Mensile, 6,50 euro, Poste Italiane SpA - Spedizione in abbonamento postale - D.L. 353/2003 (convertito in Legge il 27-02-2004, numero 46), articolo 1, comma 1 - DCB Milano
ANNO XX - NUMERO 196 - NOVEMBRE 2013
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GIAN PAOLO BARBIERI LE OPERE VIETATE
Mensile, 6,50 euro, Poste Italiane SpA - Spedizione in abbonamento postale - D.L. 353/2003 (convertito in Legge il 27-02-2004, numero 46), articolo 1, comma 1 - DCB Milano
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O T N E M A N O B B A N I O L SO
GIAN PAOLO BARBIERI LE OPERE VIETATE Mensile, 6,50 euro, Poste Italiane SpA - Spedizione in abbonamento postale - D.L. 353/2003 (convertito in Legge il 27-02-2004, numero 46), articolo 1, comma 1 - DCB Milano
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ANNO XX - NUMERO 196 - NOVEMBRE 2013
ANNO XX - NUMERO 195 - OTTOBRE 2013
Parole di sostanza IL MONDO SALVATO DAI RAGAZZINI
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(nuovo o rinnovo) in omaggio Fotografia nei francobolli
Mensile, 6,50 euro, Poste Italiane SpA - Spedizione in abbonamento postale - D.L. 353/2003 (convertito in Legge il 27-02-2004, numero 46), articolo 1, comma 1 - DCB Milano
Parole fotografate LUISA MENAZZI MORETTI
ANNO XX - NUMERO 194 - SETTEMBRE 2013
Bibliografia ARRIVEDERCI, NEW YORK Tecnologie attuali CANON EOS 70D FUJIFILM X-M1 SONY RX1R E RX100 II Storia della fotografia VERSO LA CONTEMPORANEITÀ
di Maurizio Rebuzzini prefazione di Giuliana Scimé testimonianza di Michele Smargiassi Compilare questo coupon (anche in fotocopia), e inviarlo a: Graphia srl, via Zuretti 2a, 20125 Milano MI (02-66713604; graphia@tin.it)
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prima di cominciare HO ANCHE UN CUORE. 9 novembre 1913-2013: cento anni dalla nascita di mia mamma, Martina: su questo stesso numero, da pagina otto. 24 dicembre 19082008: cento anni dalla nascita di mio padre, Natale: in FOTOgraphia, del dicembre 2008. Qui nell’unica fotografia in mio possesso che li ritrae assieme.
Almeno era caldo: e questo merito, del quale vado fiero e orgoglioso, è una benemerenza che nessuno potrà mai togliermi... comunque vadano a finire le vicende individuali della vita. Maurizio Rebuzzini; su questo numero, a pagina 9 Mi ricordo che volevo gli stivali come quelli della mia amica Angela e io e te siamo andati a comprarli con il tram, e tu non avevi il biglietto e hai chiesto a una signora di vendertene uno, e lei ha detto che non ne aveva, ma poi ha capito che eri Beppe Viola e te ne voleva vendere uno e tu le hai detto: “No, grazie”. Marina Viola; su questo numero, a pagina 20 Dove eri quanto hanno ammazzato Kennedy? Io, dodicenne, stavo giocando a scopa con Ieia (forse), l’ex portinaia che mi accudiva in assenza dei miei genitori. Antonio Bordoni; su questo numero, a pagina 35
La Vita accende i sentimenti, lo svolgimento delle esistenze coltiva le emozioni. Nelle proprie autonomia, personalità, diversità giornalistiche (delle quali siamo perfettamente consapevoli e andiamo fieri), questo slittare di FOTOgraphia sul personale, questo coinvolgere il cuore, non è affatto accidentale, né -tantomeno- involontario: risponde a quell’«Assurdo che ci sfida per spingerci ad essere fieri di noi» (Francesco Guccini, da Cristoforo Colombo, in Ritratti, 2004). Da e con Pino Bertelli, situazionista al quale dobbiamo molto, delle cui parole siamo avidi (seppure divergenti... spesso), in citazioni sparse, annotate dai suoi sfolgoranti e illuminanti Sguardi su; non certo a accidentali, seppure nel disordine (solo apparente) di questa annotazione: «Il dire senza steccati è sempre una sfida all’indicibile, è vivere se stessi come verità che denuncia l’impensato» / «Ciascuno detiene il coraggio di ciò che veramente sa, o è solo poca cosa di fronte all’inavvertenza di tutte le cose» / «La bellezza si difende da sé e nessuno (o pochi) la capiscono» / «L’amore è sempre dove non si guarda; l’amore ama nascondersi nel florilegio di bellezze incolte, ma lascia segni profondi o tracce indelebili nei non-luoghi dell’anima» / «L’amore è sempre altrove, ma solo l’amore si accorda con quella situazione di verità che restituisce alla vita la bellezza che le è propria» / «Il fascino estraniante o stregato della fotografia rimanda alla parola mai detta, all’infelicità mascherata, alla violenza esasperante della quotidianità mai affrontata». M.R.
Come afferma Gian Paolo Barbieri con le proprie fotografie: è l’Uomo a continuare in eterno. Angelo Galantini; su questo numero, a pagina 16 In fotografia, non esiste l’oggettività, né la registrazione meccanica sistematizzata poi in “opera d’arte”. In fotografia, non ci sono leggi né regole (da rispettare), il visibile non è mai altro di ciò che accade nello sguardo del fotografo. Pino Bertelli; su questo numero, a pagina 63
Copertina Dalla selezione Dark Memories. Le opere vietate, di Gian Paolo Barbieri [FOTOgraphia, giugno 2013], presentata alla Galleria Photology, di Milano, una avvincente evocazione che ci può aiutare a uscire di qui, e a tornare a casa. Ne riferiamo da pagina 48
3 Altri tempi (fotografici) Dalla copertina del dépliant di presentazione della reflex Exakta Varex IIa, del 1960: Garanzia di successo.
7 Editoriale Libri! O non libri! (dall’Amleto, di Shakespeare, richiamato, su questo stesso numero, da pagina 22). Ciò che per noi conta è la parola. Non ci sono proclami, né intenzioni alte e irraggiungibili, ma soltanto proponimenti trasparenti e sereni: parole sulla fotografia, parole di fotografia, parole per la fotografia. Il nostro stare assieme è tutto qui, è solo qui
8 Nove Undici Tredici Martina Galantini, moglie di Natale Rebuzzini, e, dunque, madre di Maurizio Rebuzzini, a cento anni dalla nascita di Maurizio Rebuzzini
NOVEMBRE 2013
RIFLESSIONI, OSSERVAZIONI E COMMENTI SULLA FOTOGRAFIA
10 Angeli e Demoni Nonostante tutto, non mettiamo in discussione il valore dell’evoluzione tecnologica (anche soltanto di quella fotografica). Del resto, «Qualsiasi viaggio nella vita, se non fosse intrapreso per ragioni umane e con comprensione e amore, sarebbe un viaggio assolutamente inutile. Parlo sempre di qualcosa che vale la pena ricordare, dal momento che la tecnologia trasforma in realtà antichi sogni. La fonte della tecnologia applicata (anche fotografica) è quella stessa fonte che alimenta la vita e l’evoluzione dell’esistenza»
Anno XX - numero 196 - 6,50 euro DIRETTORE
IMPAGINAZIONE
Maria Marasciuolo
REDAZIONE
Antonio Bordoni Angelo Galantini
FOTOGRAFIE Rouge
SEGRETERIA
Maddalena Fasoli
HANNO
15 GPB sulla pelle (o quasi) La collezione di T-shirt d’autore (fotografo) Ginza esordisce con la serie Madagascar, di Gian Paolo Barbieri di Angelo Galantini
18 Beppe Viola Libro irrinunciabile! Marina Viola racconta suo padre, un grande giornalista: Mio padre è stato anche Beppe Viola
22 Sir Laurence Olivier Dallo spot Polaroid SX-70 a citazioni cinematografiche Ricerca iconografica di Filippo Rebuzzini
26 Fotogiornalismo senza padroni Uliano Lucas. La vita e nient’altro - Cinquant’anni di viaggi e racconti di un fotoreporter freelance
34 Cronaca di un delitto 22 novembre 1963-2013: cinquant’anni dall’assassinio di John Fitzgerald Kennedy. Giornali d’epoca e commenti di Antonio Bordoni
48 Dark Memories. Le vietate Ancora e immancabilmente: Gian Paolo Barbieri di Maurizio Rebuzzini
54 Kowa Six Dal 1968 a cura di New Old Camera
RESPONSABILE
Maurizio Rebuzzini
COLLABORATO
Tatiana Agliani Gian Paolo Barbieri Pino Bertelli Giuseppe Candiani Franti Uliano Lucas Chiara Lualdi Manuel Randazzo Franco Sergio Rebosio Ciro Rebuzzini Filippo Rebuzzini Giuliana Scimé Marina Viola Ryuichi Watanabe (New Old Camera) Redazione, Amministrazione, Abbonamenti: Graphia srl, via Zuretti 2a, 20125 Milano; 02-66713604 www.FOTOgraphiaONLINE.it; graphia@tin.it. ● FOTOgraphia è venduta in abbonamento. ● FOTOgraphia è una pubblicazione mensile di Graphia srl, via Zuretti 2a, 20125 Milano. Registrazione del Tribunale di Milano numero 174 del Primo aprile 1994. Poste Italiane SpA - Spedizione in abbonamento postale - D.L. 353/2003 (convertito in Legge il 27-02-2004, numero 46), articolo 1, comma 1 - DCB Milano. ● A garanzia degli abbonati, nel caso la pubblicazione sia pervenuta in spedizione gratuita o a pagamento, l’Editore garantisce la massima riservatezza dei dati forniti dagli abbonati e in suo possesso, fatto diritto, in ogni caso, per l’interessato di richiederne gratuitamente la rettifica o la cancellazione ai sensi della legge 675/96. ● FOTOgraphia Abbonamento 12 numeri 65,00 euro. Abbonamento annuale per l’estero, via ordinaria 130,00 euro; via aerea: Europa 150,00 euro, America, Asia, Africa 200,00 euro, gli altri paesi 230,00 euro. Versamenti: assegno bancario non trasferibile intestato a Graphia srl Milano; vaglia postale a Graphia srl - PT Milano Isola; su Ccp n. 28219202 intestato a Graphia srl, via Zuretti 2a, 20125 Milano; addebiti su carte di credito CartaSì, Visa, MasterCard. ● Nessuna maggiorazione è applicata per i numeri arretrati. ● È consentita la riproduzione di testi e fotografie, magari citando la fonte (ma non è indispensabile, né obbligatorio farlo). ● Manoscritti e fotografie non richiesti non saranno restituiti; l’Editore non è responsabile di eventuali danneggiamenti o smarrimenti. Fotocomposizione DTP e selezioni litografiche: Rouge, Milano Stampa: Arti Grafiche Salea, Milano
Rivista associata a TIPA
56 Milano! Con l’occhio attento di Giuseppe Candiani di Giuliana Scimé
63 Gisèle Freund Sguardo su un angelo della fotografia sociale (e ribelle) di Pino Bertelli
www.tipa.com
editoriale L
ievemente, le pagine della rivista scorrono le une dopo le altre, le une in collegamento (ideale?) con le altre. Tra appuntamenti stabiliti e annotazioni di altra provenienza (sempre frutto di quel Caso che indirizziamo e guidiamo con i nostri gesti, con la nostra Vita), ogni mese c’è di che Osservare, Riflettere e Commentare sulla Fotografia, come promesso dall’incipit che accompagna la testata -motivandola-, nella sua presentazione ufficiale in colophon. In molte occasioni, le considerazioni sono nate e nascono e/o sono state sollecitate da edizioni librarie, puntualmente annotate su queste pagine. Curiosamente, al contrario (non opposto!) di altre fogliazioni della rivista, e persino a dispetto di nostri precedenti, questo mese non ci sono libri, anche se avrebbero potuto essercene. Soltanto uno solo ce n’è: non di immagini, ma parole. Ed è proprio questo il punto. In effetti, ciò che per noi conta, ciò che per noi ha valore (forse assoluto, forse inderogabile) è giusto la riflessione fotografica nel proprio complesso, indipendentemente da cosa la possa sollecitare, indirizzare e guidare. Ciò che per noi conta è la parola. Non ci sono proclami, né intenzioni alte e irraggiungibili, ma soltanto proponimenti trasparenti e sereni: parole sulla fotografia, parole di fotografia, parole per la fotografia. Il nostro stare assieme è tutto qui, è solo qui. Banalmente, l’interpretazione personale del nostro ruolo non è equivoca, né introduce ambiguità: agiamo per sostenere un mercato, un comparto commerciale (quello della fotografia), svolgendo un giornalismo che solleciti la consapevolezza e gratificazione della fotografia e con la fotografia, sia di quella da frequentare come pubblico, sia di quella da interpretare come protagonisti, come attori. Ragioniamo per condividere, per far conoscere, per qualcosa che sia in comune. In tutto questo, la parola svolge il proprio ruolo primario. Tanto è vero che, contrariamente a ciò che dovrebbe essere, spesso ci esprimiamo soltanto con questa, con la parola, scartando a lato l’accompagnamento visivo, addirittura escludendolo proprio. A parte l’appuntamento (quasi) fisso con gli Sguardi su, dell’imperterrito Pino Bertelli, che solitamente concludono la messa in pagina, altre tante considerazioni sono svolte a sole parole: e su questo stesso numero, più che in altri. In effetti, non cerchiamo mai parole che facciano la differenza nella nostra vita, ma a volte le incontriamo... e condividiamo prontamente. In definitiva, di questo si tratta: in ripetizione, Fotografia non come arido punto di arrivo, ma fantastico e privilegiato s-punto di partenza. Quindi, una confessione. Non ci si lasci ingannare: l’odierna assenza di libri è congeniale, non definitiva. Infatti, per quanto ci riguarda, i libri cartacei sono irrinunciabili compagni di strada. Nella nostra consapevolezza che ci fa identificare il vero luogo natio come quello dove per la prima volta si è posato lo sguardo consapevole su se stessi, la mia prima (e unica) patria sono stati i libri. Maurizio Rebuzzini
Non parole da spendere subito e presto, ma da tenere nel proprio cuore. Con il suo Mio padre è stato anche Beppe Viola [su questo stesso numero, da pagina 18], Marina Viola racconta suo padre, facendocelo conoscere nel modo in cui molti di noi (tutti?) vorrebbero essere celebrati dai propri figli (!). Libro irrinunciabile! Parole delle quali arricchirsi. Nonostante tutto, indipendentemente da molto.
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1913-2013 di Maurizio Rebuzzini
NOVE UNDICI TREDICI
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FRANCESCO SANNITO
N
No! C’è un ricordo di mia madre, che qui evoco nel centenario della e dalla nascita (9 novembre 1913) -così come, cinque anni fa, feci per la stessa ricorrenza di mio padre [La notte di Natale, in FOTOgraphia, del dicembre 2008]-, che non voglio condividere, che deve rimanere soltanto mio, conservato nel cuore, dove viene risvegliato ogni sera, quando torno a casa, apro la porta dell’appartamento che fu suo, e nel quale da tempo vivo io, e accendo la luce nel corridoio di entrata, sul quale si affaccia, tra l’altro, la porta della stanza da bagno. È un sorriso sereno, di soddisfazione e appagamento, che non posso raccontare, e neppure saprei farlo: non sono un poeta, ma un clinico osservatore delle esistenze, magari scrutate e analizzate a partire dalla fotografia, ma non è né necessario che sia così, né -tantomeno- indispensabile. Per come vivo la mia professione (vita?), giocoforza in fotografia, con il pretesto della sua indagine su base giornalistica, evocare questo centenario intimo e privato è più di un diritto; addirittura, è un dovere. Infatti, tra le proprie prerogative e caratteristiche (e difetti impliciti, lo so bene), FOTOgraphia include anche passionalità e complicità individuali che vanno oltre l’ufficialità dei ruoli e delle competenze. Forti della capacità di amare, e di quella di indignarci, che poi dipende dalla stessa matrice, mi è capitato, e mi capita giusto ora, di slittare nel personale: non perché rimanga solo tale, ma affinché diventi sostanza comune del nostro completo vivere la Fotografia (in maiuscola) in modo convinto e consapevole. La Fotografia... non come arido punto di arrivo (da dove e perché?), ma come fantastico e privilegiato s-punto di partenza. Sia chiaro ed esplicito. Mia madre, comunque mancata a fine novembre 2010, appena dopo aver compiuto novantasette anni, comunque mancata anche per sua esplicita volontà, è sempre stata orgogliosa di una consecuzione matematica assolutamente curiosa: so-
Autunno 2009. Mia mamma, Martina Galantini (Rebuzzini), è stata uno dei soggetti testimonial dell’affissione (sei metri per tre) che a Milano ha evocato la beatificazione di don Carlo Gnocchi (25 ottobre 2009).
(pagina accanto) Inverno 1914: mia mamma Martina, con sua mamma, Maddalena Fasoli, ovviamente, mia nonna.
prattutto, in assenza di qualsivoglia percorso scolastico. Ha sempre puntualizzato che la sua data di nascita, 9 novembre 1913, implicasse una consecuzione di tre cifre dispari consecutive: nove, undici, tredici (le seconde due, addirittura numeri primi, ho sempre aggiunto io). Quindi, così come mio padre si chiamava Natale, per essere nato la notte di Natale (ufficialmente, il 24 dicembre 1908), anche la data nascita di mia madre ha condizionato e indirizzato il suo nome di battesimo: Martina, perché san Martino si celebra l’undici novembre, e san Martino è il protettore del paese di nascita, Capergnanica, alle porte di Crema, in provincia di Cremona, noto soltanto a chi ne frequenta il circondario, e a nessun altro. È ovvio che i ricordi personali siano tanti e intensi. A differenza di quanto accaduto con mio padre, mancato all’improvviso, nel febbraio 1979, due mesi dopo aver compiuto settant’anni, per mia madre ho avuto tempo e modo di risolvere mie afflizioni. Addirittura, l’ultima volta che l’ho vista, qualche ora prima della sua
scomparsa, ho potuto chiederle scusa, ancora una volta, una volta di più, mai una di troppo, per non essere stato un figlio degno, per non essere stato capace di vedere oltre il senso del dovere, al quale ho sacrificato molto. Forse, troppo. Di mia madre, ricordo il giorno nel quale, finito l’iter della scuola media dell’obbligo, mi accompagnò a iscrivermi a un Istituto Tecnico: meta sociale più alta nella nostra famiglia. Confondemmo l’indicazione stradale di via De Angelis, zona Ospedale Niguarda, a nord di Milano, con piazza De Angeli, a sud, e passammo la mattinata trasbordando da un mezzo pubblico all’altro. Ancora, ricordo una vicenda di mal vicinato, io bambino sulle sue spalle, che provocò un intervento di mio padre, uno dei pochi nei quali lo vidi alterato. Ancora, ricordo che mia mamma, come mio padre, ha sempre inteso lo svolgimento del proprio dovere, come tale, e basta... dovere. Punto. E, poi, con balzo temporale legittimo e convinto, arrivo a tempi e giorni in qualche modo recenti.
1913-2013 Partito per la mia strada da giovane, molto giovane, a diciannove anni, le controversie dell’esistenza mi hanno riportato a casa alla fine degli anni Novanta. La nostra convivenza ha dovuto mutuare compromessi razionali. Lei avrebbe cenato alle cinque di sera, e ci accordammo per cenare insieme, quantomeno alle sette. Incapace di giostrarmi tra i fornelli, mi munii di buste di minestre liofilizzate, da far riscaldare con l’aggiunta di una quantità prestabilita di acqua. Andò abbastanza bene, almeno io l’ho creduto, lei me lo fece credere, e ancora ci credo. Soltanto, una sera, magari anche per gratificare quel suo avermi riaccolto senza fare domande e senza esprimere giudizi (se non l’osservazione secondo la quale il mio posto giusto sarebbe dovuto essere altrove e con altri... ma!), per ricambiare quel vivere assieme adeguatamente grottesco, con lei a farmi da mamma, come se invece di cinquant’an-
ni passati ne avessi avuti ancora dieci soltanto, una sera -riprendo-, mi proposi “ardite” mete culinarie di maggiore consistenza e soddisfazione. Mi procurai una ricetta per un buon minestrone (attenzione, nella cultura contadina e operaia di mia madre era impensabile la pastasciutta di sera), comperai gli ingredienti, mi esercitai con pazienza e, alla fine, produssi il mio piatto forte. Orgoglioso di tanto, le chiesi se le fosse piaciuto. Risposta laconica, educata, ma esplicita: «Almeno, era caldo». Già, mamma, almeno era caldo: è tutto quanto, poco, sono riuscito a fare per te, che mi hai dato la vita, che non hai mai saputo, né capito, come ho vissuto, e ancora vivo, che non hai mai giudicato. Almeno era caldo: e questo merito, del quale vado fiero e orgoglioso, è una benemerenza che nessuno potrà mai togliermi... comunque vadano a finire le vicende individuali della vita. ❖
Considerazioni di Maurizio Rebuzzini (Franti)
ANGELI E DEMONI
H
Ho conosciuto una maestra elementare, che ha iscritto la propria figlia a una scuola media privata (orrore! radiazione dai ranghi!). Circa venti anni fa, fraintendendo una certa confidenza con una pessima e perfida interpretazione del proprio dovere (oltre che dell’etica e morale), la stessa maestra mi ha telefonato il giorno prima degli esami di quinta elementare dei
miei figli (gemelli). In anticipo, mi ha rivelato il titolo del tema che avrebbero dovuto svolgere in esame! Il mio silenzio alla cornetta (allora, si usava soltanto la cornetta telefonica), l’ha stupita, l’ha addolorata: «Non dici niente?», mi ha domandato. «Non riesco a parlare», ho risposto (prontamente) «... perché sto riflettendo e ragionando. Sto calcolando che mio fi-
[nota] Da FOTOgraphia, dello scorso ottobre: Parola ai giovani, di Lello Piazza. Dal discorso che la giovane pakistana Malala Yousafzai (candidata al Premio Nobel per la Pace), colpita alla testa e al collo da un colpo di pistola esploso da un talebano, il 9 ottobre 2012, ha pronunciato al Palazzo delle Nazioni Unite, a New York, lo scorso dodici luglio, nel giorno del suo sedicesimo compleanno, durante l’Assemblea della Gioventù. «Cari fratelli e sorelle, ricordate una cosa. La giornata di Malala non è la mia giornata. Oggi è la giornata di ogni donna, di ogni bambino, di ogni bambina che ha alzato la voce per reclamare i propri diritti. «Ci sono centinaia di attivisti e assistenti sociali che non soltanto chiedono il rispetto dei diritti umani, ma lottano anche per assicurare istruzione a tutti, in tutto il mondo, per raggiungere i propri obiettivi di istruzione, pace e uguaglianza. «Migliaia di persone sono state uccise dai terroristi e migliaia di altre sono state ferite. Io sono soltanto una di loro. Io sono qui, una ragazza tra tante, e non parlo per me, ma per tutti i bambini e le bambine. Voglio far sentire la mia voce, non perché posso gridare, ma perché coloro che non l’hanno siano ascoltati. Coloro che lottano per i propri diritti: il diritto di vivere in pace, il diritto di essere trattati con dignità, il diritto di avere pari opportunità e il diritto di ricevere un’istruzione. [...] «Cari fratelli e sorelle, tutti ci rendiamo conto dell’importanza della luce, quando ci troviamo al buio, e tutti ci rendiamo conto dell’importanza della voce, quando c’è il silenzio. E nello stesso modo, quando eravamo nello Swat, in Pakistan, noi ci siamo resi conto dell’importanza dei libri e delle penne, quando abbiamo visto le armi. I saggi dicevano che la penna uccide più della spada: ed è vero. «Gli estremisti avevano e hanno paura dell’istruzione, dei libri e delle penne. Hanno paura del potere dell’istruzione. Hanno paura delle donne. Il potere della voce delle donne li spaventa. Ed è per questo che hanno appena ucciso, a Quetta, quattordici innocenti studenti di medicina. È per questo che fanno saltare in aria scuole, tutti i giorni. È per questo che uccidono i volontari antipolio, nel Khyber Pukhtoonkhwa e nelle Fata. Perché hanno avuto e hanno paura del cambiamento, dell’uguaglianza che porterebbe nella nostra società. «Ricordo che un giorno un bambino della nostra scuola chiese a un giornalista perché i Taliban sono contrari all’istruzione. Il giornalista rispose con grande semplicità. Indicando un libro disse: “I Taliban hanno paura dei libri, perché non sanno che cosa c’è scritto dentro”. Pensano che Dio sia un piccolo essere conservatore, che manderebbe le bambine all’inferno soltanto perché vogliono andare a scuola. I terroristi usano a sproposito il nome dell’Islam, e la società pashtun per il loro tornaconto personale. Il Pakistan è un paese democratico, che ama la pace e che vorrebbe tra-
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glio è stato tra le tue mani per cinque anni, per cinque anni fondamentali della sua educazione alla vita, al suo ingresso consapevole nel mondo». Capito? Ho conosciuto una insegnante di questo tipo, eppure... non metto in discussione l’intero impianto scolastico italiano (e planetario), e neppure dubito sul dovere/diritto all’istruzione [nota]. Tutt’al più, limito la mia espe-
rienza, la mia terribile esperienza, a un caso personale e isolato di malvivenza (che, purtroppo per me e per i miei figli, mi ha coinvolto, ci ha coinvolti). Ho visto e vedo tanti orrori fotografici dei nostri giorni, favoriti e/o resi possibili dalle semplificazioni digitali dell’acquisizione di immagini, eppure... non dubito sul valore della tecnologia digitale (e di ogni tecnologia)!
