Mensile, 6,50 euro, Poste Italiane SpA - Spedizione in abbonamento postale - D.L. 353/2003 (convertito in Legge il 27-02-2004, numero 46), articolo 1, comma 1 - DCB Milano
ANNO XX - NUMERO 197 - DICEMBRE 2013
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Parliamone SOPRA TUTTI, FRANTI
Wpoty 2012 CHE BELLA NATURA
GINO BEGOTTI 14 DICEMBRE 1963: THE BEATLES
Mensile, 6,50 euro, Poste Italiane SpA - Spedizione in abbonamento postale - D.L. 353/2003 (convertito in Legge il 27-02-2004, numero 46), articolo 1, comma 1 - DCB Milano
O T N E M A N O B B A N I O L SO
Parliamone SOPRA TUTTI, FRANTI Wpoty 2012 CHE BELLA NATURA
GINO BEGOTTI 14 DICEMBRE 1963: THE BEATLES
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Mensile, 6,50 euro, Poste Italiane SpA - Spedizione in abbonamento postale - D.L. 353/2003 (convertito in Legge il 27-02-2004, numero 46), articolo 1, comma 1 - DCB Milano
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ANNO XX - NUMERO 197 - DICEMBRE 2013
ANNO XX - NUMERO 196 - NOVEMBRE 2013
Abbonamento 2014
(nuovo o rinnovo) in omaggio Fotografia nei francobolli di Maurizio Rebuzzini prefazione di Giuliana Scimé testimonianza di Michele Smargiassi
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GIAN PAOLO BARBIERI LE OPERE VIETATE ANNO XX - NUMERO 195 - OTTOBRE 2013
Parole di sostanza IL MONDO SALVATO DAI RAGAZZINI
Parole fotografate LUISA MENAZZI MORETTI
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ANGELO CALANNI RINDINA
prima di cominciare È DA UN’ALTRA PARTE, NON PIÙ QUI. Ho conosciuto Giorgio Ginestra negli anni di avvio della mia professione in fotografia. Dopo due precedenti esperienze giornalistiche nel settore, nel 1976, entrai a far parte di una accreditata schiera di collaboratori al mensile Fotopratica, allora pubblicato da GiBi (al secolo, Gianni Baumberger), appassionato distributore di attrezzature fotografiche, e diretto da Lauretta Sapienza, i cui meriti redazionali le varrebbero almeno una lode incondizionata. Giorgio Ginestra era con noi. È stato uno di quanti hanno dato lustro a quella esperienza giornalistica; tanti e tutti bravi, va ricordato. Così come va annotato che, per diverse circostante, molti erano provenienti da Torino (città fertile di idee fotografiche, magari a partire dal primo dagherrotipo italiano, ufficialmente riconosciuto e accreditato come tale, realizzato l’8 ottobre 1839, a due mesi dalla presentazione parigina del precedente diciannove agosto, da Enrico Federico Jest: Veduta della Gran Madre di Dio -dagherrotipo oggi custodito e conservato nella Galleria Civica d’Arte Moderna del capoluogo piemontese-).
«Tutti si voltarono a guardar Franti. E quell’infame sorrise». Edmondo De Amicis; su questo numero, a pagina 16 mFranti: mio vero cognome, guadagnato sul campo. Maurizio Rebuzzini; su questo numero, a pagina 23 La libertà è in ciascuno, e non può essere mendicata, né recisa. Tutti gli Uomini nascono liberi e uguali. Pino Bertelli; su questo numero, a pagina 60 Allora? Basta! Maurizio Rebuzzini; su questo numero, a pagina 9 La fotografia della libertà compensa con la dignità tutta l’impudenza e la mancanza di princìpi della vita dominata, e denuncia le condizioni di schiavitù nelle quali versano gli Ultimi della Terra. Pino Bertelli; su questo numero, a pagina 61
Copertina Ringo Starr, un miracolato (va detto!), in rappresentanza dei Beatles -non fosse altro che per la dicitura sulla cassa della sua batteria-, nel cinquantesimo anniversario dell’ultimo concerto “minore” dei Fab Four: 14 dicembre 1963, al Wimbledon Palace, di Londra. Del reportage di Gino Begotti, riferiamo da pagina 44
3 Altri tempi (fotografici) Allora: nel periodico rinnovamento/cambio di rotta, ekko qui l’ultima raffigurazione da un catalogo fotografico. Per tanti motivi, molti dei quali collegati tra loro e alla fogliazione di questo numero, da un fantastico opuscolo Nital sull’uso degli obiettivi grande formato
7 Editoriale Vissuto in sostanziale isolamento volontario e ricercato, Giorgio Ginestra è stato prezioso compagno di viaggio per coloro i quali, e sono pochi (uno solo ne conosco), hanno avuto il privilegio di scalfire la sua totale indipendenza. Di studi e provenienza artistica -altra fantastica caratteristica di molte personalità torinesi-, ha interpretato con rigore la propria passione fotografica, concentrata soprattutto sull’Ottocento: immagini, attrezzature, movimenti e altro ancora. Ultimo elefante (dinosauro?) di una fotografia antica, Giorgio Ginestra se ne è andato in silenzio, come silente è stata la sua vita. Ci ha lasciati il ventiquattro dicembre di un anno fa, quando tutti stavano pensando alle festività natalizie. Ora, è da un’altra parte, non più qui. Lo ricordo, a un anno dalla scomparsa. M.R.
Serve sottolinearlo?: anarchia è troppo generico. Dunque, nello specifico, situazionismo/situazionista. Diciamo grazie a Pino Bertelli, fantastico... Pinocchio
8 Allora? Basta! Da seguire, da ripetere, da sottolineare, da ammirare: Libération, del ventuno novembre, in edizione senza fotografie. Basta con il razzismo strisciante
10 Al cuore, Nikon Nikon Df. Ma, forse, qualcosa di più! No! È certo!
12 In bella vista Apparecchi fotografici nelle scenografie cinematografiche: senza ordine, senza casellario, senza altra intenzione, oltre quella di fare bella mostra di se stessi. Punto Ricerca iconografica di Filippo Rebuzzini
DICEMBRE 2013
RIFLESSIONI, OSSERVAZIONI E COMMENTI SULLA FOTOGRAFIA
16 Sopra tutti, Franti
Anno XX - numero 197 - 6,50 euro
Valore e contenuti di una personalità di riferimento di Maurizio Rebuzzini (Franti)
DIRETTORE
RESPONSABILE
Maurizio Rebuzzini
IMPAGINAZIONE
16 Elogio di Franti Da Diario minimo, in edizione libraria dal 1963 di Umberto Eco
Maria Marasciuolo
REDAZIONE
Antonio Bordoni Angelo Galantini
FOTOGRAFIE Rouge
24 Mast a Bologna
SEGRETERIA
Nel capoluogo emiliano, un affascinante e autorevole contenitore di Arti, Sperimentazione e Tecnologia di Maurizio Rebuzzini
HANNO
26 Bombe su Milano Agosto 1943: il capoluogo lombardo subisce quattro devastanti incursioni aeree notturne. Nelle fotografie di Franco Rizzi, raccolte e commentate dal figlio Sandro, la partecipe documentazione di ferite e dolori di Sandro Rizzi
34 Naturalmente! Gratificante mostra delle fotografie selezionate dal BBC Wildlife Photographer of the Year, il più consistente concorso di fotografia naturalistica. In mostra, a Milano, l’edizione 2012. Avvincente di Lello Piazza
42 Rodenstock Imagon Dal 1928, in interpretazione a fuoco morbido a cura di New Old Camera
44 Da qui, il mito! Cinquant’anni dall’ultimo concerto “minore” dei Beatles, al Wimbledon Palais, di Londra, il 14 dicembre 1963. Emozionante reportage d’“annata” di Gino Begotti di Angelo Galantini
55 A domanda, risponde! Sistema portafiltri Silvestri Talos. In un momento nel quale altri parlano soltanto... l’azienda toscana agisce di Antonio Bordoni
Maddalena Fasoli COLLABORATO
Fabio Augugliaro Gino Begotti Pino Bertelli Angelo Calanni Rindina Marino Dal Moro Giancarlo D’Emilio Umberto Eco mFranti Fabrizio Gori Chiara Lualdi Lello Piazza Franco Sergio Rebosio Sandro Rizzi Ciro Rebuzzini Filippo Rebuzzini Ryuichi Watanabe (New Old Camera) Redazione, Amministrazione, Abbonamenti: Graphia srl, via Zuretti 2a, 20125 Milano; 02-66713604 www.FOTOgraphiaONLINE.it; graphia@tin.it. ● FOTOgraphia è venduta in abbonamento. ● FOTOgraphia è una pubblicazione mensile di Graphia srl, via Zuretti 2a, 20125 Milano. Registrazione del Tribunale di Milano numero 174 del Primo aprile 1994. Poste Italiane SpA - Spedizione in abbonamento postale - D.L. 353/2003 (convertito in Legge il 27-02-2004, numero 46), articolo 1, comma 1 - DCB Milano. ● A garanzia degli abbonati, nel caso la pubblicazione sia pervenuta in spedizione gratuita o a pagamento, l’Editore garantisce la massima riservatezza dei dati forniti dagli abbonati e in suo possesso, fatto diritto, in ogni caso, per l’interessato di richiederne gratuitamente la rettifica o la cancellazione ai sensi della legge 675/96. ● FOTOgraphia Abbonamento 12 numeri 65,00 euro. Abbonamento annuale per l’estero, via ordinaria 130,00 euro; via aerea: Europa 150,00 euro, America, Asia, Africa 200,00 euro, gli altri paesi 230,00 euro. Versamenti: assegno bancario non trasferibile intestato a Graphia srl Milano; vaglia postale a Graphia srl - PT Milano Isola; su Ccp n. 28219202 intestato a Graphia srl, via Zuretti 2a, 20125 Milano; addebiti su carte di credito CartaSì, Visa, MasterCard. ● Nessuna maggiorazione è applicata per i numeri arretrati. ● È consentita la riproduzione di testi e fotografie, magari citando la fonte (ma non è indispensabile, né obbligatorio farlo). ● Manoscritti e fotografie non richiesti non saranno restituiti; l’Editore non è responsabile di eventuali danneggiamenti o smarrimenti. Fotocomposizione DTP e selezioni litografiche: Rouge, Milano Stampa: Arti Grafiche Salea, Milano
Rivista associata a TIPA
58 In affrancatura Lieve anticipazione di una imminente edizione libraria: Fotografia nei francobolli, di Maurizio Rebuzzini
60 Liu Xia Sguardo sulla fotografia dei diritti umani di Pino Bertelli
www.tipa.com
editoriale ANTONIO BORDONI
D
ico grazie alla vita, che mi ha dato tanto (da e con Violeta Parra: Gracias a la vida, / Que me ha dado tanto). Dico grazie a Pino Bertelli, che mi onora della sua amicizia e illumina le nostre pagine con l’intensità, spessore e valore dei suoi avvincenti e appassionanti Sguardi su: da pagina 60, su questo numero, Sguardo su Liu Xia, pretesto qualificato e qualificante per riflettere sulla fotografia dei diritti umani. Grazie tante. Grazie tante, non soltanto per questo. E, ancora, dico grazie a coloro i quali sostengono il mercato entro il quale agiamo: senza alcuna soluzione di continuità, dal commercio dei prodotti al loro utilizzo, al linguaggio, alla socialità, alle immagini, alla parola... a tutto quanto smuove la Fotografia, nel proprio insieme e complesso. In questo senso, personalmente cerchiamo di svolgere al meglio i nostri compiti statutari, e cerchiamo di andare anche oltre, magari mettendoci del nostro, magari compiendo sacrifici individuali: senza amareggiarci per i tanti/troppi, che -dal commercio soprattutto- evitano di agire oltre le proprie rispettive autoreferenzialità. Basterebbe poco, per arricchire tutti delle proprie capacità, per agire in una direzione che non sia autoconclusiva, ma si proietti in una ampiezza capace di rafforzare e consolidare conoscenze e gratificazioni... alle quali possono anche corrispondere consumi ed economie di scala. Ovviamente, non è questa la finalità prima e principale della nostra azione giornalistica e di approfondimento. Ma questo risvolto commerciale è una consecuzione/conseguenza anche inevitabile: un retrogusto del quale qualcuno dovrebbe fare prezioso tesoro. Nel riconoscimento nella nostra testata (e soltanto a noi ci riferiamo: ciascuno viva e operi come meglio crede e come preferisce fare), ognuno di noi pensa e agisce nei confronti della Fotografia, che poi viene vissuta da tutti in mille e mille modi personali. Ripeto e ribadisco, nella riflessione odierna: grazie tante a Pino Bertelli, le cui opinioni sono corroboranti come poche altre. In questo senso, in un momento nel quale decodifichiamo una nostra personalità esplicita richiamando una certa identificazione con Franti, dal Cuore di Edmondo De Amicis (da pagina 16), non possiamo ignorare che Pino Bertelli è sicuramente Pinocchio... geniale individualità e soggettività a sostegno di una vita che antepone gli altri, chiunque siano, a se stesso. E tra i miei tesori, tra gli oggetti che mi accompagnano (e ai quali parlo e dai quali ricevo risposte e consigli), ci sta una recente visualizzazione di Pinocchio (qui accanto, in illustrazione) alla quale sono già particolarmente legato, sia per se stessa, sia per il gesto con il quale l’ho ricevuta (da Fabrizio Gori, oste a Firenze), sia per l’occasione nella quale è maturata (in una cena di grande serenità e amicizia autentica). Dico grazie a tutti, ringraziandomi a mia volta. Maurizio Rebuzzini
Pinocchio dipinto sulla paglia di rivestimento di un fiasco di Chianti; opera di Fabrizio Gori. Martedì ventisei novembre, alla Toscanella Osteria, di Firenze, in compagnia di Fabio Augugliaro, Marino Dal Moro e Giancarlo D’Emilio: un milanese in compagnia di soli toscani (circa), ma anche di Toscani.
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Basta!
di Maurizio Rebuzzini e Fabio Augugliaro
B
ALLORA? BASTA!
Basta, tutto maiuscolo, ha gridato sulla propria prima pagina il quotidiano parigino Libération, dello scorso ventuno novembre. Per evitare fraintendimenti e speculazioni, precisiamo subito che si tratta dell’organo ufficiale del Partito comunista francese, erede di quel fantastico Front populaire degli anni Trenta definito da speranze, desideri, sogni, utopie e aspettative che nulla hanno avuto da spartire con le aberranti politiche perpetuate dall’infame Unione Sovietica, da Lenin in avanti: va detto, lo diciamo! Per evitare altrettanti fraintendimenti e simulazioni, dal nostro punto di vista mirato, oltre che viziato, precisiamo anche che si tratta del quotidiano che il 2 ottobre 2004 ha annunciato la scomparsa di Richard Avedon, riservandogli l’intera prima pagina [FOTOgraphia, febbraio 2005, e ancora qui, sulla pagina accanto]. L’edizione di Libération, dello scorso quattordici novembre, è estremamente preziosa ed efficace. Non lasciamoci forviare dal richiamo fotografico esplicito, che ci indurrebbe a autoconcludere ogni possibile ragionamento; dunque, liquidiamo presto, ovvero subito, l’aspetto a tutti evidente, con il proprio retrogusto settoriale. In una prima pagina di grande personalità e lancio inequivocabile, Libération ha annunciato un numero privo di immagini, privo di illustrazioni, nella sottolineatura dell’inaugurazione di Paris Photo 2013 (13-16 novembre): ovvero, senza fotografie... un «Libé» sans photo. Si tratta di una efficace e fantastica presa di posizione, coraggiosa in termini editoriali e giornalistici (lontana mille chilometri dal servilismo dei giornalisti ed editori del nostro paese), declinata per sottolineare il pericolo del razzismo dei nostri giorni. Dall’Editoriale: «Basta! [per l’appunto, Assez!] Come un grido di rabbia. Il desiderio di farla finita con l’odioso. Basta con questi abusi razzisti e discriminatori che inquinano lo spazio pubblico. Basta con gli insulti che sono stati pubblicati da molte riviste [non necessariamente destrorse] -non im-
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Prendendo una posizione forte e decisa contro il razzismo strisciante, che in Francia si è manifestato in attacchi contro il ministro della Giustizia Christiane Taubira (donna e di colore), lo scorso quattordici novembre, il quotidiano Libération è uscito con una edizione senza illustrazioni. La sollecitazione e invito Assez (Basta) è stata replicata sulla Rete (in basso).
(pagina accanto) Organo del Partito comunista francese, il 2 ottobre 2004, il quotidiano Libération annunciò la scomparsa di Richard Avedon, riservandogli l’intera prima pagina.
porta quanto estremi-, che si sono giustificati attraverso la satira. Gli attacchi subiti da Christiane Taubira [ministro francese della Giustizia; di origine africana] sono fastidiosi e pericolosi. Indeboliscono il patto repubblicano e deve essere detto. Basta, dunque! Perché l’indignazione è legittima e condivisa. Ma oggi, la semplice constatazione di questi eccessi non è sufficiente. Parlandone in Libération, la scorsa settimana, e deplo-
rando il fatto che nessun “bello e forte” si è sollevato per sostenere il ministro della Giustizia ha causato uno shock salutare. Improvvisamente, nelle posizioni dell’Assemblea Nazionale e sui social network, intorno a noi, si sente un tremito contro la spregevolezza. Dunque, Libé vuole partecipare a questo movimento: è stata attivata una pagina Facebook intitolata Basta [Assez], in modo che tutti possano svolgere il ruolo di cittadini, e venire urlando la propria rivolta contro l’incitamento all’odio che banalizza la nostra vita quotidiana. È responsabilità di tutti -dalle associazioni di cittadini al mondo politico, all’opinione pubblica- essere ascoltati in questa lotta contro l’intolleranza che ci affligge. E resistere a questo discorso xenofobo che ci minaccia». Curiosamente, se anche così ci obblighiamo a vederla (minimizzando colpevolmente), nel nostro paese è accaduto qualcosa di terribilmente analogo. In effetti, nessuno è razzista, nessuno si dichiara tale... a patto che i neri (sì, proprio neri ) restino a casa propria. Quando li troviamo all’ango-
Basta! lo della nostra strada, tutto cambia. Ovviamente, non ci riferiamo al dottor John Prentice, dello sciropposo (e razzista!) Indovina chi viene a cena?, di Stanley Kramer, del 1967, sempre sbandierato come film progressista. Infatti, un conto è un dirigente dell’Unesco (o erano le Nazioni Unite?), interpretato da uno straordinario e fascinoso Sidney Poitier, un altro è l’immigrato senza speranze e senza prospettive, che cerca di combinare le proprie giornate nelle nostre città. Vorremmo vederli, i progressisti Matt e Christina Drayton -interpretati dagli affascinanti e stereotipati Spencer Tracy e Katherine Hepburn (entrambi ricchi, lui editore di un prestigioso e autorevole quotidiano di San Francisco: ricordiamo giusto?)-, avremmo voluto vederli, se la figlia unigenita Joely (l’attrice Katharine Houghton) si fosse presentata a casa con un nero disoccupato o sottoccupato, sfruttato e costretto a vivere -da noi, in Italia, in condomini accanto al nostro- in con-
dizioni ambientali e igieniche addirittura peggiori di quelle fotografate da Jacob A. Riis, a New York, alla fine dell’Ottocento (per noi, Storia della fotografia; in assoluto, storia di infamia). Allora... basta! Non sappiamo bene cosa sia successo in Francia attorno il ministro della Giustizia Christiane Taubira, che ha provocato l’indignazione di Libération. Però, in allineamento, conosciamo bene gli insulti e le angherie subite in Italia dal nostro ministro della Cooperazione internazionale e Integrazione Cècile Kyenge, altrettanto donna, altrettanto nera. Ovviamente, lasciamo stare gli epiteti rimbalzati sui social network (i più cortesi dei quali si sono espressi nei termini di “scimmia congolese”, “governante puzzolente” e “negra anti-italiana”). Ci limitiamo a quelli usciti dalle bocche di parlamentari e politici italiani: per i quali l’accostamento ai primati (scimmie) si è espresso con l’inevitabile (!?) allungo su “puttana”. Allora? Basta! ❖
Ekko qui di Antonio Bordoni
AL CUORE, NIKON!
N
Non entriamo nel merito di alcuna delle caratteristiche tecniche e di uso della nuova Nikon Df, che è arrivata sul mercato internazionale della fotografia proponendo una propria cadenza e un proprio passo sostanzialmente estranei all’evoluzione lineare della tecnologia dei nostri giorni. Diamo per acquisito che ciò che Nikon promette e vanta e sottolinea sia corretto: dal sensore di acquisizione digitale di immagini, ereditato dalla D4 (top di gamma), alle rapidità di scatto, alle sfumature di interpretazione cromatica dei file. Da una parte, immancabili ottimisti e sostanziali lealisti (oltre che realisti), dubitiamo che qualsivoglia produzione fotografica (e non solo) menta sulle proprie prerogative tecniche, abbia mai mentito sulle proprie prerogative tecniche; dall’altra, se anche così fosse, ma non è!, il nostro ragionamento non sarebbe minimamente compromesso, per nulla mortificato. Nel caso specifico, ciò che fa la differenza nella Nikon Df, che -come accennato- esula dai comparti tecnico-commerciali che scandiscono i tempi e modi dell’attualità fotografica dei nostri giorni, non sono tanto le sue prerogative di utilizzo, dalle quali è stata esclusa la possibilità di ripresa video (evviva!), quanto è il suo aspetto, la sua livrea, che sottolinea e ufficializza il piacere formale della fotografia. Di questo si parla sempre poco. Forse non se ne parla per timore e pudore, ma anche per timidezza. Ma l’argomento è niente affatto secondario. Siccome la fotografia, sia professionale sia non professionale, è un esercizio (creativo), comunque sia, personale e individuale, il rapporto intimo con i suoi strumenti non va sottovalutato, né ignorato. Lo rivelano mille e mille scelte di campo, che spesso non trovano oggettivo ri-
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scontro con alcuna razionalità. Diciamola meglio. Anzitutto, il formato di ripresa (ormai circoscritto all’eredità del piccolo formato della pellicola 35mm per esposizioni 24x36mm) è già una discriminante di fondo. I passi che hanno sempre stabilito la sostanza originaria della fotografia sono presto stabiliti. In tempi di fotografia chimica/analogica è stato facile scandire la successione che dalla forma approdava al contenuto implicito. In semplificazione e facilitazione, che altro/tanto ci sarebbe da approfondire, passo dopo passo, passo per passo: dalla macchina fotografica usata a mano libera, e portata all’altezza dell’oc-
chio (con ovvia scomposizione tra reflex e telemetro), al medio formato su vetro smerigliato, spesso quadrato, sempre da osservare dall’alto, altrettanto sempre già “fotografia” nella propria proiezione, all’uso del treppiedi, alla compostezza del grande formato (con vetro smerigliato e treppiedi, allo stesso tempo). Inoltre, fatto salvo che la fotografia reflex è stata / è diversa da quella a mirino esterno (e telemetro di messa a fuoco), non possiamo ignorare, per l’appunto, il rapporto individuale con lo strumento, dal quale ciascuno ha sempre ricavato quanto il cuore (e la mente) hanno suggerito e indirizzato. In metafora, senza al-
cun paradosso, come già riferito, lo scorso novembre, ragionando attorno Angeli e Demoni, «per quanto il pubblico percepisca la fotografia in quanto tale, senza necessariamente impegnarsi in altre considerazioni e valutazioni di/in profondità fotografica, per noi addetti è doveroso l’approfondimento (fino all’incidenza degli utensili). In metafora: per quanto il pubblico percepisca la musica rock in quanto tale, senza necessariamente impegnarsi in altre considerazioni e valutazioni di/in profondità musicale, per gli addetti è doveroso annotare che Jimi Hendrix suonava con una Fender Stratocaster (bianca; peraltro usata al rovescio, essendo lui mancino, a corde invertite), mentre Chuck Berry è inviolabilmente legato alla Gibson semiacustica (rossa), come pure lo è B.B. King. Ovvero: come altri fotografi, altrettanto presto individuati, Henri Cartier-Bresson è imprescindibile dalla Leica a telemetro; Robert Doisneau è stato soprattutto fedele alla visione su vetro smerigliato, dall’alto a composizione quadrata della Rolleiflex; Richard Avedon si è espresso soprattutto con il grande formato OttoPerDieci Deardorff, e lo stesso dicasi per Joel Meyerowitz (la cui Deardorff gli è coetanea: costruita nel 1938)». E allora? Allora, la Nikon Df ripropone tratti fisici e gestualità nelle quali si riconosce una generazione. Non si rivolge al pubblico fotografico potenziale nel proprio insieme e complesso, ma sottolinea richiami e riferimenti datati indietro nei decenni, diciamo dalla seconda metà degli anni Settanta. Si indirizza a coloro i quali, e non sono pochi, hanno conosciuto altri tempi, e li intendono rivivere in attualità tecnologica. Che dire d’altro, se non augurare a tutti l’immancabile... buona fotografia. ❖
Cinema
di Maurizio Rebuzzini - Ricerca iconografica di Filippo Rebuzzini
Q
IN BELLA VISTA
Quando si considera la presenza della fotografia in scenografie cinematografiche, quanti tanti casellari potrebbero essere compilati? Ancora prima di affrontare e scomodare l’argomento sovrastante, della presenza tout court della fotografia nel cinema (includendovi anche le sceneggiature e, soprattutto, le evocazioni e gli approfondimenti di profilo alto: tanti ce ne sono, ce ne sono stati), la sola e semplice visualizzazione di apparecchi fotografici rappresenta un sostanzioso capitolo proprio e autonomo. Volendolo fare, ma proprio non ne
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abbiamo alcuna intenzione, basterebbe riprendere l’insieme dei nostri appuntamenti mensili, dai quali estrapolare, per l’appunto, l’apparecchio fotografico per se stesso e in quanto tale: meglio se ben visualizzato, ancora meglio se tra le mani di un attore di spicco e richiamo, oppure se citazione di raffinata evocazione. In questo senso, è esemplare il caso, che oggi non illustriamo, della Brooks-Veriwide tra le mani del dottor Peter Venkman (interpretato da Bill Murray), in Ghostbusters II - Acchiappafantasmi II / Ghostbusters II, di Ivan
Emma Thompson (Frances), in L’ospite d’inverno.
(in basso) Muhammad Ali, in Quando eravamo re. (a destra, in centro) James Woods (Richard Boyle), in Salvador. Julie Depardieu (Alice), in L’oeil de l’autre.
Cinema David Hemmings (Thomas), in Blow up. (pagina accanto, a destra, in basso) Nick Nolte (Russell Price), in Sotto tiro. (a destra, in basso) Adam LaVorgna e Frank Acciarto (Frankie e Jimmy a otto anni), in Perseguitato dalla fortuna. Candice Bergen (Margaret Bourke-White), in Gandhi.
