Mensile, 6,50 euro, Poste Italiane SpA - Spedizione in abbonamento postale - D.L. 353/2003 (convertito in Legge il 27-02-2004, numero 46), articolo 1, comma 1 - DCB Milano
ANNO XXI - NUMERO 198 - FEBBRAIO 2014
Alcide Boaretto VOLTI DEL CINEMA Steve McCurry QUANTE STORIE!
1839 - 2014 CENTOSETTANTACINQUE ANNI
Mensile, 6,50 euro, Poste Italiane SpA - Spedizione in abbonamento postale - D.L. 353/2003 (convertito in Legge il 27-02-2004, numero 46), articolo 1, comma 1 - DCB Milano
O T N E M A N O B B A N I O L SO
Alcide Boaretto VOLTI DEL CINEMA
Steve McCurry QUANTE STORIE!
1839 - 2014 CENTOSETTANTACINQUE ANNI Mensile, 6,50 euro, Poste Italiane SpA - Spedizione in abbonamento postale - D.L. 353/2003 (convertito in Legge il 27-02-2004, numero 46), articolo 1, comma 1 - DCB Milano
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ANNO XXI - NUMERO 198 - FEBBRAIO 2014
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ANNO XX - NUMERO 197 - DICEMBRE 2013
Parliamone SOPRA TUTTI, FRANTI Wpoty 2012 CHE BELLA NATURA
Abbonamento 2014
(nuovo o rinnovo) in omaggio Fotografia nei francobolli di Maurizio Rebuzzini prefazione di Giuliana Scimé testimonianza di Michele Smargiassi
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GINO BEGOTTI 14 DICEMBRE 1963: THE BEATLES
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ANNO XX - NUMERO 196 - NOVEMBRE 2013
GIAN PAOLO BARBIERI LE OPERE VIETATE
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prima di cominciare DELLE DUE, ENTRAMBE. Come commentato nella presentazione (da pagina ventiquattro), la monografia Steve McCurry. Le storie dietro le fotografie è a dir poco appassionante. Di fatto, e tra l’altro, è un fantastico alimento per coloro i quali -e sono tanti- amano conoscere i retroscena del fotogiornalismo, ricco di momenti esaltanti, istanti di riflessione, impegno etico e morale. Sia ribadito una volta ancora, oltre le parole usate in presentazione: è meno monografia di autore e più racconto di fatti e accadimenti in aggiunta all’apparenza delle immagini, alcune più che note, una addirittura conosciuta universalmente (anche al di fuori dello stretto ambito degli addetti). Quindi, una domanda è lecita, ovviamente dal nostro punto di vista professionale, oltre che viziato (forse). Nelle note di presentazione dell’editore si fa più richiamo e riferimento alle fotografie di Steve McCurry che al contenuto della monografia. Siccome le immagini dell’apprezzato fotogiornalista sono ampiamente pubblicate, anche e soprattutto in raccolte illustrate, consistentemente presenti nella bibliografia fotografica, ci siamo domandati in base a quale idea questa ulteriore collezione dovrebbe/ potrebbe attirare qualsivoglia attenzione. Invece, e a differenza, e a integrazione, quello che conta in Steve McCurry. Le storie dietro le fotografie non sono tanto le “fotografie”, quanto le circostanze che le hanno guidate e fatte raggiungere, a volte le vicissitudini che le hanno scortate. Ovvero, fatto salvo che si tratta di fotografie anche ben note, soprattutto ben note, è affascinante conoscerne e avvicinarne le storie dietro. Quindi, non monografia d’autore... ma racconto d’autore... ma testimonianza d’autore... ma partecipazione d’autore... ma presenza d’autore. Una perplessità è lecita, ne siamo più che convinti: l’editore ha capito cosa ha pubblicato? Qualcuno, in casa editrice, ha sfogliato queste pagine? Delle due, entrambe: nessuno ha guardato il libro; chi lo ha eventualmente guardato, non ha capito nulla. E, allora: la sua promozione soltanto per la prepotente apparenza delle immagini, non per il profondo contenuto delle riflessioni.
Quando ci domanderanno che cosa stiamo facendo, potremo rispondere loro: ricordiamo. Ecco dove alla lunga avremo vinto noi. Ray Bradbury; su questo numero, a pagina 49
Copertina 1839-2014: Centosettantacinque anni di Fotografia, conteggiati dalle date ufficiali del sette gennaio, di annuncio, e diciannove agosto, di presentazione pubblica del processo originario del francese Louis Jacques Mandé Daguerre, dal quale tutto ha avuto inizio (anche se -va detto- la fotografia, così come l’abbiamo intesa per decenni e secoli, e ancora la intendiamo, dipende dal processo negativo-positivo inventato da William Henry Fox Talbot). Ne riferiamo da pagina 49, con altri richiami e rimandi... anche sui numeri a venire, di questo Duemilaquattordici. In ogni caso, dettaglio da uno dei tre francobolli con i quali, nel 1989, il Suriname ha celebrato i Centocinquant’anni: a pagina 50, il francobollo intero
3 Fotografia nei francobolli Dalla compendiosa analisi Fotografia nei francobolli, di Maurizio Rebuzzini, in corso d’opera e imminente pubblicazione, dettaglio dall’apprezzato valore emesso dagli Stati Uniti, il 26 giugno 1978, per la Fotografia: Deardorff 8x10 pollici, con accompagnamenti espliciti
7 Editoriale Come, nel senso del perché, oltre che del quanto. Il giornalismo fotografico esperto e competente è l’espressione più chiara, trasparente e concreta di tutti gli intrecci, legami e collegamenti della Fotografia
FEBBRAIO 2014
RIFLESSIONI, OSSERVAZIONI E COMMENTI SULLA FOTOGRAFIA
8 Mille parole (?) La campagna con la quale otto testate di settore sottolineano il valore del proprio giornalismo ribadisce quanto la stampa specializzata informa, forma e approfondisce la Fotografia su solide basi
Anno XXI - numero 198 - 6,50 euro DIRETTORE
RESPONSABILE
Maurizio Rebuzzini
IMPAGINAZIONE
Maria Marasciuolo
REDAZIONE
10 Con convinzione La nuova Fujifilm X-T1 amplia e arricchisce il proprio sistema fotografico di riferimento, nello stesso momento in cui offre straordinarie opportunità fotografiche
Antonio Bordoni Angelo Galantini
FOTOGRAFIE Rouge
SEGRETERIA
Maddalena Fasoli
12 Con uso di fotografia Due affascinanti pubblicazioni giapponesi combinano visualizzazioni di suadenti ragazze in chiave fotografica: come elemento di contorno e in situazioni di utilizzo
19 Fantasioso pre 1839 Nel brioso film Ladri di cadaveri - Burke & Hare compare un proto fotografo, che agisce nel 1828 Ricerca iconografica di Filippo Rebuzzini
24 Quante storie! Intensa monografia d’autore, che rivela affascinanti dietro-le-quinte del fotogiornalismo: per l’appunto, Steve McCurry. Le storie dietro le fotografie
32 Sinar Norma Dal 1948, con decifrazione di marchio e modello a cura di New Old Camera
34 Volti del cinema Nei ritratti del bravo e appassionato Alcide Boaretto di Maurizio Rebuzzini
42 Les jeux daguerriennes L’espressività contemporanea di Silvano Bonaguri di Angelo Galantini
49 1839 - 2014, fanno 175 1839-2014: Centosettantacinque anni di Fotografia di Antonio Bordoni
HANNO
COLLABORATO
Pino Bertelli Alcide Boaretto Silvano Bonaguri mFranti Giuseppe Gorra Chiara Lualdi Franco Sergio Rebosio Ciro Rebuzzini Filippo Rebuzzini Ryuichi Watanabe (New Old Camera) Deborah Zuskis Redazione, Amministrazione, Abbonamenti: Graphia srl, via Zuretti 2a, 20125 Milano; 02-66713604 www.FOTOgraphiaONLINE.it; graphia@tin.it. ● FOTOgraphia è venduta in abbonamento. ● FOTOgraphia è una pubblicazione mensile di Graphia srl, via Zuretti 2a, 20125 Milano. Registrazione del Tribunale di Milano numero 174 del Primo aprile 1994. Poste Italiane SpA - Spedizione in abbonamento postale - D.L. 353/2003 (convertito in Legge il 27-02-2004, numero 46), articolo 1, comma 1 - DCB Milano. ● A garanzia degli abbonati, nel caso la pubblicazione sia pervenuta in spedizione gratuita o a pagamento, l’Editore garantisce la massima riservatezza dei dati forniti dagli abbonati e in suo possesso, fatto diritto, in ogni caso, per l’interessato di richiederne gratuitamente la rettifica o la cancellazione ai sensi della legge 675/96. ● FOTOgraphia Abbonamento 12 numeri 65,00 euro. Abbonamento annuale per l’estero, via ordinaria 130,00 euro; via aerea: Europa 150,00 euro, America, Asia, Africa 200,00 euro, gli altri paesi 230,00 euro. Versamenti: assegno bancario non trasferibile intestato a Graphia srl Milano; vaglia postale a Graphia srl - PT Milano Isola; su Ccp n. 28219202 intestato a Graphia srl, via Zuretti 2a, 20125 Milano; addebiti su carte di credito CartaSì, Visa, MasterCard. ● Nessuna maggiorazione è applicata per i numeri arretrati. ● È consentita la riproduzione di testi e fotografie, magari citando la fonte (ma non è indispensabile, né obbligatorio farlo). ● Manoscritti e fotografie non richiesti non saranno restituiti; l’Editore non è responsabile di eventuali danneggiamenti o smarrimenti. Fotocomposizione DTP e selezioni litografiche: Rouge, Milano Stampa: Arti Grafiche Salea, Milano
Rivista associata a TIPA
62 Dal passato al presente Due ottime segnalazioni dal Web: parole autorevoli
64 Marialba Russo Sguardo sulla fotografia mediterranea (dolce anarchia) di Pino Bertelli
www.tipa.com
editoriale C
uriosamente, la campagna con la quale otto riviste italiane di settore sottolineano il proprio valore giornalistico (che pubblichiamo immediatamente a seguire, a pagina nove, commentandola a fronte) ha preso avvio nel centosettantacinquesimo della fotografia. Le date, che sottolineiamo oggi con una serie di interventi mirati, a partire da una consistente retrovisione (da pagina quarantanove), e che riprenderemo ancora e ancora nel corso del corrente Duemilaquattordici, sono di riferimento assoluto e inderogabile. Quindi, una volta di più e una ancora, si conferma che le coincidenze possono anche essere interpretate come i soli accadimenti che rivelano che la vita abbia anche un qualsivoglia senso. Ora, e qui, si impone una riflessione, diversa da quella a commento, e allo stesso momento a questa complementare. Cosa distingue il giornalismo fotografico, qualificandone il ruolo e le competenze? Una sottile origine, che compone i tratti di una autentica differenza! Nel proprio insieme, il giornalismo fotografico nasce sempre e comunque da una autentica “passione” per la materia, che viene quindi affrontata e sostenuta con applicazioni energiche e impetuose: quelle stesse che allineano il solo dovere al coincidente piacere. In questo senso, ciascuna con le proprie prerogative e i propri indirizzi statutari, queste riviste antepongono l’approfondimento della materia a qualsivoglia altra urgenza. Il che, siamo sinceri, stabilisce, per l’appunto, il senso e qualità di questo avvincente giornalismo di settore. Magistralmente, queste riviste informano, formano e approfondiscono la Fotografia su solide basi, come rileva la conclusione all’headline di richiamo esplicito della campagna conoscitiva concordata tra le otto testate italiane. In allungo, ne siamo consapevoli, questo si traduce anche in promozione commerciale degli strumenti e oggetti della fotografia, in un equilibrio di filiera che offre e propone consistenti bilanciamenti e adeguate convivenze. Da parte nostra, ipotizziamo anche una educazione commerciale che si estenda oltre i soli riferimenti tecnici, per comprendere la definizione di un commercio rivolto all’applicazione attiva di un interesse: la fotografia è un hobby diverso dagli altri. Diverso, perché migliore: sempre e comunque attivo e non passivo. Il valore del Tempo che l’attraversa non è certo questione da poco. Eccoci qui (ekkoci qui?): la fotografia applicata (e frequentata da ciascuno) non sia mai un arido punto di arrivo, ma sempre un fantastico s-punto di partenza. Il giornalismo fotografico esperto e competente è l’espressione più chiara, trasparente e concreta di tutti questi intrecci, legami e collegamenti. Non si limita ai soli strumenti della fotografia, anche quando ne fa soggetto esplicito. Attraverso l’editoria specializzata (soprattutto, in forma cartacea), l’intero mercato della fotografia manifesta spiriti e filosofie trasversali, da decifrare per allineare e finalizzare ogni personalità quotidiana. Maurizio Rebuzzini
Annuncio concordato tra otto riviste fotografiche italiane (che pubblichiamo immediatamente a seguire, a pagina nove, e commentiamo a fronte). Siamo in compagnia di Digital Photographer Italia, Foto Cult, Fotografia Reflex, Progresso Fotografico (che quest’anno approda ai suoi centoventi anni di edizione, va sottolineato!), Tutto Digitale, Tutti Fotografi e Zoom. L’headline è esplicito, oltre che diretto: Se una fotografia vale mille parole, quanti copia&incolla vale questa Rivista? Quindi, in specifica d’obbligo: La stampa specializzata informa, forma e approfondisce la Fotografia su solide basi.
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Parliamone di Maurizio Rebuzzini (Franti)
MILLE PAROLE (?)
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Qui di fronte, pubblichiamo un annuncio concordato tra otto riviste fotografiche italiane. Siamo in compagnia di Digital Photographer Italia, Foto Cult, Fotografia Reflex, Progresso Fotografico (che quest’anno approda ai suoi centoventi anni di edizione, va sottolineato!), Tutto Digitale, Tutti Fotografi e Zoom. L’headline è esplicito, oltre che diretto: Se una fotografia vale mille parole, quanti copia&incolla vale questa Rivista? Quindi, in specifica d’obbligo: La stampa specializzata informa, forma e approfondisce la Fotografia su solide basi. Insomma, la comunicazione non lascia spazio a fraintendimenti, e sottolinea il valore del giornalismo cartaceo, così diverso e qualificato -per propria natura, per proprio statuto- da talune semplificazioni implicite nell’approssimazione dei nostri tormentati giorni, durante i quali troppe questioni vengono liquidate con fragilità fonetica e impreparazione... se non già, proprio ignoranza. Attenzione, però: non si generalizzi, non generalizziamo. Come ha opportunamente rilevato Giulio Forti, editore e direttore di Fotografia Reflex, nel proprio Editoriale di gennaio, di accompagnamento e commento alla campagna, al quale allineiamo questa nostra annotazione, «Il riferimento ai copia&incolla riguarda quei siti-web nati come funghi che si occupano di fotografia senza molta esperienza [...]. Ciò non vuol dire abbasso il web, perché esistono siti importanti e autorevoli che svolgono un lavoro professionale ad opera di persone che conoscono ciò di cui parlano e che, se non editi da testate giornalistiche, si presentano a viso aperto con cognome indirizzo e numero di telefono» [al proposito, rimandiamo a pagina 62, su questo stesso numero]. In effetti, proprio qui sta una so-
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stanziosa differenza, fotografia a parte, fotografia compresa. Quando ipotizziamo come “tormentati” questi giorni, che sono perfino quantomeno “confusi”, intendiamo che -annullate barriere tecniche e logistiche proprie di altro modo di redigere e pubblicare i propri testi- la libertà estrema di espressione si accompagna anche con l’amaro retrogusto dell’improvvisazione e, perché no?, della tignosità, che oggi possono trovare modo per manifestarsi: peraltro, spesso con uso disinvolto, ardito e sconsiderato della grammatica italiana e della sintassi. Del resto, questo è sempre-e-comunque il prezzo da pagare per ogni sorta di democratizzazione, diciamola così, ovverosia di massificazione. Per esempio, concessa ai soli dirigenti dell’allora Partito comunista, la spiaggia di Capalbio, il comune più a sud della Toscana, ai confini con il Lazio, facilmente raggiungibile dall’élite politica con sede a Roma, è stata per decenni un’oasi di qualità e, addirittura, classe (naturalistica). Aperta a tutti, democratizzata e/o massificata -fate voi-, oggi è alla stregua di tutti i lungomare italiani, costellata di lattine di bibita abbandonate, cartocci volanti, porcherie di ogni genere e tipo. In parallelo, quando pubblicare volumi illustrati era oneroso, sia economicamente sia in dipendenza di altre prestazioni professionali specifiche, la selezione (naturale!) si accompagnava con una qualità di sostanza. Oggi, che ciascuno può pubblicare un proprio libro... le monografie fotografiche sono proliferate: possiamo conteggiare autori non professionisti che vantano una quantità di titoli superiore a quelle che hanno scandito luminosi tragitti, da Henri Cartier-Bresson, per dirne uno, a Richard Avedon, per completare con altro nome al di sopra di qualsivoglia sospetto.
Non per questo, non siamo certo noi tra coloro che misurano l’evoluzione (anche della specie) alla luce di momentanei incidenti di percorso, di prezzi legittimi da pagare (da e con Mao Zedong, che intese altro, ma possiamo declinare a qualsiasi evoluzione/trasformazione, forse crescita: «La rivoluzione non è un pranzo di gala; non è un’opera letteraria, un disegno, un ricamo; non la si può fare con altrettanta eleganza, tranquillità e delicatezza, o con altrettanta dolcezza, gentilezza, cortesia, riguardo e magnanimità»). Del resto, ribadiamo una nostra convinzione: qualsiasi viaggio nella vita, se non fosse intrapreso per ragioni umane e con comprensione e amore, sarebbe un viaggio assolutamente inutile. Parliamo sempre di qualcosa che vale la pena ricordare, dal momento che la tecnologia trasforma in realtà antichi sogni. La fonte della tecnologia applicata (anche fotografica) è quella stessa fonte che alimenta la vita e l’evoluzione dell’esistenza. Però, e tuttavia, e nello specifico, Se una fotografia vale mille parole, quanti copia&incolla vale questa Rivista?, campagna organizzata, promossa e svolta da otto testate italiane di settore, sottolinea il valore di capacità professionali distinte, caratteristiche e mirate, capaci di fare l’autentica differenza nell’informazione e formazione sulla materia, sulla Fotografia (con maiuscola volontaria, oltre che consapevole). Il messaggio è equamente rivolto sia al pubblico sia all’interlocutore commerciale, per sollecitare entrambi a una considerazione non generalizzata, non generalizzante, dell’ampio discorso fotografico: dall’apprendimento (da parte del pubblico) alla promozione (da parte degli operatori di mercato). Nel momento nel quale raccontano, spiegano, commenta-
no, osservano, riflettono, chiariscono e evidenziano, le riviste qualificate -e il cartello che si è costituito ne rappresenta otto di spicco nel panorama italianosvolgono un importante ruolo di promozione della fotografia, sostanzialmente subordinato al proprio rispettivo ruolo giornalistico di informazione e, anche!, formazione. Queste riviste possono vantare redazioni qualificate, capaci di affrontare i propri temi con perizia e preparazione, siano questi tecnici o di linguaggio o storici, che di fatto alimentano quella fidelizzazione che rappresenta uno degli elementi discriminanti anche del commercio fotografico. In effetti, è giocoforza ipotizzare e pensare a una educazione commerciale che si estenda oltre i soli riferimenti tecnici, per comprendere la definizione di un commercio rivolto all’applicazione attiva di un interesse. Anche solo in queste pagine, l’abbiamo già rilevato in tante occasioni, e a propria volta questa ulteriore potrebbe non essere l’ultima, ma soltanto una ancora e una in più: sia che si tratti di semplice fotoricordo domenicale, sia che si tratti di impegno individuale più sostanzioso (quel fotoamatorismo, anche organizzato, frequentato da molti), la fotografia è un hobby diverso dagli altri. Diverso, perché migliore: sempre e comunque attivo e non passivo. Il valore del Tempo che l’attraversa non è certo poco. Ancora e conclusione: la voglia di assaporare il profondo di un’esperienza che sembra essere sempre uguale, ma che invece è sempre così diversa. Ovvero, e a giro tondo: Se una fotografia vale mille parole, quanti copia&incolla vale questa Rivista? Perché, sia chiaro a tutti, La stampa specializzata informa, forma e approfondisce la Fotografia su solide basi. ❖
Sul mercato di Antonio Bordoni
CON CONVINZIONE
O
Ok. Smettiamo di scomporre l’offerta tecnico-commerciale della fotografia in definizioni che non hanno alcun riscontro con le intenzioni del pubblico al quale ci si rivolge. Per quanto le categorie servano agli addetti e operatori, tra i quali segnaliamo sempre e comunque l’autorevolezza della giuria dei TIPA Awards -che ogni anno, a primavera, indicano i prodotti migliori, appunto specificandoli in relazione alle proprie rispettive appartenenze-, ai consumatori potenziali debbono arrivare annotazioni e richiami semplificati, che possano essere adeguatamente (e agevolmente) interpretati. Da cui, e per cui, fatta salva la grande distinzione che riconosce le qualità tecniche della costruzione reflex, a propria volta scandita per fasce commerciali in crescita, dall’entry level fino alle dotazioni e configurazioni professionali, in assoluto è lecito esprimersi nei termini di macchine fotografiche. Punto e basta. Tra l’altro, annotazione doverosa, il comparto delle compatte, vasto per quantità e qualità di offerta, ha subìto un tale contraccolpo commerciale, da essere praticamente sull’orlo di un (inevitabile?) baratro mercantile. In questo senso, la nuova Fujifilm X-T1 è giusto tale: a obiettivi intercambiabili, offre le prestazioni di un efficace mirino “Real Time”, la praticità di uno scatto rapido (con ritardo di soli 0,005... impercettibili secondi) e un elevato rapporto di ingrandimento. È Mirrorless (identificazione rivolta a chi già ne sa qualcosa, se non già molto)? È CSC, Compact System Camera? Sì, lo è. Ma, soprattutto, è una configurazione fotografica di prestigio, che si rivolge simultaneamente, ed espressamente, a coloro i quali masticano la materia e a chi vi si avvicina per la prima volta, da autentico neofita.
