 1000mm. «Naturalmente è stato un lavoraccio -ha raccontato, poi-, e non solo per le cinque valigie di materiale. Ci sono volute ore, qualche volta intere giornate, per convincere la gente a lasciarmi salire sui tetti. Portieri, custodi, condomini e inquilini non sempre capivano subito, spesso temevano che fossi un malintenzionato. E poi lo shock, quando dicevo “Allora va bene, domattina alle cinque”. Infatti, è questa la mia ora preferita per lavorare». Su un piano diverso, ma con tratti in comune, New York Vertical, di Horst Hamann, del 1996 (edizione originaria 22x50cm -Kodak Photo Book Award 1996-, accompagnata da una tiratura speciale di novantanove copie numerate e firmate e da un portfolio di otto stampe bianconero 30x60cm; più edizioni successive, in formato ridotto 16x33cm e 10x22cm), raffigura le svettanti prospettive della città, in visione panorama. Senza ombra di dubbio (alcuno), queste inquadrature newyorkesi svelano due questioni, sulle quali vale la pena riflettere: soprattutto, perché una consegue l’altra. Armato di Linhof 617, il tedesco Horst Hamann ha applicato uno straordinario linguaggio fotografico, che apre le porte a una inconsueta rappresentazione della città e a una capacità visiva fuori dal comune. Tanto è vero che altri fotografi, pure vicini alle logiche dell’inquadratura accelerata, altrettanto affascinati da New York, hanno riconosciuto la personalità fuori dall’ordinario dei punti di vista e delle composizioni di Horst Hamann. Dunque, in rapida conseguenza: il mezzo fotografico sollecita l’espressività del linguaggio, ma attende sempre e comunque le capacità proprie e personali del fotografo... autore.

UN PASSO INDIETRO Naked City, di Weegee, del 1945, è una straordinaria e cinica cronaca nera di New York City. Tra l’altro, nel 1948, a tre anni dalla propria pubblicazione, ispirò la sceneggiatura del film The Naked City, di Jules Dassin (in Italia, La città nuda), liberamente ispirato alla monografia. A propria volta, dal film fu derivata una serie televisiva, che è andata in onda negli Stati Uniti dal 1958 al 1963, registrando quattro stagioni successive. La serie ha vinto quattro Emmy per serial televisivi di prima serata e ottenuto una consistente serie di altri rico-


noscimenti. Come ricorda lo scrittore Lawrence Block, in Mille modi di morire (traduzione risicata dell’originario Eight Million Ways To Die; Il Giallo Mondadori / 1803, del 21 agosto 1983), alla fine del telefilm, una voce dai toni profondi e drammatici recitava: «Ci sono otto milioni di storie nella città nuda. Questa è una di quelle». Personalmente, consideriamo Naked City una delle più significative raccolte della Fotografia, con la quale confrontarsi per decifrare e considerare l’essenza del suo stesso linguaggio espressivo. A book is born, un libro è nato, recita il primo dei diciotto capitoli nel quale l’insieme è scomposto (diciassette di immagini e uno, conclusivo, di annotazioni tecniche). Sulla pagina a fronte, a sinistra, l’imperterrito ritratto di Weegee con Speed Graphic tra le mani e sigaro tra i denti, adeguatamente didascalizzato: Weegee and his Love - his Camera. Ovvero, Weegee con il suo amore, la sua macchina fotografica: binomio indissolubile, segno di un’esistenza votata alla fotografia di cronaca. In Naked City (Essential Books; New York, 1945; e poi anastatiche Da Capo Press, New York, dal 1973 e del 2002) sono raccolte fotografie di archivio, che Weegee ha rivisto e riaccostato tra loro, dividendole in capitoli tematici. Esaurite le rispettive cronache newyorkesi originarie, non solo di nera, ma soprattutto di nera, le immagini raccontano con un ritmo visivo nuovo e innovativo. Successivamente, molte di queste fotografie sono state riproposte in raccolte monografiche d’autore, andando a comporre i tratti di una personalità tra le più straordinarie della fotografia del Novecento. Sinceramente, tutte queste monografie moderne (e sono tante, mai troppe) sono state prodotte con particolare attenzione, tanto da vantare -tra l’altroun’ottima riproduzione litografica, che non qualifica, invece, Naked City. Quindi, se si vogliono avvicinare le fotografie di Weegee nella propria alta qualità formale sono indispensabili le raccolte successive: tanti i titoli tra i quali scegliere, un per l’altro più che adeguati. Però, la sequenza originaria di Naked City mette a diretto contatto con lo spirito dell’autore. E poi, sempre con uno sguardo appena indietro, non si può ignorare la serie East 100th Street, di Bruce Davidson, pubblicata dal prestigioso mensile svizzero Du, nel marzo 1969, e raccolta in volume monografico (St. Ann’s Press, 2003): appassionante sguardo, dall’interno, della comunità afroamericana della città. Ancora: da non perdere!

I CAMBIAMENTI DI NEW YORK Changing New York, di Berenice Abbott (ripubblicato dal 1997 a cura del Museum of the City of New York, che ha ordinato e riproposto le fotografie scattate nell’ambito del WPA Project municipale) è documentativa dei cambiamenti della megalopoli tra le due guerre mondiali: campagna fotografica realizzata dall’allora trentunenne Berenice Abbott (1898-1992) a cavallo degli anni Trenta. Precisamente, la fotografa avviò la propria documentazione visiva nel gennaio 1929, al suo ritor-

Reinhart Wolf: New York; 1980 (riedizione Taschen Verlag, 2001). Reinhart Wolf con Sinar Norma 13x18cm e lungo fuoco (800 o 1000mm) durante il suo progetto New York, realizzato nei secondi anni Settanta.

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Horst Hamann: New York Vertical; 1996. Horst Hamann a New York, per il suo secondo progetto, pubblicato nel 2001.

Weegee: Naked City; 1945. Il celebre ritratto di Weegee.

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no a New York dopo un lungo soggiorno europeo. Già vicina al mondo dell’arte d’avanguardia del primo dopoguerra (con frequentazioni personali di Marcel Duchamp e Man Ray, sopra tutti), all’inizio degli anni Venti, Berenice Abbott lasciò gli Stati Uniti, per studiare scultura a Parigi e Berlino. Nel 1923, diventa assistente di Man Ray, presso il cui studio parigino si avvicina alle tecniche della fotografia. A seguire, la cronologia degli avvenimenti impone la segnalazione di un proprio studio per il ritratto a Parigi, dal 1925, e una prima esposizione personale alla galleria Au Sacre du Printemps (al cui annuncio, Jean Cocteau contribuì con un poema). Soprattutto, è però doveroso ricordare che nel proprio vivere la fotografia, Berenice Abbott incontrò Eugène Atget, allora sconosciuto, «poeta della fotografia di strada (o “pura”), che vive di stenti» (Sguardo su Atget, di Pino Bertelli, in FOTOgraphia del dicembre 2003), del quale acquista l’intero archivio nel 1928, all’indomani della scomparsa del fantastico autore-visionario, salvando così l’opera di uno dei più espressivi e grandi pionieri della fotografia moderna. Sicuramente influenzata dalla Parigi di Atget, tornando negli Stati Uniti, Berenice Abbott è colpita/folgorata dai cambiamenti avvenuti a New York in meno di un decennio. Così, come annotato, all’alba di quel crollo della borsa (29 ottobre 1929), che diede avvio alla Depressione, inizia a documentare questa rapida trasformazione, applicando una lezione visiva rigorosa ma partecipe, emotiva quanto oggettiva. Sostenuto dal Federal Art Project (espressione dell’ampio programma nazionale Works Projects Administration), con il fattivo contributo finanziario e ideologico del Museum of the City of New York (che oggi è proprietario delle immagini), il lavoro di Berenice Abbott ha prodotto trecentocinque significative immagini di New York, rappresentative della vitalità architettonica ed esistenziale della città. Nell’aprile 1939, novantasette di queste fotografie sono state raccolte in volume da E.P. Dutton & Co: con testi di Elizabeth McCausland, l’edizione originaria di Changing New York fu usata come volume-guida per i visitatori della Fiera Mondiale di New York. A seguire, nei decenni successivi, sono state pubblicate tante altre raccolte omonime, tra le quali preme ricordare l’ottima edizione completa del 1997, del Museum of the City of New York, con testi di Bonnie Yochelson. Anche se l’insieme delle fotografie di Berenice Abbott evita il sensazionalismo, non va sottovalutato che, nonostante la Depressione e le migliaia di disoccupati, in quegli anni New York era comunque viva e vitale. Il proibizionismo fece proliferare una inconsueta vita notturna, che si proiettò nelle notti di Harlem (a partire dal celebre Cotton Club) e di Broadway. Nel 1930 e 1931, in rapida successione, sono stati completati il Chrysler Building e l’Empire State Building. Nel 1933, Fiorello La Guardia inizia il primo dei suoi tre mandati di sindaco, che hanno segnato un’epoca. Il Primo maggio 1939, si inaugura il Rockefeller Center.