Reitman, del 1989, della quale abbiamo ampiamente riferito in FOTO graphia, del dicembre 2007, a margine della passerella Pannaroma, nel contenitore complessivo dei novant’anni Nikon. Comunque... produzione artigianale newyorkese datata dal 1959 al 1965, finalizzata alla fotografia grandangolare: con Schneider Super-Angulon 47mm f/8 su elicoide e otturatore centrale Synchro-Compur, per esposizioni 6x9cm (56x92mm) su pellicola a rullo 120, equivalente alla visione della focale 18mm sul formato 24x36mm; mirino ottico esterno Leica 21mm, oppure 50mm del sistema Mamiya Press. Avanti, ora. I tanti casellari possibili, dalla cui ipotesi siamo partiti, si potrebbero snodare in senso orizzontale e/o vertica-
le: per tipologie, situazioni, marchi, modelli, tempi... e altro/tanto ancora. Quindi, diamine, lasciamo perdere e restiamo lievi, senza imboccare alcuna strada prestabilita, ma muovendoci semplicemente sul filo della memoria individuale, ovviamente guidata da visioni e intenzioni personali. Va detto e va confessato! Altrimenti... A margine di questa rilevazione, ma neppure tanto a margine, prima di altro, va annotato come vengono tenute le macchine fotografiche dagli attori chiamati a interpretare personaggi mirati. In linea di massima, nei film italiani, le macchine fotografiche vengono imbracciate in maniera curiosa, se non già grottesca, tanto lontana dal vero. In genere, il fotografo dei film italiani impugna la reflex portata all’altezza dell’occhio con braccia allargate in
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Cinema esterno; se va bene, regola la messa a fuoco tenendo immancabilmente la mano sopra l’obiettivo; insomma, i suoi gesti sono casuali ed estranei a qualsivoglia plausibilità! Altrove, no. Altrove, la credibilità interpretativa si delinea anche nella sincerità del gesto professionale, che per quanto ci interessa direttamente riguarda la macchina fotografica. Da qui, una concentrata e quantitativamente limitata serie segnalazioni assolutamente personali: non un casellario, ribadiamo, ma soltanto annotazioni individuali, per annotare ciò che più ci piace, più ci è piaciuto (dunque, invitiamo chi di dovere ad astenersi dal ricordarci qualche dimenticanza: non si tratta di questo -dimenticanza, né omissione-, ma proprio di degnazioni private, riprese e
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recuperate da un bagaglio di conoscenze oggettivamente ampio e vasto; punto, e basta). Prima delle attribuzioni di rito, che commentano le illustrazioni che accompagnano questo testo, completandolo e offrendogli testimonianza visiva, confessiamo volontarie omissioni, peraltro rintracciabili in nostre precedenti comunicazioni, pubblicate in questo stesso spazio redazionale. Nello specifico, oggi non ci occupiamo di (per esempio): Augustus “Auggie” Wren (Harvey Keitel) di Smoke, di Waine Wang, del 1995, con la sua Canon AE-1; Bernzy (Leon Bernstein o Grande Bernzini), con Speed Graphic, interpretato da un convincente Joe Pesci, in Occhio indiscreto, di Howard Franklin, del 1992; Nicole Kidman, nei panni di Diane Arbus, in Fur.
(in basso) Adrian Lester (Jimmy), con Lomo LC-A, in Born Romantic.
Liv Ullmann (Elisabeth Vogler), in Persona.
Un ritratto immaginario di Diane Arbus, di Steven Shainberg, del 2006, divisa tra Sinar Norma e Rolleiflex; Astrid Kirchherr, fotografa ad Amburgo, legata alla preistoria dei Beatles (comunque evocata da pagina 52, su questo stesso numero), che in Backbeat - Tutti hanno bisogno di amore, di Iain Softley, del 1994, sfoggia una avvincente Rolleicord; Dennis Hopper, fotogiornalista in Apocalypse Now, di Francis Ford Coppola, del 1979, con parata di Nikon F; Robert Kincaid (Clint Eastwood, anche regista del film), fotografo di National Geographic in I ponti di Madison County, del 1995, altrettanto con affascinanti Nikon F; Polaroid tra le mani della famigerata coppia Thelma e Louise dell’epocale Thelma & Louise, per l’appunto, del 1991, con le attrici Geena Davis e Susan Sarandon; Argus C2 e C3 del cinema statunitense (e dintorni), a partire da Sky Captain and the World of Tomorrow, di Kerry Conran, del 2004; e tanto altro ancora. Invece, in ordine di messa in pagina: Julie Depardieu (Alice), con Sinar f con Schneider Symmar 360mm f/5,6 su Compound, in L’oeil de l’autre, di John Lvoff, del 2005; Muhammad Ali (se stesso), con Nikon F Photomic, in Quando eravamo re (When We Were Kings), di Léon Gast e Taylor Hackford, del 1996; Emma Thompson (Frances), con Nikkormat FTn, in L’ospite d’inverno (The Winter Guest), di Alan Rickman, del 1997; James Woods (Richard Boyle), con Canon F-1, in Salvador, di Oliver Stone, del 1986; Nick Nolte (Russell Price), con Nikon F2, in Sotto tiro (Under Fire), di Roger Spottiswoode, del 1983; David Hemmings (Thomas), con Hasselblad 500 C dotata di cappuccio per la messa a fuoco con lente di ingrandimento (codice 42013), in Blow up, di Michelangelo Antonioni, del 1966; Candice Bergen (Margaret Bourke-White), con Speed Graphic, in Gandhi, di Richard Attenborough, del 1982; Adam LaVorgna e Frank Acciarto (Frankie e Jimmy a otto anni), con Rolleiflex T, in Perseguitato dalla fortuna (29th Street), di George Gallo, del 1991; Liv Ullmann (Elisabeth Vogler), con Leica M3, in Persona, di Ingmar Bergman, del 1966; Adrian Lester (Jimmy), con Lomo LC-A, in Born Romantic, di David Kane, del 2000. E altro ancora... ci sarebbe. Ma! ❖
Vogliamo parlarne? di Maurizio Rebuzzini (Franti)
SOPRA TUTTI, FRANTI numero speciale di FOTOgraphia, per l’occasione concluso dall’immancabile Pino Bertelli (nei panni di Pinocchio; su questo stesso numero, in Editoriale); tra le tante estrapolazioni possibili, dai suoi irrinunciabili e lucidi Sguardi su: «La fotografia autentica è fatta dello stesso dolore o della stessa bellezza di cui sono fatti i sogni». La seconda apparizione di Franti è stata criptica: lo scorso novembre, in accompagnamento alla firma “di Maurizio Rebuzzini”, per le Considerazioni su Angeli e Demoni. La terza, che non c’è stata, e che poi sarebbe stata cronologicamente prima, riguarda l’identificazione della nostra casa editrice, creata nel 1994 come Graphia srl: ai tempi, cedetti ad altre pressioni (legittime e giustificate), e non applicai l’idea originaria di Elis Edizioni... Elis, acronimo consapevole e volontario e ricercato e amato di “E l’infame sorrise”. Pazienza. Da tempo, per quella somma e accumulo di circostanze che mi hanno indotto a stabilire confini esistenziali certi nei rapporti interpersonali e/o professionali, firmo alcune mie comunicazioni come “Franti”, pre-
Elogio di Franti “È certo, ove si voglia mettersi dal punto di vista dello spirito ortodosso, che il riso umano è intimamente legato alla disgrazia di una antica caduta, di una degradazione fisica e morale... Tutti i furfanti da melodramma, maledetti, dannati, fatalmente segnati da un sogghigno che arriva loro alle orecchie, rientrano nella ortodossia pura del riso... Il riso è satanico: è dunque profondamente umano.” Baudelaire “E ha daccanto una faccia tosta e trista, uno che si chiama Franti, che fu già espulso da un’altra sezione.” Così alla pagina di martedì 25 ottobre Enrico introduce ai lettori il personaggio di Franti. Di tutti gli altri è detto qualcosa di più, cosa facesse il padre, in che eccellessero a scuola, come portassero la giacca o si levassero i peluzzi dai panni: ma di Franti niente altro, egli non ha estrazione sociale, caratteristiche fisionomiche o passioni palesi. Tosto e tristo, tale il suo carattere, determinato al principio dell’azione, così che non si debba supporre che gli eventi e le catastrofi lo mutino o lo pongano in relazione dialettica con alcunché. Franti da Franti non esce; e Franti morirà: “ma Franti dicono che non verrà più perché lo metteranno all’ergastolo”, si scrive il lunedì 6 marzo, e da quel punto, che è a metà del volume, non se ne farà più motto. Chi sia codesto Enrico è sin troppo risaputo: di mediocre intelletto (non si sa che voti prenda né se riesca promosso a fine anno), oppresso sin dalla
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cisando che si tratterebbe -in paradosso e metafora- «del mio vero cognome, guadagnato sul campo». Mal indirizzato da un fotografo di alto prestigio e livello -niente nomi, per cortesia-, che mi ha prontamente risposto come “Garrone”, e alla luce che nessuno chiese nulla nell’aprile 2011 di incipit al Numero nero (Vogliamo parlarne?), non avevo preso in considerazione il fatto che Cuore, di Edmondo De Amicis, non fosse territorio comune, e che i suoi personaggi non fossero bagaglio universale di conoscenza. Colpa mia, non di coloro i quali hanno diretto altrove e altrimenti le proprie letture, anche solo giovanili. Ecco, dunque, la volontà di spiegarmi, di spiegare, di riflettere: così, reputo necessario presentare Franti a coloro i quali non ne conoscono/riconoscono l’identità e personalità. Una volta ancora, una di più, mai una di troppo, lo faccio in un modo e con intenzioni che non sono autoconclusive e autoreferenziali, ma si proiettano oltre, avanti e di lato, per quel bagaglio di conoscenze e competenze che ci deve appartenere e arricchire, per fare di noi per-
«E ha daccanto una faccia tosta e trista, uno che si chiama Franti, che fu già espulso da un’altra sezione»: in Cuore, di Edmondo De Amicis, l’“eroe” Franti compare martedì venticinque ottobre, nel capitolo I miei compagni. Subito, non solo presto, il narratore Enrico Bottini lo emargina dal gruppo. [tavola da una edizione Garzanti, del 1964, illustrata da A. Frigerio e S. Rizzato].
più tenera infanzia da un padre, da una madre e da una sorella che gli scrivono nottetempo, come sicari dell’OAS, lettere pressoché minatorie sul suo diario, egli vive continuamente immerso in umbratili complessi, un po’ diviso tra l’ammirazione prona per un Garrone che non perde occasione per far della bassa retorica elettorale (“Son io!” e il maestro, babbeo: “Tu sei un’anima nobile!”; e se qualcuno dà noia al supplente, subito Garrone dalla parte del potente e dell’ordine: “guai a chi lo fa inquietare, abusate perché è buono, il primo che gli fa ancora uno scherzo lo aspetto fuori e gli rompo i denti!”, così il supplente rientra e vede tutti zitti, lui, Garrone, con gli occhi che mandavan fiamme “un leoncello furioso, pareva” - e gli dice “come avrebbe detto a un fratello” ti ringrazio Garrone, e via, Garrone è a posto per tutto l’anno, ditemi se non era figlio di mignotta) e d’altro lato una sorta di attrazione omosessuale per il Derossi, che è “il più bello di tutti”, scuote i capelli biondi, prende il primo premio, si fa baciare dal giovane calabrese e sembra insomma certi personaggi dei libri di Arbasino. Tra questi poli è l’Enrico: di carattere impreciso, incostante nei suoi propositi etici, schiavo di ambigui culti della personalità, non poteva essere gran che diverso col padre che si ritrovava, torbido personaggio costui, incarnazione di quell’ambiguo socialismo umanitario che precedette il fascismo, e in cui l’ideologia dolciastra stava alla lotta di classe come il repubblicanesimo di Carducci alla rivoluzione francese (odi alla regina Margherita, nonne e cipressi che a Bolgheri alti e stretti, ma repubblica, ciccia): questo padre che parla di rispetto per i mestieri e le professioni, esalta la nobiltà degli umili, incita il figlio ad amare i muratori, ma si demistifica in quella
ARCHIVIO FOTOGRAPHIA
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Personaggio del Cuore, di Edmondo De Amicis (qui e oggi, approfondiamo), Franti ha fatto capolino su queste pagine in due occasioni precedenti, che avrebbero potuto essere tre, se soltanto... ma non importa. La prima è stata di assoluta sostanza: incipit esplicito e diretto al nostro Numero nero / Black Issue (in riferimento internazionale che ci è stato assegnato: del quale siamo orgogliosi), dell’aprile 2011, con il quale invitammo a una riflessione sullo stato della fotografia in Italia, da svolgere a parole paritetiche -ciascuno con i propri mezzi, le proprie logiche e i relativi presupposti- tra intenzioni/finalità/addetti “culturali”, giornalistici, commerciali e altri ancora. A pagina tre di quella (fantastica? storica? mirabile?) edizione, il richiamo a «Tutti si voltarono a guardar Franti. E quell’infame sorrise», appassionante conclusione del capitolo La madre di Franti (sabato, ventotto gennaio), del mieloso Cuore, di Edmondo De Amicis, intese sottolineare una intenzione, una direzione, una convinzione, una posizione e uno spirito che si allungarono, che si sono allungati, sull’intero
Vogliamo parlarne? sone sistematicamente migliori e, a conseguenza diretta, fotografi migliori, perché più consapevoli.
ECCOLO, FRANTI Franti è uno degli scolari dello stopposo diario personale (ipotizzato), che Edmondo De Amicis ha riunito nel contenitore del suo Cuore. Statisticamente, è considerato un personaggio negativo, soprattutto in confronto ai buoni sentimenti di tutti gli altri: almeno, stando al racconto e alle descrizioni di Enrico Bottini, narratore in prima persona. Personalmente, fin dalla antica prima lettura del libro, in età a mia volta scolare, l’ho pensata diversamente. Certamente in relazione alle mie origini, e alla vita cominciata in un caseggiato e quartiere operai, ho subito nutrito dubbi sulle perentorie affermazioni di questo viscido Enrico, verso il quale sono stato immediatamente diffidente e dalle cui asserzioni perentorie mi sono tenuto distante. A seguire, nel proseguo dell’esistenza, ho incontrato un conforto alle mie opinioni latenti nell’eccellente Elogio di Franti, scritto da Umberto Eco, nel 1962, da me avvicinato anni dopo, con la prima edizione Oscar, nel 1975 (io ventiquattrenne, e meno latente/latitante degli anni di lettura originaria di Cuore), della cui considerazione e del cui prestigio oggi mi faccio scudo. Lascio a Umberto Eco l’approfon-
dimento ideologico e sociale del leggendario Franti, con il quale e nel quale mi riconosco, e alla cui statura miro [il testo integrale di Umberto Eco, pubblicato anche in Rete, su queste pagine, in piede allo scorrimento del testo]. Soltanto, aggiungo una doverosa nota su Cuore, di Edmondo De Amicis, giusto per stabilire confini certi e territori altrettanto assodati.
SCIROPPOSO CUORE Con nostri interventi a commento, tra parentesi quadra, da e con Wikipedia, straordinaria fonte di dati concreti e imparziali (?) di partenza, dai quali approfondire individualmente: «Cuore è un libro per ragazzi a episodi separati, scritto da Edmondo De Amicis, a Torino, e pubblicato, per la prima volta, dalla casa editrice milanese Treves, nel 1886. Fu un grande successo, tanto che De Amicis divenne lo scrittore più letto d’Italia. L’ambientazione è la Torino dell’Unità d’Italia, e più precisamente tra il 1878 (anno d’incoronazione del re Umberto I) e il 1886 (anno di pubblicazione del libro), e il testo ha il chiaro scopo di insegnare ai giovani cittadini del Regno le virtù civili, ossia l’amore per la patria, il rispetto per le autorità e per i genitori, lo spirito di sacrificio, l’eroismo, la carità, la pietà, l’obbedienza e la sopportazione delle disgrazie [?!].
terribile pagina del 20 aprile (giovedì) in cui esorta il figlio a gettare le braccia al collo a Garrone quando tra quarant’anni lo ritroverà col viso nero nei panni di un macchinista, “ah non m’occorre che tu lo giuri, Enrico, sono sicuro, fossi tu anche un senatore del Regno” - e non lo sfiora neppure il sospetto di quel che potrebbe (dovrebbe) accadere, che cioè Enrico possa ritrovarsi nei panni di un macchinista ad incontrar l’amico Garrone senatore del Regno (conoscendo Garrone, arrivato alla camera alta per via Acli, va bene, ma ciononostante è il principio che conta, vero?). Che poi chi sia questo padre, questo Alberto Bottini dalla oscura professione (non la dice neppure quando va a visitare il vecchio maestro a Condove), viene fuori abbastanza bene pagina per pagina e si esemplifica infine in quelle linee in cui questo squallido filisteo protofascista esplode nell’elogio dell’esercito: “Tutti questi giovani pieni di forza e di speranze possono da un giorno all’altro essere chiamati a difendere il nostro Paese, e in poche ore essere sfracellati tutti dalle palle e dalla mitraglia. Ogni volta che senti gridare in una festa: Viva l’Esercito, viva l’Italia, raffigurati, di là dai reggimenti che passano, una campagna coperta di cadaveri e allagata di sangue, e allora l’evviva dell’Esercito ti escirà più profondo dal cuore, e l’immagine dell’Italia ti apparirà più severa e più grande”. È la domenica 11 ottobre, e il martedì 14 costui scriverà ancora una lettera guerrafondaia al figlio, parlando di Roma meravigliosa e eterna, di Patria sacra, di sangue da donare e ultimo bacio alla bandiera benedetta; e sempre senza la minima chiarezza ideologica, sì che a distanza di pochi giorni intesse con il medesimo tono l’elogio di Cavour e di Garibaldi, dimostrando di non aver capito nulla delle forze
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«Il romanzo è strutturato come narrazione di un alunno di una scuola elementare torinese, Enrico Bottini, in merito alla sua vita e ai suoi compagni durante l’anno scolastico, intervallata da “racconti mensili” del maestro elementare su varie e avvincenti [?] storie, sempre interpretate da fanciulli. Il libro fu un grande successo perché i personaggi dei racconti provenivano da varie parti d’Italia, dando un forte spunto alla unità tra le varie regioni del Regno a livello culturale oltre che politico [?!]». Cuore è introdotto da una dedica dell’autore, che la dice lunga su molte complicità (peraltro, puntualmente sottolineate da Umberto Eco nel suo illuminante Elogio di Franti ): «Questo libro è particolarmente dedicato ai ragazzi delle scuole elementari, i quali sono tra i nove e i tredici anni, e si potrebbe intitolare: Storia d’un anno scolastico, scritta da un alunno di terza d’una scuola municipale d’Italia. - Dicendo scritta da un alunno di terza, non voglio dire che l’abbia scritta propriamente lui, tal qual è stampata. Egli notava man mano in un quaderno, come sapeva, quello che aveva visto, sentito, pensato, nella scuola e fuori; e suo padre, in fin d’anno, scrisse queste pagine su quelle note, studiandosi di non alterare il pensiero, e di conservare, quanto fosse possibile, le parole del figliuolo. Il quale poi, (continua a pagina 23)
L’artigiano-editore StradivariuS (Adamo Calabresi) realizza straordinarie e avvincenti rilegature in legno e cuoio di libri recuperati dai mercatini dell’usato [ FOTOgraphia, giugno 2001]. La nostra copia di Cuore, di Edmondo De Amicis, è altresì completa e completata con accostamenti “musicali”, in quarta di copertina.
profonde che divisero il nostro Risorgimento. E ti educava così questo figlio alla violenza e alla retorica nazionale, all’interclassismo corporativista e all’umanitarismo paternalista, sì che svolgendosi la vicenda nell’Ottantadue, possiamo immaginarci Enrico interventista quarantenne (e quindi a casa, da tavolino), all’inizio della guerra, e professionista fiancheggiatore delle squadre d’azione nel Ventidue, lieto infine che il Paese sia andato in mano a un uomo forte garante dell’ordine e della fratellanza. Il Derossi a quell’epoca era già morto sicuramente in guerra, volontario, caduto scagliando la sua medaglia di primo della classe in faccia al nemico, Votini era passato spia dell’Ovra e Nobis, che doveva avere possedimenti in campagna, e già da piccolo dava dello straccione ai figli di carbonai, agrario fiancheggiatore delle squadre, sicuramente era già federale. C’è da sperare che il muratorino e il Precossi si fossero almeno presi il loro olio di ricino e tramassero nell’ombra; e forse Stardi, sgobbone com’era, si era letto tutto il Capitale, senonaltro per puntiglio, e quindi qualcosa aveva capito; ma Garoffi di certo si era allineato e non faceva politica, e Coretti, con quel padre che gli passava calda calda la carezza del Re, chissà che non facesse la guardia d’onore all’Uomo della Provvidenza. Questo il clima: ed Enrico ne era l’esponente medio, paro paro. Da un ragazzo di quella fatta non possiamo aspettarci qualche lume su Franti: anzi doveva esistere tra i due una sorta di incomprensione radicale per cui se Franti un giorno avesse raccolto un passerotto da terra e gli avesse sminuzzato briciole di pane, Enrico non lo avrebbe mai detto. Logico che Franti, se raccoglieva passerotti, li portasse a casa per metterli in padella, perché l’uni-
ANTONIO BORDONI (2)
ca volta che Enrico si tradisce e ci mostra la madre di Franti che si precipita in classe a implorare perdono per il figlio punito, affannata “coi capelli grigi arruffati, tutta fradicia di neve”, avvolta da uno scialle, curva e tossicchiante, ci lascia capire che Franti ha dietro di sé una condizione sociale, e una stamberga malsana, e un padre sottoccupato, che spiegano molte cose, ma per Enrico un tutto questo non esiste, egli non può capire il pudore di questo ragazzo che di fronte all’impudicizia feudale della madre che si getta, davanti alla scolaresca, ai piedi del Direttore e di fronte all’intervento melodrammatico di quest’ultimo (“Franti, tu uccidi tua madre!”, eh via, dove siamo?), cerca un contegno nel sorriso, per non soccombere nello strame: e lo interpreta da reazionario moralista qual è: “E quell’infame sorrise”. Ma se vogliamo giocare a questo gioco allora giochiamo. Franti non ha sostrato, non si sa come nasca e come muoia, egli è l’incarnazione del male? Ebbene sia, accettiamolo come tale e come tale vediamolo, elemento dialettico nel gran corso della vita scolastica deamicisiana, momento negativo in tutta la sua evidenza trionfante. Ma prendiamolo come tale, e non lasciamoci confondere dai piccoli particolari di contorno: che se Franti non ha sfondo sociologico non devono averlo neppure le persone di cui egli pare prendersi beffa, la mamma di Crossi che egli scimmiotta nella sua condizione di erbivendola, e il muratore caduto sul lavoro al passaggio del quale Franti sorride: se facciamo della demagogia sul muratore e sull’erbivendola, allora facciamola anche su Franti e sulle determinazioni economiche della sua perfidia. Se no accettiamolo come un principio senza fondo e senza storia, e affrontiamolo pensando che
di lui Enrico ci abbia parlato come gli storici romani dei cartaginesi: che erano popolo industre e laborioso, gran mercanti e navigatori, ma siccome non possedevano un’industria culturale non commissionavano elogi e libelli, mentre i romani, meglio organizzati quanto a uffici studi, avevano buon gioco ad affidare alla storia terribili notizie sul conto dei nemici, dicendo che mettevano i bambini nel ventre di una statua infuocata; che se poi loro, i conquistatori, distruggevano Cartagine e spargevano sale sulle rovine, quello era ben fatto. Ciò che Franti fa è vario e assai complesso: sale su un banco e provoca Crossi, e fa male, ma quando Crossi gli tira un calamaio e gli fa civetta, e il calamaio va a colpire il maestro che entrava. Civetta meritoria quant’altre mai, dunque, perché questo maestro è lo stesso ributtante leccapiedi che in un diverbio tra Coraci (il calabrese) e Nobis, dà ragione a Coraci e torto a Nobis, ma a Nobis dà del voi mentre a Coraci dà del tu. Dà del tu anche a Franti, naturalmente, perché costui non ha un padre distinto con una gran barba nera. Più avanti vediamo Franti che ride mentre passa un reggimento di fanteria; Enrico tiene a precisare che Franti “fece una risata in faccia a un soldato che zoppicava”, ma non si vede perché in una sfilata preceduta dalla banda (come Enrico ci dice), qualche colonnello autolesionista avarebbe infilato un soldato che zoppicava. Dunque verosimilmente il soldato non zoppicava, e Franti irrideva la sfilata tout court: e vedete che la cosa cambia già aspetto. Se poi si considera che, istigati dal direttore, i ragazzi salutano militarmente la bandiera, che un ufficiale li guarda sorridendo e restituisce il saluto con la mano e un tizio che aveva all’occhiello il nastrino delle campagne di Crimea, un “uffi-
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Vogliamo parlarne? QUEL DIARIO MINIMO (E OLTRE E ALTRO)
L’Elogio di Franti, dietro la cui autorevolezza mi nascondo oggi, o del cui prestigio mi faccio scudo oggi, è uno dei sedici straordinari testi/elzeviri che compongono l’edizione della fantastica raccolta Diario minimo, di Umberto Eco, originariamente pubblicata nella collana Il Tornasole, di Arnoldo Mondadori Editore, nel 1963 (cinquanta anni fa!, ma sempre viva, palpitante e attuale; a sinistra, in alto), e riproposta negli Oscar Mondadori, dal 1975, e successivamente nei Tascabili Bompiani (a sinistra, al centro). Attenzione, nel 1992, il Gruppo Editoriale Fabbri, Bompiani, Sonzogno, Etas ha pubblicato Il secondo diario minimo, di Umberto Eco, che nel frattempo -dal 1963 del primo Diario minimo- ha avuto un folgorante successo letterario con il suo Il nome della rosa, del 1980, anche sceneggiato per il cinema, al quale hanno fatto seguito altre opere letterarie altrettanto ben valutate sia dalla critica sia dal pubblico. Se di questo anche si tratta, al pari delle altre quindici, Elogio di Franti è una di quelle riflessioni sulle quali ho potuto/voluto edificare la mia esistenza. Ancora, nel corso dei decenni, dalla fine dei Sessanta, quando tutto ha avuto inizio, per me (nato nel 1951), l’intero corpus di Diario minimo, di Umberto Eco, è stato letto e riletto centinaia di volte. In questo, la mia edizione Oscar originaria è in buona compagnia di altri/tanti libri ugualmente consumati, acquisiti, messi a frutto. Ma qui restiamo, quantomeno oggi e in questa occasione. Dunque, segnalo e sottolineo il sorprendente e stupefacente valore (etico, morale...) di tutti i sedici “racconti” di Diario minimo, in pertinente equilibrio ciale pensionato”, dice bravi ragazzi, allora ci accorgiamo che il riso di Franti non era poi così gratuitamente malvagio ma assumeva un valore correttivo: costituiva l’ultimo grido del buon senso ferito di fronte alla frenesia collettiva che stava prendendo i ragazzi che già cantavano “battendo il tempo con le righe sugli zaini e sulle cartelle” e con “cento grida allegre accompagnavano gli squilli delle trombe come un canto di guerra”. È in circostanze del genere che Franti sorride e ride: “Uno solo poteva ridere mentre Derossi diceva dei Funerali del Re; e Franti rise”. Franti sorride di fronte a vecchie inferme, a operai feriti, a madri piangenti, a maestri canuti, Franti lancia sassi contro i vetri della scuola serale e cerca di picchiare Stardi che, poverino, gli ha fatto solo la spia. Franti, se diamo ascolto ad Enrico, ride troppo: il suo ghigno non è normale, il suo sorriso cinico è stereotipo, quasi deformante; chi ride così certo non è contento, oppure ride perché ha una missione. Franti nel cosmo del Cuore rappresenta la Negazione, ma - strano a dirsi - la Negazione assume i modi del Riso. Franti ride perché è cattivo - pensa Enrico - ma di fatto pare cattivo perché ride. Quello che Enrico non si domanda è se la cattiveria di chi ride non sia una forma di virtù, la cui grandezza egli non può capire poiché tutto ciò che è riso e cattiveria in Franti altro non è che negazione di un mondo dominato dal cuore, o meglio ancora di un cuore pensato a immagine del mondo in cui Enrico prospera e si ingrassa. Per questo Enrico deve rifiutare Franti: perché se Franti appare un inadattato al mondo in cui vive e lo coinvolge in un sogghigno epocale (Franti mette tra parentesi qualsiasi fatto che invece coinvolga emotivamente gli altri) l’uni-
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tra scritture “alla maniera di” (persino di Isaac Asimov) e avvincenti svolgimenti e approfondimenti; dal sommario-indice: Nonita, Frammenti, Lo strip-tease e la cavallinità, Fenomenologia di Mike Bongiorno, Esquisse d’un nouveau chat, L’altro Empireo, La Cosa, My exagmination round his factification for incamination to reduplication with ridecolation of a portrait of the artist as Manzoni, Industria e repressione sessuale in una società padana, Elogio di Franti (per l’appunto!), Dove andremo a finire?, Lettera a mio figlio, Tre recensioni anomale, La scoperta dell’America, Do your movie yourself, Dolenti declinare (rapporti di lettura all’editore) [citazione rapida, in FOTOgraphia, dello scorso novembre]. Ovviamente, l’autore Umberto Eco non ha bisogno di presentazioni (spero e voglio credere). Comunque, oltre i tanti meriti che gli vengono universalmente riconosciuti, qui e ora, vorremmo andare anche un poco sottotraccia, oltre il noto e totalmente conosciuto. Riprendendo anche note appena richiamate lo scorso novembre, a margine e/o accompagnamento dell’emozionante ricordo Mio padre è stato anche Beppe Viola, compilato dalla figlia Marina, e pubblicato da Feltrinelli, la scorsa estate, torniamo all’esperienza dell’Ouvroir de littérature potentielle (in acronimo, OuLiPo; officina di letteratura potenziale), che annoverò tra le proprie fila Georges Perec, Raymond Queneau (fondatore), Italo Calvino e Umberto Eco, ciascuno dei quali inventore di linguaggi paralleli e scrittore di eccezionale originalità, le cui costruzioni linguistiche si sono spesso basate sull’impiego volontario e consapevole di limitazioni formali, ricercate e frequentate con caparbia assiduità. Obbligatoria, a questo punto, una citazione per Umberto Eco, che oggi incontriamo/incrociamo per il suo Elogio di Franti, del 1962, in Diario minimo, in edizione dal 1963 (ribadisco e confermo: cinquanta anni fa!, ma sempre vivo, palpitante e attuale). Umberto Eco ha scritto una poesia utilizzando una sola vocale, la “a”.