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mirino ottico (reflex). La sua combinazione esclusiva di una visione grandangolare e dell’elevato ingrandimento (0,77x; con obiettivo 50mm equivalente, impostato su infinito e -1,0DP) offre un’esperienza di ripresa effettivamente coinvolgente. La rapidità di visualizzazione del mirino, con un tempo di ritardo di soli 0,005 secondi -ben inferiore a quello di altre dotazioni fotografiche dei nostri giorni-, è quanto/tanto lo distingue realmente e che consente di essere in totale connessione con i soggetti ripresi. Quindi, il monitor Oled, con risoluzione di 2,36 Megapixel, consente una visione nitida dei dettagli su tutta l’area inquadrata.
Avvincente configurazione, la Fujifilm X-T1 arricchisce la convincente gamma apparecchi fotografici a obiettivi intercambiabili della famiglia X, scandita da interpretazioni tecniche in progressione e definita da un sistema ottico superlativo. Nell’uso, offre una gestione evoluta in stile reflex, selettori meccanici e resistenza agli agenti atmosferici, insieme a tutte le caratteristiche proprie (i vantaggi propri?) della gamma X di appartenenza: ossia, dimensioni compatte, eccellente portabilità e prestazioni fotografiche esemplari. Grazie a una velocità di visualizzazione estremamente rapida, il mirino elettronico è sostanzialmente indistinguibile rispetto a un Questa visione pertinente si accompagna con un autofocus all’altezza, con il versatile processore EXR Processor II e con il sensore X-Trans Cmos II (in dimensione APS-C, da 16,3 Megapixel), dotato di AF a rilevazione di fase. Prima configurazione compatibile con le schede di memoria Ultra High Speed UHS-II SD. (Fujifilm Italia, Strada Statale 11 - Padana Superiore 2b, 20063 Cernusco sul Naviglio MI; www.fujifilm.it). ❖
Illustrazione di Angelo Galantini
CON USO DI FOTOGRAFIA
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Due recenti pubblicazioni giapponesi che possono essere iscritte nell’ambito del fumetto e, per estensione, in quello dell’illustrazione, hanno incontrato e declinato la fotografia, ovverosia i suoi strumenti. Entrambe sono individuabili e reperibili in Rete, dove le ha rintracciate un amico, segnalandocele, e acquistabili nei relativi canali internazionali di vendita online: uno a circa dieci euro, l’altro da quaranta a cinquanta dollari. Poco esperti di queste prassi, non siamo in grado di aggiungere altre specifiche, altri dati, comunque alla portata di coloro i quali (e sono ormai tutti) navigano con disinvoltura in Internet). Camera Lens Personification, altrimenti indicato come Camera Lens Shoujo Personification, è un opuscolo autocopertinato di ventotto pagine 18x25,7cm; l’edizione di Classic Camera Girl (Plus One) è più sostanziosa e consistente: centotrenta pagine 26x18,5cm. I rispettivi richiami fotografici, espressi nei titoli (e poi i testi interni sono rigorosamente in giapponese), riguardano una certa interpretazione di obiettivi fotografici (soprattutto) storici e la combinazione con una vasta serie e quantità (e qualità) di apparecchi fotografici che hanno stabilito parametri di richiamo e riferimento dell’evoluzione tecnico-progettuale degli ultimi decenni, precedenti la più recente personalità della tecnologia ad acquisizione digitale di immagini... da cui la specifica “Classic Camera”, per l’appunto. E i rispettivi testi di accompagnamento approfondiscono proprio i valori e le prerogative di ciascuna configurazione (almeno, crediamo che sia così, per quanto gli ideogrammi giapponesi siano indecifrabili dai più e da noi). Spesso sottostimati dalla storia evolutiva della fotografia, che si concentra soprattutto sugli apparecchi (ed è un malinteso che condiziona il racconto storico, per l’appunto), gli obiettivi sono parte e componente essenziale della ripresa fotografica. Lo sono sempre stati, fin dalle origini, e lo sono ancora oggi. Comunque, l’avvincente e seducente Camera Lens
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Camera Lens Personification [anche pagina accanto e prossima pagina 14] e Classic Camera Girl (Plus One) sono due pubblicazioni sostanzialmente analoghe: entrambe raffigurano ragazze giapponesi con complementi fotografici.
(in basso e centro pagina) Da Classic Camera Girl (Plus One), la medio formato folding Fujifilm GF670.
Personification (oppure Camera Lens Shoujo Personification), edito da Comic Zin e dal Garnet Doujinshi Circle, non entra nel merito di questo e delle relative caratteristiche qualitative, ma si concentra soltanto, non già soprattutto, sull’aspetto caratteristico e sul design di alcune configurazioni che hanno stabilito parametri inequivocabili di riferimento. Quindici disegni ottici di focali standard sono abbinati a raffigurazioni di invitanti ragazzine, che arrivano direttamente dalla chiave manga del fumetto giapponese nel proprio insieme: OM Zuiko MC Auto-S 50mm f/1,4, OM G.Zuiko Auto-S 55mm f/1,2, OM Zuiko MC Auto-Macro 50mm
Illustrazione
Leica M3 e Leica IIIf, da Classic Camera Girl (Plus One).
f/3,5, Pen-F F.Zuiko Auto-S 38mm f/1,8, Pen-F G.Zuiko Auto-S 40mm f/1,4, Helios-40-2 85mm f/1,5, Helios44-3 58mm f/2, Industar-61 50mm f/2,8, Industar-50 50mm f/3,5, Carl Zeiss Jena Tessar 50mm f/2,8, SMC Takumar 50mm f/1,4, Super Rokkor 50mm f/2,8, Industar-26M 50mm f/2,8, DR-Summicron 50mm f/2 (aggiuntivo ottico per il mirino Leica), Visoflex II / Viso Elmar 65mm f/3,5 Macro. Dunque, cinque obiettivi Zuiko per reflex Olympus (tre per OM 24x36mm e due per reflex Pen mezzo formato 18x24mm), altrettanti cinque per apparecchi sovietici a telemetro (innesto a vite 39x1) e reflex (vite 42x1), uno Zeiss, Pentax e Minolta e due apparati Leica. Dettagli delle rispettive costruzioni meccaniche completano l’abbigliamento delle ragazze, fungendo da cintura, decorazione, accessorio e altro ancora.
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Illustrazione
Più articolata, oltre che vasta in quantità, è la passerella di Classic Camera Girl (Plus One), che ripercorre una sorta di storia evolutiva degli apparecchi fotografici moderni, diciamo degli anni dai Sessanta agli Ottanta del Novecento, con moderate escursioni precedenti, visualizzandoli tra le mani e nell’uso di ragazze, una volta ancora ereditate dalla tradizione giapponese del fumetto. Qui i testi (sempre in giapponese) sono più consistenti, e presumiamo che raccontino dei singoli apparecchi. Il panorama è adeguatamente vasto, e comprende sia configurazioni piccolo formato sia dotazioni medio formato e anche grande formato (per esempio, la folding Toyo Field 810M per il massimo 8x10 pollici / 18x24cm, l’altrettanto folding Linhof Master Technika 45 e la Speed Graphic della fotocronaca statunitense del passato,
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Nikon FM3A e Asahi Pentax SP, da Classic Camera Girl (Plus One).
Illustrazione
Speed Graphic e Toyo Field 810M II, da Classic Camera Girl (Plus One).
entrambe 4x5 pollici / 9x12cm). Non mancano gradite escursioni verso la fotografia a sviluppo immediato (Polaroid SX-70) e apprezzate competenze sottotraccia (Zeiss Werra 4, Olympus Pen-FT, biottica Flexaret VI, Plaubel Makina 67). È rappresentato persino il foro stenopeico, attraverso la Zero 612F, di costruzione sostanzialmente artigianale (da Hong Kong). Insomma, per chi ama anche l’aspetto tecnico della fotografia, i suoi strumenti e la sua evoluzione tecnologica... proprio un bel vedere. Anche se, siamo sinceri, interessi specifici a parte (quale è il nostro per le annotazioni complementari della fotografia, dai fumetti, nel cinema, nella letteratura, in numismatica e via discorrendo), non è niente di più. Una curiosità della quale molti (tutti, forse) possono anche fare a meno. Oppure, no? ❖
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IL SIGNORE DEGLI ANELLI
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Associazione per la promozione di ricerca e diffusione delle arti fotografiche, grafiche, audiovisive e multimediali. Dalla storia della fotografia alle applicazioni attuali, sia in proiezione professionale sia con indirizzo non professionale. www.enpleinairfotografia.it
Cinema
di Maurizio Rebuzzini - Ricerca iconografica di Filippo Rebuzzini
FANTASIOSO PRE 1839
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Nel maggio 2011, abbiamo già presentato e commentato il brioso film Ladri di cadaveri - Burke & Hare, che nella propria identificazione italiana ha mantenuto l’originale Burke and Hare, che al pubblico anglosassone è bastato. Ora, si impone la ripresa e ripetizione, visto e considerato che in questo attuale 2014 ricorrono i centosettantacinque anni dall’annuncio e presentazione della fotografia: 18392014, come sottolineato in alcuni interventi pubblicati in questo stesso numero (da pagina 49, valutazioni storiche; da pagina 42, presentazione di un progetto fotografico attuale di Silvano Bonaguri, che riprende e rivitalizza processi delle origini), e come contiamo di fare ancora e ancora e ancora nel corso dell’anno.
Fotografia (?) nel film Ladri di cadaveri, del 2010, di John Landis. Interpretato dall’attore Allan Corduner, il proto fotografo Nicéphore (in omaggio esplicito a Niépce) fotografa un cadavere per contribuire alla creazione della mappa del corpo umano ambìta dal dottor Robert Knox (Tom Wilkinson), dell’Università di Edimburgo: nel 1828.
Torniamo a occuparci di Ladri di cadaveri - Burke & Hare, siccome la vicenda narrata si basa anche su un avvincente retrogusto fotografico, di assoluta fantasia. Sia chiarito subito: la Storia la si legge altrove, sui libri e, perché no?, sulle riviste specializzate, la nostra tra le altre (la nostra allineata alla campagna Una fotografia vale mille parole, pubblicata a pagina 9, commentata a fronte, realizzata in comunione di intenti da otto testate fotografiche italiane). Invece, al cinema va concessa una certa dose di invenzione e fantasia, congeniale alla sua stessa narrazione. Che poi, come nel caso specifico, questa sia in contrasto con la realtà, e persino con la Storia, è questione assolutamen-
te marginale e secondaria. Addirittura, non è neppure una questione. Brillante film di John Landis (il regista di cult cinematografici quali Animal House, del 1978, e The Blues Brothers, del 1980, entrambi con John Belushi, e del videoclip più famoso e costoso, Thriller, di Michael Jackson, del 1983), il film Ladri di cadaveri - Burke & Hare vanta numerosi meriti, sia per l’ottima scenografia e ricostruzione scenica sia per la vivace sceneggiatura. Anticipato e rivelato dal titolo italiano, ufficialmente, il film tratta un argomento oggettivamente spinoso: la sottrazione di cadaveri ad uso anatomico e universitario. Ufficiosamente, la vicenda è risolta in modo garbato, oltre che acuto.
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Cinema Siamo a Edimburgo, in Scozia, nel 1828, in un luogo e tempo nei quali le locali facoltà di medicina vantavano visioni e interpretazioni di assoluta avanguardia: osservate con attenzione dal mondo intero e valutate per l’originalità delle discipline. Alla resa dei conti, mentre i docenti in antagonismo serrato tra loro, tutti alla ricerca di un attestato regale, rimangono a bocca asciutta, il film attribuisce a William Hare, leggendario ladro di cadaveri assieme all’amico William Burke, l’idea originaria di organizzare esequie e seppellimenti a pagamento, con relativa attestazione pubblica.
CON PRE-FOTOGRAFIA Ma non è questo che ci interessa, quantomeno nel nostro ambito redazionale-giornalistico di osservazione della fotografia e delle proprie fenomenologie, soprattutto oggi, nel richiamo esplicito e ricercato alle celebrazioni dei Centosettantacinque anni di Fotografia. Neppure ci interessa-
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no le ottime interpretazioni di tutti i protagonisti della intricata e controversa vicenda di compra-vendita di cadaveri: Simon Pegg e Andy Serkis, nei panni dei serial killer a scopo lucrativo William Burke e William Hare, Tom Wilkinson e Tim Curry (il leggendario dottor Frank-N-Furter dell’epocale The Rocky Horror Picture Show, di Jim Sharman, del 1975), nei panni dei dottori antagonisti Robert Knox e Monro. E neanche stiamo qui a sottolineare l’ottimo impianto scenico e la brillante sceneggiatura, che antepone al 1828 usi, costumi e malcostumi dei nostri giorni. In tutti i casi, qualità di ordine cinematografico, sulle quali non siamo autorizzati a intervenire. Quello che ci interessa, al solito e come sempre, e oggi in misura addirittura mirata e finalizzata, è la presenza della fotografia, che fa capolino nella garbata sceneggiatura, stravolgendo un poco i propri tempi storici (ribadiamo, siamo nel 1828, undici anni prima delle date ufficiali del
La fantasiosa proto fotografia del film Ladri di cadaveri, che concediamo alla libertà della sceneggiatura, di qualsivoglia sceneggiatura, presuppone copie su carta ottenute con esposizioni brevi, nell’ordine di otto secondi in interno illuminato dal sole. Ma non importa: quello che conta, sempre e comunque, è la finalizzazione al racconto cinematografico.
1869; sette gennaio e diciannove agosto: annuncio e presentazione pubblica del dagherrotipo, procedimento originario della fotografia). Già... la fotografia nel 1828! Assoluta libertà cinematografica, che osserviamo con il sorriso sulle labbra, senza alcun rimprovero storico. Lo ribadiamo, confermandolo: è cinema; la storia la leggiamo e studiamo altrove. È cinema, che si concede allegre appropriazioni indebite, che non fanno alcuna vittima, né danno.
EVOCAZIONI SUADENTI Intenzionato a compilare una autentica e oggettiva mappa del corpo umano, più fedele e precisa di quanto possa essere disegnata (ma quanto lungimiranti sono state le raffigurazioni leonardesche, tra le tante del passato remoto!), l’accademico Robert Knox si affida all’opera di un amico francese, guarda caso di nome Nicéphore (garbata citazione di Niépce), che avrebbe tra le mani una (sua) nuova
Cinema invenzione: la natura che si fa di sé medesima pittrice, ovverosia le cose così come sono (a prestito dai pionieri della fotografia e in richiamo a e da quanto annotato dal filosofo sir Francis Bacon all’inizio del Seicento). Nel film, Nicéphore, interpretato dall’attore Allan Corduner, vanta i pregi della sua eliografia («Eliografia?», osserva il dottor Knox; «No, sarebbe più opportuno definirla fotografia»: ancora evviva, nonostante la completa fantasia del dialogo sceneggiato), con la quale si possono realizzare riproduzioni fedeli della realtà, senza intervento manuale, ma con la fantastica oggettività dell’osservazione ottica. Certo, l’ipotesi è cinematograficamente fantasiosa, sia perché antepone i risultati fotografici della ricerca pionieristica, sia perché traspone i personaggi, sia perché approda a risultati fantastici (copie seppia su carta di straordinaria nitidezza), con tempi di esposizione decisamente improbabili (otto secondi, in un interno illuminato dalla luce solare che arriva dalle finestre; per i dagherrotipi delle origini, in esterno soleggiato, si posava fino a dieci minuti, almeno). Però! Però, quanto fascino in questa collocazione della fotografia come supporto alla ricerca scientifica, undici anni prima della relazione con la quale, nell’agosto 1839, François Jean Dominique Arago presentò, commentandole, le possibilità implicite nell’applicazione della fotografia. Ancora, come già altrove, su questo stesso numero, con altro riferimento analogamente pertinente, riprendiamo dalla Relazione di Macedonio Melloni, del dodici novembre [in 18392009. Dalla Relazione di Macedonio Melloni alla svolta di Akio Morita]: «Tante perfezioni, riunite alla somma facilità e prontezza del metodo, hanno destato un entusiasmo universale. Dappertutto si ripetono le sperienze del Dagherrotipo, ognuno vorrebbe avere tra le mani questo prezioso strumento, ognuno bramerebbe impiegarlo, il più presto possibile, a ritrarre, non solo stampe, disegni, statue, monumenti, ma i quadri ad olio de’ nostri più celebri artisti, i più bei mazzi di fiori, e le vario-pinte farfalle. Invano si disse dell’Arago, dal Gay-Lussac, che il Dagherrotipo non poteva servire a copiare gli oggetti colorati; moltissimi sperano tuttavia ottenere sulle lamine
Consueto siparietto finale di molti film, che si concludono con l’epilogo delle esistenze successive dei protagonisti (come anche in Animal House, dello stesso regista John Landis). Dopo le vicende di Edimburgo (1828), in Ladri di cadaveri, il proto fotografo Nicéphore torna in Francia, dove mette a frutto la sua invenzione: fotografia di gruppo familiare (cameo: in posa, la famiglia del regista Costa-Gavras).
dagherriane, se non i vivi e svariati colori che ci presentano la natura ed il genio delle arti, almeno le loro traduzioni esatte in chiaroscuro. Anzi abbiam udito non pochi pittori proporsi di studiare queste copie con gran frutto rispetto alle intensità relative delle tinte, ed ai punti ove devon figurarsi nelle loro composizioni ad olio la massima e la minima illuminazione».
ANCHE IN NARRATIVA Comunque, tornando alle libertà che si concede la sceneggiatura cinematografica, al fine di raccontare le proprie avvincenti storie, non possiamo sorvolare su una sostanziosa corrispondenza letteraria. Dunque, richiamiamo anche qui Luce proibita, romanzo di David Rocklin che ruota attorno esperimenti primitivi della fotografia. Non è un saggio, né uno studio approfondito sulla materia, ma soltanto una narrazione di pura fantasia, estranea a qualsivoglia obbligo storico e/o temporale.
A conti fatti, la fotografia nascente non è soltanto il collante di una vicenda di altro profilo (nella quale sovrasta l’idea di impero britannico alla conquista di Ceylon, alla vigilia della metà dell’Ottocento), ma è proprio il motivo conduttore, al quale tutto il resto fa soprattutto riferimento. Con fantasia, l’autore retrodata di qualche decennio la personalità fotografica di Julia Margaret Cameron (1815-1879), che vi si dedicò dal 1863, riferendola alla protagonista Catherine Colebrook e al 1836 e poco oltre, assegnandole altresì un ruolo sperimentale e pionieristico di pura fantasia. Subito rilevato che le affinità tra Julia Margaret Cameron e la protagonista del romanzo Catherine Colebrook non si esauriscono nella sola visione fotografica, seppure reinventata (come stiamo per vedere), ma si estendono su tutto il racconto: anche Catherine Colebrook è moglie di un funzionario britannico, agisce a Ceylon (dove Julia Margaret Cameron è man-
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Cinema cata, il 26 gennaio 1879) e si trasferisce all’Isola di Wight (dove la famiglia Cameron visse dal 1860). Anche Dimbola, la residenza di Ceylon di Catherine Colebrook, è derivata/ispirata a Dimbola Lodge, la residenza dei Cameron sull’Isola di Wight, che oggi ospita un museo ed esposizioni permanenti di Julia Margaret Cameron. A differenza della realtà, Luce proibita, di David Rocklin, racconta degli esperimenti primigeni di Catherine Colebrook, considerata e riferita come uno dei pionieri alla ricerca della natura che di fa di sé medesima pittrice, che già lei intende come “fotografia”. E questi salti temporali, queste alterazioni/modifiche non ci scompongono minimamente, neppure dal punto di vista mirato (e viziato) della nostra competenza in materia: infatti, non si tratta di un resoconto storico, ma di una narrazione di pura fantasia. Probabilmente, di straordinaria fantasia. In ogni caso, Luce proibita è un romanzo appetibile e gradevole, che si
legge con piacere e si segue con attenzione. Lasciando perdere le nostre preparazioni specifiche, che qui riguardano le alterazioni fotografiche (che si estendono a improbabili condizioni di ripresa, soprattutto alla vigilia del fatidico 1839 di nascita), il resto scorre via bene: con il colonialismo inglese a fare da padrone. Come rivela il titolo, adeguata interpretazione dell’originario The Luminist, la visione trasversale del racconto riguarda soprattutto la capacità del giovane tamil Eligius -servo/aiutante di Catherine- di dominare e guidare la luce, sapientemente finalizzata alle esigenze della fotografia. A seguire, si rincorrono osservazioni e valutazioni sulla nuova arte, che qui viene dibattuta decenni prima della sua effettiva disputa, in ovvia contrapposizione all’arte pittorica. A questo proposito, tante e (anche) sostanziose le rilevazioni che si potrebbero estrarre. Una, sopra tutte; una, per tutte: «Credo che non sia facile capire in
Luce proibita, di David Rocklin; Neri Pozza Editore, 2011; 336 pagine 14x21,5cm; 17,00 euro. In copertina: Tristezza (ritratto dell’attrice Ellen Terry), di Julia Margaret Cameron; 1864.
che modo vogliamo mostrarci», osserva Julia, figlia di Catherine, divisa tra le tele del promesso sposo George Wynfield, altezzoso figlio del governatore di Ceylon, e gli esperimenti fotografici della madre. Catherine Colebrook è determinata e risoluta. È interamente presa dalla propria opera e convinta del suo agire; sottolinea il proprio punto di vista, in risposta a obiezioni, che non disconosce: «Non intendo denigrare gli apprezzati talenti [dei pittori]. Tuttavia, ogni istante contiene qualcosa in grado di sorprendere l’occhio e il cuore. Non può essere altrimenti. Un dipinto cerca di creare una sintesi di diversi momenti. Io, invece, mi sforzo di cogliere l’istante. Punto la fotocamera [sic] e aspetto, fiduciosa di riuscire a vedere. Cercherò di migliorare il processo. Quando riuscirò a perfezionarlo, posso farvi un ritratto?». Già... magia della fotografia. Luce, e poco d’altro. Da centosettantacinque anni. ❖
QUANTE
STORIE! Steve McCurry. Le storie dietro le fotografie; Electa-Phaidon, 2013; 264 pagine 24x34cm; 320 illustrazioni; 59,00 euro. ❯ Prefazione / Scattate sotto tiro / L’India vista dal treno / Monsone / La ragazza afghana / Dopo la Tempesta / La porta dell’India / Nella valle del dolore, il Kashmir / Santuario: i templi di Angkor / Un paese a parte / 11 settembre / I tibetani / Oltre il cammino di Buddha / Hazara: stranieri in patria / Access to Life: in lotta con HIV/AIDS / Cronologia / Premi, esposizioni, pubblicazioni / Indice.
di Angelo Galantini
D Steve McCurry: Madre con bambino, che guardano dal finestrino all’interno di un taxi (Bombay, India; 1993).