perare aree cittadine dismesse, riconvertite in attività redditizie e produttive. Negli ultimi decenni, i magazzini di SoHo, TriBeCa e Chelsea si sono sistematicamente trasformati in gallerie d’arte, ristoranti, centri della moda, attirando attorno a sé rinnovate socialità. E adesso, tanto per la cronaca, si stanno “risanando” le aree attorno la Quattordicesima strada, nel West Side, da dove sono emigrati gli originari magazzini del mercato delle carni. Il secondo merito individuato di New York Changing, di Douglas Levere, si basa, quindi, su questa prosecuzione/consecuzione fotografica ideale, a partire dalle immagini di Berenice Abbott. Il che significa che si tratta di visioni note, che appartengono alla memoria collettiva dei newyorkesi, prima che a quella degli esperti di fotografia, alle quali è legittimo riferirsi. Ovvero, se le fotografie di Berenice Abbott fossero conosciute soltanto dagli addetti, e non dalla gente comune, l’intero richiamo di Douglas Levere non avrebbe avuto senso. Invece, si tratta di una confortante conferma di una consistente quotidianità della fotografia d’autore, presente nella socialità statunitense (e non solo in questa) tanto quanto è assente da quella del nostro paese. A seguire, un altro merito: nel completo spirito della riproposizione, Douglas Levere ha agito repli-

LELLO PIAZZA

In allungo, va ricordato che alla fine del 2004, la qualificata Princeton Architectural Press di New York ha pubblicato una raccolta fotografica di assoluto prestigio e straordinario taglio. Douglas Levere, fotografo al quale auguriamo felice carriera, è tornato negli stessi luoghi di Berenice Abbott. Ha ripetuto le inquadrature e visioni con un rigore formale che dà spessore e valore a un progetto fotografico dai tanti meriti: in volontaria inversione di termini New York Changing, grottescamente con cambiamenti urbani meno sostanziali di quelli che, negli anni Trenta, hanno ispirato il progetto originario. Avviato a partire dalla seconda metà degli anni Novanta, e completato nel 2003, il progetto fotografico di Douglas Levere è meritorio sotto diversi punti di vista, che puntualizziamo e sottolineiamo. Come rivela subito il titolo, conservato nell’edizione libraria, realizzata in collaborazione con il Museum of the City of New York, New York Changing è un’analisi fotografica approfondita dei cambiamenti urbani e architettonici di una delle più accattivanti e mutevoli megacittà del mondo, in continua e sistematica trasformazione. Il riferimento visivo tra il presente e il passato non è casuale, e neppure fortuito, né marginale; il sottotitolo è esplicito: Revisiting Berenice Abbott’s New York, ovvero Rivisitando la New York di Berenice Abbott. In volontaria inversione di termini (da Changing New York a New York Changing ), il progetto di Douglas Levere è esplicitamente e dichiaratamente riferito alla serie originaria di Berenice Abbott, della quale riprende e ripropone lo spirito e l’essenza: questa attuale vicenda è meritoria da diversi punti di vista. Anzitutto rivela, semmai ve ne fosse bisogno, come in altre geografie il discorso fotografico non si inaridisca, come accade troppo spesso nel nostro paese, attorno i “se”, le “ipotesi”, i “presupposti” e l’improvvisazione (questa senza virgolette). Negli Stati Uniti, il referente istituzionale è attento alla comunicazione visiva, così come lo è per ogni altra forma espressiva. Quindi, l’autore Douglas Levere ha potuto vantare sostegni intelligenti, anche solo morali (ma non è così), che hanno fatto tesoro di questa ricerca, che arricchisce il patrimonio fotografico di una istituzione pubblica newyorkese preposta alla propria Storia. Ne riferiamo spesso, e la ripetizione è più che mai dovuta: non importa tanto il come (che pure è discriminante: lo stiamo per vedere), ma il perché. E così, a distanza di settant’anni, attraverso la visione e mediazione fotografica, New York ha riflettuto una volta ancora su se stessa e i propri mutamenti ambientali, che poi sono anche sociali. Quello di Douglas Levere è un autentico omaggio a Berenice Abbott e alla sua fotografia. Invece di andare a rilevare e rivelare i più moderni e attuali cambiamenti di New York, che pure sono sostanziali, anche solo limitandoci alle trasformazioni più recenti, Douglas Levere ha ripetuto le inquadrature di Berenice Abbott degli anni Trenta. Materia nuova, materia moderna non gli sarebbe mancata. Infatti, è caratteristico di New York recu-

Bruce Davidson: East 100th Street; 2003 (nel mensile svizzero Du, nel marzo 1969). Bruce Davidson (con Leica M2), alla giuria dei Sony World Photography Awards 2009.

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BERENICE ABBOTT (1936)

DOUGLAS LEVERE (1997)

BERENICE ABBOTT (1937)

DOUGLAS LEVERE (1998)

Douglas Levere: New York Changing. Revisiting Berenice Abbott’s New York; 2004. Douglas Levere in un video di presentazione del suo progetto. Berenice Abbott: Changing New York; 1939 (riedizione dal 1997).

FOTOGRAFIE ANONIME

Come annotato nel corpo centrale dell’odierno intervento redazionale, le fotografie della selezione New York. Born back into the Past sono di autore (autori?) anonimo (anonimi?). Nell’ambito degli addetti, si riconosce come e quanto una identificata serie di immagini di autori noti, riconosciuti e celebrati tracci le linee identificatorie dell’evoluzione del linguaggio fotografico. A volte, queste stesse immagini, icone oltre il Tempo, appartengono a pieno diritto anche alla storia del mondo. Quindi, in consecuzione diretta e lineare, un’altra serie di fotografie del/dal vero racconta la vita nel proprio

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svolgersi. Sono le fotografie di autori anonimi, che hanno sintetizzato attimi di straordinario significato. Ciò detto, se non estraiamo la Fotografia dal percorso sociale e culturale entro il quale ha agito, dando e attingendo in un coerente tragitto di andata e ritorno, ovvero se ne sottolineiamo l’appartenenza alla società tutta, il suo racconto storico non può limitarsi alla sola sequenza degli autori accreditati, ma deve includere anche quell’insieme di fotografie anonime che appartengono alla Vita nel proprio svolgersi.


cando i modi originari di Berenice Abbott, fino ad arricchire l’attuale perché di un identico come operativo, dal quale dipende lo stile narrativo di questo progetto fotografico. Distribuendo le proprie sessioni fotografiche 1997 al 2003, prima di tutto Douglas Levere è tornato nei luoghi originariamente fotografati da Berenice Abbott, nello stesso periodo dell’anno, cercando di ripeterne perfino le condizioni luminose. Però, ha soprattutto individuato il medesimo punto di vista e realizzato inquadrature pressoché identiche, appunto comparabili a distanza di settant’anni abbondanti. Ancora meritoriamente, per quanto possibile, Douglas Levere ha lavorato con una Century Universal 8x10 pollici identica a quella usata da Berenice Abbott negli anni Trenta. Lo certifica subito nel suo testo introduttivo, dando così immediato valore e consistente ragione d’essere a quella mediazione tecnica che noi consideriamo influente sullo stesso linguaggio fotografico. In chiusura di libro, Douglas Levere torna sull’argomento, specificando di aver anche usato, in pochi casi, una folding Linhof 4x5 pollici. Comunque, in relazione alle inquadrature, la Century Universal 8x10 pollici mutuata dalla dotazione tecnica originaria di Berenice Abbott è stata usata con obiettivi Goerz Dagor di diverse lunghezze focali: 7 pollici f/5,6 (175mm), 9,5 pollici f/6,7 (240mm), 10,75 pollici f/6,8 (275mm), 12 pollici f/6,8 (300mm) e 14 pollici f/7,7 (355mm).