smettere istruzione ai propri figli. L’Islam dice che non soltanto è diritto di ogni bambino essere educato, ma certifica anche che quello è il suo dovere e la sua responsabilità. «Onorevole signor Segretario generale, per l’istruzione è necessaria la pace, ma in molti paesi del mondo c’è la guerra. E noi siamo veramente stanchi di queste guerre. In molti paesi del mondo, donne e bambini soffrono in altri modi. In India, i bambini poveri sono vittime del lavoro infantile. Molte scuole sono state distrutte in Nigeria. In Afghanistan, da decenni, la popolazione è oppressa dalle conseguenze dell’estremismo. Le giovani donne sono costrette a lavorare e a sposarsi in tenera età. Povertà, ignoranza, ingiustizia, razzismo e privazione dei diritti umani di base sono i problemi principali con i quali devono fare i conti sia gli uomini sia le donne. «Cari fratelli e sorelle, è giunta l’ora di farsi sentire, di lottare per cambiare questo mondo, e quindi oggi facciamo appello ai leader di tutto il mondo affinché proteggano i diritti delle donne e dei bambini. Facciamo appello alle nazioni sviluppate, affinché garantiscano sostegno ed espandano le pari opportunità di istruzione alle bambine nei paesi in via di sviluppo. Facciamo appello a tutte le comunità di essere tolleranti, di respingere i pregiudizi basati sulla casta, sulla fede, sulla setta o sul genere. Per garantire libertà e eguaglianza alle donne, così che possano stare bene e prosperare. Non potremo avere successo come razza umana, se la metà di noi resta indietro. Facciamo appello a tutte le sorelle nel mondo affinché siano coraggiose, per abbracciare la forza che è in loro e cercare di realizzarsi al massimo delle proprie possibilità. «Cari fratelli e sorelle, vogliamo scuole, vogliamo istruzione per tutti i bambini, per garantire loro un luminoso futuro. Ci faremo sentire, parleremo per i nostri diritti e così cambieremo le cose. Dobbiamo credere nella potenza e nella forza delle nostre parole. Le nostre parole possono cambiare il mondo. Perché siamo tutti uniti, riuniti per la causa dell’istruzione, e se vogliamo raggiungere questo obiettivo dovreste aiutarci a conquistare potere tramite le armi della conoscenza e lasciarci schierare le une accanto alle altre con unità e senso di coesione. «Cari fratelli e sorelle, non dobbiamo dimenticare che milioni di persone soffrono per ignoranza, povertà e ingiustizia. Non dobbiamo dimenticare che milioni di persone non hanno scuole. Lasciateci ingaggiare, dunque, una lotta globale contro l’analfabetismo, la povertà e il terrorismo, e lasciateci prendere in mano libri e penne. Queste sono le nostre armi più potenti. Un bambino, un maestro, una penna e un libro possono fare la differenza e cambiare il mondo. L’istruzione è la sola soluzione ai mali del mondo. L’istruzione potrà salvare il mondo». Già: «L’istruzione potrà salvare il mondo», nonostante alcuni “insegnanti”, nonostante alcune “maestre”, nonostante alcune “storture” di percorso.
Considerazioni Allora: sono perfettamente consapevole di taluni retrogusti amari dell’attuale personalità digitale della ripresa fotografica, ai quali ho cominciato a riferirmi lo scorso mese (con Il mondo nuovo)... e qui concludo. Sono imperterritamente convinto di taluni abusi e cattivi utilizzi, di taluna cattiva applicazione e interpretazione: ma questo non scalfisce l’impianto generale e assoluto, sia della tecnologia, sia della fotografia. Non esistono Angeli e Demoni; e se ci sono, e per quanto possono esserci, si manifestano negli impieghi individuali e non sono impliciti nelle tecnologie di base. Non ci sono Angeli e Demoni, se non nel nostro cuore, dove li creiamo e coltiviamo per nostra capacità o -all’oppostoottusità e stupidità manifeste. Non esistono Angeli e Demoni, ma -tutt’al più- si incontrano imbecilli. Questi, sì. Fortunatamente, gli imbecilli si dividono/scompongono in parti uguali e equilibrate tra coloro i quali elevano il presente in contrapposizione al passato, ovverosia che lodano stoltamente la tecnologia dell’acquisizione e gestione digitale di immagini (per limitarci al nostro ambito di interesse e ragionamento principale), e coloro i quali -altrettanto stoltamente- rimpiangono sapori del passato remoto, denigrando il presente. In effetti, trasversalmente a qualsivoglia pensiero, soltanto una condizione è fondante: quella che sottolinea come l’anima e l’intenzione dell’autore siano gli unici elementi discriminanti e determinanti dell’azione fotografica, dell’essere fotografi, del vivere la fotografia come fantastico s-punto di partenza e non arido punto di arrivo... e tanto altro, ancora. Conta solo questo, e il supporto sul quale ciascuno raccoglie la propria intelligenza, o relega la propria stupidità, non incide in alcun modo e nessuna misura sull’intera vicenda nel proprio insieme e complesso: sia pellicola fotosensibile o sen-
«Qualsiasi viaggio nella vita, se non fosse intrapreso per ragioni umane e con comprensione e amore, sarebbe un viaggio assolutamente inutile. Parlo sempre di qualcosa che vale la pena ricordare, dal momento che la tecnologia trasforma in realtà antichi sogni. La fonte della tecnologia applicata (anche fotografica) è quella stessa fonte che alimenta la vita e l’evoluzione dell’esistenza» Incipit a Alla Photokina e ritorno, di Maurizio Rebuzzini, FOTOgraphiaLIBRI, 2009 (quarta di copertina e da pagina due a pagina centocinquantanove) sore digitale, con relativa card di memoria e archiviazione. Con tutto questo e in tutto questo, non sono così tanto ingenuo da non intuire quanto il mezzo sia spesso (sempre?) allineato al messaggio, all’espressività: e lo è! Addirittura, in coincidenza con altre culture, sopra tutte quella statunitense, che volente o nolente, ci piaccia o meno- è quella che più e meglio ha affrontato e approfondito la riflessione sul linguaggio fotografico e sulla storia della fotografia (nel senso di sua influenza sociale e di costume e creativa e culturale), so considerare non soltanto la successione/progressio-
ne della tipologia di apparecchi fotografici -dall’istantanea a mano libera (con l’oculare portato all’occhio) alla staticità del vetro smerigliato (fino al massimo OttoDieci pollici / VentiVenticinque centimetri)-, ma anche la sottile differenza che contraddistingue, definendolo addirittura, il mirino a telemetro (e consecuzioni inevitabili) alla visione reflex, ma anche l’apporto del punto di osservazione stabile del treppiedi, ma anche il piacere tattile/feticista della relazione individuale con il proprio apparecchio fotografico (le sue caratteristiche, ma anche i suoi materiali, la sua forma, il suo senso tattile).
In metafora: per quanto il pubblico percepisca la fotografia in quanto tale, senza necessariamente impegnarsi in altre considerazioni e valutazioni di/in consistenza fotografica, per noi addetti è doveroso l’approfondimento (fino all’incidenza degli utensili). In metafora: per quanto il pubblico percepisca la musica rock in quanto tale, senza necessariamente impegnarsi in altre considerazioni e valutazioni di/in consistenza musicale, per gli addetti è doveroso annotare che Jimi Hendrix suonava una Fender Stratocaster (bianca; peraltro usata al rovescio, essendo lui mancino, a corde invertite), mentre Chuck Berry è inviolabilmente legato alla Gibson semiacustica (rossa), come pure lo è B.B. King. Ovvero: come altri fotografi, altrettanto presto individuati, Henri Cartier-Bresson è imprescindibile dalla Leica a telemetro; Robert Doisneau è stato soprattutto fedele alla visione su vetro smerigliato, dall’alto, a composizione quadrata, della Rolleiflex; Richard Avedon si è espresso soprattutto con il grande formato OttoPerDieci Deardorff, e lo stesso dicasi per Joel Meyerowitz (la cui Deardorff gli è coetanea: costruita nel 1938). Quindi, analogo richiamo per Weegee (del quale abbiamo riferito in diverse occasioni, la più recente delle quali nel marzo 2011, in occasione dell’edizione italiana della sua Autobiografia, pubblicata da Contrasto: 176 pagine 15x21cm; 78 illustrazioni; 19,90 euro): la sua straordinaria ed epocale raccolta fotografica Naked City, del 1948, che -tra l’altro- ispirò la sceneggiatura del film The Naked City, di Jules Dassin (in Italia, La città nuda), inizia con il capitolo A book is born, un libro è nato, al quale ne fanno poi seguito altri diciassette di immagini e uno, conclusivo, di annotazioni tecniche (attenzione, senza ritrosia, né vergogna, né altro: di annotazioni tecniche; ripeto, ribadendolo: di annotazioni tecniche). Sulla pagina a fronte, a sini-
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stra, l’imperterrito ritratto di Weegee con la Speed Graphic tra le mani e sigaro tra i denti (la sua raffigurazione-simbolo nota e riconosciuta), didascalizzato Weegee and his Love - his Camera. Ovvero, Weegee con il suo amore, la sua macchina fotografica: binomio indissolubile, segno di un’esistenza votata alla fotografia di cronaca. Perché no? Perché no! In ogni caso, però, nulla si trasformi in religione, ma tutto sia inviolabilmente dialettico. (Pardon) Riprendo dal mio intervento al convegno Lo specifico stenopeico. Filosofia e pratica della fotografia stenopeica, svoltosi a Senigallia, in provincia di Ancona, lo scorso maggio 2012 (con anticipazione e lancio in FOTOgraphia, del precedente marzo). Riprendo, non prima di aver annotato che l’intervento più sostanzioso e consistente dell’intero convegno, quello che lo ha illuminato, è stato quello di Michele Smargiassi, riportato integralmente in FOTOgraphia del settembre 2012. Comunque: Senza religione! (sia per la fotografia stenopeica, senza obiettivo, sia per quella ana-
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logica/chimica nel proprio insieme, sia per quella digitale, sia per quella a colori, sia per quella in bianconero, sia per quella a inquadratura verticale, sia per quella a inquadratura orizzontale, sia per quella stampata su carta baritata, sia per quella convenientemente stampata su politenata, sia per quella..., sia per quella..., sia per quella… all’infinito). «Confermo, ribadisco e ripeto: la fotografia, che deve essere un inviolabile gesto d’amore, non dipende mai da come la si realizza, ma perché lo si fa (anche se il come ha la propria importanza, ma non qui, ma non ora). «Sì, l’applicazione volontaria e consapevole del foro stenopeico introduce una serie di valori che condivido e che mi sono particolarmente cari. Prima di tutto, e oltre tutto, per quell’attimo, che si fissa indelebilmente nel cuore e animo di ciascuno, dove rimarrà custodito per sempre, pronto a tornare in superficie per evocare vibranti emozioni. Per come la intendono in molti, la proiezione del foro stenopeico, così come la creazione di ogni immagine fotografica (chimica o digitale, po-
co conta), ribadisce quel processo creativo con il quale “la natura si fa di sé medesima pittrice” (espressione presa a prestito da evocazioni antiche, dell’epoca nella quale alcuni pionieri sperimentavano le strade chimiche della formazione automatica di immagini: che poi avremmo definito “fotografia”). «No, come ogni altra arbitrarietà fotografica, anche il foro stenopeico elevato ad assoluto, a religione, dischiude porte che avviano verso luoghi imbarazzanti e inquietanti. Per quanto segua con passione questa espressione fotografica, che affonda le proprie radici indietro nei secoli, addirittura in tempi antecedenti la nascita della fotografia, in coincidenza di visione, sono anche convinto che molte frequentazioni stenopeiche dei nostri giorni, non tutte, per fortuna, rappresentino anche una malaugurata scorciatoia: per gli imbecilli che non hanno modo di esprimersi con capacità autentica. «Come distinguere l’una intenzione e dimensione dall’altra? Con il cuore, prima che con altri criteri. «(Da e con Pino Bertelli, straordinario filosofo di strada della fotografia) Solo i poeti sanno veramente parlare della libertà, dolcissima e inebriante: il dire senza steccati (né religioni) è sempre una sfida all’indicibile, è vivere se stessi come verità che riporta e diffonde l’impensato. Soprattutto nel caso della fotografia stenopeica (ben declinata, con intenzioni d’amore), il fascino estraniato e stregato della fotografia rimanda alla parola mai detta, all’infelicità mascherata, alla violenza esasperante della quotidianità mai affrontata. «In una creatività applicata, quale è quella fotografica, quale è quella stenopeica, definita da differenze espressive immortali, il territorio della sua manifestazione esplicita è quello dell’immaginazione che va oltre l’immagine. «Con Giacomo Leopardi: “L’anima s’immagina quello che non vede”... soprattutto se osserva la proiezione della luce prodot-
ta da un piccolo foro, senza altre mediazioni. «Allora: se il linguaggio fotografico è -come effettivamente è- una straordinaria combinazione di regole logiche e usi arbitrari, la fotografia tutta (senza religioni, senza chiusure, senza barriere) deve essere un fantastico atto d’amore: solo l’amore si accorda con quella situazione di verità che restituisce alla vita la bellezza che le è propria. «Nel fotografare, ciascuno ha opinioni diverse su ciò che è degno di memoria, ma tutti abbiamo capito che se possiamo rubare un momento dall’aria (magari con una fotografia), possiamo anche crearne uno tutto nostro. Con la fotografia tutta (anche stenopeica, soprattutto stenopeica -senza però aggiungere alcun credo assoluto e riduttivo-), è legittimo e indispensabile approdare a un effettivo riconoscimento di una fotografia che non vale solo per sé, e le proprie intenzioni e/o necessità di partenza, ma per qualcosa di altro che ciascuno trova prima di tutto in se stesso». Chiudo con Michele Smargiassi, il più bravo di tutti, il più attento di tutti, il più consapevole di tutti. Ancora dal richiamo stenopeico, che però non si conclude, né limita, a questo (il testo completo del suo esplicativo intervento al convegno Lo specifico stenopeico. Filosofia e pratica della fotografia stenopeica, svoltosi a Senigallia, in provincia di Ancona, il 19 maggio 2012, in FOTOgraphia, del settembre 2012). «La fotografia è per definizione immagine tecnica, e ciò che la fa diversa da ogni altra immagine prodotta dall’uomo per decine di migliaia di anni è precisamente il fatto di essere prodotta con l’ausilio di un apparato programmato per effettuare un prelievo di impronte luminose dal mondo fisico, e per farlo con quella relativa automaticità che garantisce, appunto, che sia un prelievo e non un’imitazione manuale». Angeli e Demoni? Ognuno faccia i conti con i propri Angeli e i propri Demoni. ❖
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Di traverso
di Angelo Galantini
GPB SULLA PELLE (O QUASI)
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Prima di altro, al quale approdiamo presto, parole per Ginza Fashion Art Style (www.ginzafashion.com), che propone anche una linea di abbigliamento a sfondo fotografico (retrogusto?!). Ginza opera a stretto contatto con fotografi-autori, curando mostre online di opere selezionate, acquistabili in forma di collezioni di alto profilo (di lusso?): T-shirt disponibili in una varietà di stili, in taglie maschili e femminili, prodotte in Italia -dalla quale fuggono gli stilisti nazionali, alla ricerca di geografie più convenienti: di sfruttamento del lavoro minorile e delle condizioni di povertà- in morbido cotone turco, con stampa con inchiostri eco-friendly a base di acqua. Queste T-shirt sono acquistabili solo attraverso il sito www.ginzafashion.com, in esclusiva confezione a firma Ginza, in tessuto rosso di seta, collocata in un esclusivo box nero, comprensiva del certificato di autenticità dell’autore e della collezione associata. La linea ha preso avvio lo scorso ottobre, con la collezione di debutto, dalla serie Madagascar, di Gian Paolo Barbieri, raccolta in monografia nel 1994, da Umberto Allemandi & C, di Torino, e riproposta da Taschen Verlag, di Colonia, nel 1997 (edizione ancora reperibile): fotografie da un paese, che l’autore descrive come “Ultimo paradiso in Terra”. Da cui, dal nostro punto di vista: terra di evocazioni primitive, alle origini della cultura che ha segnato le tappe evolutive della Vita. Rileggiamo dalla nostra presentazione del luglio 1995 (mille e mille e mille anni fa). Esattamente cinque anni dopo l’edizione di Tahiti Tattoos, nella quale Gian Paolo Barbieri ha raccolto la propria particolare visione dell’arte primitiva del tatuaggio tahitiano, fatto di accostamenti rituali di linee geometriche, nel dicembre 1994, è stata pubblicata la monografia Madagascar, che per tanti versi prosegue quell’originaria ricerca antropologica. Curiosamente, questa significativa testimonianza visiva, che si ag-
Le T-shirt fotografiche Ginza Fashion Art Style ha preso avvio con la serie Madagascar, di Gian Paolo Barbieri.
Dopo l’originaria di Umberto Allemandi, del 1994, Madagascar, di Gian Paolo Barbieri, è disponibile in edizione Taschen Verlag, del 1997: 124 pagine 27x33cm, cartonato con sovraccoperta; 24,99 euro.
giunge alla precedente Tahiti Tattoos (anche nello speciale FOTOgraphia - Vogliamo parlarne?, dell’aprile 2011: nero-su-nero), è stata realizzate da uno dei più bravi fotografi italiani di moda, e saremmo tentati di usare l’assoluto (“il più bravo”), se solo non diffidassimo delle espressioni tanto decise e perentorie. Lo sconfinamento da un genere fotografico a un altro è insolito, soprattutto se si considerano le distanze abissali che separano l’eleganza formale della moda dalla ricerca e ricostruzione antropologica. Ma questa capacità di passare da un mondo tanto frusciante a una realtà addirittura contraria, e non soltanto opposta, non stupisce coloro i quali sanno collegare tra loro le immagini di Gian Paolo Barbieri: che sono sempre caratterizzate da una capacità compositiva unica e inimitabile, da un sapien-
te uso della luce e da una eccezionale sintesi narrativa [allunghiamo alle Dark Memories, presentate lo scorso giugno e riprese su questo stesso numero, da pagina 48]. Sia la moda fotografata da Gian Paolo Barbieri nel lungo periodo di tempo che parte dalle soglie degli anni Sessanta, sia la sua ricerca antropologica sono definite da una sottile sensibilità espressiva che le unisce, nel momento stesso nel quale le definisce e le separa, e che -alla fine dei conti- fa la differenza tra la semplice fotografia e l’immagine d’autore. Nel modo di lavorare di Gian Paolo Barbieri c’è tutta l’essenza del sottile rapporto che collega l’infrastruttura tecnica dell’esercizio fotografico con la sua espressività. Anche nelle tormentate settimane in Madagascar, caratterizzate pure da una fastidiosa sequenza di incidenti e contrattempi, la rigorosa costruzione sul vetro smerigliato Linhof si è alternata ai dinamismi propri della trentacinque millimetri portata all’altezza dell’occhio e alla particolare concentrazione della inquadratura SeiSei della Rolleiflex biottica. Cioè, Gian Paolo Barbieri è ancora uno di quei (grandi) fotografi che sanno decifrare il linguaggio espressivo secondo intenzioni rappresentative pertinenti e manifeste. In un’epoca nella quale la leggerezza dell’immagine televisiva ha intaccato il pensiero collettivo, fino a elevare incondizionatamente la più puerile delle raffigurazioni, Gian Paolo Barbieri propone un ritmo visivo cadenzato e di alta personalità individuale, che non si ferma alla superficie delle apparenze, ma affronta l’essenza degli elementi. Lui ama il Sud, l’emisfero a noi opposto, nel quale le stagioni sono capovolte rispetto alle nostre, e nel quale le origini della Vita pulsano anche nel ritmo quotidiano dei giorni che si susseguono inarrestabili. Il primo omaggio al mondo dei tropici, l’ha confezionato nei primi anni Ottanta, quando realizzò le eccezionali fotografie raccolte nel prestigioso volume Silent Portraits (seicento co-
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Di traverso pie numerate; Massimo Baldini Editore, 1984). Quella fu una dichiarazione di amore, mentre il successivo Tahiti Tattoos, già citato (Fabbri, 1989), ha rappresentato il suo avvicinarsi a una mediazione visiva meditata e riflessiva: da autentico studioso della materia, ricomposta nello spazio proprio e caratteristico della fotografia. La preparazione di Madagascar è stata lunga e approfondita. Prima di partire, Gian Paolo Barbieri ha consultato volumi e testimonianze conservati nei più attenti musei europei (di Parigi e Londra, soprattutto). Ha ipotizzato un viaggio ideale, che poi è riuscito a compiere con la fierezza della sua alta capacità fotografica: ciò che non è stato trovato, è stato ricomposto con assoluta fedeltà storica e con l’umiltà e la modestia dell’autore consapevole di se stesso e della propria interpretazione. Per esempio, ci riferiamo alla ricostruzione del rito funerario in uso presso alcune tribù (che prevedeva che i familiari si nutrissero della carne del defunto e ne bevessero i liquidi prodotti dalla esposizione del corpo al sole e al caldo). Per esempio, alludiamo anche alla ricostruzione di una portantina malgascia, che Michel Tournier, autore di un efficace testo introduttivo, considera una tra le più belle immagini del libro. Michel Tournier sottolinea l’accuratezza degli studi di documentazione di Gian Paolo Barbieri, quando afferma che «davanti a questa immagine saranno in molti a provare un sentimento di déja vu. Di certo, è quanto è capitato a me... e mi sono messo a cercare. La mia ricerca mi ha portato al Musée d’Orsay, davanti al grande quadro di Cormon, Caino, che è datato al 1880 ed è ispirato alla poesia La coscienza, di Victor Hugo, in La leggenda dei secoli». Con tutto, Gian Paolo Barbieri ha compiuto una scelta di fondo. La cultura personale e la sensibilità fotografica gli hanno fatto declinare una visione poetica del Madagascar, volontariamente lontana dalla cruda realtà sociale del paese. Attratto dall’arte primitiva, che è la base della cultura del nostro mondo, ha tracciato un quadro dalle tinte sfumate, ma da contorni precisi. Abile interprete di artifici allestiti in sala di posa, anche nel vivo del mondo malgascio ha dato un taglio grafico di grande efficacia a
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GPB IN COMPAGNIA
Fino al diciassette novembre, la nona edizione di Fucecchio Foto Festival, in provincia di Firenze, è allestita attorno quattro sostanziose personalità fotografiche: Gian Paolo Barbieri (Elogio della bellezza), Letizia Battaglia (Fotografie 1974-1993 [FOTOgraphia, febbraio 2008]), Chris Rain (I am the snow) e Sebastian Weiss “Le Blanc” (Concrete). Oltre un insieme e qualità di altri appuntamenti, le quattro esposizioni compongono l’ossatura di una manifestazione che si svolge nel suggestivo scenario medievale del Parco Corsini (www.fofu.it).