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iciassette settembre: data fondante per una larga schiera, quantità e qualità di persone, soprattutto giovani, ma non soltanto giovani: in tutto il mondo, in simultanea (Giappone escluso), è iniziata la vendita del tanto atteso gioco GTA 5, altrove identificato GTA V, ma non cambia nulla: quinta versione, definitiva (!?) del più celebre e fortunato e seguìto gioco dei nostri giorni, acronimo di Grand Theft Auto, annunciato da tempo, allestito con una intensa campagna di preannunci e rivelazioni che hanno innescato un interesse assoluto, oltre ogni aspettativa, con una prevendita già sostanziosa per se stessa. Lo stesso diciassette settembre, senza clamori né dichiarazioni roboanti (che invece hanno accompagnato l’iter commerciale di GTA 5 ), nelle librerie italiane è arrivato un volume a dir poco fondamentale per coloro i quali, e speriamo siano tanti, hanno interesse e piacere e attrattiva per la fotografia, soprattutto commentata e vissuta con partecipazione. Non sono molti i fotografi che
sanno anche parlare delle proprie immagini e del proprio ruolo all’interno della complessa disciplina espressiva. Quelli che lo fanno, che lo sanno fare, solitamente si esprimono con puntiglio, impegno e straordinaria capacità narrativa. È il caso, eccoci qui, di Le storie dietro le fotografie, compilato dal seguìto e apprezzato Steve McCurry, fotografo che racconta le esistenze sia in forma di luoghi sia in ritratto: numerose sono le sue monografie d’autore, che scandiscono i temi di una professione condotta sempre con rigore e impegno oltre l’ordinario. In aneddoto di aggiunta, ricordiamo che a lui è stato affidato l’ultimo rullino di Kodachrome, prima del suo definitivo pensionamento, alla fine del 2010 [FOTOgraphia, ottobre 2009 e dicembre 2010]. Dopo di che, per non lasciare a bocca asciutta coloro i quali sono meno addentro ai meandri della fotografia, ricordiamo ancora che Steve McCurry è l’autore di quel ritratto della profuga afghana, una delle icone della fotografia contemporanea e del mondo nel proprio insieme e complesso (oltre le logiche settoriali): riquadro da pagina 26. (continua a pagina 30)
«In trent’anni di carriera, le innumerevoli volte in cui ho sfiorato il peggio e un paio di autentici disastri non sono riusciti a raffreddare la mia passione per la fotografia e per i viaggi, che mi hanno portato in luoghi di sorprendente bellezza, ma anche in posti che vorrei dimenticare» Steve McCurry
In curiosa combinazione -Mondadori Electa con Phaidon (?)-, l’edizione italiana Le storie dietro le fotografie, che presenta e offre intense riflessioni dell’affermato fotografo Steve McCurry, accompagnate da sue fotografie, da testimonianze del suo lavoro e da visioni che appartengono alla storia della fotografia, è un’occasione imperdibile per approfondire il senso e valore dell’osservazione che va oltre la sola e semplice visione: non soltanto guardare al naturale, come siamo tutti capaci di fare, ma capire, per raccontare. Parole di spessore, considerazioni delle quali fare prezioso tesoro, valutazioni che arricchiscono il bagaglio individuale e la consapevolezza della fotografia (di ciò che deve essere la fotografia), ragionamenti impeccabili, meditazioni essenziali e vitali. Hai detto poco... 25
LA RAGAZZA AFGHANA
«È un sollievo scoprire che Sharbat sia sopravvissuta e sia riuscita a ricavarsi in qualche modo una vita. Spero che il nostro nuovo incontro sia positivo, per lei e la sua famiglia. Rimarrò in contatto con lei per il resto della mia vita. Che fortuna averla trovata adesso. Il governo pakistano sta per smantellare il campo profughi per costruirvi case. Se l’avessimo cercata fra un anno, sarebbe stato inutile: è solo grazie ai contatti del campo che siamo riusciti a rintracciarla. L’Afghanistan è piombato nelle tenebre da oltre vent’anni. Il fatto che lei sia ricomparsa adesso, forse è un buon presagio: un segno di speranza. Chissà: aspettiamo, vedremo...». Oggi, come diciassette anni fa [più altri undici], il contatto tra Steve McCurry e Sharbat Gula si è consumato, ancora una volta, attraverso l’obiettivo. Stavolta, però, le è stato più facile posare lo sguardo verso la macchina fotografica, piuttosto che sul fotografo. Ora, Sharbat Gula è una donna sposata: le è proibito incontrare gli occhi di un uomo che non sia suo marito. La conversazione con Steve McCurry, racconta lo stesso fotografo, è stata breve, con poco spazio per le emozioni. Come ha ribadito National Geographic Italia, di aprile 2002: «Lei quell’attimo [dello scatto originario] lo ricorda bene. C’era uno straniero, che le scattò una fotografia. Ricorda anche la rabbia. L’uomo veniva da fuori. Nessuno l’aveva fotografata prima d’allora. Né sarebbe più accaduto, finché, diciassette anni dopo, è rispuntato quell’uomo». Anche Steve McCurry ricorda bene quel giorno. Ancora da National Geographic Italia, di aprile 2002, fascicolo che -proprio per il racconto di questa vicenda- entra a far parte dell’ipotetico (costituente?) archivio della memoria fotografica (quello che dovrebbe raccogliere le testimonianze della vitalità di questo nostro mondo, capace di esprimere emozioni -e tanto altroa trecentosessanta gradi): «La luce era morbida. Il campo profughi in Pakistan era un mare di tende. [Steve McCurry] entrò in quella della scuola e, fra tutte le ragazze, notò per prima lei. Ma era timida, e perciò l’avvicinò per ultima. Lei gli diede il permesso di fotografarla. Era un ritratto uguale a tanti altri, pensò: “una delle tante fotografie scattate quel giorno”, ricorda, tornando a quel mattino del 1984 trascorso a documentare l’odissea dei profughi dell’Afghanistan». Invece, l’immagine di quegli occhi sgranati e penetranti conquistò la copertina di National Geographic, del giugno 1985, afferrando subito il cuore del mondo. (continua a pagina 29)
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La prima pubblicazione (originaria) del ritratto della giovane profuga afghana è stata sulla copertina di National Geographic, del giugno 1985 (a sinistra). Da allora, questo ritratto-icona è diventato sia simbolo sociale sia autentico marchio di ”fabbrica” di Steve McCurry, sempre vincolato a questa sua immagine (firma su poster, al Photo East 1999, di New York City). Dal 2002, la vicenda della profuga afghana ha avuto il proprio aggiornamento con il ritrovamento, a distanza di diciasette anni, celebrato da National Geographic nell’aprile (prossima pagina), prontamente cavalcato dal mondo fotografico: per esempio, nello stand Kodak, alla Photokina 2002 (qui sopra).
MAURIZIO REBUZZINI
ARCHIVIO FOTOGRAPHIA
ANGELO GALANTINI
Per quanto celebrato da molti, il ritrovamento della profuga afghana fotografata da Steve McCurry, icona fotografica di fine secolo, alla quale si fa spesso riferimento, non ci ha mai entusiasmati. Ne scrivemmo in cronaca (o quasi), undici anni fa, nel novembre 2002, e qui replichiamo l’essenza delle nostre note. La vicenda di una delle più celebri fotografie di Steve McCurry, membro dell’Agenzia Magnum Photos dal 1990, è stata approfondita sull’edizione italiana di National Geographic, di aprile [2002] (corrispondente all’originaria statunitense, datata allo stesso aprile). Ci riferiamo al ritratto di Sharbat Gula, il cui volto tredicenne ha fatto il giro del mondo, divenendo a un tempo simbolo sia dell’Afghanistan in guerra (la fotografia è del 1984, e a volte viene datata 1985) sia “marchio di fabbrica” della capacità fotografica dello stesso Steve McCurry. Riprendiamo le annotazioni giornalistiche del caso, così come sono apparse nelle rievocazioni della vicenda, a partire dall’articolo pubblicato dal milanese Corriere della Sera, del tredici marzo. Il racconto si virgoletta quando lo statunitense Steve McCurry testimonia in prima persona: «Mi avevano detto che era sepolta al lato di una strada. Poi che era andata in Canada. Poi che era morta per una malattia ai polmoni. Poi che era tornata in Afghanistan. In questi anni, mi hanno detto così tante cose che pensavo di non incontrarla più. Ma quando è arrivata e ha sollevato il burqa, ho visto i suoi occhi. Era lei. Era viva.
ARCHIVIO FOTOGRAPHIA (2)
Lanciato in copertina da National Geographic, nell’aprile 2002, sia in edizione originaria, sia in edizione italiana, il servizio dedicato al ritrovamento della profuga afghana, rintracciata dopo diciasette anni, ha incluso la comparazione diretta tra i due ritratti nel Tempo. La trasformazione del volto è evidente: specchio di Vita e di Esistenza.
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ARCHIVIO FOTOGRAPHIA (2)
Cronaca diretta, o quasi. Ottobre 2013: ennesima replica della profuga afghana, come richiamo evidente e a tutti riconoscibile (!), in occasione dell’edizione speciale di National Geographic Italia celebrativa dei centoventicinque anni della testata (originaria). Ancora e sempre, uno Speciale Fotografia, linguaggio esplicito della testata.
ARCHIVIO FOTOGRAPHIA (2)
(continua da pagina 26) A un tempo simbolo di una vicenda e di tutte le sofferenze dei nostri tempi, quel ritratto ha superato ogni confine prestabilito, divenendo autentica icona, una di quelle che la Fotografia consegna direttamente alla Storia. La rievocazione, con relativa storia di corollario, che National Geographic e National Geographic Italia, di aprile [2002], approfondiscono con un dettagliato articolo, non aggiunge niente alla vicenda originaria, come del resto non le toglie nulla. Ciò che oggi si racconta è soltanto costume e gioco delle parti, soprattutto gradito alla sottocultura del chiacchierio (se non già di una forma di “pettegolezzo”), dis/educato dalla televisione dei sentimenti grossolani: da Raffaella Carrà a Maria De Filippi, da Chi l’ha visto a “Ci facciamo i fatti vostri” (ammesso, e non concesso, che di Fatti proprio si tratti). Usato in diverse occasioni, sia in riferimento agli specifici ambiti del reportage e delle monografie periodiche di National Geographic, sia per illustrare altri tipi di rievocazioni e memorie, quello della piccola profuga (alla quale non serve affatto dare un nome e una vita successiva: matrimonio e figli) è uno sguardo capace di esprimere e rappresentare infiniti significati. Come spesso scriviamo, a ciascuno i propri: in relazione e dipendenza diretta a quella forza del linguaggio fotografico che sa essere, ed è, sentimento, evocazione, anima, poesia. Vita. In effetti, l’argomento dell’identificazione di volti/icone (tanti ce ne sono nella storia della fotografia) è intrigante. Ignorate per decenni, da qualche tempo le immagini sono diventate
Nel corso degli anni, il ritratto della profuga afghana è stato interpretato come motivo conduttore sia delle edizioni speciali di National Geographic (a sinistra, un esempio tra i tanti, del gennaio 2003), sia della fotografia di Steve McCurry (a destra, una monografia del 1999)
strumenti di indagine storica. Come annota Peter Burke, nel recente saggio Testimoni oculari, pubblicato da Carocci Editore, (sottotitolo Il significato storico delle immagini), «Gli storici delle ultime generazioni hanno sensibilmente ampliato il ventaglio dei propri interessi, arrivando a includere non soltanto gli avvenimenti politici, le tendenze economiche e le strutture, ma anche la storia delle mentalità, la storia della vita quotidiana, la storia della cultura materiale, la storia del corpo e così via. Certo, non avrebbero potuto condurre a termine le proprie ricerche in campi relativamente nuovi come questi se si fossero limitati alle fonti tradizionali [...]. Per tale ragione, si è progressivamente affermato il ricorso a un repertorio sempre più ampio di prove dove, accanto al testo letterario e alla testimonianza orale, ha trovato posto l’immagine». Così l’immagine (fotografica) sta affermando un proprio valore canonico là dove la testimonianza reale che raccoglie e sintetizza può varcare il confine del Tempo, assegnandogli un conseguente proprio valore effettivo. Questo processo, simultaneamente estraneo e partecipe dell’iter del linguaggio fotografico, si svolge in un territorio parallelo a quello propriamente fotografico, nel quale sarebbero peraltro necessarie analoghe riflessioni, coincidenti osservazioni. Ma! Ma il clima è ormai tale che, come spesso abbiamo rilevato, oggi possiamo soltanto soprassedere, aspettando momenti più propizi all’approfondimento, al dibattito, all’incontro di idee. Alla luce della vicenda del ritratto eseguito da Steve McCurry, sul quale National Geographic è tornato con le visualizzazioni e gli aggiornamenti appena annotati, possiamo però accennare a una delle magie della fotografia, che vorremmo rimanesse tale, appunto magia, sogno, evocazione, anima, illusione, poesia. Vita. Non ci interessa nulla sapere come ha proseguito la propria (disperata?) esistenza la Migrant Mother fotografata da Dorothea Lange, nel 1936; non ci serve a nulla conoscere i nomi dei tre giovani che August Sander ha fissato nei propri abiti della festa (però apprezziamo il fantastico romanzo Tre contadini che vanno a ballare, di Richard Powers, pubblicato in Italia da Bollati Boringhieri, nel 1991, appunto ispirato da quella/a quella fotografia, che agisce pure sull’anima e l’invenzione personale [FOTOgraphia, luglio 2011]); non ci importa se il miliziano di Capa è veramente morto o si è salvato. E neppure vorremmo che l’anonimo camionista di Duel, primo film di Steven Spielberg, acquisisse un volto d’attore. Nessuna informazione addizionale può aggiungere qualcosa a queste fotografie, e a tante altre immagini (anche se ci siamo riferiti a quattro soli esempi). Casomai, può solo appagare quel non-gusto che sta ormai diffondendosi a macchia d’olio, sollecitato dalla cialtroneria di tanta televisione e altrettanto pseudo/giornalismo dei nostri tempi. E da tutto questo -sia chiaro- ci chiamiamo fuori.
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Copertina e pagine dei diari di Steve McCurry.
Steve McCurry: Fotografo ritrattista (Kabul, Afghanistan; 1992).
Steve McCurry: Il guardiano del tempio con il suo cane (Ta Promh, Angkor, Cambogia; 1999).
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(continua da pagina 24) A differenza di ogni altra sua monografia d’autore, per quanto anche abbondantemente illustrato, l’attuale Le storie dietro le fotografie è un libro di parole, riflessioni, racconti, osservazioni, approfondimenti; soprattutto di questo. A partire da un annunciato sguardo inedito sul “dietro le quinte” del suo lavoro, Steve McCurry si spinge fino a considerazioni filosofiche ed etiche (e morali) che governano e guidano (che dovrebbero governare e guidare) l’azione del fotogiornalismo, in particolare, e della fotografia, in generale. Per quanto siamo convinti che non esista alcuna etica specifica della fotografia, ma si debba rispondere sempre e comunque a un’etica assoluta e dominante, i richiami, riferimenti e appelli di Steve McCurry sono di valore sostanziale. Ufficialmente, il racconto esplora e narra il modo con il quale l’autore -uno dei massimi esponenti della fotografia contemporanea- individua, trova, scatta e seleziona le sue intense immagini. In particolare, il resoconto si concentra su quattordici fotoreportage, realizzati nel corso della lunga carriera: avvalendosi anche di richiami alla sto-
ria del linguaggio fotografico, alla sua evoluzione e alla sua definizione, Steve McCurry presenta storie delle quali è stato testimone, che è andato faticosamente a cercare o che sono apparse davanti ai suoi occhi quasi inaspettatamente. Dal Pakistan alla Cina, dall’India all’Afghanistan, attraverso l’area montuosa dell’Himalaya, dal Nepal all’Australia, dall’Indonesia al Bangladesh, fino allo Yemen e in Kuwait, il centro di ogni fotografia sono l’uomo radicato nel proprio contesto di origine, la sua vita sociale, le sue abitudini, i drammi, i sogni e tanta imponente natura. L’impianto redazionale di Le storie dietro le fotografie è diretto e manifesto: ogni storia è illustrata con appunti, immagini, ricordi e circa centoventi immagini riprese dai più significativi reportage realizzati dallo stesso Steve McCurry. Accanto alle fotografie, per ogni reportage, il libro presenta un vasto archivio formato da materiali non fotografici, molti dei quali inediti: oggetti, diari, documenti, articoli di giornale, mappe, lasciapassare per la stampa e altra memorabilia. Ne scaturisce un racconto a base fotografica, con retrogusto sociale e storico (o l’e-
satto percorso contrario: dalla vita alla fotografia), che analizza i contesti politici entro i quali e per i quali ogni reportage è stato effettuato. Le vicende raccontate abbracciano una vasta gamma di temi e soggetti, tra i quali le ferrovie indiane (1983), gli effetti del monsone (1984) e gli eventi legati all’Undici settembre (2001). Il volume presenta anche lavori meno noti, come quello sulle conseguenze ambientali della prima guerra del Golfo (1991) e sulla tribù Hazara, in Afghanistan (2007). E poi, è descritta la ricerca e il ritrovamento, nel 2002, da parte di Steve McCurry e di un team del National Geographic, della famosa Ragazza afghana (che era stata sulla copertina del mensile nel 1985): Sharbat Gula, la cui identità è rimasta sconosciuta per diciassette anni [ancora, riquadro da pagina 26]. Attraverso la narrazione critica, basata su appunti che Steve McCurry ha raccolto sul campo, in situazioni talvolta entusiasmanti e altre volte estreme o pericolose, ognuno può cogliere spunti, idee sulla ricerca, esperienza e eventi che si celano dietro ogni immagine. Fino a svelare una affascinante visione del lavoro del fotografo. ❖
Lo statunitense Steve McCurry è nato nel 1950, a Philadelphia. È considerato uno dei fotografi contemporanei più significativi. Le sue fotografie documentano esperienze umane e dimostrano un’eccezionale capacità di travalicare i confini dei linguaggi e delle culture. La sua carriera è cominciata quando, più di trent’anni fa, travestito da indigeno, attraversò il confine tra il Pakistan e l’Afghanistan. Quel suo eccezionale reportage gli fece vincere la Robert Capa Gold Medal, uno tra i premi di maggior prestigio al mondo, conferito ai più coraggiosi e intraprendenti fotogiornalisti. Le sue fotografie sono oggi un esempio alto di intensità e partecipazione. Collaboratore di molti periodici internazionali, tra i quali National Geographic Magazine, Steve McCurry fa parte dell’agenzia Magnum Photos. Ha vinto quattro primi premi del World Press Photo, nello stesso anno, fatto senza precedenti. Nel 2009, in occasione di una sua antologica al Palazzo della Ragione, è stato insignito dell’Ambrogino d’Oro, dal Comune di Milano (riconoscimento fuori luogo, per il solito riservato a personalità che si sono distinte in città: ma... la piaggeria non ha limiti, né confini).