1980) MAGGIO

Dallo sguardo sapiente di Walker Evans, Berenice Abbott e Paul Strand ai personaggi dell’arte, sport e spettacolo. Dagli sguardi esterni, come è quello di Henri Cartier-Bresson, a quelli complici e partecipi di Weegee e Lisette Model. Dalla sala di posa di Iving Penn alle strade di Aaron Siskind. Dall’osservazione della gente di Helen Levitt e Gary Winogrand all’analisi clinica (e cinica?) di Robert Frank e Lee Friedlander. Dal sorvolo leggero di Dorothea Lange e Andreas Feininger alla cruda cronaca per i quotidiani (sport, nera e rosa). Dall’interpretazione di Joel Meyerowitz e Diane Arbus, ovviamente tanto diversi tra loro, all’invenzione contemporanea di Cindy Sherman. Dall’attenzione di Merry Alpern al rigore di Abelardo Morell. Allo stesso momento, New York è viva, reale e palpitante in ciascuna delle centoquarantuno fotografie di questa selezione, così come, con considerazione identica, ma segno algebrico opposto, è da scoprire nelle stesse immagini. Ancora, ogni fotografia basta da sé, allo stesso modo nel quale compone la tessera indispensabile di un avvincente mosaico complessivo. Insomma, Immaginare New York è stata una autentica mostra di fotografia, organizzata come ne vorremmo vedere tante altre. ❖

HANK O’NEAL (28

Esposta al Mart (Museo di Arte Moderna e Contemporanea di Trento e Rovereto), di Rovereto, in provincia di Trento, nell’estate 2009, Immaginare New York è stata una compendiosa selezione di fotografie della città, riprese dal capace archivio del MoMA (Museum of Modern Art), di New York, realizzata da Sarah Hermanson Meister, curatrice associata del Dipartimento di Fotografia del Museo, diretto da Peter Galassi. Centoquarantuno visioni hanno svolto il tema prefisso, attraversando sia la Storia, sia i generi e le interpretazioni fotografiche: con volume-catalogo 5 Continents Editions. La differenza tra ogni altra raffigurazione della città e del suo spirito e Immaginare New York è presto rivelata: dipende sia dalla consistenza dell’archivio storico del MoMA, che attraversa ogni epoca della fotografia, sia dall’intelligenza applicata della curatrice Sarah Hermanson Meister, che ha agito senza condizionamenti culturali prevenuti. Così che ne consegue un tragitto ben scandito e ottimamente cadenzato, nel quale non si è avuto timore di accostare, quando e se necessario, la più colta e raffinata ricerca estetica con la cruda e diretta cronaca quotidiana. C’è tutto, proprio tutto, e di tutto: dal pittorialismo di fine Ottocento, con Alfred Stieglitz e Gertude Käsebier, e dalla coeva fotografia umanista di Jacob A. Riis e Lewis W. Hine, originariamente svolta con intenzioni sociali e visive diverse, all’epopea degli anni Trenta, in piena Depressione nazionale, con l’esplosione degli arditi grattacieli di Manhattan.

BERENICE ABBOTT

ARCHIVIO D’AUTORE

Immaginare New York. Fotografie dalla collezione del MoMA; a cura di Sarah Hermanson Meister; 2009.

Berenice Abbott con la sua Century Universal 8x10 pollici, al South Street Seaport, di New York.

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a cura di Filippo Rebuzzini e Maurizio Rebuzzini; trentadue visioni piÚ una, con accompagnamento di centonovantotto altre pose che rivelano lo splendore dell’epopea di Betty Page; Graphia, 2011; 88 pagine 16,5x23cm; 18,00 euro.


PASSATO PROSSIMO Il terzo dei quattro volumi previsti della storia della fotografia, a cura di Walter Guadagnini, si avvicina ai nostri giorni, affrontando i decenni dal dopoguerra: La Fotografia. Dalla Stampa al Museo 1941-1980. Sono analizzate le condizioni che sono maturate verso la contemporaneitĂ del linguaggio della fotografia, cosĂŹ come lo conosciamo oggi

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di Maurizio Rebuzzini

A

pprodata al terzo titolo della serie annunciata di quattro, la collana La Fotografia continua il racconto storico intrapreso due anni fa, che si concluderà alla fine del prossimo 2014: a cura di Walter Guadagnini, in autorevole edizione Skira. L’attuale contenitore La Fotografia. Dalla Stampa al Museo 1941-1980 è assai e assolutamente diverso dai primi due, rispettivamente Le origini 1839-1890 [FOTOgraphia, ottobre 2011] e Una nuova visione del mondo 1891-1940 [FOTOgraphia, dicembre 2012]. In effetti, trattando di avvenimenti, accadimenti e personalità d’autore meno lontani nel tempo, che hanno profondamente inciso sulla fotografia contemporanea, viene dato più spazio alle parole, alle considerazioni, di quanto non venga riservato alle immagini. Sia chiaro, questa nostra considerazione è assolutamente relativa, oltre che comparativa con i due volumi precedenti: in quelli, l’apporto iconografico è stato fondamentale, soprattutto per

avvicinare la nascita e l’immediata evoluzione di un linguaggio visivo nuovo e autonomo (rispetto ogni altro precedente). Invece, in questo terzo capitolo, ciò che più conta è comprendere l’humus sul quale si è formata la fotografia che oggi conosciamo, che accompagna la nostra attualità, che compone i tratti di un linguaggio odierno. In questo senso, le parole e le considerazioni dell’attuale Dalla Stampa al Museo 1941-1980 affrontano l’esuberanza del dopoguerra e della diffusione capillare della fotografia nella propria dinamica globale, che supera i confini geografici di ciascuna interpretazione, per offrirsi a una considerazione planetaria: nel consueto tragitto a doppio senso di marcia da-a a-da, senza alcuna soluzione di continuità. E con il prossimo capitolo, conclusivo, L’età contemporanea 1981-2010, che verrà pubblicato tra un anno, l’intero iter del linguaggio fotografico completa il proprio lungo tragitto, che dalla nascita (1839) è stato caratterizzato da consecuzioni cronologiche ed espressive, le une dipendenti dalle altre, entrambe in relazione alla società tutta.

(pagina precedente) Robert Doisneau: Au Bon Coin, Saint Denis; 1944 (Stampa ai sali d’argento; © 2011 Gamma-Rapho / Getty Images).

Otto Steinert: Ritratto pallido; 1949 (Stampa ai sali d’argento, 38,5x28,5cm; Essen, Museum Folkwang, Estate Otto Steinert, inv. 65/21).

Ed Ruscha: Parigi; 1961 (Stampa ai sali d’argento, 9,7x26,7cm; New York, Whitney Museum of American Art / Paul Ruscha; © Ed Ruscha).

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Josef Sudek: Dalla finestra del mio studio; 1940-1954 (Stampa ai sali d’argento, 22,2x16,2cm; Boston, Museum of Fine Arts, The Sonja Bullaty and Angelo Lomeo Collection of Josef Sudek Photographs, The Saundra B. Lane Photography Purchase Fund, 2003.218; Photograph © 2012 Museum of Fine Arts, Boston).

Ed van der Elsken: Vali Myers balla in un jazz club; Parigi, 1950-1954 (Stampa ai sali d’argento; Rotterdam, Nederlands Fotomuseum).