co modo di esorcizzare la scepsi negativa di Franti è quello di denunciare Franti come strega. E di non accettarlo a priori. E infatti nel gran mare di languorosa melassa che pervade tutto il diario di Enrico, in quell’orgia di perdoni fraterni, di baci appiccicaticci, di abbracci interclassisti, di galeotti redenti e gaudenti in maschera che regalano smeraldi a bambine smarrite tra la folla, tra madri che si sostengono a vicenda, maestrine dalla penna rossa, signori che abbracciano carbonai e muratori che biascicano lagrime di riconoscenza sulla spalla di ricchi possidenti, là dove tutti si amano, si comprendono, si perdonano, si accarezzano, baciano le mani a voscienza, leccano il cuore a tamburini sardi, cospargono di fiori vedette lombarde e coprono d’oro patrioti padovani, una sola volta appare una parola di odio, di odio senza riserve, senza pentimenti e senza rimorsi: ed è quando Enrico ci traccia il ritratto morale di Franti: “Io detesto costui. È malvagio. Quando viene un padre nella scuola a fare una partaccia al figlio, egli ne gode; quando uno piange, egli ride. Trema davanti a Garrone e picchia il muratorino perché è piccolo; tormenta Crossi perché ha il braccio morto; schernisce Precossi che tutti rispettano; burla persino Robetti, quello della seconda, che cammina con le stampelle per aver salvato un bambino. Provoca tutti i più deboli di lui, e quando fa a pugni, s’inferocisce e tira a far male. Ci ha qualcosa che mette ribrezzo su quella fronte bassa, in quegli occhi torbidi, che tien quasi nascosti sotto la visiera del suo berrettino con una faccia invetriata, è sempre in lite con qualcheduno, si porta a scuola degli spilloni per punzecchiare i vicini, si strappa i bottoni della giacchetta e ne strappa agli altri, e li gioca, e ha cartella, quaderni,
Vogliamo parlarne? La mamma Casta, santa, brava, allatta, alata gatta, cavalla, capra (narra Saba). Fa sana panna, sala la pappa al baccalà, la dà alla panza, alla garganta, all’amata ragazza nata. Canta la nanna. S’alza all’alba, s’attarda, abbassa tarda la lampada, ramazza, s’arrabatta, paga la rata. Salda, parca, accatta la patata, la castagna, l’ananas, la lasagna, l’anatra, la bacca, la lana, la matassa all’arca, alla cassapanca. Mamma: apax. Accastata, ama papà. Ma a gara l’Altra trama la cabala, Magdala da sassata, stramba, laccata, balzana prava da caldana, barbara atta al marasma. Pazza papà assalta, matta n’allarga la patta, la gratta, n’azzanna la palla, la slappa, la palpa, la bagna, la sbrana… Avvampa affannata, s’aggrappa alla barba, attratta accavalla l’anca anarca, alza
la gamba… Ah la gazza fa gazzarra! La casa? Spaccata, affamata. La mamma s’adatta. Ammalata d’asma, avanza stanca, la scarpa da panda, slabbrata, scalcagnata, la larga casacca strappata, la spalla abbassata. Annaspa affranta, casca dalla scala, almanacca, s’allarma ch’accada la frana, la valanga, la cataratta all’altana, alla capanna. Alza lagna alla navata. anta: aspra ed astra. L’Altra, prava, scaltra, ladra, mala razza da satana (salamandra da sabba), ama la cassata, la canasta, la salangana, l’allappa l’Albana d’annata (marsala, malaga, grappa), l’Alfa, fa la vasca smaccata, balla la czarda, la pavana, la lambada, la sarabanda al Gala, pazza scarta la carta a baccarà, fa l’alalà all’Atalanta, anagramma. L’Aga Khan l’arrazza, l’appaga anal. Ama la palanca, s’abbassa a tanta manna: va a Panama, ammarra la barca, svaccata, vaga s’aggrada, vaga raccatta tanta caparra
dannata, l’accapparra, l’accatasra e Calatrava, alla banca ammassa dracma, sfarfalla. Assatanata dalla gangia, fa da ganza al gagà barabba, ah la bazza! Farà la grana, avrà la lacca, l’agata, la granata, la malacca. Ammazzala! Sbanda la madama, Lallarallà! Ma paga la magagna! Batta la nasata! Dramma: la vacca da bassa tacca attracca alla mammana! Passata la farsa (la scampagnata, la bravata, la cagnara, la stravaganza, la cavalcata), manca lassa la tasca. Magna cacca. Arsa dalla vana mattana, datata, sdata, baldracca scassata, frasca, cagna, fantasma, cala gabbata a Malta, a Zara. Accaldata d’afa vasta alla savana, passa all’ambra araba, all’armata afra aspra masnada, amalgama d’abracadabra, casamatta, santabarbara d’Ambaradam. Basta. Amara, s’ammazza all’Asmara. Cala la bara.
Si tratta di un lipogramma: (dal greco lèipo = lascio, e gramma = lettera) costituito -quasi a gioco linguisticoda un testo nel quale viene usata solo una determinata lettera. Invece, il tautogramma, altro raffinato gioco linguistico, è un componimento nel quale tutte le parole hanno la medesima lettera iniziale [e qualcosa di analogo è nascosto tra le righe di FOTOgraphia, ogni mese, da una dozzina di anni]. A proposito, e ancora: Georges Perec ha composto un lipogramma di trecento pagine, La scomparsa (La Disparition; 1969), scritto senza l’utilizzo della vocale “e”, al quale ha fatto seguito un secondo lipogramma in forma di specchio, intitolato Le ripetizioni
(Les revenentes; 1972), nel quale ha utilizzato come sola vocale in tutto il testo proprio la lettera “e” (si tratta dunque di un lipogramma in a, i, o, u e y: anche quest’ultima lettera vocale in francese). Infine, per restare in tema, segnaliamo un’edizione affascinante (ancora reperibile?): Manuale per la compitazione telefonica, pubblicato con copertina Pseudo Zanichelli (Classici dell’illusione / 2, a cura dell’Università del Progetto; 1992). Si offre e propone come Guida ufficiale allo spelling delle parole in Italia: ventisei lettere, ventisei fondamentali riferimenti fonetici, ventisei descrizioni in ventisei parole secondo le regole dell’abbecedario romanzato. mFranti Basta qui. Oppure, no?
libri, tutto sgualcito, stracciato, sporco, ha la riga dentellata, la penna mangiata, le unghie rose, i vestiti pieni di frittelle e di strappi che si fa nelle risse. Dicono che sua madre è malata dagli affanni che egli le dà, e che suo padre la cacciò di casa tre volte: sua madre viene ogni tanto a chiedere informazioni e se ne va sempre piangendo. Egli odia la scuola, odia i compagni, odia il maestro. Il maestro finge ogni tanto di non vedere le sue birbonate, ed egli fa peggio. Provò a pigliarlo con le buone, ed egli se ne fece beffa. Gli disse delle parole terribili, ed egli si coprì il viso con le mani, come se piangesse, e rideva. Fu sospeso dalla scuola per tre giorni ed egli tornò più tristo e insolente di prima. Derossi gli disse un giorno: – Ma finiscila, vedi che il maestro ci soffre troppo, – ed egli lo minacciò di piantargli un chiodo nel ventre”. È naturale che in questo crescendo di accuse e di infamie la nostra simpatia vada tutta a Franti (pensate, “si coprì il viso con le mani, come se piangesse, e rideva!”. Anche De Amicis non rimane indifferente di fronte a tanta grandezza, e mai la sua scrittura è stata più tacitiana, nobilitata dalla materia): ma è vero del pari che tanto accumularsi di nefandezza è troppo wagneriano per essere normale, sfiora il titanico, deve avere un valore emblematico e riecheggiare un momento di civiltà; una figura della coscienza universale, lo voglia o no l’autore; e se la nostra dotta memoria cerca solo per un poco ecco che questo ritratto finisce per evocarne un altro quasi parallelo: ed è il ritratto di Panurge. “Altre volte poi disponeva, in qualche bella piazza per dove la detta ronda doveva passare, una striscia di polvere da sparo, e al momento giusto ci da-
va fuoco, divertendosi poi a vedere i gesti eleganti di quei poveretti che scappavano, credendo di avere ai polpacci il fuoco di Sant’Antonio. In quanto poi ai rettori dell’università e teologi, li perseguitava in altri modi; quando ne incontrava qualcuno per la via, non mancava mai di far loro qualche brutto scherzo: ora mettendogli uno stronzo nelle pieghe del berretto, o attaccandogli delle code di carta e strisce di cenci dietro la schiena, o qualche altro fastidio... E soleva portare un frustino sotto il vestito, col quale frustava senza remissione i paggi che erano in giro per qualche commissione, per farli andare più svelti. E nel mantello aveva più di ventisei taschette e ripostigli sempre pieni: l’una di un piccolo dado di piombo e di un coltellino affilato come il trincetto di un calzolaio, che gli serviva per tagliar le borse; l’altra, di aceto, che gettava negli occhi a quanti incontrava; l’altra di lappole con attaccato piumetti d’oca o di cappone, che gettava sulle vesti e sui berretti dei pacifici cittadini; e spesso attaccava anche lor dietro due belle corna, che quelli si portavan per tutta la città, e qualche volta per tutta la vita. E ne metteva anche alle donne, sui loro cappucci, di dietro, ma fatti a forma di membro virile; e in un’altra, teneva una quantità di cornetti, tutti pieni di pulci e pidocchi, che trovava dai poveri di Sant’Innocenzo, e con delle cannucce, e piume per scrivere, li gettava sui colletti delle più azzimate giovinette che trovava per la via, e così in chiesa...” (e via di questo passo, nella bella traduzione di Bonfantini; e poi basti pensare alla beffa dei montoni per vedere in Panurge un Franti ante litteram, o in Franti un Panurge post, che è poi lo stesso). Ora Panurge non nasce e non arriva a caso: non è gigante né Dipsodo, e
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ANTONIO BORDONI
non entra nella regale società pantagruelica con l’aria di chi voglia sovvertire un ordine dalle radici; la società in cui vive l’accetta e vi si integra - ci beve e ci si ciba, chiedendo anzi ristoro in molte lingue - vive la vita di corte e segue il sovrano nei suoi viaggi, accetta dispute con dottori d’oltremanica e frequenta la borghesia dei dintorni. Ma si integra à rebours, ogni suo gesto appare sfasato rispetto alla norma, accetta le convenzioni (la messa) per sovvertirle dall’interno (occasione per distribuir pidocchi), intraprende discorsi ma per turlupinare l’interlocutore, veste come gli altri ma fa delle sue vesti nascondiglio per i suoi trucchi, nessuno dei quali mira specificatamente a un utile particolare, ma tutti nell’insieme a una deformazione degli umani rapporti. Proprio per questo, se Gargantua et Pantagruel è il libro che chiude un’epoca e ne apre una nuova, esso lo è proprio per la centralità che vi ha Panurge, poiché il Gargantua è, rispetto alla cultura tardomedievale che si sfa, proprio quel che Panurge è per la corte di Pantagruel, qualcosa che si installa dentro a un ordine e lo mina dall’interno deformandone la fisionomia con atti di gratuita iconoclastia. Compagno di Panurge in questa impresa, è il Riso. Anche Panurge, l’infame, rideva. Ecco dunque profilarsi l’idea di un Franti come motivo metafisico nella sociologia fasulla del Cuore. Il riso di Franti è qualcosa che distrugge, ed è considerato malvagità solo perché Enrico identifica il Bene all’ordine esistente e in cui si ingrassa. Ma se il Bene è solo ciò che una società riconosce come favorevole, il Male sarà soltanto ciò che si oppone a quanto una società identifica con il Bene, e il Riso, lo strumento con cui il novatore occulto mette in
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dubbio ciò che una società considera come Bene, apparirà col volto del Male, mentre in realtà il ridente - o il sogghignante - altro non è che il maieuta di una diversa società possibile. Per cui bene aveva fatto Baudelaire a identificare il Riso con il Diabolico ed a vedervi il principio del Male. Agli occhi di Colui che tutto sa, il riso non esiste, e scompare dal punto di vista della scienza e delle potenze assolute: è chiaro: dal momento che di un ordine esistente si ha certezza e corresponsabilità, dal momento che vi si assente dogmaticamente o vi si aderisce consustanzialmente, quest’ordine non può essere messo in dubbio, e il primo modo per credervi è di non riderne. Il riso, dice Baudelaire, è proprio dei pazzi: di coloro che non si integrano all’ordine, dunque. Per colpa loro, nel caso dei pazzi; ma nel caso sia colpa dell’Ordine? Chi sarà allora il Ridente? Colui che ha avuto coscienza della caduta, e quindi della provvisorietà dell’ordine dato. Il cattivo dunque, colui che ha colpevolmente mangiato all’albero del bene e del male? Ma questa è l’interpretazione del Ridente data da chi non ride, e accetta l’Ordine. Per lo scolastico messo alla berlina da Panurge, nel dialogo con Thaumaste fatto a gesti e a sberleffi, il gioco di Panurge è un attentato diabolico. Per noi, nati da Rabelais, il gioco di Panurge è allegra profezia di una nuova dialogica, e comunque messa a punto della vecchia, resa dei conti. Chi ride è malvagio solo per chi crede in ciò di cui si ride. Ma chi ride, per ridere, e per dare al suo riso tutta la sua forza, deve accettare e credere, sia pure tra parentesi, ciò di cui ride, e ridere dal di dentro, se così si vuoi dire, se no il riso non ha valore. Ridere del piegabaffi, oggi, è un gioco da
Vogliamo parlarne? Ancora in rilegatura StradivariuS, la copia di Diario minimo, di Umberto Eco, regalata da Maurizio Rebuzzini (mFranti) a Grazia Neri, il 30 giugno 2001.
(continua da pagina 18) quattro anni dopo, essendo già nel Ginnasio, rilesse il manoscritto e v’aggiunse qualcosa di suo, valendosi della memoria ancor fresca delle persone e delle cose. Ora leggete questo libro, ragazzi: io spero che ne sarete contenti e che vi farà del bene». I personaggi principali di Cuore sono presto identificati. Tutti stereotipati, tratteggiano il clima di un tempo e di un classismo che è stato mirabilmente spazzato via da tante e tante rivoluzioni culturali, ad alcune delle quali spero di aver dato il mio contributo, non soltanto fisico. Ancora da Wikipedia. Come ampiamente già annotato, «Enrico Bottini è il narrante e protagonista della storia: è un personaggio senza nessuna “caratteristica” particolare, che non parla quasi mai del suo profitto scolastico, tanto da non dire neanche se è stato promosso. «I genitori di Enrico, che gli scrivono delle lettere [quasi minatorie! certamente inquietanti]. «Silvia, la sorella di Enrico. «Garrone, quasi quattordicenne, lo studente enorme di statura e buono d’animo, definito “anima nobile” dal maestro, in quanto si assume una colpa che non è sua. «Il muratorino (Tonino Rabucco), figlio di un muratore e famoso per il muso di lepre. «Ernesto Derossi, il più bravo e
più bello della classe; è un vero portento, ma parte della sua gentilezza può derivare anche dal fatto che è lieto, non ha preoccupazioni finanziarie, in quanto ricco. «Franti, il cattivo, alla fine espulso dalla scuola [e su questa opinione diffusa costruiamo altre nostre opinioni, che oggi impreziosiamo dell’autorevolezza di Umberto Eco, dietro le cui forti, potenti, prestigiose e qualificate spalle ci nascondiamo]. «Stardi, piccolo e tozzo: considerato inizialmente duro di comprendonio, supererà le sue difficoltà grazie all’enorme impegno nello studio, che ne farà -a fine anno- uno dei migliori della classe. «Carlo Nobis, il figlio di papà superbo e arrogante. «Coretti, figlio di un veterano delle guerre d’indipendenza, ora rivenditore di legna. «Crossi, figlio di un’erbivendola, ha un braccio paralizzato. Tutti, a cominciare da lui, credono che suo padre sia scappato in America. Tuttavia, Enrico e Derossi, sulla base di forti indizi, sospettano che il genitore abbia trascorso in carceri italiane tutto il periodo di assenza. Alcuni atteggiamenti e discorsi di quest’ultimo suggeriscono la correttezza di questa tesi. «Il ragazzo calabrese (Coraci), immigrato da Reggio Calabria. «Nelli, il piccolo gobbo. «Precossi, il figlio di un fabbro fer-
ragazzi; ridete dell’usanza di radersi, e poi discuteremo. Chi ride deve dunque essere figlio di una situazione, accettarla in toto, quasi amarla, e quindi, da figlio infame, farle uno sberleffo. (Franti a parte, solo di fronte al riso la situazione misura la sua forza: quello che esce indenne dal riso è valido, quello che crolla doveva morire. E quindi il riso, l’ironia, la beffa, il marameo, il fare il verso, il prendere a gabbo, è alla fine un servizio reso alla cosa derisa, come per salvare quello che resiste nonostante tutto alla critica interna. Il resto poteva e doveva cadere). Tale è Franti. Dall’interno idilliaco della terza classe in cui alligna Enrico Bottini, egli irraggia il suo riso distruttore; e chi si aggrappa a ciò che egli distrugge, lo chiama infame. Fatto nascere dall’immaginazione di De Amicis e dalla visione astiosa di Enrico come principio dialettico, Franti viene troppo presto eliminato di scena perché si possa intravvedere quale reale funzione avrebbe egli svolto in questo quadro: se il comico è l’Ordine che, accettato ed esasperato a bella posta, esplode e si fa Altro, Franti non ha neppure abbozzato il suo compito. Tenuto a freno dalla visione sospettosa di Enrico, non ha saputo espandersi come dialettica voleva: e solo noi possiamo ora intravvederne e svilupparne i germi liberatori e correttivi. Troncato sul nascere, il “Principio Franti” non si è risolto, come avrebbe dovuto, nella forma compiuta del Comico: e “comica” rimane solo la dialettica Franti-Enrico vista da noi, ora, e come tale messa in rilievo. Bloccato nella situazione Cuore nella misura in cui Enrico lo aveva immobilizzato - escludendo dogmaticamente che Franti potesse avere coscienza del significato dei suoi gesti - l’Infame, anziché sacer-
raio, dapprima alcolizzato e violento, che si disintossica quando scopre che il figlio ha vinto un premio scolastico. «Votini, il figlio di un ricco, superbo, ma infine umano. «Garoffi, con il naso a becco di civetta, definito “sempre a trafficare” e continuamente impegnato in compravendite di vario tipo. «Il maestro Perboni: la sua è una figura triste, che il primo giorno di scuola dice ai ragazzi: “Io non ho famiglia. La mia famiglia siete voi. Avevo ancora mia madre l’anno scorso: mi è morta. Son rimasto solo. Non ho più che voi al mondo, non ho più altro affetto, altro pensiero che voi. Voi dovete essere i miei figliuoli”. Come accennato, definisce un’“anima nobile” l’alunno Garrone, al quale l’accomuna anche la perdita della madre. «La maestrina dalla penna rossa, così chiamata per la piuma che porta sul cappello, è probabilmente l’unico personaggio del romanzo dietro cui, secondo fonti accreditate, si riconosce una figura storica, la maestra Eugenia Barruero, vissuta a Torino, in largo Montebello 38, dove oggi una targa la ricorda. «La maestra della Prima superiore, è stata la maestra di Enrico nella prima superiore: muore verso la fine del libro». Così è. (mRebuzzini)... mFranti: mio vero cognome, guadagnato sul campo. ❖
dote dell’epoché ironica, rimane soltanto un non-integrato e uno schizoide. Ma di lui - e da lui - ci rimane un monito, acché la sua infamia sia la nostra virtù. Saremo capaci di ridere, a ciglio asciutto, di nostra madre? Eliminato dal contesto fantastico in cui viveva, Franti è accantonato dal cronista dell’Ordine e della Bontà: ed è supposto finire all’ergastolo, dove appunto si raccolgono i non-integrati. Franti è così rimasto come un abbozzo di Comico possibile: per riuscire egli avrebbe dovuto assumere - ostentando buona fede - i panni di Enrico e scrivere lui stesso il Cuore. Col sogghigno - invece che col singhiozzo - facile. Siccome non ha raccontato, ma è stato raccontato, non ha assunto la funzione di giustiziere comico, ma è rimasto come un’ombra, una tabe, una falla nel cosmo di Enrico, una presenza inspiegabile e non risolta. Noi sappiamo però che, al di fuori del libro, gli è stata lasciata un’altra possibilità (di cui Enrico non aveva avuto mai sentore): perché l’Ordine o lo si ride dal di dentro o lo si bestemmia dal di fuori; o si finge di accettarlo per farlo esplodere, o si finge di rifiutarlo per farlo rifiorire in altre forme; o si è Rabelais o si è Cartesio; o si è, come Franti ha tentato, uno scolaro che ride in scuola, o un analfabeta di avanguardia. E forse Franti, con la memoria accesa del gesto di papà Coretti che dava al figlio, con la mano ancor calda, la carezza del Re (impeditogli da Enrico di sorridere ancora una volta, cancellato con un tratto di penna), si apprestava in una lunga ascesi a esercitare, all’alba del nuovo secolo, sotto il nome d’arte di Gaetano Bresci. Umberto Eco (1962)
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Evviva di Maurizio Rebuzzini
MAST A BOLOGNA
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Prima di tutto, una confessione d’obbligo: sono indolente e pigro. In diretta conseguenza, è raro che mi faccia vedere oltre il ristretto quadrilatero milanese entro il quale vivo e agisco: via Edolo, di abitazione, via Zuretti, di lavoro (a centonovantatré passi di distanza; numero primo, a me gradito), via Gluck, uscita secondaria dello studio/redazione, che uso con la mia Bicicletta, viale Lunigiana, di collegamento tra le tre strade (volendolo fare, controllare in Google Map). In diretta conseguenza, avrei gradito che la mia città avesse potuto ospitare uno spazio quale è quello del bolognese Mast, a portata delle mie (rare) escursioni in pedalata. Invece, diamine, lo straordinario, avvincente e affascinante (e concreto) Mast ha inaugurato a Bologna, e nel capoluogo emiliano centralizza il proprio indirizzo: acronimo di Manifattura di Arti, Sperimentazione e Tecnologia.
VERGOGNATEVI!
A parte qualche personale distinguo sulla presentazione di alcune delle diciassette mostre che hanno composto il programma complessivo di Foto/Industria, accompagnamento di prestigio dell’inaugurazione del Mast, di Bologna, non mi esimo dal rimproverare alla stessa inaugurazione un momento di inadeguatezza, che rivela, se se ne sentisse il bisogno, l’assoluta mancanza di stato di diritto del e nel nostro paese. Una nota individuale, che per il proprio solito non dovrebbe interferire con la passerella pubblica (ma qui si impone), riguarda la cerimonia di inaugurazione, per la quale alla stampa accreditata (noi, tra tanti; noi, di valore inferiore a tutti gli altri), è stato distribuito un foglio di consigli. Legittimo quello che ha suggerito di arrivare con qualche minuto di anticipo sull’orario, per regolamentare e disciplinare i posti in sala; eccezionalmente fuori luogo, tanto da risultare vomitoso, quello che ha specificato il percorso e i parcheggi riservati alle “auto blu”. Che di “auto blu” se ne parli al bar, tra amici e conoscenti, è già di per sé risibile. Che in un momento di disagio esistenziale per molte persone -noi tra tutti-, si ufficializzi la loro esistenza è quantomeno irriverente e sconveniente. Certo, il mondo italiano considera giornalismo la sudditanza e il sostegno a qualsivoglia Potere costituito, alla maniera degli scribi dell’antico Egitto, che si occupavano di sostenere ideologicamente l’amministrazione del paese. Ma la vita vera, cari Signori, è altra: è fatta di gente (noi, tra tutti) che deve combattere minuto per minuto per realizzare le proprie giornate, per raggiungere la fine del mese, per vivere almeno dignitosamente. In ripetizione d’obbligo: vergognatevi, ovunque voi siate, a qualsiasi schieramento dei nostri tormentati giorni vi riferite!