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dal 1948 Prima interpretazione moderna di costruzione fotografica a banco ottico, nelle consuete configurazioni per i tre formati di ripresa su pellicola piana: 4x5 pollici (10,2x12,4cm) / 9x12cm, 13x18cm / 5x7 pollici (12,4x17,8cm) e 8x10 pollici (20,4x25,4cm) / 18x24cm. Progetto originario di Carl Koch, terza generazione di una famiglia di fotografi di Shaffhausen, all’estremo nord della Svizzera, al confine con la Germania, avviata da Carl August (nonno), nel 1879. In origine, Sinar in acronimo di Studio - INdustria - ARchitettura; dal 1984 (della Sinar p2), Studio - Industria - Architettura - Natura - Riproduzione. Prima della Sinar-p, arrivata all’esordio degli anni Settanta, non furono preordinate definizioni di modello; per consuetudine, la classificazione “Norma” distinse soltanto la dotazione standard da quelle commerciali complete di elementi di uso e accessori. In ogni caso, e comunque, primo sostanzioso sistema fotografico moderno a banco ottico.
Sinar Norma
www.newoldcamera.com
VOLTI DEL
Alcide Boaretto con Lawrence Schiller, che gli ha appena dedicato una copia della sua avvincente monografia Marilyn and Me, pubblicata da Taschen Verlag, nel 2012, in occasione del Festival di Cannes, al quale il fotografo padovano interviene per avvicinare il mondo del cinema.
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CHARLIZE THERON (MOSTRA INTERNAZIONALE D’ARTE CINEMATOGRAFICA; VENEZIA, 2007)
PIERO OLISOI
Afferma Alcide Boaretto: «Poter pubblicare centinaia di scatti e renderli pubblici pochi minuti dopo, come oggi si può fare, affidarli a un capo redattore per un articolo, presentarli in mostre personali e/o collettive è una grande soddisfazione. Mi appaga e mi rende sempre di più perfezionista del bello». Fotografia d’amore. Ma, soprattutto, fotografia che rivela molto dell’autore, che si offre all’osservazione complessiva
CINEMA
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GEORGE CLOONEY (MOSTRA INTERNAZIONALE D’ARTE CINEMATOGRAFICA; VENEZIA, 2011)
di Maurizio Rebuzzini
A
lcide Boaretto, padovano, ha percorso un tragitto fotografico comune a molti autori della sua età... sessanta in abbondanza. La sua è una generazione (soltanto italiana?) nata da una dichiarata passione per gli strumenti della fotografia. Diversamente da chi è arrivato prima, e da chi sarebbe sopraggiunto dopo, ognuno dei quali legato ad altri richiami fotografici -tutti propri, tutti generazionali-, Alcide Boaretto ha scandito i tempi di gloriose testate di settore, che in momenti adeguati hanno impeccabilmente interpretato la propria epoca, i sogni dei propri lettori, le aspettative di tutti, non soltanto di molti.
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Così, la sua formazione è in pertinente equilibrio tra consapevolezza della dotazione tecnica indispensabile e richiami/riferimenti a mirabolanti interpreti della fotografia del Novecento. Proprio da questi, siamo sinceri, ha fatto tesoro di situazioni, convinzioni e rispettivi percorsi... anche dei più semplici e quotidiani. Tanto che, alla maniera di molti Grandi, e qui la maiuscola si impone, anche Alcide Boaretto ha chiaramente afferrato il senso appartato di qualsivoglia intenzione fotografica convinta e consapevole. La sua ricerca del bello, che definisce il corpus della sua fotografia, dalla cui totalità, oggi e qui, estraiamo un capitolo/progetto di avvincente fascino, quello dei personaggi e protagonisti di Festival cinematografici, è scandita al ritmo di una seducente e suggestiva storia parallela.
CARA DELEVINGNE (FESTIVAL DE CANNES; 2013)
Ancora, alla maniera di molti Grandi, e la maiuscola continua a imporsi, anche Alcide Boaretto vanta una origine lontana nel tempo, oltre che nei tempi (soprattutto, rispetto la confusione dei nostri giorni, così sciagurati). Con malcelato orgoglio, in biografia, può affermare «Per il mio compleanno di sedici anni, mio padre mi regalò una Comet Bencini». Ecco qui, un ingresso in fotografia che affonda le proprie solide radici in un rapporto strumentale, che ha anche ragione di maturare nel puro e dichiarato feticismo, del senso e piacere tattile, al quale siamo partecipi in molti, noi compresi (va detto! va affermato! va riconosciuto!). «In una prima camera oscura improvvisata, ma gratificante, ma eccitante, usavo come bacinelle di trattamento una serie di sottovasi per fiori, recuperati dai materiali di lavorazione di
mio padre giardiniere. Ricordo che erano porosi (e non di plastica, come si usava comunemente, e come si è fatto ancora per decenni e decenni), e assorbivano maledettamente i prodotti chimici. Al posto dell’ingranditore, che sarebbe arrivato poi, adattai un proiettore cinematografico a manovella, comperato da un rigattiere; ricordo che lo fissai a uno stativo rudimentale, per proiettare in verticale». Quindi, si registra la scoperta delle riviste di settore, la cui precedente tranquillità fu sconvolta, nel 1966, dall’avveniristico e profetico mensile Fotografare (c’è ancora oggi), che il creatore Francesco Ciapanna, in arte Cesco, declinò sulla falsariga delle più autorevoli testate internazionali. Su quelle pagine, l’affascinante miserabilismo (valore positivo) delle soluzioni individuali (per esempio, lo ricordiamo bene an-
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che noi, il consiglio di usare per il trattamento in camera oscura delle pellicole comune detersivo da cucina, da pochi soldi, in vece del costoso imbibente confezionato) si allineò con concrete analisi e disamine delle attrezzature, a partire dalle ambite reflex giapponesi... da non credere, spesso snobbate (!) dalle riviste più conservatrici del tempo: «Fu folgorazione. I primi risparmi messi da parte furono per la Nikkormat FTn; poi, per la agognata Nikon F». Storia parallela, abbiamo annotato (su suggerimento esplicito dell’autore fotografo). Dopo il come, arriva il perché! Alcide Boaretto è presto attirato dal mondo dello spettacolo, a partire dalla musica, che in quegli anni Sessanta stava vivendo e facendo vivere una svolta epocale. [A questo proposito, Beatles a parte, che abbiamo appena evocato, in occasione del cin-
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quantenario del loro ultimo concerto “minore”, in FOTOgraphia, dello scorso dicembre, ricordiamo anche che a gennaio si sono conteggiati altrettanti cinquant’anni dalla pubblicazione dell’epocale album di Bob Dylan, il terzo della sua lunga e lunga carriera, intitolato con la canzone con la quale, per decenni, a seguito dell’attentato mortale al presidente John Fitzgerald Kennedy (FOTOgraphia, novembre 2013), ha iniziato i propri concerti: The Times They Are a-Changin’ (Come gather ’round people / Wherever you roam / And admit that the waters / Around you have grown / And accept it that soon / Yoùll be drenched to the bone. / If your time to you / Is worth savin’ / Then you better start swimmin’ / Or yoùll sink like a stone / For the times they are a-changin’ // Venite intorno gente / Dovunque voi vagate / E ammettete che le acque / Attorno a voi
SPIKE LEE (MOSTRA INTERNAZIONALE D’ARTE CINEMATOGRAFICA; VENEZIA, 2012) MANUELA VELASCO (MOSTRA INTERNAZIONALE D’ARTE CINEMATOGRAFICA; VENEZIA, 2009)
stanno crescendo / E accettate che presto / Sarete inzuppati fino all’osso. / E se il tempo per voi / Rappresenta qualcosa / Fareste meglio a cominciare a nuotare / O affonderete come pietre / Perché i tempi stanno cambiando)]. Già. I tempi stanno cambiando: e la musica dava ad Alcide Boaretto un’energia che richiedeva impellentemente di essere interpretata dalla sua fotografia, a ridosso dei palco (o “sul” palco, come solo allora si poteva fare). A un concerto di Adriano Celentano, si registra un incontro fondamentale: con Cihan Akerson, giovane turco, studente alla celeberrima Università di Padova, corrispondente per l’Italia di Milliyet, il quotidiano più importante del paese, e Hey, settimanale per giovani. Questa è stata la prima finalità fotografica concreta di Alcide Boaretto, che cominciò a fornire fotografie per illustra-
re i suoi articoli. Ovviamente, l’Italia era ben vista in Turchia; soprattutto alla luce della vitalità del Festival di Sanremo e del tour estivo del Festivalbar, si esportava musica nel mondo. Contando sempre su questa collaborazione, al fotografo padovano sono state aperte le porte per epocali concerti musicali che si sono tenuti nel nostro paese: Madonna, i Wings di Paul McCartney, a piazza San Marco, a Venezia, i Pink Floyd, sempre a Venezia, in una magica notte del luglio 1989. Dalla musica al cinema, inteso nei suoi personaggi e protagonisti, il passo è stato breve, oltre che logico. Da anni, Alcide Boaretto segue attivamente i due maggiori Festival europei del cinema -fine estate, a Venezia; primavera, a Cannes-, nei cui tumultuosi svolgimenti inserisce la sua indomita intenzione verso il bello, qualunque cosa questo voglia dire. Allineando
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NICOLE KIDMAN (MOSTRA INTERNAZIONALE D’ARTE CINEMATOGRAFICA; VENEZIA, 2004)
SCARLETT JOHANSSON (MOSTRA INTERNAZIONALE D’ARTE CINEMATOGRAFICA; VENEZIA, 2013) LEONARDO DICAPRIO (FESTIVAL DE CANNES; 2013)
princìpi di reportage con condizioni di ritratto, declina una fotografia suadente, che celebra i soggetti inquadrati. Sia detto, va detto: qualcuno potrebbe anche prendere le distanze da questo mondo. Ma non è qui il problema, ammesso e non concesso che di questo (problema) si tratti. A prescindere dai soggetti e circostanze, oppure allineandosi con gli stessi soggetti (a ciascuno, il suo), ciò che va riconosciuto a questa fotografia di Alcide Boaretto è qualcosa che, paradossalmente, fa degli stessi soggetti interpreti involontari di una volontà dichiarata: quella di guardare al mondo con occhio sereno, oltre che vigile, alla ricerca di emozioni positive e gratificanti. Di fatto, nei fatti, Alcide Boaretto declina un intrigante gesto d’amore (per quanto, dato l’argomento, non soltanto suo): ed è sempre
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e comunque questo che conta. Soltanto, non soprattutto. Se la fotografia non è declinata e interpretata e frequentata come gesto d’amore significa nulla, vale poco. Quindi, non ci interessa condividere con Alcide Boaretto alcuna delle sue intenzioni trasversali (o forse, sì, ci potrebbe interessare: ma non conta, ma sarebbero fatti nostri privati), quanto ricevere ciò che la sua dedizione fotografica esprime ed è capace di esprimere. In fondo, ma neppure poi tanto in fondo, siamo anche convinti che sia proprio questo il senso di ogni genere di fotografia. Non è detto che una fotografia dica qualcosa del suo soggetto. Ma se la osservate attentamente, e se siete stati voi a scattarla, vi può rivelare molto su voi stessi. Ovvero, sull’autore. ❖
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LES JEUX di Angelo Galantini
certezze, e -spodestata da nuove tecnologie- rischia di cadere nell’oblio. Pertanto, si avverte impellente l’esigenza di una fotografia utore di una pregevole monografia I miei padri, che che riscopra se stessa, che rifletta sulla sua ricca e affascinante si specifica in Excursus nell’archeologia fotografi- storia, sulle sue ancora non totalmente sondate possibilità di linca, il forlivese Silvano Bonaguri frequenta e mani- guaggio, per riproporsi come straordinario mezzo espressivo». festa una espressività fotografica degna di nota. Tutto qui... e non è certo poco, né nelle intenzioni, né - tantoAnzi, degna di più di una sola nota. Tanti sono i suoi meno- nella propria interpretazione, che Silvano Bonaguri dedipercorsi, tutti declinati nel sapore delle origini del- ca in successione serrata a Charles-François Tiphaigne de la Rola fotografia: intenzioni attuali con che, Joseph Nicéphore Niépce, Louis processi/procedimenti antichi. Ecco Jacques Mandé Daguerre, Hippolyte quindi, una passerella d’obbligo, in Bayard, William Henry Fox Talbot, sir questo avvio di anno, nel celebrabiJohn Frederick William Herschel, Man le centosettantacinquesimo anniverRay, Ugo Mulas e Johan August Strinsario dalle date ufficiali di nascita dberg [siamo convinti che i pionieri/ della fotografia (1839-2014), che padri della fotografia non debbano esper nostro conto celebriamo e celesere commentati; mentre è opportubreremo con una serie di annotaziono specificare altre presenze in queni e osservazioni omogenee: questa sti “omaggi a”: Charles-François Tisu Silvano Bonaguri, in avvio. phaigne de la Roche (1722-1774), fiIl richiamo alla già ricordata raclosofo del Razionalismo e Illuminismo, colta I miei padri, in edizione libraria anticipatore dell’immaginario fotograa catalogo della mostra esposta a fico; Man Ray (Emmanuel Radnitzky, Palazzo Albertini, di Forlì, nel febbraio 1890-1976), autore al quale si deve 2008, decifra la personalità fotogral’ingresso della fotografia nel mondo fica dell’autore. In Introduzione, si dell’arte contemporanea, sperimentalegge che «Il lavoro qui presentato tore di processi e procedimenti eredicostituisce un percorso di avvio alla tati dalle origini; Ugo Mulas (1928storia della fotografia chimica, ai suoi 1973), fotografo italiano che, con la principali protagonisti, ai processi serie delle Verifiche, ha indagato anstorici di ripresa e stampa fotografiche sul sottile rapporto che collega la ca delle origini. Vengono presentate fotografia ai suoi mezzi tecnici, soopere dedicate ai padri storici della prattutto chimici; Johan August StrinLo specchio dotato di memoria fotografia e ad alcuni personaggi di dberg (1849-1912), drammaturgo, (sequenza di due immagini) rilievo che hanno particolarmente inscrittore e poeta svedese di scelte rafluito sulla formazione e sulle scelte espressive dell’autore. dicali e contraddittorie, a tratti rivolte contemporaneamente a mol«Stiamo vivendo un periodo di transizione, nel quale la fotogra- teplici discipline non direttamente attinenti alla figura letteraria delfia chimico-analogica ha esaurito alcune delle sue potenzialità e l’autore, tra le quali la fotografia].
A
Oggi, in attualità espressiva e creativa, con procedimenti delle origini della fotografia: ufficialmente datata a centosettantacinque anni fa esatti (1839-2014). I dagherrotipi odierni del romagnolo Silvano Bonaguri rivelano una intensa personalità d’autore, che osserva la Storia non soltanto per la sua inevitabile successione di fatti e date, ma per rivitalizzare vigorosamente, in chiave contemporanea, processi antichi
DAGUERRIENNES
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Prima sequenza Esecuzione di un “dagherrotipo” per opera del mago di sabbia, con il metodo di Charles-François Tiphaigne de la Roche (sequenza di quattro immagini)
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Delirio anamorfico Molti dagherrotipisti hanno rischiato gravi intossicazioni da vapori di mercurio. Altri ne sono stati vittime conclamate e hanno manifestato segni di “delirio da vapori di mercurio” (immagine unica)
Immediatamente a seguire, in un percorso espressivo di alto livello e profonda convinzione, Silvano Bonaguri è impegnato in numerosi progetti creativi di analogo sapore, ognuno scandito da tempi e modalità via via pertinenti al suo consistente cammino. In questo senso, il recente Les jeux daguerriennes è esplicito, diretto e convincente: «Le immagini costituiscono un raro esempio di creatività rivolta alla tecnica dagherrotipica, notoriamente impiegata esclusivamente per generi fotografici classici, come ritratto e paesaggio. Qui il soggetto è il dagherrotipo stesso, il suo fascino alchemico, le sue peculiarità tecniche, la sua ambiguità. È il dagherrotipo che “recita” se stesso». Se di questo occorre parlare, in decodificazione del substrato caratteristico del progetto, vanno sottolineate personalità e caratteristiche del processo dagherrotipico, che Silvano Bonaguri eredita dalle origini: ribadiamolo ancora, ufficialmente datate a centosettantacinque anni fa. Una lastra di rame argentata, decapata e lucidata a specchio, viene sottoposta a vapori di iodio, bromo e cloro, per renderla sensibile alla luce. Dopo una lunga esposizione, all’interno della camera obscura, la lastra è sviluppata con vapori di mercurio e fissata con iposolfito di sodio; quindi, viene dorata. L’immagine che si ottiene, direttamente positiva e unica, è formata da minuscole goccioline di amalgama argento-mercurio (toni chiari), che contrastano sullo sfondo brunito della lastra argentata. Da qui, un richiamo e debito di riconoscenza dell’autore Silvano Bonaguri, che per l’occasione non scomoda sogni più antichi, che affondano le proprie radici culturali e tecniche indietro nei secoli e millenni, a partire dalle osservazioni originarie dei cinesi Mo Ti e Chuang Chuo, che cinque secoli prima della nascita di Gesù, dalla quale datiamo i tempi della vita, visualizzarono che la luce che passa attraverso un piccolo foro (che oggi definiamo stenopeico) forma un’immagine (in narrazione romanzata in I segre-
Concavo - Convesso 1 La rappresentazione vuoto-pieno è in analogia con la rappresentazione negativo-positivo. In una immagine fotografica consueta, non ci sono sufficienti informazioni per stabilire la concavità o la convessità. Nella prima immagine, la realtà è rivelata dai due stereogrammi presenti. Nella seconda, lo specchio svela l’Arcano (sequenza di due immagini)
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Micro - Macro Esecuzione di un autoritratto dagherrotipico allo specchio, e ingrandimento progressivo su una goccia di mercurio, che presenta -riflessa- la stessa immagine di partenza (sequenza di sette immagini)
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Improbabile ritratto dagherrotipico di Joseph Nicéphore Niépce Nonostante il riflesso negativo del ritratto di Niépce sulla superficie speculare della vaschetta piena di mercurio possa far supporre trattarsi di un ritratto dagherrotipico (essendo l’ambiguità negativo-positivo una delle caratteristiche del dagherrotipo), è da escludere, in quanto Niépce morì anni prima che Louis Jacques Mandé Daguerre annunciasse la meravigliosa invenzione, peraltro basata anche sulle sue ricerche (immagine unica)
ti della camera oscura, di David Knowles [FOTOgraphia, marzo 2012]). Si espressero nei termini di stanza del tesoro nascosto, in anticipo sul successivo concetto, altrettanto aulico, di specchio con memoria, ovviamente declinato in relazione alla fotografia propriamente tale [a questo proposito, va ricordato che, nel 1788, lo scienziato giapponese Otsuki Gentaku (1757-1827), stabilitosi in Olanda, descrisse la camera obscura (in giapponese “donkuru-kaamuru”), ridefininendola “shashin-kyo”, cioè “specchio del vero”; ancora oggi, “Shashin” significa fotografia in giapponese]. Silvano Bonaguri si richiama ad altre visioni filosofiche (ed esistenziali?). Con interpretazione personale, affascinante e da tenere in considerazione, afferma che «La fotografia nasce dall’immaginario di un alchimista scrittore del Settecento: Charles-François Tiphaigne de la Roche, ottanta anni prima che Arago riconoscesse ufficialmente, all’Accademia delle Scienze francese, il primato dell’invenzione a Louis Jacques Mandé Daguerre. Il processo immaginato da Tiphaigne de la Roche e quello inventato da Daguerre hanno non pochi elementi in comune. In entrambi i casi, si parte da una superficie perfettamente speculare, che viene ricoperta da una sostanza sensibile alla luce. Il passaggio successivo prevede operazioni come inquadratura, esposizione e fissaggio, per rendere permanente l’immagine. Sia uno sia l’altro, possono essere definiti “specchi dotati di memoria”» (eccoci qui, ekkoci qui). Da cui, Silvano Bonaguri avvia una incessante serie e quantità (e qualità!) di proprie Sequenze dagherrotipiche: «Le sequenze dagherrotipiche rappresentano un sincretismo tra i due processi, quello immaginato da Charles-François Tiphaigne de la Roche e quello tecnico, inventato da Louis Jacques Mandé Daguerre». Ai quali si aggiunge l’immaginario fotografico dell’autore, che propone una manifesta esecuzione, documentata in immagini collegate tra loro e accordate alla sua espressività. ❖
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Tutti i francobolli riportati in queste pagine, in illustrazione alla rievocazione dei Centosettantacinque anni della Fotografia (1939-2014), sono ripresi dal saggio Fotografia nei francobolli, di Maurizio Rebuzzini, in corso di pubblicazione.
Emissione filatelica francese, del 24 aprile 1939, per il centenario della fotografia: 1839-1939. Con evocazione dell’annuncio del sette gennaio e la certificazione dei padri riconosciuti: Joseph Nicéphore Niépce e Louis Jacques Mandé Daguerre.