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TEMPI RECENTI

Raccontando vicende di un passato non più remoto, ma soltanto prossimo, scandito da tempi e modi che alcuni di noi -complice l’anagrafehanno avuto modo di vivere in diretta, in cronaca, soprattutto per quanto riguarda le decadi degli anni Sessanta, Settanta e Ottanta, acquista particolare valore il corollario conclusivo, tra gli Apparati di ricapitolazione, che sintetizza una opportuna Cronologia di avvenimenti. Allineando in parallelo Cultura e arti, Storia e socialità e Fotografia, si offre straordinaria materia di riflessione e osservazione personali: l’evocazione di momenti e fatti attiva la memoria individuale e contestualizza ogni richiamo e riferimento. Così come ci piace sempre vederla e raccontarla, come e quanto la fotografia influisce sulla vita, traendone motivo e offrendole interpretazioni e spiegazioni. La tematica Dalla Stampa al Museo 19411980 rappresenta una visione limpida e convincente di interpretazione, soprattutto nell’ambito della scomposizione a quattro tempi che è stata preordinata. Con questo concetto, si sottolinea un

fatto che in un certo modo è discriminante del lungo tragitto della storia evolutiva del linguaggio fotografico: nel 1940, a un secolo esatto dalle origini (1839), all’interno del Museum of Modern Art, di New York, familiarizzato in MoMA, viene istituito il Dipartimento di Fotografia. Di fatto lo si può conteggiare come l’atto ufficiale e pubblico che riconosce la fotografia come una delle arti del Ventesimo secolo. E tutta la fotografia che si è espressa da quel momento ne ha dovuto tenere conto e si è resa disponibile a una espressività che è anche andata oltre gli assolvimenti utilitaristici che sono richiesti dallo svolgimento di numerosi professionismi della fotografia.

MOMENTI E AUTORI Ecco, quindi, i tre contenitori entro i quali sono stati raccontati questi quaranta anni, che precedono la contemporaneità della fotografia espressiva. Dopo l’introduzione del curatore Walter Guadagnini, si approda a una visione trasversale, che affronta diverse geografie, che si sono espresse contemporaneamente, sia in integrazione une alle altre, sia in sostanziale indipendenza.



La Fotografia. Dalla Stampa al Museo 1941-1980 (volume 3); a cura di Walter Guadagnini; testi di Urs Stahel, Francesco Zanot e Camiel van Winkel; Skira Editore, 2013; 304 pagine 21x28cm, cartonato con sovraccoperta; 60,00 euro.

William Eugene Smith: Il sentiero verso il giardino del paradiso. I figli di Smith, Patrick e Juanita; 1946 (Stampa ai sali d’argento, 31,3x26,7cm; © Magnum Photos / Contrasto).

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Con testo critico di Urs Stahel, Dalla verità alla veridicità (e dal pathos al sistema). L’evoluzione della fotografia documentaria dal 1950 al 1980 propone dodici autori presi in esame e considerazione, più un movimento e una mostra: Alberto Lattuada, Helen Levitt, Weegee, Robert Doisneau, “Subjektive Fotografie”, Henri Cartier-Bresson, “The Family of Man”, Josef Sudek, William Klein, Ed van der Elsken, Robert Frank, Richard Avedon, Shōmei Tōmatsu e William Eugene Smith. La rivoluzione del colore 1940-1980 è presentata da un saggio di Francesco Zanot. Immediatamente a seguire, la passerella di sette autori e una mostra/movimento: Ed Ruscha, “New Documents”, Minor White, Takuma Nakahira, Daido Moriyama, Larry Clark, Donald McCullin e Philip Jones Griffiths. Si approda, quindi, alla conclusione del terzo capitolo della Storia: Sistemi descrittivi inadeguati. Fotografia e arte concettuale, presentata da Camiel van Winkel. E otto autori coerenti, più un movimento: Gerhard Richter, Bernhard e Hilla Becher (considerati un unico), Ugo Mulas, Josef Koudelka, David Goldblatt, “New Topographics”,

William Eggleston, Larry Sultan e Mike Mandel. Bene: questo è quanto... in attesa della doverosa conclusione, tra un anno, con l’ultima riflessione su L’età contemporanea 1981-2010, che ci pare momento di difficile trattazione, quantomeno alla luce di quanto -magari oggi apparentemente significativo- non sopravvivrà a se stesso. Infatti, un conto è raccontare la storia consolidata, la storia accettata, un altro intravederla tra le pieghe della cronaca. In ogni caso, tra i tanti racconti retrospettivi che ormai appartengono al bagaglio di conoscenze (bibliograficamente) accessibili, questa scomposizione a cura di Walter Guadagnini è adeguatamente competente e convincente. Si aggiunge ad altre visioni, arricchendo un sapere che dovrebbe appartenere a coloro i quali si occupano di fotografia, non tanto realizzandola, quando considerandola e commentandola. La trasversalità colta e intellettuale di questa collana La Fotografia, ancora nella propria attualità del terzo titolo Dalla Stampa al Museo 1941-1980, si esprime con voce e passo autorevoli, degni della massima considerazione e attenzione. ❖



PIANO PIANO di Marvin (Vincenzo Marzocchini)

iancarlo Farabegoli è un fotografo e un costruttore di apparati fotografici, soprattutto a foro stenopeico. Nel farlo, si ispira a una constatazione di Leonardo da Vinci, che per il vero era già stata verificata secoli precedenti da studiosi del mondo orientale e occidentale (a partire dai cinesi Mo Ti e Chuang Chou, o Chuang Tzu, che nel quinto secolo avanti Cristo osservarono che i raggi del sole che passano per una piccola apertura -appunto, per quello che oggi definiamo foro stenopeicoproducono un’immagine circolare, e si espressero nel senso di “Stanza del Tesoro Nascosto”). Comunque, Leonardo da Vinci (in dizione originaria, da interpretare con l’italiano oggi corrente): «Dico che, se una faccia d’uno edifizio o altra piaz-

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MASSIMO MARCHINI

Ancora una volta, non certo l’ultima, una riflessione sulla lentezza stenopeica, alla quale abbiamo già riservato tante precedenti osservazioni. In doppio binario, parallelo quanto coincidente e convergente (addirittura!), lo spunto è offerto da Giancarlo Farabegoli, di Cesenatico, in provincia di Forlì, che esprime una personalità almeno doppia: fotografo stenopeico e costruttore di affascinanti e raffinati camere obscure, via via finalizzate a visioni di alta soggettività e individualità

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Camere obscure costruite da Giancarlo Farabegoli, di Cesenatico, in provincia di Forlì.

MASSIMO MARCHINI

(pagina accanto) Giancarlo Farabegoli con la sua camera obscura Mammouth (identificazione che nel 1900 fu attribuita alla più grande macchina fotografica mai costruita, da George R. Lawrence, per lastre di vetro 1,37x2,44m): pinhole variabile, per esposizioni 50x60cm.

Camere obscure di Giancarlo Farabegoli alla mostra allestita a Senigallia, in provincia di Ancona, nel maggio 2012 [ FOTOgraphia, marzo e settembre 2012].

za o campagna che sia illuminata dal sole, arà al suo opposto un’abitazione, e in quella faccia che non vede il sole sia fatto uno spiraculo rotondo, che non tutte le alluminate cose manderanno la loro similitudine per detto spiraculo e appariranno dentro all’abitazione nella contraria faccia, la quale vuol essere bianca, e saranno lì appunto e sottosopra, e se per molti lochi di detta faccia facessi simili busi, simile effetto sarebbe per ciascuno». Dunque, è a questo che Giancarlo Farabegoli si ispira per le sue deliziose creazioni artigianali o camere obscure a uno, due, tre e cinque fori, o busi, come avrebbe detto Leonardo, che danno vita ad altrettante immagini continue o separate, se esposte alla luce per un determinato lasso di tempo. Come ben sappiamo, collocando del materiale sensibile alla luce sulla parete opposta al foro, si cattura/acquisisce l’immagine in negativo, da sviluppare e stampare, oppure direttamente in positivo, a seconda del tipo di emulsione “fotografica” adottata. Fotografo artigiano di Cesenatico, in provincia di Forlì, Giancarlo Farabegoli è innanzitutto uno sperimentatore: di attrezzature e materiali sensibili... o, meglio, sensibilizzati. Non solo costruisce da sé le sue camere obscure, ma da genuino e incantato pioniere della fotografia si prepara sovente le emulsioni, sia da stampa sia per la ripresa. Con il suo agire artistico-concettuale, nei decenni trascorsi, Paolo Gioli ha ripetutamente indicato e suggerito come ogni progetto richieda i propri mezzi specifici. I risultati che ha ottenuto, i benemeriti Gran positivi, sono tali perché prodotti in quel crudele spazio stenopeico che dilata e allunga la