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Mast (Manifattura di Arti, Sperimentazione e Tecnologia): via Speranza 40/42, 30133 Bologna; www.mast.org.
La sua inaugurazione, all’inizio di ottobre, è stata sontuosa e clamorosa; ed è stata accompagnata da un programma di mostre fotografiche distribuite in città a dir poco entusiasmante: con qualche distinguo (non qui, non ora), Foto/Industria, al ritmo di diciassette personali/collettive che hanno appagato e gratificato il cuore di chi -speriamo, noi tra questi- apprezza la bella fotografia, senza soluzione di continuità tra tempo, stili e applicazioni. E questa è l’ufficialità, che si allunga e concretizza in una esperienza museale/contemporanea/futuribile di straordinario valore e entusiasmante forza. In riferimento d’obbligo: Mast (Manifattura di Arti, Sperimentazione e Tecnologia), via Speranza 40/42, 30133 Bologna; www.mast.org. Tanto è dovuto. ❖
Agosto 1943. All’indomani del venticinque luglio, nell’intervallo che precedette l’armistizio dell’otto settembre, il capoluogo lombardo subì quattro incessanti e tragiche incursioni aeree notturne. La devastazione fu totale. Nelle fotografie di Franco Rizzi, raccolte e commentate dal figlio Sandro, la testimonianza viva e palpitante del dolore
BOMBE
SU MILANO
C
onsiderata dagli Alleati, soprattutto dagli inglesi, importante nodo militare, nel corso della Seconda guerra mondiale, Milano fu ripetutamente bombardata. Attingendo principalmente ai ricordi dei miei genitori (ormai mancati), che vissero quei giorni, prima che io nascessi, e me ne hanno raccontato in più occasioni (ogni ricorrenza, ogni richiamo era colto al volo), so per testimonianza certa ciò che la Storia ha poi ufficializzato: soprattutto, furono devastanti quattro successive massicce incursioni della Raf dell’agosto 1943, settanta anni fa, che -nelle notti dell’otto, dodici, quattordici e quin-
dici- rasero al suolo interi quartieri della città, provocando danni colossali. Anche il morale della popolazione venne schiantato, all’indomani di quel venticinque luglio immediatamente precedente, quando le conseguenze dell’ Ordine del giorno Grandi, al Gran consiglio del fascismo, decretarono la fine del regime e fecero sperare in un alleggerimento dall’oppressione della guerra. Tra il venticinque luglio e il successivo otto settembre, di armistizio, con derivata occupazione del territorio da parte dell’esercito tedesco/nazista, non più alleato, ma nemico, per Milano, i bombardamenti di
di Sandro Rizzi
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itrovamento. Un pacchetto avvolto in quella vecchia carta nera che proteggeva, nelle scatole, la carta fotografica. Uno dei più preziosi ricordi conservati in famiglia. Dentro, un centinaio di cartoline camoscio, formato nove per quattordici centimetri: si vedono case sventrate, macerie, fumo di incendi, fabbriche scoperchiate con i macchinari anneriti, gente inebetita accanto alle suppellettili recuperate. Sono le immagini dei bombardamenti subìti da Milano nell’agosto 1943. Le scattò mio padre, Franco. Non era un professionista, ma la fotografia, con la radio e la meccanica, era una delle sue passioni. A Milano, andava ogni giorno, avanti e indietro da Sesto Calende, dove lavorava alla Siai-Marchetti, la grande fabbrica di aeroplani. La Leica lo ac-
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quell’agosto 1943 (settanta anni fa) rappresentano una delle pagine più tragiche della Seconda guerra mondiale, anticipatorie della successiva fase di guerra civile, con i partigiani del Comitato di Liberazione Nazionale, da una parte, e i repubblichini di Salò e i tedeschi, dall’altra. Una serie di fotografie scattate allora da Franco Rizzi raccontano la devastazione totale di quei lontani giorni, di settanta anni fa (esatti, circa). Il commento del figlio Sandro, che le ha pazientemente raccolte, ordinate e conservate, compone i tratti di una testimonianza viva e palpitante del dolore. M.R.
compagnava sempre. Di fronte a tale scenario di devastazione, scattò quasi cinque rullini. Ero troppo piccolo per ascoltare il suo racconto “in diretta”. Purtroppo, neanche due anni dopo lui morì, strappato a noi dall’odio cieco di quei giorni di ferocia. È rimasta la Leica -una IIIc, con obiettivo Summitar 5cm f/2-, sono rimaste le stampe, sono rimasti i negativi (Agfa). E il piccolo tesoro è stato “dissotterrato”, dieci anni fa, nel sessantesimo anniversario delle incursioni che sconvolsero Milano, e le ripropongo ancora oggi, nel settantesimo anniversario. Nel 2003, la casa editrice L’Ippocampo ha raccolto venti immagini in un cofanetto intitolato Desmentegass. Molti non ricordano [“desmentegass” = dimenticarsi], come il film che il regista Lamberto Caimi ha realizzato, traendo spunto proprio dalla storia dei rullini di mio padre. Molte delle fotografie, poi, sono servite ad arricchire la mostra Bombe sulla città, visitata
da oltre ventimila persone, alla Rotonda di via Besana; partendo dalle copie 18x24cm stampate dal cremonese Ezio Quiresi [cinquant’anni di fotografia presentati in FOTOgraphia, dell’aprile 2005; il ricordo della sua scomparsa, in FOTOgraphia, del settembre 2010], lo specialista Filippo Novati, di Artogne, nel bresciano, ha elaborato gigantografie di rara incisività: ad esaltazione sia del fotografo sia della Leica. Come sempre, non solo spesso, le fotografie aiutano a ricordare, ma in molti casi non riescono a “dire” tutto. Allora bisogna cercare di ricostruire, scatto dopo scatto, i percorsi su una vecchia pianta della città, e confrontarli con il presente. Restano, però, tanti angoli senza nome, perché gli ingrandimenti non bastano a decifrare la targa di una via o un cartello. Né è facile, oggi, trovare milanesi in grado di riandare a quella Milano. Lamberto Caimi, per il suo film, ha setacciato strade e piaz-
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ze, per far coincidere il “come è” con il “come era”. Preziosa in molti casi è stata la collaborazione dei lettori che hanno partecipato al Gioco della memoria, sul sito www.vivimilano.it, invitati a riconoscere venti luoghi non identificati. Sulle tracce fornite, io sono andato a verificare: in molti casi, il riconoscimento è avvenuto; in altri, no. La ricerca continua. Sono passati settant’anni dai giorni del 1943 che -annota Gaetano Afeltra in un libro- «sconvolsero l’Italia». Il periodo tra il venticinque luglio e l’otto settembre provocò al nostro paese un trauma i cui effetti non si sono ancora del tutto spenti negli animi. E Milano, che dall’inizio della guerra era stata bombardata nel 1940 e più pesantemente nell’ottobre 1942 e nel febbraio 1943, tra l’otto e il sedici agosto subì quattro incursioni notturne: novecentosedici bombardieri britannici Lancaster e Halifax sganciarono duemilaseicento tonnellate di bom-
Franco Rizzi (1905-1945), cremonese, perito industriale, era ispettore dell’ufficio acquisti della Siai-Marchetti. Ogni innovazione tecnica lo affascinava: fabbricò la prima radio-galena di Cremona; all’inizio degli anni Trenta, costruì da solo un motoscafo e lo varò nel Po; in casa, realizzava tutto quanto potesse essere utile, dalle molle per la stufa all’armadio, al tagliatartufi. E spesso il bagno diveniva camera oscura: sui raccoglitori dei negativi, annotava aperture di diaframma e tempi di otturazione. Maria, la moglie (mancata nel 1995), ha custodito i suoi “gioielli”, e il figlio Sandro, giornalista al Corriere della Sera, con la Leica, ha ereditato la passione per la fotografia. Invece, il reportage sui bombardamenti è un’eredità per tutti.
be. I morti accertati furono un migliaio, più di mille i feriti, duecentocinquantamila i senzatetto. In città ci saranno state all’epoca sette-ottomila persone, perché, dopo l’attacco di febbraio, circa trecentomila milanesi erano sfollati. Colpiti il Duomo, la Scala, il Palazzo Reale, la Stazione Nord, la chiesa di San Babila, la basilica di Sant’Ambrogio, Santa Maria delle Grazie (ma L’ultima cena, di Leonardo, protetta, miracolosamente non fu toccata). Quasi il cinquanta percento degli edifici distrutti o danneggiati. «Le distruzioni subìte -nota lo storico militare Achille Rastelli, nel suo Bombe sulla città (Mursia, 2004)- trovano un riscontro storico solo in quelle provocate da Federico Barbarossa, nel Dodicesimo secolo». In piazza del Duomo, i pompieri stanno ancora spegnendo l’incendio del palazzo Galtrucco, e mio padre è lì, all’angolo di via Orefici: un’istantanea un po’ sfuocata, in primo piano un uo-
mo che parrebbe senza un braccio. Sarebbe vietato fotografare, ma un appassionato come lui non si ferma: continua il giro tra i fornitori della ditta che, per il tipo di produzione, aveva importanza strategica. Un giorno, appena dopo un attacco -raccontava mia mamma-, gli sequestrarono il furgoncino per portare in ospedale i feriti e lui era preoccupato di salvare il carico: arrivò a casa molto tardi. Tutti erano in angoscia: si sapeva che a Milano c’erano state vittime, ma non era stato possibile avere sue notizie, né lui s’era potuto mettere in comunicazione. Si viveva nell’ansia. Dalle fotografie si possono interpretare i sentimenti di quei giorni di grande incertezza seguìti al venticinque luglio: disperazione composta, gente frastornata, quasi incredula, affronta le macerie con vanghe e badili, reagisce con dignità agli attacchi, quasi certamente pianificati dagli alleati per costringere l’Italia all’ar-
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mistizio. Gente in strada con borse, fagotti, valigie. Uomini in camicia, con le bretelle, donne in abiti leggeri, sandali di sughero. Una lunga teoria di persone in corso Sempione dirette fuori città, verso la campagna: un camioncino con un’incredibile stratificazione di materassi, tante biciclette, carretti stracarichi, tricicli, furgoni. Su un camion colmo di mobili sono issate anche due donne, sembrerebbero suore. Auto a carbonella o con le bombole di gas sulla semideserta autostrada Milano-Vergiate (si riconosce l’imbocco, perché in un fotogramma c’è la Certosa di Garegnano, oggi seminascosta dai sovrappassi). L’inquadratura di piazza San Babila fa scoprire che oggi la colonna davanti alla chiesa è spostata di qualche metro: dove era, adesso c’è un’entrata della metropolitana. In piazza Cadorna, della stazione Nord era restata in piedi soltanto la facciata, poi abbattuta nel dopoguerra. All’incrocio tra via Cesare
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Battisti, largo Augusto e via Visconti di Modrone, il palazzo dove c’è la farmacia è l’unico punto di riferimento conservato. Dà emozione cercare di inquadrare adesso i soggetti di allora. Certi luoghi, certi edifici, certi scorci non li ritroviamo più, perché la ricostruzione ha cambiato profondamente il volto di Milano. Molte fotografie sono state prese dall’interno dell’auto: fermarsi avrebbe significato violare il dolore di quelle donne sedute accanto alle poche masserizie strappate ai calcinacci. Una sequenza senza retorica di particolari agghiaccianti, ma non meno drammatica nella propria essenzialità. Il tetto sfondato della Scala, le volte senza più vetri della Galleria, gli idranti in via Torino e in via Manzoni vicino al Museo Poldi Pezzoli. E figure senza nome: un vecchio con il cappello nero, forse intabarrato, una donnetta curva, vestita di scuro, con l’ombrello per ripararsi dal sole. Ovunque una patina spessa di polvere e cenere. ❖
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NATURAL Consistente concorso di fotografia naturalistica, ogni anno, il BBC Wildlife Photographer of the Year allestisce una imponente mostra delle immagini premiate e segnalate. Si comincia da Londra, e poi il tour internazionale tocca altri paesi europei. In contemporanea con l’esposizione originaria dell’edizione 2013, in Inghilterra, la mostra della precedente edizione 2012 approda a Milano, al Museo Minguzzi
di Lello Piazza
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otografia di natura: di questo parliamo! Per gli appassionati di fotografia della natura, il più importante appuntamento dell’anno è rappresentato dal concorso internazionale BBC Wildlife Photographer of the Year (Wpoty, nel seguito), organizzato dal Natural History Museum, di Londra, e dalla rivista naturalistica inglese BBC Wildlife Magazine, realizzato a partire dal 1964. Oggigiorno, questo concorso ha un seguito straordinario tra professionisti e non professionisti [per l’amor del cielo, evitiamo le dizioni “fotoamatore” e “fotografo dilettante”: grottesca la prima e denigrante la seconda]: si pensi che alla recente e contemporanea edizione 2013 hanno partecipato circa quarantottomila fotografie, provenienti da novantotto paesi. Ne abbiamo già riferito, sullo svolgimento di edizioni precedenti, soprattutto nel febbraio 2009 e marzo 2010 (nel secondo caso, sottolineando la lunga e dibattuta vicenda di una fotografia in qualche modo e misura discussa). Torniamo sull’argomento, oppure replichiamo l’argomento -fate voi-, per segnalare il ritorno a Milano, dopo il successo dell’anno scorso, della mostra itinerante dell’edizione Wpoty 2012. Come da tradizione, ogni anno, a ottobre, la mostra con le immagini premiate nel Wpoty inaugura nelle sale del Natural History Museum, di Londra: in cronaca, Wildlife Photographer of the Year 2013, dallo scorso diciotto ottobre al prossimo ventitré marzo. Dopodiché, e in simultanea/contemporanea, inizia un viaggio itinerante, che porta la stessa mostra, lo stesso allestimento (duplicato e replicato) in giro per il mondo. Attualmente, la mostra del precedente 2012 è arrivata in Italia, un anno dopo la sua stretta attualità (ma conta nulla), e contemporaneamente al momento in cui sono stati annunciati i vincitori dell’edizione corrente 2013. Ciononostante, le ma-
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Paul Nicklen (Canada): Wildlife Photographer of the Year 2012 e vincitore Underwater Worlds. Paul Nicklen si è calato in una apertura che ha trovato nel ghiaccio, utilizzata o creata dai pinguini per ritornare in superficie. Ha aspettato il loro arrivo, immobile, respirando attraverso il boccaglio. Poi, tutto è accaduto molto velocemente: un’orda di pinguini imperatore è risalita
dalle profondità, lasciandosi dietro una scia spumeggiante di bolle. «È stata una vista meravigliosa. Assistere a un tale spettacolo, mi ha fatto sentire incredibilmente fortunato: un momento che non scorderò mai». Fino a poco tempo fa, gli scienziati non sono stati in grado di spiegare come facesse il pinguino imperatore a nuotare a una velocità tale da uscire dall’acqua a razzo, per atterrare sul ghiaccio.
Ora, i ricercatori hanno dimostrato che, quando risalgono, i pinguini rilasciano aria dalle piume. Questa aria li avvolge in una specie di mantello che funge da “lubrificante”. Si tratta di una tecnica usata anche per ridurre l’attrito dello scafo delle navi. Mare di Ross (Antartide). Canon EOS-1D Mark IV, Canon EF 8-15mm f/4L USM; 1/1000 di secondo a f/7,1; 500 Iso equivalenti; custodia scafandro Seacam.
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Steve Winter (Usa): vincitore The Wildlife Photojournalist of the Year Award. «Raccontando questa storia, che ho realizzato su incarico di National Geographic, ho cercato di documentare la bellezza delle tigri, la minaccia che rischia di estinguerle e gli eroici sforzi compiuti dai protezionisti per difenderle». Durante gli ultimi quarant’anni, sono stati investiti milioni di dollari
Ole Jørgen Liodden (Norvegia): vincitore Animals in their Environment. Ole Jørgen Liodden ha fotografato più di cento volte gli orsi polari, alle isole Svalbard. In una particolare sera d’estate, si sono presentati tutti gli elementi per poter descrivere al meglio l’orso e il suo ambiente di ghiaccio: «Il paesaggio, la forma delle lastre di ghiaccio, la sagoma dell’orso, le sue impronte... tutto era perfetto». Gli orsi polari sono particolarmente adatti alla vita nell’Artico. A terra, gli artigli non retrattili fungono da ramponi, mentre le piccole sporgenze e i solchi che hanno nella pianta delle zampe impediscono loro di scivolare sul ghiaccio. In acqua, usano le loro enormi zampe anteriori come pagaie, nuotando per lunghi tratti tra le lastre di ghiaccio galleggianti, in cerca di prede. Svalbard (Norvegia). Nikon D3s, AF-S Nikkor 14-24mm f/2,8G EG; 1/400 di secondo a f/11; 1000 Iso equivalenti.
giche fotografie premiate un anno fa non hanno certo perso il proprio valore visivo e la propria avvincente spettacolarità, e costituiscono un consistente e affascinate evento per il pubblico milanese. Evento reso possibile dall’esclusiva concessa dalla combinazione Natural History Museum, di Londra, e BBC Wildlife Magazine alla Pas Events, di Torino. Organizzata da Roberto Di Leo, presidente dell’Associazione culturale Radicediunopercento, la mostra è allestita nelle sale del Museo Minguzzi, nella centrale via Palermo 11, a Mi-
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lano, dove ha inaugurato lo scorso diciannove ottobre, per rimanere esposta fino al ventidue dicembre, alla vigilia delle feste natalizie, con quanto ne consegue... a ciascuno, il proprio. In ogni caso, e per dovere: cento fotografie presentate in stampe di grandi dimensioni, distribuite su tre dei quattro piani del Museo, ufficialmente intitolato allo scultore Luciano Minguzzi, tra i massimi esponenti della cultura figurativa italiana del Novecento (un attimo di pazienza, chiarisco e specifico in un riquadro apposito, pubblicato a pagina 41).
Isola di Sumatra (Indonesia). Canon Eos Digital Rebel XTi [in Europa, Canon Eos 400D], Canon EF 16-35mm f/2,8 L USM II; 1/160 di secondo a f/11; 200 Iso equivalenti; protezione impermeabile; sincronizzazione con tre flash Nikon, altrettanto impermeabilizzati; dispositivo fotoelettrico a infrarossi TrailMaster sintonizzato sul passaggio dell’animale.
I fotografi italiani, che si sono sempre distinti in questa competizione, non sono risultati vincitori in nessuna delle categorie previste dal Wpoty 2012, qui in mostra e passerella. Categorie che elenchiamo a partire dal riconoscimento più prestigioso, il Veolia Wildlife Photographer of the Year, assegnato al canadese Paul Nicklen per la sua fotografia Bubble-jetting emperor, sintesi spettacolare di pinguini imperatori, fotografati sott’acqua, nel Mare di Ross, in Antartide [a pagina 34]. Poi ci sono gli Special Award, che sintetizziamo in rapidità:
intitolato a uno dei pionieri della fotografia naturalistica, l’Eric Hosking Portfolio Award è riservato ai giovani talenti tra i diciotto e ventisei anni; il World in Our Hands Award si occupa del delicato rapporto uomo-ambiente: il Wildlife Photojournalist Award premia una serie di sei immagini che raccontino giornalisticamente un fatto riguardante la natura; il Gerald Durrell Award for Endangered Species accetta soltanto immagini dedicate alle specie sotto minaccia di estinzione. Seguono: Animal Portraits, Behaviour: Mammals, Beha-
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nel “Progetto tigre”. Ciononostante, il loro numero continua a diminuire. Oggi, in natura, sopravvivono poco meno di tremiladuecento esemplari liberi, la maggior parte dei quali nei parchi dell’India. L’esemplare della fotografia è una tigre di Sumatra, ed è ancora più rara. In natura, di questa sottospecie ne rimangono tra i quattrocento e cinquecento esemplari.
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detta tapetum lucidum, che è irrorata di sangue. La membrana riflette la luce all’indietro, verso i fotorecettori, per potenziare le capacità visive anche in condizioni di luce molto scarsa. Questo produce il caratteristico riflesso rosso che si vede nei loro occhi quando, al buio, vengono investiti dal raggio di una torcia o dal flash di una macchina fotografica. Myakka River State Park, Florida (Usa). Nikon D2x, AF-S Nikkor 80-400mm f/4,5-5,6G ED VR; otto secondi a f/8; 200 Iso equivalenti; flash Nikon SB-800; treppiedi Gitzo con testa a sfera Manfrotto 468RC2.
Paul Nicklen (Canada): vincitore Behaviour: Birds. In altra funzione, rispetto la compagnia, il fotografo Paul Nicklen non è stato l’unico mammifero in attesa di salutare la grande invasione di pinguini imperatore. Accanto a lui, le foche leopardo erano in agguato, pronte a procurarsi un pasto: «Anch’io tenevo d’occhio le foche leopardo. Ce n’era una, in particolare, che mi aveva colpito in piena faccia quando ero a cinque metri dall’orlo della banchisa,
gettandomi a terra. Per mia fortuna, si è resa conto che non ero un pinguino». Quando entrano ed escono dall’acqua, i pinguini sono una facile preda; per proteggersi, si immergono in grandi gruppi. Inoltre, nuotano velocissimi e riescono a catapultarsi fuori dall’acqua come missili, atterrando sani e salvi sulla banchisa. Mare di Ross (Antartide). Canon Eos-1D Mark IV, Canon EF 24-105mm f/4L IS USM; 1/2000 di secondo a f/11; 400 Iso equivalenti.
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Larry Lynch (Usa): vincitore Animal Portraits. Una sera, camminando lungo l’alveo asciutto di un fiume, Larry Lynch si è imbattuto in un gruppo di alligatori che stava banchettando con pesci rimasti intrappolati nelle pozze lasciate dal fiume che si era prosciugato: «Un alligatore in particolare, che ho fotografato, non sembrava aver fretta di andare da nessuna parte; così, ho avuto tempo e modo di collocare la macchina fotografica di fronte a lui, mettendo bene a fuoco i suoi occhi». Come molti animali, dietro la retina, gli alligatori hanno una membrana riflettente,
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David Maitland (Inghilterra): secondo classificato Creative Visions. Per fotografare un campione di sabbia corallina, David Maitland ha collegato la sua reflex a un microscopio: «Ho ricercato un’immagine che catturasse la diversità e bellezza architettonica di quella sabbia. La sfida tecnica mi ha impegnato nella ricerca della messa a fuoco corretta. Per ottenere il giusto effetto tridimensionale, ho impiegato molto tempo in piccoli aggiustamenti».
La sabbia corallina è composta da microscopici resti di scheletri di animali invertebrati dal corpo morbido, come le spugne, le gorgonie, i cetrioli di mare e i coralli. Con il passare dei secoli e dei millenni, questi scheletri si accumulano sul fondo del mare e vengono trasportati dall’acqua insieme alla sabbia, formando così le scintillanti spiagge dei tropici. Norfolk (Inghilterra). Canon Eos 5D Mark II; microscopio Olympus BX51, obiettivo 10x; 1/100 di secondo; 50 Iso equivalenti.
viour: Birds, Behaviour: Cold-Blooded Animals, Animals in their Environment, Botanical Realms (dedicato e riservato al mondo vegetale), Underwater Worlds, Wildscapes (paesaggio naturale... selvaggio), Urban Wildlife (animali selvatici in città), Nature in Black and White, Creative Visions. Ultimo, ma non meno importante, il qualificato e qualificante Veolia Environnement Young Wildlife Photographer of The Year è riservato ai più giovani (che più giovani di così non si può), e diviso in tre sezioni: sotto i dieci anni, tra un-
dici e quattordici anni, tra quindici e diciassette anni. Pur non avendo vinto nulla nell’ambito delle assegnazioni di vertice, i fotografi italiani hanno ottenuto qualificanti menzioni speciali. Con ordine: con la fotografia Celebration of a grey day, paesaggio che ritrae la Laig Bay, in un’isola della Scozia nord-occidentale, Fortunato Gatto è stato menzionato in Wildscapes; Hugo Wassermann ha ricevuto una analoga menzione speciale in Creative Visions, con la fotografia Positioning, che raffigura un’upupa su un tronco nella nebbia.
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per intrappolare l’aria sotto il piumaggio e creare così un ulteriore strato di protezione dal freddo. Alzare e abbassare le penne, o agitarle, aiuta anche a riallinearle: una sorta di veloce check-up, per mantenere in buone condizioni gli strumenti di volo. Indipendentemente dal valore scientifico, un avvincente ritratto di animale. Jasper National Park (Canada). Canon Eos-1D Mark IV, Canon EF 500mm f/5,6 IS; 1/1250 di secondo a f/7,1; 1600 Iso equivalenti.
Anna Henly (Inghilterra): vincitrice The World in Our Hands Award. Anna Henly si trovava su una nave, alle Svalbard, in Norvegia, quando vide questo orso polare camminare sui banchi di ghiaccio che si stavano frantumando. Ha usato una focale grandangolare estrema (fisheye 15mm), per far apparire più piccolo l’enorme animale, inserito nel paesaggio, e creare così «l’impressione del più grande dei predatori del pianeta e del suo mondo di ghiaccio in frantumi». Gli orsi polari sono particolarmente adatti alla vita nell’Artico, e contano sul ghiaccio per cacciare le foche, che sono la loro preda favorita.
Quando, in primavera, il ghiaccio si scioglie, gli orsi si rifugiano sulla terra ferma, dove faticano a trovare cibo. A causa del riscaldamento globale, le temperature continuano a salire, anno dopo anno, e il tempo a disposizione degli orsi per cacciare le foche e costruire le necessarie riserve di grasso diminuisce sempre più. Ciò costituisce una minaccia molto seria per questi plantigradi, in condizione di esaurimento della specie: purtroppo, proprio così va il mondo. Svalbard (Norvegia). Canon Eos 5D, Canon EF 15mm f/2,8 FE (fisheye); 1/100 di secondo a f/3,5; 400 Iso equivalenti.
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John E. Marriott (Canada): secondo classificato Animal Portraits. Rannicchiato in mezzo a una strada coperta di neve, c’era qualcosa che sembrava un batuffolo di lanugine nera. Avvicinandosi, John E. Marriott ha realizzato che si trattava di un corvo: «Stava lì seduto, come se si fosse appena alzato dal letto. Quando, qualche tempo dopo, ho riguardato le fotografie scattate, sono scoppiato a ridere». Molto probabilmente, il corvo cercava di tenersi al caldo alzando le penne,
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Sede storica dell’archivio dello scultore Luciano Minguzzi (Bologna 1911 - Milano 2004), grazie a Radicediunopercento, il Museo Minguzzi è stato aperto un anno fa come sede espositiva per manifestazioni di alta qualità e con finalità sociali ed educative. L’attività ha preso avvio proprio in occasione della mostra Wpoty 2011, tornata a Milano dopo dieci anni di colpevole silenzio. Museo Minguzzi, via Palermo 11, 20121 Milano; 02-8051460; www.lucianominguzzi.it.