1839 - 2014 FANNO 175 di Antonio Bordoni
ome dovrebbe (potrebbe?) essere noto e considerato, in questo Duemilaquattordici ricorrono i Centosettantacinque anni della Fotografia, conteggiati dalle sue date ufficiali del 1839: sette gennaio, annuncio, e diciannove agosto, presentazione. Sempre a Parigi, con qualche retroscena e retrogusto che la Storia ha puntualmente annotato. In tante occasioni, queste pagine redazionali hanno spesso sottolineato, rivelandola persino, la nostra propensione e attitudine al ricordo delle date. Però, non amiamo gli anniversari, magari anche soltanto quelli tondi o numericamente consistenti (e Centosettantacinque appartiene alla categoria), in quanto tali e per se stessi. Anche solo concentrandoci su quelli della fotografia, con consapevoli fughe a lato e trasversali (ma sempre e comunque concentriche), riprendiamo le ricorrenze per quanto consentono di riflettere, osservare e ragionare. Sulla fotografia, prima di altro. Sulla fotografia, chiave di lettura e interpretazione di mol-
C
Appunto: dalle origini della fotografia, ufficialmente datate al 1839, sono trascorsi centocettantacinque anni, per i quali reputiamo opportuna una doverosa celebrazione; magari anche più di una (oltre la proposta di un logotipo d’occasione, che riportiamo su queste stesse pagine e che ci promettiamo di ribadire durante l’anno). Considerazioni dalla Storia, per quanto questa possa sempre insegnare qualcosa. Del resto (da e con Ray Bradbury, in Fahrenheit 451), «Quando ci domanderanno che cosa stiamo facendo, potremo rispondere loro: ricordiamo. Ecco dove alla lunga avremo vinto noi»
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Suriname, 6 settembre 1989: tre valori filatelici per i centocinquant’anni della fotografia (1839-1989). In ordine: Joseph Nicéphore Niépce, l’apparecchio originario di Daguerre-Giroux e Louis Jacques Mandé Daguerre.
(pagina accanto, dall’alto) Brasile, 14 agosto 1989, per i centocinquant’anni della fotografia (1839-1989). Onore e merito anche a Hippolyte Bayard e Hercules Florence, che in Brasile, nel 1832, avrebbe ottenuto risultati analoghi a quelli certificati dalla Storia. Francia, 10 luglio 1999. Dal Booklet di presentazione della serie di sei francobolli dedicati a Les œuvres des grands photographes Français, l’immagine-simbolo di Joseph Nicéphore Niépce e Louis Jacques Mandé Daguerre. Wallis e Futuna, 20 settembre 1983. Celebrazione del centocinquantenario dalla morte di Joseph Nicéphore Niépce (7 marzo 1765 5 luglio 1833).
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to. Sulla fotografia, mai arido punto di arrivo, ma sempre fantastico e privilegiato s-punto di partenza. Quindi: 1839-2014, con altre divagazioni di contorno, per la cui ricorrenza attingiamo anche (o forse soprattutto) dal testo con il quale, cinque anni fa, il nostro direttore Maurizio Rebuzzini scandì il centosettantesimo anniversario, redigendo e pubblicando il suo 1839-2009. Dalla Relazione di Macedonio Melloni alla svolta di Akio Morita, puntualmente sottotitolato Come dire, dal dagherrotipo all’acquisizione digitale di immagini. E consecuzioni. Nel farlo, è obbligatoria (e richiesta!) una annotazione complementare, forse ideologica. A distanza di centosettantacinque anni dalle origini, il discorso sulla realizzazione automatica di immagini, sognata dai pionieri come la natura che si fa di sé medesima pittrice, dà vita a fantastici equivoci di fondo. Confondendo tra loro i termini del discorso, forse neppure conoscendoli a fondo, si accostano le fotografie consapevoli alla socialità che si esprime anche attraverso l’immagine (sì, in qualche modo fotografica). In conseguenza, si esprimono anatemi e prese di posizione avverse, scomponendo il territorio di analisi in campi inutilmente contrapposti. No! L’argomento è serio e va trattato altrimenti, appunto nel senso di come e quanto la fotografia (e le sue diramazioni) influisce / ha influito sulla nostra vita. È inutile e dannoso confondere tra loro i termini di qualsivoglia discorso: da una parte c’è Fotografia, dall’altra Socialità. L’apparente somiglianza tra alcune manifestazioni non significa nulla e non deve indurre in tentazione: sarebbe come paragonare i messaggi sms alla letteratura... alla poesia. Del resto, viviamo nell’epoca delle immagini tecniche, e di questo dobbiamo essere consapevoli e tenerne conto: immagini che seducono, manipolano e risvegliano i nostri desideri (e istinti?); talora, sono anche fonte di informazione. Ripetiamolo, confermandolo: come comportarsi nei confronti dell’invasione quantitativa di immagini? cosa e quanto ancora percepiamo coscientemente? quanto entra nella memoria collettiva? Sono discorsi seri, che vanno affrontati da sé e per sé, non inclusi in alcuna consecuzione creativa dalle origini, oltre l’annotazione che anche a questo si è approdati. Punto.
CENTOSETTANTACINQUE ANNI FA Con rispetto e senso del dovere, ricordiamo la breve relazione con la quale l’accademico François Jean Dominique Arago, matematico, fisico e astronomo, ma soprattutto influente uomo politico della Francia del primo Ottocento, offrì a Louis Jacques Mandé Daguerre il crisma ufficiale della sua invenzione. Così che, datiamo la nascita della fotografia (in forma di dagherrotipo) da quel lunedì 7 gennaio 1839 dell’annuncio di Arago all’Académie des Sciences, di Parigi, al quale annuncio sarebbe poi seguita la presentazione del successivo diciannove agosto (ci ritorniamo). Dunque: 1839-2014 fanno esattamente centosettantacinque anni. A questo proposito, per diritto di anagrafe, e qualcosa d’altro, non necessariamente di più, ricordia-
mo bene quanto tanto fu organizzato in tutto il mondo per i centocinquanta anni della successione di date 1839-1989. In tutto il mondo, furono predisposte e svolte imponenti retrospettive storiche, accompagnate da immancabili cataloghi di spessore e profondità. Per non parlare, ancora, delle monografie a tema, estese anche a visioni parzializzate. In Italia, in mancanza di mezzi e interlocutori illuminati, le celebrazioni furono oggettivamente sottotono, lasciate soprattutto alla buona volontà di identificati personaggi, che agirono soltanto per propria caparbietà, più che per consenso riconosciuto. Ricordiamo con piacere questi autentici sforzi sovrannaturali, e non chiedeteci i nomi (occupano un posto d’onore nella nostra memoria), almeno quanto rammentiamo anche la stoltezza di chi, in posizione opportuna, privilegiata e favorevole, non fece nulla. Proprio nulla. Clamoroso (oltre che stupido): c’è stato addirittura chi osò affermare di non celebrare volontariamente il centocinquantenario, perché (testuale!, per testimonianza diretta) «la fotografia è stata inventata prima...» (da non credere!). Certo, non tutto si è concentrato in quel sette gennaio, e date conseguenti, e ovviamente ci sono stati studi ed esperimenti cadenzati indietro negli anni, perfino nei decenni e nei secoli. Ma! Ma dobbiamo pure ricondurci e riferirci a date ufficiali. E comunque, accettando e seguendo la logica secondo la quale “la fotografia sarebbe stata inventata prima”, nulla fu neppure fatto, in date precedenti alla combinazione 1839-1989 dei centocinquant’anni, per le ricorrenze delle eliografie di Joseph Nicéphore Niépce, sulla cui primogenitura concordiamo tutti: copia a contatto su lastra di peltro spalmata di bitume di Giudea del ritratto del 1610 del cardinale di Reims Georges d’Amboise (1826, oppure 1822? -per i francesi, 1822-; tra l’altro, primo esempio di riproduzione fotomeccanica); Veduta dalla finestra di Gras, prima “fotografia” ottenuta per esposizione con camera obscura (1826 o 1827: otto ore di posa). [Per la cronaca, questa eliografia, di Joseph Nicéphore Niépce, di 20,3x16,5cm, che si conteggia come la prima fotografia in assoluto della Storia, ritrovata nel 1952 da Helmut Gernsheim, è stata donata alla University of Texas, di Austin, dove è ora conservata in una cornice 25,8x29cm]. È stata altrettanto ignorata la straordinaria figura di sir John Frederick William Herschel. Nel 1819, quando molti esperimenti di altri pionieri si infrangevano contro il muro delle superfici che rimanevano sensibili alla luce anche dopo il processo di sviluppo, annerendo miseramente le copie faticosamente ottenute, scoprì la proprietà dell’iposolfito di sodio di sciogliere i sali d’argento (sensibili alla luce): in questo modo, l’immagine formata e/o sviluppata non è più alterabile dalla luce. Il fissaggio è uno degli elementi fondamentali del processo fotografico, e questa scoperta consentì agli sperimentatori di rendere stabili le immagini realizzate e ottenute con i propri procedimenti. Né qui, né ora, né tantomeno nei prossimi me-
si, quando continueremo a registrare le date fotografiche che si sono freneticamente succedute in quel fantastico 1839, intendiamo registrare alcuna delle polemiche che si raccontano in tutte le storie della fotografia, sia in quelle più accreditate -e non sono poche-, sia in quelle più cialtrone, che sono altrettante, se non già di più. Soltanto, non possiamo evitare di sottolineare l’assurdità dell’esclamazione sbalordita con la quale il pittore Paul Delaroche accolse il primo dagherrotipo che vide: «Da oggi la pittura è morta!», avrebbe sentenziato; e così hanno registrato tutte le storie. Profezia completamente sbagliata, oltre che priva di senso per chiunque sappia in cosa consiste un’espressione estetica. Tanto è vero che dall’invenzione della fotografia, modalità per realizzare automaticamente immagini, senza la dipendenza da alcuna abilità nel disegno, a partire dall’Impressionismo, la pittura ha potuto imboccare e percorrere strade nuove, che hanno dato acclamato vigore alla sua stessa espressività creativa ed artistica. Comunque, rimanendo nel solo ambito originario dell’immagine del vero (della “natura che si fa di sé medesima pittrice”, straordinaria descrizione del processo che più prosaicamente oggi definiamo “fotografia”, e ormai soprattutto “imaging”), l’infelice e infame epitaffio attribuito a Paul Delaroche esprime bene ed esattamente la costernazione diffusasi tra i pittori e gli incisori del tempo, che comprensibilmente temettero di perdere il proprio mezzo di sussistenza, visto e considerato che con il dagherrotipo chiunque avrebbe potuto realizzare in poco tempo ciò che a un artista costava giornate di lavoro. Difatti, i primi fotografi professionisti furono proprio pittori e incisori convertiti alla novità tecnica.
DAGHERROTIPO POLITICO Più avanti, registriamo le reazioni all’annuncio del sette gennaio. In particolare, pur riconoscendo l’ufficialità della data e nascita con il dagherrotipo, non possiamo ignorare la sacrosanta rivendicazione di William Henry Fox Talbot; così come va ricordata la personalità di Hippolyte Bayard, un altro degli sperimentatori che hanno agito simultaneamente per lo stesso scopo, ognuno all’oscuro dell’esistenza degli altri. Fu messo da parte dal potere politico e scientifico, altrimenti indirizzato e alleato (con Daguerre). Comunque, Hippolyte Bayard aveva realizzato sia un processo autopositivo (come Daguerre) sia un processo negativo-positivo (come Fox Talbot), entrambi su carta. Ma è proprio il dagherrotipo che detta legge nelle prime settimane del 1839, all’indomani del fatidico lunedì sette gennaio. Addirittura, è glorificato anche a spese di Joseph Nicéphore Niépce, liquidato in fretta come un semplice realizzatore di silhouette che richiedevano lunghe pose, nell’ordine di almeno dodici ore (?!). Forte della propria posizione di prestigio alla Camera dei Deputati, di Parigi, lo stesso Arago fu capofila di una ben orchestrata pantomima a favore di Daguerre. Soprattutto, poneva l’accento sui brevi
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Mali, 4 luglio 1983. Celebrazione del centocinquantenario dalla morte di Joseph Nicéphore Niépce (7 marzo 1765 5 luglio 1833).
(pagina accanto, dall’alto) Cartolina illustrata con il monumento che a Chalon-sur-Saône, in Loira (Francia), ricorda Joseph Nicéphore Niépce, nella sua città natale: annullo postale del 29 settembre 1905. Busta di primo giorno di emissione (29 aprile 1983) del francobollo francese riservato alla Fotografia (in serie di due valori, con un soggetto Cinema). Personalizzazione della busta con la Tavola apparecchiata, di Joseph Nicéphore Niépce, del 1827, conteggiata come seconda “fotografia” effettivamente realizzata, tempo di posa quattro ore, metà del tempo richiesto dalla prima “fotografia”, Veduta dalla finestra di Gras.
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tempi di esposizione del suo procedimento, conteggiati in «dieci o dodici minuti con il cattivo tempo invernale. [...] D’estate, questo tempo di esposizione può essere ridotto alla metà». Inoltre, sentenziava Arago, «il dagherrotipo non richiede una sola manipolazione che non sia assolutamente facile per chiunque. Non esige conoscenza del disegno [diavolo!] e non dipende da un qualsiasi genere di destrezza naturale. Rispettando poche semplici istruzioni, chiunque può riuscire con certezza a ottenere risultati pari a quelli conseguiti dall’autore dell’invenzione». Così che registriamo che Arago non è mai stato sfiorato dal pensiero che la fotografia, chiamiamola come la conosciamo (e come vorremmo sempre conoscerla), avesse diritto a uno status artistico ed espressivo. Cioè la pensò e descrisse sempre in subordine e supporto ad altro, senza intravederne possibili personalità espressive proprie e autonome. E in questo modo istruì coloro che poteva condizionare con l’esercizio del proprio potere. In ogni caso, Arago ha sempre declinato le possibilità del dagherrotipo all’interno del contesto di progresso scientifico e tecnico del proprio tempo. A questo proposito, registriamo una sua illuminante osservazione, pubblicata sulla Gazzetta Privilegiata di Milano, il venti novembre: «Certo, non è facile al primo apparire di una scoperta prevedere tutti gli usi a cui potrà servire, tutte le applicazioni che si potrà farne. Chi mai ai primi tentativi fatti per usar della potenza del vapore, avrebbe solo immaginato, e la rapidità dei viaggi sulle strade ferrate, e la facilità di navigare contr’acqua, e contro vento, e la innumerevole molteplicità delle macchine, per le quali l’operosità dell’uomo è a mille doppi aumentata». Chiamato alla corte di Arago-Daguerre, il chimico e fisico Joseph Louis Gay-Lussac, già noto e riconosciuto per ricerche sulle proprietà fisiche dei gas (e non per la legge trivialmente alterata dei tempi spensierati della scuola), riferì alla Camera alta francese che il procedimento dagherrotipico «dà origine a una nuova arte in un’antica civiltà, un’arte che potrebbe benissimo inaugurare un’era ed essere preservata come titolo di gloria. [...] Facciamo in modo che resti in evidenza come una splendida prova della protezione che la Camera, anzi l’intero paese, assicura alle grandi invenzioni». [In parentesi, altre due evocazioni sul percorso espressivo della fotografia, e una nostra opinione. In questo ordine: «È solo occidentale l’idea secondo cui ciò che si trova davanti all’obiettivo deve essere vero, deve essere la realtà. Nel Diciannovesimo secolo, la gente aveva l’abitudine di posare con oggetti personali appartenuti a familiari assenti o deceduti per poterli includere, emotivamente, nella fotografia» (Mary Warner Marien: Photography: A Cultural History ; 2010); «L’effetto di realtà della fotografia riguarda innanzitutto la propria aderenza formale a ciò che rappresenta, il suo contenuto può essere manipolato e selezionato senza inficiare il suo supposto valore di verità documentaria fondato sulla tecnica» (Hubertus von Amelunxen, docente di Filosofia dei Media e Studi Culturali alla Gra-
duate School di Saas-Fee, Svizzera: The Century’s Memorial. Photography and the Recording of History, in A New History of Photography, di Michel Frizot, 1998); «La grande rivoluzione della fotografia è stata quella di mostrare la realtà senza apparenti mediazioni e da qui, forse, nacque la sua diffusione e popolarità anche come documento»]. La volata a un consistente riconoscimento economico per Daguerre era partita, e a tirarla sono stati eminenti scienziati. Ancora, Gay-Lussac ribadì l’eccellenza dell’invenzione con una affermazione perentoria, che non poté non suscitare stupore: «Il dagherrotipo rappresenta la natura inanimata con un grado di perfezione irraggiungibile dai normali procedimenti del disegno e della pittura, una perfezione uguale a quella della Natura stessa». A Louis Jacques Mandé Daguerre venne corrisposto un vitalizio annuo, affinché la Francia potesse far conoscere «all’umanità questa prodigiosa invenzione». Una simile iniziativa non fu certo priva di senso politico; in quel modo, nell’anno del cinquantesimo anniversario della Rivoluzione (1789-1839), lo Stato francese mostrò quanto grande fosse lo spirito d’iniziativa della nazione.
DAGHERROTIPO QUOTIDIANO Immediatamente, e in assenza di vincoli (che invece comprometteranno il cammino del calotipo di William Henry Fox Talbot, detentore del proprio brevetto), in Francia e in tutta Europa vengono avviati svariati laboratori di dagherrotipia, che crescono rapidamente in numero per tutto il decennio dei Quaranta. Di fatto, i prezzi delle prestazioni professionali, considerevolmente inferiori a quelli della pittura, resero il dagherrotipo accessibile a un vasto pubblico. Con tutto, l’accoglienza che l’Accademia delle Belle Arti riserva al dagherrotipo è, invece, piuttosto ostile. La realizzazione apparentemente meccanica delle immagini rompe con il postulato sul quale si fonda tutto l’insegnamento accademico basato sull’imitazione degli antichi maestri. Al contrario, i membri della stessa Accademia delle Belle Arti si pronunciano a favore del procedimento messo a punto da Hippolyte Bayard e simile a quello di William Henry Fox Talbot, che stiamo per incontrare: «Agli occhi degli intenditori, i disegni di Bayard rivelano l’aspetto dei disegni degli antichi maestri», è l’asserzione ufficiale. Tuttavia, sul finire del 1839, alcuni dagherrotipi sono presentati nell’ambito di mostre d’arte. Nell’autunno, un dagherrotipo realizzato dall’inventore Daguerre, raffigurante il Jardin des Tuileries, viene esposto a Edimburgo, nel corso di una mostra nella quale le creazioni artistiche sono alternate e frammiste a oggetti fatti a mano (manufatti con intenzioni esplicitamente artistiche). Nell’ambito della stessa mostra, sono altresì esposti trenta disegni fotogenici di Fox Talbot. A Parigi, durante la mostra dei Prodotti dell’Arte e dell’Industria, del successivo 1844, una serie di dagherrotipi è esposta accanto agli strumenti per artisti e alle litografie. In questo modo, la severa e au-
torevole giuria sancisce l’ingresso del dagherrotipo nella sfera artistica. Tuttavia, l’ammissione della fotografia nella lista delle belle arti procede lentamente. Difatti, bisognerà attendere il 1859 prima che le fotografie su carta, dopo la scomparsa del dagherrotipo, siano mostrate, come le pitture e le sculture, nel corso dei Salon di Parigi (per intenderci, è l’edizione che provoca l’avversione ufficiale ed esplicita di Charles Baudelaire, spesso riferita dalle Storie della fotografia, che relazionò per la Révue Française, del dieci giugno e venti luglio. Soprattutto, dal nostro punto di vista mirato e viziato, è celebre il secondo capitolo del suo pamphlet Salon de 1859, intitolato Il pubblico moderno e la fotografia, nel quale il poeta esprime tutta la propria ostilità alla nuova arte. Ma forse, rileggendolo con più attenzione, oggi le conclusioni potrebbero essere anche diverse).
DAGHERROTIPIA IN ITALIA Con ardito salto temporale, precisiamo che l’ufficialità del dagherrotipo in Italia data alla Relazione che il fisico Macedonio Melloni legge alla Reale Accademia delle Scienze di Napoli, nella tornata del dodici novembre, riferendo appunto intorno al dagherrotipo, alla luce dell’annuncio del sette gennaio e della presentazione del diciannove agosto. E questa Relazione, evocata anche nel titolo del testo di Maurizio Rebuzzini, per l’appunto 1839-2009. Dalla Relazione di Macedonio Melloni alla svolta di Akio Morita, è interamente riproposta nel saggio. In date coincidenti, anticipiamo anche che il primo apparecchio italiano per dagherrotipia è fabbricato a Torino, da Enrico Federico Jest, in ottobre. L’otto del mese si registra il suo primo esperimento: Veduta della Gran Madre di Dio (dagherrotipo oggi custodito e conservato nella Galleria Civica d’Arte Moderna del capoluogo piemontese). Di un suo secondo dagherrotipo si ha testimonianza diretta dalla Gazzetta Piemontese, dell’undici ottobre: «Noi intanto porgiamo vive grazie al sig. Jest della sua nobile prova, e facciam voti che a questa sola ei non limiti il suo potente intelletto e la sua industre meccanica: imperocché il Daguerrotipo francese è già per lui renduto italiano, e forse per alcuni aspetti superiore al francese medesimo [...] con quella sua veduta così chiara ed esatta, ottenuta in sì pochi momenti [...]. Chi di noi non griderà agli italiani: Coraggio! L’esempio del fisico francese ci inanimi a diuturni sforzi per emularlo». Dal successivo novembre, il milanese Alessandro Duroni importa i primi apparecchi Daguerre-Giroux, in vendita a Parigi dal dieci agosto. In anticipo su tutto questo, registriamo cronache giornalistiche a tema. Una prima notizia sul dagherrotipo si legge nella Gazzetta Privilegiata di Milano, del quindici gennaio. Solo sei giorni dopo la pubblicazione sui giornali di Parigi, si ha una breve notizia sull’invenzione, che richiama un articolo del Moniteur Parisien, del nove gennaio, peraltro successivo all’anticipazione della Gazette de France, del precedente sei gennaio (il giorno prima dell’annuncio di Arago).