PATRIZIA LO CONTE

CAMERE OBSCURE

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luce, ovvero i tempi di formazione dell’immagine, annullando -almeno in parte- il controllo del fotografo sul processo, sull’esito finale. Occultamento dell’autore, affermerebbe l’artista Franco Vaccari. Questo dato di fatto è uno degli aspetti della fotografia stenopeica. Ma, con la miriade di modelli di camere stenopeiche progettate e costruite, Giancarlo Farabegoli aggira, e comunque riduce, il fenomeno, perché -quando presenta le sue realizzazioni- le accompagna con immagini ottenute con ogni singolo esemplare, con determinate emulsioni. Anni fa, nella mia prima pubblicazione sulla fotografia stenopeica e la sua storia italiana (presentata in FOTOgraphia, dell’aprile 2004) descrissi Giancarlo Farabegoli come impegnato fotografo non professionista, tenace sostenitore dell’aforisma Paganini non ripete!. Infatti, realizza avvincenti e ingegnose macchine (o camere stenopeiche); poi, verificatane la funzionalità e ottenuta l’immagine desiderata, passa a nuove costruzioni, relegando i precedenti modelli a pezzi da museo! Durante le lunghe e nebbiose giornate invernali, nel suo laboratorio, costruisce macchine per sé e per gli amici-amici. In genere, è restio ad accettare richieste, ma quando si rende conto della sincera passione e del forte desiderio di possedere un autentico prodotto artigianale da parte di chi gli sta di fronte, il mite Giancarlo Farabegoli si lascia convincere, e pronuncia immancabilmente: «Ma non farmi fretta!».

VISIONI AUTONOME Da qualche anno, Giancarlo Farabegoli è innanzitutto un fotografo, che si diletta anche a produrre scatole in legno che profumano di resina e che formano immagini: che restituiscono suggestive porzioni di mondo, se vi inseriamo del materiale fotosensibile. Nella fotografia stenopeica, definita anche stetoscopica, o a foro stretto, le uniche certezze sui risultati si collegano all’inquadratura; gli altri parametri, preferibilmente si autodefiniscono! Nei suoi più recenti apparati, Giancarlo Farabegoli predilige le vedute panoramiche, anche a tutto campo tondo, a trecentosessanta gradi, e le riprese dal basso. Per le visioni ad ampio respiro, che rimandano ai pittori vedutisti veneti e olandesi del Settecento, si avvale di camere obscure a tre e a cinque fori (stenopeici); per quelle dal basso, che ricordano l’atmosfera del Lento ritorno a casa, di Peter Handke, utilizza i formati 4x5 pollici / 9x12cm, 6x12cm e 6x18cm (su pellicola a rullo 120), a foro singolo o multiplo, addirittura a fori sfalsati. I negativi bianconero vengono poi stampati “per contatto” su superfici emulsionate dallo stesso Giancarlo Farabegoli, oppure -secondo i dettami ottocenteschi del pittorialismo fotografico- con l’aggiunta di viraggi colorati, sempre con stesa manuale: quattro immagini in bianconero e sei virate giallo accompagnano questo testo [pagina accanto]. Le prime sono state realizzate con negativi 9x12cm e le seconde ricavate da porzioni di negativi 4x5 pollici (10,2x12,7cm).

Fotografie di Massimo Marchini realizzate con una camera obscura costruita da Giancarlo Farabegoli: dalla serie Piazze di Senigallia (con PentaFB-90, 4x5 pollici, utilizzando tre dei cinque fori in dotazione; stampa van Dyck e viraggio all’Oro).

DAL PITTORIALISMO A...

Giancarlo Farabegoli è un estimatore del pensiero dell’inglese George Davison (1854-1930), esponente del pittorialismo fotografico, co-fondatore del movimento Linked Ring Brotherhood (1893), che ha influenzato l’estetica a cavallo del Novecento. Fervido assertore della visione estetica impressionista, George Davison ha più volte sottolineato l’apporto possibile e discriminante dello stenopé al posto dell’obiettivo, che avrebbe affrancato il pregio delle stampe d’arte (delle tecniche antiche) e della fotogravure. Va da sé che George Davison -che nel 1889 realizzò la prima fotografia stenopeica premiata a una esposizione, l’anno successivo- è stato un seguace delle teorie sulla percezione visiva di Peter Henry Emerson (1856-1936), capofila del pittorialismo fotografico, che ha sostenuto che nella visione umana non si verifica uniformità: l’area centrale risulta ben definita, mentre quelle periferiche rimangono confuse. Quindi, per riprodurre il campo visivo umano, suggeriva una leggera sfocatura dell’obiettivo, ma non tanto «da distruggere la struttura dell’oggetto, altrimenti la si nota; e, se attrae l’occhio, disturba l’armonia, ed è altrettanto dannosa quanto lo sarebbe un’eccessiva nitidezza. [...] In natura, nulla ha contorni netti, ma ogni cosa è

(pagina accanto) Fotografie stenopeiche di Giancarlo Farabegoli, esposte con negativi 9x12cm e 4x5 pollici (10,2x12,7cm): stampe “per contatto” su superfici emulsionate secondo i dettami ottocenteschi del pittorialismo fotografico, con l’aggiunta di viraggi colorati.

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Fotografie di Marco Mandrici realizzate con una camera obscura costruita da Giancarlo Farabegoli: dalla serie Ricordi del mio Mare (con FUW-120, f/90; stampa chimica).

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vista contro qualcosa d’altro, e i suoi contorni sfumano delicatamente in questo qualcosa d’altro, talvolta in modo così sottile che non si può distinguere dove l’una finisce e l’altra comincia. In questa mescolanza di deciso e indeciso, di perdersi e di ritrovarsi, sta tutto il fascino, tutto il mistero della natura» (Beaumont Newhall: Storia della fotografia; Einaudi, dal 1984). Caratteristiche peculiari della fotografia stenopeica (o pinhole photography) sono: estesissima profondità di campo, in pratica da zero all’infinito; tempi lunghi di esposizione, con la conseguente cancellazione di quanto è in movimento, o della sua regi-


Pinhole 10x12cm a due fori stenopeici sfalsati: f/90 e f/180.

Pinhole 10x12cm a due corpi scorrevoli, per tiraggio/focale differente.

FRANCO CINGOLANI (4)

(centro pagina) Pinhole folding 10x12cm con foro stenopeico variabile.

strazione sfumata; prospettive naturali, in teoria senza distorsioni, se non volute, o provocate; caduta di luce ai bordi, o effetto tunnel, che orienta la visione dello spettatore verso il centro della composizione, l’area visiva privilegiata. Il tutto, poi, è come se fosse immerso in un clima ovattato, e nel contempo da suspense, da thriller: in un’atmosfera sospesa, nella quale sembra che debba succedere qualcosa da un momento all’altro. L’evento sta per arrivare! Tutti questi effetti vengono registrati nelle fotografie realizzate da Giancarlo Farabegoli, che propongono immagini dei luoghi nei quali abita, che documenta offrendo scorci, monumenti, edifici, pa-

noramiche con punti di osservazione non usuali; meglio dire: situazioni che si presentano quotidianamente davanti ai nostri occhi, ma alle quali -nel frettoloso incedere imposto dal vivere contemporaneo- non poniamo attenzione. Possiamo anche affermare: che guardiamo senza vederle. Le riprese stenopeiche impongono tempi lunghi: i tempi della meditazione, della riflessione, del vedere ponderato. Ecco perché -di quando in quando- la realtà appare strana, nuova, diversa: perché viene restituita con vedute naturali, alle quali siamo ormai totalmente disabituati, nell’attuale epoca delle visioni tecnologiche. ❖

Due pinhole 10x12cm grandangolari: f/130 e f/120.