Hannah Bedford (Inghilterra): segnalazione Young Wildlife Photographer of the Year - fino a dieci anni. «In giardino, c’era un po’ di trambusto. Una volpe aveva ucciso quattro galline nel recinto dei polli, e stava per mangiarne una». La piccola Hannah Bedford è corsa a prendere la macchina fotografica, riuscendo a cogliere la volpe ancora in cima al pollaio, con la bocca piena di piume e tremante di paura: «Sono stata contenta di vedere una volpe così da vicino, ma da quel giorno non teniamo più galline».
Grazie ai loro gusti eclettici, le volpi hanno prosperato nelle aree agricole e urbane. Sono temute perché uccidono e mangiano pollame, selvaggina e persino piccoli maialini. Il danno di queste abitudini alimentari e predatorie è marginalmente compensato dal fatto che le volpi decimano anche i conigli, che costituiscono un grave pericolo per l’agricoltura. Hertfordshire (Inghilterra). Canon PowerShot A1100 IS; 1/20 di secondo a f/2,7; 500 Iso equivalenti.
Invece, nella precedente edizione 2011, fotografi italiani sono risultati vincitori in due categorie. Sinuosità, di Marco Colombo, da Varese, primo premio in Animal Portraits (fotografia scattata in Lombardia, che mostra una natrice femmina un serpente non velenoso- in attesa del passaggio di una preda, quasi sempre un piccolo anfibio, accanto a un bellissimo ruscello). Stefano Unterthiner, della Valle d’Aosta, autore del calendario Epson 2013 [FOTOgraphia, febbraio 2013], si aggiudicò addirittura due riconoscimenti: primo posto nella ca-
tegoria Creative Visions, con Illusione, e menzione speciale in Animal Portraits, con Disposizione di cigni. ❖ Wildlife Photographer of the Year 2012. Museo Minguzzi, via Palermo 11, 20121 Milano (www.wpymilano.it, www.radicediunipercento.it; info@wpymilano.it, info@radicediunipercento.it). Fino al 22 dicembre; martedì-domenica, 10,00-19,00. ❯ Catalogo Wildlife Photographer of the Year Portfolio 22, edizione Frances Lincoln per The Natural History Museum, curato da Rosamund Kidman Cox, con introduzione di Jim Brandenburg, uno dei fotografi di natura più famosi, con le immagini premiate e segnalate del concorso; 160 pagine 25,4x25cm; 32,06 euro.
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dal 1928 Evoluzione dell’originario Imagonal, disegnato da Franz Coblitz, nel 1906, il progetto ottico dell’obiettivo a fuoco morbido controllato Rodenstock Imagon è attribuito al fotografo tedesco Heinrich Kuehn (nato Carl Christian Kühn; Dresda 1866 Birgitz, Austria 1944), esponente di spicco del pittorialismo di inizio Novecento, membro dell’aristocratico Vienna Kamera-Club e della autorevole confraternita inglese The Linked Ring (conosciuta anche come The Brotherhood of the Linked Ring). Firmato dall’ingegner Franz Staeble, il disegno ottico del Rodenstock Imagon (due lenti accoppiate in un unico gruppo) è datato al 1928. Sempre completo di diaframmi selettori (H, da Helligkeit, ovverosia luminosità), per immagini a sfocatura periferica differenziata, sovrapposta a una immagine centale nitida, è stato realizzato in diverse lunghezze focali, dal 120mm al 300mm, per la copertura di formati fotografici fino all’8x10 pollici.
Rodenstock Imagon
www.newoldcamera.com
Apparentemente, soltanto un “antico” concerto londinese dei Beatles, peraltro la loro ultima esibizione “minore”. Con il conveniente pretesto dell’anniversario (cinquant’anni dal 14 dicembre 1963), ri-proponiamo una cronaca dell’attento Gino Begotti, paparazzo per vocazione [FOTOgraphia, febbraio 1996], che non si esaurisce nel solo racconto originario, ma rileva valori impliciti della Fotografia, che consente di superare Tempo e Spazio. Implacabilmente, la Fotografia afferma la propria personalità implicita, che qui, con la complicità di consecuzioni storiche note e riconosciute, ha modo di esprimere se stessa di Angelo Galantini
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ncora oggi, soprattutto oggi, l’epopea dei Beatles continua a manifestarsi nel costume quotidiano e in identificati momenti di socialità. Indipendentemente da altre valutazioni di merito -musicali, compositive o contorni-, rimane chiaro, esplicito e lampante che il fenomeno dei Beatles è appunto tale: Fenomeno / Mito, che ha influenzato gli anni Sessanta, i cui effetti si sono poi distesi sui decenni a seguire. Magari, fino ai nostri giorni attuali, e poi andranno ancora oltre. Non ne abbiamo dubbi. Senza impegnarci in una autentica storiografia dei Beatles, che appartiene ad altri territori, assolutamente competenti, in ogni caso, è necessario stabilire linee di confine e demarcazione, altrimenti si rischia di non collocare il fenomeno nel proprio contesto legittimo. La parabola dei Beatles può essere racchiusa in un decennio esatto, appunto gli anni Sessanta, fino a quel 30 dicembre 1970, nel quale Paul McCartney, che in precedenza era riuscito a tenere assieme il gruppo anche nei momenti più critici, depositò l’istanza ufficiale di scioglimento presso il tribunale di Londra. Prima dei Sessanta, si potrebbero registrare altre note di ulteriore e precedente preistoria, che comunque riguardano soltanto la maturazione musicale dei singoli componenti, e non l’inattesa fenomenologia beatlesiana che ne conseguì. Dunque, lasciamo andare.
GLI ESORDI, VERSO IL MITO! In tutto, un momento discriminante è identificabile con la tournée statunitense del febbraio 1964, che amplificò oltre Oceano quella che sarebbe stata definita beatlemania, fino allora limitata alla natia Inghilterra e a timide proiezioni europee (organizzato dal lungimirante Leo Wächter, il tour ita(continua a pagina 48)
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DA QUI
IL MITO!
ANCORA BEATLES (ANNI SESSANTA)
Come annotato in diverse occasioni, presentando in cronaca titoli degni della (nostra) attenzione fotografica, l’attento, mirabile e audace editore tedesco Taschen Verlag fa sempre seguire le proprie tirature numerate, firmate e personalizzate da una edizione libraria sostanzialmente standardizzata: senza tralasciare la proverbiale cura delle sue fantastiche pubblicazioni, proposta a un prezzo di vendita/acquisto più frequentabile da ognuno (tante e tante le recensioni, in FOTOgraphia). A proposito di Beatles, nel cinquantenario di un avvincente e convincente reportage del bravo Gino Begotti, dopo le originarie Collector’s Edition e Art Edition, The Beatles, di Harry Benson, è approdato -per l’appunto- alla sua edizione tranquilla e appetibile: multilingue (spagnolo, portoghese e italiano); 272 pagine 26,5x37,4cm, cartonato con sovraccoperta; 49,99 euro. Ha dichiarato l’autore: «Queste fotografie raccontano di un periodo davvero felice per loro e per me. Tutto si riduce alla musica; senza dubbio, è stata la più grande band del Ventesimo secolo, ed è per ciò che queste fotografie sono così importanti». Harry Benson ha avuto modo di avvicinare i Beatles nei loro istanti di esordio. Questa va raccontata. Qualche settimana dopo il reportage di Gino Begotti -che compone l’ossatura di questo intervento redazionale, nel cinquantenario del dicembre 1963, al Wimbledon Palais, di Londra-, all’inizio del 1964, mentre stava svolgendo un assignment in Africa, Harry Benson fu raggiunto da una telefonata della photo editor del quotidiano londinese The Daily Express. Gli fu chiesto di raggiungere i Beatles a Parigi, dove si sarebbero esibiti all’Olympia, per seguire quella che si stava profilando come beatlemania: fu il più grande e importante incarico fotografico della sua lunga e prolifica carriera. Harry Benson. The Beatles; Taschen Verlag, 2013; edizione multilingue (spagnolo, portoghese, italiano), successiva all’originaria Collector’s Edition (272 pagine 31,2x44cm, in guscio; tiratura numerata e firmata; 750,00 euro); 272 pagine 26,5x37,4cm, cartonato con sovraccoperta; 49,99 euro.
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Al piano, all’Hotel George V, di Parigi, nel 1964, Paul McCartney intona le prime note di I Feel Fine per gli altri tre Beatles. 7 febbraio 1964: arrivo dei Beatles all’aeroporto Kennedy, di New York City.
Harry Benson fu accolto calorosamente dai quattro, e realizzò alcune delle fotografie più intime del complesso (come si diceva allora; oggi, band, gruppo o qualcosa d’altro ancora, a noi ignoto), che stava per imporsi nel mondo intero, stravolgendo sia la musica, di partenza, sia il costume sociale nel proprio insieme e complesso. Tra tanto, a Parigi, in una stanza del selettivo Hotel George V, furono scattate fotografie private, tra le quali quella della battaglia di cuscini che è diventata autentico marchio di fabbrica (del fotografo). A seguire, Harry Benson ha accompagnato i Beatles nel loro primo tour statunitense, durante il quale si registra la partecipazione al famoso e seguìto programma televisivo Ed Sullivan Show e si annotano incontri ad alto livello, come quello con il pugile Cassius Clay, eroe delle Olimpiadi di Roma (1960), non ancora Muhammad Ali. Unica nota stonata di quel tour, estranea alla fotografia, ma da ricordare (soprattutto per coloro i quali, e sono tanti, non l’hanno vissuta in cronaca), fu l’infelice espressione di John Lennon -portavoce dei quattro- che annotò come i Beatles fossero ormai più famosi -o grandi, secondo le traduzioni- di Gesù Cristo. In tutti i casi, gli straordinari e coinvolgenti bianconero di Harry Benson fissano un momento della storia contemporanea con il quale si debbono fare i conti sociali del nostro mondo. Ecco quindi che la contrapposizione tra il fanatismo dei concerti e la rilassatezza del privato, perfettamente combinati nelle fotografie di Harry Benson, racconta come niente altro potrebbe fare il clima e senso di un momento, in procinto di diventare epoca. Molte di queste fotografie sono note e conosciute, a partire da quella della battaglia di cuscini appena evocata (un cui dettaglio illustra la copertina della monografia); molte di più sono inedite e compongono i tratti di un racconto avvincente e irrinunciabile. Ovverosia, fantastico. Beatles Forever; 1966. (in alto) John fotografa Cynthia (sua moglie) e George; 1964. Curiosamente, nei back stage, i Beatles sono spesso raffigurati con macchine fotografiche.
Ritratto di Harry Benson con tra le mani una stampa della celebre battaglia di cuscini dei Beatles, all’Hotel George V, di Parigi, nel 1964, realizzato da Tim Mantoani, nell’ambito del suo avvincente e convincente progetto fotografico Behind Photographs [ FOTOgraphia, ottobre 2010].
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Concerto dei Beatles, al Wimbledon Palais, di Londra: 14 dicembre 1963, in una fotografia di Dezo Hoffmann, fotogiornalista e ritrattista inglese che è stato molto vicino ai Fab Four delle origini. Sullo sfondo, Gino Begotti, del quale oggi celebriamo i cinquant’anni dal suo servizio sull’evento, considerabile e considerato epico, alle soglie della proiezione del gruppo musicale sul palcoscenico internazionale.
(continua da pagina 44) liano è della primavera successiva 1965). Nell’attesa di questa trasferta, l’inverno Sessantatré, di cinquant’anni fa esatti, confermò i tratti della nascente leggenda e del fanatismo di massa, spesso isterico, nei confronti dei Beatles. Musicalmente, il bagaglio era ancora limitato: prodotto dall’abile Brian Epstein (al quale i Beatles devono tutto, non soltanto molto), l’originario Quarantacinque giri Love Me Do fu pubblicato il 5 ottobre 1962 (sul lato B, P.S. I Love You ); la prima apparizione televisiva è del novembre 1962; pubblicato il 12 gennaio 1963, il successivo sedici febbraio Please Please Me è stato il primo motivo dei Beatles arrivato al vertice delle classifiche inglesi di vendita dei dischi (sul lato B del disco, Ask Me Why ); dopo la pubblicazione di From Me To You (sul lato B, Thank You Girl ), dell’undici aprile, a fine dello stesso aprile arriva il primo album (ai tempi, long playing), intitolato come il primo successo commerciale Please Please Me; dopo i singoli She Loves You (lato B, I’ll Get You; ventitré agosto) e I Want To Hold Your Hand (lato B, This Boy ; ventinove novembre) e alcune combinazioni commerciali della casa discografica Emi, attenta e solerte a sfruttare il momento propizio, il ventidue novembre arrivò il secondo autentico album, With the Beatles, che rivelò un respiro musicale di grande personalità. Sono anche i momenti di un clamoroso passaggio televisivo alla Bbc (sette dicembre) e di un concerto davanti alla famiglia reale (quattro novembre), durante il quale John Lennon manifestò clamorosamente il proprio spirito anticonformista. Annunciando un motivo, avrebbe sollecitato in questo modo l’attenzione del pubblico presente, tutti esponenti della nobiltà inglese vicina ai reali: «Per la prossima canzone, per favore, quelli che sono nei posti economici possono battere le mani; gli altri possono semplicemente far tintinnare i propri gioielli».
GINO BEGOTTI: LUI C’ERA! In questo clima, il 14 dicembre 1963, ribadiamo giusto cinquanta anni fa, Gino Begotti fu testimone fotografico di un
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Special Pass assegnato al fotogiornalista italiano Gino Begotti per l’ingresso al concerto dei Beatles, del 14 dicembre 1963 (esattamente cinquant’anni fa: come passa -inesorabile- il tempo...), al Wimbledon Palais, di Londra: l’ultimo concerto “casalingo” dei Fab Four, in anticipo sulle esibizioni, immediatamente successive, all’Olympia, di Parigi (gennaio 1964), e sulla tournée negli Stati Uniti (da febbraio). Insomma, una data di confine per la definizione del Mito.
avvenimento che oggi sappiamo essere stato storico, e così lo definiamo e conteggiamo: l’ultimo concerto “minore” dei Beatles, al Wimbledon Palais, di Londra. Il successivo gennaio 1964, i quattro avrebbero poi cantato all’Olympia, di Parigi, che per il vero li accolse tiepidamente, per poi entusiasmarsi alle esibizioni di Trini Lopez e Sylvie Vartan; ma, soprattutto, come abbiamo già accennato, in febbraio si concretizzò/materializzò la prima trionfale esperienza statunitense. Accolti all’aeroporto di New York da una folla urlante -storicamente la prima delle scene di isteria che sarebbero state replicate nei mesi e anni a seguire-, furono ufficialmente consacrati dall’Ed Sullivan Show, ai tempi una delle più seguite trasmissioni televisive statunitensi. Qualche istante prima di diventare il gruppo musicale più famoso al mondo, con le vicende personali e collettive che sarebbero seguite (fino alla fine del decennio), Gino Begotti arriva al Wimbledon Palais per un reportage che oggi, esauriti gli effimeri fumi della cronaca, può essere classificato come significativo, come fondante, come epocale. Le fotografie di Gino Begotti, veneziano di nascita, classe 1941, sono esattamente ciò che devono essere: racconto fotografico, con svolgimento lineare e coerente. L’avvenimento è “coperto” (si dice così) con una perizia e solerzia di mestiere, che decenni dopo, dalla metà degli anni Novanta, lo stesso Gino Begotti ha dichiaratamente attribuito a un proprio essere sempre stato Paparazzo per vocazione: e così ha intitolato una selezione di lavori fotografici, raccolti in una retrospettiva allestita tempo fa (della quale abbiamo riferito in FOTOgraphia, del febbraio 1996). Comunque, tornando all’argomento, quel 14 dicembre 1963 (di cinquant’anni fa), Gino Begotti si è abilmente e coerentemente immedesimato nel pubblico e ne ha seguìto la marcia, scomponendosi tra la partecipazione diretta al concerto (esibizione?) e la documentazione dei fatti, cioè alternando il proprio ritmo fotografico in due tempi di osservazioni distinti, quanto coincidenti. Da una parte, la cronaca è raccontata dal punto di vista dello spettatore, soprattutto per quanto riguarda l’esibizione dei Beatles sul palco del Wimbledon Palais; dall’altra, la
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ARCHIVIO FOTOGRAPHIA
AGLI ORDINI DEL SERGENTE PEPPER
Pubblicato in Inghilterra il Primo giugno 1967, l’album dei Beatles Sgt. Pepper’s Lonely Hearts Club Band (ai tempi si diceva long playing, per distinguere i Trentatré giri dai Quarantacinque) arrivò in Italia a cavallo tra luglio e agosto. Musicalmente, rappresentò una novità assoluta. Non una semplice raccolta di motivi, come spesso veniva fatto (e viene ancora fatto), ma un insieme senza soluzione di continuità dall’inizio alla fine. Sulle due facciate del disco, le singole canzoni sono unite da brusii di folla, note di strumenti ad arco, piccoli giochi vocali, rumori di sottofondo, messaggi cifrati, effetti orchestrali, chiasso da pollaio. Siamo nel periodo nel quale andavano di moda le uniformi militari, indossate con estrema disinvoltura e senza alcun ritegno (momenti grotteschi, dei quali molti debbono vergognarsi, soprattutto dal mondo dello spettacolo). In particolare, a Londra, ebbero grande successo commerciale i negozi che vendevano oggetti e divise dell’epoca vittoriana, e tra i tanti il più noto fu l’eccentrico I Was Lord Kitchener’s Valet (Sono stato il cameriere di Lord Kitchener), dove anche i quattro Beatles si servivano. Giocoforza che Paul McCartney, sempre attento agli umori del pubblico, abbia allora pensato a qualcosa di musicale da abbinare a questo interesse. Nacque così il motivo Sergeant Pepper’s Lonely Hearts Club Band... La banda del club dei cuori solitari del sergente Pepper. Il produttore George Martin, al quale va attribuito il grande merito del successo dei Beatles, ricorda la canzone di Paul McCartney: «Era del tutto normale, non particolarmente brillante. Quando finimmo, Paul disse: “Perché non costruiamo un album come se l’orchestra di Pepper esistesse realmente, come se fosse proprio il sergente Pepper a fare il disco? Possiamo creare effetti e oggetti”. Da quel momento, fu come se il sergente Pepper avesse una sua vita propria» (Shout! La vera storia dei Beatles, di Phil Norman; Mondadori, 1981). Nella memoria dei protagonisti di quei momenti rimane la sensazione che all’inizio tutto fu soprattutto un gioco: le canzoni stesse e la ricerca dei rumori di collegamento tra i diversi motivi. Poi, in ognuno crebbe la sensazione di lavorare attorno la creazione di un capolavoro musicale. Con antiquati strumenti di registrazione, George Martin e i suoi tecnici si impegnarono a conciliare l’infinità di nuove idee partorite dai Beatles, che avevano da poco scoperto l’Lsd, il potente allucinogeno, e con questo avevano riscoperto il gusto di stare assieme. Tanto che, per molti critici della musica, Sergeant Pepper è sia la più significativa raccolta dei Beatles, sia la loro migliore performance in sala di registrazione (altro discorso, di diverso spessore per il precedente Revolver, del 1966, e successivo “White Album”, del 1968, ufficialmente intitolato The Beatles, cronologicamente il nono della discografia). In ogni caso, con il senno di poi, annotiamo che questo rinnovato entusiasmo rappresentò anche l’inizio della loro fine. All’epoca, da un anno, i Beatles avevano abbandonato le esibizioni dal vivo per mancanza di feeling con il pubblico, oltre che per contenere i propri guadagni e le conseguenti ingenti tasse. Inoltre, da molto si era esaurita l’amicizia originaria. In particolare, in quel 1967, divenne evidente l’acceso antagonismo musicale tra Paul McCartney e John Lennon, in competizione per la leadership del gruppo. In quei giorni, Paul McCartney non riuscì ad eguagliare l’originalità creativa di John Lennon, che firmò i motivi migliori dell’album: Lucy in the sky with diamonds (per il quale si è sempre esplicitamente parlato degli influssi dell’Lsd, palesemente identificato anche nell’acronimo del titolo) e A day in the life. Oltre il fatto musicale, per se stesso significativo, Sgt. Pepper’s Lonely Hearts Club Band fece scalpore anche per l’insolita copertina: considerata la prima confezione spettacolare, che diede avvio a una stagione. I Beatles introdurrono se stessi nei panni della banda del sergente Pepper, appunto inguainati in altisonanti e colorate divise militari d’epoca. Magari anche più della musica, e prima di averla ascoltata, questa/quella copertina rispecchiò perfettamente la propria epoca.
Realizzata dagli artisti pop Peter Blake e Jan Haworth, la copertina di Sgt. Pepper’s Lonely Hearts Club Band presenta una nutrita serie di personaggi della pseudo cultura del tempo, sulla cui reale consistenza non ci esprimiamo. Dall’alto e da sinistra, i personaggi raffigurati sul profetico album dei Beatles, che oggi ricordiamo (i Beatles, non l’album) nel cinquantenario del reportage di Gino Begotti, al Wimbledon Palais, di Londra. A contorno, soprattutto alla base, si aggiungono statue (tra le quali una dall’abitazione di John Lennon), suppellettili varie, oggetti di complemento e gnomi da giardino. Comunque, rimaniamo ai personaggi, riprendendo e proponendo una delle decifrazioni più attendibili; altri elenchi sono marginalmente diversi. Sri Yukestawar Giri (guru); Aleister Crowley (noto per i propri eccessi sessuali, nell’uso di droghe e nella frequentazione della magia); Mae West (attrice); Lenny Bruce (cabarettista); Karlheinz Stockhausen (compositore); William Claude Fields (attore); Carl Gustav Jung (psicologo); Edgar Allan Poe (scrittore); Fred Astaire (attore); Richard Merkin (artista); illustrazione di Alberto Vargas; [nel posto vuoto avrebbe dovuto essere raffigurato l’attore Leo Gorcey, che però chiese un compenso, e non venne accontentato]; Huntz Hall (attore, in coppia con Leo Gorcey nel film The Bowery Boys, del 1954); Simon Rodia (architetto, creatore delle Watts Towers di Los Angeles); Bob Dylan (musicista); Aubrey Beardsley (pittore e illustratore); Sir Robert Peel; Aldous Huxley (scrittore); Dylan Thomas (poeta); Terry Southern (scrittore); Dion (di Mucci; cantante); Tony Curtis (attore); Wallace Berman (attore); Tommy Handley (attore); Marilyn Monroe (attrice); William Burroughs (scrittore); Sri Mahavatara Babaji (guru); Stan Laurel (attore); Richard Lindner (scrittore); Oliver Hardy (attore); Karl Marx (filosofo); H.G. Wells (Herbert George; scrittore); Sri Paramahansa Yoganandu (guru); statua in cera; Stuart Sutcliffe (ex Beatles); statua in cera; Max Miller (attore); illustrazione di George Petty; Marlon Brando (attore); Tom Mix (attore); Oscar Wilde (scrittore); Tyrone Power (attore); Larry Bell (artista); Dottor David Livingstone (missionario ed esploratore); Johnny Weismuller (nuotatore e attore); Stephen Crane (scrittore); Issy Bonn (attore); George Bernhard Shaw (scrittore); H.C. Westermann (Horace Clifford; scultore); Albert Stubbins (calciatore); Sri Lahiri Mahasaya (guru); Lewis Carroll (scrittore); T.E. Lawrence (Thomas Edward; militare; Lawrence d’Arabia); Sonny Liston (pugile); illustrazione di George Petty; George Harrison (statua in cera); John Lennon (statua in cera); Shirley Temple (attrice); Ringo Starr (statua in cera); Paul McCartney (statua in cera); Albert Einstein (fisico e filosofo); John Lennon (con corno francese); Ringo Starr (con tromba); Paul McCartney (con oboe); George Harrison (con flauto); Bobby Breen (cantante); Marlene Dietrich (attrice); Mohandas Karamchand Gandhi (leader indiano); Legionario; Diana Dors (attrice); Shirley Temple (attrice).
Gli artisti pop Peter Blake e Jan Haworth furono incaricati della sua impostazione grafica, per la quale furono espressamente esortati a non curarsi delle convenzioni. Nella coloratissima composizione, i Beatles reggono strumenti bandistici e vestono uniformi di raso giallo (John Lennon), fucsia (Ringo Starr), azzurro (Paul McCartney) e scarlatto (George Harrison). Per l’occasione, e per interpretare al meglio i personaggi, i quattro si fecero crescere i baffi. Da qui inizia, quindi, il gioco delle citazioni. Davanti alla finta solennità dei Beatles è composta una scritta con fiori, che sopravanza di poco un giardino di piante di marijuana. I quattro sono inquadrati in mezzo a un collage di figure che rappresentano numerosi eroi del pseudo culto della cultura pop del tempo. Con balzi arditi e in perfetta fusione (di intenti), da Karl Marx si arriva a Bob Dylan, da Edgar Allan Poe a Marlon Brando. Non mancano, ancora, spiritosaggini private: come le statue in cera del museo di Madame Tussaud del pugile Sonny Liston, di George Bernard Shaw e degli stessi Beatles, in versione originaria 1961. Da segnalare anche la bambola sul cui abito campeggia la scritta Welcome The Rolling Stones (gli antagonisti londinesi di sempre). Ai propri tempi, quarantasei anni fa, la copertina destò scalpore, e tra il pubblico iniziò il gioco del riconoscimento dei singoli personaggi che accompagnavano i Beatles. Alcuni volti erano (sono) noti anche al grande pubblico, invece altri erano (sono) conosciuti soltanto in una ristretta cerchia di persone. Tra i volti pubblicamente poco noti, i conoscitori della storia del gruppo (oggi diciamo “band”, ieri l’altro “complesso”) apprezzano la presenza di Stuart Sutcliffe, il quinto Beatles degli anni di Amburgo (1960) e dei primi provini discografici. Stuart Sutcliffe, che si separò dagli amici per restare in Germania, per vivere con Astrid Kirchherr, giovane assistente del grande fotografo tedesco Reinhart Wolf, morì prima dell’esplosione del fenomeno Beatles e del relativo incontrastato successo internazionale (attenzione, questa storia è raccontata a margine del film Backbeat - Tutti hanno bisogno di amore, di Iain Softley; Gran Bretagna e Germania, 1994; FOTOgraphia, dicembre 2008, e da pagina 52). L’assemblaggio del collage per la copertina di Sgt. Pepper’s Lonely Hearts Club Band non fu né semplice né lineare. I dirigenti della casa discografica, la Emi, non si erano accorti delle piantine di marijuana in primo piano (forse perché neppure le conoscevano o riconoscevano); invece, si preoccuparono per i diritti all’immagine dei personaggi presentati. Si temevano azioni legali contro la società. Comunque, dopo alcune transazioni, i Beatles accettarono soltanto di togliere Gandhi, la cui presenza accanto a frivole figure dello spettacolo avrebbe potuto compromettere le vendite dell’album sul mercato indiano. A seguire, a fronte di ricerche e consultazioni, sono stati identificati i personaggi raffigurati (pagina accanto). Non mancano, a caso, Stan Laurel e Oliver Hardy (in Italia, Stanlio e Ollio), Albert Einstein, Marlene Dietrich, Oscar Wilde... e un’unica presenza è riconducibile al mondo fotografico: Lewis Carroll. Con l’occasione, e a margine della rievocazione di Sgt. Pepper’s Lonely Hearts Club Band, a propria volta in corredo ai cinquant’anni dal fotoreportage di Gino Begotti, al Wimbledon Palais, di Londra, ricordiamo l’annosa disputa tra i Beatles e Steve Jobs in relazione al marchio e logotipo della mela (Apple), che dalla metà degli anni Sessanta identifica la società commerciale dei Beatles, conclusasi con un accordo, nel novembre 2007.
stessa cronaca si completa con le annotazioni di complemento: dalla composta fila di spettatori, che aspettano di entrare nella sala, alle scene di entusiasmo, a quel dopo spettacolo -senza divismo-, durante il quale The Beatles si rivelano disponibili all’incontro diretto con il pubblico pre beatlemania, che sarebbe esplosa di lì a poche settimane. Come sono i volti e gli atteggiamenti di Paul McCartney, John Lennon, George Harrison e Ringo Starr (Richard Starkey), peraltro compìti nei propri gessati scuri, con camicia ben stirata e cravatta rigorosamente annodata? In quel momento, nessuno sospetta ciò che sta per accadere. Il 14 dicembre 1963, non lo immaginano i protagonisti (Beatles), presumibilmente già appagati del buon successo commerciale che stanno vivendo nei negozi di dischi di tutto il paese, con qualche proiezione oltre i confini nazionali. Ma, soprattutto, non lo immaginano i testimoni, pubblico e fotografi (e oltre a Gino Begotti è certa la presenza di Dezo Hoffmann [a pagina 48], vicino ai quattro Beatles fin dalle loro origini), soddisfatti di passare un pomeriggio di buona musica. A questo punto, in quel 14 dicembre 1963 (ribadiamo il riferimento temporale), la Fotografia segna la propria presenza, annota la propria personalità formale e di intenti. Ben guidata da uno scrupoloso cronista, appunto il fotocronista Gino Begotti, la Fotografia compie il proprio dovere istituzionale: compone le proprie inquadrature e distribuisce adeguati toni di grigio, la cui definizione è merito della consueta e nota combinazione di valori tecnici discriminanti, tra i quali non manca un flash elettronico capace di dare luce all’intera scena. A sera, tornato a casa, Gino Begotti completa il proprio dovere professionale, sviluppando le pellicole, riponendo i negativi e stampando le copie delle pose giornalisticamente più significative. Cosa accade poi?