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Madagascar, 27 aprile 1993. Louis Jacques Mandé Daguerre è uno dei soggetti di una serie di sedici valori riservati a Inventori e invenzioni.
(pagina accanto, dall’alto) Monumento a Louis Jacques Mandé Daguerre, alla Smithsonian Institution, di Washington DC (Usa). Originariamente collocato nei pressi dell’Arts and Industries Building (dal 15 agosto 1890), è ora dislocato nell’area antistante la Portrait Gallery. Due buste con annullo del primo giorno di emissione del francobollo statunitense dedicato alla Fotografia (26 giugno 1978). Entrambe sono personalizzate con la raffigurazione di Louis Jacques Mandé Daguerre, attestato e certificato come l’inventore ufficiale. In effetti, così è, comunque la si veda e consideri.
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Immediatamente a seguire, si accoda la Gazzetta Privilegiata di Venezia (quotidiano di Tommaso Locatelli), che il diciotto gennaio si rifà allo stesso Moniteur Parisien. Da febbraio, la notizia dilaga su tutti i quotidiani italiani. Alcuni tengono anche conto e riferiscono del neonato dualismo con l’analoga invenzione di William Henry Fox Talbot. Così, in avanti nelle settimane, si incontra una significativa relazione della Gazzetta Piemontese, del sei marzo: prima pagina, con occhiello Varietà: Scoperta Daguerre Carta Talbot ; una sorta di polemica sull’invenzione e sulla carta fotogenica. Leggiamo. Da due o tre mesi in qua i giornali e le accademie, tratto tratto di altro non risuonano che della maravigliosa scoperta del sig. Daguerre parigino, scoperta per mezzo della quale non più l’uomo, ma la natura stessa è fatta di sé medesima pittrice, e col semplice apparato conosciuto sotto il nome di camera oscura [obscura], esponendolo ai raggi di un limpido sole ed applicandovi nel fondo un foglio di carta preparata con certo artificio, la prospettiva abbracciata dal campo della lente viene in poco d’ora a tratteggiarsi, nitida, mirabilmente nitida, in chiaro scuro, sopra questa carta misteriosa. A chi conosce alquanto di chimica non occorre aggiungere che la sostanza di cui la carta debb’essere spalmata è una di quelle sulle quali la luce ha un’azione potentissima e che in proporzione della gagliardia dei raggi che le percuotono cambiano il natio loro colore. Finora per altro, mentre a Parigi sostiensi che il trovato è cosa francese, Berna che ell’è invenzione svizzera, in Germania ed in Inghilterra che essa è scoperta alemanna o britannica, il metodo pratico di preparare la mirabil carta spacciavasi per un segreto, per altro affidato, affine di non perderlo, a due gerofanti dell’accademia francese, i quali dichiarano nel medesimo tempo che il segreto è segreto e non segreto, vale a dire che basta solo il dirne una parola per rivelarlo, divolgarlo, cosmopolizzarlo. Mentre adunque stiamo aspettando questa desiderata propalazione, ecco quello che il Globe inglese del 23 di febbraio dice in piane e semplici parole intorno ad un modo pratico di preparare la carta, alla quale in Londra si dà il nome di fotogenica. «II sig. Talbot ha presentato una carta fotogenica alla società regia di Londra. Ed eccone la preparazione: Egli prende carta da lettere sopraffina, molto compatta e levigata; la intinge in una debole soluzione di sal marino, ed asciutta la soffrega ben bene perché il sale trovisi uniformemente distribuito pel foglio. Sparge quindi sovra una faccia soltanto una soluzione di nitrato d’argento e la fa seccare al fuoco. Questa soluzione non debb’essere satura, ma allungata in sei o sette volte tant’acqua. La carta così rasciutta è in punto per l’uso. Nulla di più perfetto delle immagini di fiori e di frutti che vi si ottengono sopra coll’aiuto della camera oscura [obscura] ad un bel sole d’estate. La luce sbattuta dalle foglie e dai petali ne disegna
le più minute nervature. Se la soluzione del sal marino fosse troppo forte (soprattutto se si serbasse la carta alcune settimane prima di adoperarla) l’impressività ne sarebbe notabilmente scemata, talora anche annientata. Ma se vi si stende sopra una nuova soluzione d’argento, la carta acquista proprietà fotogeniche ancora più sorprendenti. La preparazione più volte ripetuta accresce la sensitività della carta alla luce solare. «Per conservar le immagini, il sig. Talbot spalma la pittura fotogenica di una soluzione d’iodito di potassa, con che formasi un iodito d’argento assolutamente inattaccabile ai raggi del sole; ma l’operazione è molto delicata. Una soluzione troppo forte attaccherebbe le parti più cariche del disegno. «Il sig. Talbot pratica pertanto abitualmente un altro metodo, che consiste nell’immergere il disegno in una forte soluzione di sal marino, asciugarne l’umidità superflua e far seccare la carta. Il disegno così lavato e seccato prende, quando lo si espone al sole, una tinta d’un lillà pallido nelle parti bianche, la quale cancellasi tuttavia col tempo. «I disegni conservati coll’iodito sono sempre d’un giallo di primarosa pallidissimo, che avvivasi esposto al fuoco, ma torna al suo color primitivo raffreddandosi. Sir John Herschel ha fatto molti sperimenti di questo trovato servendosi della luce ottenuta colla grande batteria galvanica di Danieli: e se n’è pure occupato sir David Brewster».
ANCORA ITALIA Tutti i primi articoli sono concordi nell’annunciare e presentare la Grande scoperta, piuttosto che La Camera ottica di Daguerre, o l’Importanza della scoperta di Daguerre. Tra i tanti, ancora una testimonianza diretta, appassionante nella propria declinazione. Dal Messaggero Torinese, del ventitré febbraio: Il Dagherrotipo, all’interno del quale si intravedono i richiami per i quali il direttore Angelo Brofferio avrebbe intitolato Il dagherrotipo: galleria popolare enciclopedica il settimanale di tono progressista e a finalità divulgative da lui avviato il successivo 2 gennaio 1840. II nostro secolo, che già si è arricchito di tante e sì utili scoperte, si è abbellito testé d’un’invenzione più prodigiosa forse di queste, e che occupa attualmente la pubblica attenzione. Il sig. Daguerre, abile pittore, e profondo chimico, che già offrì a Parigi le meraviglie del suo Diorama, a forza di perseveranza ottenne questo risultamento. Egli ha composto una vernice nera che si stende sovra una tavola qualunque. Esposta detta tavola ad una viva luce, la terra od il cielo, o l’acqua corrente, il duomo che si perde nelle nuvole, il lastricato, l’impercettibile granello di sabbia, tutte queste cose grandi o piccole, e che sono eguali pel sole s’imprimono in un momento in questa specie di camera oscura [obscura] che conserva tutte le impronte. A tanto non giunsero mai i più grandi maestri. Il sole stesso introdotto questa volta come l’agente onnipossente d’un’arte novella produce tale incredibile lavoro. Or non è più lo sguardo in-
certo d’un uomo che scopre da lungi l’ombra o la luce, non è più la sua mano tremolante che disegna su mobile carta la scena fuggevole di questo mondo; non è più necessario di passare tre giorni sotto un medesimo punto di cielo per ritrarne appena una dubbia immagine, poiché il prodigio si opera in un momento pronto come il pensiero e rapido come un raggio solare. Le torri della chiesa di Nostra Signora di Parigi hanno ubbidito a Daguerre che un dì le portò con sé, dalla loro pietra fondamentale sino all’esile guglia che s’innalza nell’aria. In questo modo si videro ancor riprodotti i più gran monumenti di quella città, il Louvre, l’Istituto, le Tuileries, il Ponte nuovo, il selciato della Grève, l’acqua della Senna, il cielo che copre santa Genoveffa, e in ciascuno di questi capolavori la stessa inconcepibile perfezione. Ma questa pittura non è uniforme come potrebbe sembrare a prima giunta. Al contrario niuno di questi dipinti eseguiti col medesimo mezzo rassomiglia al precedente: l’ora del giorno, il colore del cielo, la limpidezza dell’aria, il riflesso dell’acqua si riveggono meravigliosamente in siffatti portentosi quadri. Epperciò con una serie di essi creati col Dagherrotipo si vide Parigi illuminata da un caldo raggio di sole, e poscia Parigi sotto un velo di nugoli quando la pioggia cade tristamente goccia a goccia. In questo modo non si ritraggono solo con una fedeltà inesprimibile i particolari dell’oggetto, ma si rappresenta ancor vivamente la luce. Noi giungeremo perciò a distinguere al primo colpo d’occhio il pallido sole di Parigi e l’ardente d’Italia: una fresca valle della Svizzera e il deserto di Saara, il campanile di Firenze e le torri di Notre-Dame col solo aspetto dell’aria in cui s’elevano questi grandiosi monumenti. Ciò che poi ancor più ammirabile si è che impressionata la tenue vernice dal sole o da debole luce, quantunque si esponga da una vivida luce, ella è durevole, inalterabile come un’impressione sull’acciajo. Nella camera oscura [obscura] si riflettono gli oggetti esteriori con una fedeltà senza pari, ma questa non rimanda nulla per se stessa. Essa non è un dipinto, ma uno specchio su cui nulla rimane. Immaginiamoci ora che questo specchio abbia conservato l’impronta degli oggetti che vi si sono riflessi, ed avremo un’idea quasi esatta del Dagherrotipo. La luna stessa col suo splendore mobile ed incerto, pallido riflesso del sole, si riflette nello specchio di Daguerre. Quante saranno le applicazioni di questa importante scoperta che sarà forse l’onore del nostro secolo! Sottomettete al microscopio solare l’ala d’una mosca, e il Dagherrotipo così possente come quello ve la rappresenterà colle sue dimensioni incommensurabili. Esso vi riprodurrà gli aspetti della natura e dell’arte, come a un dipresso la stampa, i capolavori dello spirito umano. È un’incisione alla capacità di tutti, una matita ubbidiente come il pensiero, uno specchio in cui si fissano le immagini. Il Dagherrotipo sarà compagno inseparabile del viaggiatore, e renderà comuni le più
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belle opere dell’arte di cui non si hanno che copie a caro prezzo ed infedeli; si avranno i quadri di Raffaello e di Tiziano. In fine esso provvederà a tutti i bisogni dell’arte e ai capricci della vita. Il signor Daguerre spera ancora di ottenere il ritratto delle persone; trovata una macchina che renda l’oggetto perfettamente immobile, egli vi dipingerà lo sguardo, l’aggrottar delle ciglia, la menoma ruga della fronte, la menoma ciocca de’ capelli. Il sig. Arago farà in breve una proposizione alle Camere per dare a questo insigne scienziato una ricompensa nazionale.
HIPPOLYTE BAYARD Polemico autoritratto in posa da affogato, realizzato da Hippolyte Bayard, nel 1940, per protestare la poca considerazione che l’autorità pubblica ha concesso ai suoi risultati pionieristici in materia di natura che si fa di sé medesima pittrice. Datata diciotto ottobre, la lettera di accompagnamento è chiara, diretta ed esplicita.
(pagina accanto, dall’alto) Assente da effettivi riconoscimenti filatelici, Hippolyte Bayard è stato ricordato da un annullo personalizzato della sua città natale, Breteuil sur Noye, che per l’occasione data al 1837 i suoi risultati fotografici. Annullo del 9 ottobre 1961. Gran Bretagna, 12 gennaio 1999. Una delle tante celebrazioni del Millennio, che stava per concludersi. Nello specifico, quattro valori postali richiamano invenzioni fondamentali per l’Uomo. La fotografia fa parte di questa stretta cerchia (qui sintetizzata con una busta di annullo del primo giorno di emissione). Ancora: il ritratto di William Henry Fox Talbot illustra il Booklet di presentazione della serie.
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Mal volentieri, ma giocoforza, liquidiamo in fretta la vicenda dello sfortunato Hippolyte Bayard. Funzionario del ministero delle Finanze francese, è uno degli sperimentatori che hanno agito simultaneamente, ognuno all’oscuro dell’esistenza degli altri, per lo stesso intento: la natura che si fa di sé medesima pittrice. È messo da parte dal potere scientifico e politico, altrimenti indirizzato e alleato (con Daguerre; nel cinquantenario della Rivoluzione francese?). Comunque, come appena accennato, aveva realizzato sia un processo autopositivo (come Daguerre) sia un processo negativo-positivo (come Fox Talbot), entrambi su carta. Il 14 luglio 1839, in polemica con François Arago, a Parigi, Hippolyte Bayard espone in mostra trenta immagini realizzate con il suo metodo positivo su carta; è lecito conteggiarla come prima mostra fotografica in assoluto. Oltre i meriti di sperimentatore, Hippolyte Bayard ne ha conquistati tanti altri come fotografo-autore; tra l’altro, è stato uno dei cinque convocati per la Mission héliographique, voluta e organizzata nel 1851 dalla Commission des monuments historiques, ente governativo francese dipendente dalla Administration des Beaux-Arts, la prima campagna di documentazione fotografica del paesaggio (del territorio, come diciamo da qualche decade): con lui, anche Édouard Baldus, Gustave Le Gray, Henri Le Secq e Auguste Mestral, tutti conteggiati e considerati nelle storie evolutive del linguaggio fotografico. E poi, soprattutto, gli si deve riconoscere il primo autoritratto fotografico della Storia, realizzato nel 1840 (con lettera di accompagnamento, a commento polemico della fotografia, datata diciotto ottobre), peraltro paradossale e oggettivamente “impossibile”: ironicamente realizzato in posa da affogato, perché lo Stato francese, complice l’affarista François Jean Dominique Arago, ha finanziato Daguerre e lui è rimasto senza un soldo. Dunque, il primo autoritratto fotografico della Storia è impossibile; ed è anche la prima messa in scena della Storia della Fotografia. In accompagnamento alla (paradossale) posa da affogato, Hippolyte Bayard scrive: Il cadavere della persona che qui vedete è quello di Monsieur Bayard, inventore del procedimento di cui avete visto, o di cui vedrete, gli straordinari risultati. Che io sappia, erano circa tre anni
che questo ingegnoso e instancabile ricercatore si adoperava per perfezionare la sua invenzione. L’Accademia, il Re e tutti coloro che hanno visto le sue fotografie che egli trovava imperfette, le hanno ammirate come voi ora le ammirate. Ciò gli ha fatto molto onore, ma non gli è fruttato un soldo. Il governo, che aveva dato troppo a Monsieur Daguerre, ha detto di non poter far niente per Monsieur Bayard, e il poveretto si è annegato per la disperazione. Oh! Umana incostanza! È stato all’obitorio per diversi giorni, e nessuno è venuto a riconoscerlo o a reclamarlo. Signore e signori, passate avanti, per non offendervi l’olfatto, avrete infatti notato che il viso e le mani di questo signore cominciano a decomporsi. Grande personaggio!
WILLIAM HENRY FOX TALBOT Per dovere storico, dopo aver registrato l’ufficialità del dagherrotipo e delle sue date di annuncio e presentazione, l’attenzione si deve quindi spostare sulla figura di William Henry Fox Talbot, alla quale ci siamo richiamati in due consistenti occasioni: nel marzo 2008, presentando il saggio Alle origini del fotografico, con il quale Roberto Signorini ha analizzato The Pencil of Nature (1844-46), e il successivo maggio, in occasione della monografia William Henry Fox Talbot, pubblicata da Phaidon Press. All’indomani dell’annuncio con il quale, il 7 gennaio 1839, l’astronomo François Jean Dominique Arago comunicò all’Accademia delle Scienze di Parigi il processo di Louis Jacques Mandé Daguerre, dal quale si conteggia la nascita ufficiale della fotografia, l’inglese William Henry Fox Talbot vanta una legittima priorità “fotografica”. Afferma che già nel precedente 1833 aveva esposto al sole una foglia a contatto con carta imbevuta in soluzione di sale da cucina e nitrato d’argento, ottenendone un disegno bianco su fondo nero, che consideriamo il primo vero “negativo”. Quindi, nell’estate 1835, nella propria residenza di Lacock Abbey, nel Wiltshire, dove ora ha sede il museo a lui intitolato, aveva esposto il suo materiale sensibile alla luce (carta al nitrato e cloruro d’argento) con una piccola camera obscura dotata di obiettivo, ottenendo il negativo (di circa 6x6cm) di una finestra. In origine, definisce i suoi risultati “disegno fotogenico”, e sarà calotipia quando verrà depositato il brevetto (1841); allo stesso momento, rivela la possibilità di ottenere copie positive in quantità, stampando nuovamente a contatto, carta su carta, il negativo originario. Ecco perché reputiamo William Henry Fox Talbot padre della fotografia così come la intendiamo, stampabile in copie multiple, teoricamente infinite: a differenza (sostanziale!) dalla copia unica del dagherrotipo, sul quale l’immagine si forma sulla sottile e delicata lamina d’argento esposta in ripresa. Il ventinove gennaio, Fox Talbot scrive una lettera all’accademico François Arago, padrino di Daguerre, nella quale rivendica la priorità dei propri esperimenti; e il successivo trentuno tiene una relazione sui
suoi disegni fotogenici alla Royal Society, dopo che il precedente venticinque Michael Faraday, al quale si deve la scoperta dell’induzione elettromagnetica, li aveva già mostrati ai membri della Royal Institution. Curiosamente, la relazione della seduta del trentuno gennaio precede la pubblicazione del manuale di Daguerre, dell’agosto 1839, in coincidenza con la presentazione ufficiale del diciannove del mese, in una seduta pubblica dell’Accademia delle Scienze di Parigi con le Accademie Francesi delle Belle Arti (Historique et Description des procédés du Daguerréotype et du Diorama, realizzato in parecchie edizioni immediatamente successive e subito tradotto in inglese, tedesco, spagnolo, svedese e italiano), offrendosi come primo autentico testo di “fotografia”. [Una volta ancora ricordiamo che la traduzione italiana Descrizione pratica del nuovo istromento chiamato il daguerrotipo è stata riproposta in anastatica da Photographica, di Perugia (FOTOgraphia, ottobre 2003 e giugno 2007). Quindi, segnaliamo l’anastatica dell’originale inglese Some account of the Art of Photogenic Drawning, appunto relazione della lettura di William Henry Fox Talbot del 31 gennaio 1839, in edizione Rara photographica: centoquattro esemplari numerati, a cura di Cesare Saletta, libraio d’antiquariato a Bologna, del luglio 1980. Infine, segnaliamo anche la relativa traduzione italiana Metodo per eseguire sulla carta il fotogenico disegno rinvenuto dal signor Fox Talbot, a cura di Gaetano Lomazzi, del 1839 (in data sconosciuta, da marzo ad agosto, comunque antecedente l’edizione italiana del manuale di Daguerre), presso l’editore milanese Giuseppe Crespi: ancora in anastatica Rara photographica di Cesare Saletta, del gennaio 1981. E poi, per questo centosettantacinquesimo 1839-2014... non si sa mai]. A William Henry Fox Talbot (circa, questa volta) dobbiamo anche il termine “fotografia”. Fusione delle parole greche “phos” (luce) e “grapho” (scrittura), in alternativa alla “eliografia” di Joseph Nicéphore Niépce e al dagherrotipo (che si riferisce soltanto a se stesso), l’identificazione “fotografia” è declinata per la prima volta da sir John Frederick William Herschel in una lettera a Fox Talbot, del 28 febbraio 1839. Digressione d’obbligo: figlio di sir Frederick William Herschel, che nel 1800 scoprì la radiazione infrarossa, come abbiamo già annotato in questa lunga rievocazione, John Herschel è una delle figure discriminanti per la nascita della fotografia, sul cui cammino ci si era avviati già nel corso del Settecento, ottenendo risultati che annerivano alla luce. È lui che nel 1819 scopre che l’iposolfito di sodio scioglie i sali d’argento, stabilendo così il princìpio del fissaggio dell’immagine fotografica. A completamento, rileviamo anche che nel 1840 lo stesso John Herschel conia i termini “negativo” e “positivo”. Tornando al pionierismo di William Henry Fox Talbot, ricordiamo i perfezionamenti al suo processo originario, con codifica dei princìpi dell’immagine latente delle carte sensibili allo ioduro d’argento, del 1840, e il brevetto del processo calotipico, depositato l’8 febbraio 1841: la cui negativa su carta al nitrato d’argento e ioduro di potassio richiede tempi di esposi-
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Ricordato dalle poste svedesi per sostanziose personalità scientifiche (9 dicembre 1942), Carl Wilhelm Scheele ha anche meriti nel cammino che ha portato alla fotografia. Significative sono state le sue osservazioni sull’azione della luce sul cloruro d’argento (1777).