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VII BIENNALE DI SONCINO, A MARCO

Ilka Scobie e Luigi Cazzaniga in contemporanea alla VII Biennale di Soncino presentano

ARTISTI AMERICANI E NON 2 Ugo Rondinone Tano Festa Stefan Bondell Sandro Savio Walter Robinson Rita Barros Rene Ricard Piero Manzoni Monica Strambrini Michael Alan Margherita Martinelli Madeline Weinrib Luigi Cazzaniga Luca Donnini Luca Bray Hannie Ahern Gianni Nobilini Gianfranco Salis

Giacomo Stringhini Ciboldi Florencia Costa Ernst Thoma Enrica Carmutti Elizabeth Cope Elisabeth Kley Elena Monzo Dziva Dream Diddi Del Monte Demis Martinelli Daphne Astor and Andrew Hewish Barbara Lanceri Armando Tanzini Antonio Castelli Andrea Chisesi Alessandro Pedrini Daphne Astor and Andrew Hewish Ernst Thoma Andrea Chisesi

31 agosto - 29 settembre +39 339 4780820, 333 9685997 • via IV novembre 15, 26029 Soncino CR


Tecnologia di Antonio Bordoni

DOPPIO PASSO SONY

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Da una parte, l’evoluzione dell’originaria Cyber-shot RX1, presentata la scorsa Photokina [FOTOgraphia, novembre 2012], che diventa RX1R; dall’altra, la configurazione aggiornata Cyber-shot RX100 II: due proposte Sony di seconda generazione, in un comparto fotografico che è particolarmente brillante e, si dice, attivo sul mercato tecnico-commerciale. Ne riferiamo in questo ordine, tenuto conto che entrambe le interpretazioni fotografiche si indirizzano e rivolgono a un pubblico raffinato ed esigente, che antepone la qualità (formale) assoluta a ogni altra possibile considerazione fotografica.

EVOLUZIONE RX1R Anzitutto, va segnalato che, approdando al sensore di acquisizione full frame, pieno formato 24x36mm (inviolabile riferimento e richiamo della fotografia senza tempo), Sony lo ha esteso a tre proprie configurazioni, due delle quali fotografiche più una terza video: reflex Sony α99, compatta di prestigio Sony Cyber-shot DSC-RX1R, nata RX1 lo scorso autunno 2012 (Migliore Apparecchio di prestigio ai TIPA Awards 2013; FOTOgraphia, giu-

Nata RX1 lo scorso autunno (Migliore Apparecchio di prestigio ai TIPA Awards 2013; FOTOgraphia, giugno 2013), l’evoluzione Sony Cyber-shot RX1R conferma il sensore di acquisizione full frame, da 24,3 Megapixel e l’obiettivo di ripresa Carl Zeiss Sonnar T* 35mm f/2.

gno 2013), e videocamera Full-HD Sony Handycam Nex-VG900E. Indipendentemente dalle rispettive e relative caratteristiche tecniche e di uso, tutte proiettate in avanti, molto avanti, sono particolarmente significative due considerazioni, almeno due. Subito, sottolineiamo come l’adozione del sensore a pieno formato sia congeniale alla massima qualità delle acquisizioni fotografiche e video, e allo stesso tempo ribadisca quel sostanzioso passo tecnologico che scandisce le proprie modalità tecniche anche attraverso la successione delle dimensioni dello stesso senso-

re, comunque lo si consideri, parametro assoluto di riferimento (e richiamo), autentico cuore pulsante dell’acquisizione digitale di immagini: risoluzione 24,3 Megapixel. L’attuale Cyber-shot RX1R conferma l’obiettivo di ripresa Carl Zeiss Sonnar T* 35mm f/2 e la tecnologia Triluminos Colour, per una resa cromatica ancora più ricca e naturale. Sulla scia dell’avvincente potenza di immagine della RX1, la nuova RX1R assicura immagini perfette, pixel dopo pixel. Il suffisso “R” della nuova configurazione fotografica indica e sottolinea gli ulteriori progressi di una risoluzione già di per sé eccellente. La RX1R rinuncia al filtro passa-basso ottico, permettendo così di acquisire, in modo impeccabile, ogni singolo dettaglio, senza effetti “blur”, né dispersioni. Per compensare la rimozione del filtro OLPF, le funzioni di elaborazione dell’apparecchio sono state perfezionate, garantendo immagini chiare e nitide, senza compromettere le prestazioni di obiettivo e sensore. Inoltre, la compatibilità con la tecnologia Triluminos Colour assicura una resa cromatica ancora più ricca e naturale quando si riproducono scatti fotografici e video su televisori Bravia di ultima generazione, dotati di Triluminos Display. Inoltre, i videografi possono aggiungere anche un microfono stereo opzionale, per registrare le colonne sonore dei video in Full-HD con un audio ancor più cristallino.

EVOLUZIONE RX100 II Dotata di sensore Cmos Exmor R 1.0, da 20,2 Megapixel, di ultima genera-

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Tecnologia

Il sensore Cmos Exmor R 1.0, da 20,2 Megapixel è il cuore della evoluzione Sony Cyber-shot RX100 II, con zoom Carl Zeiss Vario-Sonnar T* 28-100mm f/1,8 (escursione focale equivalente).

zione, la Sony Cyber-shot RX100 II assicura acquisizioni formalmente perfette in ogni condizione di luce; quindi, dispositivo Wi-Fi, connessione semplice “One-touch” NFC da smartphone e monitor LCD White Magic da tre pollici, orientabile verso l’alto e il basso. Ancora: registrazione video a 24p/25p in Full-HD (1920x1080 pixel), per un’esperienza video di qualità cinematografica, e tecnologia Tri-

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luminos Colour, per una resa cromatica ancora più ricca e realistica. Concentrato di funzionalità fotografiche in una configurazione tascabile, la Cyber-shot RX100 II è realizzata in uno châssis in alluminio leggero e resistente. L’innovativo sensore retroilluminato Cmos Exmor R 1.0 aumenta la sensibilità, riducendo al contempo il rumore, anche nelle condizioni di scar-

sa luminosità. La combinazione dell’efficace sensore con l’eccellente e luminoso zoom Carl Zeiss Vario-Sonnar T* 28-100mm f/1,8 (escursione focale equivalente) assicura immagini adeguatamente nitide e naturali e video ad alta definizione, in qualunque condizione di uso. Grazie al sistema Wi-Fi, è possibile collegare la Cyber-shot RX100 II wireless a uno smartphone e condividere, in tutta semplicità, fotografie e filmati. Allo stesso momento, questa è la prima configurazione fotografica Sony a disporre del sistema NFC (Near Field Communication), per una connessione “One-touch” con smartphone e tablet Android. Non servono impostazioni particolari: basta avvicinare il dispositivo mobile alla Cyber-shot RX100 II per attivare all’istante un collegamento wireless. Inoltre, la funzione Onetouch Remote consente di comandare il rilascio dell’otturatore e, quindi, scattare fotografie direttamente da uno smartphone (ideale per autoscatti di gruppo). Tra le dotazioni tecniche, sono anche presenti una nuova slitta multiinterfaccia e l’uscita multiterminale. Per ampliare le possibilità di scatto, sono previsti accessori opzionali finalizzati: dal mirino elettronico al potente flash esterno, al microfono stereo, tutti collegabili con la versatile slitta “Multi Interface Shoe”. ❖



Sguardi su

di Pino Bertelli (Piombino, dal vicolo dei gatti in amore, 22 volte giugno 2013)

L

LEE FRIEDLANDER

La fotografia della civiltà dello spettacolo, per essenza servizievole, vive delle schiere di giullari, del cancro dell’idiozia legati alla mancanza di gusto di coorti e mandarini incapaci di distinguere una lacrima da uno sputo. Cosa c’è di più funesto nella fotografia, se non la fede vigliacca nella gerarchia dell’impostura. In questo universo improvvisato e provvisorio, anche i pidocchi reclamano la paternità di artisti. Nessuna negazione della fotografia dell’esistente è tollerabile, se non conosce la grazia e il dissidio che la proiettano oltre il dilettantismo e la dinamite! A ogni idea della fotografia che nasce in noi, corrisponde qualcosa che smaschera l’irrealtà e l’insincerità di valori e morali dominanti. Per i politici, religiosi e finanzieri -non internati-, occorrerebbe approntare un codice penale ideale e cancellare i loro misfatti nell’oblio o con la forca. L’autunno della ragione (cioè delle democrazie dello spettacolo, dei regimi comunisti e islamici) è il circo dove fiorisce l’isteria del potere e il sorriso al veleno delle mummie. Tutte le marionette sono morte e il pubblico applaude la propria agonia senza epilogo.