E DOMANI E DOMANI E! Capita che il successo dei quattro musicisti di Liverpool, dei leggendari Beatles, non è effimero, come quello di altre meteore di quei confusi momenti, di quella voglia di vivere che
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STU SUTCLIFFE, IL QUINTO BEATLES
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ASTRID KIRCHHERR
intenzionalmente perseguita all’indomani della morte dell’amato Stu Sutcliffe. Registriamo, quindi, che Astrid Kirchherr è rappresentata dalla Govinda Gallery, di Washington (1227 34th Street NW; www.govindagallery.com). Fotografia nel cinema: combinazione spesso ospitata su queste nostre pagine. Così, registriamo che la realtà della sessione di posa in un parcheggio di carrozzoni da luna-park, del novembre 1960, della quale si era a conoscenza, rivive nella ricostruzione cinematografica di Backbeat - Tutti hanno bisogno di amore. L’affascinante sequenza passa dai volti dei Beatles alla loro proiezione nel mirino della Rolleicord, alle fasi di sviluppo della copia bianconero, alla stampa tra le mani dei musicisti inglesi. E poi, ancora, il film si allunga e attarda su altre sessioni fotografiche, con ritratti posati del solo Stu Sutcliffe. Leggiamo da Shout!, di Philip Norman, sottotitolato La vera storia dei Beatles (dalla prima edizione negli Oscar Mondadori, del 1981). Quando, alla fine, Astrid acconsentì ad andare al Kaiserkeller, Stu e Klaus Voormann erano diventati buoni amici [Klaus Voormann è un illustratore, bassista e produttore discografico tedesco; ha fondato i Manfred Mann (1966-1969); dal 1969, suona nella Plastic Ono Band, gruppo fondato da John Lennon e Yoko Ono, alla dissoluzione dei Beatles]. Klaus la portò lì una sera, vestita con la sua giacca nera di pelle da exi, il viso pallido, i capelli cortissimi e spettralmente fredda. Quando i Beatles cominciarono a suonare, anche lei ne fu conquistata, istantaneamente. «Mi innamorai di Stuart quella stessa notte. Era molto piccolo, ma perfetto in ogni suo lineamento. Molto pallido, ma tanto, tanto bello. Era come un personaggio di un racconto di Edgar Allan Poe». A propria volta, i Beatles erano lusingati dall’interesse di questa ragazza delicata, bellissima, dagli occhi spettrali, così diversa dalle solite frequentatrici della Freiheit. E furono ancora più lusingati quando, con le sue poche parole di inglese, Astrid chiese se poteva fotografarli. Si incontrò, il giorno dopo, con tutti e cinque al Reeperbahn e li portò a Der Dom, il parco cittadino, dove c’era un luna-park che veniva ad Amburgo due volte l’anno. Astrid li mise in posa, con le loro chitarre e col tamburo militare
ARCHIVIO FOTOGRAPHIA (4)
All’anagrafe Stuart Fergusson Victor Sutcliffe, Stu Sutcliffe è mancato ad Amburgo il 10 aprile 1962, senza aver avuto modo di compiere ventidue anni; era nato il 23 giugno 1940. Dalla cronaca alla storia, oggi è ricordato come promettente pittore, e le opere che ha lasciato sono apprezzate, ammirate e, per quanto valga rilevarlo, quotate (www.stuartsutcliffeart.com). Ancora dalla cronaca alla storia, Stu Sutcliffe è stato anche un modesto chitarrista basso, modesto per propria ammissione. Amico di John Lennon, suo compagno all’Art College di Liverpool, insieme a Paul McCartney, George Harrison e Pete Best (successivamente sostituito alla batteria da Ringo Starr), fece parte della prima formazione dei Beatles. Il 16 agosto 1960, data storica della musica rock, partì insieme agli altri quattro Beatles e ad amici di contorno per Amburgo, in Germania, dove il gruppo aveva ottenuto un ingaggio per suonare in uno dei locali sulla Reeperbahn, la strada del quartiere di St. Pauli, centro della vita notturna e della prostituzione legalizzata. Proprietario di più locali, tra i quali il Kaiserkeller, dove i cinque di Liverpool avrebbero suonato tra uno strip e l’altro, alternandosi ad ulteriori attrazioni di identico profilo, Bruno Koschmider non rimase certo impressionato dai futuri Beatles: «Erano vestiti malissimo: camicie di poco prezzo e pantaloni per nulla puliti. Avevano sporche anche le unghie», ha raccontato a Philip Norman, autore di una delle storie più credibili dei Beatles, dove si rintracciano rievocazioni verosimili, non inquinate da interpretazioni di maniera (Shout!, 1981; edizione italiana coeva, nella traduzione di Michele Lo Buono, per Mondadori). Da capo, Stu Sutcliffe è morto a vent’anni, e con lui ha perso parte della sua vita, per molto tempo tutta la sua vita, anche Astrid Kirchherr, di due anni più “vecchia”, per la quale il giovane scozzese, nato a Edimburgo, lasciò i Beatles, per rimanere ad Amburgo. Proprio questo amore, fino al triste epilogo, è il filo conduttore del film Backbeat, che in Italia si è accompagnato con un sottotitolo esplicativo, quanto banalizzato: Backbeat - Tutti hanno bisogno di amore. Firmata da Michael Thomas e Iain Softley, anche regista, la sceneggiatura è circoscritta ai due anni iniziali dei Beatles, che avviarono la propria folgorante parabola con le serate di Amburgo. Non si va oltre, non si approda alla beatlemania, che sarebbe esplosa di lì a qualche settimana, per limitare le luci della ribalta alla storia di Stu e Astrid, che sullo schermo sono interpretati da Stephen Dorff e Sheryl Lee, fisicamente assolutamente somiglianti e compresi nella leggenda che avvolge la storia originaria. Allo stesso modo, nel film non si attribuiscono a Astrid Kirchherr due grandi meriti, che invece ha avuto: quelli di aver delineato la pettinatura a caschetto e disegnato il taglio di abito (con giacca priva di colletto), autentici marchi di fabbrica dei Fab Four delle origini. La sceneggiatura ha ritoccato anche la sua personalità fotografica, in relazione alla quale ci occupiamo del film. Sullo schermo, e in Dvd, Astrid Kirchherr si propone come fotografa già in attività, e per questo è introdotta da un autoritratto esposto in un locale notturno. Nella realtà, era assistente di Reinhart Wolf, uno dei capisaldi della fotografia del secondo Novecento (fantastica la sua monografia New York), che aveva avuto come tutor nel corso di fotografia seguìto alla Meisterschule, di Amburgo. Dal nostro particolare punto di vista, riconosciamo a Backbeat di aver dato spazio alla combinazione con la fotografia di Astrid Kirchherr, che ha avuto l’onore (storico?) di realizzare i primi ritratti autenticamente tali dei Beatles/Pre-Beatles: posati in studio o per strada, che oggi sono celebrati da attenzioni mercantili. Qui corre l’obbligo precisare che la stessa Astrid Kirchherr, dopo decenni di esilio volontario, peraltro registrato dal puntuale Shout!, di Philip Norman (infarcito di errori di definizione e identificazione di nomi propri: anche in originale?, non sappiamo), ha spolverato le sue fotografie di allora, che dagli anni Novanta sono state esposte in mostre e allestite in monografie illustrate. Tra l’altro, ci fa piacere che sia rinata dalla sepoltura
Dalla realtà della posa dei cinque Beatles originari, al luna-park del Der Dom, di Amburgo, nell’estate 1960, alla scenografia cinematografica di Backbeat Tutti hanno bisogno di amore, con Astrid Kirchherr e la sua Rolleicord.
di Pete Best, vicino a uno dei carrozzoni del luna-park, poi sull’ampio cofano di un trattore. Poiché John aveva ormai la sua nuova chitarra Rickenbacker, Paul si era fatto prestare il vecchio modello Club 40, reggendolo, ancora una volta, con il battipenna capovolto. Oltre alle costose macchine fotografiche e alla giacca di pelle, Astrid aveva una piccola automobile personale. Finito di scattare le fotografie, la ragazza invitò i cinque Beatles a prendere il tè a casa sua, ad Altona. Pete Best rifiutò, dicendo di dover andare a comprare delle pelli nuove per i tamburi della sua batteria. Gli altri quattro si stiparono in men che non si dica intorno alla ragazza. «Conobbero mia madre, che ne rimase profondamente impressionata, così come lo ero stata io. Appena li vide, volle dare loro da mangiare». Astrid li portò di sopra, nello studio bianco e nero che aveva progettato personalmente. Loro rimasero a bocca aperta, vedendo il tavolo col piano di vetro e le lenzuola di raso nero del letto. Rimasero lì seduti, al lume di candela, bevendo tè e mangiando panini al prosciutto. «Avrei voluto parlare con loro, ma a quel tempo conoscevo solo qualche parola d’inglese. John sembrava duro, cinico, sarcastico, ma anche qualcosa di più. Paul sorrideva... sorrideva sempre ed era diplomatico. George non era che un ragazzino con i capelli alti e le orecchie a sventola. Disse che non sapeva che la Germania avesse panini al prosciutto. «Volevo parlare con Stuart. Cercai di chiedergli se potevo fargli il ritratto, ma lui non capiva. Sapevo che avrei dovuto per forza chiedere a Klaus di aiutarmi a parlare meglio in inglese». Il piacere di essere fotografati da una bellissima ragazza tedesca dai capelli biondi non fu nulla rispetto a quello provato alla vista delle fotografie stesse, che non erano le solite istantanee scattate dalla prima persona di passaggio, in genere nel momento meno adatto possibile. Si trattava di stampe di formato grande e a grana grossa, fatte apparire, come per incanto, dalle nicchie della stanza di raso nero, e mostravano i Beatles così come loro non si erano mai immaginati prima. L’obiettivo di Astrid, infatti, aveva colto quell’aspetto di loro che attirava intellettuali come Klaus e lei: il paradosso di teddy boy con la faccia da bambini; di pretesa durezza e di indistinguibile candore onniprotettivo. Le massicce e pesanti macchine del luna-park, su cui sedevano, sembravano simboleggiare il loro lieve ma fiducioso posarsi sulla vita adulta. John, con il suo colletto rialzato, che stringeva con forza la sua nuova Rickenbacker; Paul, inclinato, scontento di una chitarra scartata da un altro; George, così infantile; Pete Best, così riservato, un po’ di lato: ogni immagine aveva in sé la propria vera profezia. In una fotografia, Stu Sutcliffe gira le spalle agli altri, il lungo braccio della chitarra è rivolto a terra. Questa fu la prima di molte sedute fotografiche con Astrid nelle settimane che seguirono. Ogni volta lei li metteva in posa, con o senza chitarra, sullo sfondo di qualche parte dell’Amburgo industriale: le banchine o lo scalo di smistamento delle ferrovie. Era prodiga di copie di fotografie e di inviti a pranzo a casa sua. «Preparavo loro tutte le cose inglesi di cui sentivano la mancanza: uova strapazzate e patatine fritte». Intanto, con l’aiuto di Klaus Voormann, il suo inglese continuava sempre a migliorare. Al Kaiserkeller, una parte del pubblico era ormai costituita da exi portati da Astrid e da Klaus. Diventò di moda, tra loro, vestirsi, come i rockers, di pelle e con i jeans attillati. La musica dei Beatles apparteneva alla stessa conversione intellettuale. Ben presto gli exi ebbero i loro tavoli riservati vicino al palcoscenico. E sempre tra loro sedeva, con Klaus Voormann o da sola, la ragazza che non seguiva nessuna moda se non la propria, in attesa del momento in cui, a notte inoltrata, John e Paul si facevano da parte e si faceva avanti Stu Sutcliffe, con il suo pesante basso, per cantare la ballata di Elvis Love Me Tender. Morire a vent’anni.
cercava soluzioni e interpretazioni senza tante sottigliezze di valore, gusto o garbo, e tanto altro ancora. Avviene che i quattro ragazzi conquisteranno infinite e molteplici definizioni, a partire dalla più semplice di “Fab Four” (i quattro favolosi, fantastici), e diventeranno uno degli elementi discriminanti di un decennio di clamorosi eventi politici e sociali: dalla ferita della guerra in Vietnam, con tutti i propri risvolti, allo stravolgimento avviato dal Sessantotto, e dintorni. Da... a. Nello specifico di questo cinquantenario, dal 14 dicembre 1963, al Wimbledon Palais, di Londra, ricaviamo un’altra lezione, che poi ci interessa più di tutti i discorsi generici che si possono riferire. Come abbiamo appena accennato, nell’identificato collegamento temporale, la combinazione di fatti successivi, che stabiliscono ulteriori valori e valenze, ha conferito a questa avvincente Fotografia di Gino Begotti un proprio ruolo discriminante: non necessariamente implicito nella propria personalità. Ben guidata e attenta testimone oculare di fatti, appunto mediati dai connotati professionali e di mestiere di Gino Begotti, a distanza di tempo, la Fotografia annulla ogni intervallo (di Tempo, appunto, e Spazio: con rispettive Maiuscole), per scoprire un sottostrato e sovrastrato rappresentativo e discriminante. Ancora e anche in presenza di queste istantanee lontane negli anni, nei decenni, ma vicine nello spirito, dobbiamo riconoscere come la mediazione fotografica riveli sempre qualcosa del Tempo e dell’Esistenza, individuale e collettiva. Possiamo pensare che sia proprio questo il senso di ogni Fotografia e della Fotografia in genere: individuare il momento nel quale la Vita si è implacabilmente manifestata e svelata agli occhi dei testimoni diretti, effimeri al di fuori della presenza coscientemente fotografica. Dopo di che, saper cogliere queste manifestazioni non è da tutti. Servono capacità e doti individuali: che riconosciamo nella cronaca di Gino Begotti, qui rappresentata dal tuffo indietro di cinquant’anni, alle origini della beatlemania. E non soltanto di questa. ❖
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Oltre gli efficaci anelli nei diametri da 40,5mm a 90mm, necessari per gli obiettivi fotografici e video, il sistema Silvestri Talos offre e propone anche una versatile combinazione con un pratico e confortevole paraluce-compendium (qui sotto), dotato di movimenti di decentramento e basculaggio.
cio destro, equamente diviso tra la linea produttiva e la conduzione d’azienda. C’è crisi, dicono i due all’unisono, e dunque noi proponiamo qualcosa che può essere utile e proficuo al mercato complessivo della fotografia, con occhio rivolto e indirizzato sia all’impiego professionale sia all’impegno non professionale svolto con attenzione e concentrazione: ovverosia, con strumenti importanti e consistenti (soprattutto, reflex e dintorni; ma anche mirrorless a obiettivi intercambiabili, o altra loro definizione più attuale e ufficiale). In due dimensioni, per filtri di 75mm di lato o 100mm di lato, siano quadrati o rettangolari (in questo secondo caso, a colorazione degradante), il Silvestri Talos System offre e propone la medesima efficacia, la stessa consistenza di uso. Già, Talos: in richiamo e riferimento alla mitologia greca del gigante di bronzo, guardiano di Creta. Già, Talos: in fotografia, altrettanto efficace sorvegliante e difensore di azioni convinte, votate alla massima qualità formale. Il portafiltri Silvestri Talos si basa su un dispositivo efficace, con slot per
filtri in vetro o resina (o filtri Wratten in propria montatura di supporto), nelle dimensioni, già anticipate, 75x75mm (o 75x100mm) e 100x100mm (o 100x 150mm). Con una opportuna configurazione a completa tenuta di luce, composta da guarnizioni e percorsi vincolati, il portafiltri assicura e garantisce la sola azione del filtro in uso, senza alcuna altra infiltrazione luminosa periferica, che potrebbe compromettere la nitidezza e qualità della ripresa fotografica (e video). Lo slot portafiltri è dotato di efficiente clip di tenuta, per uno scorrimento preciso (e garbato) del filtro: regolazione particolarmente necessaria nei casi di uso del polarizzatore, sia lineare sia circolare, e di collocazione micrometrica di filtri degradanti, con pertinente disposizione e assetto dell’effetto fotografico in relazione all’inquadratura. Lo stesso portafiltri è predisposto per anelli filettati, realizzati nei diametri da 40,5mm a 90mm... ovverosia per ogni diametro anteriore degli obiettivi dei nostri giorni, dai più piccoli delle configurazioni fotografiche sostanzialmente compatte (mirrorless e contorni) ai più sostanziosi degli obiettivi impegnativi delle reflex e dei sistemi medio e grande formato. In aggiunta, il Silvestri Talos System può essere collegato a supporti video, che consentono l’agevole impiego di reflex dotate di questa funzione, e può facilmente utilizzare il sistema congiunto paraluce-compendium, provvisto altresì di movimenti lineari di decentramento e rotatori di basculaggio, per meglio adattarsi a qualsivoglia condizione di lavoro: sia fotografico, sia video. Nota aggiuntiva, niente affatto superflua, per quanto sia sostanzialmente secondaria (ma non è affatto vero!). La leva di blocco/sblocco per la collocazione sul portafiltri degli anelli adattatori in diametro (del proprio obiettivo) forma il logotipo “Silvestri”, la riconoscibile “S”, che da decenni definisce e qualifica una straordinaria personalità produttiva italiana, affermatasi a livello internazionale. Insomma, in onore e rispetto di quel feticismo che fa anche parte dell’uso quotidiano di strumenti e utensili fotografici, questa “S” è un qualcosa che fa una certa differenza. Addirittura, una gradita e apprezzata differenza. Almeno per noi. ❖
1839 - 2014 La fotografia ha centosettantacinque anni sette gennaio Parigi: annuncio di Domique François Jean Arago all’Académie des sciences
diciannove agosto Parigi: presentazione di Louis Jacques Mandé Daguerre all’Académie des sciences e Académie des Beaux-arts, in riunione congiunta
1839 - 2014
Un buon libro di Angelo Galantini
IN AFFRANCATURA
C
Come i precedenti saggi pubblicati dalle nostre edizioni ( Alla Photokina e ritorno, del 2008, e 1839-2009. Dalla Relazione di Macedonio Melloni alla svolta di Akio Morita, del 2009), anche l’imminente Fotografia nei francobolli -in distribuzione dal prossimo gennaio, tutt’al più dai primi giorni di febbraio- comincia con un incipit di richiamo. In ordine cronologico, i due titoli appena richiamati evocarono, rispettivamente, lo scrittore tedesco Heinrich Böll («Sono un clown, e faccio raccolta di attimi») e Francesco Guccini («E la locomotiva sembrava / fosse un mostro strano, che l’uomo dominava / con il pensiero e con la mano; / ruggendo si lasciava indietro distanze che sembravano infinite; sembrava avesse dentro / un potere tremendo, / la stessa forza della dinamite»). Ancora rispettivamente, la prima dichiarazione di intenti è diventata anche identificazione personale dell’autore Maurizio Rebuzzini, peraltro direttore di FOTOgraphia, che certifica in questo modo il suo carattere pubblico (e privato, allo stesso momento); questo, in parallelo al suo considerarsi Franti (su questo stesso numero, da pagina 16). Quindi, nel proposito del racconto di quattro straordinarie svolte senza ritorno -Box Kodak, del 1888, Leica, del 1913/19141925, fotografia a sviluppo immediato, del 1947-1948, e acquisizione digitale di immagini, del 1981-, la seconda si allungò sul princìpio secondo il quale tutto quanto non è noto... è «un mostro strano»: alle origini, nel 1839, lo fu anche la fotografia. Per Fotografia nei francobolli, l’incipit è altrettanto convinto, consapevole e vigoroso: nei proponimenti che si proiettano sul testo, che lo anticipano, che lo chiariscono addirittura. Da e con Beppe Viola [FOTOgraphia, novembre 2013]: «Il significato delle cartoline è plurimo, ma soprattutto postale, nel senso che basta scrivere una cartolina per sapere chi l’ha mandata» (in estratto/citazione da Cartoline, in Spazio Libero, del 1972).
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Fotografia nei francobolli, di Maurizio Rebuzzini; prefazione di Giuliana Scimé, testimonianza di Michele Smargiassi; FOTOgraphiaLIBRI, 20014 (Graphia, via Zuretti 2a, 20125 Milano; 02-66713604; graphia@tin.it); 15x21cm.
Quindi, a differenza dei due precedenti titoli dello stesso autore, Maurizio Rebuzzini, che presupponevano conoscenze e interessi specifici, l’attuale Fotografia nei francobolli è chiaro ed esplicito: è esattamente quanto il titolo anticipa e propone e promette. Così, si tratta di un lungo percorso (distribuito su circa cinquecento pagine, contro le centossessanta degli altri saggi; con un corpo di illustrazioni che sta promettendo di superare le duemila visualizzazioni), che si svolge attorno la materia dichiarata: per l’appunto, la presenza della Fotografia nei francobolli. Qui, e a questo proposito, si impone una precisazione d’obbligo: in un contesto nel quale non esiste alcuna classificazione preliminare (mentre si sa molto, per esempio, della fauna, delle automobili, della flora, dell’arte e di tanto altro in filatelia), per l’autore Maurizio Rebuzzini il concetto di Fotografia ruota a trecentosessanta gradi, dalla semplice (e banale) presenza/raffigurazione di apparecchi fotografici, per lo più stilizzati, a immagini epocali per coloro i quali frequentano la comunicazione visiva. Il libro si propone come prima nostra iniziativa legata al centosettantacinquesimo anniversario della fotografia (1839-2014), e altre matureranno nel corso dell’anno. Al pari di molti altri accadimenti che illuminano le esistenze di ciascuno di noi, la sua genesi è curiosa. L’origine si può datare allo scorso quindici agosto, quando, facendo ordine tra le sue Raccolte a tema, Maurizio Rebuzzini si è reso conto di aver riunito una sostanziosa quantità e qualità di francobolli riconducibili alla fotografia. Da qui, da questo corpus già consistente, è partita una ulteriore ricerca in integrazione, con investigazioni mirate. Tanto che, ribadiamo, in avanzata fase di lavorazione, si può ipotizzare che alla fine ci saranno almeno duemila illustrazioni (e altre non saranno incluse), tutte inedite, nel senso di mai viste nei collegamenti e indirizzi proposti dai capitoli che si susseguono ognuno ai precedenti.