(pagina accanto, dall’alto) The Pencil of Nature, di William Henry Fox Talbot (1844-1846) è stato il primo libro illustrato con fotografie applicate.
Raffigurazioni di William Henry Fox Talbot, adeguatamente commentate da sostanziosi testi di accompagnamento, su due confezioni inglesi di francobolli.
zione variabili da sessanta a centoventi secondi. Quindi, ribadiamo il valore storico dell’edizione di The Pencil of Nature, il primo libro illustrato con fotografie applicate, avviata nel 1844, all’indomani dell’apertura di uno studio fotografico a Reading, l’attuale Baker street, di Londra (stiamo per approfondire). Ancora, sottolineiamo la personalità di infaticabile ricercatore, ricordando che, nel 1851, sfruttando una potente scintilla elettrica, William Henry Fox Talbot fotografò nitidamente una pagina del Times fissata su una ruota in movimento. Intellettuale attivo nel mondo delle scienze, della matematica (per la cui competenza, dal 1831 fu membro della Royal Society), dell’astronomia, dell’archeologia e della politica (parlamentare dal 1832 al 1834), personalità più importante nel processo che portò all’invenzione della fotografia (non ci stanchiamo di rilevarlo), William Henry Fox Talbot è stato una figura chiave del Diciannovesimo secolo, durante il quale rivolse la propria attenzione allo sviluppo e diffusione degli innovativi processi fotografici, che hanno trasformato la visione del mondo.
THE PENCIL OF NATURE Come appena anticipato, non ci si può riferire a William Henry Fox Talbot senza richiamare e sottolineare il valore storico della sua edizione di The Pencil of Nature, il primo libro illustrato con fotografie applicate, avviata all’indomani dell’apertura di uno studio fotografico a Reading, l’attuale Baker street di Londra: edizione originariamente apparsa in fascicoli (di nessun successo commerciale, va rilevato), dal 29 giugno 1844 al successivo aprile 1846. Anche qui, richiami di sostanziale attualità. Di The
Pencil of Nature esistono almeno due edizioni moderne in anastatica, che danno peso e spessore soprattutto alla consecuzione dei calotipi originari: la prima è quella di Da Capo Press, New York, 1969, con introduzione di Beaumont Newhall, allora direttore della George Eastman House; l’altra è quella di Hogyf Editio, di Budapest, del 1998. E poi, nel corso di questo 2014... non si sa mai! Quindi, segnaliamo che Fabio Augugliaro, ai tempi giornalista di settore, aveva tradotto e commentato le annotazioni ad alcune tavole: nel mensile Reflex, del febbraio 1983. Soprattutto, onore e merito alla titanica opera di analisi e commento Alle origini del fotografico Lettura di The Pencil of Nature (1844-46) di William Henry Fox Talbot, di Roberto Signorini, pubblicato da Clueb - Cooperativa Libraria Università Editrice Bologna, alla fine del 2007 (cinquecentoventotto pagine 17x24cm). Si tratta di un approfondimento che non ha eguali in nessuna precedente analisi (non soltanto “lettura”). Dall’incipt della premessa, che subito precisa di trovarsi di fronte a un’opera di fondazione (appunto, The Pencil of Nature): «Tra i numerosi “protofotografi”, [...] William Henry Fox Talbot occupa una posizione di primissimo piano sia per l’ampiezza, completezza e continuità della ricerca tecnica (dalla registrazione fotochimica su carta dell’immagine fino ai primi passi della sua riproduzione fotomeccanica a inchiostro, sempre su carta) sia per la consapevolezza delle implicazioni scientifiche, estetiche e socioculturali del nuovo mezzo comunicativo e artistico». Oltre gli esperimenti preistorici, definiamoli così, a partire dall’attività dello studio professionale avviato
1839: GIORNI FONDAMENTALI (CON RICHIAMI ITALIANI)
All’indomani dell’annuncio di François Jean Dominique Arago, del sette gennaio, nel corso del 1839 si registrano date discriminanti. 20 gennaio (Parigi): Hippolyte Bayard migliora la sua tecnica della ripresa positiva diretta su carta (per certi versi, analoga ai princìpi del dagherrotipo su lamina). 25 gennaio (Londra): Michael Faraday mostra ai membri della Royal Institution i disegni fotogenici di William Henry Fox Talbot. 31 gennaio (Londra): Alla Royal Society, di Londra, William Henry Fox Talbot tiene una relazione sui suoi disegni fotogenici. 9 marzo (Monaco): la tecnica di Fox Talbot giunge all’Accademia delle Scienze bavarese. Partono i primi esperimenti tedeschi di Franz von Kobell, professore alla Ludwig-Maximilians-Universität, di Monaco, e del fisico Carl August von Steinheil. 20 marzo (Parigi): utilizzando il suo metodo positivo diretto, Hippolyte Bayard raggiunge risultati notevoli (ignorati dall’ufficialità che ha sposato la causa di Daguerre). 2 maggio (Parigi): François Jean Dominique Arago scrive al ministro degli Interni per raccomandare Joseph Nicéphore Niépce (mancato nel 1833, nella figura del figlio Isidore) e Louis Jacques Mandé Daguerre; meritano un sussidio. Lo Stato propone un vitalizio in cambio della pubblicazione di tutti i segreti del dagherrotipo. 20 maggio (Usa): Samuel F. B. Morse, l’inventore del telegrafo, esegue la prima immagine dagherrotipica americana. Maggio-giugno (Parigi): dopo dimostrazioni alla Camera dei Deputati e dei Pari, il governo francese acquista i diritti dell’invenzione di Daguerre e ne liberalizza l’uso.
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14 luglio (Parigi): in polemica con François Arago, Hippolyte Bayard espone in mostra trenta immagini realizzate con il suo metodo positivo su carta. Estate (Birmingham): William Henry Fox Talbot allestisce una imponente mostra, composta da novantatré disegni fotogenici. 7 agosto (Parigi): re Luigi Filippo d’Orléans firma il decreto per l’acquisto e la pubblicazione delle tecniche di Daguerre: seimila franchi l’anno per lui e quattromila per Isidore Niépce, erede di Joseph Nicéphore, il “pioniere” per eccellenza. 14 agosto (Londra): il procedimento di Daguerre viene brevettato, con il numero 8194. 19 agosto (Parigi): in concomitanza con la presentazione pubblica del dagherrotipo, William Henry Fox Talbot protegge con un brevetto francese il suo procedimento fotogenico (che sarà calotipo più avanti). Ottobre (Torino): Enrico Federico Jest fabbrica il primo apparecchio italiano per dagherrotipia (con il figlio Carlo gestisce una nota produzione torinese di strumenti scientifici; nel 1845, Carlo tradurrà il trattato sulla dagherrotipia di Marc-Antoine Gaudin). Novembre (Milano): Alessandro Duroni importa i primi apparecchi Daguerre-Giroux per dagherrotipia. 12 novembre (Napoli): all’Accademia delle Scienze, Macedonio Melloni, direttore dell’Osservatorio Meteorologico e del Conservatorio di Arti e Mestieri, a Napoli, e ricco di altre onorificenze nazionali e internazionali, tiene la prima Relazione in Italia sul dagherrotipo. Sono le prime parole italiane pubbliche e ufficiali sulla fotografia.
a Londra, nel corso della vita, William Henry Fox Talbot ha realizzato/scattato oltre cinquemila immagini, che includono affascinanti visioni della sua casa di Lacock Abbey, ritratti di amici e famigliari, still life di elementi botanici, tessuti e oggetti di vario tipo. A conti fatti, ha rivelato una raffinata e colta espressività d’autore. Senza dubbio, le sue fotografie, raccolte e presentate in eleganti monografie a noi contemporanee, riflettono la società e il mondo culturale del tempo, e si rivelano immagini affascinanti, in grado di emozionare ancora oggi (soprattutto oggi).
DICIANNOVE AGOSTO Come commentato e certificato, le note ufficiali della nascita della fotografia partono dalla relazione con la quale l’accademico François Jean Dominique Arago, matematico, fisico e astronomo, ma soprattutto influente uomo politico della Francia del primo Ottocento, offrì a Louis Jacques Mandé Daguerre il crisma ufficiale della sua invenzione. Da cui, ribadiamo, datiamo la nascita della fotografia (in forma di dagherrotipo) dal lunedì 7 gennaio 1839 dell’annuncio di Arago all’Académie des Sciences, di Parigi. La comunicazione originaria è stata poi seguìta dalla presentazione ufficiale del successivo diciannove agosto. Tra le due date, tanto è successo, e qualcosa va ancora ricordato. Riprendiamo almeno tre elementi fondamentali e discriminanti, che abbiamo appena richiamato; ma la ripetizione si impone. Anzitutto, all’indomani dell’annuncio del sette gennaio, si registra la sacrosanta rivendicazione di priorità scientifica di William Henry Fox Talbot (ventinove gennaio, con una lettera inviata ad Arago), il cui processo positivo-negativo sta alla base della fotografia, così come l’abbiamo sempre intesa, e ancora l’intendiamo (il dagherrotipo si è presto esaurito in se stesso). Quindi, va ricordata la personalità di Hippolyte Bayard, sfortunato funzionario del ministero delle Finanze francese, un altro degli sperimentatori che hanno agito simultaneamente per lo stesso scopo, ognuno all’oscuro dell’esistenza degli altri. Infine, il ventotto febbraio, in una lettera a Fox Talbot, per la prima volta, John Herschel ha usato e declinato il termine “fotografia”. Per la fotografia, l’estate 1839 è stata adeguatamente “calda”: una data è assoluta, il diciannove agosto; un’altra è anticipatoria. In successione. Sabato dieci agosto, François Simon Alphonse Giroux (Au Coq Honoré, dal 1799 al civico 7 della rue du Coq St Honoré, a Parigi: da forniture per artisti a mobili e accessori di arredamento), parente della moglie di Daguerre, inizia a vendere l’apparecchio per dagherrotipia con proprio marchio, sua garanzia e firma di Daguerre. Questo primo apparecchio fotografico ufficialmente disponibile per l’acquisto è lungo ben 26,7cm, in posizione di riposo, e si estende fino a 50,8cm, al massimo allungamento; all’altezza di 31,1cm, corrisponde una larghezza di 36,8cm; per lastre full plate 16,4x21,6cm; obiettivo costituito da una lente a menisco, o piano-convessa, di 406mm di lunghezza focale e 83mm di diametro; il diaframma fisso di
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Sì, certo: le origini, i pionieri, i loro sogni, le loro fantastiche visioni e intuizioni. Poi, una volta acquisita all’uso comune, la fotografia ha espresso il proprio linguaggio, accompagnato lo svolgimento della vita, oltre che di tante esistenze (magari, la nostra tra queste). La filatelia -sulla quale ci siamo concentrati per illustrare queste pagine, andando a selezionare e scegliere tra il tanto materiale in lavorazione per la stesura e pubblicazione dell’imminente Fotografia nei francobolli, di Maurizio Rebuzzini- ha ricordato anche l’azione meritevole di straordinari autori, che hanno contribuito al tragitto di un linguaggio specifico, proiettando nella vita tutta la propria azione e la propria espressività e la propria creatività. Tre esempi, tra quanti sono censiti nella monografia-saggio appena richiamata: i sei valori di Les œuvres des grands photographes Français, in serie accostata, dal Booklet di presentazione (Francia, 10 luglio 1999); i venti dei Masters of American Photography, in proprio foglio Souvenir di sintesi (Usa, 13 giugno 2002); l’affascinante foglio Souvenir con il quale il Messico ha celebrato cento anni di propria fotografia, ricordando autori e personaggi e... (9 dicembre 2000).
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23,8mm riduce l’apertura di lavoro all’equivalente del diaframma f/17 (in termini attuali). Si è sempre saputo che negli stessi giorni di metà agosto, sempre in anticipo sulla presentazione pubblica del diciannove, a Parigi era disponibile un altro apparecchio per dagherrotipia, del tutto identico a quello di Giroux, del quale si erano perse le tracce per decenni: fino alla primavera 2007, quando è stato rinvenuto un esemplare dei Susse Frères (eccolo qui, il secondo modello: dei fratelli Susse, 31 place de la Bourse). In tutto e per tutto identico a quello di Giroux, ha un valore storico e collezionistico oggi ben superiore, in quanto pezzo unico; mentre di quello di Giroux ne sono noti almeno una dozzina di esemplari, conservati in musei internazionali. Tanto che è stato aggiudicato in una sessione d’asta a quasi seicentomila euro (588.613,00 euro, per la precisione). Questo apparecchio per dagherrotipia, costruito a Parigi dai Susse Frères (fratelli Susse), e commercializzato dai giorni immediatamente precedenti la presentazione ufficiale del procedimento (diciannove agosto), è stato venduto dalla Galleria Westlicht, di Vienna, a fine maggio 2007, in una sessione d’asta via Internet. È in tutto e per tutto identico a quello di Giroux. Così come è stata raccontata, la sua storia è curiosa, e ricalca quella di molti altri ritrovamenti straordinari. Di proprietà del professor Max Seddig (1877-1963), direttore dell’Institut für Angewandte Physik della Johann Wolfgang Goethe Universität, di Frankfurt am Main, fu regalato al suo assistente Günter Haase, successivamente docente universitario. Dimenticato nella soffitta di un appartamento di Monaco, alla sua morte (20 febbraio 2006, all’età di ottantotto anni) è stato scoperto dal figlio, professor Wolfgang, che si è fortunatamente rivolto a una galleria competente. Torniamo in cronaca. Preparatosi commercialmente, oltre che garantito dal vitalizio di seimila franchi l’anno, che re Luigi Filippo d’Orléans gli ha appena stanziato (sette agosto; senza dimenticarsi di riconoscere anche il valore degli esperimenti di Niépce), lunedì diciannove, Daguerre affronta gli accademici di Scienza e Belle Arti in riunione congiunta. Questa combinazione è sintomatica. Il sette gennaio, François Arago ha riferito alla sola Accademia delle Scienze, sottolineando così il valore tecnologico dell’invenzione (della fotografia): l’unico che poteva aver concepito (e al proposito si hanno testimonianze certe). A distanza di sette mesi, già si possono registrare posizioni diverse, che si allargano alla possibile espressività della “natura che si fa di sé medesima pittrice”: Accademie delle Scienze e Belle Arti, in seduta comune. Ancora lontani da polemiche e diatribe che sarebbero maturate appena dopo, e che ancora perdurano ai nostri giorni, centosettantacinque anni dopo!, la realizzazione apparentemente meccanica delle immagini rompe comunque con il postulato sul quale si fonda tutto l’insegnamento teorico basato sull’imitazione degli antichi maestri. 1839-2014: centosettantacinque anni. ❖
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Dal Web di Antonio Bordoni
DAL PASSATO AL PRESENTE
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Non è in discussione il Web. A pagina otto, su questo stesso numero, commentiamo, presentandola, una campagna promossa da otto testate fotografiche italiane che sottolinea il valore delle rispettive riviste, e della stampa cartacea nel proprio insieme e complesso, pubblicata a fronte. Ovviamente, il confronto, che di questo anche si tratta, è con la disinformazione -anche fotografica, per quanto ci riguarda e interessa (almeno qui), soprattutto fotografica- che attraversa la Rete, squalificata da presenze imbarazzanti, da parole non qualificate, da lessico improbabile. Però, in ripetizione d’obbligo, non è in discussione il Web in quanto tale, ma il suo cattivo utilizzo. Al solito, è doveroso richiamare la nostra convinzione sull’assenza di angeli e demoni, che abbiamo già affrontato e commentato su queste stesse pagine, soprattutto e oltre tanto altro, gli scorsi ottobre e novembre (rileggere). In conferma, ribadiamo che il www è una straordinaria e innovativa fonte di informazione e, spesso, formazione; magari, non è ancora stata adeguatamente analizzata; sicuramente, l’assoluta mancanza di regole comportamentali ne compromette lo spessore. Ma è la prima volta che le notizie sono meno volatili di quanto sono mai state in passato. È una fonte facilmente consultabile da tutti: dai professionisti di ogni materia, dagli studenti e da coloro i quali sono spinti da curiosità individuale. Tra l’altro, e a completamento, un aspetto non secondario, del quale fare tesoro (con etica e morale), riguarda il fatto che l’enorme quantità di utenti che eseguono ricerche, mirate, piuttosto che attraverso provvidenziali parole-chiave, rende praticamente impossibile controllare da chi provengono le richieste. Tra le tante possibili, in chiave strettamente fotografica, se cercassimo conferme alle nostre opinioni, due recenti notizie, apparse in spazi Web qualificati e autorevoli (non sulle migliaia di pagine improvvisate, oltre
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che tignose), rivelano la fondatezza dell’informazione e formazione che attraversa la Rete. Al solito, con ordine.
FOTOGRAFIE SECOLARI Lo scorso ventotto dicembre, Gianluca Bocci (che non sappiamo chi sia, ma condivide con competenza una notizia appresa [del resto, come sempre, non è un problema del sapere (conoscenza?), ma di voglia di condividere. E capacità di farlo. Forse]) ha raccontato di pellicole fotografiche rintracciate tra i ghiacci, in Antartide, che una volta sviluppate hanno presentato ventidue negativi del passato remoto (lastre su vetro?, è più probabile). Testuale, dalla sua annotazione al proposito: «Alcuni restauratori neo-
In Rete, lo scorso ventotto dicembre, Gianluca Bocci ha dato informazione del ritrovamento di una serie di lastre fotografiche esposte un secolo fa, ritrovate nei ghiacci dell’Antartide. Sono state recuperate ventidue immagini.
zelandesi dell’Antarctic Heritage Trust hanno trovato dei negativi non sviluppati [una pellicola non sviluppata, lastre non sviluppate] nel ghiaccio secolare di una vecchia capanna di esplorazione in Antartide. Chi di voi scatta ancora in analogico sa che un buon metodo per mantenere intatte le caratteristiche delle pellicole è quello di conservarle in frigorifero. Ovviamente, non si ottengono miracoli. Infatti, il freddo aiuta semplicemente a mantenere inalterate fino alla scadenza le qualità originarie di sensibilità e resa cromatica delle pellicole a colori, non a prolungarne la durata.
«Ma stiamo parlando di materiale sensibile non ancora utilizzato. Cosa succederebbe se invece si trattasse di pellicola esposta e poi congelata? In base all’esperienza dei restauratori neozelandesi dell’Antarctic Heritage Trust, l’immagine latente può conservarsi quasi perfettamente integra dentro un blocco di ghiaccio vecchio di circa un secolo. L’affermazione deriva dal ritrovamento di ventidue negativi [lastre] all’interno di vecchia capanna di esplorazione in Antartide. Molto probabilmente, queste fotografie sono state scattate dal fotografo Arnold Patrick Spencer-Smith [1883-1916], nel lon-
Dal Web tano 1914, nell’era dell’esplorazione antartica. Il fotografo faceva parte della Ross Sea Party [1914-1917], la squadra incaricata dell’approvvigionamento delle capanne utilizzate dall’esploratore sir Ernest Shackleton. «Le pellicole in questione [le lastre?] sono state quindi delicatamente rimosse dal ghiaccio e poi sviluppate. Le immagini che ne sono scaturite sono una rara testimonianza dell’epoca delle esplorazioni antartiche. Lo stesso direttore esecutivo dell’Antarctic Heritage Trust, Nigel Watson, ha descritto in questo modo le immagini: “È il primo esempio che io sappia di negativi non sviluppati da un secolo, dell’eroica epoca delle esplorazioni antartiche. C’è una scarsità di immagini di quelle spedizioni”». Il tema della permanenza dell’immagine latente, una volta esposto il materiale fotografico fotosensibile, è avvincente e appassionante. Tra l’altro, in aggiunta di costume, è il tema trasversale del racconto per ragazzi L’isola dei cani senza testa, di Cinzia Zungolo, pubblicato da Rizzoli, all’inizio del 2011, del quale abbiamo riferito lo scorso marzo. Qui fa capolino il rinvenimento di una Leica abbandonata durante la Seconda guerra mondiale, con un rullino esposto ma non sviluppato. Proprio lo sviluppo di questa pellicola offre la chiave per la risoluzione di molti enigmi che hanno appesantito e reso in un certo modo drammatica la vita sulla fantomatica isola del Mediterraneo.