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immagini che finiscono per essere più concrete e vere di quanto non lo sarebbe stato un reportage dalle tinte forti e forzate. Del resto, la fotografia è giusto questo: capacità di rappresentare, oltre la oggettiva necessità di raffigurare qualcosa che si manifesta davanti all’obiettivo. Con eccezionale allegoria, il Madagascar di Gian Paolo Barbieri diventa qualcosa di assolutamente vero, vivo e reale. La lezione è importante, e dovrebbe appartenere all’intero mondo della riflessione fotografica. Questa raccolta di immagini afferma che le cose che muoiono durano per sempre; quelle che durano periscono nel ricordo collettivo e individuale. Il senso delle fotografie del Madagascar è preciso, e sollecita una metafora. Noi che non siamo soliti riferirci al mondo tropicale, così lontano dal nostro clima individuale, riflettiamo su una lezione primitiva diversa, ma coincidente. Sfogliamo le pagine di Madagascar, di Gian Paolo Barbieri, e pensiamo che gli uomini che adoravano la pietra eressero l’inquietante Stonehenge, nel sud dell’attuale Gran Bretagna. Tutti coloro che la eressero sono periti e sconosciuti, mentre Stonehenge rimane. Eppure, quegli uomini, i nostri antenati, volti anonimi, sono vivi in tutti noi, nei loro discendenti; mentre Stonehenge, e quello che rappresentava, è morta. Come afferma Gian Paolo Barbieri con le proprie fotografie: è l’Uomo a continuare in eterno. ❖
Mi ricordo (si ricorda) di Maurizio Rebuzzini (con Marina Viola)
BEPPE VIOLA
Mio padre è stato anche Beppe Viola, di Marina Viola; Feltrinelli, 2013; 170 pagine 14x22cm; 14,00 euro.
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Ripetizione d’obbligo, forse poco necessaria, perché è chiaro e palese quanto e come FOTOgraphia sia una rivista diversa dalle consuete testate di settore (una volta ancora, una di più, mai una di troppo: non migliore, soltanto diversa). Ovvero, sia una rivista capace di commuoversi e di anteporre l’amore a molto, forse a tutto. Anche qui, come già nelle precedenti considerazioni su Angeli e Demoni, da pagina 10, da e con Pino Bertelli, straordinario filosofo di strada della fotografia: solo i poeti sanno veramente parlare della libertà, dolcissima e inebriante. Il dire senza steccati (né religioni) è sempre una sfida all’indicibile, è vivere se stessi come
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verità che riporta e diffonde l’impensato. In presunzione d’intenti, spesso ci sentiamo poeti, sicuramente più modesti di quelli fantastici che frequentiamo (soprattutto nelle botteghe milanesi di nostra selezione), ma pur sempre tali. Poeti. Nella nostra diversità giornalistica, ho già ricordato mio padre, nel centenario della nascita (dicembre 2008), e in questo numero richiamo il centenario di mia mamma (da pagina 8), oltre a rammentarli assieme (in Sommario, Prima di cominciare, a pagina 4). Ora, e qui, ricordo il padre di Marina Viola, che lo ha raccontato in un suo commovente libro, pubblicato da Feltrinelli, questa estate: Mio
padre è stato anche Beppe Viola (170 pagine 14x22cm; 14,00 euro). Personalmente, ho molto amato il giornalismo di Beppe Viola, moderatamente ricordato lo scorso giugno, in prologo alla presentazione della mostra Quelli che... Milan Inter ’63. La leggenda del Mago e del Paron, allestita a Palazzo Reale, di Milano, nel cinquantenario di momenti calcistici fondamentali per la città. Riprendiamo quelle note, asciutte come da dovere, partecipi come da volere. «Ormai identificata soprattutto con la trasmissione televisiva della domenica pomeriggio, durante il campionato di calcio, Quelli che è un’espressione inventata da Beppe Viola, fantastico giornalista del quale si possono raccontare autentiche imprese televisive (lo facciamo sempre, quando ne riferiamo dal vivo), prematuramente mancato nel 1982, e Enzo Jannacci, profetico musicista, scomparso lo scorso marzo. Una serie di luoghi comuni di Quelli che... è riunita nel primo capitolo di un libro scritto a quattro mani, ormai dimenticato, raramente ben considerato, ma a dir poco eccezionale (per contenuti e raffinato umorismo di vita): L’incompiuter (Bompiani, 1974). «Quindi, nel 1975, Quelli che... fu il titolo di un album di Enzo Jannacci, che contiene affascinanti canzoni, tra le quali la commovente Vincenzina e la fabbrica, motivo conduttore del film Romanzo popolare, di Mario Monicelli, del 1974, alla cui sceneggiatura hanno contribuito i dialoghi scritti da Enzo Jannacci (che per il film ha doppiato l’attore Pippo Starnazza) e Beppe Viola (che nel film appare in cameo, alla biglietteria del cinema Abanella, locale storico, oggi occupato dalle prove del Teatro alla Scala)». Le pagine di Mio padre è stato anche Beppe Viola sono emozionanti, fino alle lacrime: soprattutto per chi con orgoglio, io tra questi- ha potuto vivere il giornalismo di Beppe Viola. Il libro è da non perdere, sia per le tracce di vita raccontata, sia per quel fantastico retrogusto (anche qui, ancora qui) che svela e rivela una Mi-
Mi ricordo (si ricorda) lano che non c’è più, soffocata da una politica insensata. Di una Milano che ho conosciuto. Di una Milano animata da personaggi eccezionali... tra i quali, Beppe Viola e dintorni. Tra le tante belle parole con le quali Marina Viola ha raccontato suo padre, facendocelo conoscere nel modo in cui molti di noi (tutti?) vorrebbero essere celebrati dai propri figli (!), isolo e presento il capitolo conclusivo: per due motivi. Il primo dipende (forse) dal titolo: Fotografie, e tanto potrebbe anche bastarci, ma non è affatto vero. Il secondo è quello che conta per davvero, perché la scrittura di Marina Viola riprende uno stilema al quale sono personalmente vicino e con il quale sono inesorabilmente allineato e collegato. Le sue parole sono declinate sul filo del Mi ricordo. E qui si impone un richiamo, una precisazione, una presentazione (forse). Recuperando un Editoriale di cinque anni fa, curiosamente del dicembre 2008, nel quale io stesso ricordai da queste pagine mio padre Natale (e le coincidenze potrebbero anche essere i soli accadimenti che rivelano il senso della vita), la prendo un poco lunga, ma presto arrivo al dunque. Richiamo la personalità di Georges Perec (1936-1982: 1982, come Beppe Viola, altra coincidenza che potrebbe significare qualcosa), che è stato uno scrittore di eccezionale originalità, le cui costruzioni linguistiche si sono spesso basate sull’impiego volontario e consapevole di limitazioni formali, ricercate e frequentate con caparbia assiduità. Da cui, la sua partecipazione all’Ouvroir de littérature potentielle (OuLiPo), che annoverò tra le proprie fila anche Raymond Queneau e Italo Calvino, a propria volta inventori di semantiche parallele: indispensabili le segnalazioni, rispettivamente, di Esercizi di stile (pubblicato in Italia nella traduzione di Umberto Eco; Einaudi, 1983) e Le città invisibili (negli Oscar Mondadori). In fotografia, Georges Perec è spesso richiamato in saggi critici su autori, correnti e progetti (e lo stesso possiamo affermare per Le città invisibili, di Italo Calvino, appena richiamate, ma qui, oggi, non c’entra/no). Soprattutto, ci si riporta a Specie di spazi e Le cose, ma anche a Sono nato e Tentativo di esaurire un luogo parigino: ognuno per sé, e tutti insieme,
Beppe Viola: Quelli che... Racconti di un grande umorista da non dimenticare; Dalai Editore, 2009.
testi profondi, ricchi di spunti e osservazioni facilmente riconducibili all’azione fotografica. Ovviamente, anch’io ho il mio Perec di fiducia, diciamola così. È quello di Mi ricordo (Bollati Boringhieri, 1988), esplicitamente ispirato a I remember, di Joe Brainard (Angel Hair Books, 1970). Di cosa si tratti, è presto detto: incessante sequenza di quattrocentottanta «Mi ricordo», che si susseguono in forma asciutta e diretta (per esempio, «Mi ricordo l’assassinio di Sharon Tate», «Mi ricordo lo yo-yo», «Mi ricordo Zatopek», «Mi ricordo che Shirley McLaine ha debuttato in La congiura degli innocenti di Hitchcock»). Come ha annotato lo stesso George Perec, tutti potrebbero scrivere Mi ricordo, ma nessuno potrebbe evocare gli stessi suoi ricordi. In definitiva, si tratta di un autentico e dichiarato appello alla memoria individuale, i cui tratti ne possono anche formare una collettiva trasversale: per esperienze analoghe, allineamento generazionale, affinità e altro ancora, molti ricordi sono comuni a più persone. Molti, ma non tutti nel proprio complesso. Ognuno può cimentarsi nel microricordo, che non esige né impone regole precostituite: ricordi liberi, richiami fugaci, riferimenti sollecitati. Ma anche annotazioni mirate. Si può ricordare con la consapevolezza e coscienza di farlo, come si può arrivare al ricordo inconsciamente, stando a tavola, alla tastiera del proprio computer, con l’occhio al mirino della propria macchina fotografica, osservando -ormai raramente?- il vetro smerigliato sul quale l’inquadratura si proietta rovescia. La discriminante non è il ricordo in sé, ma la voglia di annotarlo, per non lasciarlo più sfuggire tra le pieghe delle consecuzioni quotidiane, che sostituiscono continuamente ciascun ricordo con un altro nuovo ricordo, in una concatenazione senza fine e finalità. Cosa diamine mi ricordo dei tempi vissuti in fotografia? Ora è più che mai necessario ricordare, perché in troppi vogliono farci dimenticare! Comunque, ecco qui Marina Viola, da Fotografie, in Mio padre è stato anche Beppe Viola. Mi ricordo quando mi chiedevi, dopo cena, di andarti a prendere le sigarette nella giacca, e io annusa-
vo la giacca per avere un po’ di te. Mi ricordo quando, la domenica mattina, stavamo a letto a farci le coccole e chiamavamo la mamma, in cucina, dicendo: “Uno, due, tre, maaaammmaaaaa”, e lei si presentava, un po’ scocciata, ma felice. Mi ricordo quando sei venuto a prenderci alla stazione, dopo il campo estivo dell’Arci, ed ero felicissima di vederti, e tu di vedere me. Mi ricordo quando io e Renata telefonavamo a te e alla mamma da casa della signora Offredi, a Herne Bay, e cercavamo di raccontarvi nei dettagli le nostre avventure inglesi. Mi ricordo quando io, te e le sorelle avevamo organizzato la “banda dei dolci”, e tutti e quattro, un po’ sghignazzando, avevamo giurato sul Vangelo con la copertina amaranto del catechismo che sarebbe stata una banda segreta. Tu fornivi i soldi, e noi andavamo allo spaccio del Motta a comprare di tutto, e nascondevamo il bottino nell’armadietto delle scarpe, per mangiarlo di nascosto. Puzzava tutto di lucido da scarpe. Mi ricordo quando ci venivi a prendere a scuola, e tutti i miei compagni, che normalmente mi ignoravano, venivano a chiederti l’autografo. Mi ricordo quando è morto tuo padre, nonno Mario, e tu e la mamma siete venuti alla Canonica per dircelo, e io ti ho chiesto se eri triste, e tu non hai detto niente. Mi ricordo quando ti ho fatto leggere il mio tema ed eravamo io e te, in sala da soli, e tu mi hai detto che scrivevo bene e che eri fiero di me. Mi ricordo quando ci portavi in Rai, durante la Domenica Sportiva, e facevi il tuo lavoro come facevi il resto delle tue cose: senza sforzo, con naturalezza, e io pensavo che tu fossi il migliore. Mi ricordo che non volevo mai andare in macchina con te perché andavi troppo veloce e mi veniva da vomitare, ma tu ci rimanevi male se volevo andare con zio Bruno e dicevi: “Sono io tuo padre...”. Mi ricordo quando io, Renata e Anna ti facevamo le interviste e tu non le prendevi mai sul serio. Mi ricordo quando Renata era la Carrà, io Mina e Anna la Vanoni e facevamo gli spettacoli, e tu e la mamma facevate a turno ad andare in cucina a ridere.
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Mi ricordo (si ricorda) Mi ricordo quando nella notte sentivo la porta dell’ascensore arrivare, ed eri tu, e io potevo finalmente addormentarmi. Mi ricordo quando è morto il tuo amico, che io ero sveglia a letto, e tu sei venuto da me che puzzavi di vino e mi hai detto: “Quando un amico muore non bisogna piangere, sennò lui si offende”. Mi ricordo che volevo gli stivali come quelli della mia amica Angela e io e te siamo andati a comprarli con il tram, e tu non avevi il biglietto e hai chiesto a una signora di vendertene uno, e lei ha detto che non ne aveva, ma poi ha capito che eri Beppe Viola e te ne voleva vendere uno e tu le hai detto: “No, grazie”. Mi ricordo che quando è uscito il tuo libro ci mandavi nelle librerie a chiedere se ce l’avevano. Mi ricordo il tuo quarantesimo compleanno, con i tuoi amici a casa nostra e io e le sorelle col grembiulino uguale ma di diverso colore. Mi ricordo che quando mi portavi dall’oculista e lui diceva che c’era bisogno di occhiali nuovi andavamo nel negozio e me ne compravi sempre tre paia per farmi felice. Mi ricordo che mi davi mille lire per leggere i tuoi articoli al telefono a qualcuno che li stampava, e che mi dicevi: “Ricordati i punti e le virgole”, e lo stenografo dall’altra parte della cornetta continuava a ridere e io pensavo ridesse di me, mentre rideva del tuo articolo che gli stavo leggendo. Mi ricordo quando raccontavi della tua mamma, che ne parlavi sempre come quelli che parlano di un eroe. Gli occhi diventavano felici, ma anche tristi. Mi ricordo che quando telefonavi e rispondevo, dicevi: “Chi sei?” e io mi scioglievo. Mi ricordo la felicità nel sentire il tuo odore in ascensore quando tornavo da scuola, perché sapevo che eri a casa. Mi ricordo quando mi hai dato diecimila lire per la merenda a scuola, e io ero abituata alle cinquecento lire della mamma e che quel giorno lì ho comprato la merenda a tutti i miei compagni. Mi ricordo quando arrivavi a casa e il corridoio sorrideva, e anche la cucina, e anche la sala e anche
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il tinello, e anche e soprattutto la mamma. Mi ricordo quando baciavi la mamma e noi dicevamo: “Che schifo” e tu dicevi che le volevi bene. Mi ricordo quando, non appena ci mettevamo a tavola per cena, immancabilmente squillava il telefono e tu dicevi: “Dite che non ci sono” e noi dicevamo: “Ha detto papà di dire che non c’è”. Mi ricordo quando mi hai scritto una lettera e l’hai lasciata nella busta sulla mensola del tinello e hai detto che potevo leggerla dopo mangiato, e io ho mangiato tanto in fretta che avevo mal di pancia. Mi ricordo quando te le scrivevo io, le lettere, te le lasciavo sotto il cuscino e tu dopo averle lette mi chiedevi di venire in braccio e mi sussurravi le parole che volevo sentire da te. Mi ricordo che quando eri arrabbiato teso lo capivo subito da come muovevi i muscoli della mascella. Mi ricordo che fumavi tenendo la sigaretta attaccata proprio alla fine delle dita che sembrava dovesse cadere. Mi ricordo quando la mamma era incinta di Serena, e sceglievate i nomi e la mamma ha proposto Chiara e tu hai risposto che Chiara Viola fa lillà. E che quando è nata, alle sei del mattino, sei andato fuori a citofonare a tutti. Mi ricordo quando ti coricavi sul divano e ci insegnavi a fare la bicicletta sforbiciando piede contro piede. Mi ricordo quando io e Fabio facevamo la vedetta a Stadera e poi a San Fedele, aspettando le macchine all’ultima curva per vedere la tua Lancia rossa o la Ford blu di zio Bruno. Mi ricordo che eri sempre in mutande e a piedi nudi, anche d’inverno, e che le tue mutande erano bianche o azzurre. Mi ricordo che una vigilia di Natale, alle undici di sera, hai proposto di andare da Gattullo a comprare delle caramelle da mettere sull’albero. Mi ricordo che quando toccava a te accompagnarci a scuola arrivavamo sempre in ritardo e io avevo l’ansia e volevo essere come Anna che invece era contenta di arrivare in ritardo.
L’incompiuter, di Enzo Jannacci e Beppe Viola; Bompiani, 1974.
Mi ricordo quando ti sei messo a piangere e io credevo di morire. Mi ricordo quando, in mutande, ballavi per farci ridere mettendo le mani sulle ginocchia. Mi ricordo quando mi facevi le carezze, che poi erano come un grattino che rimbomba nel cervello, la cosa più bella e più dolce che abbia mai provato. Mi ricordo che quando la mamma ci sgridava tu le dicevi di non alzare la voce, che il mio cuore batteva troppo forte. Mi ricordo che Renata era grandona, io la tua piccola e dolce Marina, Anna era briciola e Serena un mossstro di bellezza. Mi ricordo quando dicevi che io ero oca perché ero talmente distratta che quando pioveva entravo sempre a scuola con l’ombrello aperto. Mi ricordo quando mi hai portato al pronto soccorso perché facendo ginnastica mi ero procurata un taglio sotto il mento. Mi ricordo quando, le rare volte, eppure è successo, andavi a parlare con le maestre a scuola, e le vedevo ridere pensavo: Anche questa volta è fatta. Mi ricordo il Capodanno alla Canonica, che avevate invitato mezza Milano, e zia Milena aveva tante collane bellissime e la gonna fino ai piedi, e che eri felice di avere tutti lì. Mi ricordo quando dicevi che da lunedì eri a dieta. Mi ricordo quando avevi invitato degli amici a casa nostra, e uno di loro era arrivato in ritardo, tu hai fatto nascondere tutti dietro il divano, ti sei spogliato nudo, hai aperto la porta e gli hai detto: “Ma è questa l’ora di presentarsi? Io ero a letto...”. Mi ricordo il tuo profumo e il tuo senso dell’onestà. E poi... Poi mi ricordo quando per l’ultima volta hai preso la porta delle scale per andare a lavorare e non sei più tornato. Già: poeti dell’esistenza. (Circa) «Mi ricordo quella volta sul tram; tu non avevi il biglietto, e hai chiesto a una signora di vendertene uno, e lei ha detto che non ne aveva, ma poi ha capito che eri Beppe Viola e te ne voleva vendere uno e tu le hai detto: “No, grazie”». Già... i poeti! No, grazie. ❖
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Cinema
di Maurizio Rebuzzini - Ricerca iconografica di Filippo Rebuzzini
SIR LAURENCE OLIVIER
S
Sulle doti interpretative di sir Laurence Olivier non servono nostre parole: per propria personalità (altrimenti indirizzata), sarebbero/risulterebbero inadeguate e inopportune rispetto quelle che sono (state) espresse da voci qualificate. Soltanto, dal nostro punto di vista mirato e finalizzato, annotiamo un attraversamento fotografico del grande e celebrato attore inglese (1907-1989), capace di calcare sia grandi palcoscenici teatrali, sia set cinematografici. E poi, eccoci qui, si annota anche una sua testimonianza per il lancio della Polaroid SX-70, la prima a pellicola integrale (a colori autosviluppanti), commercializzata e promossa con uno spot televisivo dal 1972. Prima di incontrare richiami cinematografici di questa vicenda, che sono ingrediente del nostro appuntamento redazionale (giornalistico?), è doveroso ricordare che il cambio di passo della fotografia a sviluppo immediato -pronta una manciata di secondi dopo lo scatto- fu epocale. Le differenze tra i filmpack con pellicola a strappo, che, comunque, è rimasta sul mercato, approdando anche ai nostri giorni (con una attualità interpretata soltanto da Fujifilm), e il caricatore per pellicola integrale sono sostanziali. Ne consegue il soggetto dello spot televisivo interpretato da sir Laurence Olivier, in funzione almeno doppia: testimonial di
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prestigio e insegnante, che racconta e spiega le funzioni operative del sistema e le sue sostanziose prerogative tecniche e di contenuto.