LA FOTOGRAFIA DEL MERCIMONIO Formati alla scuola dell’apparenza, idolatri del consenso e delle stigmate del successo, i fotografi del mercimonio si aggirano nel mondo come puttane sfiorite sui marciapiedi della Terra o nei salotti della “buona borghesia”, che li tiene nei libri paga dei falliti illuminati. Coltivano la fotografia del vero soltanto coloro che hanno conosciuto l’indignazione e hanno fatto a pezzi l’ebetudine (la catalessi) dell’inconcepibile e dell’egemonia del delirio espressivo. Sotto le immagini celebrate nel mondano d’autore giace un impostore. La fotografia autentica deve la propria bellezza alle

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imprese di un brigante o di un poeta. Non c’è salvezza nell’imitazione della brutta fotografia. I glossatori dell’immagine consumata sono gli interpreti dell’avvilimento della creatività fotografica e simboleggiano il falso di una società della costernazione. Tra i disertori o lebbrosi dell’ordine dell’infelicità, Lee Friedlander si distingue con leggera bellezza, e nel suo fare-fotografia non mendica un supplemento d’avvenire di schiavo... cancella dalle immagini che affabula il superficiale e le esagerazioni visuali, non lascia nulla al casuale o al rispet-

le sconfitte un atto di lusinga dell’umano che è in ogni uomo. Si tratta di associare al piacere la coscienza del piacere e comprendere che il dolore e la coscienza del dolore non sono un destino, ma il principio di un’incrinatura più vasta, che dà ai forsennati del potere la sorte che meritano.

LA FOTOGRAFIA DELL’INTUIZIONE Un’annotazione. Lee Friedlander nasce a Aberdeen (Washington, Stati Uniti), nel 1934; studia fotografia presso l’Art Center College of Design, di Pasadena (California). Nel 1956, si trasferisce

«Quando le banche dispenseranno sorrisi, avremo un mondo migliore. Non facciamoci toccare dalle sconfitte, né dalle vittorie; dietro ogni scemo c’è un villaggio. La società dei miei sogni si colloca all’estrema sinistra della Via Lattea» Anonimo toscano tabile codificato, né al valore, peraltro falso, del sensazionalismo, né all’imbecillità dell’ottimismo. Il suo sguardo corre sul filo dell’intuizione, dello stupore, anche, che disarciona ogni esercizio intellettuale prono alla munificenza della falsità. È indecoroso fare il padrone o il ruffiano -sembrano dire le sue fotografie- e il suo viatico creativo è sparso là dove i cani rabbiosi e gli esclusi muoiono o sono ammazzati senza mai aver ricevuto una carezza, se non quella del boia. È una fotografia del risveglio, forse, che insegna a non barattare i propri terrori con le prediche di evangelisti dell’immaginario edulcorato. È un invito a gioire delle proprie identità e fare del-

a New York City; inizia a fotografare musicisti jazz e realizza molte copertine di loro dischi. I maestri che si porta addosso sono Eugène Atget, Robert Frank, Walker Evans, certo; tuttavia, molte delle sue immagini contengono quell’atmosfera epica, anche sarcastica, propria all’immaginario documentale dei magnifici randagi della fotografia istintiva, come Henri Cartier-Bresson, William Klein, Gordon Parks, Horacio Coppola... che hanno accolto ragione e passione come vela e timone di naviganti in mari metropolitani. Dicono le sue note: nel 1960, il Guggenheim Memorial Foundation aggiudica a Lee Friedlan-

der una borsa di studio, che gli consente di concentrarsi sulla sua fotografia sociale, e gli rinnova le sovvenzioni nel 1962 e nel 1977. Alcune delle sue fotografie più famose appaiono nel numero di settembre 1985 di Playboy. Sono immagini di nudo in bianconero di Madonna, all’epoca studentessa, pagata venticinque dollari per il servizio fotografico. In seguito, una di queste è stata battuta a 37.500 dollari, in un’asta di Christie’s. Che bello! Anche la fotografia diventa “arte”, ma sono i mercanti d’illusioni che lo decidono. L’arte non c’entra. C’entrano le firme sugli assegni, e sono le stesse firme che smerciano armi, droga e dominano il terrorismo dei dividendi nelle Borse internazionali. Com’è noto, l’ottimismo della politica in affari (sporchi) con la finanza è una mania del cretinismo, che sembra ricevere il consenso di masse smisurate. In principio, Lee Friedlander lavora con Leica e pellicola bianconero; non realizza solo ritratti, si abbandona a riflessioni su strutture architettoniche, cartelli stradali, insegne, bar e registra momenti di vita urbana. Nel 1963, espone all’International Museum of Photography, presso la George Eastman House: è la prima mostra personale. Nel 1967, trenta sue fotografie compaiono nell’esposizione New Documents, organizzata al Museum of Modern Art, di New York, da John Szarkowski, insieme a immagini di Gary Winogrand (trentadue fotografie) e Diane Arbus (trentadue fotografie). Nel 1990, la Fondazione MacArthur gli concede una ulteriore borsa di studio. Lee Friedlander continua a lavorare ai bordi del quotidiano. Usa apparecchi medio formato (soprattutto, Hasselblad Superwide). Sofferente di artrite e non autosufficiente, si è messo a fotografare persone e ambienti intorno a lui. Qualcuno ha avvicinato


Sguardi su le immagini di questa seconda stagione fotografica a quelle molto “manierate” di Josef Sudek. Vero niente. Il fotografato di Lee Friedlander resta attaccato alla realtà del proprio tempo, quello di Josef Sudek sconfina nel compiacimento autoriale e si porta dietro anche la provocazione artistica incline all’estetismo. Elaborata prima e dopo l’intervento chirurgico di sostituzione del ginocchio, la sua monografia Stems riflette l’intimità di una vita faticosa e le conseguenti difficoltà dell’esistere. Nel 2005, il Museum of Modern Art, di New York, presenta una grande retrospettiva di Lee Friedlander: quasi quattrocento fotografie che ripercorrono la sua visione del mondo. Nello stesso anno, riceve il Premio Internazionale Hasselblad. La mostra retrospettiva è stata riproposta nel 2008, al San Francisco Museum of Modern Art. Al fondo del suo fotografare in punta di cuore, c’è il rispetto per la vita. Ricordiamolo. Il fascino del provvisorio e la resurrezione di un fare-fotografia in margine all’angoscia e alla futilità che governano l’insofferenza del mondo attuale attualizza le disuguaglianze sociali e annuncia le catastrofi a catena del liberalismo economico. Denunciare con ogni mezzo il corso perverso della politica dello spettacolo implica respingere la proliferazione delle armi, l’aggressione alla biosfera, i crimini della speculazione finanziaria, la corruzione dei partiti, la violazione dei valori della Resistenza sociale, l’infelicità dappertutto e praticare l’amore dell’uomo per l’uomo come principale forma di riconoscimento dell’altro. Libertà, uguaglianza e fraternità sono i princìpi fondatori di una cultura dell’amore, la sola che può rigenerare la moralizzazione/rifondazione delle società consumeriste.