Attenzione, però: la materia non è autoreferenziale, soprattutto non lo è per il mondo filatelico, che potrà trovare insufficienti i dati proposti. Ancora: entro i confini (labili e amplificati) dell’argomento proposto, il racconto è ovviamente tutto riferito alla storia della fotografia, al suo linguaggio, alla sua evoluzione... e altro ancora. Da cui e per cui, riprendiamo dalla prefazione di Giuliana Scimé -autorevole critica e storica della fotografiaal precedente 1839-2009. Dalla Relazione di Macedonio Melloni alla svolta di Akio Morita, dello stesso autore Maurizio Rebuzzini: «Non lasciatevi fuorviare dalla lievità di certi episodi. La lievità, la sottintesa impertinenza sono brillanti mezzi da abile saggista per alleviare la tensione di un argomento fin troppo serio, e trattato con la più assoluta consapevolezza del sapere. E lievità, impertinenza e autentico sapere sono esaltati dalle immagini che illustrano il percorso di questa nuova storia della fotografia. Immagini così godibili, e la maggior parte inconsuete, frutto di una ricerca che ha impegnato e impegna Rebuzzini da una vita, da essere di per se stesse una rivelazione da meditare e che ci arricchisce, regalandoci un universo iconografico ignorato dai più». E qui chiudiamo. Questo viaggio tra la Fotografia nei francobolli vada inteso come tassello per l’edificazione di quel grande progetto sovrastante che eleva l’impegno in fotografia, l’interesse in fotografia, la passione della e per la fotografia oltre limiti troppo spesso pre-stabiliti. No! Come ogni altro intendimento creativo individuale, la fotografia non sia mai arido punto di arrivo, ma sempre e soprattutto fantastico e privilegiato s-punto di partenza. Del resto, ognuno sia consapevole di quello che veramente è e sa, altrimenti sarebbe poca cosa di fronte alla negligenza della vita. Ognuno sia anche certo di voler condividere ciò che veramente è e sa... e capace di farlo. Il resto, come spesso si annota, è mancia. ❖
PROPAC PB960 A piena potenza: oltre 1800 lampi, con una ricarica di tre ore e soltanto un secondo di tempo di ricarica. La potente batteria aiuta a migliorare la durata del lavoro e aumentare il numero dei lampi flash. Di piccole dimensioni: 159x133,5x49,2cm (510g). Scelta perfetta per il fotogiornalismo, eventi, sport, fotografia di matrimonio... senza perdere l’istante da immortalare. Disponibile in livrea Orange e Nera, per l’alimentazione di due flash contemporaneamente (Canon, Nikon, Metz e Sony). www.asphot.it
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Sguardi su
di Pino Bertelli (Piombino, dal vicolo dei gatti in amore, 24 volte settembre 2013)
Q
Quando ero bambino, mio padre m’insegnò a non piegare mai la testa di fronte alla brutalità di ogni potere, e mi lasciò in sorte queste parole: «Un Uomo ha diritto di guardare un altro Uomo dall’alto, soltanto per aiutarlo ad alzarsi». Quando ero bambino, mia madre mi disse di non avere timore di piangere, né quando si ama, né quando si soffre; mi disse anche di «Non aver paura di conoscere l’amore dell’Uomo per l’Uomo, ma di temere di non averlo incontrato mai!». Quando ero bambino, mia nonna partigiana mi regalò un cane bastardo (Spartaco), con queste parole: «Nella vita fa’ tutto quello che vuoi, ma quello che fai, fallo sempre con amore e rispetto per l’altro, l’escluso, l’ultimo, lo straniero... il sorriso dei giusti consuma le bare degli stolti». Ai miei figli e ai loro figli lascio due o tre cose che so di ogni forma di potere: «In ogni generale, politico e profeta si cela un assassino, e quando si erge a capo di un popolo, c’è un po’ più dolore nel mondo». [Nel film Sacco e Vanzetti, di Giuliano Montaldo (1971), la voce fuori campo di Riccardo Cucciolla, che interpretò l’anarchico pugliese, sottolinea i passaggi della lettera che Nicola Sacco scrisse al figlio Dante prima di essere avviato alla sedia elettrica. Come sottolineato nell’ottantesimo anniversario dell’esecuzione di Ni-
LIU XIA
cola Sacco e Bartolomeo Vanzetti (23 agosto 1927), in FOTO graphia, del luglio 2007, questa lettera ha ispirato la terza parte della Ballata, colonna sonora del film, scritta da Joan Baez e musicata da Ennio Morricone. Analogamente, è stata utilizzata anche da Pete Seeger, per la sua Sacco’s Letter to His Son, inclusa nella raccolta Ballads of Sacco & Vanzetti, di Woody Guthrie, ed elaborata dal gruppo italiano Le Tormenta, appunto La lettera. Tra le tante versioni, riproponiamo proprio quella del film di Giuliano Montaldo, ripetiamo recitata da Riccardo Cucciolla.
SULLA FOTOGRAFIA DEI DIRITTI UMANI La fotografia dei diritti umani esprime una teologia della liberazione, o non è niente: è una fotografia in libertà, che si oppone all’avvenire del terribile, dilata il pensiero della dissidenza e lo riveste di dignità, ovunque lo spettacolo delle ideologie, delle fedi e dei mercati riduce l’Uomo a suddito.
«Il diritto di avere diritti, o il diritto di ogni individuo ad appartenere all’umanità, dovrebbe essere garantito dall’umanità stessa» Hannah Arendt «Mio caro figlio, ho sognato di voi giorno e notte; non sapevo più se la mia era vita o morte. Volevo tornare a riabbracciarti, te e la tua mamma. Perdonami, bambino mio, per questa morte ingiusta, che ti toglie il padre quando sei ancora in così tenera età. «Possono bruciare i nostri corpi, oggi; non possono distruggere le nostre idee, esse rimangono per i giovani del futuro, per i giovani come te. Ricorda, figlio
Nota. Questo testo è stato scritto per il Festival del Cinema dei Diritti Umani, a Napoli, dal cinque al tredici dicembre, in occasione della presentazione della mostra fotografica La forza silenziosa di Liu Xia. Viene pubblicato anche in FOTOgraphia, per coraggiosa ospitalità del direttore, Maurizio Rebuzzini [le cui origini ideologiche si individuano nell’osservazione e ammirazione del modello di rivoluzione cinese guidata e condotta da Mao Zedong (soprattutto, con Zhou Enlai, Zhu De e Lin Biao): ma il pensiero non ha censure, non ne deve avere, non ne può avere. Per quanto, spesso in disaccordo con le visioni di Pino Bertelli, e le sue posizioni inflessibili, tra tanto altro (anche di differente lievità quotidiana), la redazione di FOTOgraphia sta con Voltaire (1694-1778): (circa) «Non condivido ciò che dici, ma sarei disposto a dare la vita affinché tu possa esprimerlo». Una volta ancora, una di più, mai una di troppo: Pino Bertelli (e tutti) ha il diritto di esprimersi (hanno il
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mio, la felicità dei giochi non tenerla tutta per te. Cerca di comprendere con umiltà il prossimo, aiuta il debole, aiuta quelli che piangono, aiuta il perseguitato, l’oppresso. Loro sono i tuoi migliori amici»].
«La teologia della liberazione, che cerca di partire dall’impegno per abolire l’attuale situazione d’ingiustizia e per costruire una società nuova, deve essere verificata dalla pratica dello stesso impegno. Tutte le teologie politiche della speranza, della liberazione e della rivoluzione non valgono un gesto di solidarietà autentica con gli Uomini, con le classi e con i popoli oppressi. Non valgono un atto di fede, di carità e di spe-
ranza, che si pone nella partecipazione attiva per liberare l’Uomo da tutto quanto lo disumanizza» (Gustavo Gutierrez: Teologia della liberazione; Queriniana, 1972)... gli impedisce di vivere secondo la propria volontà. Il bene, il giusto, il buono e il bello non si possono cancellare con un esercito, la Borsa, i partiti e il diritto della forza, ma vanno difesi con la forza del diritto. Anche la riduzione dell’Uomo a puro soggetto di bisogni delle democrazie consumereste, o servo impaurito dei regimi comunisti, è parte di una civiltà dello spettacolo che è fata e strega della vita socialmente dominante. «Lo spettacolo non è un insieme di immagini, ma un rapporto fra individui, mediato dalle immagini» (Guy Debord: La società dello spettacolo; Vallecchi, 1979; Dalai Editore, 2008)... è la ricostruzione materiale di una fenomenologia del male, che mortifica i princìpi di libertà pubblica, spirito pubblico e pubblica felicità (Hannah Arendt: La disobbedienza civile e altri saggi; Giuffrè Editore, 1985): e va delegittimata. La libertà è in ciascuno, e non può essere mendicata, né recisa. Tutti gli Uomini nascono liberi e uguali, ma ovunque sono tenuti a catena.
SULLA FOTOGRAFIA DELLA LIBERTÀ La fotografia della libertà è un contenitore di segni dove la libertà d’e-
diritto di esprimersi)... noi abbiamo il dovere di pubblicare. In fondo, ma neppure tanto in fondo, anche solo in richiamo al proprio settore istituzionale, nell’ambito del panorama editoriale e giornalistico nazionale e internazionale, FOTOgraphia afferma e conferma una propria diversità sostanziale e sostanziosa: si riferisce alla Vita, partendo dalla Fotografia, o fingendo di farlo; parla di Fotografia, dando a intendere di scrivere d’altro. Forse]. Questo saggio di Pino Bertelli non ha vincoli di Copyright: chiunque lo può usare, saccheggiare, tradurre in qualsiasi lingua, liberamente. [Del resto, di tutto quanto pubblicato in FOTOgraphia, e nei libri collegati, in analoga edizione, «È consentita la riproduzione, magari citando la fonte (ma non è indispensabile, né obbligatorio farlo)», come specificato là dove è necessario farlo... nel colophon delle note burocratiche e tecniche d’obbligo legale, a pagina cinque di ogni numero della rivista, in basso]. P.B.
Sguardi su spressione e la poesia della vita quotidiana rovesciata non è soltanto posta in difesa dell’Umano, ma è appartenenza alla libertà dell’Umano. La fotografia delle passioni liberate “cuoce” i militari, i politici, i maestri e i santi della storia imposta in salsa piccante, e li serve con le loro aureole fritte sulla tavola dei giusti e dei passatori di confine. Le briciole delle loro vestigia le riserva ai cani da guardia dell’informazione totale. I saperi della fotografia dominante li getta direttamente nelle macellerie dell’arte per tutti. «La passione non ottiene mai il perdono. I diritti civili sono in sostanza i diritti degli altri» (Pier Paolo Pasolini, citazione a memoria). Gli Uomini hanno sempre interpretato i fasti della fede, della morale, della ragione unica; ora, si tratta di farli crollare, mostrare la vergogna del potere e renderla ancora più vergognosa. L’immaginale della fotografia della libertà è sempre una finestra aperta sul mondo; e una fotografia, quando è grande, contiene il ritratto di un’epoca, pone fine alla concezione “aristocratica” della politica dell’inganno. È deplorevole per l’educazione della gioventù che la storia della fotografia sia sempre stata scritta da gente che la fotografia del dolore non ha ammazzato. Non ci sono guerre giuste, né guerre umanitarie, o guerre di religione, che possono giustificare le predazioni dei paesi ricchi contro i popoli impoveriti. La fotografia della libertà compensa con la dignità tutta l’impudenza e la mancanza di princìpi della vita dominata, e denuncia le condizioni di schiavitù nelle quali versano gli Ultimi della Terra. Andare in direzione ostinata e contraria significa restituire agli Invisibili, gli Esclusi, i Perseguitati lo statuto di Uomini liberi: fare di quelle vite perdute anime salve (don Andrea Gallo: Così in terra, come in cielo; Mondadori, 2010). Quando non c’è nessuna speranza, non c’è nessun futuro. La pace si fa con la pace. Chi semina pace, raccoglie la pace. Toccare la pace significa disertare i codici, i valori, i credi comunicazionali che fanno spetta-
colo di sé; una comunità consapevole chiede la pace, e l’educazione alla pace comincia con il ripudiare la guerra e rivendicare i diritti dell’Uomo. Non esiste un uso buono o cattivo della libertà d’espressione, soltanto un uso insufficiente o inutile. Quand’anche possedessi tutta la ricchezza degli uomini, avessi lo spirito libero degli antichi poeti e parlassi la lingua degli angeli, se non ho l’amore non sono niente. Nota a margine. Nell’epoca della Rete (il più grande spazio pubblico che l’umanità abbia mai conosciuto), non è più possibile sostenere la menzogna, né impedire la libera circolazione delle idee e il disvelamento dei soprusi. L’agorà virtuale induce a un’espansione dei diritti alla sfera pubblica, e le tecnologie dell’informazione e della comunicazione affidano il compito di costruire dal basso nuove forme di democrazia partecipata. In ogni parte del mondo, le rivolte popolari annunciano la caduta di regimi secolari e richiedono il diritto di far circolare liberamente -attraverso la Rete- pensieri, scritti, immagini... creare occasioni di redistribuzione dei saperi, per non cedere alla passività e alla sottomissione. «La rivoluzione dell’eguaglianza, mai davvero compiuta, l’eredità difficile, la promessa inadempiuta del secolo breve è oggi accompagnata dalla rivoluzione della dignità. Insieme, hanno dato vita a una nuova antropologia, che mette al centro l’autodeterminazione delle persone, la costruzione delle identità individuali e collettive, i nuovi modi d’intendere i legami sociali e le responsabilità pubbliche» (Stefano Rodotà: Il diritto di avere diritti; Laterza, 2012). Tutto vero. La fame di democrazia ha spinto persone di ogni estrazione sociale a protestare per il rispetto dei diritti più elementari dell’Uomo, e cambiato la consapevolezza di molti con la compassione, il sacrificio, il coraggio e la gentilezza... anche: ha gettato le basi per la rivoluzione dei beni comuni. La fotografia dei diritti calpestati in Cina, espressa dalla fo-
tografa Liu Xia, non lascia spazio a fraintendimenti: o si è complici degli oppressori o ci si schiera a fianco dei partigiani della libertà (e questo vale per tutti gli stati ossessionati dai bilanci e di controllo sociale, anche di quelli che si dipingono democratici). L’aveva già scritto Alexis de Tocqueville, nel 1847, prima che il Manifesto dei comunisti, di Marx e Engels, divenisse la Bibbia illusoria dei proletari di tutto il mondo e delle dittature fameliche che l’hanno applicata (Karl Marx, Friedrich Engels: Manifesto del partito comunista; in numerose edizioni italiane): «Ben presto la lotta politica si svolgerà tra coloro che possiedono e coloro che non possiedono: il grande campo di battaglia sarà la proprietà, e le principali questioni della politica si aggireranno intorno alle modifiche più o meno profonde da apportare al diritto dei proprietari» (Alexis de Tocqueville: Ricordi; Editori Riuniti, 1991 e 2008). Qualcuno, però, aveva compreso ancor prima che la proprietà è un furto, e nel 1840 scriveva: «La concezione economica di capitalismo, quella politica di governo e quella teologica di Chiesa sono tre concetti identici, collegati in modi differenti. Attaccare uno solo di loro equivale ad attaccarli tutti. Quello che il capitale fa al lavoro, e lo Stato alla libertà, la Chiesa lo fa allo spirito. Questa trinità di assolutismo è rovinosa nella pratica, tanto quanto nella filosofia. I mezzi più efficienti per opprimere il popolo sarebbero simultaneamente sopprimere e schiavizzare il suo corpo, la sua volontà e la sua ragione» (Pierre-Joseph Proudhon: Che cos’è la proprietà?; Laterza, 1978). Il fatto è che ogni politica, ogni fede e ogni speranza deposta negli profitti della civiltà consumerista, e in quelli delle ideologie totalitarie, sono forme di terrore, tanto più spaventose quando ne sono fautori i paladini dell’ordine costituito. Là dove il sistema utilitarista ha creduto di plasmare le folle all’obbedienza e l’autocrazia industriale si è resa complice delle politi-
che di repressione dei governi occidentali e dei regimi comunisti, i segnali di un’altra rivoluzione sono in atto... circolano nei cieli incontrollabili della Rete, e disseminano ovunque l’antica concezione foureriana della lotta allo Stato per l’ascesa all’emancipazione dell’Uomo in un nuovo mondo amoroso (Charles Fourier: Teoria dei quattro movimenti. Il nuovo mondo amoroso; Einaudi, 1971): per questa fratellanza egualitaria è deprecabile vedere la continuazione dello sfruttamento dei deboli da parte dei forti, e che la sopraffazione dei diritti fondamentali dell’Uomo venga dibattuta intorno ai “grandi tavoli” televisivi da coloro che sono i responsabili di queste catastrofi. La fratellanza egualitaria della Rete dice che la libertà è una condizione indispensabile per raggiungere chi la libertà non l’ha mai avuta, e l’esercizio della libertà taglia i collari degli oppressi e li sostituisce con i vincoli sociali di reciprocità: la bellezza della libertà non è la conquista, ma la distruzione dell’economia oligarchica/parassitaria (Noam Chomsky: Siamo il 99%; Nottetempo, 2012), in favore della decrescita felice (Serge Latouche: Breve trattato sulla decrescita serena; Bollati Boringhieri, 2008) e della ricollocazione dell’economia e della vita. La rivoluzione egualitaria infiamma le strade della Terra, e si rovescia nella Rete. Lo scopo della rivoluzione egualitaria è consegnare la ricchezza sociale nelle mani dei creatori, dei costruttori, di fratelli e sorelle che -organizzati in libere associazioni- distribuiranno equamente ai cittadini. Il consiglio federale sarà la voce di tutti; e in questa situazione di non-comando, lo Stato non avrà ragione d’essere, e il governo del futuro sarà espressione delle volontà di giustizia e libertà espresse dai cittadini (Noam Chomsky: Il governo del futuro; Marco Tropea Editore, 2009). Dunque, la Rete è una cosmogonia di linguaggi, una specie di specchio ustorio capace di incendiare gli animi in ebollizione di Uomini e Donne che vo-
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Sguardi su gliono farla finita con la violazione dei diritti umani. La Rete partecipa al progresso culturale della Comunità libera a venire; in particolare, lo scatenamento dei linguaggi tecnologici è un processo di libera creazione che contribuisce a destare le coscienze popolari, promuovere altre visioni dell’esistere e la costruzione di democrazie dell’uguaglianza.
DI LIU XIAOBO, PREMIO NOBEL PER LA PACE, IN CARCERE PERCHÉ ATTIVISTA E DIFENSORE DEI DIRITTI UMANI Liu Xiaobo (Changhcun, Repubblica popolare cinese, 1955) è il marito della fotografa Liu Xia: critico letterario, scrittore e docente cinese... attivista e difensore dei diritti umani in un paese nel quale gli Uomini e le Donne valgono nulla, e il Partito tutto. L’8 dicembre 2008, Liu Xiaobo è stato arrestato a causa della sua adesione al Manifesto Charta 08, del quale è stato il primo firmatario, e detenuto in un luogo segreto, sebbene l’arresto sia stato formalizzato solo il ventitré giugno dell’anno seguente. L’accusa è quella di “incitamento alla sovversione del potere dello Stato”. Dopo un anno di detenzione, il 23 dicembre 2009 si è svolto il processo, e il venticinque è stato condannato a undici anni di prigione e a due anni di interdizione dai pubblici uffici. La sentenza è stata confermata in appello l’11 febbraio 2010. L’8 ottobre 2010, Liu Xiaobo è stato insignito del premio Nobel per la Pace «Per il suo impegno non violento a tutela dei diritti umani in Cina» (la motivazione del premio Nobel: «Durante gli ultimi decenni, la Cina ha realizzato enormi progressi economici, forse unici al mondo, e molti cittadini sono stati sollevati dalla povertà. Il paese ha raggiunto un nuovo status, che implica maggiore responsabilità nella scena internazionale, che riguarda anche i diritti politici. L’articolo 35 della Costituzione cinese stabilisce che i cittadini godono delle libertà di associazione, di assemblea, di manifestazione e di discorso, ma que-
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ste libertà -in realtà- non vengono messe in pratica. Per oltre due decenni, Liu Xiaobo è stato un grande difensore dell’applicazione di questi diritti, ha preso parte alla protesta di Tienanmen, nell’Ottantanove, è stato tra i firmatari e creatori di Charta 08, manifesto per la democrazia in Cina. Liu Xiaobo ha costantemente sottolineato questi diritti violati dalla Cina. La campagna per il rispetto e l’applicazione dei diritti umani fondamentali è stata portata avanti da tanti cinesi e Liu Xiaobo è diventato il simbolo principale di questa lotta»). Liu Xiaobo è il primo cinese a ricevere un premio Nobel mentre risiede in Cina, ed è la terza persona ad avere questo riconoscimento mentre si trova in prigione, dopo Carl von Ossietzky (1935) e Aung San Suu Kyi (1991). Charta 08 è un manifesto sottoscritto il 10 dicembre 2008, sessantesimo anniversario della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo (10 dicembre 1948), da trecentotré intellettuali e attivisti per i diritti civili, allo scopo di promuovere riforme politiche volte alla democratizzazione della Repubblica popolare cinese, e pubblicato in Rete (Charta 08 deriva da un precedente documento di dissidenti cecoslovacchi, Charta 77, redatto da Václav Havel, Jan Patočka, Zdeněk Mlynář, Jiří Hájek, Pavel Kohout, che ha descritto i firmatari come «Un’associazione libera, aperta e informale di persone [...] unite dalla volontà di perseguire individualmente e collettivamente il rispetto per i diritti umani e civili», in Cecoslovacchia e ovunque nel mondo. Veniva sottolineato che Charta 77 non era un’organizzazione munita di organi permanenti o di uno statuto, né mirava a costituire la base per un’attività politica di opposizione al regime comunista cecoslovacco. Quest’ultima affermazione era necessaria per garantire il rispetto della legge vigente in Cecoslovacchia, per la quale era illegale l’opposizione organizzata. I firmatari furono descritti dal governo comunista come “traditori e rinnegati” e “agen-
ti dell’imperialismo”, subirono repressioni, ritorsioni, cacciata dal lavoro, il rifiuto dei figli nelle scuole, la perdita di cittadinanza, l’espulsione e il carcere. La rivoluzione di velluto, del 1989, sconfisse il regime, e il potere dei senza potere mostrò che la coltivazione degli spiriti liberi è il cammino della crescita sociale e culturale dell’umanità). In Charta 08 si legge: «Il potere si è ripiegato su se stesso al punto che il cambiamento non può più essere evitato [...]. Oggi, la Cina rimane l’unico grande paese guidato da un regime autoritario, responsabile di numerose violazioni dei diritti umani [...]. La situazione deve cambiare! Le riforme politiche democratiche non possono più aspettare». Va detto. La dittatura comunista cinese (ma anche quella sovietica è stata della medesima risma) si fonda sull’ingiustizia, dove l’agonia di un Essere si nutre dell’agonia di un altro Essere. I ceppi del potere rendono l’aria irrespirabile, e ai dissidenti tolgono tutto, tranne la libertà di sopravvivere in un campo di lavoro o marcire in galera, mentre gli affaristi rampanti e i quadri di partito vivono e muoiono “eleganti”, in abiti griffati Armani (Oliviero Toscani: Moriremo eleganti. Conversazione con Luca Solmi; Aliberti Editore, 2012), incapaci di comprendere la felicità, l’onestà, il rispetto e l’amore tra gli Uomini. L’attività di Liu Xiaobo in difesa dei diritti umani è coraggiosa... quanto mai efficace. Si laurea all’Università dello Jilin, nel 1982, e nel 1984, prende la laurea magistrale all’Università di Pechino. Espone le sue idee pacifiste alla Columbia University (New York City), all’Università di Oslo (Norvegia), all’Università delle Hawaii (Usa). Nel 1989, si trova negli Stati Uniti, quando scoppia la protesta di piazza Tienanmen; torna in Cina a fianco degli studenti in rivolta. Per evitare che denunciasse il massacro degli insorti operato dall’esercito, viene incarcerato e accusato di propaganda e istigazione controrivoluzionarie. Va ricordato che il politico Zhao
Ziyang, fustigatore della burocrazia e della corruzione del suo paese, fu l’unico tra i quadri del Partito che si oppose al massacro di Tienanmen, e questo gli costò l’arresto e il confino, fino alla morte (1985). A giudicare dal proprio successo contro i dissidenti, il terrore cinese è di prima qualità: si è specializzato nel colpo di grazia. Nel 1996, Liu Xiaobo è condannato a trascorre tre anni in un campo di rieducazione (Laogai), per aver criticato attraverso il Web la politica dissennata del Partito comunista e recato “disturbi alla quiete pubblica”. I suoi scritti sono vietati in Cina, e il suo nome è censurato. Tuttavia, l’attività umanitaria di Liu Xiaobo ha trovato approvazioni e considerazioni nella cultura internazionale. Nel 2004, Reporters sans frontières lo ha insignito del premio Fondation de France, per la sua opera di irriducibile difensore della libertà di stampa. Va quindi ricordato che il governo cinese ha oscurato la diretta televisiva del premio Nobel (definendo una “oscenità” il riconoscimento a Liu Xiaobo), messo agli arresti domiciliari la moglie Liu Xia e tutti i membri della sua famiglia. In questo stato di isolamento, i mass media stranieri sono stati privati di ogni informazione su Liu Xiaobo, una delle menti più lucide della Cina. Il fanatismo comunista cinese, che è una catenaria di falsi assoluti, una successione di angherie innalzate a pretesti e giustificazioni dell’ordine imperante, non è riuscito però a impedire la diffusione dell’opera fotografica della moglie Liu Xia, che ha divelto confini e barriere, e mostrato che l’intolleranza è responsabile di tutti i crimini impuniti (fino ad ora) di una minoranza al potere. Sotto ogni direttiva del Comitato centrale del Partito comunista cinese giace un cadavere che ha lottato per la libertà. Quando ci si rifiuta di riconoscere i diritti fondamentali dell’umanità, scorre il sangue. Non è facile distruggere gli idoli, e quando qualcuno dice di parlare a nome del popolo è sempre un impostore o un boia. La liberazio-
Sguardi su ne arriva quando gli Uomini e le Donne rifiutano di dare al Potere ciò che di solito gli viene concesso per farlo esistere. L’abolizione della tirannia passa dalla rottura del potere col sacro e dall’utopia concreta, che nella ricerca della dignità, della verità e dell’amore tra le genti vede la maggior felicità per il maggior numero. «Nessuno educa nessuno. Nessuno si educa da solo. Le persone si educano nel dialogo e nel cammino della libertà» (Paulo Freire: La pedagogia degli oppressi; Edizioni Gruppo Abele, 2002 e 2011). L’obbedienza non mai stata una virtù. La società diseguale è un fallimento pianificato, e la sua recessione inevitabile. La malvagia distribuzione della ricchezza non ha scampo, e le campagne elettorali sono farse, nemmeno interpretate bene. I governanti sono sempre più sfidati dalle richieste popolari di mutuo appoggio e partecipazione democratica alla cosa pubblica: non hanno mai compreso che condivisione e fraternità s’imparano applicandole. Quando a sognare è un Uomo soltanto, resta solo un sogno, ma quando il suo sogno si trascolora nel sogno di tanti diventa Storia.