SPOT POLAROID SX-70 Ancora in anticipo sulla promessa (e doverosa) combinazione cinema-fotografia, nel senso di fotografia al/nel/ con il cinema, è opportuno ripercorrere il cammino pubblicitario della (compianta) Polaroid Corporation, che, nel 1972, approdò a sir Laurence Olivier al culmine di una sostanziosa frequentazione di personaggi-testimonial di prestigio e valore, oltre che popolarità. Nella sua fantastica e avvincente biografia-storia Land’s Polaroid - A company and the man who invented it, del 1987 (pubblicata in Italia, da Sperling & Kupfer Editori, nel 1989, come Edwin H. Land e la Polaroid [FOTOgraphia, febbraio 1997, febbraio 2007 e novembre 2008]), Peter C. Wensberg (1929-2006), che lavorò alla Polaroid Corporation per ventidue anni, arrivando alla carica di vicepresidente esecutivo, cita tutte le celebrità che hanno “flagellato” Polaroid e le sue pellicole. Con l’eccezione di Garry Moore (stella statunitense degli anni Sessanta), che ha ottenuto due richiami in Indice (della sola edizione originaria; ahinoi, con la solita e proverbiale superficialità italiana, la traduzione è priva dell’utile Indice dei nomi citati ),
(pagina accanto) Nota doverosa: Last Action Hero L’ultimo grande eroe, di John McTiernan, del 1993, è un film che merita tanta attenzione da parte di coloro i quali si occupano di fotografia. Infatti, la vicenda offre consistenti spunti di riflessione sulla finzione cinematografica contrapposta alla realtà della vita... o al contrario. Per quanto ci riguarda, qui e oggi, la sceneggiatura del film avvicina una vicenda fotografica: quella dello spot televisivo, del 1972, con sir Laurence Oliver, testimone di prestigio per il lancio della Polaroid SX-70.
In Last Action Hero, l’interpretazione cinematografica dell’Amleto, di Shakespeare, di sir Laurence Olivier è accostata al suo spot televisivo per la Polaroid SX-70.
Cinema tutti i testimonial sono menzionati una sola volta; anche la più famosa coppia-portavoce James Garner e Mariette Hartley, che ha attraversato le stagioni, passando dall’SX-70 di partenza alle interpretazioni tecniche di profilo commerciale più agevole, è stata menzionata solo nel Prologo. Invece, sir Laurence Olivier è richiamato in quattro passaggi. In particolare, Peter C. Wensberg ricorda che quando propose l’attore inglese come testimonial per il lancio televisivo della SX-70, «Edwin H. Land aggottò la fronte e tacque». Subito, è obbligatoria una precisazione: oltre il valore della notorietà di un celebre attore e il prestigio sociale di un lord inglese, va considerato anche che sir Laurence Olivier si era impegnato per recitare soltanto in pubblicità Polaroid: «È un grosso complimento», sottolineò Peter C. Wensberg. Nonostante le perplessità del presidente (e fondatore) Edwin H. Land, espresse con il silenzio, l’accordo fu concluso, e si programmarono quattro spot, da girare e registrare sul palcoscenico del Thèâtre National, di Parigi. In anticipo sulla presentazione pubblica della Polaroid SX-70, il cui successo commerciale sarebbe stato indispensabile all’azienda, sir Laurence Olivier si comportò in maniera superba: percorreva il palcoscenico impugnando la macchina fotografica folding di dimensioni compatte; «La sua voce era uno strumento di incredibile estensione e raffinatezza, ma come molti altri, aveva difficoltà a pronunciare “SX-70”», rileva e rivela Peter C. Wensberg [il video, di bassa qualità (ahinoi), è pubblicato all’in-
dirizzo www.youtube.com/watch?v =eDB9Ty3WPBc]. Ancora da Land’s Polaroid - A company and the man who invented it / Edwin H. Land e la Polaroid: «[sir Laurence] Olivier aveva affrontato i filmati pubblicitari per la televisione con lo stesso impegno che dedicava a ogni ruolo. Ripeteva trenta volte la stessa battuta, non perché glielo chiedesse il regista, ma per provare tutte le variazioni di quel meraviglioso strumento musicale, e ogni lettura era diversa». E la stessa professionalità mi è stata confermata ricordo personale, ma non solo privato- da Allan D. Verch, ai tempi a capo della comunicazione Polaroid, che sottolineò la disponibilità sul set del celebre attore, per nulla supponente, per nulla presuntuoso... malgrado -secondo certe intenzioni e interpretazioni di stampo italiano- avrebbe potuto (dovuto?) permettersi il contrario: supponenza e presunzione.
CITAZIONI AL CINEMA La vicenda dello spot televisivo della Polaroid SX-70, finalizzato al suo lancio commerciale, attraversa due sceneggiature cinematografiche. Una la risolviamo subito, oltre che in fretta. Nel dialogo di La febbre del sabato sera (in originale Saturday Night Fever), di John Badham, del 1977, lo spot è richiamato da Stephanie, compagna di ballo del protagonista Tony Manero (rispettivamente, nelle interpretazioni di Karen Lynn Gorney e John Travolta). Receptionist in una agenzia pubblicitaria di New York City, una sera, Stephanie vanta la visita di un attore famoso. Chi?, domanda Tony Manero: circa, «Non so il nome, ma è quello che ha fatto la pubblicità della Polaroid». Più articolata è la menzione in Last Action Hero - L’ultimo grande eroe (in originale, soltanto Last Action Hero), del 1993, di John McTiernan, su sceneggiatura di Zak Penn e Adam Leff. Anzitutto, rileviamo che si tratta di un film esemplare, degno di grande attenzione: è un vicenda fantastica, che ruota attorno la finzione cinematografica, contrapposta alla realtà della vita. Di questo si tratta: il giovane Danny Madigan (interpretato da Austin O’Brien) è un appassionato di cinema, fanatico di Jack Slater (Arnold Schwarzenegger), eroe alla quarta pun-
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Cinema cora: «Ma questo è un film!... Sono dentro il film. Porca vacca... sono in un film!». E nello svolgimento avverte il suo eroe Jack Slater di stare attento a chi gli sta attorno: «Attento, Jack, quello ha ucciso Mozart», riferendosi all’attore F. Murray Abraham, qui nei panni del detective John Practice, collega di Slater alla Centrale di polizia di Los Angeles, e/ma Antonio Salieri nel precedente film Amadeus, di Milos Forman, del 1984, biografia di Wolfgang Amadeus Mozart (interpretato da un versatile Tom Hulce). PAOLO BEGOTTI
tata della propria serie, che per una circostanza miracolosa finisce nel film del suo paladino. Da cui... ecco le considerazioni finzione/realtà che compongono l’ossatura della sceneggiatura, che offre consistenti spunti di riflessione a coloro i quali -noi tra questi- si occupano di immagine, di linguaggio visivo e contorni. «Sta accadendo? Sta veramente accadendo?», si domanda -esterefatto- Danny, quando si rende conto di essere stato proiettato nella vicenda del film che stava guardando. An-
[nota] A questo proposito, leggiamo da Dolenti declinare (rapporti di lettura all’editore), di Umberto Eco, in Diario minimo (1963 e numerose edizioni successive): «Anonimi. La Bibbia. Devo dire che quando ho cominciato a leggere il manoscritto, e per le prime centinaia di pagine, ne ero entusiasta. È tutto azione e c’è tutto quello che il lettore oggi chiede a un libro di evasione: sesso (moltissimo), con adulteri, sodomia, omicidi, incesti, guerre, massacri, e così via. «L’episodio di Sodoma e Gomorra, con i travestiti che vogliono farsi i due angeli, è rabelasiano; le storie di Noè sono del puro Salgari; la fuga dall’Egitto è una storia che andrà a finire, presto o tardi, sugli schermi... Insomma, il vero romanzo fiume, ben costruito, che non risparmia i colpi di scena, pieno di immaginazione, con quel tanto di messianismo che piace, senza andare nel tragico. «Poi, andando avanti, mi sono accorto che si tratta invece di una antologia di vari autori, con molti, troppi, brani di poesia, alcuni francamente lamentevoli e noiosi, vere e proprie geremiadi senza capo né coda. Ne viene fuori così un omnibus mostruoso, che rischia di non piacere a nessuno, perché c’è di tutto. E poi sarà una grana reperire tutti i diritti dei vari autori, a meno che il curatore non tratti lui per tutti. Ma di questo curatore non trovo mai il nome, nemmeno nell’indice, come se ci fosse ritegno a nominarlo. «Io direi di trattare, per vedere se si possono pubblicare a parte i primi cinque libri. Allora andiamo sul sicuro. Con un titolo come I disperati del Mar Rosso».
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Sir Laurence Olivier e George Roy Hill (regista), in pausa durante le riprese del film A Little Romance (in Italia, Una piccola storia d’amore); Venezia, settembre 1978.
Ma non è questo che conta oggi, per quanto conti molto nella riflessione -già annotata- tra realtà e fantasia, tra vero e illusione, che riguarda il profondo del linguaggio visivo, nella fattispecie della fotografia nel proprio insieme e complesso. Invece, per quanto concerne l’attuale e odierna considerazione, ci interessa che in Last Action Hero L’ultimo grande eroe si approda allo spot Polaroid recitato da sir Laurence Olivier, in veste di testimonial. Siamo a scuola, siamo in aula, durante una lezione alla quale Danny partecipa con non celata svogliatezza. Interpretata dalla brava caratterista Joan Ploweight (tante le sue parti cinematografiche: verificare in proprio), l’insegnante presenta l’Amleto, di Shakespeare: «Tradimento, cospirazione, sesso, duelli con la spada, pazzia, fantasmi... e alla fine muoiono tutti. L’Amleto, di Shakespeare, non potrebbe essere più entusiasmante» [nota]. Ancora l’insegnante: «Nonostante Amleto possa sembrare incapace di qualsiasi tipo di azione, in realtà egli è uno dei principali eroi dell’azione». Quindi, eccoci, presentando una proiezione cinematografica selezionata: «Quella che state per vedere è una scena tratta dal film con Laurence Olivier [interprete e regista; film in bianconero, del 1948]. Alcuni di voi l’avranno visto nella pubblicità della Polaroid». Per l’appunto! Ovviamente, nella fantasia del giovane Danny Madigan, Arnold Schwarzenegger / Jack Slater si inserisce e accavalla all’azione cinematografica originaria. A questo proposito, in tema di sovrapposizione cinematografica, altra citazione d’obbligo, e poi basta. A quindici anni dalla scomparsa, Laurence Olivier (oggi soggetto) è comparso in cameo nel film Sky Captain and the World of Tomorrow, di Kerry Conran, del 2004: altra sceneggiatura/scenografia con consistente retrogusto fotografico [ne abbiamo riferito, nel dicembre 2005]. Grazie agli effetti speciali, negli ultimi minuti, Laurence Olivier, mancato nel 1989, appare sotto forma di ologramma nei panni del dottor Totenkopf: il malvagio scienziato che vuole distruggere la Terra. Basta qui (e avanza?). ❖
Regione del Niassa; Mozambico, 1981.
(pagina accanto) Corteo di operai Alfa Romeo; Milano, 21 gennaio 1972.
Allestita a Sesto San Giovanni, alle porte di Milano, Uliano Lucas. La vita e nient’altro - Cinquant’anni di viaggi e racconti di un fotoreporter freelance si offre e propone come autentica antologica di uno dei più significativi e performanti fotogiornalisti dei nostri giorni (con radici che affondano indietro nei decenni). Registriamo l’evento, con accompagnamento di una approfondita riflessione sull’autore firmata da Pino Bertelli, immancabile situazionista che onora le nostre pagine con i suoi Sguardi su
FOTOGIORNALISMO 26
SENZA PADRONI
Dormitorio nell’ex casa di tolleranza di via Fiori Chiari; Milano, 1963.
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di Maurizio Rebuzzini e Pino Bertelli
A
llora: ne siamo più che convinti. Osservando dalla prospettiva della fotografia -nostro territorio statutario e di incontro, oltre che momento fondante della nostra esistenza individuale (e sono/sarebbero fatti nostri... forse)-, il dopoguerra italiano è stato illuminato da una fantastica e superlativa quantità e qualità di fotogiornalisti, che hanno osservato la vita nel proprio svolgersi con straordinaria capacità e registrato con altrettanta intelligenza i microcambiamenti della nostra società, e di quella planetaria. A questo proposito, oltre che in consistente conferma, tra tante altre testimonianze e certificazioni, spiccano iniziative/studi/riflessioni/indagini/esplorazioni curate da Uliano Lucas, uno dei protagonisti indiscussi della stagione. Ne abbiamo già riferito, e rimandiamo: prima di tutto, all’ottobre 2006, per la presentazione della rassegna Il fotogiornalismo in Italia 1945-2005, appuntamento espositivo che si è allungato nel tempo e spazio con l’edizione di un coincidente volume-catalogo: approfondita analisi di sessant’anni di fotografia di informazione (e formazione?), realizzata con sapiente individuazione di Linee di tendenza e percorsi. Ribadiamo ancora: non una fotogra-
fia di superficie, isolata in se stessa, ma una concentrata ricostruzione del fotogiornalismo in tutte le proprie componenti, nell’esplicito riferimento al proprio uso sui giornali, potere politico ed economico compreso. Quindi, oltre altri passaggi “minori”, come -per esempio- l’annotazione dell’allestimento a Montpellier, in Francia, della stessa mostra (in FOTOgraphia, del giugno 2007), registriamo anche una ulteriore presentazione in occasione delle successive date espositive a Cagliari, in Sardegna (FOTOgraphia, novembre 2008). Bene: l’attento Uliano Lucas ha l’indiscutibile merito di aver censito l’evoluzione del fotogiornalismo italiano moderno e contemporaneo, e anche quello di aver affrontato l’intero corpus della fotografia italiana per il ventesimo volume dell’opera enciclopedica Storia d’Italia, di Einaudi, pubblicato nel 2004 come L’immagine fotografica 1945-2000. In stretta attualità, registriamo anche e ancora il coordinamento della recente collettiva Prove di fotografia. Anni ’60 - Anni ’70, che ha specificato I fotografi con il Gruppo ’63, presentata alla Fondazione Mudima, di Milano, fino allo scorso trentuno ottobre.
ULIANO LUCAS: FREELANCE Ora, al culmine di una intera esistenza svolta nel fotogiornalismo, scandita anche da mostre personali e
Gruppo di artisti al Genis Bar, di via Brera; Milano, 1964.
partecipazioni a collettive di spessore e prestigio, la personalità fotografica di Uliano Lucas (www.uliano lucas.it) è letteralmente celebrata dall’antologica Uliano Lucas. La vita e nient’altro - Cinquant’anni di viaggi e racconti di un fotoreporter freelance, in cartellone allo SpazioArte, di Sesto San Giovanni, alle porte di Milano, dal ventidue novembre al ventidue dicembre. Riprendendo il titolo di una monografia del 2004, per l’appunto La vita e nient’altro, con testo di Francesco Genitoni (Edizioni Les Cultures), la mostra è promossa da Fondazione Isec e Comune di Sesto San Giovanni, in collaborazione con l’Istituto Lombardo di Storia Contemporanea. In stretti termini temporali, questa imponente rassegna, che può contare su spazi espositivi di ampie metrature, capaci di accogliere effettivamente una intera “vita”, si svolge a ridosso di un recente appuntamento di analogo valore, presentato in sede di altrettanto prestigio (ma spazio inferiore, nel quale si è dovuto mediare tra informazione e logistica): Uliano Lucas. Antologica, alla Wave Photogallery, di Brescia, dal quattordici settembre al diciassette ottobre. Contrariamente a quanto in uso nel nostro (buffo) paese, personalmente non riteniamo legittimo valutare il fotogiornalismo in senso critico ed estetico (estetizzante?). Diversamente, e magari allineandoci
alla cultura statunitense (che si basa su una società a base protestante, diversa dal nostro cattolicesimo, che sollecita, fino a richiederla, autoreferenzialità e che antepone il diritto al dovere), pensiamo che il fotogiornalismo vada considerato non in relazione alla somma delle immagini che esprime, ma in dipendenza delle azioni e intenzioni degli interpreti. Così, secondo noi, non c’è fotografia di Uliano Lucas che debba essere vivisezionata e analizzata per se stessa, oppure in combinazione con altre; così come, con percorso identico, non ci sono fotografie di giornalismo che richiedano altrettanta separazione e/o scomposizione. Invece, reputiamo doverose e necessarie considerazioni sull’azione dei fotografi. Le parole compiacenti (e autocompiacenti) le lasciamo ad altri, che hanno pieno diritto di esprimerle e proporle. Noi, no. Noi agiamo diversamente (non necessariamente meglio, soltanto diversamente). Da cui, rimandiamo a nostre precedenti considerazioni espresse su Uliano Lucas, sollecitando il gusto e garbo delle retrovisioni e della conservazione d’archivio di parole e immagini che possano avere qualsivoglia senso. Però! Però, non rinunciamo a riprendere passaggi dallo Sguardo su, di Pino Bertelli, datato diciotto volte gennaio 2008, pubblicato in FOTOgraphia, del marzo 2008, che consideriamo testo esemplare.
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Emigrati tornano in Marocco da Milano, per le vacanze; Marocco, 18 luglio1996.
In ripetizione d’obbligo, confermiamo di essere raramente allineati con Pino Bertelli, ma rispettiamo l’autonomia e intelligenza delle sue opinioni e posizioni, e siamo grati alla sua sensatezza in forma di contrapposizione (da e con il suo esemplare pamphlet Contro la fotografia della società dello spettacolo, pubblicato da Massari, nel 2008: uno dei testi che consideriamo irrinunciabili !).
SGUARDO SU ULIANO LUCAS (in alto) In un comando del Fronte popolare di liberazione dell’Eritrea; 1974.
(in alto, a destra, centropagina) La mensa del villaggio per orfani gestito dall’organizzazione umanitaria Terres des Hommes; Jari, Etiopia, 1996.
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In estratto dallo Sguardo su Uliano Lucas, di Pino Bertelli (diciotto volte gennaio 2008, in FOTOgraphia, del marzo 2008). Fotografare è imparare a vivere. All’inferno non c’è nulla che ci attenda senza lacrime e sangue; la nostra vita è qui, dice la fotografia della povertà. Di più. La scrittura fotografica del dissidio figura la congiunzione tra curiosità intellettuale e sensibilità etica. Il dialogo e gli scambi tra culture favoriscono un’accoglienza etica e regole generali di convivenza. L’incontro delle diversità è ricchezza. I diritti umani non rispondono alle prediche della modernizzazione occidentale, ma alle sfide della società multietnica che viene. Il compito della fotografia della povertà è quello di esprimere le diversità multiculturali e rigettare giustificazioni e legittimazioni delle demo-
crazie armate. La pace si fa con la pace e non con le bombe. [...] «La critica della violenza è la filosofia della sua storia» (Walter Benjamin). La fotografia della povertà è uno sguardo che si pone contro e non si fa complice della violenza che conserva il diritto del dominatore e oppone una “violenza creativa”, figurativa, ereticale che la smaschera. La “violenza creativa” rappresenta se stessa, e nell’esposizione del proprio dolore estremo mostra l’esistenza degli ultimi della Terra come tale. La “violenza del sacrificio” non è spettacolare, né si presta al mercimonio di nessuna ragione che non sia la fine del privilegio e della sopraffazione. Poiché la violenza del potere conserva l’egemonia sulle genti attraverso la mercificazione di terrorismi, guerre, catastrofi, e il riduzionismo economico fa il resto, la fotografia della povertà è un mezzo per combattere, smascherare, denunciare il legame tra povertà e violenza che fuoriesce dalle scelte dei governi occidentali in materia di politica estera. In Russia, Cina, Africa, America Latina e in molti altri paesi del mondo i diritti umani sono calpestati; ma gli affari sono affari, e il sangue innocente che scorre mostra la banalità dell’economia e l’inadeguatezza della politica. Gli impoveriti non hanno patria. «Coloro che stanno
al governo appartengono a una classe sociale differente da quella cui appartengono le vittime delle carestie, e, in genere, nessuno di loro deve subire le umiliazioni» (Amartya Sen). La filosofia di amore e libertà che la fotografia della miseria porta in sé denuncia l’intoccabilità dei governanti di ogni risma, e ha come intima utopia l’eliminazione della povertà e dell’ineguaglianza. [...] La fotografia randagia di Uliano Lucas è stata costruita sul tavolo ruvido della realtà offesa e non ha temuto di perdere il tanfo della popolarità e ha declamato la verità della cronaca rivestendola dell’abituale arroganza che molti hanno deputato alla fotografia sociale. Subito, la fotografia randagia di Uliano Lucas è stata trasversale al mercantilismo delle idee e ha stabilito che è meglio mangiare fagioli da uomini liberi che gli avanzi delle torte alle mele da schiavi. La sua scrittura inconografica è una ricerca al contempo segnata dalla visione solitaria del fotogiornalista sganciato dai luoghi comuni e fortemente “calda” e partecipata dal punto di vista umano. Nei suoi ritratti di strada si comprende presto che il benessere di un uomo non dipende soltanto da quanto guadagna, ma se è escluso o è parte emarginata delle risorse e delle ricchezze dell’intera comunità.
Quella di Uliano Lucas è un’immagine dell’ascolto e della riflessione. È uno stare in mezzo agli ultimi e combattere la libertà dei più forti, credo. È mostrare che tre quarti di umanità si trova in situazione di bisogno, e soltanto un quarto possiede quasi tutte le ricchezze della Terra. La libertà, come l’amore, non ha frontiere; e quando è calpestata, è calpestata anche la dignità dell’intera umanità. [...] Della fotografia randagia di Uliano Lucas. A partire dal profondo. A vedere le prime pubblicazioni [...] non possiamo non restare affascinati dalla forza, anche irruente, delle sue inquadrature. È innegabile che il lavoro formale di Uliano Lucas comunica un sentimento sociale e una pratica della bellezza non comuni. Il fotografo milanese non ricerca il “bello” da esposizione, né si conforma al reportage baciato dal clamore della cronaca. Le sue fotografie fissano il mondo deformato e lo stupore di rovesciarlo. Non contemplano il mucchio di rovine annunciate della società dello spettacolo, ma contengono la bufera esistenziale che sospinge le genti in rivolta a ritroso del futuro. Ancora. La fotografia randagia di Uliano Lucas è avvolta da una luce saturnina, epifanica, aurorale, che porta la tragicità della storia nel libero cielo dell’utopia, e le sue immagini diventano messaggeri di antiche dissoluzioni della tradizione dominante.
Controllo dati bancari alla BID Liguria; Genova, Cornigliano-Campi, 1994.
(in alto) Stabilimento dell’industria Alfa Romeo; Arese, 1978.