SULLA FOTOGRAFIA ISTINTIVA La fotografia istintiva di Lee Friedlander s’accosta ai piccoli avvenimenti dell’ordinario e li deposita in una figurazione sentimentale, romantica o ironica (spesso) del vissuto elementare. I sog-

getti che scippa nelle strade, dalla sua auto o in margine a un accadere mai eclatante, lo spostano fuori dall’oggettività esangue e lo proiettano nella frammentazione minimale di una cartografia politica, economica, culturale dove ciascuno è parte di un silenzio forzato o accettazione della soggezione dove lo statuto dell’immagine diventa parola sospesa, grido di sofferenza e terreno di speranze sconfitte. Sembra dire che le fotografie più belle non sono mai state attraversate, e ciascuno sopravvive ai limiti della propria reclusione. A ripercorrere le immagini di Lee Friedlander si resta attoniti di fronte al sale dell’intelligenza che vi deposita. I nudi di Madonna sono anche sfrontati, certo, ma non goduti, depositati all’interno di una visione libertina o dell’impudore che muore nell’innocenza del vero. La ritrattistica dei musicisti, delle strade, degli ambienti, delle persone accostate ad avvenimenti occasionali mostrano che la conoscenza del dolore, dell’insignificanza o della gioia si trasformano in estetica della verità e i corpi, i segni, le situazioni incrociate con sapienza comunicativa restituiscono la seminagione di una vivenza ludica che è confessione o timore di utopie perdute o mai conosciute. Il bello, il giusto, il vero di questa fotografia dell’intuizione sono raccontati in istanti singolari e fissano ciò che non sempre è visto nella storia, per non dimenticarla (Nietzsche diceva). Lee Friedlander gioca la propria vitalità fotografica sull’ossessione di un’idea che conosce e amplia a ogni scatto, è una specie di artista che non cessa di effettuare variazioni sul medesimo tema: è l’affermazione delle sensazioni e delle libertà che trasudano nel desiderio di raccontare l’ineffabile travestito di realtà e la soddisfazione di registrare un immaginario di tutti i possibili. Quando è vissuta nel sangue dei giorni, la fotografia acquista un’eccezionale carica di verità. La macchina fotografica di Lee Friedlander ritaglia (anche nell’autoritratto) spezzoni di felicità

o la lama tagliente dell’ebbrezza, della follia, dell’irrequietezza (la perdita di coscienza, anche) di una malattia sociale che è l’indifferenza e figura l’anomia o la disperazione come colpevoli di ogni vita recisa. Fa tutto questo con il sorriso negli occhi e amore di spirito; sembra dire, credo, che gli uomini rivestono i propri miti con abiti che gli appartengono, e la rinuncia, la sottomissione, la rassegnazione sono il sentiero di ogni infelicità. Se l’essenza dell’uomo è la sensibilità, la fraternità, l’accoglienza e non un’astrazione filosofica, «Lo spirito di tutte le filosofie, tutte le religioni, tutte le istituzioni che contraddistinguono questo princìpio non sono solo sbagliate, ma sono fondamentalmente corruttrici. Se volete migliorare gli uomini, rendeteli felici; ma se volete renderli felici, andate alle sorgenti di ogni felicità, di ogni gioia, ai sensi. La negazione dei sensi è all’origine di tutte le follie, di tutte le cattiverie, di tutte le malattie che popolano la vita umana» (Ludwig Feuerbach: L’essenza della religione; Einaudi, 1972). In questo senso, la fotografia di Lee Friedlander, non importa che lo sappia, raccoglie l’impronta umanista del filosofo bavarese e depone il suo fare-fotografia in una critica della società della miseria. La sua fotografia dell’intuizione insegue una poetica della domanda, non della risposta, una sorta di “cartellonistica” attenta alla gerarchizzazione dei bisogni, che implica l’abbandono del sacro e si accorda all’uomo come misura di tutte le cose. Si tratta di non riconoscere altra dimensione del tempo che il presente, «Godere dell’istante di ciò che possiamo realizzare [...] fuori dagli imperativi della realtà [...] l’individuo è la misura del vero, del buono, del bene, unicamente in funzione del proprio arbitrio, l’istante è la sola dimensione del reale» (Michel Onfray: L’arte di gioire. Per un materialismo edonista; Fazi Editore, 2009). La fotografia così fatta è un’incursione nel quotidiano e apre brecce incalcolabili nell’ordinamento sociale.

Va detto. Al culmine dell’ideologia consumistica, ogni variante del mito liberista è da condannare: guerre, economie, politiche, religioni, partiti, scienze della comunicazione, educazioni al mercato sono parte della tirannia finanziaria che sta distruggendo la vita del pianeta ad ogni livello. Il dolore di vivere nel mondo attuale sembra essere la regola e in molti parti della Terra ci sono bambini che muoiono per fame o «Meritano di essere condannati a morte certa perché non hanno accesso a una terapia che costerebbe meno di due dollari al giorno» (John Berger: Abbi cura di ogni cosa. Scritti politici 2001-2007; Fusi Orari, 2007). Frotte di disoccupati, di immiseriti, di esclusi sono destinati alla povertà e solo un buon uso dell’indignazione, dell’insorgenza, della rivolta sociale può modificare la loro esistenza e riconquistare la dignità calpestata. Il cammino della speranza passa dal riconoscimento dell’altro, e solo una cultura viva, aperta, coraggiosa, una politica della convivialità può riportate le genti alla solidarietà, alla fratellanza, all’accoglienza del vivere insieme. «L’incremento delle disuguaglianze causato dal neoliberismo economico dominante crea nuove forme di povertà, trasforma l’indigenza in miseria, aumenta il potere dei ricchi, accresce la corruzione della classe dirigente e concede inverosimili privilegi fiscali a una piccola oligarchia” (Stépahne Hessel e Edgar Morin: Il cammino della speranza; Chiarelettere, 2012). Solo un’insurrezione delle coscienze e la sollevazione dei popoli contro il capitalismo parassitario può mettere fine a questa condizione di schiavitù. Una politica del vivere bene non potrà realizzarsi se non quando gli uomini si decideranno a soffocare la barbarie del capitalismo finanziario e l’arroganza criminale dei partiti. La rigenerazione di una politica dell’umanità passa dall’abbattimento puro e semplice delle aberrazioni del potere indiscriminato che una minoranza di saprofiti esercita sull’intero genere umano.

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Sguardi su BIANCO E NERO I volti, i corpi, gli atteggiamenti che fuoriescono dalla visione fotografica di Lee Friedlander danno libero corso a fantasie liberatorie e sfidano, per accedere a quel reale che si fa pensiero e fa del presente rubato alla storia la sola e unica verità. Le ombre, le luci, gli sguardi registrati dal fotografo vanno a comporre un effluvio di sentimenti disvelati e vedere, soffrire, gioire non sono forse l’equivalente di intuire, di vivere, di sentire? Fuori dalla tirannia della necessità ci sono forze, valori, persone che si aprono al princìpio di godere della propria vita e di riappropriarsi dei propri sogni: è nella dismisura della fotografia dell’intuizione che si coglie il dispregio delle convenienze e l’elogio del piacere liberatorio che trasforma l’impossibile nel possibile magico di ogni disobbedienza. Al fuoco della fotografia, bisogna scaldarsi, non bruciare.

La fotografia della speranza o dell’indignazione (come insegnano le insurrezioni popolari ai quattro angoli della Terra) è un invito a rischiare, a mettere in discussione politiche dittatoriali secolari inaccettabili... è un’estetica del disincanto che contribuisce a diffondere e democratizzare la “poesia” del vivere insieme. Questa politica dell’estetica deve estendersi a tutte le forme del comunicare (cinema, carta stampata, telefonia, internet), per riorganizzare il sapere, ricollegare ciò che è separato: più ancora, andare a riformare il pensiero e fare della cultura della conoscenza una cosmologia umanistica che rivitalizza il giusto, il bello, il buono e pone il primato della verità sull’utilità. Un’etica della conoscenza che insegni l’autonomia della conoscenza al fine di promuovere la solidarietà, la fratellanza, la condivisione nel mondo. ❖

laboratorio fotografico fine - art solo bianco & nero

GIOVANNI UMICINI VIA VOLTERRA 39 - 35143 PADOVA

049-720731 (anche fax) gumicin@tin.it




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