ANCORA, SULLA FOTOGRAFIA DEI DIRITTI UMANI La fotografia dei diritti umani o dell’esistenza, di Liu Xia (Pechino, 1959), comincia con il riconoscimento della ragione di fronte alla realtà ferita a morte... opera uno spaesamento estetico ed etico dell’immagine fotografica, e restituisce la percezione della dignità dove è stata schiacciata. Il diritto alla dignità è inviolabile, non è negoziabile, non ha prezzo: su di lei, lo Stato non ha nessun potere (se non quello di reprimerla). Restituire dignità individuale e sociale agli Umili e agli Oppressi vuol dire «Riconoscerla anche al peggiore dei carnefici, al più efferato degli aguzzini è la migliore risposta possibile alla logica dell’odio, dello sterminio, del genocidio, traccia un solco invalicabile fra la cul-
tura della vita e il dominio della morte» (Moni Ovadia: Madre dignità; Einaudi, 2012). È la dignità dei perseguitati che sconfiggerà ogni manifestazione di violenza, e getterà nella polvere della Storia le lingue della tirannia, del privilegio, della brutalità, dell’arroganza. Il movimento dei diritti civili non ha certo realizzato il sogno di Martin Luther King Jr (Il sogno della non violenza; Feltrinelli, 2008), ma prodotto profondi cambiamenti nella coscienza delle Persone, a cominciare dai Poveri. Alla fine, le azioni di disobbedienza civile che ne sono seguite sono riuscite ad abbattere diffidenze, barriere, discriminazioni e a produrre maggiori libertà. Quando i governi cominciano a perdere il consenso, significa che le proteste sono state efficaci. Ogni immagine presa alla storia della violenza (come quelle di Liu Xia) corrisponde a un tipo di felicità da conquistare. I fotografi della libertà sono testimoni e poeti che insegnano a riflettere, a non dimenticare. Ci nutrono con le loro immagini, grazie alle quali possiamo vedere di che materia sono fatti i nostri sogni. La coscienza e la conoscenza di questi corsari della fotografia del vero e del bello disertano tutte le discipline dei linguaggi figurativi, spalancano le gabbie della realtà condizionata, affinché l’umanità non rinunci all’innocenza del divenire. La fotografia dei diritti umani fiorisce in affrancamento ai rivolgimenti e ai mutamenti sociali che sfuggono al controllo delle classi privilegiate... combatte le strutture del dominio, del sapere e della tecnica, e deplora il cattivo uso della politica come museruola a una vita dignitosa. Ogni potere è per propria natura cannibale, e la civiltà che ha fondato è una congiura ordita dai potenti per perpetuare le loro violenze e proteggere le loro rapine. A fine dell’ineguaglianza, la spinta che muove le giovani generazioni alla lotta per la libertà non avrà mai tregua sino a quando gli Uomini tutti non godranno della medesima libertà; principio e fine di ogni
filosofia/politica è la libertà. Liu Xia è fotografa, poetessa, pittrice. Ha lavorato presso l’ufficio delle tasse, a Pechino. Attivista dei diritti civili e interprete indocile della scena culturale cinese, nel 1980, conosce Liu Xiaobo e lo sposa appena prima del suo internamento in un campo di rieducazione, colpevole di “attività sovversive contro lo Stato”. La forza silenziosa (The Silent Strength of Liu Xia: The Italian Academy, 1161 Amsterdam Avenue, New York City, dal 9 febbraio al Primo marzo 2012), dirompente, creativa di Liu Xia svetta in una raccolta di venticinque fotografie in bianconero realizzate tra il 1996 e il 1999, mentre il marito era (ancora una volta) in detenzione. Come appena annotato, la mostra delle opere fotografiche di Liu Xia è stata esposta negli Stati Uniti, presso l’Accademia Italiana di Studi Avanzati, alla Columbia University, di New York City, a cura di Guy Sorman, francese, sostenitore dei diritti umani, amico di Liu Xia e Liu Xiaobo (a lui si deve l’uscita “clandestina” dalla Cina delle immagini “proibite” di Liu Xia). La signora Liu Xia continua la propria battaglia in maniera defilata, solitaria, discreta; le sue fotografie raccontano con grazia il dolore di un Uomo e di un Popolo, e nel contempo accusano la casta del potere comunista in Cina (a settembre, in Rete, è circolata la notizia che Liu Xia è scomparsa, deportata nelle carceri per “incitamento alla sovversione”). In occasione del Nobel per la Pace al marito dissidente, ha rilasciato al The New York Times una dichiarazione esplicita (8 ottobre 2010, articolo di Andrew Jacobs e Jonathan Ansfield): «Per tutti questi anni, Liu Xiaobo ha perseverato nel dire la verità sulla Cina, e per questo, per la quarta volta, ha perso la sua libertà personale». Non c’è nessuna dignità, là dove si distrugge la dignità dell’Altro. L’abbiamo scritto altrove e lo confermiamo qui e ancora: La bellezza della fotografia coincide con la verità / Il mistero della bellezza,
in fotografia o in ogni altra forma d’arte, è nel disimparare a morire nella società dello spettacolo e nei regimi comunisti / Sapere che quanto viene fatto passare dalla schizofrenia dei media (che sono sempre in mano ai palafrenieri della politica) è menzogna e/o parzialità dell’informazione (cultura addomesticata) che riproduce il volere del potere in carica / La fotografia, anche, e da sempre, è una scatola delle illusioni che contiene i generi che le corrispondono (fotogiornalismo d’accatto, erotismo da supermercato, simbolismo razzista...), e non vale un goccia di sangue versato dall’Uomo che chiede il rispetto di sé / La fotografia autentica accende la luce sulla dittatura dei bisogni, senza mai spegnere il fuoco della disobbedienza... acuisce le contraddizioni del sacro e rende pubblico l’oltraggio dei media (delle preghiere e dei fucili), affastellato contro gli Ultimi, chi non si può difendere / Fotografare significa rendere vera la propria vita, quando invece nulla è dato e tutto resta da costruire. Chi è profanatore di bellezza, odia la vita (Pino Bertelli: Fotografia situazionista della rivolta. Dal Sessantotto alle attuali insurrezioni nel mondo arabo; Mimesis, 2011). L’unico tribunale (che riconosciamo) è il sorriso di un bambino... e il sorriso di un bambino non si può comprare. L’immaginario fotografico di Liu Xia si accorda alla filosofia dell’esistenza, liberata dalle camicie di forza dell’ideologia e dai deliri di onnipotenza del totalitarismo... è uno spazio, una presenza, una metafisica poetica tesa a salvaguardare la dignità e la libertà dell’Uomo. A leggere le sue immagini con attenzione, si colgono le abrasioni che la fotografa affabula contro l’ingiustizia e la barbarie. Le metafore acute, gli accostamenti metonimici e gli espedienti visivi (arnesi abituali dei surrealisti e dei situazionisti) esprimono comportamenti, torture, violazioni dei corpi e “cantano” una contro-storia dei culti, dei rituali, dei confessionali legati alla tragicità della realtà cinese. Liu
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Sguardi su Xia usa con intelligenza allegorica bambolotti che gridano, picchiati, abbandonati tra mucchi di sedie di paglia, legati su una poltrona davanti a un libro aperto, impediti di giocare, avvolti fino a soffocare nella plastica, stritolati, devastati, massacrati da pugni indecenti o accolti da mani amiche. La critica radicale al potere è diretta, carica di sdegno, implacabile. I bastonatori dell’ordine non si vedono, si mostrano però le efferatezze, le violenze, gli orrori delle loro gesta, e l’inveramento sprezzante del loro trattamento, che lo combattono, che lo negano. I fanatici dell’improbabile sono derisi, e tutto ciò che chiede questo fare-fotografia “surreale” è di affrettarne la fine. La fotografia dei diritti umani, di Liu Xia, si oppone alla produzione della felicità generalizzata... si affranca con Uomini e Donne coscienti dei propri desideri di bellezza e giustizia... rifugge il mondo percepito come rappresentazione della verità unica, e fa della soggettività, dei sentimenti e dei piaceri una visione cosmica immaginata e immaginaria. Il fascino poetico delle immagini così prese -o costruite, fa lo stesso- è collegato a universi nuovi, che agiscono nel profondo con il fotografo che li fabbrica. L’immaginale dei diritti umani è una fotoscrittura pervasa dalla dolcezza, e insegna a non dimenticare nulla dei nostri terrori... figura una metafisica delle opposizioni, anche le più estreme; e il potere nulla può contro le spinte della disobbedienza montante, che sfuggono alla sterilità di un universo politico chiuso, incapace di capire (senza nemmeno un’oncia di stile) il fiorire dei geni che hanno seminato ovunque i germi della libertà, e non sapere mai che alla fioritura dei diritti umani segue il crollo degli imperi. La costruzione di situazioni fotografiche, di Liu Xia, delegittima lo stato di fatto di un regime sprezzante, sanguinario, barbaro. A proprio modo, lo ridicolizza e rende fragile delle proprie paure: lo accusa di delitti sommari e lo rende ignudo a quanti
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credono nella resistenza sociale. Nell’opera fotografica di Liu Xia ci sono immagini di uno splendore creativo che vanno a toccare la coscienza dei contemporanei, e dicono che i governi passano, ma le loro devastazioni restano a memoria dei popoli che faranno della cultura della bellezza la fine della politica della prostrazione. Anche. Entriamo a “gatto selvaggio”, o a “volo d’aquila”, nelle fotografie di Liu Xia. La lettura delle immagini è fortemente partigiana: sta con una parte, quella degli Ultimi, degli Esclusi, di chi non ha voce, né volto, forse è perfino così libertaria che ci vede anche quello che non c’è. Tuttavia, la rivendichiamo come ricerca della conoscenza, libertà, democrazia partecipata e diritti dell’Uomo. È una critica radicale di ogni autoritarismo. E quando si uccide in nome di un dio, uno stato o un mercato malato di denaro... si leva alto il pugnale... o forse basta uno sputo. Il male è inutile, il bene no! Chi erige muraglie e incenerisce i libri nelle fiamme di un rogo, in entrambi i casi finisce per bruciare nel medesimo incendio (Nuccio Ordine: L’utilità dell’inutile. Manifesto; Bompiani, 2013) [ma, persino: Fahrenheit 451, di Ray Bradbury, del 1953, edito in Italia anche come Gli anni della fenice, dal 1956]. Uno. Un bambolotto viene picchiato da un manichino con la testa di lampadina; difende una bambolina impaurita (a ridosso di un muro scuro, di una cella, forse). Però, il suo grido non è di soggezione, semmai di rivolta. Liu Xia mette a fuoco con esattezza il cuore dell’esecuzione, e ciò che esce dall’immagine non è il senso di tragicità, ma il gesto di bellezza di chi porta in sé la giustizia del mondo. Del resto, la bellezza non è che la forma visibile della giustizia... diceva. Le dottrine muoiono a causa dei propri eccessi e consolazioni; l’intolleranza, la brutalità e il dispotismo sono le armi dei paurosi, dei minorati mentali, degli imbonitori, che vengono a patti con il male che
li corrode, e solo ciò che li lusinga li rende forti: poiché la vita autentica è fuori da ogni idolatria, e agli insorti del desiderio di vivere tra liberi e uguali non manca il pudore di morire... sono destinati all’ossario del sublime. Due. Una serie di bamboline denudate è accartocciata tra fili spinati. Le bamboline rimandano all’impietosità dei campi di sterminio nazisti... ridestano dolori passati e infamie mai dimenticate... vanno a colpire i catasti dell’indifferenza e insegnare i valori del giusto. Insieme, il giusto e il nobile, il bello e il vero... sono la denuncia dell’idiozia e della violenza di Stato. Per quasi tutte le nostre libertà, siamo debitori alle nostre irritazioni, all’esacerbarsi della nostre inquietudini, al prendere coscienza dei nostri supplizi e, a ogni costo, all’impedire di vivere e morire in pace a coloro che insanguinano i diritti dell’Uomo. Degno del nostro interesse è soltanto chi non ha alcun riguardo per il potere che lo reprime, ma per il disprezzo che porta alla secolarizzazione delle lacrime. L’infelicità non è un destino; essere degli incurabili che protestano, significa affrancarsi ai valori di pace dell’Uomo e contrastare la mistica del potere, con tutti i mezzi necessari. Tre. Un gruppo di bamboline/donne senza volto, coperte dalla testa ai piedi da pezzi di stoffa scura, su fondo nero, anticipano di non poco le rivolte arabe. Le facce bianche sono indecifrabili, appartengono a tutte le Donne vessate della Terra, e sembrano avanzare verso il bello, il vero, il buono, il giusto della loro belligerante intelligenza. Insegnano a far buon uso dell’indignazione e a incamminarsi verso la nascita di una nuova civiltà. La rivoluzione delle Donne è una lezione di umanità, perché chi ama senza esaminare l’amore agisce in forza delle passioni e delle eresie che si porta nel cuore. C’è un ciarlatano in ogni santo, un criminale in ogni eroe, un imbecille in ogni militare che pensa che il rispetto dell’altro stia sulla punta del fucile (a memoria,
Mao Zedong). Quando le Donne si sono prese la loro parte di piombo sulle barricate della Comune di Parigi (e di quelle a venire), hanno prefigurato gli Uomini come ratti affamati di potere su cumuli di spazzatura. La giustizia esiste, e si afferma, soltanto grazie alla sconfitta del brutto come pratica dell’ingiusto. L’onestà è il pane spezzato con tutti, e -più ancora- è il rinascimento di una civiltà dell’amore. Quattro. L’immagine dell’innocenza violata è quella di un piccolo bambolotto vestito di bianco, chiuso in una specie di sfera di vetro e cerchi di metallo. Non so... lo sfondo è nero... il bambolotto sembra arreso, vinto, sconfitto da una forza sovrastante... i piedini distorti sono appiccicati al vetro, cercano forse uno spazio vitale che non c’è. L’infanzia del pensiero viene recisa, e i massacratori (che emergono nella propria assenza) sono gli aguzzini di una lunga agonia. I rantoli del bambolotto/bambino precedono i nostri, e l’avvicinamento alla ferocia degli assassini tocca i furori delle nostre coscienze pulite. Le lacrime dei Bambini (il bambolotto sembra quasi piangere) sono più leggere delle ali degli angeli, ma possono diventare pietre nelle anime belle che credono nella giustizia come misura esatta del bene comune. Cinque. Una bambolina incartata in una sorta di kimono; una fascia sulla fronte semicoperta dai capelli (in un angolo buio) è di fronte a una fila di libri; le braccia sono allargate, lo sguardo inclinato verso i libri è perplesso, incredulo. Le allusioni alla cultura cinese come possibilità di uscita da un regime oppressivo sono dirette, credo. È un rimando alla memoria dei padri e alla loro eredità, come risposta alla brutalità dei demagoghi e dei prepotenti. Ogni potere intossica di ottimismo e inculca ai sudditi la fede in un sistema -ideologico o mercantile fa lo stesso-, che lo sbriciola nella genuflessione. Le collere degli Ultimi non hanno ancora debuttato sul teatro della vita au-
Sguardi su tentica; quando lo faranno, infrangeranno le statuine di terracotta degli dèi, una volta per tutte. Il consenso è una virtù da schiavi; la rivolta della bellezza è una speranza da Uomini liberi. Sei. Un bambolotto grida dalla scaffalatura di una biblioteca che sborda dal nero (sfocata). Ha le braccia un po’ abbassate e lo sguardo rivolto contro le tenebre: figura la giusta collera che infiamma il vuoto degli Esclusi, forse. È una ferita aperta del corpo, che non accetta ritorsioni e reclusioni, ma alleva il risentimento e la riparazione dei torti... indica la fine delle ubriacature del potere della menzogna, e fa del marcitoio delle certezze il casellario della demenza in divisa. Non c’è via di uscita, finché l’intelletto resta prono all’ordine costituito. Gli idioti da parata danzano sui loro resti, e i saltimbanchi delle tribune evocano i profili malvagi delle loro medaglie al merito... s’illudono di essere immortali, senza mai intuire l’approssimarsi della loro necessaria caduta. Di fronte all’ingiustizia impunita, ogni frattura è sovrana... e il giusto è restituire il “dovuto” a quanti hanno sottratto la gioia di vivere. Sette. Un bambolotto bianco è dentro una gabbia, lo sfondo è nero. Le braccia cercano di stringere le sbarre; si ha la sensazione di una sofferenza senza via di uscita, ma -al contempos’intuisce la tentazione di rompere quelle sbarre... l’anticipazione di una libertà che si oppone alla rassegnazione. Ci sono momenti nella storia nei quali la resistenza, l’azione e la rivolta vengono vissuti come esigenze morali, etiche, esistenziali, e le persone che si ribellano alle imposizioni che li tengono a guinzaglio si ergono a favore di una società libera e giusta per tutti gli Uomini: poiché la loro utopia trabocca di vita vera, non ha altari, né regimi da adorare, semmai... da combattere. Gli Uomini, le Donne sono stati protagonisti della propria emancipazione, quando si sono liberati dalla dissolutezza del potere e dal ghigno di chi lo detiene. Di tutto quanto sul-
la Terra è terribile, si può farne a meno, e nessuno più conosce la felicità dei padri, se non partecipa alla caduta del male. Otto. Alcuni bambolotti bianchi sono gettati su un piano scuro, lo sfondo è nero. Ricordano non poco le fosse comuni dei partigiani... proviamo le stesse emozioni, il solito sdegno mescolato alla rabbia per tanta bestialità. La luce che proviene dall’alto li illumina teneramente, quasi a sfiorarli. Quei processi sommari evidenziano che una casta di saprofiti, una rappresentanza politica, un’orda di criminali è intrecciata in un sistema di relazioni economiche di scambio tra poteri pubblici e interessi privati. E in nome del mercato, i governi dell’apparenza tacciono: fascismo non è dire, ma impedire di dire. «La saggezza è l’ultima patria di una civiltà che si spegne» (Emil Mihai Cioran: Sommario di decomposizione; Adelphi, 1996) e la brutalità l’ultimo rifugio delle carogne. La tentazione di esistere si afferma grazie ad atti di liberazione. La distruzione dei simulacri porta con sé quella dei pregiudizi. Nove. Una bambolina vestita di bianco è sull’orlo del tetto di una capanna di legno (che non si vede). È rovesciata contro il cielo grigio, tagliato da nuvole bianche: una manina pare volerlo acchiappare. La testa è riversa nell’abisso, o -meglio- in direzione dei suoi persecutori. La bocca è sgranata, grida nel vuoto. Il precipizio l’attende, ma non c’è solo paura in questa immagine: c’è anche l’inversione di un destino millenario spezzato, di un’eredità mai voluta, di una dissipazione della bellezza mai accettata. Lo splendore del vero annuncia il valore dell’offeso, e il suo corpo si fa cielo e terra, spirito e carne, lacrime e sangue. Più di ogni cosa è un’annunciazione laica, che fa dell’arte del disprezzo la desertificazione dell’incoscienza dei dominatori: «La conoscenza del dolore si trasforma in conoscenza attraverso il dolore» (Michel Onfray: L’arte di gioire. Per un materialismo edonista; Fazi Editore, 2009) e denuda la fata-
lità della tirannide. Il pudore della libertà muore con l’innocenza brutalizzata dalla storia. I cadaveri della verità si nascondono nei parlamenti, nelle bibbie e nelle merci; solo gli Uomini e le Donne dell’interrogazione, che, per un eccesso di vitalità, sapranno decostruire l’ordine della violenza ed elevarsi verso quella bellezza che la libertà esige, sapranno trovare le risposte adeguate alla propria eversione non sospetta. Quando è vissuta sul sangue dei giorni, la vita acquista un’eccezionale carica di verità. Dieci. Un bambolotto è posto tra due maschere cinesi grigie e due file di pentole rovesciate; ha un vestitino pulito, i piedi nudi. Grida verso sinistra, la braccia sono aperte, accoglienti, quasi un abbraccio rivolto a quanti hanno subìto solo cattiverie. Questa immagine contiene, credo, il fulcro dell’indignazione di Liu Xia: è un ritratto di dolore, certo, ma non di sconfitta; il disturbo visivo è forte, surreale, anche. S’intreccia qualcosa di antico, moderno e materico, e una sorta di piccolo Cristo inchiodato nell’anima in volo, stretto da due pentole sul tappeto, è connaturato col desiderio -per niente simbolico- di lasciare un diverso modo di abitare il mondo a quelli che s’incontreranno sulla sua strada in libertà. Ideologie, polizie, chiese sono all’origine dell’orrore che si nutre del consenso generale: ma la forza della libertà è contagiosa, e mostra che il divenire della bellezza, della fratellanza e della solidarietà sorge impetuosa alle periferie della Terra. Undici. Coperta da un panno grigio su fondo nero (come in un sudario), l’immagine di una bambolina/donna è sconvolgente, di una bellezza senza tempo: contiene il riscatto delle Donne della Terra, e -nella sua regale immobilità- respinge ogni pietà o incomprensione. Fa capire che la nostra epoca ha forgiato la propria disperazione nella bruttezza e nelle convulsioni: «Noi abbiamo esiliato la bellezza. I Greci per essa hanno preso le armi. La bel-
lezza, senza dubbio, non fa le rivoluzioni. Ma viene un giorno in cui le rivoluzioni hanno bisogno di lei» (Albert Camus: L’uomo in rivolta; Bompiani, 1999 e 2002). L’icona di Liu Xia è una metafora di resistenza sociale, che rigetta l’obbligo di sottomissione al “diritto” delle armi. Il gesto, la postura, lo sguardo celati dietro la tela sono una sfida all’autorità costituita e la rifiutano, diventano portatori di un altro diritto, quello di vivere una vita più giusta e più umana. «Se i popoli si accorgessero del loro bisogno di bellezza, ci sarebbe rivoluzione nelle strade» (James Hillman: La politica della bellezza; Moretti & Vitali, 2010). Tutto vero. La politica della bellezza che fuoriesce da questa immagine austera (quasi sacrale) contrasta la bruttura dei poteri, e lascia emergere il disagio che abita il valore degli insorti. Tremare di paura è facile, ma saper dirigere il proprio tremito contro il terrore dei potenti è un’arte di gioire: da qui derivano tutte le rivoluzioni della bellezza. Dodici. Il ritratto di Liu Xiaobo è un capolavoro d’intensità poetica, eversiva. Il marito della fotografa è figurato contro il cielo bianco, appoggiato alla sinistra dell’inquadratura/composizione... su una spalla tiene il solito bambolotto che grida (verso sinistra); l’Uomo lo tiene, altero, con una mano (sinistra). L’orologio sembra indicare la fine di un tempo morto e annunciare l’inizio di un tempo del disincanto, che accende e saluta il diritto alla libertà. Liu Xiaobo guarda al futuro, sicuro di sé, quasi sprezzante: sembra dire che un potere muore quando non tollera le verità che denunciano il suo fallimento. La magia poetica di questa fotografia di Liu Xia riassume in sé le deformità e i gioghi di un potere alla deriva: è un’esortazione alla riconoscenza di un genio che ha provocato emorragie di bellezza e dissidi incalcolabili... che ha sfidato l’impossibile, per renderlo possibile... che ha demolito l’ineluttabile e la sua miseria... che ha disconosciuto inni e bandiere, che si torcevano sotto un potere mai
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Sguardi su sazio di isterie. Nessuna vita umana ha più valore quando non c’è più dignità morale/etica tra le persone, e l’uso della libertà (e il diritto di usarla per il bene comune) è superiore al bene individuale e a quello di una nazione. In nessun modo, nessun potere può decidere della vita di una persona; e i fondamenti di giustizia e libertà sono il meraviglioso di una società eguale e giusta. Il genio comincia sempre col dolore.
ANCORA E ANCORA: SULLA FOTOGRAFIA DEI DIRITTI UMANI La fotografia dei diritti umani, o del risveglio, di Liu Xia, si affranca ai bisogni di libertà del più gran Numero: dice che non può esserci società giusta, senza persone che godono della libertà di pensiero, di opinione, di fare ciò che credono sia giusto fare. La coscienza del dovuto si dispiega ovunque si reprime il diritto alla fraternità, all’accoglienza, alla condivisione; e la verità diventa il grimaldello eversivo di esperienze compartecipate, che portano sulla scena della storia le utopie libertarie di infanzie interminabili. Interrogare il potere dei suoi misfatti e restituirlo all’oblìo vuol dire chiedere ragione e cancellare le sozzure sulle quali si poggia... rinnovare l’insieme di fratellanze e solidarietà contro i traditori e i massacratori di speranze. Le consorterie, i familismi, la criminalità organizzata dei governi despoti (o delle democrazie autoritarie) esprimono una cultura dell’espropriazione e vanno abbattuti. Il risveglio delle coscienze è un richiamo alla vita autentica e la sola occasione per mettere fine al miscuglio indecente di terrori, banalità, costrizioni, che i poteri forti architettano contro i popoli impoveriti e repressi. «In quasi tutto il mondo, la disuguaglianza sta aumentando, e ciò significa che i ricchi, e soprattutto i molto ricchi, diventano più ricchi, mentre i poveri, e soprattutto i molto poveri, diventano più poveri. Questa è la conseguenza ultima dell’aver sostituito la competizione e la rivalità alla cooperazione amichevole, alla condivisione, alla fiducia, al ri-
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spetto. Ma non c’è vantaggio nell’avidità. Nessun vantaggio per nessuno. Eppure abbiamo creduto che l’arricchimento di pochi fosse la via maestra per il benessere di tutti» (Zygmunt Bauman: “La ricchezza di pochi avvantaggia tutti” Falso!; Laterza, 2013). Tutte le volte che i potentati hanno insinuato nella vita degli Uomini i loro precetti di domesticazione sociale è stato per sfruttare lo smarrimento degli esclusi e farli precipitare nella rovina. Gli Indesiderabili della Terra sono alle porte dei palazzi e dicono che l’Uomo non è stato capace soltanto di inventare i campi di sterminio, la bomba atomica, la catastrofe del pianeta o il terrorismo della Borsa, ma anche di inventare le rose (Pino Bertelli: Dell’utopia situazionista. Elogio della ribellione; Massari Editore, 2007). I “valori” dei tiranni devono crollare di fronte al primato della coscienza e dei diritti della persona. La libertà politica è la spinta verso l’uguaglianza (Luciano Canfora: Manifesto della libertà; Sellerio Editore, 1994). Gli Uomini non possono essere uguali, né liberi, se sono espropriati della loro libertà. La libertà non si concede, si prende. Si tratta di non dominare, né voler essere dominati. Non c’è libertà, né giustizia a pieno titolo, dove anche a un solo Uomo è sottratta la libera creazione della propria personalità. Il riconoscimento della persona, della sua umanità e dignità sociale non può essere ingannevole, ma sovrano. I falsi valori della tirannide divorano e prosciugano i diritti dell’Uomo, ma non possono impedire il legittimo mutamento che l’ondata delle disuguaglianze porta fino alla loro estinzione. Il diritto di avere diritti è un appello alla Terra e a tutti gli Uomini e le Donne che continuano a lottare per la conquista di una dimensione dell’umano che si accorda con i diritti di bellezza, giustizia e libertà: apre il cammino della speranza del vivere bene, del vivere insieme e del vivere giusto in una civiltà del rispetto e di pace. ❖
Chi? Fujifilm X: sistema fotografico in pertinente equilibrio tra prestazioni tecniche di profilo alto e design ereditato dalla lunga e nobile storia evolutiva della tecnologia fotografica. New Old Camera: indirizzo privilegiato del commercio fotografico, sia in interpretazione storica-collezionistica-antiquaria, sia in personalità attuale (per quanto concentrata soprattutto su apparecchi fotografici di alta qualità). FOTOgraphia: proposta giornalistica con visioni trasversali della propria materia.
Cosa? NewOld, ovvero oggi (domani) e ieri. Fujifilm X-E2, con foro stenopeico calibrato Avenon P.H. Air Lens in baionetta Leica M (tramite anello adattatore M Mount Adaptor), mirino Silvestri 58mm (dal 6x9cm, equivalente all’inquadratura 28mm sul sensore X-Trans Cmos II / APS-C), scatto flessibile Kodak Metal Cable e impugnatura M-Grip.
Come? Ancora NewOld, ovvero oggi (domani) e ieri. Fotografia di Antonio Bordoni scattata con Fujifilm X-E1, montata sul corpo posteriore di una Sinar Norma 4x5 pollici (del 1955) tramite anello stringiobiettivo RBM, già BRM (Romualdo Brandazzi, di Milano; degli anni Trenta... Cinquanta), e anello adattatore Quenox Nikon, su colonna Fatif (anni Sessanta). Obiettivo Rodenstock Imagon 300mm H=5,8 (anni Quaranta), con selettore H 9,5-11,5 aperto.
Perché? Perché no?
La forma per il contenuto Combinazioni fantasiose di macchine fotografiche Fujifilm X, tra oggi (domani) e ieri, in doppia interpretazione NewOld, ideate e realizzate da
www.newoldcamera.com