(in alto, a sinistra, centropagina) Orfanatrofio indu; Pune, Maharashtra, 1981.
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Quartiere Paolo VI; Taranto, circa 1995.
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Solo chi ha avuto fame può raccontare la miseria. Chi dunque può parlare (con ogni mezzo) della verità, se non coloro che l’hanno vissuta? Chi è stato allevato nella pubblica via sa che tutte le rivoluzioni iniziano nella strada e muoiono in parlamento. C’è della ribellione nella fotografia randagia d’ogni porto o taverna, perché osa immaginare che ci si possa ribellare all’ordine costituito. La fotografia randagia di Uliano Lucas segna l’istante nel quale la realtà e la verità sono accadute o passate, e porta una nuova visione dell’esistenza che risplende in ciò che realmente è. Il suo rapporto con Edgardo Pellegrini, giornalista e compagno di tanti viaggi, di libri e discussioni, lo porta ad approfondire una fotografia di attualità, politica o di costume di grande profondità e comunicazione autoriale. Le sue immagini sul disastro di Seveso, sulle carceri di San Vittore e sulla tossicodipendenza desacralizzano l’ipocrisia e la barbarie rimossa dai centri di potere, mostrano senza veli la cocente disfatta di una società in decomposizione. L’amore, la creatività e la conoscenza che sono alla base della sua fotografia esprimono l’emancipazione dell’uomo da una morsa storica che porta in sé la propria rovina. Sotto un certo taglio, le immagini “povere” di Uliano Lucas sdoganano l’effimero e l’ingannevole dei consumatori di si-
mulacri, e rigettano l’emergere di una vita ridotta a sopravvivenza. [...] A leggere con cura le immagini del margine di Uliano Lucas non è difficile scorgere sui volti degli ultimi i seminamenti di una nuova civiltà dell’amore e della fraternità, la rivendicazione del diritto di non condividere le scelte suicide dell’economia-politica e gettare -attraverso l’iconologia della povertà- schegge di resistenza, di sdegno e di rifiuto contro la dittatura dell’idiozia. La fotografia randagia di Uliano Lucas esprime un agire per il rovesciamento di prospettiva della realtà impoverita, un reinventare l’umano, la ricostruzione intima dell’uomo liberato dalle approssimazioni e dalle deleghe che lo ingabbiano nel trionfo della merce e della vita artificiale. Il reportage di Uliano Lucas abolisce la propaganda e il totalitarismo dell’immagine edulcorata; al di là di ogni ideologia del vuoto, elabora un’ipotesi di società della felicità o -forse- è meglio dire, una critica radicale dell’umanitarismo mercantile, nel quale tutti i giochi sono ormai fatti prigionieri dell’industria culturale. Ci passano negli occhi le immagini degli emigranti, dei centri di salute mentale, degli operai in fabbrica, dei giovani in rivolta, delle periferie metropolitane, dei ribelli neri, delle vite sciupate dalla “polvere degli angeli”, che Uliano Lucas è ri-
uscito a raccontare -come pochi in Italia- con la veridicità ereticale dei poeti di strada, arrivando ad aprire sentieri e rizomi comunicazionali che hanno figurato la contiguità tra fascismo e democrazie dello spettacolo. Però, non è un’estetica dell’ottimismo, quella che esprime la fotografia di Uliano Lucas, né una predica del pessimismo diretta contro il consenso generalizzato. Uliano Lucas scippa alla vita una ritrattistica che denuncia l’origine dell’impostura e non si accontenta nemmeno di mostrare la nevrosi quotidiana di una servitù volontaria, legata alle forche della pubblicità: lascia i ruoli del disumano ai frequentatori della cronaca facile e porta la poesia del quotidiano fuori dall’impotenza collettiva. La scrittura fotografica di Uliano Lucas è fatta di momenti rubati alle macerie della civiltà. Le sue fotografie rimettono al centro l’autonomia individuale, senza la quale i popoli cadono facile preda di tutti poteri. La pietas laica espressa nelle sue immagini si emancipa nello sguardo del fotografo, e i soggetti sono materiali di verità rovesciate che contribuiscono o sono parte dell’emancipazione e del dolore di un’epoca. In questo senso, nella propria presa diretta del sociale, le fotografie randagie di Uliano Lucas si trascolorano in anima universale dell’Uomo in rivolta e insorgono
contro la letargia dell’intelligenza, specie le più massacrate dagli dèi della ragione imposta. È strano. A vedere con cura l’insieme delle fotografie di Uliano Lucas si ha la sensazione di essere di fronte a una filosofia della sofferenza prolungata, ma anche all’ebbrezza della libertà che suscita il realismo degli insorti che continuano -giustamente!-, a pretendere l’impossibile. Il fotogiornalismo di Uliano Lucas si ritaglia in un linguaggio del qualitativo, che permette di disvelare la grossolana impostura del mercantilismo fotografico. Uliano Lucas fotografa il dolore, la povertà, la speranza; sa che la disuguaglianza è il prodotto delle fedi, delle politiche, dei saperi orchestrati sui banchi della ragione imposta. Le sue immagini mostrano l’incapacità degli uomini di guardare in faccia il proprio destino, o, forse, sono icone di uno spirito particolare che ha voltato le spalle alla scolastica, alle categorie, alle tecniche di assuefazione al dominio: una coscienza in cammino verso la scoperta di un’autentica verità o di una perduta utopia. Ciò è. Ekko qui! ❖ Uliano Lucas. La vita e nient’altro - Cinquant’anni di viaggi e racconti di un fotoreporter freelance; mostra promossa da Fondazione Isec e Comune di Sesto San Giovanni, in collaborazione con l’Istituto Lombardo di Storia Contemporanea. SpazioArte, via Maestri del Lavoro, 20099 Sesto San Giovanni MI (MM1 Sesto Marelli). Dal 22 novembre al 22 dicembre; martedì-domenica 15,30-19,30, giovedì fino alle 22,00.
In un ospizio per anziani; Mostar, Bosnia-Erzegovina, 1992.
(in alto) Galleria Vittorio Emanuele; Milano, 1991.
(in alto, a sinistra, centropagina) Case popolari del quartiere Zen; Palermo, 1991.
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A cinquant’anni dall’attentato di Dallas, nel quale è stato ucciso il presidente degli Stati Uniti John Fitzgerald Kennedy (22 novembre 1963-2013), ripercorriamo la cronaca giornalistica di quei giorni, sfogliando alcune (selezionate) pubblicazioni dell’epoca: sei testate statunitensi, con accompagnamento di una italiana. La combinazione fotografica asseconda le intenzioni di fondo delle singole
CRONACA DI Sette edizioni speciali dedicate a John F. Kennedy all’indomani dell’attentato mortale di Dallas, uno degli avvenimenti politici e sociali più scioccanti degli ultimi decenni. Rigorose le copertine di Life e del Post (prime due visualizzazioni, da sinistra); di buoni sentimenti quella di Epoca (al centro della doppia pagina); controversa quella di Look (terza illustrazione, da sinistra; riferiamo a pagina 41), quindi, tre monografie a tema: Look - Kennedy and his Family in Pictures, The News - Four Days e The News The torch is passed...
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di Antonio Bordoni
V
enerdì 22 novembre 1963 è una di quelle date epocali, che dalla cronaca passano immediatamente alla cronologia del mondo. Per gli Stati Uniti, poi, che quel giorno persero il proprio trentacinquesimo presidente, colpito a morte in un attentato dai contorni mai effettivamente chiariti, è una data che fa il paio con i più significativi riferimenti e richiami alla propria storia, al pari del più recente 11 settembre 2001 (Undici settembre, per antonomasia). Alcune revisioni politiche e giornalistiche dei nostri giorni, riportate dalla stampa internazionale più attenta, stanno correggendo la mielosa interpretazione che da decenni accompagna la presidenza di John Fitzgerald Kennedy, non più osservata dal punto di vista delle sostanziali riforme sociali introdotte dalla sua amministrazione, ma esaminata alla luce del contraddittorio atteggiamento di una disinvolta
politica estera, nel cui ambito si segnala addirittura l’avvio del rovinoso coinvolgimento nella funesta e dolorosa spirale del Vietnam. A differenza del cinquantenario dall’altrettanto immatura, e analogamente controversa, scomparsa di Marilyn Monroe (5 agosto 1962-2012; FOTOgraphia, luglio 2012), celebrato lo scorso anno da una consistente serie di iniziative e corrispondenti edizioni librarie di pregio e prestigio (a partire dall’affascinante monografia Norman Mailer / Bert Stern: Marilyn Monroe, della quale abbiamo riferito, in cronaca, nel febbraio 2012), gli imminenti e coincidenti cinquant’anni dall’attentato di Dallas si presentano avvolti nella nebbia. Addirittura, senza aspettare la data del presidente Kennedy, la recente ricorrenza dei cinquant’anni (ancora!) dallo storico discorso di Martin Luther King ha già assolto e risolto una concentrata serie di discorsi relativi al fantastico cammino contro la segregazione razziale negli Stati Uniti. Lo scorso ventotto ago-
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edizioni, più votate a celebrare la personalità ufficiale e pubblica del presidente -in odore di “beatificazione”- che a considerare la cronaca dei fatti che si proietta sulla Storia, con tutte le proprie implicazioni politiche, economiche e di Potere (quello vero). Lezioni di cattivo giornalismo, addirittura di non-giornalismo, al quale la fotografia ha fatto, involontariamente (?), da spalla. E altro ancora
UN DELITTO sto è stata rievocata la marcia su Washington di duecentocinquantamila afroamericani, di fronte ai quali Martin Luther King cominciò a parlare in modo evocativo, stabilendo un’altra delle date epocali del mondo moderno: «I have a dream», ho un sogno, è ora inciso su quel terreno, a imperitura memoria.
RITORNO AL NOVEMBRE 1963 Dal punto di vista fotografico, le questioni relative alla presidenza Kennedy sono marginali: riguardano il mondo politico e, casomai, una certa socialità (soprattutto alla luce delle rivelazioni sulla vita privata dello stesso presidente, della famiglia e dei parenti tutti). A distanza di cinquant’anni dagli avvenimenti, oggi, il nostro osservatorio si concentra -doverosamente- sulla comunicazione visiva allestita nei giorni caldi di quel fine novembre 1963, che è uno dei tormentoni ricorrenti del costume statunitense, costantemente richiamato in molte sceneggiature cinematografiche e in un consistente numero di romanzi; le
domande/questioni sono poi sempre le stesse: dove eri quanto hanno ammazzato Kennedy? [io, dodicenne, stavo giocando a scopa con Ieia (forse), l’ex portinaia che mi accudiva in assenza dei miei genitori, al lavoro], chi è il regista del presunto complotto?, in che modo e misura sono coinvolti nella vicenda i servizi segreti, l’Fbi, la Cia, la mafia e gli esuli cubani? Personalmente, possiamo testimoniare con quanto conservato negli archivi cui attingiamo per confezionare la nostra rivista, composto sia da pubblicazioni di attualità, sia da ritrovamenti in quegli indirizzi dell’antiquariato editoriale ai quali ci riferiamo spesso. Limitiamo la quantità -sette titoli in tutto, uno dei quali italiano-, per concentrarci al meglio sulle riflessioni che si possono formulare oggi. Ragioniamo con calma, senza l’impaccio del punto di vista soggettivo di chi è coinvolto personalmente negli eventi, per sentimento o anche solo per contemporaneità in cronaca. Mentre i fatti accadono, si può rimanerne storditi; invece, e a differenza, a distan-
(centro pagina) All’indomani dei concitati primi momenti dall’assassinio del presidente Kennedy, che hanno condizionato le prime relazioni giornalistiche, la raccolta Four Days ha affrontato l’argomento potendolo approfondire. Si segnala la prima visualizzazione dei fotogrammi dell’8mm di Abraham Zapruder, il celebre filmato, dichiarato patrimonio di Stato, e restaurato, che ora fa parte della Library of Congress; la cinepresa Bell & Howell usata è custodita negli US National Archives (da pagina 36).
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za di tempo, si ha modo di ricostruire le vicende secondo sequenze oggettivamente più realistiche. Sette titoli, abbiamo appena annotato: un numero speciale di Life, pubblicato come Memorial Edition; due numeri di Look, uno in sfortunata coincidenza di tempi (ne stiamo per riferire) e l’altro celebrativo del presidente ucciso; due raccolte a cura di The News, aggressivo quotidiano newyorkese di cronaca; un numero del Post, con richiamo in copertina; e, infine, un intervento di Epoca, settimanale illustrato italiano, rappresentativo di una
visione particolare della vita che caratterizza un poco il nostro carattere nazionale, condizionando anche l’editoria popolare (o è vero l’esatto contrario).
LIFE E LOOK Coincidenti nelle intenzioni, i due analoghi numeri speciali con i quali Life e Look -ai tempi testate affini in veemente antagonismo- appaiono oggi uniti da un aspetto sostanziale delle rispettive confezioni: entrambi i fascicoli sono privi di annunci pubblicitari. La questione non è da poco, perché sappia-
L’OTTO MILLIMETRI DI ABRAHAM ZAPRUDER
Non ci sono fotografie dell’assassinio del presidente statunitense John Fitzgerald Kennedy. È curioso doverlo annotare oggi, ma, nel 1963, la copertura fotogiornalistica non era capillare come lo è ai nostri giorni. Dell’intera vicenda, esiste soltanto un filmato amatoriale, in Otto millimetri, girato da un sarto cinquantottenne (allora), residente a Dallas. Emigrato dalla natia Unione Sovietica, nel 1920, prima di stabilirsi in Texas, Abraham Zapruder [in alto, a sinistra, con la sua cinepresa 8 millimetri, stiamo per parlarne] aveva trascorso venti anni a New York City.
Dunque, Abraham Zapruder era sceso in strada, per assistere al passaggio del corteo presidenziale, armato della propria cinepresa 8 millimetri. Il filmato che ha ripreso è stato ampiamente utilizzato sia dagli investigatori che hanno indagato sui fatti (Commissione Warren), sia dalla stampa internazionale. Oggi, questo filmato è proprietà della Library of Congress, che lo conserva nei propri archivi della Smithsonian Institution, di Washington DC. Anche la cinepresa Bell & Howell Model 416 (altrove 414 PD), altrimenti identificata come Zoomatic, è tra i beni storici della nazione: è conservata negli US National Archives. La cronaca del ventidue novembre, ora.
Da semplice sarto, nel 1949, si impegnò come imprenditore, creando la Jennifer Juniors, per la quale fece società con un altro immigrato, Irwing Schwartz. Nel 1963 dei fatti che lo proiettarono sul palcoscenico planetario, l’azienda aveva sede al 501 di Elms street, in un edificio accanto al deposito di libri della Texas School, dal quale Lee Harvey Oswald avrebbe sparato su Kennedy.
Quella mattina, Abraham Zapruder andò al lavoro come tutti i giorni e, pur sapendo della parata presidenziale che sarebbe passata sotto il suo ufficio, non portò con sé la cinepresa, acquistata un anno prima. Fu la receptionist della sua azienda, Marilyn Sitzman, a convincerlo a tornare a casa per prenderla: così facendo, avrebbe potuto filmare il presidente e la consorte, per mostrarli ai figli e ai nipoti. In Dealey Plaza, Zapruder individuò il luogo migliore dal quale filmare il passaggio del corteo: si piazzò in cima al terrapieno sul lato destro di Elms street, un muretto di cemento. La scena è registrata in una sequenza continua di ventidue secondi (altri quattro, che compongono i ventisei totali, non riguardano il corteo presidenziale), impressi su una pellicola Otto millimetri. Resosi subito conto della tragedia che aveva appena documentato, Abraham Zapruder tornò sconsolato verso il suo ufficio, passando davanti all’entrata del deposito dei libri dal quale erano partiti gli spari. Nel breve tragitto, incontrò il giornalista Harry McCormick, del Dallas Morning News, e gli raccontò di aver ripreso l’attentato. McCormick si mise d’accordo per andare a trovarlo nel pomeriggio in ufficio, e si premurò di informare immediatamente Forrest Sorrels, agente dei servizi segreti. Avvertito dei fatti, Irwing Schwartz, socio di Zapruder, si precipitò in ufficio e, poco dopo, arrivarono anche McCormick e Sorrels. Insieme a due poliziotti del dipartimento di Dallas, si recarono tutti alla redazione del Dallas Morning News, perché il giornalista credeva che l’ufficio disponesse delle attrezzature di sviluppo della pellicola. Invece, non era così [il processo di trattamento del Kodachrome era realizzato soltanto da laboratori Eastman Kodak]; quindi, i quattro, accompagnati dagli agenti, si recarono nel palazzo
Il filmato Otto millimetri ripreso da Abraham Zapruder il 22 novembre 1963 è l’unica testimonianza visiva dell’assassinio del presidente statunitense John Fitzgerald Kennedy. È stato ripreso dal terrapieno sul lato destro di Elms street, a Dallas. La scena è registrata in una sequenza continua di ventidue secondi, con cadenza di 18,3 fotogrammi al secondo.
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mo bene tutti come e quanto la pubblicità sia sempre discriminante in ambito editoriale. Tanto è vero che i più recenti “speciali” di Life, pubblicati lungo un arco di tempo esteso tra i tardi anni Ottanta e tutti i Novanta, con punti di osservazione via via redazionalmente accattivanti e invitanti (ne abbiamo riferito in tante occasioni), sono stati sempre e comunque adeguatamente imbottiti di pubblicità. Addirittura, apriamo una parentesi, spesso gli annunci pubblicitari pubblicati sui numeri speciali di Life sono stati declinati in diretta sintonia con l’ar-
gomento proposto. Per esempio, lo “speciale” che nella primavera 1988 fece il punto sui diritti civili negli Stati Uniti, a partire proprio dal “sogno” di Martin Luther King, appena evocato, fu accompagnato da annunci pubblicitari riferiti proprio all’integrazione razziale o alla figura del leader antisegregazionista. Al minimo, i soggetti generici sono stati realizzati con modelle e modelli afroamericani: alla maniera degli annunci pubblicitari del mensile Ebony, a propria volta inviolabilmente combinati con raffigurazioni in tono.
ARCHIVIO FOTOGRAPHIA (3)
La cinepresa Bell & Howell Model 416 (altrove 414 PD) di Abraham Zapruder [centro pagina] è conservata negli US National Archives. Ai tempi, negli Stati Uniti, Bell & Howell era un riferimento fotografico primario, che rimarcava addirittura apparecchi fotografici Canon a telemetro, tra i quali si segnala la Canon 7 con 50mm f/0,95 [qui sotto].
accanto, nella sede della rete televisiva WFFA. Non appena arrivò, Zapruder fu fatto sedere accanto al direttore delle news, Jay Watson, e intervistato in diretta televisiva: raccontò ciò che aveva visto attraverso l’obiettivo della cinepresa. Disse di aver sentito un colpo, e -immediatamente dopo- un altro sparo o altri due. Alla fine dell’intervista, McCormick disse che solamente la Kodak poteva sviluppare il film; quindi, alla notizia dell’arresto di un sospetto, Lee Harvey Oswald, dovette tornare in città. Poco dopo, nello stabilimento Kodak di Dallas, aiutati da un impiegato di nome Phil Chamberlain e alla presenza di una decina tecnici, Abraham Zapruder e Irwing Schwartz videro per la prima volta il film dell’assassinio di Kennedy. Furono stampate tre copie del filmato, due delle quali furono consegnate, dallo stesso Zapruder, agli agenti dei servizi segreti, presso la Centrale di polizia di Dallas. Nel pomeriggio di quel ventidue novembre, si erano già mossi gli organi di stampa: il più veloce fu Richard Stolley, un dirigente della casa editrice proprietaria del settimanale Life, intenzionato ad acquisire i diritti del filmato. Il giorno dopo, Stolley si recò nell’ufficio di Zapruder e trattò la cessione dei diritti: dopo una breve discussione, offrì cinquantamila dollari -subito accettati-, per i diritti di riproduzione del filmato. Il giorno successivo, Charles Douglas Jackson, caporedattore di Life, pagò a Zapruder altri centocinquantamila dollari per i diritti di riproduzione televisiva e cinematografica. Chi sostiene la tesi del complotto, si basa anche su questo, visto che il filmato non venne trasmesso. Infatti, C.D. Jackson ritenne (autonomamente?, e in maniera opinabile) che il pubblico non era pronto a vedere le immagini, e chiuse per anni la pellicola negli archivi della Time-Life Corporation,
limitandosi a pubblicare i fotogrammi meno cruenti, che non mostravano l’esplosione del cranio del presidente Kennedy. E qui tralasciamo gli eventi successivi, relativi allo studio del filmato, i cui 18,3 fotogrammi al secondo furono usati per completare il quadro probatorio a carico di Lee Harvey Oswald, che compongono i paragrafi di uno dei più oscuri capitoli della Storia statunitense.
Dopo essere stato usato per l’inchiesta sui fatti (la controversa inchiesta sui fatti), il filmato Otto millimetri dell’assassinio del presidente Kennedy, registrato da Abraham Zapruder, è stato acquisito dalla Library of Congress. La sequenza continua di ventidue secondi è stata anche elaborata in accostamento stereo, per dare risalto tridimensionale ai dettagli della scena.
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ART RICKERBY / LIFE (4)
VENTIDUE NOVEMBRE: PRIMA E DOPO
Oltre il “durante” dell’assassinio del presidente statunitense John Fitzgerald Kennedy, ucciso a Dallas, in Texas, il ventidue novembre di cinquanta anni fa, testimoniato dallo storico filmato Otto millimetri di Abraham Zapruder [riquadro da pagina 36], e le immediate consecuzioni, documentate da intense intenzioni fotografiche di Richard Avedon, Carl Mydans e Ralph Crane [riquadro da pagina 42], l’accompagnamento fotografico dell’intera vicenda comprende anche un “prima” e un immediato “dopo”. Fotogiornalista accreditato presso la Casa Bianca, quel lontano venerdì del Millenovecentosessantatré, Art Rickerby era al seguito del presidente, in visita a Dallas. Ha fotografato l’arrivo dell’aereo presidenziale, il leggendario Air Force One, e l’accoglienza delle autorità locali; in una consistente serie di fotografie a colori, ha certificato la cordialità verso l’amata coppia John-Jacqueline (una delle First Lady di più alta personalità della storia statunitense -altre l’hanno preceduta, altrettante l’hanno seguita-). Quindi, dopo gli spari delle 12,30, ora locale, lo stesso Art Rickerby
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ha subito fotografato i primi istanti di disorientamento e concitazione. Il suo fotogiornalismo gli ha suggerito altre interpretazioni, ha guidato il suo cuore verso istanti capaci di raffigurare il momento, rappresentandolo per la Storia: è il caso, tra quanti se ne sarebbero potuti isolare e sottolineare, del mazzo di fiori deposto da una mano anonima sul sedile della limousine presidenziale (una lussuosa Lincoln Continental, del 1961), sul quale è stato colpito a morte il presidente Kennedy (e ferito gravemente il governatore del Texas John Connally e ferita leggermente sua moglie Nellie). Già: un colpo di fucile con tre vittime, un colpo di fucile che ha zig-zagato dopo aver lacerato il cervello del presidente, un colpo di fucile, presto seguìto da altri due, almeno, sparato da un’arma tutt’altro che rapida, tutt’altro che automatica. Un solo attentatore? Ecco qui la base di una vicenda oscura, che è ancora oggi tale: oscura. Ecco qui la base di una tenebrosa controversia che non è ancora stata sbrogliata, né chiarita, Né spiegata, né -tantomeno- risolta.