VICENDA SPINOSA Il ventitré gennaio, l’avvincente e convincente quotidiano online Il Post, ha riferito la vicenda di una fotografia moderatamente ritoccata dal fotogiornalista freelance messicano Narciso Contreras (1973), uno dei cinque premi Pulitzer fotografici dello scorso 2013, tutti riferiti alla copertura fotogiornalistica della guerra in Siria. E la notizia è presto rimbalzata su tutti gli organi di informazione. Narciso Contreras ha rimosso un piccolo dettaglio, peraltro ininfluente, da un’immagine scattata in Siria, lo scorso ventinove settembre, a sudovest di Aleppo; a seguito di questo, l’Associated Press gli ha annullato il proprio contratto con loro. Come si può constatare, l’intervento è assolutamente marginale,
ma, sull’onda di sollevazioni di vario tipo e diversa natura, l’Associated Press ha fatto valere il princìpio dell’assoluta integrità del fotogiornalismo. La questione è delicata: l’aver eliminato dall’inquadratura la videocamera di un altro giornalista non è un fatto fondamentale. Ribadiamo, è solo un princìpio stabilito in questa attuale epoca di facile manipolazione. In effetti, poche fotografie della Storia sono esenti da interpretazioni dell’autore, fosse anche solo da interpretazioni di camera oscura, al momento della stampa del negativo originario (Ansel Adams, W. Eugene Smith e tanti altri insegnano). Però, oggi, si deve tener conto del fatto che la semplificazione fisica delle azioni fotografiche in post produzione impone e richiede altre rigidità, altra deontologia, altra etica... e via discorrendo. Da Il Post, del ventitré gennaio: «Santiago Lyon, il capo della divisione fotografica di AP, ha affermato che “Per l’agenzia, la propria reputazione è di massima importanza: prendiamo provvedimenti severi quando viene intaccata da violazioni del nostro codice etico. Rimuovere volontariamente degli elementi da una nostra fotografia è totalmente inaccettabile”. «Narciso Contreras ha giustifica-
Come ha rilevato il sito Web del quotidiano online Il Post, dello scorso ventitré gennaio, prontamente ripreso da altre pagine della Rete, il fotogiornalista messicano Narciso Contreras è stato allontanato dall’Associated Press per aver moderatamente modificato una propria fotografia. Discorso inquietante, sul quale varrebbe la pena e spesa discutere.
to la modifica spiegando che -a suo parere- la videocamera presente nella fotografia avrebbe distratto i lettori, ma ha aggiunto di essersi poi pentito del ritocco. “Ho preso una decisione sbagliata, e mi sento in colpa. Se date un’occhiata al mio archivio, questa cosa è successa una volta sola, in un momento in cui ero probabilmente molto stressato e in mezzo a una situazione complicata. Ma è successo, quindi devo accettarne le conseguenze”». È curioso: personalmente, concordiamo con il drastico provvedimento dell’Associated Press, per quanto a sua sola difesa, non tanto a tutela assoluta della auspicabile correttezza dell’informazione fotogiornalistica. Però, allo stesso tempo e momento, stiamo con Narciso Contreras, in quanto l’intervento effettuato non influisce sull’informazione stessa. Quindi, condividiamo il princìpio dell’inviolabilità della fotografia, perché quando si introducono varianti... non si può porre limiti certi e certificabili: quindi, o niente o tutto. Non c’è via di mezzo, purtroppo. In conclusione, due nostre segnalazioni dal Web a certificazione del suo immenso e non ancora misurato valore, che -comunque- esiste ed è innegabile. ❖
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Sguardi su
di Pino Bertelli (Piombino, dal vicolo dei gatti in amore, 7 volte settembre 2013)
L
MARIALBA RUSSO
La fotografia mediterranea è una filosofia dell’accoglienza, della convivenza, della condivisione, e figura percorsi della contraddizione, della bellezza, della grazia nel “mare in mezzo alle terre” (il Mediterraneo) e nel mondo. È una geografia di corpi in amore o in rivolta, che non si limita a descrivere le strutture economiche/politiche che condizionano la verità: più di ogni cosa, è un grimaldello della conoscenza, che apre le porte della vivenza reale tra gli esseri umani. Per cambiare il Mondo, le Donne e gli Uomini devono cessare di interpretarlo (Karl Marx), ma vivere la propria Esistenza come rivolta in permanenza contro l’ordine costituito. Una filosofia in rivolta (Hannah Arendt), che emerge dalle rovine dell’armonia prestabilita, è il viatico da intraprendere contro i possessori dell’immaginario sociale. La fotografia mediterranea fuoriesce da un’etica del comportamento, da un’estetica antropologica dei sentimenti selvatici e -fuori da ideologie, dottrine, mercati dei saperi- restituisce dignità e bellezza ai “soggetti” che rifiutano l’eternità della miseria (della Storia) vissuta come Destino. Il pensiero meridiano -che è la brace mai spenta della bellezza liberata- è una filosofia dell’Esistenza, nella quale l’Essere e il Pensiero sono identici, esprimono un’identità, producono uno spaesamento e nell’attraversamento misterico, magico, alchemico della vita di fronte alla realtà si tagliano via dalle dottrine della totalità.
SULLA FOTOGRAFIA MEDITERRANEA Per comprendere il pensiero meridiano e raggiungere un’esistenza autentica, occorre sfuggire al fatalismo e alla mondanità della società consumerista, annullare la velocità di spostamento, mettere una decisiva distanza tra gli
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«Il pensiero meridiano è quel pensiero che si inizia a sentir dentro laddove inizia il mare, quando la riva interrompe gli integrismi della terra (in primis, quello dell’economia e dello sviluppo), quando si scopre che il confine non è un luogo dove il mondo finisce, ma quello dove i diversi si toccano, e là la partita del rapporto con l’altro diventa difficile e vera. Il pensiero meridiano è radicato qui, nella resistenza delle molteplicità delle voci, delle vie, delle dignità, nella capacità di rovesciare in risorse quelli che nell’ottica primitiva dello sviluppo sembrano vincoli, limiti e vizi»
Franco Cassano Uomini e le Cose che li imprigionano nell’apparenza e nella sottomissione. Mai come nel mondo attuale, la vita umana è stata più offesa e degradata e conformata a un modello; realtà e verità si confondono e riducono gli Uomini in schiavitù dei bisogni. Solo un’utopia libertaria può innervarsi nell’intimità della coscienza e vivere l’immaginazione e la bellezza popolare come forma e passione creativa del comune sentire. L’influenza li-
beratoria del magico contiene l’antica tenerezza per gli Ultimi, gli Esclusi, chi non ha Voce, né Volto: il solo dovere che l’Uomo ha verso se stesso è il raggiungimento della felicità. Il pensiero meridiano è confessione e anatema di una cosmogonia dell’umiltà, che sopravvive ancora alle mitologie del disastro della società istituita: «Bisogna essere lenti come un vecchio treno di campagna e di contadine vestite di nero, come chi
va a piedi, e vede aprirsi magicamente il mondo, perché andare a piedi è sfogliare il libro, e invece correre è guardarne solo la copertina. Bisogna essere lenti, amare le soste, per guardare il cammino fatto, sentire la stanchezza conquistare come una malinconia le membra, invidiare l’anarchia dolce di chi inventa di momento in momento la strada. Bisogna imparare a star da sé, e aspettare in silenzio, ogni tanto essere felici di avere in tasca soltanto le mani» (Franco Cassano: Il pensiero meridiano; Laterza, 1996): per non morire canzonati della propria bellezza calpestata o incasellata nei prontuari di morali e valori (peraltro falsi) codificati. La “nobiltà” delle istituzioni, dei partiti e delle fedi è una gogna... e va abbattuta. È inconcepibile aderire alla vergogna che ti strangola, occorre renderla ancora più vergognosa: là dove ciascuno è signore del proprio pensiero (Hannah Arendt), l’Esistenza liberata delle persone diventa Storia. L’abbiamo scritto altrove [Pino Bertelli: Volti del Mediterraneo; Arte’m, 2009. Abbiamo approfondito il tema del pensiero meridiano nelle esposizioni Volti del Mediterraneo, al Museo Pan, di Napoli, nel 2010, “Mare Nostrum” - Ritratti dal Mediterraneo, al Convivere Carrara Festival, del 2012, Donne del Mediterraneo, a Volterra 2013. Il cantiere è aperto]. Maestri del pensiero meridiano, come Friedrich Nietzsche, Albert Camus e Pier Paolo Pasolini, ci hanno insegnato la cartografia umana della prossimità, il senso di accoglienza, di ospitalità e convivenza dovuto allo straniero che viene in cerca di un’esistenza meno feroce, più giusta, più umana... ci hanno insegnato che lo stupore del diverso da sé che diviene storia comune è un messaggio di pace e scambio, aiuta
Sguardi su a valicare la soglia, la frontiera, il limite, e l’ospitalità si trascolora in casa della meraviglia... ci hanno insegnato che da sempre l’erranza (migranti, profughi, sopravvissuti a guerre e miserie millenarie) culmina nei princìpi valoriali di fraternità e uguaglianza. L’Uomo meridiano è l’Uomo che vive per la giustizia, il bene, la verità e le cicogne: come il sorriso dei bambini, non conoscono frontiere, confini, divieti. La sola patria che ha valore universale è quella dell’Umanità intera... schierarsi a fianco della civiltà e contro la barbarie vuol dire rompere le catene della soggezione, tagliare i guinzagli della domesticazione sociale, rimandare liberi gli oppressi e spezzare i dettati di ogni giogo politico. Dove c’è ospitalità, c’è amore: e lì c’è anche l’Uomo in cammino per conquistare la gioia e la bellezza di una vita autentica.
SULLA DOLCE ANARCHIA DELLA FOTOGRAFIA
La fotografia mediterranea, o magica, di Marialba Russo è un rizomario di “dolce anarchia” e una ricerca di antropologia sociale di notevole pregnanza sul reale: noi siamo quello verso cui tendiamo la mano, e un Uomo ha diritto di guardare un altro Uomo dall’alto soltanto per aiutarlo ad alzarsi, mio padre diceva (con le parole del padre suo e lui del suo ancora). Chi cerca vana gloria -e non il sale della vita- rovista in un letamaio, e ha come altare un casellario di schifezze celebrate. In questo senso, i fotografi del mercimonio non sono degni nemmeno di una corona di sputi. L’abitudine a mangiare non significa prostituzione dell’arte. Scrivono di lei: «Marialba Russo (1947), napoletana, vive a Roma dal 1987. Studia pittura all’Accademia di Belle Arti, di Napoli, avvicinandosi alla fotografia alla fine degli anni Sessanta e rivolgendo la sua attenzione principalmente alle rappresentazioni religiose e alle feste popolari dell’Italia centro-meridionale. Tra il 1972 e il 1976, collabora con il Museo Nazionale delle Arti e Tra-
dizioni Popolari, di Roma. Negli anni 1976 e 1977, pubblica Al ristorante il 29 settembre 1974 e Giornale Spray, nella collana I Quaderni dello sguardo, da lei ideata. Accanto alla ricerca personale e all’attività esplorativa, collabora con Vogue Italia e altre testate italiane e straniere. Con la sequenza fotografica Il parto, rappresenta l’Italia a Venezia ’79. La fotografia, nella sezione Fotografia Europea Contemporanea, curata da Daniela Palazzoli, Sue Davis e Jean-Claude Lemagny. Prosegue poi le sue sperimentazioni sul linguaggio fotografico con i lavori della serie delle Centotrenta figure di spalle (1981) e 1929 Ritratto di mio padre e mia madre (1982). Nel 1989, la Galleria d’Arte Moderna Giorgio Morandi, di Bologna, propone una sua retrospettiva e la monografia Marialba Russo - Fotografie 19801987, accompagnata da una lettera di Alberto Moravia. Negli anni Novanta, muove la sua ricerca in una riflessione più intima e analitica, dove il paesaggio è metafora di un tempo interiore. Del 1993 è Roma. Fasti Moderni - Il disordine del tempo; del 1997, Epifanie; del 1998, Famosa; del 1999, Ritratto di me. Le due esposizioni Incantesimo, proposta dal Museo della Fotografia, di Salonicco, nel 2001, e Passi, al JinTai Art Museum, di Pechino, nel 2003, sono brevi sequenze date in anteprima e tratte da Incanto, progetto al quale l’autrice si è dedicata per dieci anni, dal 1990 al 2000». Le sue esposizioni continuano, intessute di interviste e scritti non sempre appropriati. A noi, tuttavia, interessa entrare nelle pieghe del suo discorso fotografico che più riguarda le immagini del Sud napoletano. Il fare-fotografia di Marialba Russo ci sembra restituisca al Sud l’antica dignità di un popolo mai visto, fotografato, filmato, descritto all’altezza della propria grandezza storica. Sempre, o quasi sempre, il Sud è stato raccontato come periferia marcia del potere dominante e non come coacervo di identità ricche e mol-
teplici, culla dell’autenticità mediterranea. Specchio e riflesso di politiche della demenza (compreso quelle criminali), che hanno agito e prosperato sulle schiene piegate degli Esclusi; ma quando questi si sono liberati dalle predazioni secolari e hanno chiuso i pugni contro i propri affamatori, il disprezzo della ragione è stato forte. La verità, come la bellezza, si nutrono di esagerazioni, e quando i popoli si alzano in piedi e -con tutti i mezzi necessari- si contrappongono ai propri disprezzatori, c’è meno dolore nel mondo.
ANCORA, SULLA FOTOGRAFIA MEDITERRANEA La vera fotografia è fuori dalla realtà imposta che obnubila e domina l’immaginario collettivo. Specie quando tratta dei riti religiosi e feste popolari dell’Italia meridionale, la scrittura fotografica di Marialba Russo elabora una visione intima, profonda, metaforica dei soggetti ai quali si accosta con pudore e disincanto. La figurazione è austera, per nulla sacrale; entra in contatto con l’evento, lo raccoglie e lo incornicia in momenti emozionali, lasciati alla deriva del proprio accadere; non c’è idolatria nelle sue immagini, semmai c’è stupore, meraviglia, condivisione... né sonni di morte, né destini traditi... quello che si coglie al fondo delle fotografie di Marialba Russo è la limpidezza dei rituali popolari che si trascolora in pezzi di vita cruda, violata, riscattata. Non importa essere o non essere in accordo con la situazione mistica che racconta, ciò che vale è il modo nel quale la ferma nella macchina fotografica. Qui nessuno rilascia certificati di appartenenza; ciascuno percorre la gamma degli atti che interpreta, soltanto perché ne percepisce il mistero, la tradizione, la cultura millenaria come creazione e distruzione del mondo. Il coraggio e la paura s’intrecciano. La “perduta gente” diventa protagonista di un passato che mantiene l’effigie del delitto, della resurrezione e dell’iniziazione... l’a-
more assopisce la soggettività e la conoscenza ridestata uccide tutte le incredulità. Va detto. L’iconografia del dolore e della festa lascia spazi a imposture e millanterie religiose (anche camorriste), sempre addossate alla credulità popolare e usate dalle gerarchie del potere come acquasantiere della costrizione. Tuttavia, al fondo di queste feste-comunità, sopravvivono coaguli di istanze e bisogni pagani mai sopiti: non s’invoca l’aiuto divino, né la purificazione delle vergini soltanto... anche la pietà e la compassione non sono rievocati secondo le funzioni istituite dalla chiesa contro superstizioni ancestrali. Le processioni, i rituali, le epifanie meridionali sono vere e proprie rappresentazioni pagane, nelle quali e durante le quali i corpi si mescolano ai simulacri e rimandano a leggende greche e latine, che fissano le radici storiche di un popolo tra i più belli e colti della Terra. Per non dimenticare: la storia delle religioni somma più delitti di quanti ne abbiano commessi le tirannie più sanguinarie, e coloro che l’umanità ha divinizzato è responsabile di tutti gli assassini più efferati mai commessi in nome di un dio o di uno stato. La fotografia epifanica di Marialba Russo si staglia in un bianconero intenso, profondo, a/spettacolare. I volti poveri delle Donne in nero -una sorta di madonne della miseria, che fuoriescono nello splendore della propria autenticità- sono severe icone della speranza, si portano addosso la bellezza antica di Madri dolenti e mai arrese, forse, al mutamento dei tempi. I corpi degli Uomini “ignudi”, o vestiti da Pulcinella, danzano discinti tra il canto e la gioia, quasi a figurare lontani accoppiamenti carnali. Le morti, le attese, i bambini scalzi nel sole, le speranze dei poveri, i riti d’iniziazione sessuale sono presi in una fertilità figurativa, nella quale le convinzioni avvizziscono precetti, allentano regole, ammorbidiscono ingenuità. Tutto è fotografato fuori dalla fatalità e dall’arroganza della preghie-
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Sguardi su ra... è un fare-fotografia che porta allo sconosciuto e permette qualsiasi cosa. Una vera credenza si distingue a malapena dalla follia, scevra da ogni fede: non conduce alla disperazione, ma alla vittoria sulla paura. C’è più dolcezza in ogni vizio pagano, che nella depravazione di ogni virtù istituzionalizzata. La visione antropologica della fotografa napoletana emerge nell’atemporalità di volti, corpi, gesti, segni di qualcosa che è stato e del misterico che lo continua. La complessità dell’immaginario meridionale, che riporta a margine dell’esistente, è una messa a nudo di rabbie, rassegnazioni, favole, che si scagliano contro gli assoluti della storia: e ogni immagine sembra scaturire dalla commedia dell’arte. Qui, la fotografia diserta la speculazione e alle verità che sconcertano non oppone quelle che consolano, ma quelle di una religiosità senza interrogativi... solo interpretazioni. Una civiltà che si perde nelle tracce dell’Uomo non viene a patti col suo pianto, né si dichiara sconfitta in eterno. Non c’è rimpianto, né gioia, nei protagonisti di tanta significativa bellezza... solo impudenza, volubilità, voluttà. E i giusti, gli ingiusti, gli ingenui sono depositati nelle maschere che riflettono le persone. Per credere nella realtà della salvezza eterna e della sua espiazione, bisogna innanzitutto credere e sognare i vezzi panici della sua caduta. I tagli fotografici, le inquadrature, le improvvisazioni estetiche/etiche di Marialba Russo esprimono una poetica sapienziale di notevole rilievo... decodificano simboli, simulacri, fenomeni dell’eterno e li riportano all’uguale. I significati delle immagini sono magici: mediazioni fra l’Uomo e il Mondo. Anche le allucinazioni e immaginazioni dell’impalpabile diventano vere, e decifrano la storia che significano. Le fotografie così fatte tracciano un percorso, riesumano un’impronta e, alla maniera delle immagini delle caverne o dei graffiti paleolitici (incisioni rupestri), riportano
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alla coscienza rituale preistorica. Reintroducono il magico nella tradizione e ne prendono il posto. Al tempo stesso, la fotografia mediterranea, o magica, di Marialba Russo è il risultato culturale di un evento “miracoloso” e la lotta ancestrale che lo sottende. Ogni passaggio fotografico rovescia le forme/significati dalle quali parte, e la simbiosi tra fotografa e soggetti si specchia nella potenza visionaria, mistica, passionale che si rovescia in vita quotidiana. Poiché le immagini ci legano alle tracce della nostra esistenza, non ci si può staccare dalle immagini senza aver in precedenza disvelato ignoranze, servitù o indecenze dei potenti che ne impediscono la liberazione. Chiunque si levi contro le stigmate del dolore e aderisce e attenta alla fine di ogni crudeltà, si avvicina alla liberazione. Il magico è imprendibile, e fa tremare chi non lo conosce o ne fa un atto di coraggio, e mette fine allo spavento che lo attanaglia alla genuflessione sul filo dei secoli. A un certo grado di qualità, la “dolce anarchia” della fotografia è una poetica eversiva in grado di scardinare e di riscattare tutte le altre. I soli a sedurci sono i fotografi che si sono chiamati fuori da ogni perdizione mercantile e hanno dato un senso alla storia della fotografia e a loro stessi. La fotografia che vale si afferma soltanto grazie ad atti di provocazione, a sconsacrazioni del ridicolo, a fioriture dell’incurabile. Quando partecipa alla distruzione degli idoli, porta con sé anche quella dei pregiudizi. Fotografare è una cosa, sapere come (e cosa fotografare), un’altra. Nella raffinatezza plebea della fotografia di strada c’è la ruggine di tutti i passati e il sangue innocente versato dall’infamia di ogni tirannia. L’avvenire appartiene alle periferie della Terra, e là dove tutto è perduto restano i canti dei “barbari”, le piste dei sogni e i popoli in rivolta incapaci di accordarsi alla ferocia della civiltà dello spettacolo. La libertà (non solo) in fotografia non ci concede, si prende. ❖
Chi? Fujifilm X: sistema fotografico in pertinente equilibrio tra prestazioni tecniche di profilo alto e design ereditato dalla lunga e nobile storia evolutiva della tecnologia fotografica. New Old Camera: indirizzo privilegiato del commercio fotografico, sia in interpretazione storica-collezionistica-antiquaria, sia in personalità attuale (per quanto concentrata soprattutto su apparecchi fotografici di alta qualità). FOTOgraphia: proposta giornalistica con visioni trasversali della propria materia.
Cosa? NewOld, ovvero oggi (domani) e ieri. Fujifilm X-T1, con Mir-20, grandangolare estremo 20mm f/3,5 di produzione sovietica (dal 1972), tramite anello adattatore K e ulteriore raccordo alla vite 42x1, slitta flash doppia Voigtländer e flash Ferrania Microlampo alimentato a batteria (dal 1957), per bulbi FB 1b.
Come? Ancora NewOld, ovvero oggi (domani) e ieri. Fotografia di Angelo Galantini scattata con Fujifilm X-E1, montata sul corpo posteriore di una Sinar Norma 4x5 pollici (del 1955) tramite anello stringiobiettivo RBM, già BRM (Romualdo Brandazzi, di Milano; degli anni Trenta... Cinquanta), e anello adattatore Quenox Nikon, su colonna Fatif (anni Sessanta). Obiettivo Rodenstock Imagon 300mm H=5,8 (anni Quaranta), con selettore H 9,5-11,5 aperto.
Perché? Perché no?
La forma per il contenuto Combinazioni fantasiose di macchine fotografiche Fujifilm X, tra oggi (domani) e ieri, in doppia interpretazione NewOld, ideate e realizzate da
www.newoldcamera.com