L’assenza di pubblicità in Life - John F. Kennedy Memorial Edition e Look - Kennedy and his Family in Pictures la dice lunga, oggi più di ieri, sulla devozione fuori dell’ordinario che la nazione tutta manifestò allora per il proprio presidente. Non richiamiamo ancora una volta l’odierna revisione storica della linea politica di Kennedy, alla quale ci siamo riferiti all’inizio di questo testo, perché i conti vanno ora compilati in chiave autenticamente retrospettiva, con la pacatezza che il Tempo consente. Le due coincidenti scelte di Life e Look danno corpo all’affetto e attaccamento di un popolo, affascinato e addirittura trascinato in un innovativo ciclo esistenziale (della nuova frontiera) da un presidente con le carte in regola per essere amato: bello, di classe sociale alta, con una moglie altrettanto amabile, con una famiglia apparentemente felice. Nei contenuti redazionali, i due fascicoli mettono in scena esattamente questo. Pur partendo da punti di vista nella propria sostanza diversi, ma non certo divergenti, come le rispettive copertine subito dichiarano, nell’inverno Sessantatré, Life e Look hanno soprattutto celebrato non l’uomo politico, non lo statista, ma il giovane rampollo, arrivato nella più esclusiva stanza dei bottoni sapendo retoricamente rimanere grazioso e gradevole padre di famiglia (o, quantomeno, presentandosi come tale). La copertina di Life - John F. Kennedy Memorial Edition celebra l’Uomo con una posa ufficiale (oltre che con la testata in riquadro nero/lutto, al posto del consueto fondo rosso vivo; a pagina 34), mentre Look - Kennedy and his Family in Pictures (a pagina 35) optò per una istantanea di famiglia, con quel piccolo John John che avrebbe commosso il mondo con il proprio ingenuo saluto militare al passaggio del feretro del padre, durante i funerali di stato (a pagina 44; ancora in parentesi: qualche anno fa, i settimanali statunitensi hanno poi usato questa immagine del saluto militare, nei rispettivi numeri dedicati all’immatura scomparsa del figlio del presidente). All’interno dei fascicoli, l’argomento è stato affrontato con taglio analogamente diverso, seppur coincidente negli intendimenti. Quella di Life si presenta ancora oggi soprattutto come una monografia intenzionalmente giornalistica, a partire da una ricostruzione dell’attentato di Dallas; invece, Look rinunciò subito all’attualità, per puntare tutto sull’emotività popolare verso il padre di famiglia. Oggi, a distanza di cinquant’anni, questa apparente dicotomia manifesta l’evidenza dei propri connotati editoriali convergenti, che rispondono a una intenzione per tanti versi combinata e corrispondente: quella di non affrontare argomenti concreti e/o spinosi, per restare su una visione alta, leggera, priva di qualsiasi presa di posizione. Se di questo si tratta, siamo alla presenza di una autentica lezione di palese non-giornalismo. Con la complicità di fotografie ben scelte, da ciascuna testata in relazione ai propri motivi conduttori, queste due monografie (ma non soltanto loro) diedero avvio a quel processo di santificazione e glorificazione di John F. Kennedy che è poi prose-
guito per decenni. Come abbiamo annotato, soltanto in tempi recenti, esauriti i fumi del carisma, i dogmi di un credo cieco e l’emozione di istantanee di famiglia opportunamente confezionate (questo va detto: potere dell’immagine), la personalità politica del presidente Kennedy è stata messa in discussione e, a conseguenza, discussa.
POST CON EPOCA Analogamente, anche il Post, testata erede del The Saturday Evening Post, non entrò in alcun merito. Sul numero datato quattordici dicembre (1963), pubblicò un lungo articolo di cronaca, che si riferì soltanto alle versioni ufficiali dell’attentato. Nessun dubbio sulle ricostruzioni dei primi momenti. Dai concitati giorni di Dallas, compreso l’omicidio del presunto attentatore Lee Harvey Oswald, ucciso sotto gli occhi della televisione (?) e di un gran numero di poliziotti (FOTOgraphia, maggio 2000 e ancora oggi, a pagina 40), si passa subito al funerale di John F. Kennedy e alla presentazione del nuovo presidente Lyndon Johnson, il trentaseiesimo dall’indipendenza (primo presidente: George Washington, dal 30 aprile 1789 al 3 marzo 1797).
In relazione all’assassinio del presidente John F. Kennedy, il 22 novembre 1963, la ricostruzione di The News - Four Days avvalora la tesi dell’unico attentatore dal Texas School Book Depository. Approfondiamo in un riquadro, a pagina 40.
Ancora da Four Days. Domenica 24 novembre 1963: avvolta nella bandiera, la salma di John Fitzgerald Kennedy arriva all’autorevole sala di Capitol (il Campidoglio di Washington), con un corteo che è partito dalla Casa Bianca.
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CONTROVERSIA! COMPLOTTO?... CONTROVERSIA? COMPLOTTO!
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Dopo l’originaria del 2004, la recente edizione (2010) di Accusare, di Giacomo Papi, ribadisce il contenuto, presentandolo in una veste grafica di facile lettura, con richiamo di un volto generazionalmente noto e generalmente riconoscibile, quello dell’attrice Jane Fonda. All’interno, sono riportate approfondite “schede” di presentazione delle segnaletiche presentate; nello specifico del nostro intendimento odierno: Lee Harvey Oswald e Jack Ruby. Con l’occasione, ripetiamo, ribadendola, una nostra opinione/convinzione: la fotografia segnaletica è un capitolo visivo discriminante. Ancora avanti: due tra le applicazioni più utili della stessa fotografia (esercizio per se stesso inutile?) si individuano giusto nei settori dell’antropologia e dei registri criminali.
A parte tanti altri discorsi, tra i quali hanno diritto di ospitalità considerazioni sull’emozione e commozione individuali (e collettive), sull’assassinio del presidente statunitense John Fitzgerald Kennedy, il 22 novembre 1963 (cinquanta anni fa), a Dallas, in Texas, grava il peso di una vicenda mai chiarita. Ipotesi ce ne sono tante, e poche coincidono con le sentenze ufficiali, nessuna avvalora l’azione di un folle isolato: conclusione della Commissione Warren, depositata nel 1964. Sul tema, sono stati riversati fiumi di inchiostro e sono stati girati chilometri di pellicola cinematografica: sono tanti i titoli di film-inchiesta sull’argomento. Ancora, il richiamo all’omicidio Kennedy è uno dei tormentoni trasversali della commedia cinematografica statunitense, che ne declina le contraddizioni con garbo e ironia. Punto e a capo. Da qui, le note ufficiali, che accusano il solo Lee Harvey Oswald, che avrebbe fatto tutto da solo, con un fucile (di fabbricazione italiana) quantomeno magico: capace di inviare una pallottola su più bersagli, caricato con una pallottola in grado di vagare a destra e sinistra.
Subito individuato e arrestato, Lee Harvey Oswald è stato ucciso il ventiquattro novembre, mentre veniva trasferito da un luogo di detenzione a un altro. In diretta televisiva (?) e davanti a numerosi testimoni e altrettanti fotografi, un altro oscuro personaggio, Jack Ruby, lo ha ucciso con un colpo di pistola ben indirizzato: da cui, fotografie in cronaca e in utilizzo giornalistico [in basso]. Come è doveroso fare dal nostro osservatorio indirizzato altrimenti, non entriamo nel merito della questione, ma ne registriamo soltanto i retrogusti fotografici. Allora: dopo le fotografie dell’assassinio di Lee H. Oswald, appena richiamate, è giocoforza tornare al fantastico argomento delle fotografie segnaletiche, che abbiamo già affrontato in diverse occasioni precedenti, la più recente delle quali nel novembre 2010, in presentazione di una monografia a tema, con altra di accompagnamento. Da cui e per cui, ecco qui (ekko qui?), le segnaletiche dei due protagonisti di questa storia, riprese dall’ottimo casellario Accusare, di Giacomo Papi (Isbn Edizioni, 2010; 366 fotografie segnaletiche; 208 pagine 12x19cm; 13,00 euro).
Copia fotografica d’agenzia dell’assassinio di Lee Harvey Oswald da parte di Jack Ruby, in un seminterrato della centrale di polizia di Dallas, il 24 novembre 1963, a due giorni dall’assassinio del presidente Kennedy, e relativa messa in pagina su un quotidiano texano del giorno dopo. Con questo si conferma come in caso di complotto (e l’assassinio di John Fitzgerald Kennedy è giusto tale), i partecipanti muoiono tutti presto, scompaiono nel giro di poche ore, tutt’al più di qualche giorno.
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LOOK: UN CONTRATTEMPO Prima di concludere, dobbiamo annotare come l’edizione di Look datata 31 dicembre 1963 abbia inciampato in uno dei più clamorosi inconvenienti edi-
ARCHIVIO FOTOGRAPHIA
Di più, e sempre nel clima di edificazione del monumento a JFK, il Post ospitò una commemorazione di Dwight D. Eisenhower, che aveva preceduto Kennedy alla Casa Bianca. In tutto questo, c’è, quindi, da apprezzare il ritratto in copertina, per l’occasione listata a lutto (a pagina 34), eseguito da Norman Rockwell, lo straordinario illustratore statunitense, creatore di leggendarie tavole settimanali del Saturday Evening Post, che nei decenni ha dato vita e corpo a una particolare e idilliaca visione della provincia statunitense: tutta serenità e buoni sentimenti (FOTOgraphia, novembre 2002 e ottobre 2012). In tutti i casi, la combinazione fotografica del Post è stata adeguatamente coerente con la tradizionale messa in pagina del settimanale: diretta quanto serve, ma soprattutto asciutta nella propria dichiarata funzione tranquillizzatrice. Anche la cruda fotografia dell’omicidio di Lee Harvey Oswald non concede spazio ad alcuna speculazione giornalistica, a nessun tipo di sensazionalismo di maniera. Questo è il Post, e la fotografia si adatta, giocoforza, all’inderogabile condizione di fondo. Lo stesso, senza sposare una virgola, possiamo riferirlo anche all’edizione speciale dell’italiano Epoca, del quindici dicembre (sempre 1963). Qui, l’italianità dei (buoni) sentimenti raggiunge un proprio apice. Vediamo perché (e come). Anzitutto, il punto di vista si sposta dalla figura del presidente John F. Kennedy alla moglie Jacqueline: ritratto di tristezza in copertina e serena fotografia di famiglia nella copertina interna di quello che viene -appunto- offerto come «Le fotografie dell’album personale / 16 pagine da staccare» (a pagina 34). E qui c’è tutta l’Italia che stacca e conserva questi documenti storici, così come oggi, a distanza di cinquant’anni, dovrebbe stare in casa a seguire, stagione dopo stagione, le più attuali sollecitazioni dell’attuale edicola multimediale: per questo autunno sono di scena le solite amenità del dopo estate, da conservare e collezionare (cosa e perché conservare e collezionare non conta). Dunque, sedici pagine di buona famiglia, che pare uscita dalla penna di Edmondo De Amicis (di Bottini e Derossi, non certo dell’eroico e straordinario Franti), anche se il contorno domestico è quella Casa Bianca, nella quale da tempo si discutono gli equilibri del mondo. Ma non importa: siccome Epoca annuncia una (improbabile) «Unica intervista con la vedova di Kennedy dopo la tragedia», il clima è giusto quello dei mielosi buoni sentimenti, con adeguato appoggio fotografico: apparenti istantanee di cattivo gusto (oggi, come ieri).
Clamoroso incidente editoriale e giornalistico. Distribuito a fine novembre, il numero di Look datato trentuno dicembre ha richiamato la pace del Natale alla Casa Bianca. L’assassinio del presidente Kennedy ha sollecitato un richiamo aggiuntivo, in copertura dello “strillo” redazionale originario... almeno fuori luogo.
Impaginazione da The torch is passed...: la ricostruzione dell’attentato di Dallas accosta diversi punti di vista dell’auto presidenziale, sulla quale John Fitzgerald Kennedy è stato colpito a morte.
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RALPH CRANE / LIFE (3)
CARL MYDANS / LIFE (3) RICHARD AVEDON (2)
INTORNO ALLE PRIME PAGINE
THE NEWS : UN PER L’ALTRO Infine. Entrambe pubblicate a sostanziale distanza dai fatti narrati, le due monografie attribuite a The News, quotidiano newyorkese di cronaca spicciola, sono state oggettivamente più pretenziose degli speciali giornalistici dei giorni caldi. Infatti, sono anche due monografie in forma di libro, seppure con impostazione e messa in pagina da rotocalco, con tanto di copertina cartonata, che negli Stati Uniti certifica le edizioni di taglio volontariamente alto. Curiosamente, ma neppure poi tanto, sono esattamente la stessa cosa, tanto da essere ognuna il doppione dell’altra: una ricostruzione dei giorni di Dallas, dall’arrivo del corteo presidenziale all’attentato, dal giuramento di Lyndon Johnson (vicepresidente di Kennedy e nuovo presidente degli Stati Uniti per diritto costituzionale) all’eliminazione di Lee Harvey Oswald, ai funerali di stato. I tempi sono rigorosamente scanditi, a partire proprio da venerdì 22 novembre 1963, nel quale tutto è cominciato. Le modalità di lavorazione editoriale più distese, rispetto le concitate urgenze delle testate periodiche, hanno permesso a Four Days e The torch is passed... (Quattro giorni e La fiaccola è passata) di curare con maggiore attenzione la parte fotografica, che così guadagna sia in quantità sia in (apparente) qualità. Le fotografie sono spesso le solite note, ma la loro messa in pagina fa tesoro di combinazioni visive di maggiore richiamo: quale può essere l’ingrandimento ricercato di un dettaglio, con relativo effetto “grana” che ne consegue.
BORIS YARO ARCHIVIO FOTOGRAPHIA PAUL FUSCO (2)
Come annotato nel corpo centrale dell’attuale intervento redazionale (giornalistico?) -compilato e pubblicato in occasione del cinquantenario del 22 novembre 1963-, l’assassinio del presidente statunitense John Fitzgerald Kennedy ha suscitato grandi emozioni in tutto il mondo. Ovviamente, prima di altro vanno registrati e sottolineati i turbamenti interni, nelle ore di quel lontano pomeriggio autunnale. In relazione ai diversi fusi orari del paese, tutti i quotidiani locali uscirono con edizioni speciali dai titoli cubitali. La notte dell’assassinio, Richard Avedon realizzò una intensa serie fotografica in Times Square, a New York City, facendo posare passanti con tra le mani un giornale, piuttosto che registrando gente in lettura commossa [pagina accanto, in alto, a sinistra]. Oltre la fotografia di moda e i ritratti, che compongono l’ossatura della sua fama, questa escursione al di fuori della sala di posa fa parte del capitolo di impegno sociale del noto fotografo newyorkese, mancato nell’autunno 2004 (anno terribilis; FOTOgraphia, febbraio 2005). In questo senso, tra molto, segnaliamo anche le fotografie nell’East Lousiana State Hospital, manicomio statale, a Jackson, del febbraio 1963, la sua presenza all’abbattimento del Muro di Berlino, nel 1989, e la partecipazione attiva ai movimenti pacifisti, liberali e radicali degli anni Sessanta, fino ad essere stato arrestato per disobbedienza civile e imprigionato, nel corso di una manifestazione pacifista, al Capitol Building, di Washington, nel 1972: in ogni caso, rimandiamo anche/soprattutto allo Sguardo su, di Pino Bertelli, dello scorso giugno. Ovviamente (ovviamente?), queste fotografie sono state incluse nell’imponente retrospettiva The Kennedy. Portrait of a Family: Photographs by Richard Avedon, allestita al Riverside Metropolitan Museum, nella primavera 2009 (con volume-catalogo), esposte e messe in pagina assieme ai posati di famiglia. Quindi, in armonia con quanto fatto da Richard Avedon, la cui fama esige sempre e comunque la passerella d’onore, segnaliamo anche la coinvolgente serie che il fotogiornalista Carl Mydans (a propria volta scomparso nel 2004: anno terribilis; FOTOgraphia, febbraio 2005) realizzò la stessa sera del ventidue novembre sulla linea ferroviaria che -ogni sera- porta i pendolari da Grand Central Station, di New York City, a Samford, nel Connecticut [pagina accanto, al centro]. Per l’appunto: On the 6.25 from Grand Central to Samford, CT è un fotoreportage che sottolinea come tutti i passeggeri del treno erano concentrati nella lettura delle edizioni speciali dei giornali che annunciarono e commentarono l’assassinio del presidente John Fitzgerald Kennedy. Anche Ralph Crane, che si trovava a Parigi per un assignment di Life, ha agito sulla stessa linea fotogiornalistica (verso la Storia): la notizia dell’attentato a John Fitzgerald Kennedy sui quotidiani francesi, con relativa lettura collettiva per strada [ancora, pagina accanto, al basso]. Quindi, in allungo di fotocronaca, l’abile fotogiornalista ha seguìto le manifestazioni ufficiali di commemorazioni, individuando persino l’attrice Marlene Dietrich tra la folla accorsa all’ambasciata della capitale francese per rendere omaggio al presidente ucciso.
toriali e giornalistici. Distribuito con sostanzioso anticipo rispetto la data di copertina, come tradizione dell’editoria statunitense (ricordiamo ancora che, in altro ambito e maggiore lievità, su Playboy, la mitica Betty Page è stata una Miss gennaio 1955 in “costume” da Babbo Natale, proprio perché la rivista sarebbe stata distribuita gli ultimi giorni di novembre; FOTOgraphia, settembre 1997 e altro), quel numero di Look aveva come argomento principale, richiamato in copertina, il «Natale alla Casa Bianca»! Nientemeno: copertina con visione invernale della residenza presidenziale, avvolta dalla neve e rischiarata da una luce calda e tranquillizzante. All’indomani del ventidue novembre, Look ha dovuto correre ai ripari. Alla fine, sono riusciti a combinare soltanto un autentico pasticcio. Per mille motivi tecnici e di convenienza, non si è potuta ristampare la copertina di un numero che vanta(va) 7.400.000 copie in circolazione, e, quindi, il rimedio è finito per risultare almeno grottesco. Lo strillo Christmas at the White House, appunto Natale alla Casa Bianca, è stato coperto con una pecetta nera che recitò In Memory of John F. Kennedy: in memoria di John F. Kennedy (a pagina 41). L’articolo interno è rimasto quello preventivato, con una aggiunta dell’ultimo momento: un articolo commemorativo del presidente ucciso a Dallas. Per il resto, come da copione: carole, buone intenzioni e promesse scambiate sotto l’albero. Contrattempo editoriale/giornalistico da manuale.
Anche Robert Francis Kennedy, fratello del presidente ucciso a Dallas, per la cui amministrazione aveva coperto l’incarico di ministro della giustizia, è stato ucciso in un attentato. In corsa per le elezioni presidenziali di novembre, il 5 giugno 1968, convocò i propri sostenitori all’Ambassador Hotel, di Los Angeles. Al termine dei festeggiamenti per la vittoria elettorale alle primarie, venne colpito a morte nelle cucine dell’hotel [in alto]. L’assassino fu subito arrestato e poi condannato: Sirhan B. Sirhan, un giordano di origine palestinese. Ovviamente, anche qui, non mancano dietrologie e ipotesi di complotto. Dal punto di vista fotografico, la vicenda di Robert Kennedy è legata a uno dei più avvincenti reportage mai realizzati (pubblicato a distanza di quarant’anni dai fatti). Ne abbiamo riferito nel luglio 2008: Paul Fusco: RFK.
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25 novembre 1963: solenni funerali di stato di John Fitzgerald Kennedy. È celebre il saluto militare del piccolo John John, figlio del presidente ucciso a Dallas. Nell’inquadratura, anche Bob Kennedy, che verrà ucciso a Los Angeles, nel 1968 (a pagina 43).
Life (24 novembre 1967): il governatore del Texas John Connally racconta il giorno dell’assassinio del presidente Kennedy (ritratto di John Dominis).
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DAVID S. BOYER
La stessa fotografia dell’auto presidenziale immediatamente prima dell’attentato di Dallas, con la coppia presidenziale sorridente, è stata utilizzata in quasi tutti i resoconti giornalistici censiti in queste pagine: nello specifico, doppia pagina identica in The torch is passed... e Look - Kennedy and his Family in Pictures.
Una volta ancora, e una di più, rimane però costante il sottile filo di ricercata emotività, che antepone l’aspetto umano della vicenda alla propria decifrazione politica. Insomma, dobbiamo pensare ancora all’edificazione di un monumento al ricordo, del quale si cementano solide basi e si dà forma al robusto sostegno. In fondo, non possiamo sottostimare lo strappo creato nell’opinione pubblica dal clamoroso attentato. Così come non possiamo condannare la rapidità con la quale ciascuno ha rimosso il proprio orrore personale, adattandosi presto e docilmente alle frettolose ricostruzioni dei primi istanti, tutto sommato confortanti e rassicuranti: con un colpevole certo e isolato, lontano da quelle sensazioni di
complotto che sono maturate in seguito. Da una parte, c’è il cinismo politico dei potenti; dall’altra, la voglia di tranquillità della gente. Il giornalismo dovrebbe stare nel mezzo: dovrebbe riconoscere e rivelare la malafede, invece di assecondare i pur legittimi istinti popolari. Ma non possiamo pretenderlo; richiederlo, però, sì! Alla resa dei conti, a cinquant’anni di distanza dai tragici giorni di Dallas, in nessun esempio oggi considerato intravediamo una briciola di giornalismo, ma individuiamo soltanto cortigianeria. Tra l’altro, remunerativa: perché ciascuna pubblicazione di quei momenti, che ha appagato -assecondandola- l’emotività popolare, ha avuto sostanziosi riscontri nelle vendite. ❖
L’evoluzione non si arrende
Fujifilm X-E2
Straordinaria! Attesa! Eccola qui! Evoluzione dell’avvincente X-E1, che tanti consensi ha riscosso e guadagnato nel mondo fotografico (e si conteggiano anche numerosi riconoscimenti pubblici: premi e dintorni), la fantastica Fujifilm X-E2 conferma consistenze classiche (stile telemetro e contorni), in una interpretazione attuale, proiettata al futuro e futuribile. C’è di che rimanerne stupiti, ammirati e, perché no?, coinvolti. Grazie alla velocità di elaborazione raddoppiata dell’EXR Processor II (in comparazione con EXR Processor Pro), Fujifilm X-E2 offre una riproduzione del colore ancora più fedele, maggiore definizione nell’acquisizione delle immagini e una rapida messa a fuoco AF tra le più veloci al mondo, pari a soli 0,08 secondi (ricerca Fujifilm del settembre 2013: comparazione con altri apparecchi fotografici digitali dotati di sensore da 4/3 di pollice o maggiore, basata sugli standard CIPA, utilizzando misurazioni interne in modalità “High Performace”, con obiettivo XF14mm f/2,8R). Il processore EXR Processor II è in grado di trattare le informazioni raccolte dagli oltre 100.000 pixel rilevatori di fase incorporati nell’X-Trans CMOS II (tecnologia proprietaria). L’AF ibrido, che unisce AF a rilevamento di fase e AF a contrasto, garantisce la massima precisione quando si riprendono soggetti a basso contrasto, o scene scarsamente illuminate.
Il Sensore X-Trans CMOS II, da 16,3 milioni di pixel e dimensione APS-C, incorpora un’esclusiva matrice di filtro colore, che elimina la necessità di un filtro ottico passa-basso, riducendo al minimo l’effetto moiré, ma mantenendo elevata la risoluzione. La qualità è ulteriormente migliorata grazie al Lens Modulation Optimizer (LMO), che corregge la sfocatura ai bordi dell’immagine e quella dovuta alla diffrazione. Grazie alla combinazione della ghiera dei diaframmi sull’obiettivo e del selettore dei tempi di otturazione, sulla parte superiore del corpo macchina, che consente un controllo completo delle impostazioni di ripresa tenendo sempre l’occhio sul mirino, la versatile Fujifilm X-E2 garantisce un ottimo feeling di utilizzo. MESSA A FUOCO RAPIDA Grazie alla risposta ultra-veloce della Fujifilm X-E2 non si perde mai il momento giusto. Oltre a disporre dell’AF tra i più veloci al mondo, la X-E2 ha un rapido tempo di avvio (0,5 secondi, in modalità “High Performance” alte prestazioni con obiettivo XF27mm f/2,8), praticamente nessun ritardo nello scatto (0,05 secondi) e una ripresa continua ad alta velocità, pari a 7,0 fotogrammi al secondo (fino a 28 fotogrammi: in JPEG, con card SD / velocità 10 o superiore).
Una messa a fuoco efficace è garantita dall’AF ibrido. La X-E2 passa automaticamente tra due modalità: AF a contrasto, adatto nelle situazioni di scarsa luminosità, e AF a rilevazione di fase, che offre un rapido tempo di risposta.
QUALITÀ DELL’IMMAGINE Utilizzando un’esclusiva matrice filtro colore, il sensore X-Trans CMOS II controlla l’effetto moiré e la generazione di falsi colori. Questo elimina la necessità di un filtro ottico passa-basso (OLPF), che penalizzerebbe la risoluzione. La qualità delle immagini è ulteriormente migliorata con l’adozione del Lens Modulation Optimizer (LMO), il primo per apparecchi fotografici a obiettivi intercambiabili. FUNZIONALITÀ AL TOP Fujifilm X-E2 utilizza la combinazione della ghiera sull’obiettivo, per i diaframmi, con il selettore dei tempi di otturazione, sulla parte superiore del corpo macchina: per scattare e gestire la X-E2 senza dover distogliere lo sguardo dal mirino. Nella X-E2, si possono personalizzare fino a 4 pulsanti presenti sul corpo macchina. L’inquadratura accurata e confortevole e il controllo della messa a fuoco sono assicurati dall’elevata risoluzione del mirino OLED (Organic LED) da 2,36 milioni di pixel. Lo spessore del monitor LCD è sta-
durre tre immagini con diversi effetti di simulazione di pellicola. In aggiunta, si può scegliere tra otto filtri avanzati, tra i quali “Toy Camera”, “Miniature”, “Dynamic Tone”, “Pop Color”, “Soft Focus”, “High Key”, “Low Key” e “Partial Color”.
to ridotto e la sua dimensione aumentata a 3 pollici. Con lo schermo in cristallo rinforzato, ha un ampio angolo di visione e una risoluzione pari a 1,04 Megapixel. MESSA A FUOCO MANUALE La messa a fuoco manuale è stata semplificata grazie alla tecnologia Digital Split Image (marchio registrato di Fujifilm Corporation), che aiuta a eseguire una precisa messa a fuoco semplicemente regolandola fino ad allineare i quattro riferimenti visua-
lizzati nella parte centrale dell’immagine inquadrata. Il Focus Peaking Highlight, che, durante la messa a fuoco, evidenzia il contorno del soggetto in zone ad alto contrasto, aiuta ulteriormente a realizzare scatti perfetti anche in condizioni critiche.
cemente disponibili al caricamento sui blog e social network. È possibile utilizzare il Wi-Fi incorporato per salvare le fotografie sul proprio PC. MODALITÀ CREATIVE È possibile trovare il proprio stile fotografico utilizzando la modalità di simulazione pellicola (“Film Simulation Mode”), che permette di riprodurre gli effetti delle leggendarie pellicole Fujifilm. Scegliendo una delle 10 varianti disponibili, è possibile realizzare le immagini desiderate: “Velvia” restituisce alta saturazione ricca di colori primari; “Astia” mostra una riproduzione morbida e fedele dei toni; “Provia” offre una riproduzione naturale, adatta a tutte le occasioni; mentre la più morbida “Pro Neg.Std” e la più definita “Pro Neg.Hi” sono simulazioni di pellicole negative professionali.
RIPRESE VIDEO SUPERLATIVE Fujifilm X-E2 realizza riprese video Full HD (1920x1080 pixel) fino a 60 fotogrammi al secondo; la prestazione del tracking AF in modalità video è stata migliorata nella velocità di messa a fuoco, nella precisione e fluidità. TRASFERIMENTO WIRELESS La modalità wireless consente di trasferire facilmente le immagini da Fujifilm X-E2 a smartphone o tablet, dopo l’installazione dell’App gratuita Fujifilm Camera Application. Basta premere il pulsante Wi-Fi® posto sulla parte superiore del corpo macchina per inviare immediatamente le immagini ai dispositivi e renderle velo-
È anche possibile utilizzare la simulazione “Sepia” (viraggio seppia); per il bianconero sono disponibili tre tipi di simulazione filtro. La funzione “Bracketing Simulazione Pellicola” utilizza una singola esposizione per pro-
CONVERSIONE RAW Attraverso la funzione di acquisizione del file grezzo RAW, incorporata nella Fujifilm X-E2, un’immagine RAW può essere convertita in formato JPEG senza l’impiego del computer.
Il “Super Intelligent Flash” incorporato fornisce la giusta quantità di luce per la scena inquadrata e controlla la sovraesposizione quando si usa il flash per la fotografia macro. PRATICI ACCESSORI Pensata per il corpo leggero e compatto di Fujifilm X-E1 e X-E2, BLCXE1 è una custodia in pelle della massima qualità, che comprende una custodia in stoffa separata per la protezione dell’apparecchio quando viene riposto. Per migliorare ulteriormente l’ergonomia, è possibile aggiungere l’impugnatura HG-XE1 e uno dei tre flash esterni dedicati. Fujifilm X-E2 offre la compatibilità con tutti gli obiettivi Fujinon X e con i propri accessori dedicati: adattatore M Mount Adapter per la compatibilità con obiettivi di altra produzione; tre flash elettronici dedicati di differente potenza (EF-X20, EF-20, EF-42); filtri di protezione (PRF-39, PRF-52, PRF58 e PRF-62); scatto remoto RR-90.
DARK MEMORIES
LE VIETATE Per volontà dello spazio espositivo (non dell’autore!, sia chiarito subito), una consistente quantità di fotografie è stata esclusa dall’allestimento originario delle Dark Memories, di Gian Paolo Barbieri. Ora, Le opere vietate sono presentate in una mostra in allungo, esposta da Photology, di Milano: fino al prossimo quindici novembre. In conferma: progetto fantastico, che incide sulla Storia della fotografia. Con maiuscola volontaria e consapevole
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di Maurizio Rebuzzini
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MANUEL RANDAZZO (3)
rendete nota: nel cuore e nel cervello. Quindi, se dipendesse soltanto da me, prendetene nota con carta e penna (bella carta, penna di garbo), meglio se con inchiostro in evidenza e di evidenza; oppure, secondo generazione, usate pure qualsivoglia memoria elettronica, da computer, tablet, smartphone... o altro. In tutti i casi, in ogni caso, prendete nota: Dark Memories, di Gian Paolo Barbieri, è un progetto fotografico epocale, di valore eccezionale, le cui influenze si allungheranno avanti negli anni, nei decenni, componendo tratti di uno dei passaggi/momenti fondanti della storia del linguaggio fotografico nel proprio insieme e complesso. Ne sono convinto, e qui certifico! Ne abbiamo già riferito, lo scorso giugno, in occasione dell’allestimento scenico in mostra, da Sotheby’s, di Milano. Ora, a distanza di poco tempo, torniamo sull’argomento, in occasione di una coda a quell’appuntamento originario. Fino al quindici novembre, una ulteriore selezione Dark Memories. Le opere vietate è esposta da Photology, accreditato indirizzo milanese della fotografia planetaria. Di cosa si tratti, è presto detto: dei soggetti che Sotheby’s non ha esposto in origine, temendo chi sa cosa (ma sappiamo be(continua a pagina 53)
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MANUEL RANDAZZO
Sia nel proprio allestimento espositivo originario (parzialmente censurato!), sia nel complemento delle Opere vietate, le Dark Memories, di Gian Paolo Barbieri, sono state accompagnate da un video di nove Cine Fotografie (scritte, dirette e prodotte da Gian Paolo Barbieri), che verrà riproposto nelle auspicabili prossime date espositive. Nove soggetti sono visualizzati dalla sequenza temporale che porta all’istante conclusivo, all’istante fotografico. Per la produzione: Filippo Chiesa, video dop/color grading, Antonio Silvestro, film maker, e Brian Jankic, Yossi Loloi, Emmanuele Randazzo e Ciro Rebuzzini, assistenti; selezione musicale di Nikolaos Velissiotis; menzione speciale a Jeanne Moreau per Each man kills the man he loves, del video Querelle de Brest. Comunque, non prima di aver rimandato ad altri richiami alla fotografia di Gian Paolo Barbieri, su questo stesso numero da pagina 16, i nove soggetti: White Rain (dal quale abbiamo ripreso la sequenza esemplificativa proposta in questa doppia pagina), Shotgun, Adamo (l’immagine riportata sulla copertina della monografia Dark Memories; FOTOgraphia, giugno 2013), Querelle de Brest, Prometeo incatenato, Pietà, Corona di spine, Black is Black e Sunset Boulevard.
(continua da pagina 49) ne cosa). Così che, queste immagini Vietate percorrono un tragitto proprio, complementare a quello iniziale, che completa la visibilità dell’intero progetto, peraltro raccolto in un volume-catalogo di alto pregio editoriale: Dark Memories, fotografie di Gian Paolo Barbieri, con introduzione di Maurizio Rebuzzini e colta prefazione di Nikolaos Velissiotis (Skira Editore, 2013). Per conseguenza, trattandosi di un allungo, di un complemento, rimandiamo alle nostre note originarie, dello scorso giugno, riprese dall’introduzione alla monografia appena richiamata. Soltanto, qui e ora, ci premettiamo ulteriori riflessioni, che scorrono liberamente; ci imponiamo un punto fermo del pensiero: in prima persona, singolare maschile. Confessione d’obbligo, confessione necessaria, confessione dovuta: la prima volta che Gian Paolo Barbieri mi ha mostrato le sue Dark Memories ho avuto un attimo di smarrimento. Per quanto, per mestiere soprattutto, ma non soltanto per questo, io viva a contatto costante e continuo con la fotografia, prima di quel momento, non avevo ancora avuto occasione di incontrarmi con una Fotografia che subito imponesse un confronto diretto, un incontro inderogabile. E qui, soprattutto qui, sta la maestosità della fotografia di Gian Paolo Barbieri, che rivela come e quanto l’invenzione creativa dipenda soltanto da colui il quale la realizza. Cosa
distingue l’Uomo da ogni altro essere vivente? La sua intelligenza. Ovverosia, la sua capacità di vedersi dentro, oltre quella naturale di guardare fuori. Indipendentemente dall’apparenza dei soggetti -abile pretesto per l’autore per raccontare una storia, per condividerla, le Dark Memories, di Gian Paolo Barbieri, hanno sollecitato spiriti che ognuno di noi tiene in se stesso. Io, come tutti. Quando ho imparato a conoscere la paura? Quando mi sono trovato da solo, abbandonato, davanti al volto contorto del terrore? Quando ho capito che lo sgomento esiste in tutti gli esseri umani, indipendentemente dalle esperienze individuali, dall’età o dalle origini? Nessuno può sfuggire alla paura, nessuna vita è possibile senza terrore. Non riesco a ricordare, ma so che è così. Noi siamo prigionieri entro confini che condizionano le nostre singole esistenze. Non ricordo quando ho avuto paura per la prima volta. Ma ho potuto rivivere quel magico istante -altrimenti irripetibile- grazie alla Fotografia di Gian Paolo Barbieri, attraverso la quale posso ora cercare, e forse trovare, uno spiraglio che mi aiuti a uscire di qui, e a tornare a casa. ❖ Gian Paolo Barbieri: Dark Memories. Le opere vietate. Photology Milano, via della Moscova 25; www.photology.com. Fino al 15 novembre; lunedì-venerdì 11,00-19,00.
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dal 1968
Kowa Six
www.newoldcamera.com
MILANO!
Giuseppe Candiani non è un fotogiornalista in agguato dell’insolito o della bella scenetta, piuttosto un osservatore acuto, capace di cogliere certe situazioni ambientali, l’equilibrio delle forme strutturali, l’interazione dell’uomo e il territorio, la qualità tipica dell’avvicendarsi delle stagioni e, straordinario, il silenzio. Già, il silenzio, in una metropoli fin troppo rumorosa, il silenzio insinuato grazie ad immagini di armonica struttura
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di Giuliana Scimé
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ilano non è certo fra le città più frequentate dai turisti che preferiscono estasiarsi davanti alle meraviglie di Firenze, Roma e Venezia, la città sull’acqua, del tutto unica. Eppure, Milano è “sull’acqua”, e un tempo non così lontano, era assolutamente “navigabile”. I commerci, gli spostamenti avvenivano sulle barche. Strade centralissime come la via Senato, un solo esempio valga per tutte, non esisteva se non solcata da un canale. Progressivamente, dall’Ottocento fino agli anni Sessanta del secolo scorso, tutte le vie d’acqua vennero coperte in nome di un concetto micidiale: la metropoli lombarda era destinata ad essere dinamica ed efficiente. Di fatto, gli interessi economici di pochi prevaricarono storia, bellezza ed armonia. La bellezza di Milano è nascosta, e come una bella donna di grande modestia e signorilità, bisogna scoprirla per amarla. C’è, però, chi la ama incondizionatamente perché da sempre la osserva, la indaga instancabile in ogni mutamento, e ne rileva i leggeri segni. Fotografo appassionato, Giuseppe Candiani dà inizio alla sua avventura molto giovane, ha solo diciassette anni e la fotografia è “di casa”. Ha osservato il padre che riprende immagini che saranno da modello alla madre per i suoi dipinti. Dapprima, Candiani usa la macchina fotografica per catturare le memorie: amici, gite e vacanze, ma ben presto sente l’esigenza di imparare a capire davvero che cosa sia una fotografia. Tutti credono di sapere che cosa è una fotografia!
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Non è così semplice, al contrario. Imparare a vedere, invece, richiede studio e riflessione. Comincia a frequentare con assiduità la galleria Il Diaframma di Milano, all’epoca, debutto degli anni Novanta, era l’unico spazio dove fosse possibile conoscere fotografi emergenti, che diventeranno celebri ed ammirati, e consolidati autori ed anche maestri che la storia della fotografia la scrissero. Si crea, quindi, una cultura visiva che amplifica, per interessi e studio personali, frequentando i corsi di Alberto Schommer, Jeff Dunas, Rudy Faccin von Steidl, Uwe Ommer, Danilo Frontini, Mary Ellen Mark, Maurizio Galimberti e Franco Fontana. Professionisti assai diversi fra loro che seguono generi altrettanto diversi, ma che trasmettono a Giuseppe Candiani un patrimonio di esperienze, tecniche ed estetiche. Una cultura visiva articolata che sa mettere a frutto senza mai lasciarsi coinvolgere in sterili, ed altrettanto vane imitazioni, come in questa sua ricerca su Milano. Una città che si direbbe non nasconda nulla a lui che la percorre da sempre e per ore, eppure la sorpresa, l’imprevisto accadimento avviene e lo sa captare. Candiani non è, però, un fotogiornalista in agguato dell’insolito o della bella scenetta, piuttosto un osservatore acuto, capace di cogliere certe situazioni ambientali, l’equilibrio delle forme strutturali, l’interazione dell’uomo e il territorio, la qualità tipica dell’avvicendarsi delle stagioni e, straordinario, il silenzio. Già, il silenzio, in una metropoli fin troppo rumorosa, il silenzio insinuato grazie ad immagini di armonica struttura. Un bianco e nero dai forti contrasti, i grigi sono quasi del tutto assenti, una fotografia decisa e pulita. ❖
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Sguardi su
di Pino Bertelli (Piombino, dal vicolo dei gatti in amore, 17 volte settembre, 2013)
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GISÈLE FREUND
La fotografia sociale o d’impegno civile fissa un aspetto della realtà nella storia. Ogni fotografia, come ogni opera d’arte, riflette la personalità e la visione del mondo del suo autore. Fotografare significa mettere sulla stessa linea di ripresa «la mente, lo sguardo e il cuore» (Henri Cartier-Bresson). La fotografia è sempre il risultato di una scelta arbitraria, e quindi un’affabulazione poetica del vissuto che accade davanti alla macchina fotografica e finisce in pellicola (o nella trascrizione digitale, non importa). La geometria, la prospettiva, la complessità dei volumi, le gradazioni dal bianco al nero, lo spettro dei colori... sono alla base del linguaggio fotografico. In fotografia, non esiste l’oggettività, né la registrazione meccanica sistematizzata poi in “opera d’arte”. In fotografia, non ci sono leggi né regole (da rispettare), il visibile non è mai altro di ciò che accade nello sguardo del fotografo. Ecco perché ci sono una moltitudine di tecnici/mozzi del mezzo fotografico e pochi poeti/capitani della fotografia. La fotografia popolare è un’invenzione dell’industria; quella d’arte, la pratica prolungata del mercimonio delle immagini. La rappresentazione popolare dell’obiettività e della perfezione estetica sono la gogna di una menzogna: l’arte della fotografia autorizza la trasfigurazione della cosa fotografata e restituita all’immortalità dell’uomo: «Invece di approfittare di tutte le possibilità della fotografia per sconvolgere l’ordine convenzionale del visibile, il quale, per il fatto che domina tutta la tradizione pittorica e quindi tutta la percezione del mondo, ha finito paradossalmente per imporsi con tutte le apparenze del naturale» (Pierre Bourdieu: La fotografia. Usi e funzioni di un’arte media; Guaraldi, 2004). Manifestare la propria rivolta
contro l’imperialismo dei saperi, il mercato delle armi, la globalizzazione della miseria… significa passare alla denuncia, allo smascheramento, alla separazione dall’ordine totalitario dell’economia politica e mostrare il mazzo dei crimini portati contro l’umanità da una cosca di serpi che si annida nei centri di potere. I culi dei potenti non conoscono patria.
SULL’ANGELO DELLA FOTOGRAFIA SOCIALE L’angelo della fotografia sociale è il messaggero, l’aiutante, il passatore, che mette in relazione il corpo e la fotografia. Il destino dell’Uomo è nelle sue ali. L’immagine fotografica è sempre più di una traccia, un’ombra o una luce dell’esistere: è il luogo di una scelta,
scuno sconterà i nostri rossori come cambiali per il paradiso. Regnare non significa esaudire. Significa che l’inesaudito è ciò che rimane. L’aiutante è la figura di ciò che si perde. O, meglio, la relazione col perduto. Ciò che il perduto esige non è di essere ricordato o esaudito, ma di restare in noi in quanto dimenticato, in quanto perduto e, unicamente per questo, indimenticabile. Il posto del canto è vuoto. Affianco e intorno si danno da fare gli aiutanti, che preparano il Regno [della fraternità e dell’accoglienza, forse]» (Giorgio Agamben: Il giorno del giudizio; Nottetempo, 2004). La creazione di una nuova umanità è stato il primo atto di sabotaggio che ha reso inservibili i Santi e i Profeti. Gli evangelisti si
«Abbiamo tolto di mezzo il mondo vero: quale mondo ci è rimasto? Forse quello apparente?... Ma no! Col mondo vero abbiamo eliminato anche quello apparente» Friedrich Nietzsche l’incanto di un momento, la caduta e la risurrezione di un sogno che lega il ricordo alla speranza. L’angelo della fotografia sociale è anche l’angelo dell’apocalisse, che tiene tra le mani la fine dei giorni e il tempo delle fragole. L’angelo della fotografia sociale è un angelo messaggero, metà genio celeste e metà demone terreno, che recapita le lettere della Storia e mostra il tempo profano e il tempo messianico degli assassini. I passatori, i messaggeri, gli aiutanti dei cieli in utopia «Sono i nostri desideri inesauditi, quelli che non confessiamo nemmeno a noi stessi, che nel giorno del giudizio ci verranno incontro sorridendo. Quel giorno, cia-
sono smarriti sulla via della Chiesa di Roma, e sulla loro cattiveria inappagata hanno eretto la più grande fogna a cielo aperto mai approntata dall’Uomo sull’Uomo. La fotografia dell’angelo ribelle, o dell’esistenza possibile (direbbe Karl Jasper), travalica il mondo dei fatti per tracimare nel linguaggio indiretto della libertà. L’universale risiede nella libertà responsabile dello spirito. La “lotta amorosa” dell’Uomo per la sua libertà emerge sulla seminagione della verità, della gioia, della bellezza di ogni forma di comunicazione, e si scaglia al di là della paura di non essere compresi né valutati secondo i propri meriti. La fotografia sociale poggia
la propria critica della separazione sulla volontà di crescere, di diventare quello che si è, di mordere non per mordere, ma per nutrirsi. Ciò che cerca non è il consenso, bensì l’attimo o l’eternità del gesto. La fame di verità della fotografia poggia sull’idea che ogni sapere è interpretazione dell’essere da parte di un soggetto vivente che cerca di conoscere la razza dei padroni e la rivolta degli schiavi (rubata a Friedrich Nietzsche, il dinamitardo di tutte le morali), per mettere fine alla civiltà dei simulacri. Sotto il cielo di Parigi. Gisèle Freund muore il 30 aprile 2000, a novantuno anni (era nata in Germania, a Schöneberg, il 19 novembre 1908, in una famiglia dell’alta borghesia ebreo-tedesca). Con lei, scompare una delle figure più autentiche della fotografia a/conformista, libertaria. Quando ha quindici anni, il padre le regala una Voigtländer 6x9cm, con la quale scatterà le sue prime fotografie. Per la laurea, riceve in dono (sempre dal padre) la prima Leica. Nel 19321933, compie studi di sociologia all’Università di Friburgo, e successivamente presso l’Institut für Sozialforschung (Istituto per gli Studi Sociali), di Francoforte, presso il quale si è formata una intera generazione di intellettuali e filosofi della dissidenza, che ha preso il nome di “Scuola di Francoforte”. Partecipa alla lotta contro il nazionalsocialismo, e documenta le manifestazioni studentesche e operaie contro la politica del regime nazista. Gisèle Freund diventa fotografa attenta ai mutamenti e alle turbolenze sociali. Tutto comincia nel 1933, quando il delirio di Hitler ascende al potere. A Francoforte, fotografa i «corpi tumefatti dei compagni picchiati dai nazisti» (Gisèle Freund); poi si rifugia a Parigi, portando con sé (nascosto addosso) il rullino delle
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Sguardi su immagini che testimoniano la violenza del regime contro i giovani dissidenti. Il suo umanesimo è già segnato. La malinconia del vero, che scivola nelle sue fotografie, denuda volti, disvela gesti, scopre emozioni non contaminate della passione dolorosa che rifiuta il disprezzo degli uomini come devastatori di cieli impoveriti di saggezza. A Parigi, Gisèle Freund continua gli studi di sociologia (in Germania era stata allieva di Theodor W. Adorno), e conduce una vita di bohême, nel Quartiere Latino. La sua tesi di laurea (Photographie et société; pubblicata da La Maison des Amis des Livres, nel 1936, tradotta in italiano da Einaudi, dal 1976, come Fotografia e società) è una ricerca pungente sulla storia sociale della fotografia nel Diciannovesimo secolo. Le sue annotazioni sulla fotografia d’impegno civile spiegano il mondo a partire dall’Uomo, descrivono la fotografia come un’estetica del dolore, con la quale si possono esprimere verità senza dare ricette. «Siamo tutti nella fogna, ma alcuni di noi guardano le stelle» (Oscar Wilde). L’obbedienza a tutto è una forma d’imbecillità. Nella storia degli antichi, s’ignorava il dolore (camuffandolo in eroismo); nella storia della modernità, si fa del dolore uno spettacolo da circo (facendo pane quotidiano per immagini della stupidità delle guerre o della banalità consumerista). Un’annotazione. Nel 1940, prima dell’entrata delle truppe tedesche nella città, Gisèle Freund lascia Parigi, e si rifugia in un paesino della regione del Lot, nel sud della Francia. I collaborazionisti francesi rastrellano gli ebrei, per spedirli nei campi di sterminio nazisti, e lei, su invito di Victoria Ocampo, si stabilisce in Argentina, dove resterà fino alla fine della guerra. Negli anni dell’esilio e al termine del conflitto, fotografa, tra gli altri, Evita e il generale Perón, Diego Rivera e Frida Kahlo, David Alfaro Siqueiros e José Clemente Orozco. Viaggia in America Latina, arriva fino alla Patagonia. Nel 1952,
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torna a Parigi. Nel 1970, pubblica il suo primo libro autobiografico, Le Monde et ma Caméra (edizione italiana, Il mondo e il mio obiettivo; La Tartaruga, 1984); e, nel 1977, il secondo libro autobiografico, Mémoires de l’œil, inedito in Italia. Nel 1980, il Ministero della Cultura francese le assegna il Premio Nazionale delle Arti, nell’ambito della fotografia. Nel 1981, realizza il ritratto ufficiale del presidente François Mitterand, e l’anno successivo viene insignita della Legione d’Onore (né quello, né questa, aggiungono niente alla grandezza creativa di Gisèle Freund, semmai confermano che la politica riconosce il valore della cultura sempre una generazione dopo). Nel 1991, la grande retrospettiva al Centre Pompidou, a Parigi, certifica il suo talento attraverso mezzo secolo di pratica della fotografia sociale. Anche i ciechi e sordomuti si accorgono che dietro un grande fotografo c’è un criminale o un poeta. La fotografia dell’esistenza di Gisèle Freund è di una bellezza convulsiva che ha pochi eguali nella storiografia fotografica predominante, Infatti, al fondo della sua ritrattistica c’è il peso, il sudore e le lacrime dell’umanità emancipata, e una filosofia della verità che denuncia il naufragio della dignità umana, anche. Ancora. Il fare-fotografia di Gisèle Freund esprime una percezione della realtà ignuda, architetta un carattere di autenticità che sfugge a ogni fatalismo e, nell’abolizione dell’apparenza, riporta alla speranza della vera conoscenza come ripudio dell’alienazione del mondo. La critica radicale della fotografia così fatta si strugge nel desiderio rivendicato di una comunità apocalittica della disobbedienza o dell’indignazione. È lo stesso grido di sdegno di Hannah Arendt, quando riprende le tesi dell’Angelus Novus, di Walter Benjamin: «L’angelo della storia [...] ha la faccia rivolta al passato. Là dove ci appare una catena di avvenimenti, egli vede un’unica catastrofe, che inces-
santemente ammucchia macerie su macerie e gliele scaraventa davanti ai piedi. Egli vorrebbe certo indugiare, destare i morti e ricomporre le cose frantumate. Ma dal paradiso soffia un vento di tempesta, che si impiglia nelle sue ali ed è così impetuoso che l’angelo non può più chiuderle. Questo vento di tempesta lo spinge incessantemente nel futuro, a cui egli gira le spalle, mentre il mucchio di rovine sale davanti a lui fino al cielo. Quel che noi chiamiamo progresso è questo vento di tempesta» (Hannah Arendt: Le origini del totalitarismo; Edizioni di Comunità, dal 1967; Einaudi, 2009). Soltanto i sogni irriducibili degli utopisti che cantano di una società senza né servi né padroni possono destare l’umanità dall’incubo della storia. La fotografia della grazia o delle passioni di Gisèle Freund contraddice la ragione economica/politica imperante. Mostra che non c’è una via unica e il cammino dell’Uomo, come quello dell’Arte, è costellato di “mosche cocchiere” e “scimmie sapienti”, e nulla è più difficile del nascondere la propria mediocrità. La poesia, come l’amore, abita dove la si lascia entrare. «C’è una cosa che si può trovare in un unico luogo al mondo, è un grande tesoro, lo si può chiamare il compimento dell’esistenza. E il luogo in cui si trova questo tesoro è il luogo in cui ci si trova» (Martin Buber: Il cammino dell’uomo, Edizioni Qiqajon, 1990; Feltrinelli, 2000). È la diversità degli uomini (la differenziazione delle loro qualità e delle loro utopie) che costituisce la grande risorsa del genere umano. L’aura melanconica che albeggia in profondità nella fotografia di Gisèle Freund mostra che la fonte della conoscenza è il bello, e si pone al di sopra dell’effimero e del fluttuante che galleggiano nelle cloache dell’apparenza. È una scrittura visuale che riporta all’Angelus Novus, di Walter Benjamin, e, più ancora, si riconosce nelle tradizioni hassidiche, nelle quali l’angelo ribelle non dona agli uomini la felicità in cambio di doni mercantili, ma s’innal-
za contro i despoti della ragione unica, per meglio comprendere e rigettare un’umanità che si afferma nella distruzione. La filosofia della fotografia delle passioni dei briganti di confine e dei maestri carbonari è un cammino che porta lontano da dove la società dello spettacolo ha mangiato l’immaginario comunitario: «L’insediamento del dominio spettacolare è una trasformazione sociale così profonda da aver cambiato radicalmente l’arte di governare» (Guy Debord: Commentari sulla società dello spettacolo; SugarCo, 1990; Lupetti Editore, 2012). Il mondo apparterrà a uomini e donne speciali, capaci di tutto, ma soprattutto di amare il diverso da sé, perché in tutti i tempi e sotto ogni cielo, il sogno a occhi aperti degli uomini e delle donne del no! hanno trasfigurato destini, rotto le catene di dio, patria, esercito, e hanno posto la bellezza nell’agorà dei giusti. Sotto il libero cielo della storia, gli angeli dell’utopia aprono le ali della propria pazienza e si dissolvono non davanti a Dio (secondo la tradizione talmudica), ma lasciano cadere la loro polvere d’oro e d’innocenza su tutti gli uomini e le donne in rivolta, e annunciano nel princìpio di uguaglianza e solidarietà tra i popoli, il divenire di una società più giusta e più umana. L’obbedienza non è mai stata una virtù. Il primo atto di libertà è stato anche il primo gesto di disobbedienza. «Forse il Diavolo è Dio in esilio» (Jean-Luc Godard: dialogo dal film One plus One, distribuito come Sympathy for the Devil, 1968). Al pari di ogni totalitarismo, il dominio dello spettacolo racchiude in sé i germi della propria caduta.
SULLA FOTOGRAFIA DELLE PASSIONI Nell’epoca della falsificazione e dell’impostura, le democrazie spettacolari (come i regimi comunisti) contano i propri successi nel genocidio programmato, e hanno fatto di ogni forma d’arte un manuale di polizia. I congiurati della libertà non stanno gioco, e al limitare del bosco arro-
Sguardi su tano i coltelli. L’imbecillità crede alla tirannide dei mezzi d’informazione di massa e il “buon governo” continua a generare criminali dalla faccia buona. L’inautentico si sostituisce al vero, ovunque. L’organizzazione del silenzio è in atto. Il falso brilla d’ignoranza, e la speranza è lasciata alla deriva dei teatrini ambulanti della politica. I terrorismi sono di Stato o di Fede. Quindi, sono educativi. Dovunque regni lo spettacolo, gli uomini assomigliano più alle loro merci che ai loro padri. A guisa di chiusura del bordello senza muri della società consumerista: la rivoluzione della vita quotidiana sarà opera soltanto del romanticismo eversivo degli apolidi o dei corsari dell’Utopia possibile (della democrazia partecipata o diretta), che hanno provocato il disordine senza amarlo, e hanno messo fine alla barbarie della civiltà dello spettacolo. A ritroso. I primi lavori di Gisèle Freund sono realizzati nelle strade di Parigi; e stampati in una camera oscura improvvisata. Vende i primi reportage (i testi sono di un giovane scrittore di notevole talento, René Crevel, che finirà suicida), e si specializza in ritratti su commissione. Quelli dei commercianti del Quartiere Latino le danno di che vivere. Mangia in una latteria, una volta al giorno. Comprende presto il sale dell’ingiustizia, e si trova accanto alla «feccia della terra, [che] sono quelli radiati dal proprio paese» (Arthur Koestler). La tragedia della diversità è fare di ogni ideale del desiderio e di ogni teologia dello spettacolo il pitale delle proprie vergogne. Gisèle Freund scopre nel ritratto la forma di espressione che è più congeniale alla sua sensibilità di donna e esule. Che fotografi la povera gente di Newcastle (Inghilterra) o elabori una galleria iconologica di personaggi della cultura, dell’arte o della politica, sulla pellicola fissa i loro volti alla stessa maniera, con la stessa capacità di non-giudizio e con la forza davvero singolare di uno sguardo malinconico/passionale che brucia alla radice il tempo perduto dell’apparenza.
In arte, i miracoli annoiano anche i nichilisti per vocazione. La libertà fiorisce meglio tra le erbacce del disordine selvatico che sugli altari/mercati dei nuovi comandamenti globali. Gli sciocchi si turbano un poco quando i mass-media dicono loro che tutte le idee sono morte e i miti spediti insieme ai cannoni là dove sorge il sole, per sbarazzarsi definitivamente dei popoli più poveri della Terra. Gli stupidi mostrano una certa delicatezza nel baciare le mani ai politici e lavare i piedi ai preti. L’imbecillità è il passaporto di “buona condotta” del vecchio e del nuovo secolo. La mano che sfama è la stessa mano che poi uccide l’affamato. La prima fotografia importante di Gisèle Freund è quella che scatta a André Malraux, nel 1935, ripreso sul terrazzo della sua casa parigina. Nel fotogramma originale, lo scrittore è composto sulla destra, con la mano che stringe la sigaretta alla bocca; a sinistra, un’ombra sfocata lo appuntella alla sua dirompente personalità di umanista agnostico. André Malraux, va detto, sarà un “compagno di strada” della Rivoluzione di Spagna del Trentasei; nel 1968, si schiererà a fianco del generale De Gaulle, per la restaurazione dell’ordine: sfilerà sotto l’Arc de Triomphe, di Parigi, con i conservatori, per seppellire il Maggio francese. L’alcolismo, gli oppiacei e la Sindrome di Tourette lo portano alla morte, nel 1976. Il presidente della repubblica Jacques Chirac, amabilmente destrorso, fa trasportare la sua salma al Panthéon, di Parigi, e gli tributa una cerimonia solenne. Nella storia, le verità cominciano da un conflitto contro la polizia e finiscono col farsi sostenere dagli stessi fucili. Le proprietarie delle librerie sulla Rive gauche, di Parigi, Sylvia Beach (Shakespeare and Company) e Adrienne Monnier (La Maison des Amis des Livres), introducono Gisèle Freund tra i loro amici, e così conosce (e fotografa) Walter Benjamin, Louis Aragon, Colette, André Malraux, Simone de Beauvoir, Samuel Bec-
kett, André Breton, Jean Cocteau, François Mauriac, Ernest Hemingway. La sua attività è copiosa; gioca a scacchi con Walter Benjamin, s’intrattiene nei caffè con André Gide, André Malraux, Paul Valéry, Aldous Huxley, Bertolt Brecht, Henri Barbusse, Ilya Ehrenburg, Boris Pasternak. Un’intera generazione di intellettuali, sovente straordinari, passa davanti al suo obiettivo, e resta nella Storia (anche) della fotografia. La vena malinconica che attraversa la fotografia di Gisèle Freund esprime la realtà della propria epoca. Implica una creatività, un’epica, una genialità che si trascolora in dissidenza sociale: infrange la “bella apparenza” (l’alone sacro) dell’opera d’arte e profana i rituali e le modalità riservati da molti fotografi all’élite o ai protagonisti del mondo borghese (fino a materializzare l’oscenità del vero). L’insegnamento di Walter Benjamin per la costruzione di un’arte (non solo) fotografica della demolizione dell’aura artistica come valore di pochi non è andato perduto. «Nella fotografia, il valore espositivo inizia a spingere indietro, su tutta la linea, il valore culturale. [...] Dalle prime fotografie, l’aura si affaccia per l’ultima volta proprio nell’espressione fuggevole di un volto umano. È questo a costituirne la malinconia e incomparabile bellezza. Ma quando l’uomo si ritira dalla fotografia, allora per la prima volta il valore espositivo si oppone al valore culturale mostrandoglisi superiore [e ciò vale anche per il cinema] [...]. Lo scopo delle rivoluzioni è accelerare tale adattamento. Le rivoluzioni sono innervazioni del collettivo; più precisamente ancora, sono tentativi di innervare del nuovo collettivo, storicamente inedito» (Walter Benjamin; L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica; Einaudi, dal 1966; Rizzoli, 2013 / Piccola storia della fotografia; Skira Editore, 2011). Tutto vero. Gisèle Freund architetta un rizomario di ritratti nel quale ciascuno è signore del proprio pensiero e si lascia alle spalle ogni amplificazione o scivolamento sacrale dei personaggi
trattati. Compito della fotografia è liberare l’Uomo dalle proprie apparenze e restituirlo alla giusta strada della realtà. La bellezza fotografica di Gisèle Freund si denuda in una specie di diario per immagini, nel quale l’Uomo insorge o è senza speranza. Il «maledetto universo della porta accanto» (Edward Estlin Cummimgs) è registrato, ripreso, ritagliato direttamente dalla realtà ordinaria. La visione del desiderio che emerge dalle sue immagini annuncia la necessità di un cambiamento, ma suggerisce anche un’aristocratica solitudine dell’intelligenza, nella quale l’icona non dimostra nulla, ma testimonia il valore di un’idea di amore e di libertà. Tutte le immagini (discrepanti) che si possono guardare un paio di volte senza sputarci sopra appartengono alla storia della fotografia trasversale. A Parigi, Gisèle Freund fotografa la scontrosità di James Joyce; poi, si reca in Inghilterra (dove raccoglie frammenti di vita proletaria): allarga il suo raccolto iconografico di scrittori con Virginia Woolf, Vita Sackville-West, George Bernard Shaw, T. S. (Thomas Stearns) Eliot. Successivamente, in Argentina fotografa l’alta società di Buenos Aires: i suoi ritratti di Evita e del generale Perón sono impietosi, evidenziano cerimoniali e rituali di bassa levatura nobiliare e cattivo gusto. Tornando in biografia, rimaniamo in Sudamerica. Invitata a tenere una conferenza in Messico, vi resta due anni. Frequenta Diego Rivera, Frida Khalo e altri artisti comunisti, che gli procureranno difficoltà quando chiederà il visto d’ingresso per gli Stati Uniti. Nell’immediato dopo guerra, è nella lista nera del famigerato senatore Joseph McCarthy, fautore della “caccia alle streghe a Hollywood”, inquisitore di intellettuali sospettati di comunismo. Nel 1947, introdotta da Robert Capa, Gisèle Freund comincia a lavorare per l’Agenzia Magnum Photos, ma non è troppo socievole verso la centralità intellettuale, un po’ mondana, di alcuni fotografi dell’Agenzia, ed è espul-
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Sguardi su sa. Nel 1950, rientra a Parigi, stringe amicizia con Jean-Paul Sartre e Albert Camus. Continua a fotografare la quotidianità, ancora con stupore; a partire dal rispetto dell’altro, osserva la meraviglia delle piccole cose. La creaturalità del suo sguardo mira al cuore del sistematico e dell’esaustivo, e ciò che fotografa è ancora la volontà di amare e odiare tutto ciò che gli si pone di fronte, come intimità della coscienza. È tra i primi fotografi a sperimentare il colore. I ritratti di André Gide, Henri Michaux, Michel Butor, Nathalie Sarraute, Maria Helena Vieira da Silva, Virginia Woolf sono straordinari: ciascuno è venato di quella discrezione coraggiosa che attraversa molta della sua scrittura fotografica. Questi ritratti mostrano anche che l’obiettività dell’immagine è soltanto un’illusione e una menzogna. Queste immagini esprimono una lettura del corpo deputata a dire, ridire, affinare, precisare, correggere, aggiungere ciò che il corpo esige. Gisèle Freund rappresenta l’intuizione, per non dimenticarla. Architettate in un manto di colore quasi monocromatico (marrone/rosso), le sue immagini non sono elegiache, ma confessioni del corpo, lasciano trasparire il rapporto paritario/culturale tra autore e soggetto. Il ritratto ufficiale di François Mitterand è immerso tra l’oscuro (il corpo) e la luce (il viso e le mani che tengono un libro): il presidente francese assume un’aria bonaria, quasi “assente”, tipica dell’uomo che si è fatto da sé e ha raggiunto il tetto dell’impero, a conferma del detto Tutti i baristi di club finiscono in politica. Gisèle Freund alterna il lavoro di fotografa con quello di saggista. I suoi libri rispecchiano la misura del vero, del buono, del bene, unicamente in funzione dell’Uomo e della Donna liberi e creatori dei propri valori: Fotografia e società. Riflessione teorica ed esperienza pratica di una allieva di Adorno è un testo fondamentale per lo studio della fotografia. «Per me, la fotografia è prima di tutto un documento: di un av-
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venimento, di una situazione, di un’epoca. Le caratteristiche di questo documento, la sua qualità, dipendono dalla persona che sta dietro l’apparecchio. [...] Più di ogni altro mezzo, la fotografia è atta a esprimere i desideri e i bisogni degli strati sociali dominanti, a interpretare a loro modo gli avvenimenti della vita sociale» (Gisèle Freund: Fotografia e società. Riflessione teorica ed esperienza pratica di una allieva di Adorno; Einaudi, 1976). La fotografia d’impegno civile dà libero corso alle passioni, anche le più pericolose, delegittima la ricchezza, la potenza, l’onore, la virtù, la morale come aspirazioni e ingresso nella società istituita, e rifiuta ogni autorità in maniera di arte. La fotografia del vero è il corpo che si fa pensiero e implica il presente come sola verità da cogliere ai bordi dell’esistenza umiliata e offesa. La fotografia delle passioni, di Gisèle Freund, è una contro-morale emozionale, che rivela la realtà etica: esiste solo ciò che la passione rende reale o possibile, e il disagio che provoca restituisce il senso del bene e del male, della giustizia e dell’ingiustizia, della gioia e della collera come viatico della ragione umana. Nel 1994, un raffinato catalogo su Gisèle Freund, a cura di Hubertus von Amelunxen (Gisèle Freund, zwei Reportagen; Museum für Photographie, Braunschweig), conferma che lo sguardo aurorale della fotografa è un raffinato incrocio di situazioni, nel quale i significati profondi del sublime estetico (e del loro contrario) dicono che al culmine della disperazione c’è sempre la volgarità del potere. Le ultime immagini sono degli anni Ottanta. Poi, si chiude nella sua casa tappezzata di libri e ci resta fino alla morte. Che è solo un dettaglio. Perché Gisèle Freund non è mai scomparsa... a scaldare i cuori della bellezza, della felicità, dell’alterità e del dissidio come filosofia materica dell’avvenire restano le sue opere passionali, malinconiche e indimenticabili. ❖
Chi? Fujifilm X: sistema fotografico in pertinente equilibrio tra prestazioni tecniche di profilo alto e design ereditato dalla lunga e nobile storia evolutiva della tecnologia fotografica. New Old Camera: indirizzo privilegiato del commercio fotografico, sia in interpretazione storica-collezionistica-antiquaria, sia in personalità attuale (per quanto concentrata soprattutto su apparecchi fotografici di alta qualità). FOTOgraphia: proposta giornalistica con visioni trasversali della propria materia.
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Come? Ancora NewOld, ovvero oggi (domani) e ieri. Fotografia di Angelo Galantini scattata con Fujifilm X-E1, montata sul corpo posteriore di una Sinar Norma 4x5 pollici (del 1955) tramite anello stringiobiettivo RBM, già BRM (Romualdo Brandazzi, di Milano; degli anni Trenta... Cinquanta), e anello adattatore Quenox Nikon, su colonna Fatif (anni Sessanta). Obiettivo Rodenstock Imagon 300mm H=5,8 (anni Quaranta), con selettore H 9,5-11,5 aperto.
Perché? Perché no?
La forma per il contenuto Combinazioni fantasiose di macchine fotografiche Fujifilm X, tra oggi (domani) e ieri, in doppia interpretazione NewOld, ideate e realizzate da
www.newoldcamera.com